a n n o 1° e x ix 15 - N . 3 9 3 -3 9 4 G e n n a io 1 9 4 3 -X X I l i n u m O J pSB&jj a l f M a e r o C d o p p io SPEDIZIONEINABBONAMENTO POSTALE (Secondo Gruppo) n i q u in d ic in a le d i ccmmedie d i grande successo d ire tta da l u c ì o rìd e n ti DANIELA PALMER IN «DON GIL DALLE CALZE VERDI » in L O T T A CON c ^ A iis t a l^ à b c À x jy ù y L 'A N G E L O : 3 a tti d i T U L L IO P IN E L L I L A V O C E N E L L A T E M P E S T A : 3 a tti d i E M IL IA B R O N T E RIDUZIONE ETRADUZIONE DI ADELCHI MOLTEDO DAL FAMOSO ROMANZO EDAL NON MENO FAMOSO FILM «CIME TEMPESTOSE» D O N G IL D A L L E C A L Z E V E R D I: 3 g io r n a le d i T IR S O D A M O L I N A RIDUZIONE E TRADUZIONE DI ALESSANDRO BRISSONI ^ « H B D O R IS D U R A N T I e G U S T A V con D IE S S L ) 150 esemplari su carta avorio con le litografie tirate in nero, nume rati da 1 a 1 5 0 ........................................................................L ire 500 — 21 esemplari fuori commercio, per i depositi di legge e per i collabora tori, intitolati ad personam e segnati da A a Z . . - . fuori commercio (!) ESAURITI LA L IB R A - V IA E M IL IO M OTTA 17 - M IL A N O j NORMA D I DNA DONNA ELEGANTE £ D I SAPERE ( H E ... L e c a lz e “ M ille A g h i, , tip o q u a ttro d i F ra n c e s c h i so n o c o m p le ta m e n te d i se ta p u r a e d iffe r is c o n o d a lle a ltr e c a lze , n o n s o lo p e r la to n a lità d e i c o lo r i, N u b e d ’ o r o , A m a r a n t o , P e l d i c a r o t a e B r o n z o , m a p r in c ip a lm e n te p e r la lo r o v a p o ro s a a d e re n z a a ll’e p id e r m id e ch e , n e l g iu o c o d e i r ifle s s i, a ffu s o la e s n e llis c e le c a v ig lie . P e r e s s e re a u te n tic h e d e v o n o p o r t a r e la s ta m p ig lia “ M ille A g h i, , e m a n c a n d o d i q u e s ta c a r a tte r is tic a è e v id e n te la m is tific a z io n e . P R E Z Z O L I R E 4 6 I L P A IO L a p r o d u z io n e n e c e s s a ria m e n te lim ita ta n o n p e r m e tte d i m e tte r le in v e n d ita in n e s s u n a ltr o n e g o z io d ’ Ita lia , m a e s c lu s iv a m e n te a M ila n o n e l C e n a c o lo d i F ra n c e s c h i, in V ia M a n z o n i, 16. N O R M E P E R R IC E V E R E L E C A L Z E “ M I L L E LE DONNE CHE VOGLIONO RICEVERLE A D O M IC IL IO IN TU TTO I L REG N O , franco di ogni spesa, devono aggiungere alla lettera di ordinazione, oltre l'importo delle calze (più lire due ogni paio per le spese postali), i punti necessari all' acquisto, i quali vanno staccati dall' Ufficio Anno nario del Comune o dei RR. Carabinieri, che apporrà il visto per comprovare che i tagliandi sono stati staccati dalla carta del committente. Le donne possono anche incaricare un loro familiare che si rechi a Milano, di acquistarle personalmente al negozio Franceschi, e in questo caso devono conse gnare all’incaricato la loro carta individuale dalla quale all’atto della vendita verranno staccati i punti occorrenti. A G H I,, F U O R I M IL A N O SERVIZIO S P E C IA LE PER COLORO CHE VOGLIONO REGALARE LE CALZE “ MILLE AGHI,, Inviando al mastro calzettaio Franceschi l’ordine delle calze che si desidera regalare, accompagnato dal relativo importo (più lire due ogni paio per le spese postali), egli ne effettuerà la spedizione in tutto il Regno, direttamente al domicilio della destinataria, franco di ogni spesa, interessandosi anche di ottenere dalla ricevente i punti necessari a norma delle vigenti disposizioni Ministeriali. L’IMPORTO CORRISPONDENTE AL PREZZO DELLE CALZE può essere rimesso a mezzo Assegno Bancario o Vaglia Postale. U n ic o n e g o z io d i v e n d ita in I ta lia : F R A N C E S C H I, M ila n o , v ia M a n z o n i 16 L U X F IL M /¡M é a m d a S C E N E G G IA T U R A R E N A T O C PERSONAGGI A E R E G ÌA S T E C a s c a rti . . . A L D O . . . L L A N E IN T E R P R E T I: D u fr e s n e . . . A N T O N IO A n a id e DI AD A CENTA S IL V A N I D O N D IN I B u s s y ...N IC O P E P E N a ta lia . . . A M E L IA S im o n a . . . D H IA B IS S I C R IS T IA N I A n to n ie tta . . . A N N A M A R IA M ILLO M a la r d o t . . . G I L D O B O C C I D u b u is s o n . . . GIUSEPPE P IER O ZZI F lo r ia n a . . . C R IS T IN A LO RI DIRETTORE DI PRODUZIONE: DINO DE LAURENTIIS I 9 ^ /v u ^ e o v u /& d tL p n // V\\ /->»_ 'k cJnh’Zptelah)- acuì almo- {m idje ó d a R EN ATO R A S C E L - T IN A DE M O LA - ELE N A C R E I - ENZO 3 B IL IO T T I LAM BERTO P IC A S S O - CARLO DUSE - P IE T R O T O R D I - A U G U S T O D I G IO V A N N I - T IN O S C O T T I - A N G E L O D E S S I a d a G IA C O M O G E M T IL O M O PER LA N A Z IO N A L C X N E S. A. ESCLUSIVITÀ N A Z IO N A L C IN E - M A N E N T I - DISTRIBUZIO NE S. A. r L U X F IL M ( f ii't im lc L T S E M U L P G E S O L T A F O &frg.(jjdtty t LejLtìAcj.giabjza. d i G E N N A R O R IG H E L L I E T TO R E M A R G A D O N N A E N N IO C E R L E S I G U G L IE L M O G I A N N I N I C ,IhqlxL d i G E N N A R O A R M A N D O A N D R E A M A R IO F A L C O N I C H E C C H I F E R R A R I C A M IL L O P IL O T T O A M IL C A R E P E T T IN E L L I M A R IO P IE R O R IG H E L L I A D R IA N A A N N E L IE S E M A R IA D IR E T T O R E DI P R O D U Z IO N E : U H L IG J A C O B IN I M A R IN A D O D G E e B R IZ Z O L A R I C A R N A B U C I BENETTI R U B I F A B IO D 'A L M A F R A N C H IN I Il tuo odore è un soave Uccello che ti segue Legato ai tuoi capelli Come l ’ombra alla veste Il gabbiano alla nave 1 /ì, £ < h f tiS tJ L --***** M IL A N O / a ¡M M Lj fa U HI / m della Casa-Editrice Mondadori. Essa raccoglie, in volumi di squisita Veste, i romanzi più rappresentativi dei migliori autori stranieri dei secoli scorsi, in prevalenza dell’Ottocento. Le traduzioni, assolutamente integrali, sono opera di illustri scrittori nostri: per la qual cosa questi volumi furono felicemente definiti capolavori foderali /f ^ Sm$ uì Ijj si va rapidamente ristampando, e MONDADOfU ó TeRce dt annunzi ire^unprimogruppodi ristampe apparsoinquesti * ia*^**^ | H.MUl^ER-VITA DI BOHÈME, traduzione I A. F. PRÉVOST - STORIA DI MANON CiVAH^M ^^ [' k /S t’ ta ~ ; \\ ' *' * «BF| gj||/ W \\ Yà ' y- ^ -^ :■ ^ *T | ^ Il fascicolo N. 393 del 1° gennaio 1943, non si è potuto stampare per la riorganizzazione del nostro lavoro tipografico. Questo lascicolo doppio riunisce perciò IN. 393e394:1° e15gennaio. Anno X I X a n 1° e 15 G ennaio 1 9 4 3 - X X I m m eg i l i n <11 c i n a i e d i g ra n d e X. 3 9 3 -3 9 4 m d i c o n is n e d i© s u c c e s s o , d ir e tto d a L U C I© R ID E N T I U F F IC I CORSO VALDOCCO, 2 - TORINO - TEL. 40-443 USI FASCICOLO L. 2,50 ■ABBONAMENTO ANNUO !.. 50 - ESTEKO I . 80 In primissimo piano, nell’attività artistica del nostro Teatro, tro viamo in questa «stagione » la Compagnia del Teatro Nazionale dei Guf, diretta da Giorgio Ven D A N IE E A turini. Come il Teatro delle Arti di Roma, diretto da Anton Giulio P A E M E R nella parte di «Donna Juana» Bragaglia, anche questo non è uno In «Don Gli dalle calze verdi». sperimentale. Teatri d’Arte en (Disegno di Brunetta, dal trambi nel senso più preciso, svol bozzetto del costume di Aldo gono tale importante attività che Calvo). basterebbero da soli a dichiarare attiva la Stagione teatrale dell’anno XXI. Anche Venturini, come Bragaglia, dirige attori prof essionisti, «svestiti » dal di vismo e purificati dalle scorie che ancora li tenevano avvinti alla vanità, per assurgere ad un livello artistico di piano su periore. Daniela Palmer, recita nella Compagnia diretta da Giorgio Venturini. Ed ha avuto la fortuna di interpretare « Lotta con l’angelo» di Tullio Pinelli; «Don Gii dalle calze verdi » di Tirso da Molina, nella riduzione di Alessandro Brissoni; «Maria Maddalena» di Federico Hebbel, nella tradu zione di Raffaello Melani. Occorrono grandi possibilità ed un temperamento artistico eccezionale per poter esser de gni di tali interpretazioni; Daniela Palmer ha superato tutte le prove da grande attrice. Vorremmo riportare, se fosse possibile, i consensi calorosissimi della critica, ma possiamo riassumerli tutti, affermando che Daniela Palmer ha rag giunto quest’anno quelle mète che furono la sua aspirazione e quella maturità d’arte che la pone definitivamente al maggior livello delle nostre attrici degne davvero dei Teatro e dei Comici italiani. C O P E R T IN A HANNO COLLABORATO A «LESTO FASCICOLO: t Tullio Piuelli, con il dramma in ¿re atti e quattro quadri : EOTTA CON E’ANGEEO; Emilia Pronte (irlandese) cosi il dramma in ¿r© aldi © cinque quadri, riduzione di Adelchi Moltcdo : EA VOCE NEEEA TEMPESTA (CIME TEMPESTOSE) ; Tirso da Molina, con la commedia in ire giornate, riduzione di Alessandro Rrissoni : DON GIE DAEEE CAEZE VERDI. 4: Con articoli e scritti rari: Giorgio Prosperi - Cesare Meano - Emilio Zanzi - Vinicio Marinucci - Vittorio Guerriero Eucio Ridenti. ♦ Seguono le rubriche consuete : Galleria : Corrado Alvaro Commedie nuove e riprese - Repertorio - Varie - Giudizi con le pinze - Biblioteca - Termocauterio. i t A contentare tutti, penseranno registi e capocomici, c’è da dare la testa nel muro. Chi pretende il teatro di ieri e chi vuole esclusi vamente il teatro di oggi; chi ar riccia il naso davanti alle riprese e chi davanti alle novità. E chi, pure schierandosi per le novità, vorrebbe che fossero migliori di quelle che sono; e chi, pure optan do per le riprese, vorrebbe che fossero scelte con miglior criterio e rappresentate con uno stile più adeguato al loro valore. A sentire le opinioni di questo inizio di stagione non s’incontra nemmeno un’opera che sia pas sata tutta intera all’esame, testo, regìa e interpretazione. Questo è un buon segno o un cattivo segno? In un certo senso sì, in un certo senso no. Vediamo di intenderci. E’ un buon segno nel senso che ■c’è da parte di tutti della atten zione, ci sono in giro delle idee; altrimenti avremmo repertori ac comodanti e critiche ancora più accomodanti. Rimettere in scena Shakespeare, Ibsen, Tolstoi, De Musset, Pirandello, Rovetta idei Disonesti), Tirso da Molina, Strindberg, Hebbel, Eschilo isia pure ridotto) significa, almeno co me nomi, avere delle intenzioni precise e lodevoli. Così pure, da parte della crìtica, accentuare, se condo il proprio temperamento, i risultati di una rappresentazioìie anziché di un’altra, significa avere una linea, un proprio concetto del teatro. E questa è già una tale constatazione da riempire di otti mismo chi ancora crede al teatro. Tuttavia se si pone mente allo scetticismo con cui da taluno ven gono accolte le riprese e al torio condizionato che altri concede alle novità, si vedrà come da parte dei sostenitori per principio del nuo vo o dell’antico vi sia una palese contraddizione, quasi direi un vi zio logico nel distinguere il teatro in antico e nuovo, e pensare che un regista capace di metter su un’opera moderna non sia poi ca pace di metterne in scena una antica; lo stesso per l’interpreta derna è il migliore aiuto per l’esat zione di un attore. I l medesimo ta comprensione di una grande errore si riscontra quando si pre opera antica; e perciò è inutile sume che possa esistere un teatro torcere la bocca per principio alle contemporaneo, il quale prescinda novità o alle riprese. Non sarà in modo assoluto dal teatro di ieri certamente questo il mezzo per o di ìer l’altro; o viceversa che avere un teatro vivo. possa darsi una grande tradizione interpretativa d’opere antiche nel R e p e r to r io c la s s ic o l’assenza più completa di un tea tro di oggi. e a tto ri m o d e rn i C’è chi dice: il tale attore inter preta bene la tale o tal’altra com II palese e sempre più diffuso media contemporanea; ma quan desiderio di rinnovamento, che do va nell’ant.co è un disastro. anima il mondo del teatro, ha Oppure: il tale attore va bene riportato e continua a riportare nelle tragedie in costume, ma guai agli onori della ribalta opere del se veste panni moderni. Io ho se repertorio classico italiano e stra rissimi dubbi sulla attendibilità di niero, e ha suggerito interessanti tali affermazioni. Prendiamo Ric esplorazioni nel campo del reper ci, e prendiamolo non come punto torio ottocentesco. D’altra parte di riferimento di un certo tipo di l’esclusione dai repertori di autori recitazione, ma perchè è l’attore dei paesi nemici ha favorito l’in che negli ultimi tempi ha inter tensificarsi di questa ricerca, la pretato opere assai lontane nel quale ha dato, nella maggior parte tempo: da Shakespeare a Betti. dei casi, risultati importanti per lo Bene; e non vi pare che le stesse meno dal punto di vista dell’orien qualità, gli stessi difetti, fossero tamento e dell’esperienza. Non è perfettamente riscontrabili tanto superfluo sottolineare che anche in Amleto, quanto in Lorenzaccio, gli errori, purché non vi si insista, in Piccolo Santo, in Tutto per hanno avuto il loro ufficio di chia bene, in Amarsi così, in Notte rificazione. Questa ricerca in profondità di nella casa del ricco? Sarà dunque ima tradizione è un indice carat assai più giusto dire: il tale attore teristico e sintomatico di una aspi interpreta meglio il tale ruolo, la razione alla serietà, alla concre tale parte, perchè più adatti al suo tezza del fatto artistico e morale; temperamento e alle sue risorse. si tende oggi, insomma, con mag Ma che c’entra in tutto ciò il nuo giore o minore chiarezza di idee vo e l’antico? e di intenzioni, a ricondurre il tea Un altro specioso argomento è tro nel filone aureo della vita e il seguente: non esistendo attori della cultura, reagendo a certo di capaci di interpretare degnamente lettantismo occasionale e futil il teatro classico, contentiamoci di mente cronístico, che sembrava ad un repertorio moderno, più ade un certo punto aver conquistato rente ai mezzi di cui si dispone. posizioni di troppo rilievo nel no Non si sa bene se ciò sia un com stro teatro. Si veda, a proposito di plimento per il teatro classico o questa reazione, l ’atteggiamento per quello moderno. Il quale teatro intransigente dei giovani e dei moderno non è a dire quanto sof giovanissimi, la cui attività va se fra di tali criteri: quelli cioè di guita non solo per i risultati in anticipargli una qualifica di mi senso assoluto che se ne possono norenne, con tutte le conseguenze. attendere, ma anche, e soprattut La verità è che il teatro è indi- to, per una significativa concor visibile: che il repertorio influisce danza di orientamento. sugli attori e viceversa; che un Vuol dire dunque che sta acca buon repertorio moderno trova dendo nel nostro teatro qualche sempre il suo riscontro in buone cosa di molto più importante e interpretazioni degli antichi; le profondo di un mutamento di gu quali influiscono beneficamente sto, ma se certamente può esser sugli autori moderni; ed è fuor facile polemizzare sui giornali, o di dubbio che una bella opera mo- scegliere un repertorio anziché un altro, prevalendo qui il criterio in dividuale e una realtà oggettiva, una vastissima tastiera costituita dai testi delle opere d’agni epoca, altrettanto difficile è il passaggio alla realizzazione di quel reperto rio classico, e insomma del crite rio da adottare nella sua tradu zione contemporanea, tanto la tradizione dell’interpretazione è. in confronto a quella dei testi, fluida, incerta, orale, empirica e risente, nella sua grandissima maggioranza, di motivi che si pos sono indicare in un dilettantismo comico-sentimentale, vagamente ricreativo e per nulla impegnativo nei confronti dell’arte, in cascami di estetismo e di decadentismo, evidentemente in ritardo nono stante gli sforzi, a volte intelli genti, per aggiornarlo, in noteixili echi dell’Ottocento oratorio e me lodrammatico. Il contatto fra quei classici e questa sensibilità è spesso, più che un contatto, una collisione. E am messo pure che noi possedessimo una documentazione inoppugna bile sul modo tenuto dagli antichi nell’interpretare le opere dei loro contemporanei; ammesso che i nostri attori riuscissero a confor marsi a codesto modo; sarebbe questo un risultato desiderabile? Forse per i filologi e per gli eru diti, non certo per chi si attende dal teatro una parola di verità e di attualità. Come un lettore sensibile e in telligente rielabora mentalmente il classico che ha sott’occhio con frontandolo con la propria sensi bilità, e quindi pronunciandone il testo vivo e attuale con la sua vo ce di oggi, altrettanto l’attore è te nuto a mettere in evidenza il ca rattere vivo di un’opera attingendo ai motivi salienti e significativi del gestire e del parlare moderno. Ma è evidente che per far ciò non basta fotografare la vita d’og gi, ed accettarla solo in quanto è moderna. Occorre avere un con cetto di questa modernità, com prendere le ragioni estetiche e morali che dettano quel modo di parlare e di muoversi. Altrimenti si resta ancora uria volta nel vago, nel generico, nell’impreciso ; e non sa proprio come fare, chi deve parlarne, a usare la grande parola « interpretazione ». G io rg io P ro s p e ri L TRE O Ï A T T I Ï â C E Q UATTRO O R Q UADRI L I N E DI T U L L IO E L O P IN E L L I Dionigi (riprendendo a leggere) — Si. Stiamo aspet tando nostro padre. Ennio (che si era avviato, togliendosi il soprabito, si arresta) — Non è ancora arrivato? (Da destra entra Da vide, il più giovane dei figli di Pietro Rovere. Lo cir conda un sensibilissimo alone cFisolamento assorto; se ne risveglia a tratti, con stordito stupore. Volto infan QUADRO P R IM O tilmente roseo e azzurro; fronte bianchissima, già rigata, Lo studio di Pietro Rovere. Mobili scuri su muri lisci sotto i capelli morbidi. Un che di voluttuoso in tutto il e chiari. Tutto in grande rilievo per la luminosità della corpo. Davide fila diritto al deschetto e prende a lavo camera. 1 mobili sono pochi, idi una lucente e ricca rare, con gesti rapidi e intenti, l ’oggetto di legno che semplicità. Fa riscontro al tavolo da lavoro carico di teneva in mano). carte e di libri, un deschetto da falegname, con gli arnesi Dionigi (sollevando di nuovo il capo dal libro, quasi per la lavorazione artigiana idei legno. Sul banchetto e con fastidio) — No. (Poi, quando già Ennio è sidla attorno ad esso, pezzi di legno lavorati o semilavorati. soglia) Hai letto i igiornali? Una delle ampie finestre è a porta, e dà su un terreno Ennio — Sì, li ho letti. Dionigi — Ha avuto um grande successo, hai visto? cintato; oltre la staccionata, un paesaggio vasto e slab Ennio (quasi mordente) — Hanno sempre un grande brato ai margini di una grande città. L’ora del tramonto, verso l ’inverno. Il sole scende dietro le enormi case successo i drammi di nostro padre. (Esce). isolate nei prati. La stanza è tutta invasa dai freddi ri Davide (levando d’impeto il capo dal lavoro) — Ma questo è stato il più grande. E’ stato... (Tace, poi a Dio flessi sanguigni. (Seduto accanto alla finestra, sta Dionigi. Il mento so nigi) Oh, io amavo proprio questo suo lavoro. (Con fer stenuto dal pugno, un gomito appoggiato sulle ginoc vore entusiasta) E’ il suo capolavoro, sai, Dionigi. Avrei chia, tiene intenti i piccoli occhi un po’ miopi sulle tanto voluto andare con lui, a Roma. Dionigi — Anch’io. (Una pausa. E’ rimasto silenzioso, pagine di un libro. E’ il primo nato di Pietro Rovere, i cui tre figli stanno, a reciproca distanza di un anno o gli occhi fissi su Davide, poi si alza, adagio, va alla ve due, tra i venti e i venticinque anni. E’ grosso, forte; ha trata, e la chiude) Fa freddo, questa sera. Si sente l’in grossi i tratti e le mani. Ha attorno a se un alone di verno. (Una pausa) Però che bel tramonto! Davide (solleva il capo di scatto e volge gli occhi alla cocciuta bontà. Con le luci serali che scendono sul mondo, giunge dall’esterno il lontano ronzio di un auto finestra. Resta un istante a guardare, poi, riprendendo a carro, che presto si spegne. Poi Ennio compare nella martellare) — Poco fa, era molto più rosso. (Interrompe cinta ed entra dal fondo. Ennio è il secondo nato. E’ di nuovo il lavoro, con improvviso calore quasi infantile, alto, magro e nodoso. Ha occhi fermi e freddi sul volto la fronte corrugata) Pareva - sai - la prima sera del lentigginoso, sotto la capigliatura arruffata; il suo fluido mondo... o qualcosa di simile. (Si riassorbe nel lavoro). Ennio (rientrando) — E’ tardi. Si aspetta ancora? è d’inquietudine quasi angosciata e di mordente scontro DioNidi (pacato) — Eh, sì. Le otto. sità. Ennio, appena entrato, s’arresta sulla soglia, strin Ennio — Non sei di guardia, questa notte? gendo le mani l ’una contro l ’altra). Dionigi — No. Domani sera. All’ospedale ci sono stato Ennio — Freddo. ©ionici (solleva adagio gli occhi dal libro, fissando il oggi. Davide — Tutto il giorno? fratello in silenzio). Dionigi — Sì. Ennio — Fa freddo, questa sera. Davide — Povero Dionigi! Dionigi (dopo un attimo, volgendo lentamente gli oc Dionigi (semplice) — Perchè? chi ai vetri) — jS’è alzato il vento. Davide (con un sussulto di ribrezzo) — Tutto il giorno Ennio (avviandosi verso sinistra con un pallido sor in mezzo agli uomini malati... senza conoscerli... io riso acerbo) — Domani vedremo le ossa degli alberi. morirei. Dionigi — Dove vai? Dionici (la fronte corrugata) — Eh, sì, fanno molta Ennio — Perchè? (Poi, subito) In camera mia. pena. Se pensi che li aiuti... (Riprendendosi, con una Dionigi — Hai parlato a qualcuno? Ennio (con mordente diffidenza) — T’interessa? (Poi, lieve alzata di spalla e una punta d’orgoglio) Bene, è il mio lavoro. (A Ennio) Tu sei stato da Caprioli? quasi premuroso) Bene. Resti qui? n s s o M o c a t PIETRO ROVERE - MARTA - DIONIGI - ENNIO - DAVIDE - IL TENTATORE. TULLIO TINELLI Ennio — Anche. Dopo le lezioni. (Impaziente) Ma io non posso aspettare. Alle nove lo ritrovo. Dionigi — Caprioli? Ennio — Già. Dionigi — Non resti ad aspettare nostro padre? Ennio — No. (Subito) Non posso. Tanto, quando ri torna preferisce trovare soltanto la mamma. Davide (con improvviso calore) — E’ la mamma che vuole così. Nostro padre sarebbe contento di trovarci tutti assieme. (Esce da destra). Ennio (duro, pronto) — Come lo sai? (Poi crollando le spalle con ostentata indifferenza) Bene, è uguale. (Per qualche istante tace, gli occhi fissi sulla sigaretta che tiene fra le dita: poi, mettendola fra le labbra) E’ tanto lontana dalle case idi tutti, questa casa nuova. Tra mezz’ora mi tocca uscire di nuovo. Dionigi — Dunque, vi mettete d’accordo? Ennio — Forse, voglio dire, dipende da me. <(Dopo un istante) Sai, dovrei partire -subito. (Con improvvisa dif fidenza) Ma ti interessa, staimi a sentire? ‘(Affrettata mente, come riprendendosi) Sono -cose che toccano sol tanto a me. Dionigi (serio) — Se devi- partire, è una cosa che in teressa tutti. Ennio —- Credi? (Con altro tono, gli occhi al fumo della sigaretta) -Non ho -mica -deci-so niente, ancora. Do vrei anche lasciare -gli studi. Dionici (quasi interrompendolo) — A un anno -dal ti tolo? Ennio (impaziente) — ¡No... non così, si ¡capisce. Mi offrono ancora le -spese ¡dell’ultimo anno. ¡Dionigi (la fronte Corrugata, insistente) — Oltre lo stipendio? Ennio — Si capisce. Dionigi — E l’alloggio? Ennio — Ma sì, come si era detto. Voglio dire, che quando -sarò ¡sceso nelle miniere, ¡gli ¡studi li chiuderò così, tanto per essere ingegnere. Dionigi — E’ proprio come ¡se tu li lasciassi. Ennio — O ¡quasi. (Una pausa): Dionigi (con un largo sorriso compiaciuto) — Però, Ennio, -sono offerte buone, per -un giovane. Ennio (crollando le spalle) 1 — Hanno bisogno di uo mini-, Dionigi — Che ¡cosa pen-si, tu, di quell’offerta? Ennio (amaro) — Chissà... Il fatto è Che -quando viene il momento di ¡decidere le vocazioni -scompaiono. (S’in terrompe, resta un istante a giocherellare in silenzio con la sigaretta con un sorriso quasi di provocazione) L'idea di dover vivere per una vocazione è il seme più velenoso che nostro padre poteva gettare nelle nostre teste. ¡Dionigi (resta un istante interdetto, arrossisce violen temente, poi, quasi ingarbugliandosi, con sdegno e ca lore appena contenuti) — Non mi pare... Vivere per la convinzione... non mi pare.,. ¡Ennio —- Eh, -sì davvero! (Si alza, va ai vetri, prende a tamburellarli con le dita. Lungo silenzio). Dionigi (ha preso ad imbottire la pipa, la mette fra i denti, l’accende). -Ennio (tornando verso il fratello) — Sai, Dionigi, -se io fossi medico come -sei tu, non avrei, pace fino a quando non mi fossi data ragione del male che nostro padre dice di avere avuto. Dionigi (un po’ interdetto) — Ah? (Siede, poi, pa cato) Non l’ha mai detto, lui. Ennio — ¡E’ uguale. L’ha detto a nostra madre. E dunque? Dionigi (pacato) — T’ho -già detto che cosa ne penso. Ennio — Andiamo, Dionigi, non è una spiegazione. (Rientra Davide, che prende a cercare qualcosa sul de schetto, sopra sotto il deschetto). Dionigi — Non c’è proprio altro da -dire. Ennio —• Non ¡è possibile, Dionigi. Non ho mai co nosciuto un uomo -sano e robusto come nostro padre. Un tronco di quercia. E dunque, un’impronta sul petto che ¡compariva e spariva - sanguinava - dava la febbre, doveva avere una ragione. Se era una cosa seria. Davide (volgendo il capo di scatto) — Tanti mali, nessuno li ha mai spiegati. Ennio (guardandolo quasi con ostilità) — Quali? Davide (gli occhi scintillanti) ■— Quelli di molti santi prima di tutto. Non è vero, Dionigi? Me l’hai detto tu. Dionigi (con un largo sorriso, benevole e cordiale) — Ma sì... l’ho detto io. Ennio — Che c’entra? Non stiamo parlando di santi. Davide — E’ proprio uguale. Dionigi (sorridendo) — O quasi... Davide — L’hai detto tu. Dionigi — No... Non ho detto così... (Quasi esitante, lento, ma con un intimo e commosso tremore) Ho detto... volevo dire che i rapporti con un mondo che non è il nostro sono stretti e frequenti molto più di quanto si pensa. (Un silenzio). Davide (con intensità) — Io vorrei essere come mio padre. Ennio (pronto, ironico) — E come, dunque? Davide (sconcertato rimane a fissarlo in silenzio, bat tendo le palpebre). Ennio — Dico, com’è nostro padre? (Un breve silenzio. Poi ancora aspro, ma con un fondo di smarrimento) Io ci ho pensato molte volte. (Mordente) Per forza: oc cupa tutto di sè, qui dentro. Ma non l’ho capito mai. Dionigi (grave, lento) — Che cosa, non hai mai capito? Ennio — Ma sì! Non ho capito che cosa voglia, che cosa cerchi. Fa’ il poeta tragico, fa’ il podestà, lavora la terra, lavora il legno... Ci ha insegnato a non vivere che per una vocazione. Qual è la sua? Davide (d’impeto) — Non si può parlarne così, come di tutti gli altri uomini. Dionigi —- No, Ennio; non è un uomo nato come gli altri. In fondo, la sola cosa che gli importi, è - -ecco - la Divinità. La misura di tutto, per lui, non è il bello o il brutto, il buono o il cattivo, ma la perfezione della Divinità, credo. Ennio — Lo so, lo so anch’io, che a volte sembra fuori di questo mondo, assorto in cose che vede lui solo, come avesse un segreto suo. (Aspro, rivolto a Davide) Ci vuol poco a capirlo, questo. Ma a che cosa può por tare un amore come questo suo per la Divinità? Che cosa ne aspetta, più di quello che ne aspettiamo tutti? Davide (d’impeto, gli occhi sfavillanti) — Proprio que sto, io lo so. (Tace di netto; poi, come sconcertato e confuso, piegando gli occhi sul lavoro) Forse. LOTTA CON L’ANGELO Ennio — Eh, si, davvero! (Breve silenzio, poi nervo samente) Infine, credo che accetterò. Non è affatto quanto desideravo, per me; ma credo che accetterò. Bisogna che io me ne vada. Anche se dovessi sbagliare, non importa. Via, lontano, per conto mio. (Un brevissimo silenzio, poi, con un sorriso amaro) Io, sai, non ho molta simpatia per i miei simili e mi accorgo che gli altri ne hanno poca per me. Starei bene in un laboratorio io (gli occhi sfavillanti di un calore che il tono di amara auto critica non riesce a soffocare) in mezzo alle fiale e alle miscele, questo sì, mi piacerebbe. (Riprendendosi) Non ci si può litigare. Ma scendere nei pozzi, gomito a go mito con tutti gli altri uomini... (S’interrompe) Sono certo che me la caverò. E’ più semplice prendere la prima occasione, come fanno tutti... (Con crescente con citazione, come cercando scontrosamente la solidarietà di Dionigi che prende a fissare con occhi quasi imploranti) Io, sai, ho bisogno di sentirmi uguale agli altri. Da lontano, magari; ma questa idea di essere su un piedi stallo - e dover salire ancora più su - non mi va. Mi irrita... mi pesa. (Con intimo dolore quasi smarrito) Bi sogna sentirsi ben sicuri di sè, e io non sono affatto certo... (Si arresta. Poi, quasi a mezza voce) Io non vo glio ritrovarmi, un giorno, fallito... (Subito, come ripren dendosi, guardando l’orologio) Dunque, che 3Ì fa? Debbo uscire. Davide — Io ho deciso che l’attendo. Dionigi — Non esci? Davide — No. Gli devo parlare. Ennio (sardonico, poco benevolo) — Proprio questa sera? Davide — Si. Devo dirgli che mi sono promesso. Ennio — Che? Davide (sempre intento alla lima, come se parlasse d’altri) — Che mi sono promesso. Voglio sposare Adria na. (Ennio e Dionigi si guardano in silenzio. Subito si ode la voce di Marta, che nel frattempo è entrata da destra). Marta — Come resistete a questa oscurità? (Una lam pada vivida si accende. Marta, ritta vicino alla porta, volge un rapido sguardo sui tre figli, poi, con un sor riso appena dissimulato) Sembrate tre cospiratori. (Un si lenzio. Marta è bella di una bellezza intelligente, ma singolare, con alcun che di non detto, di non chiaro. Il suo corpo, più che il suo volto, è perfettamente giovane; ed è circondato da qualche cosa di estroso, di sessual mente provocante, contenuto da una vitalità energica e volitiva. Un sorriso un po’ enigmatico le compare sovente sulle labbra; e allora essa china gli occhi, come per mascherarne l’effetto. Ora essa ha forse sentito le ultime parole di Davide, e resta un attimo come in attesa; ma è solo un attimo: Davide; che è rimasto un istante a fissarla battendo le palpebre, ha ripreso a lavorare con intensità, le labbra sigillate, la fronte corrugata. Marta viene avanti adagio, sicura di sè) Il buio mi soffoca. Dionigi (senza guardarla, un po’ brusco) — Non era buio... c’erano i riflessi del tramonto. Marta — Poco allegro. (Passando dietro la seggiola dove Ennio intanto si è seduto gli appoggia leggermente una mano sui capelli) Non sapevo che tu fossi rientrato. Ennio (scartando istintivamente il capo, quasi con un sussulto) — Presto debbo uscire di nuovo. Marta (accarezzandogli i capelli con insistente senso di padronanza) — Sei sempre spettinato tu. Sembri un riccio. Puoi attendere ancora dieci minuti? Ennio (che è rimasto ammansito e un senso di beati tudine dipinto sul volto, sotto le carezze materne, con un sorriso) — Dieci minuti? Sì. Marta (con un lieve sorriso, lasciandolo e venendo adagio verso Dionigi) — L’ultimo treno arriva verso le undici. Se fra dieci minuti non sarà giunto, non lo ve dremo prima delle undici. (Ha preso a ritoccare il nodo della cravatta di Dionigi) Indietro la grossa testa, Dio nigi. Hai fame? Dionigi (con un largo sorriso, un po’ scioccamente) — Si. Marta (scostandosi da lui, adagio) — Ho proprio il tempo di aprirgli la corrispondenza della sera. (Passando ' una mano, lieve e padrona, sul braccio di Davide, che ha seguitato a limare) Sta fermo un poco, Davide. (Con un sorriso) Che stai facendo? Davide (sbattendo le palpebre) — Il telaio del modello... Marta (interrompendolo) — Giusto, Davide. La mia macchina da scrivere ha qualcosa che non va. Bisogna che tu me la riveda con quelle tue mani felici. Davide (con slancio) — Sì, subito. Marta — No... non subito, dopo. (Ora gli occhi dei tre ragazzi sono fissi su di lei; essa tace un istante guar dandoli con un leggero sorriso di trionfo, appena inte nerita, poi) Fra dieci minuti, se non è giunto, vi chiamo a tavola. (Esce adagio, senza voltarsi. Gli sguardi dei tre giovani la seguono. Un silenzio). Dionigi (si alza in piedi rompendo bruscamente il si lenzio) — Se Davide davvero si sposa, fa molto bene. Ennio (sardonico) — Così disperato com’è, senza arte nè parte? Davide (solleva il capo, e resta ad ascoltare quel che si dice di lui, guardando ora l’uno ora l’altro, con una espressione quasi inintelligente di sgomento). Dionigi — Ma sì, il lavoro viene da sè. Non c’è nean che da pensarci. Ennio — Andiamo, è uno stupido scherzo! Ha venti anni appena! Dionigi (scotendo violentemente la pipa nel portace nere) — Meglio. Arriva subito in porto e si evita tanti anni di avvilimenti. Vorrei essere io, al posto suo, in vece di... (Arrossisce violentemente frugando nella pipa con un chiodo, tace. Poi con un largo sorriso turbato) Si vedono tante donne così belle. (Bruscamente) Anche Adriana è una bella ragazza. Davide (con un fremito, gli occhi luminosi) — Oh, sì! Ha una bocca luminosa e i capelli, biondi che qui sulle tempie sembrano grigi... sai come voglio dire? Dionigi — Sì, quei capelli leggeri. (Con un crescente turbamento e un largo sorriso sempre più sensuale) Io non so come sia... ma mi pare che ti guardino in un modo... quasi tutte, specialmente verso sera. Dappertutto si sente il sesso. (Una violenta vampata gli sale al volto, lo sconvolge; termina bruscamente) A me piace. Ma tu, ti sposi davvero? Davide — Io... sì. Dionigi (contemplandolo con serietà intenerita) — E Adriana, lo sa? Davide — Sì, che lo sa. Dionigi — Siete d’accordo? Davide — Sì, Lo abbiamo detto oggi. TULLIO TINELLI Ennio (ostile) — E perchè non l’hai detto a nostra madre? Davide (ostile) — Perchè no. Dionigi — Ma non volevi dirlo a nostro padre? Davide (con altro tono) — A lui, sì. Voglio dirlo prima a lui. Dionigi — Dunque, è proprio deciso. (Con un largo sorriso commosso) Hai capito, Ennio? H piccolo della famiglia si sposa, hai capito, che Davide si sposa? Ennio — Hai pensato, Davide che i tuoi figli saranno cittadini della terra nell’anno duemila? Dionigi — Ebbene? Ennio — Mille e non più mille. L’anno millenovecentotlovantanove il settimo mese verrà dal cielo un grande re spaventoso; o qualcosa di simile. (Un silenzio J si odono lontano le campane serali di una chiesa). La voce di Marta — Dionigi! Ennio (alzandosi) — Pensaci. Davide (quasi sbigottito) — Chi l’ha detto? Ennio —• San Giovanni, e l’altro, Nostradamus, mi pare. Chiedilo a nostro padre. (Esce). Davide — E’ vero, Dionigi? Dionigi (masticando la pipa) — Chissà - c’è qualcosa, nell’aria. Davide (ribellandosi) —Ma io Adriana, la voglio sposare. Dionigi (quadralo, crollando le spalle) — Si capisce. Ci si è sposati fino alla vigilia del diluvio. (Spingendo Davide fuori dalla porta donde è uscito Ennio) E il no* stro compito. (Esce a sua volta, spegnendo la luce. La camera piomba nell’oscurità). QUADRO SECONDO (Quando la luce — dopo pochi secondi ■si riaccende, sono in scena Pietro Rovere e Marta. Pietro Rovere è alquanto più anziano di sua moglie, che vicina a lui ap pare anche più giovane. Ha un corpo alto e grosso, di taglio quasi rozzo, come di fattore di campagna. Le guance sono pesanti e venate da una sottilissima fitta rete di piccole vene purpuree; la bocca è spessa, e i baffi, ispidi, piegano agli angoli delle labbra verso il basso; il naso è ossuto e forte. Per contro, gli zigomi sporgenti,, gli occhi a mandorla, la fronte alla bianchissima, stem piata, sotto i capelli grigi e rigidi, danno ai tratti paesani di lui una impronta di strana raffinatezza interiore. Veste abiti di taglio quadrato, ineleganti, porta grosse scarpe. Pietro è seduto in una poltrona, e tiene in grembo, tra le mani unite, un grande bicchiere di cristallo spesso, a metà pieno di grappa. Marta appoggiata al bracciolo di un’altra poltrona lo fissa). Marta — E la gente, com’era? (Pausa). E la gente, Pietro, com’era, nella sala? Pietro (lento, quasi con sforzo) — Non hai letto i giornali? Marta — Sì, li ho letti. (Breve silenzio) Ti aspettavo per sentirti raccontare, io che non ci sono stata. (Con sorda amarezza) Desideravo tanto, venire con te, e non hai voluto. Pietro (la fissa in silenzio). Marta — Non vuoi raccontare? Pietro (quasi con sforzo) — Che cosa? (Un breve si lenzio) Non c’è stato proprio niente di nuovo. Il teatro, la rappresentazione, gli applausi, tutto come hai già visto tante volte. Marta — Credevo che a questo tuo dramma tu volessi molto bene. E’ il tuo capolavoro, Pietro. Pietro (lento, smarrito) — Difatti. (Breve silenzio) Di fatti, quaudo sentivo le parole scritte da ine, uscite dalla vita di questa casa, ridette laggiù, pensavo: perchè? (Con enorme, tragico disprezzo) Per divertire gli uomini? Quelli che vivranno fra trecento anni saranno come quelli di oggi. Trecento anni di più o di meno, quando la terra sarà finita, sarà finito tutto, qui. E allora, rubare i giorni, gli anni... (Si interrompe) Come se la nostra vita non fosse già abbastanza corta... (Pausa). Marta (lenta, quasi ostile) -— E allora, che cosa vor resti fare? (Pausa). Pietro (con enorme smarrimento) — Non lo so. (Pausa, poi, con improvvisa carnale concretezza) Per fortuna, dopo lo spettacolo quei signori mi hanno portato a cena. Marta — Quali signori? Pietro (con un fine sorriso di disprezzo) — Quegli in tellettuali. (Annusando golosamente il bicchiere) Ma avrei fatto meglio a partire subito. (Beve con avidità). Marta (con un sorriso di turbato sospetto) — Che cosa hai fatto? Pietro (pacato) -—-Io? Niente. (Con calmo disprezzo) Ma quelli sono signorini viziosi. Li conosco bene... lette rati, poeti, artisti, come si chiamano loro. Ho vissuto assieme a loro tanti anni. (Un breve silenzio, scotendo la grossa testa) Non c’è proprio niente da spartire e poi, mi odiano. Marta (con un sorriso indulgente) — Oh, non credo. Pietro (con pacata e ostinata convinzione) — E’ certo, mi odiano a morte. (Sempre più convinto) Ho scoperto più di un complotto contro di me. (Scotendo le spalle) Ma non possono farmi niente. Sarebbe meglio non li ri trovassi mai. (Con un fine sorriso) Da lontano, è diverso. Sembra persino di commuovermi su di loro. Ma non lo meritano. Hanno la coscienza secca. (Con intimo ardore) Per loro il cielo è un problema di abilità, e basta. Se le cose del cielo sono espresse bene o male. (Con rudezza quasi volgare) Avrebbero bisogno di essere messi a spa lare letame. (Beve e depone il bicchiere). Marta (quasi provocante, girando adagio intorno alla sua poltrona) — Allora, perchè ci sei andato? Pietro (calmo) — Perchè avevo fame. Marta (sedendo sul bracciolo della poltrona di lui e prendendogli il volto fra le mani, con improvviso e gio condo calore) — E tu, non sai che sei pieno di vizi? (Lo bacia). Pietro (la fissa un istante corrucciato, poi, scostandola adagio, con forza pacata) — Ma io con Dio ci ho combat tuto sempre. E io, lo amo, Lui. Loro non ci pensano neppure. (Si alza, cava un sigaro, lo morde) Domattina mi alzo alle quattro. Marta — Che cosa vuoi fare? Pietro — Vado al paese - in Comune - ci sono gli utenti dei canali. Marta (ostile) ■ — Sei appena tornato, non puoi lasciarli a sè? Pietro (solleva le spalle, accendendo il sigaro) — Li ho convocati io. (Con un sorriso) Che vuoi che facciano, se manca il podestà? Non sono buoni a niente. (Passeg gia adagio, le mani sprofondate nelle tasche, mandando larghe boccate di fumo) Il loro consorzio è retto da per sone ladre. Tutti lo sanno, il danno è di tutti, ma nes- LOTTA CON L’ANGELO suno parla. (Con crescente calore, ma sempre con torio di pacato ed orgoglioso disprezzo) Domani li troverò tutti uniti a difendere chi li deruba. In fondo, ciascuno di loro se potesse farebbe altrettanto. Marta (con crescente ostilità) — E dunque, lasciali. Domani sera tornerai stanco, avvilito, come ti vedo sem pre quando ti occupi degli altri; e non avrai ottenuto nulla. Pietro (con un lampo di battagliera ostinazione negli occhi) — Si vedrà. (Una breve pausa) Se devo farlo, lo faccio. (Ha preso in mano la bottiglia che è sul tavolo, l’ha esaminata, la depone, riprende a camminare) Buona questa grappa. E poi salirò alla cascina. Ho da mettere in terra le nuove piante. Prima che geli. Le fosse sono scavate da quindici giorni, e la mistura di letame è già pronta. Marta (seccamente) —- Una giornata perduta in scioc chezze. (Come riprendendosi con un’occhiata timorosa a Pietro, ma nervosamente ostile) Per te, dico. Il tuo lavoro è un altro. Pietro (dopo un istante, lentamente, con un lieve sor riso di smarrito disprezzo) — Già. Quel ruffiano gioco di parole cb’è l’arte. Marta (ha un lieve sussulto, e lo fissa in silenzio. Un orologio campanario, lontano, prende a suonare). Pietro — E’ tardi. Non si vede una stella. (Improvvi samente con altro tono) In teatro, ho rivisto Luca Malabaila. Dopo otto anni. Marta (fissandolo con preoccupazione) — E che hai fatto? Pietro (con sforzo) — Gli ho chiesto scusa. Marta — Tu? Pietro — Il torto era mio. Marta — Otto anni fa! Chi se ne ricorda? Pietro — Io. (Calmo) Al solito, ero stato ingiusto e superbo. Marta (con un sorriso intenerito) — E hai atteso otto anni ad accorgertene? Pietro —• Oh, no. L’ho sempre saputo. (Una breve pausa; quasi con sforzo) Ma bisognava chiedergli scusa. (Come cacciando un pensiero pungente) Adesso è fatta. Marta (ritta di fronte a lui con largo riso scintillante di amore intenerito, tutta avvolta in un caldo alone amo roso) ■ — O Pietro! Pietro (come investito dal fluido ardente che circonda Marta, rimane immobile, battendo confusamente le pal pebre, in sorpresa ed ingenua ammirazione della bel lezza di lei). Marta — Soltanto io, ti conosco, così grande e strano. Tu sei proprio mio e di nessun’altra donna. (Con un impeto d’amore) Io ti voglio bene, Pietro. Pietro (l’ha stretta violentemente fra le braccia, confic candole le mani nei capelli, carezzandole la nuca e le spalle, con crescente intensità, quasi goffamente) — Cara, cara Marta. Come sei bella. (La bacia). Marta (felice) — Io ti amo, e tu non ne hai bisogno. Pietro — E’ la sola cosa di cui ho bisogno. Marta (provocante) — Non sempre. Pietro (stringendola con nuova violenza, ma sempre con intenso intenerito struggimento, sommessamente) — Il nostro letto, quando mi addormento vicino al tuo corpo morbido... non c’è altro al mondo. Marta — E allora, perchè non ti lasci amare come io vorrei? (Mettendogli una mano sulle labbra) Adesso non dir niente. Pensa soltanto a me. Ti ho desiderato tanto, in questi giorni. Non posso mai goderti abbastanza. (Gli ha preso la testa fra le mani e lo bacia con crescente in tensità) Non -sei mai tutto mio, non mi lasci mai essere tutta tua. Caro, caro Pietro. (S’interrompe di netto, tur bata, stringendo il volto sulla spaliti di lui) E’ -stato un grande successo? Pietro (sempre accarezzandola, quasi con violenza, le spalle e le braccia) — Sì. (Ha tuffato il volto nei capelli di lei e ne aspira il profumo con una sensualità quasi sel vaggia). Marta — Il più grande che tu abbia avuto? Pietro (distrattamente) — Credo di -sì. Marta (trionfante) — Lo -sapevo. Pietro — Questo profumo dei tuoi capelli, mi -ritorna quando -siamo lontani... non lo dimentico mai. (La bacia). Marta — Lo sapevo, sai che saresti diventato un grande scrittore, il più grande di tutti. Pietro (quasi rozzamente infastidito) — Lascia stare. (Mordente) Sono gli, altri che non contano niente. Marta — E’ uguale. Ma quando ti ho sposato, nessuno ti conosceva. (Alzando gli occhi verso di lui con umiltà timorosa) Sei contento di -me? Pietro — Sì. (Una breve pausa. Ripete convinto e pa calo) Sì. Nessuna donna avrebbe fatto più di quanto hai fatto tu. Marta (felice, stringendosi a lui) —• Mi basta, che tu pensi sempre così... Ma sempre. (Passandogli le mani sul capo, con un senso di felice padronanza) Sì, è vero... tu non lo -dimenticherai perchè è vero. (Con intimo riso) Quanti anni, dal primo figlio a oggi... (Interrompendosi, con altro tono) Sai -che Davide vuole sposarsi? Pietro (fissandola con occhi tutti aperti smarrito) — Davide? Marta — Voleva aspettarti per dirtelo. (Con un sorriso vago) Poi lo ha -detto a -me. Pietro — Ma è l’ultimo nato! Marta (con un lieve sorriso) — Ha vent’anni. Pietro — Vent’anni! E’ un ragazzo. Marta —- Lascialo fare... è l’età dell’amore. Pietro (con collera contenuta, pallidissimo) — Che c’entra? Marta — Cambierà presto idea, e intanto è innamo rato e felice. Pietro — Ma può sposarsi. Marta (crollando le spalle, con un lieve sorriso) — C’è tempo ancora... e si vedrà. Pietro (pallido, di collera, con tirannica forza) — Ah, no! Marta (dopo un breve silenzio, fissandolo) — Perchè no? | Pietro (smarrito, come a se stesso) — No, no. Marta — Davide ha una natura calda, e anche sen suale. Se davvero vuole bene ad Adriana è meglio che si sposi giovane. (Con un lieve sorriso, stringendo le spalle) Non per me lo sai, -ma per te... Potrebbe darti molto dolore. Pietro (in silenzio, ha fissato Marta battendo le pal pebre, con un sorriso di smarrimento e di sorpresa. Un breve silenzio, poi) — Davide! (Una pausa) No. non è TULLIO PINELLI vero. Dionigi, sì, è nato per avere figli. E anche Ennio. (Con un tono di ostilità mordente) Acido com’è, ha bisogno di una moglie. (Si riprende, con larga commo zione) Povero Ennio, sempre così tormentato, ha bi sogno di un affetto terreno. Ma Davide... no. E’ il più immateriale... E’ limpido... pieno di cielo... può diven tare perfetto. (Con una nuova violenta, ma sempre con tenuta esplosione di collera imperiosa) No! Chiamalo. Gli parlerò io. Marta (molto pallida, brevemente) — Non puoi. L’ho mandalo dalla sua fidanzata. (Un silenzio). Pietro (s’è sprofondato nella poltrona ch’è davanti allo scrittoio, e resta immobile silenzioso, mordendo il sigaro spento. Poi sordamente) — Chi è? Marta — Adriana. Pietro (sordamente, un lampo negli occhi) — Bella. Troppo bella. (Un istante) Davide cederà. (Un silenzio). Marta (lentamente, con contenuta violenza ostile) — Perchè non vuoi che tuo figlio si sposi? Pietro — Perchè... (Quasi rozzamente, con violenza crescente) Perchè non voglio la dia vinta alla carne per tutta la vita. (Con un lampo di tenerezza negli occhi) Davide! E’ un ragazzo... che cosa vuoi che sappia? Deve avere il tempo di capire che il matrimonio è un limite ohe non si passa mai più. E può anche essere peggio. Una continua prostituzione domestica quando non avrà più figli. Non per la donna - che non ha importanza - ma per lui, che dovrà continuare a darsi, per il con tratto carnale che avrà fatto, per l’abitudine che ne avrà presa. Davide! (Violentemente ostile e sospettoso) Dovevi dirlo a me prima di mandarlo da lei, prima di incoraggiarlo. (Con collera sempre più irragionevole) Forse le hai già parlato... vi siete accordati, senza dir melo. (Il silenzio di Marta che lo fissa, lo fa tacere di colpo. Una pausa. Con altro tono, come scusandosi) A Davide parlerò io. (Sprofondandosi nella poltrona e scotendo le spalle) Se poi questa sarà la sua vocazione, di vivere e morire come tutti gli altri, peggio per lui. (Dopo una pausa, sordamente) E’ pesante essere soltanto uomini. (Un lungo silenzio. Nella notte, lontano, il ron zio di un autocarro che subito muore). Marta (lentamente, pallidissima) — Ricordi com’eri quando mi hai sposata? (Breve silenzio. Sordamente) Disperato tanto di tutte le cose della vita, che volevi ucciderti. Io non voglio tornare a quegli anni. (Sorda mente) Ti ho già salvato una volta. (Una pausa) Da qualche tempo hai ripreso a dire le stesse cose mostruose che dicevi allora. Ti nasce dal fondo come un odio per tutto quello che hai fatto nella vita; ¡per noi, per me. Perchè non ti bastano le cose belle e buone che agli altri bastano? Che cosa chiedi, a Dio, tu, quando lo preghi... o quando lo 'bestemmi? Sì, lo bestemmiavi, al lora. Avevi degli incubi, delle allucinazioni. Pietro (pacatamente} — Delle visioni. Marta — Allucinazioni. (Tace, rabbrividendo) Il ma trimonio ti ha dato una ragione di vivere, un equilibrio. (Con ostilità) Ci hai trovato anche la fede, tu che dici di non poter vivere senza la fede. Per vent’anni sei stato felice. (S’interrompe). Pietro (lentamente) — Vent’anni non sono tutta la vita. (Si alza, va adagio alla vetrata, resta un istante a guardare fuori. Una pausa) Io mi sono già trovato in punto di morte. Che fardello, vent’anni di felicità, al momento di ritornare spirili. (Tace di netto. Riprende, aggressivo, violento) Del resto, la colpa è sua. Lui sa, che può chiedermi... (tace, riprende) la cosa più enorme, non so quale... la cosa più terribile. Forse... (Tace) E se mi lascia vivere e morire inutile... (Pausa. Lontano, tre tocchi dell’orologio campanario) Quasi la mezzanotte. (Passando accanto a Marta, l’afferra improvvisamente alla nuca, ed attira il capo di lei contro la propria guan cia, con un misto di sgomento e di amore) Devi volermi bene, sai Marta. Non lasciarmi solo. Noi siamo legati per sempre. Marta (sciogliendosi adagio, con un singolare lampo negli occhi piegati a terra, ed una strana estrosità) — Ci sono cose che non mi interessano affatto - e tu sai quali. Non m’importa niente, sai, che tu sia migliore degli altri, e che tu ami qualcosa che non è umano amaro così. Pietro (lasciando cadere con forza la palma della mano aperta sul piano del tavolo, pallido di collera) — Marta! Marta (stringendosi nelle spalle, cor. un lieve sorriso, e lo sguardo smarrito ed ostile) — Io sono soltanto una donna. Faccio quanto posso, per te... perchè ti amo. Ma non sono molto buona. Io sono contenta di quello che ho, ma non voglio penderlo, Pietro. (Una pausa) Buona notte. (Esce adagio). Pietro (rimane un tempo immobile, seguendo con lo sguardo Marta, poi si riscuote, va adagio a sedere al tavolo e prende a sfogliare alcune lettere, con gesti lenti e distratti, una grande, crescente oppressione sul volto. 1 gesti di Pietro si fanno sempre più lenti, op pressi, pesanti. Dietro la vetrata del fondo compare un’alta sagoma nera. Una pausa. Pietro non muove il volto. La vetrata si apre lentamente, silenziosa, e un uomo alto, glabro, calvo, scuro senza essere vestito di nero, entra lento senza far rumore. Pietro seguita a te nere gli occhi fissi sulle lettere che ha in mano. Il Ten tatore avanza calmo, come sfiorando il pavimento e siede sulla poltrona di fronte al tavolo. Una pausa). Pietro (lentamente, con voce oppressa, senza sollevare gli occhi dal foglio) — Davide? (Un silenzio) Davide? (Alza adagio, quasi a fatica, lo sguardo sul Tentatore. Breve pausa). I l Tentatore (con un fine sorriso) — ¡Se io fossi Da vide, non mi avresti ricevuto così. (Una pausa). Quando ti sarai reso bene conto della mia presenza, potremo in cominciare a discorrere. (Una breve pausa. Sisteman dosi comodamente nella poltrona) Non c’è premura. Con le prime ore del 'giorno dovrò andarmene, ma la notte è ancora fonda. (Coti un lieve sorriso) Non è Che io sia legato alla notte, intendiamoci, non vorrei spaven tarti con un aspetto sinistro. Pietro (cavando lentamente un sigaro dal taschino, senza perdere di cose che non credi? Pure siamo una cosa sola, io e te... (La fissa di nuovo, attra verso gli occhi soicchiusi con intensità quasi ingiuriosa) E non hai mai capito che cosa aspettavo! Che mi chie desse qualcosa di enorme... non sapevo che... forse di sa crificargli la cosa più cara come Àbramo. (Si piega su di lei, con forza) Io speravo che mi chiedesse Davide, e glielo preparavo, puro come una vittima... Marta (sussultando, inorridita) — Pietro ! Pietro (scuotendola, per i capelli) — Dovevi capirlo, dovevi capirlo, Marta! Ma mi ha chiesto molto di più... (Con amore selvaggio e quasi compiaciuto) E’ sempre 11 Dio che ha bisogno del dolore di chi Io ama, come nel deserto! (Trionfante, con orgoglio infinito, ma inconscio) La mia mente, mi ha chiesto. Che io, di mia volontà, gli sacrificasisi la mia mente. Che io «ia padrone, in qualun que momento, di respingere la pazzia, perchè sia più atroce il mio sacrificio nell’accettarla... (Con impeto di orgoglio selvaggio) A chi ha mai chiesto tanto? E l’ho accettato. (Breve silenzio) Ho pnantenuto la mia parola, TULLIO TINELLI e Ini a me. (Altro breve silenzio. Lento, con inconscia e commossa solennità) E’ incominciata oggi. Marta (con uno scoppio violento d’odio e di ribellione) — Non oggi, disgraziato! Da due mesi! (Lunga pausa. Si è alzala lentamente, quasi a stento, e lentamente si avvia per uscire. Mormora, con un misto di avversione e di aspro dolore) Oh, era meglio che tu fossi morto. Pietro (un sussulto violentissimo l’ha squassato dalla lesta ai piedi. I suoi tratti sbiancati sono stravolli. Egli è rimasto immobile, come impietrilo. Mormora) — Asnetta. Da due mesi che cosa? Maria (tace un attimo, fissandolo, esitante, combattuta) Poi, con ribellione esasperata; sommessa) — Ma sì. Pietro — Altre volte? Marta (più sommessa) — Ma 'sì! Pietro — Tante? Marta (in silenzio, si porta il fazzoletto alle labbra). Pietro (scosso da un brivido di terore, con angoscia smarrita, sommesso) — Ma io non aie ricordo niente... (Breve silenzio) Davanti a te? Marta — Non soltanto a me. Pietro — Davanti ai ragazzi? (Breve silenzio. I suoi tratti si sono imporporati, stravolgendosi, in una vergogna collerica, violento) Davanti ai ragazzi? (Con un’esplosione violentissima, afferrando Marta per le spalle e scuoten dola) E non m’avete avvertito!... Come un bambino!... (Un sordo ruggito di collera gli esce dalie labbra, men tre lacrime d’ira e di vergogna gli bagnano gli occhi. Lascia Marta, ch’è rimasta immobile sotto la stretta e si allontana, cadendo a sedere al suo scrittoio. Lunga pausa). Marta (lentamente si avvia verso destra). Pietro (con gesti meccanici, ha tratto un sigaro, i fiam miferi, e cerca inutilmente di accendere il sigaro, le mani agitate da un tremilo sempre più forte non lo ubbidi scono) — Aspetta. Com’è successo? Marta — La prima volta, una sera. Pietro — Dove? Marta — Qui. (Breve silenzio). Pietro (si guarda attorno, con occhi smarirtì, atterriti). Marta — Eravamo qui, tu ed io. Tu eri seduto lì, come ora. (Con il terrore della rievocazione che le cresce nella voce) In casa non c’era nessuno. I ragazzi erano fuori. Io lavoravo, e tu scrivevi. Così, nel silenzio, ho sentito una voce strana... come... come un muggito. Mi ha preso un terrore, come nei sogni. Non avevo capito che fosse. Tu eri in piedi... (Tace di netto. Un silenzio) Meglio se mo rivi. Non ti avrei ricordato come ti ho visto da allora. (Con odio e terrore) Felice e... Pietro (con atterrita, selvaggia rivolta carnale) — Basta Marta! Ho bisogno di tutte le mie forze per resistere al terrore di questo annientamento orribile, e tu... (Con odio violento) Marta, bada a te! (Tace, tremante. Pausa. Scosso da un più forte brivido di terrore, con violenza disperata, ma contenuta) Che cosa facevo? (Breve si lenzio. Più sommesso, con sforzo enorme) Che cosa! faccio? Marta (dopo averlo fissato un attimo, esitando con un molo di orrore) — Oh, non posso! (Con impeto di aspro dolore e di amore) Felice! Di questo! Ah, Pietro! Con tanto amore che ti potevo dare! E sono ancora giovane... e bella! Ah, Pietro, Pietro, che cosa hai fatto della nostra vita! Tu che eri nato per viverci come un selvaggio, li bero... (terribile) nudo... Pietro (purpureo, gli occhi sbararti, con forza) — In nome di Dio, Marta, devo saperlo! Che cosa mi colpisce quando... Marta (con un sorrìso stirato, disperato, che le cresce sul volto) — Come posso dirtelo! E’ talmente grottesco, talmente atroce, per te, Pietro Rovere! Che vendette, si prende, la natura! (Rimane un attimo silenziosa, ritta di fronte a Pietro. Le sue mani fanno Fatto di strapparsi le vesti di dosso. Poi ridendo convulsamente, il volto ri gato di lacrime) Ti denudi! Ti spogli! Pietro (balzando in piedi con un ruggito, paonazzo, squassato da un brivido di terrore senza limili) — Ali, ma è immondo! Marta — Pietro Rovere! Felice! Di questo! Pietro — No! Non di questo! Ero pronto, ma non così. Marta (uscendo) — Oh, io non posso! Pietro (con inorridito ribrezzo di tutto il suo essere) — Dio traditore! Perchè mi chiedi quello che non posso darti? Perchè mi precipiti! Ah, morte lenta, immonda! Io non posso! (Con forza disperata) Io non voglio! (Pausa) Io non voglio! FINE DEL SECONDOATTO La stessa scena. Le persiane della finestra sono chiuse, e l’oscurità della camera è rotta solo dalla luce della lampada dello scrittoio. (Davide siede di traverso, quasi prostrato sulla grande tavola, assorto nella lettura di un libro che giace aperto, davanti a lui. Veste sommariamente; la camicia bianca è aperta sul collo e lascia scoperte le braccia; i capelli arruffati e spettinati, gli piovono sulla fronte. Un tempo di silenzio. Poi un orologio campanario, lontano, suona due colpi. Davide si scuote, quasi di soprassalto; si sol leva sul busto, si guarda attorno, con un senso di smar rimento. Una pausa. Il silenzio si è rifatto completo. Davide, dopo aver fissato a lungo la porta di sinistra, come in attesa, torna a piegarsi sul libro. Un’altra pausa. Dalla porta di sinistra entra Dionigi, in maniche di ca micia; sta terminando di vestirsi e parla con voce som messa). Dionigi (fermandosi sulla soglia, sorpreso) — Davide? Davide (leva adagio lo sguardo trasognato sul fratello). Dionigi — Ancora alzato? Davide (sorride al fratello, in silenzio). Dionigi (andando verso la finestra) — Caldo. Si può aprire. (Dionigi apre la finestra. Un grande cielo stellato appare. La lampada rimane accesa. Un silenzio. Dionigi resta ritto davanti alla finestra aperta. Davide, il mento sul pugno, ha fissato gli occhi trasognati oltre la finestra) Quanti vapori. (Una pausa) E’ ancora caldo. (Si volge, e viene adagio verso Davide) Che cosa facevi? (Un breve silenzio). Davide — Leggevo. (Saltando a terra e andando alla LOTTA CON L’ANGELO finestra) Ma guarda! Quanti vapori! Sembra un altro mondo! Bionici {si è avvicinalo allo scrittoio ed ha tolto in mano il libro abbandonato da Davide) — Dante? Davide (mollemente, senza volgersi) — L’ho trovato li. Dionigi (leggendo a mezza voce) «Io vidi una di lor traggersi ovante per abbracciarmi™ ». Che cos’è? Davide (quasi con noia) — Quando, sai, incontra l’ani ma di Casella, sai, il suo amico, il musicista che era morto da poco... Dionigi (corrugando la fronte) — Casella? Non ri cordo. Davide (venendo avanti, con improvviso calore) — Ma si, Dionigi! Casella era morto da poco, e non s’era an cora abituato a non avere il corpo, sentiva àncora tutti gli affetti di questa terra - sai, che fa impressione, per chè vogliono abbracciarsi, e non possono. (Togliendo di mano, con un certo impeto, il volume a Dionigi) Aspetta... tu non sai leggere. (Leggendo, tutto preso da quanto legge) «Io vidi una di lor traggersi avante Per abbracciarmi con sì grande affetto Che mosse me a far lo simigliante. Oh ombre vane, fuor che nell’aspetto! Tre volte dietro a lei le mani avvinsi, E tante mi tornai con esse al petto. Di maraviglia... ». (S’interrompe, dice) Io preferisco, credo, tutti i dolori di questa terra, ma non quelli dopo morto. Non è vero Dionigi? Dionigi (un po’ interdetto, fissandolo) — Perchè? Davide — Perchè io so come sono i nostri, e immagino anche i dolori dell’altra vita. (Tassativo) Sono molto peggiori, sai. (Resta un attimo ,pensieroso) Oh, sì Diouigi! (Le sue lunghe dila muovono con inconscia pas sionalità) Qui c’è almeno il conforto di toccare le per sone che si amano. (Breve silenzio) Ci si deve trovare sperduti, soli soli, come in fondo ad una di quelle grandi valli tristi, desolate, con le nebbie a mezza costa... Sai come voglio dire... E in principio si deve sentire un grande desiderio del corpo, del mondo, una nostalgia più dolorosa che la morte. (Breve silenzio) Con i rimorsi... Non credi? Bionici (grave) — Forse. Davide — Di certo, Dionigi! Uno struggimento, un desiderio di fare qualche cosa che non si può fare per liberarsi. Oh, sì, molto più doloroso di tutto quello che si può soffrire qui e anche della morte. (Con calore in genuo) Io penso tanto, sai, alle anime dei morti, e prego molto, per loro. Tu no? Bionici — Io? (Quasi scusandosi) Ma vedi, Davide, quando si prende a lavorare, un’ora dopo l’altra... (Un breve silenzio. Crollando il capo). Non ho tempo, non ho mai tempo d’occuparmi di queste cose... (Una pausa). Davide (s’è seduto su una poltrona e sfoglia adagio il volume). Dionigi — Ma tu sei rimasto alzato fino ad ora per leggere? Davide (si scuote, guarda di scatto il fratello, battendo le palpebre, tace un attimo. Poi, quasi gettando il libro, rapidamente) — Ah, no ! Ah, già ! Dionigi — E allora, perchè? Davide (nervosamente, tenendo gli occhi fissi sul volto di Dionigi) — Oggi sei rimasto a parlare con nostro padre. Dionigi (dopo un brevissimo istante di esitazione, sog guardando il fratello) —■Sì. Davide (in angoscia) — Ha parlato di me. Dionigi — Anche. Davide — Ah, lo sapevo. (Breve silenzio). Dionigi — Non ti sei coricato per questo?... Davide — Ero coricato, ma non potevo dormire... Non ricordavo bene a che ora partivi, e... (Con angoscia) Che ha detto di me? Dionigi (imbarazzato, esitante) — Ma, le solite cose. Davide — Lo sapevo, lo sapevo. (Breve silenzio). Allora dice sempre che devo partire. Dionigi — Sì, oggi l’ha detto. Davide (d’impeto, amaro) — Quando è giunta la let tera di Ennio, che mi chiamava laggiù, l’ha strappata, e ha detto che dovevo rimanere qua. , Bionici — Sì, l’ha ripetuto anche pochi giorni fa. (Lungo silenzio). Davide (fissa, con muta interrogazione angosciosa, Dio nigi, che crolla il capo, in silenzio, e piega gli occhi a terra. Lunga pausa). Dionigi (quasi a mezza voce) — Non so... Non capisco... Davide (lentamente ha piegalo il capo, e ha preso a disegnare con dita nervose il foglio che gli sta spiegato davanti, sul tavolo. Breve silenzio). Dionigi — Non capisco più. (Breve silenzio) Credo, sai, Davide, che faresti bene ad andartene. Davide (la fronte corrugata, non leva gli occhi dal disegno. Breve silenzio). Dionigi — Te ne sei accorto anche tu. Tutto quello che fai, lo sdegna. Davide (ha un sussulto, e le sue labbra tremano con vulse; ma non parla, e china ancora più la fronte con tralta). Dionigi (con premura per mitigare il turbamento di Davide) — Tulio quello che prima amava, ora lo sdegna... Una inversione completa... Io l’ho osservato. (Breve si lenzio. Paterno) Io lo dico per il tuo bene, Davide, lo sai. (Breve silenzio) Non è più come prima. Davide (d’impeto, con angoscia estrema) — Ma per chè? (I due fratelli si guardano in silenzio). Dionigi — Non lo so. (Un breve silenzio) E’ successo qualche cosa. Lo sai anche tu... Da quando le sue crisi sono cessate... da quando, ecco... è tornato dal viaggio con nostra madre, due mesi fa... sembra che abbia mu tato natura. (Breve silenzio) Anche di corpo è ingros sato, invecchiato. Davide (d’impeto, con dolore) — Il corpo, non è nulla, il corpo... E’ spento negli occhi, greve... (Smarrito ango sciato) Dice delle cose tanto terribili con una calmacome se qualcuno parlasse con la sua voce. Quando inco mincia a parlare... vero Dionigi? Io tremo sempre che gli venga su dal fondo qualche cosa di spaventoso... TULLIO PUNTELLI (Tace) E quando guarda nostra madre, gli nasce, in fondo agli occhi, una luce scura..., (Pausa). Dionigi (sommesso) — E anche nostra madre... Davide (quasi rabbrividendo) — Oh, lei... che sta sem pre zitta con gli occhi così lucenti... (Breve silenzio). Dionici (crollando il capo, sommesso) — Non so... (Al zandosi) Allora partirai? Davide (scuotendosi, sorpreso) — Io? Dionigi (interdetto) — Non vuoi? Davide (con grande turbamento) ■ —• Ma Dionigi, Adria na è qui. Ci vediamo tutte le sere. Dionigi (dopo un breve silenzio) — Eh, lo 80. Davide (quasi febbrilmente, come per convincerlo) — Sai, Dionigi, adesso è estate,, ci sono quelle lunghe sere, sai, Dionigi, con il profumo dell’erba e... Capisci? Dionigi — Eh, lo so... Io l’ho detto per te. Davide (d’impeto) — ¡Che cosa vado a farci, io, laggiù, solo, con Ennio, (aspro) che non mi piace? Il mio mae stro è qui, abbiamo appena incominciato un modello. Mi piace tanto, sai, la «cultura... è la mia vocazione. Lavo rerei la creta tutto il giorno. E’ come creare toccando, capisci? (Con estremo smarrimento) Non faccio niente di male, qui. (Breve silenzio). Dionici (dopo un’esitazione) — Eppure Davide, è me glio, che tu te ne vada. (Breve silenzio). Davide (guarda interdetto il fratello). Dionigi —- ¡Senti, Davide, oggi nostra madre è andata da Adriana, le ha parlato di te. Davide — ¡Nostra madre? , Dionigi — Non so perchè lo abbia fatto, ma... ecco, so che l’ha fatto. (Breve silenzio) E so che ora anche Adriana preferisce che tu parta. Davide (sbiancato) — Adriana? Dionigi (subito) — Ma... dice... per il tuo bene... Pensa che sia meglio per te rimanere via qualche tempo... ecco. Davide (smarrito, quasi sottovoce) — Ma perchè? (Breve silenzio) Che ¡cosa le ha detto nostra madre? (Un ronzio di automobile si sente avvicinarsi dall’esterno). Dionici (allargando le braccia) — Non lo so, Davide. Davide (balzando in piedi) — Adriana? Io vado... Dionigi — Dove? A quest’ora? (Il ronzio della mac china s’arresta davanti alla casa. Un breve suono di, tromba si fa sentire) Eccoli. Davide (sussultando, con crescente smarrimento) — Tu vai via? Dionigi — Sì. Davide t— ¡Non torni, domani mattina? Dionici — No, debbo star fuori fino a domani sera. Davide — Come, fino a domani sera? Dionigi — Torno domani sera. Il primario mi porta con sè. Davide — Ah! (Breve silenzio. Con un enorme senso di smarrimento) Allora, rimango solo con loro due. Dionici — Addio, Davide. Quando tornerò, ne parle remo ancora. Davide (smarrito) — Sì. Dionigi —- Se posso, io t’aiuto. Addio. Davide (con angoscia quasi infantile) — Dionigi! Dionigi — Che vuoi? (Lo guarda un po’ commosso. Poi, con pacatezza confortatrice) In casa, ho provvisto io a tutto. Non hai da pensarci. A domani. Davide — A domani. Dionigi (dalla soglia del fondo) — E torna a dormire. Loro dormono già. (Esce, scompare). Davide — Sì. (Rimane immobile qualche tempo, se guendo con lo sguardo Dionigi. Il ronzio della macchina riprende, si allontana, si perde. Davide si scuote. Muove qualche passo, s’arresta di nuovo, la testa china. Si passa una mano sulla fronte. L’orologio campanario, lontano e lento, suona le ore. Davide, con gesto rapido, come cac ciando un incubo, spegne la lampada. Nel buio, lo si vede avviarsi verso sinistra. Una voce, fredda e calma, emerge da un angolo della stanza). La voce — Mi senti? (Breve silenzio). Davide — Sì. La voce — Bene. Sai chi sono? Davide — Sì. La VOCE — Pure è la prima volta che ti visito. Davide (con foga di sprezzo infantile, ma sempre sommesso, quasi assorto) — Oh, tutti i libri parlano di te, da quando il mondo vive, e tutti sanno che esisti. La voce — Molto bene. Dunque, aspetta un poco, Da vide. Tuo padre e tua madre dormono. Potremo con versare con calma. Non aver paura. Davide (strozzato, sommesso) — Io non ho paura. (Con estremo tassativo disprezzo) Perchè tutto quello che dici, è falso e bugiardo. La voce (con gelida ironia) — Ma certo. E’ così sem plice. (La lampada dello scrittoio si accende. Sotto di essa, è ritto il Tentatore. Davide sussulta, si sbiancò1 , e rimane immobile, gli occhi dilatati, fissi su di lui). ¡Il Tentatore (con un fine sorriso) — Ho cercato di parlarti diverse volte, oggi; ma non mi hai dato retta. Che fare? Ti ho aspettato qui. Ora possiamo sedere, e conversare con calma. Ne abbiamo il tempo. Il momento in cui tuo padre dovrà svegliarsi, nella notte, e sveglierà tua madre, ¡è vicino, ma non imminente. (Si è comoda mente seduto in una poltrona) Siedi, Davide. Davide (macchinalmente siede. Pausa. Il Tentatore se guita a fissare Davide). I l Tentatore — Sei molto giovane e sicuro, Davide. Non mi hai nemmeno chiesto perchè sono qui. Simpa tico. Sì, certo, avrei preferito comparirti più tardi, fra qualche anno, quando fossero ben maturati in te certi antichi fermenti. (Breve silenzio) Ma ho una lunga par tita aperta con tuo padre. (Improvvisamente, sinistro, con gelida calma) Siamo alle ultime ore. La partita si chiude questa notte. Davide (bruscamente, strozzato) — Che cosa vuoi da mio padre? Lascialo stare. E’ malato. I l Tentatore — Ne sei certo? (Lunga pausa) Tu sei schietto e sincero, Davide. Sei proprio certo, che tuo padre sia ancora malato, di quella strana demenza che un giorno l’ha colto? Davide (sommesso ma risoluto) — No. I l Tentatore — Difatti, non è più pazzo. Davide (con impeto cFangoscia) — Ma tu non sai com’è cambiato, proprio dentro, nell’anima... e se questa non è demenza, allora perchè... I l Tentatore (interrompendolo, sinistro, quasi minac cioso) — Davide! (Breve silenzio. Basso, gelido) Bada che non mi sfuggi. Tu stai di nuovo mentendo. LOTTA CON L'ANGELO Davide (sussultando) — Io? I l Tentatore — Si. Perchè tu hai .sospettato la vera ragione del mutamento di tuo padre verso di te. (Pausa. Di nuovo con gelida calma) Lasciati guidare da me, Da vide... (Con leggero tono di compiacimento) Sono un antico maestro di queste esperienze. (Con gelida calma e sinistra disinvoltura) Io spero di non doverti svelare che cosa matura nelle ombre che tu presenti, da qualche tempo, in questa casa; ma c’è un segreto che tu, questa notte, devi conoscere. Davide (sussultando, gli occhi dilatati da un infantile spavento) — Un segreto? I l Tentatore — Tu sei forte, Davide; sei sorretto da una grande fede e non devi aver paura di seguirmi... (Con un fine sorriso) Seguirmi, dico, e scoprire la ra gione di tutte le cose strane, conturbanti, inspiegabili, che sono successe sotto i tuoi occhi da qualche tempo. Il segreto della vita di tuo padre, insomma. Davide (d’impeto, turbatissimo) —Ma io... Aspetta! Non posso, io, scoprire una cosa cosi sacra! I l Tentatore (con gelida violenza) — Non mi hai ca pito, Davide. Non aspetta a te scegliere. E’ deciso che devi sapere. Davide (d’impeto, spaventato alzandosi) — Io non vo glio!... I l Tentatore (arrestandolo con violenza sinistra) — Non farmi perdere tempo, Davide! Quello che deve suc cedere, succederà tra ¡breve. Sta fermo, ti Idi-co! iSe tuo padre mi avesse ascoltato, non sarebbe - ora - sull’orlo del precipizio. Siedi. (Pausa, poi sordamente) Io glielo avevo profetato. (Con sinistra soddisfazione) Attento alle mie predizioni, Davide! 'Io gli avevo detto che le sue forze non avrebbero resistito alla prova. Non per niente gli sono stato vicino fin dall’utero smaterno. iGodere la vita, doveva: accontentarsi dei beni enormi che aveva avuti, doveva. Come te, sai, Davide. (Con violento, ge lido odio) Ma voi sognate quello che l’uomo ha perduto per sempre, l’anima angelica: anche a costo di marti rio, e non lo reggete, e precipitate in fondo all’abisso. Davide (purpureo, gli occhi scintillanti) — Il martirio? I l Tentatore ■ — Ecco, ora lo sai - la demenza strana inattesa, che aveva colpito tuo padre, lui l’aveva orgo gliosamente voluta... (Con sinistra ironia) Era il martirio. Davide (fremente, d’ìmpeto, con un grido che lo scuote tutto) — Ah, benedetto! I l Tentatore — Zitto! Lo desti... ed è ancora troppo presto. Davide (sconvolto, balbettante, sommesso) —- Ah, io l’a vevo sentito! Piangevo, sovente, ma non avevo paura; voglio dire, paura;sì, tanta. Ma non di lui, nè di quella cosa. Io andavo sempre solo, con lui, per le colline e le strade, e parlavamo, parlavamo, o anche stavamo zitti. Ah, sì,.avevamo intorno l’aria del paradiso... Ah, benedetto! I l Tentatore (gelidamente, sardonico) — E dopo? Davide (tace di colpo, sbiancandosi, e fissando il. Ten tatore con smarrimento. Breve silenzio). I l Tentatore (con gelida ironia) — -Come vedi, c’è un dopo. (Breve silenzio) Davide, Davide, il tuo orgoglio ti perderà come ha perduto tuo padre... Siete fatti di terra, e dovete rimanere sulla terra. 0 -se no... La catastrofe. Ecco il dopo, Davide. Come poteva reggere all’errore della demenza la natura di tuo padre, passionale, esube rante di ¡forza? Non ha retto, di fatti; e tuo padre ha respinto la prova. Era secondo la terra. E la sua mente è ritornata sana. Ma troppo tardi. Che cosa vuoi che rimanga, di un’anima, quando una prova cosi grande e definitiva sia fallita? Niente. Niente. La -disperazione. Il rancore verso sè stessi... la propria debolezza... E l’odio per chi ci ha trattenuti sulla terra. Davide (d’impeto) — Non l ’ho trattenuto, io!... I l Tentatore — Tu no, Davide. La ragione per cui tuo padre, ora, crede di odiarti, è un’altra. Ma tua madre? Davide — Lei! I l Tentatore — Oh, non condannarla, Davide! Aveva ragione lei. Tua madre -era una donna di questa terra e tutta la vita ha lottato per rimanere su questa terra, con suo marito e i suoi figli. Ma tuo padre non dimentica che l’istante di debolezza che l’ha perduto è venuto da lei; e la passione d’odio - un odio mortale, -bada Davide! cresce in lui quanto -più egli si sente lontano per sempre dal suo sogno celeste, guadagnato -giorno per giorno dai torbidi spiriti della terra. Ed ecco di dove è nato -ciò che lo induce a non più tollerarti. (Pausa) Non più la insanità di mente, poiché egli Tha respinta da -sè, e non è più pazzo, ma una ragione ben precisa, bene umana, che tu hai sospettato. Davide (in silenzio si passa la mano tremante sul volto sbiancato. Pausa). Il Tentatore — Davide, chi c’era, con te? Davide — Perchè?... I l Tentatore — Rispondi. Chi c’era? Davide (strozzato, sommesso) — Dionigi. -Il Tentatore — E che hai appreso, da lui? (Pausa) Non ti ha detto, Dionigi, che oggi tua madre -si è recata dalla tua fidanzata e l’ha convinta che è bene tu parta? Davide (strozzato, in un soffio) — Sì. I l Tentatore — Bene, Davide, il pensiero di questo fatto non ha cessato di lavorare, tutto il -giorno, la mente di tuo padre, e porterà i suoi frutti, quando, tra poco tuo padre ne sarà destato. Ma nella mente tua, quale sospetto ha fatto più forte, -più -grave, più tormentoso? (Pausa). Davide (il volto purpureo, con improvviso impeto d’ira e di vergogna) — Ah, -sono un mostro ! Gettamelo in fac cia, che io... (Si copre il volto colle mani). I l Tentatore (con gelida calma) — Perchè? Quello che hai sospettato è vero. Davide (solleva di scatto il volto e lo sguardo sul Ten tatore, fissandolo, con sbigottimento inorridito. Pausa breve). I l Tentatore — In queste cose, le intuizioni non sba gliano. Tuo padre s’è innamorato di Adriana. (Pausa). Davide (con insospettata, intima forza virile, che lo scuote tutto) — Via di qua! Vattene via! I l Tentatore (con sinistra violenza, interrompendolo) — Tu sai che è vero... Davide — Vattene via! I l Tentatore — Davide, tu sai che è vero ! Davide (paonazzo, esasperato, scompigliando in un ge sto disperato le carte dello scrittoio) —- Vattene, in nome di... I l Tentatore (con spaurita violenza) — Basta! Davide (zittito dal grido del Tentatore, rimane imma- TULLIO PINELLI bile sbiancandosi rapidamente e fissando su di lui gli occhi dilatati. Pausa). I l Tentatore (sordamente) — Invocazioni! Anche le invocazioni! (Con nuova, sommessa violenza) Tu dimen tichi che sono qui e ti parlo, perchè mi è stato con cesso. (Pausa) Non cercare altro, e vaitene. Il momento in cui le passioni nascoste verranno alla luce è imminen te, Davide. Quello che fino ad oggi era quasi inconscio, in lui, sta diventando netto e chiaro nel suo animo, ora che dorme. Tu conosci tuo padre. Che cosa avverrà, Ira te e lui, se resti ad affrontarlo? Davide (squassato da un terrore folle) — No! Ah, no! Meglio morire! I l Tentatore — E dunque vattene. Davide — Oh, sì! I l Tentatore —- Vattene subito, senza voltarti indietro. Salvati fin che sei in tempo. Fuggi, Davide. Fuggi senza ritardo. Davide (in un’angoscia mortale, appena sussurrato) — E Adriana? I l Tentatore (con atroce, gelida ironia) — Ecco ¡già ti è nata la gelosia, verso di lui! Davide (con un sussulto, inorridito) — No! Non è que sto! (Con impeto amaro e lacrime d’ira e di dolore) E’ proprio vero che tu sei maledetto! Le cose più crudeli le dici ! ... I l Tentatore — Perchè sono vere. Davide — No, che non è vero! Ho pensato ad Adriana, e a lui, quando capirà... I l Tentatore (con gelida violenza) — Di che ti inte ressi? Pensa soltanto a te stesso, tu. Ne hai bene il di ritto. Quello che avverrà qui quanto tu ti sarai salvato, non ti riguarda. Adriana. Oh! Adriana! Adriana è una donna, e non ha bisogno del tuo appoggio, sai. Ma se proprio ci tieni, io ti assicuro che nulla avverrà che la offenda. Dun que vattene. (Breve silenzio). Davide (con un sussurro d’angoscia) — E... lui? I l Tentatore (con uno scatto d’ira sinistra) — Ancora! Ancora pensi a lui dopo quanto hai appreso! Davide (con impeto d’amore disperato) — Oh, tu non l’hai conosciuto, prima! I l Tentatore — lo? (Breve silenzio) Davide, tu scherzi sull’orlo del precipizio. Non obbligarmi a dirti ohe cosa so di lui, e che cosa sarà di lui. Davide (strozzalo, con violenza angosciata) — Se lo sai, dimmelo. I l Tentatore — Vattene, Davide, e non voltarti indie tro. (Improvvisamente sinistro) Deve restare solo, nelristante supremo. Io e lui. Non c’è più niente che lo possa salvare. Davide — Oh, no! Questo no! Questo puoi dirlo tu. che sei il Re della disperazione, ma non è vero! I l Tentatore — Davide, bada a te! Che cosa c’è di co mune tra di noi? Tra voi e noi c’è un gran fossato, e chi è venuto da questa parte non lo ripassa mai più. Davide (sconvolto, tutto vibrante di sdegno un po’ in fantile) — Ma questo no! Non è vero! I l Tentatore — La giustizia è questa, Davide. A ciascu no il suo e la legge su tutti. La perdizione è uua legge eterna di giustizia, Davide. Lascia che la giustizia lo colpisca. Davide (con crescente impeto, quasi infantile) — Ah. ma tu non sai niente! Fino alTultimo fiato quando già gli uomini credono si sia morti, si può essere salvi! Questo lo so ed è vero! Se tu avessi un’idea dell’amore che mio padre ha sentito, tutta la vita, per il Creatore!... E tu pensi di perderlo! Qualunque cosa abbia fatto, con tanto amore... Oh, tu non hai una madre vergine che distenda il suo manto di stelle... (S’interruppe bruscamente: riprende con lo stesso impeto) Tu sei solo, abbandonato in fondo al l’abisso • quando penso che nessuno, forse nemmeno la Vergine, osa pregare per te, sento una stretta all’animo... I l Tentatore (con un grido contenuto ima violentissi mo) — Davide! (Breve silenzio. Con la stessa sinistra incalzante violenza) Se, dopo avere oltraggiato i tuoi sen timenti più sacri tuo padre uccidesse tua madre... e poi chiedesse ancora l’amore, o almeno la pietà della tua anima, potresti tu darglieli? (Breve silenzio) Non colle labbra, Davide, ma con tutto il tuo cuore, potresti non ritrarti inorridito, e oseresti metterti tra lui e la giustizia eterna? Davide (terreo, immobile, rimane silenzioso fissando il Tentatore). I l Tentatore — Io esisto, Davide. Potrà fulminarmi alla fine dei secoli, ma l’onnipotenza divina si ferma impo tente davanti alla mia volontà di perdizione. Niente mi salverà. La disperazione da ogni salvezza è un mio di ritto. Vengo a riscuoterla questa notte, da tuo padre, e non permetterò che il tuo amore si metta tra me e lui. Senti, si è già svegliato, come ti avevo detto. La preci sione delle conseguenze, Davide, è esatta come i rapporti fra gli astri. Il terrore di quello che ha compreso lo ha destato, ed è tutto sudato, di un sudore gelido. Nel buio, stende la mano, e sveglia tua madre. « Marta - dice - io ho paura. Sento il passo del castigo ». Tua madre intuisce che è giunto il momento dell’ultima lotta e attira il capo di lui sulla sua spalla. «Dormi» gli dice. «Marta - ri prende tuo padre - io non posso più vivere in lotta colla sua volontà. Basta, Marta. Forse saremo ancora perdonati. Diciamogli che faccia di noi quello che vuole ». Troppo tardi, Pietro. Anche un bambino può prevedere ciò che gli risponderà tua madre. Tu l'hai già capito, Davide. Davide (in un’angoscia mortale) — Ma perchè? Perchè non vuole cedere? I l Tentatore — Perchè? Perchè, Davide, non avrebbe lottato tutta la vita contro 'quest’ansia che le sembra in comprensibile e mostruosa. Questo gli risponde tua ma dre, ed è logico. « Con il mio amore - gli dice - ti ho strappato agli incubi che ti facevano impazzire, e fin che avrò fiato non cederò. Tu sei mio ». «Marta - dice tuo padre - non gli ho dato quanto mi chiedeva e giorno per giorno mi sento diventare demonio. Basta, Marta. Tu mi hai tolto a lui, ma non sono più tuo ». Senti, nel huio la disperazione lo guadagna. « Marta, mi sono innamorato di Adriana ». Ora io solo posso sapere che cosa tua ma dre risponderà. (Pausa. Lento) Ha risposto: « Lo sapevo ». Davide (con un grido d'orrore soffocato) — Ah! I l Tentatore — Tu gridi, ma tuo padre è rimasto im mobile steso nel buio. Così doveva essere. Qualche cosa di enorme matura dentro di lui. Chiede soltanto, in un soffio: «Lo sapevi e mi hai aiutato ad allontanare Da vide? ». Ora, la forza d’amore c d’amarezza che tua ma- LOTTA CON L'ANGELO ùre ha contenuta per tutta la vita esce nelle sue parole: aMeglio questo - dice - che quella cosa orribile. Que sta è una passione umana che io so come regolare. Questo è un amore che non ti toglie a me per sempre... e io posso aspettare la nostra vecchiaia certa di riaverti, anche a co sto di sapermi tradita e di tradire mio figlio. Perchè io ti ho amato e ti amo più di ogni cosa al mondo ». Davide (con un gemito sordo, inorridito, si chitide le orecchie piegandosi su se stesso). I l Tentatobe — Oh, non condannarla, Davide! Il suo amore per tuo padre è ben grande; e tu non vedi con quanta disperata passione essa si china su di lui e lo ba cia. Ma tuo padre è rimasto immobile. Quello che da anni sente, che a questa lotta con la sua donna non c’è altra soluzione se non la morte, è diventato in lui certezza as soluta. L’orrore di quanto ha sentito scatena in lui la disperazione e l’odio. Un’ondata selvaggia sorge dal fondo della sua anima e... Davide, perchè non ti getti contro quella porta? Perchè inon gridi alle potenze che fermino le mani di tuo padre? Corri, Davide, grida, o sarà troppo tardi. Ma tu sei rimasto fermo e silenzioso. Senti, adesso, che così deve essere? La perdizione morde la perdizione. Questa è la giustizia eterna. Lascia che giustizia sia fatta. (Lunga pausa). Davide (è rimasto immobile, gli occhi fissi, come una statua di pietra). I l Tentatore — La partita è chiusa. Tuo padre ha uc ciso tua madre. (Pausa. Svanendo) Non c’è salvezza da questi orrori, Davide. (Pausa. La porta di destra s’apre. Pietro Rovere compare \sidla soglia. I suoi capelli sono tutti bianchi. Egli è avvolto in una lunga vestaglia scar latta. Lunga pausa). Pietro (viene avanti lento, opaco, pesante. Cade a se dere. Un’espressione di mortale sfinitezza è sul suo volto impietrito. Pausa). Davide (da quando il Tentatore è scomparso non ha più mosso. Rigido come una statua ha visto entrare Pietro e non ne ha più distolto lo sguardo). Pietro (sempre greve, atono, impietrito) — Davide. Davide (rimane immobile. Breve silenzio). Pietro — Davide. Davide (si rizza e come un automa muove qualche passo verso Pietro). Pietro — Non restare a guardarmi. Vattene. Davide (rimane immobile). Pietro — Non restare a guardare la mia fine. Faccio orrore. Davide (in un soffio) — Sì. (Breve silenzio). Pietro — Va via. (Pausa). Davide (in un soffio) — Non posso. (Pausa). Pietro — Perchè? (Breve silenzio). Davide (perduto, smarrito, mormorato) — Ti voglio bene. (Pausa). Pietro — Non devi. (Breve silenzio. Con terribile, pa cata disperazione) — Sono terra e demonio. Davide (barcolla, gli occhi dilatati da un terrore dispe rato) — Non ancora. (Come in un incubo) Salvati! Pietro (atono, greve) — Non posso. Davide — Prima che il nemico venga, salvati! Pietro — Non posso! (Breve silenzio) Grande anche nei castigo e nella giustizia. Lo amerò sempre. Davide (iti un soffio, perdutamente) — Salvati, spera in Lui! Salvati papà! Pietro — Non è giusto. (Pausa) Davide. Davide (muove verso di lui qualche passo come vin cendo un insormontabile ribrezzo fisico). Pietro •— No. Resta li. Meglio non mi tocchi. (Breve silenzio. Sommesso) Davide, ti ho sempre amato. Davide (che ha piegato un ginocchio accanto a lui) — Anch’io. Tanto. Pietro (in un soffio) — La tua anima s’è incarnata come io l’ho chiamata sul mondo. Davide (quasi vincendo un inorridito ribrezzo piega il capo accanto alla spalla di lui) — Lo so. Pietro — Meglio non mi tocchi. Tra noi e voi c’è un gran fossato. Sta lontano. (Pausa. Come mormorando un segreto) Davide, prima di concepirti ho portato il cilicio. Davide (solleva su di lui gli occhi e lo fissa in silenzio, poi, con fervore, mormorato) — Anch’io lo farò. (Breve silenzio). Pietro — Lei non l’ha mai ¡saputo. Poveretta. Davide (con un singhiozzo soffocato) — Mamma! Pietro — Marta. (Breve silenzio) Marta. (Pausa) Or ribile. Davide (tutto scosso da un tremito di orrore e di ribrez zo, sforzandosi a non distaccarsi dal padre) — Sì! Troppo orribile! Pietro (fissa Davide in silenzio. Poi, terribile) — Così. Di me ti resti soltanto questo orrore. Ti forzerà a vincere la carne, quando sarai tentato di negargli il martirio. (Pausa) Io l’ho respinto, e scendo al martirio eterno. Davide — No. Non ancora. Pietro — Orribilmente giusto. Ma te, dal fondo del l’abisso ti vedrò con gli angeli nostri fratelli, vicino a Lui. Mio figlio. (Pausa) Vederlo dappresso, per tutta l’eternità. Davide (mormorato) — Dio di misericordia. Pietro — Gloria a Lui. Davide — Spera. Salvati. Pietro — Non è giusto. Davide —- Lo ami ancora? Pietro — Farò tremare gii inferni, cantando gloria a Lui. Davide (mormorato) —- Se Lo ami, il nemico non può passare. Pietro (in un mormorio) — Dio Padre! Dio Padre! Davide (quasi parlandogli all’orecchio) — Sei salvo. Lo ami ancora? Pietro (in un soffio) — Da morire. Davide — Sei salvo. (Pausa. Lentamente si leva in piedi, lo sguardo fisso su Pietro Rovere che, gli occhi vitrei, sbarrati, volti al cielo, giace immobile riverso sulla poltrona). F IN E DEL DRAMMA Alla prima rappresentazione di questi tre atti, recitati per la regìa di Giorgio Venturini la sera del 25 novembre 1942 al Teatro della Pergola di Firenze, con la Compagnia del Teatro Nazionale dei Guf, le porti sono state cesi distribuite: Salvo Randone (Pietre Rovere): Dan eia Palmer (Marta): Roberto Villa (Davide); Alberto Archetti (Dionigi); Raffaele Giangrande (Ennio); Gianni Santuccio (il Tentatore). Scene di Carlo Serrutini. d é ' fir n ¿ é ~k A mezz’agosto, verso il tardo pomeriggio, a Roma, nella bottega d’arte del cavaliere Galassi, in Piazza di Spagna, Ettore Petrolini è in contemplazione di alcune preziose tele di Anto nio Mancini, di Gioacchino Toma e di Luigi Galli, il pittore pidocchioso mendicante e pazzo, il quale, però, dipingeva da savio e con un pennello prestigioso e delicato, Madonne ePrincipesse, Gesù Bambini e angioletti cicciosi dentro auree ed incantate luci e trasparenze di paradiso. D’improvviso aprendo, anzi spalancando, gli enormi occhi magnetici, Petrolini aveva inco minciato a commentare un quadro del Galli, con la Madonna e il Divino Infante: «Ali il Bambinello. Guardatela quest’innocenza rosea e paffuta! E’ una iscicoheria! ». Poi, di colpo, l’Attore aveva interrotto il monologo ammirativo e, passando ad altro argomento, aveva con tinuato con gravità beffarda e quasi straziata: «Certi critici dicono che sono un comico sguaiato e scurrile. Niente affatto. No! No! Io parlo semplicemente senza sottintesi, perchè sono romano e odio l’ipocrisia. Posso giurare che anche quando facevo le macchiette sui palcoscenici più abietti e miserabili, non ho mai deriso i Sacramenti, non ho mai offeso il Signore, non ho mai mancato di rispetto alla Vergine Santissima ». 1 suoi amici ricordano che il Maestro della satira recitata non solo sul palcoscenico ma pure nella vita quotidiana scherzava di ogni cosa umana, dei cosiddetti grandi iuomini e della loro meschinità: ma rispettava, tra superstizioso e rabbrividito, le cose eterne che •— diceva — sono le uniche. Poiché allora era già nel dominio dell’Eguagliatrice parlava spesso della Morte, impavido come lo sono raramente gli attori. Infermo inguaribile, Petrolini volle e seppe recitare la parte di agonizzante da inimitabile artista. Con un’atroce preveggenza pronosticava la sua fine. Costretto finalmente a mettersi a letto, perchè preso da una gran febbre, Petrolini non aveva voluto spogliarsi, togliersi i pantaloni ed i calzini. Tra un attacco e l’altro del male inesorabile, nelle brevi tregue, parlava di teatro, di «stagioni » e di copioni. E ricordava, smagrito e fantonuitico, la figura di Mustafà, la più tragica più patetica e più commossa delle sue «creazioni ». La sottomessa e fedele compagna della vita e del palcoscenico avrebbe voluto che il suo Ettore potesse riconciliarsi col Signore prima di partire per il gran viaggio. Ma non osava par largliene; temeva di terrorizzare quell’anima sensibilissima, attaccata alla vita e, tuttavia, pre saga dell’imminente fine: temeva di fare un passo falso. Avevo però fatto sapere al parroco dì Santa Maria del Popolo, un pio monaco, che il più grande e più puro discendente, della Com media italiana era in fin di vita. Il parroco avrebbe desideratoi una chiamata dall’infermo, timo roso di una ripulsa. Il buon sacerdote non aveva mai avuto a che fare con attori ed attrici. Li pensava, forse, in sua semplicità, irrigiditi nello scetticismo o nella miscredenza. Gino Carocci, amico di Petrolini, era stato informato della cosa. Preoccupato che il grande artista potesse morire senza Sacramenti ne parlò con monsignor Enrico Pucci il noto sacerdotegiornalista che è, come lo era Petrolini, bibliofilo e collezionista sapiente e idi gran gusto di pitture dell’Ottocento. Don Pucci era in buoni rapporti coni Petrolini col quale faceva, non di raro, lo scopone a Castel Gandolfo quando, informatore vaticano, si recava lassù durante le vil leggiature di Pio XI: assicurò Carocci che, in accordo col parroco, sarebbe andato a trovare il buon amico in giornata. Quando Petrolini fu avvertito che Monsignore desiderava salutarlo si mostrò contentissimo e lo accolse come un fratello, ma con grande rispetto. Monsignor Pucci rimase a lungo al capezzale del malato, lucidissimo di mente e sereno. Dopo averlo confessato domandò se l’indomani mattina sarebbe stato contento di ricevere il Signore nelle Specie Euca ristiche. «Sarò felice — aveva risposto — tanto felice della grazia ! ». Ma il mattino dopo Petro lini era in tali condizioni da non poter ricevere neppure luna particella dell’Ostia. Consacrata. Aori poteva deglutire neppure una stilla (Facqua. Per tre giorni Monsignore andò alla casa del morente col Signore. Lo trovava sempre peggio: temeva di non poter viaticare l’amico, l ’agonia del quale era seguita — con commossa trepidazione — da migliaia e migliaia di italiani che avevano goduto la sua arte incomparabile. La mattina della giornata del trapasso il sacerdote aveva trovato Petrolini più sollevato: poteva parlare; poteva deglutire. Dopo aver pregato in sieme, il sacerdote comunicò il morente, il quale lo ringraziò più con gli occhi pieni di lagrime che colle parole. Il moribondo dopo qualche istante disse alla moglie e al sacerdote: «Ora lasciatemi solo col mio 'Gesù ». I due obbedirono. Passarono cinque, dieci minuti, un quarto (Torà buono. La moglie, il medico, monsignor Pucci, preoccupati, osarono allora aprire la porta della camera, senza far rumore. Ettore Petrolini, s’era vestito da solo, con un sovrumano sforzo di volontà, e si era inginocchiato ai piedi del letto, le braccia alzate, gli occhi in estasi. « Che hai fatto? » — gridò la moglie avvicinandosi al dilettissimo per sollevarlo e riporlo sul letto. Ettore Petrolini si alzò da solo, si buttò tra le braccia del sacerdote, pure commosso alle lagrime. Poi distendendosi sul tettuccio bianco disse: « Ora posso andare all’altro mondo ». Poche ore dopo, l’ineguagliabile Comico spirava, francescanamente sereno e quasi beato. E m ilio Z a n z i B a ila d o e l lu c r i o Qhmto a chiara (ama di Scrittore can oppia di angolato unióle-, coma " Veni’anni ", ’’ (jimia in dsploimmle", "JPmmo àfelle", eco,. Gonade divaro ha iUmile teaenlemmle al leali» una tacila ma inequivocabile dichiarazione d’anime. Bop» eneie iilato pei- alenili anni milico d'tamm,alice dei " Popolo di Roma" (e già aoeea coperto questa (arnione al ’’Jtao'ujimenlo ''), e dopo aver dato alle, Scene una commedia, " Caffè dei Hàòig-anti ", rappreseli, tata dalla Compagnia dell'Eli,reo, Moalo annunzia, infatti, d'aoar la,reiato la critica per dedicara alla creazione, ila altro autore, dunque, iti affiancherà al plotone di punta dei noi),tri migliori, che non. remo pochi, nè poco validi. E, ciò nonostante, si seguilerà a dire e a ripetere che mancano le commedie. Gli attori popolari padovani recitano«Fiorina» del Ruzzante, al Teatro delle Arti di Roma, diretto da A. G. Bragaglia; regìa di Lina Costa. Gli attori popolari padovani recitano «Bilora» del Ruzzante, al Teatro delle Arti di Roma, diretto da A. G. Bragaglia; regìa di Lina Costa. Neda Naldi, nella commedia-parodia in v donna romantica e il medico omeopatico>; tro delle Arti di Roma; regia di Ruggero Daniela Palmer e Roberto Villa, in «Maria Mad dalena» di F. Hebbel, al Teatro Nazionale dei Guf di Firenze; regia di Giorgio Venturini. Daniela Palmer e Salvo Randone, in «Maria Mad dalena» di F. Hebbel, al Teatro Nazionale dei Guf di Firenze; regìa di Giorgio Venturini. Roberto Villa e Salvo Randone in « Loi l’angelo» di Tullio Pinelli, al Teatro Na dei Guf di Firenze; regìa di Giorgio Ve Renzo Ricci e Èva Magni, in «Lorenzaccio» dì De Musset, al Teatro Argentina di Roma; regìa di Renzo Ricci. Nella altre tre fot..] attori; Renzo Ricci e Tino Bianchi; Elsa De Giorgi, Renzo Ricci e Lola Braccini; Giulio Oppi e Gioì versi «La ojacobbi. otta con >1azionale Venturini. Àrina Prociemer, nella commedia di G. Antona Traversi «Le Rozeno» al Teatro Nuovo di Milano; regìa di Anton Giulio Bragaglia. Angelo Calabrese, nella commedia di G. Antona Traversi «Le Rozeno» al Teatro Nuovo di Milano; regìa di Anton Giulio Bragaglia. V IN Laura Adani, in «Madonna Oretta» dì Giovacchino Forzano, al Teatro Nuovo di Milano; regìa dell’autore. agrafie che seguono, nella stessa commedia gli cvanna Galletti. RenataNegri eLuigi Cimara, in «Madonna Oretta» di Giovacchino Forzano, al.Teatro Nuovo di Milano; regìa dell’autore. Ernesto Caiindri, Elena Altieri e Laura Adahi, in «Le due metà» di Guglielmo Zorzi, al Teatro Nuovo di Milano; regìa di Luigi Cimara. IC IO M A R IN U C C I è critico drammatico, da Roma, della nostra rivista. ¡Già critico cinematografico ha collaborato con studi cinematografici a gior nali quotidiani e riviste. Stu dioso di letteratura drammatica ha già dato misura del suo ingegno e della sua cultura con saggi critici :ariviste italiane e americane, naturalmente, per queste ultime, ai tempo dei rapporti di amicizia con gli S. U. Il (Teatro ideile ,Arti di Roma ha rappresentato una sua commedia; un’altra sua comme dia, «Terzetto romantico», è imminente al Teatro ìNuovo di Milano, da parte della Compa gnia Adani-Cimara; il Teatro dell’Università rappresenterà in questa stagione il suo adatta mento- del dramma 'giapponese «Il maestro^ e il discepolo». Studioso, particolarmente, del Teatro irlandese, americano e giapponese ha già fatto cono scere in Italia, sulla scena e nella nostra rivista, alcune del le opere più significative. I let tori nostri hanno già incon trato il nome di Vinicio Marinucci, articolista e traduttore, numerose volte; dal fascicolo scorso lo hanno conosciuto an che come critico. IMarinucci ha ora in preparazione ¡un dramma sulla famiglia Bronte, e parti colarmente su Emily (l’autrice di «La voce nella -tempesta» che pubblichiamo in questo fa scicolo) della quale sta anche traducendo le poesie. G L I A R T I S T I A S S O C IA T I e LA S .A . F L O R E N T I A F IL M PRESENTANO LA REALIZZAZIONE CINEMATOGRAFICA DEL P O E M A EPECO^ S E M B E N E L II S.A.FLORENTIA FILM f e ^ G O R G O N A Poema epico d i SEM BEN ELEI VOLUME DI PAGINE E50 - L.20,0 0 t i V W «M f T E M F ( M a i O C ¥ ¥ c W b b I % Pw e8 P E S E A «^hsP ^ T A Dramma in 3 a tti e 5 quadri d i E M IL IA BRÒNTE-Traduzione e riduzione di aoelchi moltedo Il titolo originale del romanzo della irlandese Emily (Brònte è «Wuthering Heights », e lignifica: «Cime tempestose »; forse anche meglio: «Alture tempestose ». Da questa opera William Wyler ha desunto un film noto a tutti col tìtolo dato ora anche da Adelchi Mol tedo alla riduzione teatrale: «La voce nella tempesta ». Il romanzo uscì, tra l’indifferenza della critica, nel 1847. Un anno dopo l’autrice morì consunta, giovanis sima. Sua sorella Carlotta scrisse allora: «Deperì ra pidamente. Si affrettò a lasciarci. E pure, mentre deperiva fisicamente, moralmente si faceva più forte di quel che non l’avessimo fino allora conosciuta. Di giorno in giorno, vedendo con qual viso affrontava la sofferenza, la guardavo con un’angoscia di mera viglia e di amore. Non vidi mai nulla di simile, ma, è anche vero, non vidi mai chi potesse starle a pari in niuna cosa. Più forte di un uomo, più semplice di un bimbo, la sua era una natura d’eccezione ». La grande personalità artistica di questa scrittrice si ritrova anche nella trasposizione della sua opera, così sullo schermo come sulla scena. Adelchi Moltedo ne ha ricavato questo dramma in tre atti e cinque quadri e la Compagnia delle Arti, diretta da Anton Giulio Bragaglia, i’ha rappresentato in questa stagione teatrale, regista lo stesso Bragaglia, al Teatro Nuovo di Milano il 21 ottobre, ed al Teatro delle Arti di Roma il 14 dicembre XXI. Interpreti: Anna Proclemer: «Ca terina Earnshaw »; iAda Cannavo: «Isabella Linton » (a Roma, al Teatro delle Arti questa parte ha avuto per interprete Micaela Giustiniani); Anita Griarotti: «Elena Dean »; Adolfo Gerì: «Heathcliff »; Mauro Bar bagli: «Martin Earnshaw »; Attilio Ortolani: «Edgardo Linton »; Giovanni Dolfini: «Giuseppe ». V J E 0 R S O M G G X CATERINA EARNSHAW - ISABELLA LINTON ELENA DEAN - HEATHCLIFF - MARTIN EARN SHAW, fratello di Caterina - EDGARDO LINTON, fratello di Isabella - GIUSEPPE. L’azione si svolge nei primi dell’800 in un villaggio del l’Inghilterra. Stanza rustica nella a Tempestosa ». A destra, fin estrone che dà sulla landa, un fondo scala che porta alle stanze degli Earnshaiv ; a sinistra gran camino. Tavola, sedie. I l vento sibila di tanto in tanto, fino al sopraggiungere della tempesta, I l ritratto del padrone, padre di Caterina e di Martin, è appeso alla parete di destra. (Sono in scena Heathcliff, seduto presso il ca mino; Elena e Giuseppe). Giuseppe — Mi domando come tu possa r i manere in ozio a scaldarti le ossa quando tutti gli altri servi stanno fuori. Ma già, sei un buono a nulla; tutto fiato sprecato. Non cambierai mai le tue cattive abitudini. Tu vai dritto alla per dizione, te lo dico io. (-Dà un’occhiata al ritratto) Se fosse qui il povero padrone, pace all’anima sua, ti bastonerebbe a dovere. Possano tutti i diavoli deirinferno darti il castigo che ti meriti. Elena — Sta zitto, vecchio ipocrita. Tientele per te le tue maledizioni. Giuseppe — Io sto qui a sorvegliare il lavoro, ed è bene anzi che pensiate alla salute della vostra anima. Elena — Ma se non fai clie tormentare i con tadini, i servi e tutti quelli che... Giuseppe — Tutti quelli che vivono nel pec cato e senza timor di Dio. Che casa dannata! Il pastore non ci mette più piede, e nessun buon cristiano si avvicinerebbe alla « Tempestosa ». Elena ■ — Per forza! I l padrone non fa che bere e giocare, e basterebbe la gente che fre quenta ad allontanarlo da ogni persona che si rispetti. Giuseppe — Ma tacete! I l padrone è il pa drone, ed è anche troppo buono per gente come voi. Ma la sua pazienza ha dei lim iti, ve lo dico io. M artin (dall’alto della scala) — Glie diavolo succede, Giuseppe? Giuseppe — Succede signore, che questo fan nullone a quest’ora non è ancora andato a la vorare. EMILIA BRONTE M artin (a Heathcliff) — Tieni a mente che tu non sei altro che un servo. E alzati in piedi quando t i parlo. Non c’è più mio padre a pro teggerti ora! Elena — Non è hello, signore, trattare a questo modo un povero ragazzo della stessa vostra età, che vostro padre ha cresciuto come un figlio. Ce l’ha lasciato come un dono di Dio. Giuseppe — Dono di Dio! Misericordia! Elena — Queste furono le sue parole. Giuseppe — Elena basta, se non volete che vi sbatta fuori! Elena — Da molto tempo me ne sarei andata, se non mi fossi abituata a farvi da mamma. Giuseppe — Ma se non fate che proteggere Heathcliff e Caterina e le loro marachelle! M artin — Cosa? GIUSEPPE — Se ne stanno tutto il giorno a gironzolare per i campi, e certe volte fino a tarda notte. Elena — Non è vero, signore, non gli date retta. Giuseppe — Credono che io sia cieco. Non vanno nemmeno più a messa la domenica. E non sono contenti se non ne combinano una delle loro. M artin — Basta! Lo punirete come merita. (Giuseppe ed Elena escono) Un dono di Dio! Bell’idea ha avuto mio padre a raccattarti per le strade di Liverpool! Brutto bastardo. Ti ho detestato dal primo giorno. Sei venuto a usur pare l ’affetto di nostro padre. Non capisco pro prio che cosa trovasse in te. Neanche della gra titudine! M’ero giurato di cacciarti via non appena mio padre fosse morto ; ma guarda come è strana la natura dell’uomo. La tua presenza qui mi aveva torturato e quando è stato il mo mento non ho saputo decidermi a cacciarti... E sai perchè? Perchè voglio assaporare lunga mente la mia vendetta. T ’eri dimenticato eh? che un giorno sarei stato io i l padrone. Adesso torna alla tua cucina, con gli altri servi. Via! (Heathcliff gli passa innanzi) Aspetta! Non posso pensare che mia sorella ti tratti come un suo pari. Dovrebbe vergognarsi di te. E’ vero quanto dice Giuseppe, che invece di lavorare te ne vai a zonzo con lei per la brughiera? E" vero? Rispondi! H e a th c liff — Qualche volta corriamo attra verso i campi come quando eravamo bambini... M artin — Che non ti passi per la testa di farlo un’altra volta! Capito? Caterina (scende dalla scala rapidamente) — Heathcliff! M artin — Via a lavorare! Caterina — No, Martin, non lo mandar via. Voglio che Heathcliff veda il mio vestito nuovo! Guarda: come ti sembra? E le mie scarpe? Elena (che è rientrata con Caterina) — E i suoi capelli! Hai visto i suoi capelli? M artin — Che roba è questa?! Stentavo a riconoscerti. Elena — Sembra proprio una gran dama! M artin — Si potrebbe conoscere la ragione di questa metamorfosi? Caterina — Come, non lo sai? Edgardo Linton verrà da noi a prendere il tè. M artin -— 'Ora si spiega il gran dafare di Elena! Sarà per lu i una gradita sorpresa vederti così. Elena — Purché Caterina riesca a sorvegliare le sue abituali maniere! Caterina — Le mie abituali maniere? Elena — Sai bene che sei una selvaggia! Caterina — ¡Elena, non mi irritare! Sembra che proviate tu tti una gran gioia a contrariarmi. Nessuno ha un Ipo’ di comprensione per me. Non vorrete farmi piangere proprio oggi! Poi mi vengono gli occhi rossi; e io voglio invece che mi trovi graziosa e gentile, come una vera signora, e non una selvaggia. Elena — Sarebbe meglio che facessi vedere un po’ meno il tuo vero carattere. Me ne torno in cucina. Caterina — E’ il meglio che tu possa fare! (Correndo dietro a Elena che se ne va) Elena, Elena, non ti sei arrabbiata vero? Ascolta, non devi arrabbiarti! (Le corre dietro e rientra quasi subito). M artin — Ci voleva anche questa visita di Linton. (Rivolto ad Heathcliff) Cosa fai ancora qui? Sarà meglio che te ne vada in cucina prima che arrivi Edgardo. Sai bene che non ha mai po tuto soffrirti. Caterina — No, Martin, non è vero. Lascia che Heathcliff resti con noi. M artin — In cucina, ho detto! Con gli altri domestici! D’ora in avanti quello è il tuo posto: non dimenticarlo. (Esce). Caterina — Aspetta Heathcliff, non mi hai ancora detto se il mio vestito ti piace. Sono bella? Oh, ma cos’è quell’aria triste e cattiva? Come sei strano. Cos’hai? H e a th c liff — Non posso sopportare che tu mi prenda in giro. Caterina — Ma io non ti prendo in giro, Heathcliff. Heathcliff! Perchè tieni quel bron cio? Ma vedi, se tu almeno ti lavassi un po’, e ti pettinassi... Ma sei così sporco. Ecco, guarda cosa mi hai fatto ! LA VOCE NELLA TEMPESTA H e a th c liff — Non dovevi venirmi vicino. Resterò sporco finché mi darà piacere. Mi piace essere sporco. Voglio essere sporco! Caterina — Ma non me ne importa! Vieni qui, siediti. (Siede e gli prende la testa fra le braccia) Heathcliff brutto! Perchè sei così cat tivo? H e a th c liff — Non devi giuocare con me! Caterina — Ma con chi posso divertirmi un po’ se non con te? Non posso fare un gesto in questa casa senza che qualcuno mi rimproveri. Tutto quello che dico vi dispiace. Ma tu sai che non sono cattiva. H e a th c liff — Sei sempre buona con me, Ca terina? Caterina — Sei sempre buono con me, Heath cliff? Vuoi che ti canti una canzone? Quella che cantavamo da ragazzi, quando eravamo stanchi di giuocare? Mio padre sedeva vicino al fuoco, e noi ci addormentavamo vicino a lui. H e a th c liff — Io facevo finta di dormire, per restare più a lungo con te. Senti... vuoi fare qualche cosa per me? Caterina — Che cosa? H e a th c liff — E’ irragionevole. Lo so, ma... Caterina — Se si tratta di una cosa irra gionevole è inutile chiederla. Ma di che si tratta? H e a th c liff — D i niente! Caterina — T i sei offeso? Non ne avevo l ’in tenzione, Heathcliff! H e a th c liff — Non lo ricevere! Caterina — Era questo che volevi chiedermi? H e a th c liff — Quando viene Linton, fagli dire che sei uscita ! Caterina — No! H e a th c liff — Da tanto tempo non stiamo più insieme come una volta! Caterina — Ma se mi vedi ogni giorno ! H e a th c liff — Lo so, ma non è lo stesso. Caterina — E’ ¡vero, non è lo stesso! Non siamo più bambini e non possiamo passare tutta la nostra vita a rincorrerci per la landa. H e a th c liff — Lo so! Caterina — Com’era bello andare a piedi scalzi, essere liberi come l ’aria e ridere sull’erba tutto il giorno ! Ma ora, Heathcliff, sono diven tata grande e tu hai da lavorare. H e a th c liff — Come se il lavoro non lo avessi sempre avuto ! Caterina — Certamente ce l ’avrai con me per chè non ti aiuto più. H e a th c liff — No! Caterina — Ma sai, debbo aver cura delle mie mani. Quelle di Isabella sono così curate! H e a th c liff — ÀI diavolo Isabella! Caterina — Non voglio certo essere come lei ma non c’è ragione che non debba desiderare d’avere delle belle mani. H e a th c liff — Ma sono già tanto belle! Caterina —■Tu non capisci niente di queste cose. Voglio avere delle mani morbide, dei bei vestiti, e vivere in una bella casa come quella dei Linton. H e a th c liff — Come quella dei Linton? Caterina — Tu non puoi immaginare come sia splendida. Tappeti dovunque, soffitti alti e bianchi, e tanti lampadari di cristallo. H e a th c liff — Non cambierei la « Tempe stosa » con la « Villa » neanche se mi lasciassero Imitare Giuseppe dal tetto e dipingere la fac ciata col sangue di Martin. Caterina — Sentimi, appena Edgardo se ne va mi cambio questa veste e andiamo alle « Rocce rosse ». C’è luna piena e potremo abbracciare di lassù tutta la vallata. Ti piacerà, Heathcliff? H e a th c liff — Sì, Caterina, ma... Caterina — Ma perchè fai questa faccia? pensa: andremo a passeggio insieme non ap pena se ne sarà andato Edgardo. Sei contento? H e a th c liff (la porta verso il calendario ap peso al muro) — Guarda, guarda il calendario. Le croci indicano le sere che hai passato con Linton, e i punti quelle che hai passato con me. Ne ho preso nota ogni giorno. Caterina — E’ ridicolo! Come se avessi potuto accorgermene! Che significa tutto questo? H e a th c liff — Che ho gli occhi aperti! Caterina — Ah! ma questa è bella! Dovrei stare sempre a sederti accanto! Ma se non sai parlare di niente! Te ne stai eternamente muto. Che bel divertimento! H e a th c liff — Non me l’avevi mai detto che non ti piaceva la mia compagnia. Caterina •— Non c’è compagnia quando uno non sa niente e non dice niente! (Esce, per la scala). H e a th c liff (a Elena che attraversa la scena in quell’istante) — Elena! Elena — Dì. H e a th c liff (facendo uno sforzo) — Fammi diventare elegante. Elena — Ma questo non è il momento, ho da fare. H e a th c liff — Dimmi che debbo fare per riuscire meno sgradito a Caterina. Elena — Caterina ti vuol bene. H e a th c liff — Ne sei certa? Elena — Sì! H e a th c liff — Ah! se così fosse! Non è vero EMILIA BRÓNTE che è una creatura meravigliosa? E’ superiore a qualsiasi altro essere sulla terra. Non ti pare? Elena — La mia conoscenza non arriva a tanto. H e a th c liff — Ti assicuro che lo è. Ma come vorrei che non le piacesse Linton! Elena — Linton è un gentiluomo. H e a th c liff —-Fa che lo diventi anch’io. Elena •—• Comincia con l ’andare di là a la varti per avere un aspetto meno selvaggio. Un gentiluomo si lava. Se avessi tempo ti metterei in uno stato da far sembrare Linton un fantoc cio al tuo confronto. Del resto ne ha l ’aspetto. Lo stenderesti a terra in un batter d’occhi. H e a th c liff — Ma anche se lo stendessi a terra venti volte non sembrerebbe per questo meno attraente. Se avessi i capelli più fini e mi ve stissi e mi comportassi come lui, e se avessi la fortuna di essere ricco come lui... Elena — Guardati quelle rughe fra le sopra ciglia, non hanno un aspetto truce? H e a th c liff — Sì. Elena > — Spianale quelle rughe. H e a th c liff — Lo so, ti piacerei con la fronte liscia e coi capelli biondi come Linton. E’ pro prio questo che Caterina ammira. Elena — I l cuore buono potrà renderti il viso attraente. (Pettinandolo) Ma da quanto non ti pettini? Così non ti cadranno più su gli occhi! Guardati, non ti sembri meglio così? H e a th c liff — Sì, forse! Elena — T i si potrebbe scambiare per un principe travestito. H e a th c liff — Un principe! Elena — Perchè no, chissà se tuo padre non era lo Scià di Persia e tua madre una regina indiana... e così ricchi da poter comprare con la rendita di una sola settimana non solo la « Tempestosa » ma anche la « Villa » dei Linton. H e a th c liff — Non dire sciocchezze! Elena — Non dico sciocchezze. Sono certa clic sei stato rapito bambino e che dei marinai sciagurati ti hanno portato in Inghilterra. Che peccato che tu non possa ricordare nulla della tua infanzia! H e a th c liff — Non mi è possibile! Mi pare solo di ricordare qualche cosa che riguarda navi e mari. Ma può darsi che quel ricordo sia un sogno. Quello che so è soltanto questo, la landa, la « Tempestosa », e Caterina. Elena — Ma se fossi te farei credere di es sere di nobili natali. H e a th c liff — Come Linton? Elena — Ma neanche per sogno! Linton non è che un semplice gentiluomo di campagna! Caterina (dalla scala) —- Elena, che ora è? Elena — Quasi le otto! Caterina (discende di corsa) — Ma perchè Edgardo non viene ancora? Accidenti! Elena, sono in ordine? Elena — Stai benissimo! H e a th c liff — Come sei bella! Caterina (u Elena) — Agganciami la collana, non ci riesco da sola. Attenta ai miei riccioli. Elena — Hai visto che Heathcliff si è lavato? H e a th c liff — E’ stata Elena. Caterina — Credevo che fossi abbastanza gran de da saperti lavare da solo. H e a th c liff — D’ora in poi mi laverò tu tti i giorni. (Si ode bussare alla porta. Elena va ad aprire). Edgardo (entrando) — Buona sera, signora Dean. Come state? Elena — Bene, grazie. Favorite! Caterina (correndo incontro a Edgardo) — Edgardo! Edgardo — Cara! Sono venuto troppo presto? Caterina — No! Mai troppo presto. Edgardo — Buona sera, Heathcliff. H e a th c liff — Non mi rivolgete la parola! Caterina — Che tono è questo? Chiedi imme diatamente scusa ad Edgardo! H e a th c liff — Non chiedo scusa a nessuno io! (Esce). Edgardo — Mi congratulo per i modi del vo stro amico : una buona dose di scudisciate non gli farebbero male! Caterina — Supponete allora di avergliele già somministrate! Edgardo — Lontano da me qualsiasi inten zione di criticare. Caterina —• V i stavate già preparando a farlo, sebbene non ve ne fosse bisogno. In fondo Heath cliff non è stato educato come voi. Lui dice ciò che pensa, voi no, e non per questo i vostri pen sieri sono migliori dei suoi. Edgardo — Vi dispiacerebbe se parlassimo d’altro ? Caterina (a Elena) — Che stai facendo, Elena? Elena — I l mio lavoro. Caterina — Non mi pare che sia questo il momento, quando ci sono degli ospiti. Elena — I l signor Linton vorrà certamente scusare ! Caterina — Va via tu e i tuoi stracci. Elena — Tuo fratello non vuole che tu resti sola con il signor Linton. Caterina (incollerita spingendola verso l’u- LA VOCE NELLA TEMPESTA scita) — Non abbiamo bisogno di sorveglianti, te lo ripeto, vattene! Elena —• Ahi! Non hai il diritto di mettermi le mani addosso. Caterina — Ma se non ti ho toccata, bugiarda che sei! Elena — Che cos’è questo allora? Caterina — Vattene, vattene! Edgardo — Calmatevi Caterina ! Non dovete fare così, siete terribile! Caterina — Di che vi immischiate voi? (Lo scosta vivacemente e si butta sul divano). Elena — Vi ha fatto conoscere il suo bel tem peramento. Siatele grato. (Edgardo si avvia verso la porta). Caterina — Dove andate? Non dovete andar vene! Edgardo — Devo andarmene! Caterina — No, non ora. Non dovete lasciarmi in questo stato. M i dispererei tutta la notte. Ma non ho nessuna voglia di straziarmi per voi. Edgardo — Non posso restare dopo quanto è successo! Mi vergogno di voi. Non ritornerò più. Caterina — Va bene. Andatevene se volete! andatevene! Oh! come vorrei morire! (Piange disperatamente). Elena — La signorina è molto capricciosa. E’ meglio che ve ne andiate! Edgardo —- Ma non posso lasciarla in questo stato. Elena, vi prego, lasciatemi solo con lei! (Elena esce. Edgardo si avvicina a Caterina). Caterina! Caterina cara! non piangete più... ve ne prego... non me ne andrò. Resterò vicino a voi. Caterina — Andate via!... non avete detto di vergognarvi di me? Edgardo —■Ho detto ciò che non pensavo! Caterina — E che non volete più tornare a vedermi ? Edgardo ■ — Perdonatemi Caterina, eravate ner vosa... le mie parole inopportune vi hanno esa sperata ancora di più... Voi siete così altera... così bella... io non ho il diritto di giudicarvi. Caterina — Davvero sono bella? Edgardo — Caterina! E potete dubitarne? Caterina — E allora perchè tu tti sono cattivi con me? Edgardo —- Non siete felice in questa casa? Caterina — Felice? Oh Edgardo! Edgardo — Capisco, dopo la morte di vostro padre tutto è mutato in questa casa, lo so. Vo stro fratello vi ha resa la vita insopportabile. Non potete più respirare liberamente. Egli cor re verso la rovina, ed allora che ne sarà di voi? Caterina — Heathcliff saprà difendermi. Da quando è morto mio padre, Martin è stato molto cattivo con Heathcliff, vorrei fosse morto anche lui. Edgardo — Sta bene non nascondere i propri pensieri, ma tutta codesta franchezza mi pare eccessiva, e poi è così difficile comprendere che cosa possiate vedere in Heathcliff. E’ un essere tanto volgare. Caterina — Non dovete parlare così di Heatcliff. (Pausa). Edgardo — Ditemi Caterina : che cos’è per voi Heathcliff? Caterina — Nient’altro che un amico! Edgardo — Caterina cara, fra poco sarò il pa drone della « Villa », sono ricco e renderò la mia casa ancora più degna di voi. Isabella poi avrà per voi l ’affetto di una sorella. E’ molto tempo che volevo dirvelo, ... vi ammiro, vi amo... volete diventare mia moglie? Caterina — Ma... Edgardo — Voi sarete adorata. La vostra feli cità sarà l ’unico scopo della mia vita... voi po trete essere allegra o triste che io non avrò mai da farvi rimproveri. Non chiedo che di avervi vi cina per sempre... Caterina, rispondetemi, vo lete? Caterina — Sì! Edgardo — Caterina mia cara, se sapeste co me sono contento, e anche voi lo siete vero? Caterina !— Ma sì che lo sono! (Si ode un tuono improvviso). Edgardo — Avete inteso? Si approssima un temporale. Caterina — Come imi ¡piacciono i temporali! Sono meravigliosi qui sulle « Cime ». Edgardo — Ricordatevi cara che ho dinanzi a me tre miglia a cavallo nella brughiera. (Lam pi e tuoni intermittenti fino alla fine deiratto) Se debbo tornare alla « Villa » è necessario che mi decida ad andare. Caterina — No, non dovete andare. Edgardo — Non è possibile. Isabella starebbe molto in pensiero. Caterina — Ma, almeno per una volta, di menticatevi di tu tti! Restate con me: guarde remo assieme il temporale. Edgardo — Siete una bambina strana! Ritor nerò domani. Caterina — Potete farne a meno. Non me ne importa. Edgardo — No tesoro, non dovete fare così. M artin (dall'’ulto della scala) — Heathcliff! Giuseppe! Maledetti... chiudete le finestre... c’è il temporale. Dio vi fulmini... Elena (entrando) — Presto, presto signor Linton andatevene, Martin sta scendendo. Se vi EMILIA BRONTE trova qui succede i l finimondo... è ubriaco come il solito. Caterina — Sì, Edgardo, andate! Quando è in questo stato non si riconosce più. Edgardo — Sì... vado prima che mi prenda la pioggia. Buona notte Caterina. Caterina — Vi accompagno fino al cancello. Edgardo — Buona notte, signora Dean. Elena — Buona notte, signor Linton. ( Ancora il tuono. Edgardo esce seguito da Caterina). H e a th c lìff (entra, ridendo di scherno) — Se n’è andato? Elena — Sì, a causa del temporale. H e a th c lìff — Quale temporale? Caterina (è rientrata) — Perchè ridi? H e a th c lìff — No, non rido! Caterina — Ma sì che stai ridendo! Ridi quanto vuoi: Edgardo doveva tornare a causa di sua sorella. Egli è pieno di riguardi per gli altri, ma lo stesso non si può dire di te, Pilo tanto pregato di restare, ma non ha voluto per non contrariare Isabella. Non ti pare una cosa gentile, Elena? Elena — Certo! H e a th c lìff — Anche troppo! Caterina — Dove vuoi arrivare con questi discorsi? H e a th c lìff — Perdi delle intere giornate a prepararti per lui, e lu i invece se ne sta qui appena una mezz’ora. Caterina — Posso forse impedire che venga cattivo tempo? H e a th c lìff — Potresti impedire che se ne accorgesse. Caterina — Allora, secondo te, egli non si cura affatto di me? H e a th c lìff — Non sino al punto di arri schiare di bagnarsi. Caterina — Non potevo attendermi altro. Edgardo ha colpito nel segno. H e a th c lìff — Come? Caterina — Ha detto che sei un essere vol gare e ho dovuto ammetterlo. Per dimostrarti poi che egli non si cura di me, ti partecipo che ha chiesto la mia mano. M i vuole sposare. H e a th c lìff — Sposare? Caterina — Sì! H e a th c lìff — Ma tu? Caterina — Ma io ? H e a th c lìff — Gli hai risposto di no? Caterina —■Gli ho risposto di... sì. H e a th c lìff — No! Non è possibile! non lo permetterò mai! Tu non sai quello che dici. Caterina — So quel che dico. Perchè non do vrei sposare Edgardo? Egli mi ama. Chi altro potrei sposare? T’illu d i forse che potrei spo sare te? H e a th c lìff — No! Caterina — Hai indovinato. Ora' ti dico per chè non ti sposerei. Sposandoti mi degraderei... Capisci? (Heathclìff la fissa e poi esce precipi toso; il tuono si avvicina). Caterina — Heathclìff! Heathcliff! Come sono infelice! Elena (sparecchiando) — Che peccato! Caterina — No! Elena non sparecchiare an cora. Voglio chiamare Heathcliff e mangeremo assieme. Non avevo affatto intenzione di addo lorarlo. Elena — Già! Si è capito benissimo che non ne avevi l ’intenzione! Caterina — Heathcliff! Non vuol rispon dermi ! Elena — E te ne meravigli? Caterina — Dove credi che si sia cacciato? Elena — Forse in soffitta a disperarsi! Caterina — Lascia che si disperi. Mi auguro che si senta infelice come me. Elena — E’ difficile accontentarti, tanti amici, così poche preoccupazioni e ti senti infelice. Caterina — Non essere in collera con me, Eletta! Siediti qui. Come sono preoccupata per Edgardo. Dimmi, ho fatto bene o ho fatto male? Elena — A proposito di che? Caterina — Ad accettare di sposarlo! Elena — A che scopo parlarne? Tanto gli hai già dato la parola! Caterina — Beh! se la prendi in questo tono non dirò più nulla. Avanti! Dimmi se ho fatto male. Elena — Prima di tutto... Vuoi bene ad Edgardo? Caterina — Se gli voglio bene? Ma certo che gli voglio bene. Elena — Perchè gli vuoi bene? Caterina — Che domanda! Gli voglio bene e basta. Elena — Ma questo sentimento avrà una ragione? Caterina — Perchè è simpatico... mi piace la sua compagnia e perchè mi vuol bene. Elena — Tutto qui? Caterina — E allora perchè è ricco, perchè sarò orgogliosa d i avere un marito come lu i e di essere invidiata da tutti. Elena — Queste sì che sono ragioni. Sposati pure il signor Linton. Caterina — Non ho affatto bisogno del tuo consenso, lo sposerò. Soltanto non mi hai detto ancora se faccio bene o male. la voce n e lla tempesta Elena — Molto bene. Ma perchè allora sei così inquieta? Cambierai questa povera e triste casa con una casa lussuosa. Tuo fratello sarà contento, tu vuoi bene ad Edgardo, Edgardo ti vuol bene. E’ tutto chiaro, dove sono le dif ficoltà? Caterina — Qui dentro di me, nel mio cuore, sono sicura di far male! Elena — Capisco sempre meno! Caterina — Elena, hai fatto mai sogni strani? Elena — Qualche volta! Caterina — Ho fatto dei sogni nella mia vita che non mi hanno più lasciata e che hanno mutato le mie idee e mi perseguitano sempre, Elena — La nostra vita è già così triste... Caterina — No, ascoltami. (Ancora tuoni) Se anche fossi in cielo, Elena, mi sentirei tanto infelice ! Elena — Perchè non saresti degna di starci. Caterina — Una volta ho sognato di trovarmici. Ma non mi sembrava la mia vera casa. E mi spezzavo il cuore a forza di piangere e di implorare, perchè mi facessero tornare sulla terra. E gli angeli si sdegnarono talmente che mi scagliarono in mezzo alla landa vicino alla « Tempestosa » ; e mi sono svegliata singhioz zando dalla gioia. I l mio posto non è fra gli an geli del paradiso! Se Martin non avesse così abbrutito Heathcliff non avrei mai pensato a questo matrimonio. Elena — Ma allora è Heathcliff che ami? Caterina — Non lo so ; non è affatto attraente e tante volte l ’odio. Ma so questo solo : lu i ed io siamo la stessa cosa, lu i è me, io sono lui. Linton invece è così diverso. Elena — Ma non appena sarai la signora Linton, Heathcliff perderà tutto quello che gli è caro; ti sei domandata come farai a separarti da lui? Egli resterà completamente abban donato. Caterina — Abbandonato? Separarci? Tu mi credi egoista. Se Heathcliff ed io ci sposassimo, saremmo ridotti alla miseria, mentre se sposo Linton posso aiutare Heathcliff a rifarsi e a sot trarsi al potere di Martin. Elena — Credo che questo sia il peggiore fra i motivi in favore del tuo matrimonio con Linton. Caterina — Per niente. E’ il migliore. Gli altri non erano che capricci miei e di Edgardo. Ma non vedi che se io perdo Heathcliff il mondo mi diventa completamente estraneo, non potrei più farne parte? Oh! Elena, io sono Heathcliff. Egli è sempre nella mia mente, egli è una cosa sola nella mia vita, perciò non parlare di sepa- razione. E’ impossibile. (Tuoni ptù forti e vicini). Elena — Mia cara bambina! se riesco a ca pire qualche cosa di tutto quello che mi dici... mi sembra che tu ignori i doveri che si assu mono sposandosi... così sposeresti Edgardo per amore di Heathcliff? Giuseppe (entra brontolando) — Adesso sì che Heathcliff se la vedrà brutta con Martin. Vado subito ad avvertirlo. Caterina — Dove andate, Giuseppe, il pa drone dorme! Giuseppe — Gli devo dare una notizia che lo farà svegliare del tutto. Caterina — Non voglio che lo disturbiate. Che c’è? Giuseppe — C’è che quel dannato di Heath cliff ne ha fatta un’altra. Caterina — Heathcliff! Che ha fatto? Ri spondi, vecchio ipocrita, o ti graffio la faccia. Giuseppe — Non ve lo consiglio, il buon Dio vi castigherebbe. Caterina (lo afferra per un braccio) — Dov’è Heathcliff? Non ti lascierò finché non me l ’avrai detto ! Giuseppe — Quando quel mendicante andrà ad arrostirsi all’inferno non sarà mai troppo tardi. E’ entrato nella scuderia! Ha inforcato il cavallo gridandomi: « Dì al tuo padrone che ha finito idi calpestarmi ». Caterina — E poi? Giuseppe — E’ uscito al galoppo ed è scom parso nel buio ! Caterina — Se n’è andato! Heathcliff se n’è andato! Giuseppe — Non è un gran male! I l diavolo se lo sarà portato via. Caterina — Ma bisogna riprenderlo, non vo glio che se ne vada! Voglio vederlo. Bisogna che gli parli! Elena — Calmati Caterina! Non sarà lon tano! Ritornerà. Senti che temporale? Caterina — Muovetevi capite? Voglio che lo ritroviate subito! Devo parlargli! M artin (scende la scala) — Accidenti a voi, streghe che siete! Avete deciso d’avvelenarmi il sonno? Che diavolo è accaduto? Elena — Heathcliff è fuggito! M artin — Bene! Che il diavolo se lo porti! Caterina — Sei un demonio! M artin — Finiscila di gridare, se non vuoi che ti lappi quella bocca maledetta. Caterina — Tu l ’hai fatto andar via! Sei stato tu! Via anch’io me ne andrò! (Correndo verso l'uscita) Heathcliff! Voglio vederti! Non voglio che te ne vada! (Tuono). EMILIA BRÒNTE M artin — Hai sentito che t i ho detto? (Le corre dietro, l’afferra e la scuote). Caterina — Lasciami, ubriacone! Lasciami! Heathcliff! (Gli sfugge e esce di corsa). Elena — Caterina, Caterina! M artin •— Se ne è andata : che un fulmine l’accompagni! Meglio, non li vedremo più! ¡Giuseppe — Oh! Signor Iddio ricordatevi nel diluvio universale, risparmiate i buoni devoti cristiani come me; e distruggete i peccatori. (Il tuono è sempre più forte). I riNE DEL PRIMO a tto | QUADRO P R IM O (Salotto in casa Linton, molto lussuoso. A si nistra, una finestra che dà sulla landa. Porta a destra, porta in fondo. Camino a destra, divani, poltrone. Elena prepara il tè; Isabella è alla fi nestra con un libro tra le mani). Isabella (romantica) — Cime tempestose! Come si stagliano cupe contro il cielo. Elena — Latte, pane, marmellata. Isabella — In tu tti i dintorni non c’è nulla di paragonabile a « Cime tempestose ». Elena — Mi pare che siano diventate la vo stra mania. Isabella —- Non si tratta di mania. Le amo. Elena — Coltelli, cucchiai, tovaglioli. Isabella —• Le « Rocce rosse » una mia ma nia! Anche Edgardo non vuole che le nomini. Elena — E allora perchè lo fate? Isabella — Non crederete certo che ne parlo per disobbedire a mio fratello. Naturalmente non ne parlo mai in presenza di Caterina, per chè le voglio Lene e per evitare che si agiti. Elena —■Non dovete parlarne in nessun modo. Isabella — Via, Elena, ditemi qualche cosa della « Tempestosa ». Elena — Non c’è nulla da dire. E’ una casa fredda e desolata che ha visto tanti morti. E come tutte le vecchie case è venuta anche la sua fine. Isabella — Ma si sono raccontate tante cose dopo la scomparsa di Heathcliff! Raccontano in fatti che il suo spirito... (A Caterina, che sta entrando) Se sapessi che libro avvincente è questo. Caterina —- Davvero? (Elena esce). Isabella — Non ti piacciono i lib ri della si- gnora Radcliff? « I misteri di Udolfo »? « L’or fana del castello » ? Quanto mi piacciono i suoi romanzi! Sono al tempo stesso terrificanti e gentili. Caterina — Ho paura che non mi interessino molto. Isabella — Ma dovresti leggerli, « I misteri di Udolfo ». I l fatto si svolge in un castello fre quentato dagli spiriti. E come è hello il prota gonista. E quanti spiriti vanno vagando per le sale dopo il tramonto. M i piace anche la prota gonista. Non ha buona salute e i medici di sua zia complottano per ammazzarla : ma non rie scono nel loro intento. Caterina — Come fai a saperlo? Isabella —- Ho dato una scorsa alle ultimo pagine. Ma anche se non lo avessi fatto, l ’avrei indovinato ugualmente. Nei romanzi della si gnora Radcliff i buoni non muoiono mai. Caterina — Se scrivessi un romanzo, farei uccidere tu tti i buoni dai cattivi. Isabella — Via, Caterina, non sarebbe bello. Caterina —■Lo sarebbe. Isabella —- Sarebbe orribile ed ingiusto. Non credi che i buoni finiscono sempre per trion fare? Caterina — Sì. E credo che sia questo che li rende così sicuri di essere buoni. Isabella — Non è possibile che la pensi ve ramente così. Caterina — Oh! in fondo in fondo, non me ne importa. Isabella — In ogni modo devi leggere « 1 misteri di Udolfo ». Caterina — Non ne ho proprio voglia. Isabella — Eppure ero convinta che li avre sti letti, perchè il castello somiglia tanto... alla « Tempestosa ». Caterina — Alla «Tempestosa »? Isabella — Sì. Caterina — Ma la « Tempestosa » non è abi tata dagli spiriti. Isabella — Eppure molti dicono di sì. Caterina — Smettila di parlare della « Tem pestosa ». Isabella — Perchè? Caterina — Ho fatto di tutto per dimenti carla. Isabella — Certe volte, quando sei così me lanconica, mi domando se non hai nostalgia di tornare lassù. Caterina — Non posso dimenticare i l tempo della mia infanzia. Fra poco scende la sera, vengono accese le candele, Giuseppe legge la Bibbia con voce monotona, e i cani abbaiano fuori. LA VOCE NELLA TEMPESTA Isabella — Cara, andiamoci una volta tutte due. Esploriamola. Ci debbono essere dei r i postigli segreti. Caterina — Non montarti la fantasia. Isabella — Ma sì cbe ci debbono essere. Quasi vorrei scrivere un romanzo su quella ca sa. Giuseppe nc sarebbe il fantasma e la prota gonista troverebbe un cadavere a pezzi nel bosco dietro la casa. Caterina — Hai letto troppi romanzi. Isabella — E’ così piena di mistero. Tutti gli abitanti di Gimmerton ne hanno paura. Dicono che è piena di spiriti e dicono anche die sia visitata dallo spirito di HeathclifL Caterina — Heathcliff non è morto. Isabella — Ma se non hai mai ricevuto sue notizie da quando è fuggito, e sono passati tre anni ormai, come puoi dire che non è morto? Caterina — Lo so. T i dico che lo so. Isabella — Naturalmente non credo a quello che dice la gente, perchè gli spiriti non esistono. Giuseppe però giura che nelle notti di vento lo spirito di Heathcliff vada a battere alle imposte e supplica di lasciarlo entrare. Caterina — Basta! Finiscila di dire stupidag gini, sono tutte bugie e non d credo. Isabella — Ma, Caterina... Caterina — Heathcliff non è morto. Elena! Elena (affacciandosi) — Che hai? Che ti è accaduto ? Caterina — Accendi le candele. Elena — Ma sono appena le quattro e mezzo. Caterina — E’ già così buio. Dov’è Edgardo? Elena — I l signor Linton è andato a Gim merton. Forse per avere notizie del puledro. Caterina — Prepara il tè. Elena — Ma tu tremi. Che hai? Ti senti male ? Isabella — Cara, cara! (Caterina esce, agi tata). Elena — Ma che le avete detto? Isabella — Nulla. Parlavamo di lib ri ed il discorso è caduto per caso sulla « Tempestosa » e su Heathcliff. Elena — Le avete parlato di Heathcliff? Isabella — La colpa è vostra perchè non mi avete voluto raccontare nulla sulla « Tempe stosa ». Elena, tante volte credo che Caterina voglia ritornare lassù. Nelle nostre passeggiate non distoglie mai gli occhi dalle « Cime ». Elena — lo invece credo che la signora è felicissima di trovarsi qui. Isabella •— Non è vero. Caterina ha un ca rattere chiuso. Non dice mai quello che pensa, ma l ’indovino. Oggi ho accennato di proposito a Heathcliff per vedere come avrebbe reagito. Ed ho capito subito che non ha dimenticato. Elena — Dimenticato? Chi? Isabella — Lui. Erano così buoni amici. Elena — Si volevano tanto bene. Erano cre sciuti insieme. Isabella — Chissà se è morto! Elena — Perchè questo vi interessa tanto? Isabella — M’interessa; è una storia tanto strana, come un romanzo. Elena — Dovreste vergognarvi di torturarla con dei ricordi dopo che il signor Linton ha fatto di tutto per cancellarglieli dalla mente. Se lo sapesse, andrebbe certamente in collera. Isabella — Non avrete certo l ’intenzione... (Si interrompe; in quel momento entra Edgardo) Hai comprato il puledro? Edgardo — No, non l ’ho neanche visto. Ne avevo l’intenzione, ma è accaduto una cosa piut tosto incresciosa. Isabella — Che è accaduto? Edgardo — Dov’è Caterina? Isabella — E’ su. Vado a chiamarla. Edgardo — Preferisco che per il momento non sia qui. Isabella — Ma che è accaduto? Edgardo — Si tratta di Giuseppe. Stamattina l’hanno trovato in giro come pazzo per la bru ghiera. Elena — Ma dov’è ora Giuseppe? Edgardo — In casa Holhum. Giovanni l ’ha trovato tutto sporco di fango e mezzo asside rato. I l dottor Kennet dice che ha dovuto rima nere fuori l ’intera notte. Isabella — E’ spaventoso! L’hai visto? Che faceva? Edgardo — Era steso a terra, borbottando pa role sconnesse come un idiota. Quando ho cer cato di parlargli ha dato un grido tale di paura, un grido tale... Isabella — Dio mio... Edgardo — Elena, avete visto per caso vagare degli estranei nei dintorni? Elena — No, signor Linton: nessuno. Edgardo — La notte scorsa è stata vista una strana luce alla « Tempestosa ». Isabella — Una luce? Chi te l ’ha detto? Edgardo — Un contadino, che si trovava a passare sotto la casa e che ha notato una luce vivissima alla finestra d’angolo nell’ala di mez zogiorno. Elena, non era quella la finestra della camera di Caterina? Elena — Sì, proprio quella. Edgardo — Anch’io ritenevo così. Isabella — E’ una cosa davvero eccitante! Se Giuseppe potesse parlare! Forse è veramente EMILIA BRONTE infestata. Poco prima dicevo infatti a Caterina che la « Tempestosa » pare... Edgardo — Ma non ti avevo pregata di non parlare mai a Caterina della « Tempestosa »? Isabella — Te lo giuro: non sono stata io. Stavamo conversando ed Elena ha detto... Edgardo — V i ritenevo più prudente, signora Dean. Isabella — Ma non è stato detto nulla. Sono anzi sicura che Caterina non ci ascoltava. Edgardo — Non ditele neanche una parola di quello che ho raccontato ora, Elena, siamo intesi ? Elena — Sì, signor Linton. Neanche una pa rola. Edgardo — E il tè? E’ già tardi. Elena — Ve lo servo subito. Aspettavamo appunto voi. Edgardo — Benissimo, veniamo giù fra poco. Isabella — Edgardo, ti era mai accaduto di sentire qualche cosa di così misterioso? (Isa bella ed Edgardo escono. Dalla finestra entra Heathcliff, e Elena lo vede senza riconoscerlo). H e a th c liff —- Elena! Elena —- Sei tu? H e a th c liff — Non mi riconosci? Guarda, sì, io! Elena — Oh! Vederti all’improvviso mi ha spaventata. H e a th c liff — Non mi dai neanche il benve nuto ? Elena — Ma come hai fatto ad entrare? H e a th c liff — Non sei contenta di rivedermi? Elena — No, non lo sono affatto. Perchè sei tornato? H e a th c liff — Dovresti saperlo. Elena — Vattene subito, non hai diritto di turbarla. Lei è felice con lui. H e a th c liff —- Menti, non può essere felice. Elena — Ho sempre temuto il tuo ritorno. Ed esso disgraziatamente è avvenuto. Vattene, per carità! Se rimani, soltanto male potrà venirne. H e a th c liff — Non voglio fare del male a nes suno, ma debbo vedere Caterina ad ogni costo. Portami da lei, Elena. Elena — 'Non posso. I l signor Linton è con lei e poi ho paura. H e a th c liff — Paura di Linton? Elena — No, paura dell’emozione che lei pro verebbe rivedendoti. H e a th c liff — Allora ha sofferto per la mia assenza? Elena — La notte che sei fuggito ti è corsa dietro come una forsennata. E’ stata quasi per morire. L’abbiamo trovata l ’indoniani bagnata sino alle ossa. Delirava, disperata per la tua scomparsa. Per giorni e giorni è stata fuori di sè. H e a th c liff — Se l ’avessi saputo ! Elena — Ed ora che lo sai, lasciala in pace. H e a th c liff — Neanche per sogno! Elena — Vattene, se Caterina ti sta vera mente a cuore. Non sta bene. Da quella notte non è più stata bene. Un altro attacco di febbre può ucciderla. Così ha detto il dottor Kennet. H e a th c liff — I l dottor Kennet vaneggia e tu menti. Hai fatto lega con Linton. Ma non riesci a farmi andar via con le tue menzogne. Debbo vederla assolutamente! Elena — Calmati, ti sentiranno. H e a th c liff — Lascia che mi sentano. Elena — Se sei deciso a non andartene, dammi almeno il tempo di avvertirla; non ti chiedo troppo. H e a th c liff — Ma lo fai subito? Elena — Sì. Ma vieni con me. Non debbono trovarti qui. Vieni? (Esce con Heathcliff; r i torna poi con Caterina, Edgardo e Isabella) Si gnori, il tè è servito! (Caterina va alla finestra). Caterina — Come è già scuro! Le giornate sono così corte e l ’estate non è ancora passata. Elena (piano a Caterina) — Senti, ho qual cosa da dirti. Edgardo -— Ma, Elena, avete dimenticato lo zucchero? E’ assurda una dimenticanza di tal genere! Tanto valeva che aveste dimenticato anche il tè. Elena — Scusate, lo porto subito. (Esce). Edoardo — Caterina, vuoi chiudere la fi nestra ? Caterina — Perchè? La sera è così bella. Edgardo —■Ho paura per te, fra poco si alze ranno le nebbie. Caterina — Non ti preoccupare sempre della mia salute. Senti come sembrano lontane le cam pane di Gimmeton... Elena (rientrando) — Ecco lo zucchero. Edgardo — Desidero che in avvenire siate più attenta. Vieni a prendere il tè, Caterina? E’ stata veramente una bella giornata. Caterina (andando verso il tavolo) — Oh! le tue tartine, Elena, come sono belle! Edgardo — Mangiane almeno una; lo sai quello che ha detto il dottor Kennet. Caterina — Proverò. Le hai certamente infor nate tu. Ma che hai? Elena — C’è qualcuno che vuole vederti. Edgardo — Chi è? Elena — Una persona, un uomo. Caterina — E che vuole? Elena — Non lo so. Edgardo — Ditegli di attendere. LA VOCE NELLA TEMPESTA Caterina — Ma io lo conosco? Elena — Sì. E’ una visita inaspettata. E’... Caterina (eccitata) — No, Elena, non è pos sibile! E’ lui? Edgardo! Edgardo! Edgardo — Che c’è? Caterina — Heathcliff è tornato ! Edgardo — Aneli e se è così non c’è motivo di eccitarsi in quel modo. Caterina —- Lo so che non ti è simpatico, ma devi diventargli amico per amor mio. Lo faccio entrare. Edgardo — Dove, qui? Mi sembra che il luogo più adatto per uno stalliere sia la cucina. Caterina — La cucina? E dovrei ricevere i miei amici in cucina? Metti due tavole qui, Elena, una per il tuo padrone e la signorina, l ’altra per Heathcliff e per me che siamo di un rango inferiore. Edgardo — Ditegli di entrare, Elena... E tu, Caterina, fai in modo di (mostrarti contenta senza essere assurda. Non c’è bisogno di dare spettacolo a tutta la casa dell’accoglienza che fai ad un servo fuggitivo come se fosse tm fratello. Caterina — Vuoi ad ogni costo farmi arrab biare. Ma non ci riesci, ti assicuro che proprio non ci riesci. (Entra Heathcliff, Caterina gli va incontro) Heathcliff! Edgardo, c’è Heathcliff! Edgardo (freddamente) — Accomodatevi pure, signore. La signora Linton, ricordando i tempi passati, mi ha pregato di ricevervi cordial mente. Sono lieto di accontentarla perchè que sto le fa piacere. H e a th c liff — Grazie. Caterina — T i ricordi di Isabella? H e a th c liff — Certo. Isabella — Anch’io mi ricordo di voi. V i ve devo sempre alla a Tempestosa ». Caterina (a Heathcliff) — Domani penserò che tutto questo sia stato un sogno. Non sarò capace di credere che ti abbia veramente rivi sto. Ma non ti meriti affatto un benvenuto. Sta re assente ed in silenzio per tre anni, senza mai pensare a me! H e a th c liff — T i ho sempre ricordata, non c’è stato un attimo in cui non abbia pensato a te. Edgardo — Caterina, i l tè si raffredda. E poi credo che i l tuo amico debba camminare a lungo per raggiungere questa sera i l suo alloggio. H e a th c liff — Non preoccupatevi per me. (A Caterina) Ho saputo del tuo matrimonio. Volevo rivederti, regolare i conti con Martin e farmi giustizia. Ma ora so che tu non mi hai dimen ticato... Caterina, la mia vita è stata molto dura da quando ti ho lasciata. Caterina — Dove sei stato? (Osservandolo attentamente) Come sei cambiato! Tutti dice vano che eri morto, che il tuo spirito vagava alla « Tempestosa », ma non ci ho mai creduto. Dove sei stato? H e a th c liff — Ho navigato. Isabella — I l mare! Ho letto tante cose sul mare! Come deve essere bello. H e a th c liff — Sì, hello, ma pieno di tanta solitudine. Isabella — Siete stato anche in India? Ho sempre pensato che l ’India debba essere così in teressante. Caterina — Ma che importa dell’India? Dim mi, quando sei tornato? H e a th c liff — Ieri notte. Caterina — E perchè non sei venuto qui? Dove hai dormito? H e a th c liff — Alla « Tempestosa ». Caterina •— Hai visto Martin? H e a th c liff — Sì. Caterina — Come t’ha accolto? H e a th c liff — L ’ho trovato che stava giocando con degli amici. Ha voluto che giocassi con loro e quando ha saputo che ero tornato con molto denaro ini ha invitato a rimanere alla « Tempe stosa ». Caterina — Hai accettato? H e a th c liff — Sì. Caterina — Non avrai dimenticato il male che ti ha fatto! H e a th c liff — Desidero essere in buoni rap porti con lui. Sono troppo affezionato alla casa dove siamo cresciuti assieme. Edgardo — Avete visto se Giuseppe era li? H e a th c liff — Sì, c’era. Ed è rimasto molto sorpreso nel rivedermi. E’ venuto ad aprirmi e quando s’è accorto che ero io s’è messo ad urlare come un ossesso ed è fuggito; scommetto che ha creduto di vedere un fantasma. Caterina (scoppia a ridere istericamente) — Un fantasma? Già, è stato sempre la sua idea fissa che tu eri ritornato all’inferno e alle streghe. Edgard.o — Smettila di ridere. Smettila ti dico! Giuseppe è stato trovato pazzo stamane! Caterina (smette di ridere) — Pazzo? E’ la giustizia; abbiamo sempre odiato Giuseppe e come ci siamo torturati i l cervello per trovare il mezzo di punirlo! Ed ora giustizia è fatta! Edgardo — Signore, rendetevi conto che mia moglie è ammalata. La vostra venuta è stata mol to inopportuna, perciò vi prego di andarvene immediatamente. Isabella — Edgardo! H e a th c liff — Sta bene. Vado, ero venuto solo per vedere Caterina. (Esce). EMILIA BRÒNTE Isabella —• Oh! Edgardo, non mi sono mai sentita così mortificata. Edgardo —■Mortificata? Isabella ■ — Come hai potuto essere così scor tese? Edgardo — Con quel bastardo? Isabella — Non chiamarlo così. E’ un genti luomo. E’ così bella la sua fedeltà per Caterina. Io lo ammiro. QUADRO SECONDO (Stessa scena del Quadro Primo. Edgardo, in piedi, sta parlando ad Elena che entra da destra). Edgardo — Elena, sapete dove la signora Linton e Elisabetta andranno oggi con Heathcliff? Elena — A Dixton H ill. Anzi vi faranno co lazione. Edgardo — L’idea non è malvagia. Elena —■Pare anche a me. Edgardo — Quanto tempo sono stati fuori ieri? Elena — Circa tre ore. Edgardo — Sono preoccupato per la salute di Caterina. Non mi pare che tutto questo moto possa farle bene. Ecco perchè ve l ’ho domandato. Elena —- Eppure mai è stata bene come ora. Edgardo — E’ vero. Che giornata magnifica! Elena (esitante) — Signor Linton... Edgardo — Che c’è Elena? Elena (e. s.) — Signor Linton... Edgardo — Che c’è, dite! Elena — Perchè avete permesso ad Heathcliff di frequentare la « Villa » ? Edgardo — Perchè questo era un desiderio di Caterina. Elena — Fatelo mandar via dal paese. Edgardo — Non posso, lo sapete. Elena — Potete però proibirgli di venire qui. Se non lo fate... Edgardo — Se non lo faccio? Elena — Accadrà qualcosa di spiacevole. Ne sono sicura. Edgardo — Grazie del vostro consiglio. Ma vi assicuro che non ne avevo bisogno. (Esce. Entra Isabella singhiozzando). Isabella (a Elena) — Mettete molta legna nel camino; ho freddo. Elena — Sì, signorina. Non vi sentite bene? Isabella — M i sento benissimo. 'Elena — Non avete mangiato nulla a cola zione. Isabella — Non avevo fame. Elena — Siete troppo nervosa. Isabella — Nervosa! M i chiama nervosa! I domestici non mi ubbidiscono, Edgardo mi tra scura, Caterina non mi lascia far nulla. Una schiava in casa di mio fratello, ecco quella che sono. Scommetto che l ’avete fatto apposta a la sciar spegnere il fuoco. E con tutto questo non vi sembra più che naturale che sia nervosa? Se non mi ammalo è proprio un miracolo. Ed è anche un miracolo che non sia morta. Elena — Ha dovuto certo accadervi qualche cosa. Non è nelle vostre abitudini agitarvi senza ragione. Isabella — Agitarmi senza ragione! Mi par late come se fossi una bambina! Tutti mi trat tano da bambina ed io non lo sono! Elena — V i comportate invece proprio come una bambina. Isabella — Elena! Basta. Ricordatevi che sono sempre Isabella Linton. Caterina (entra) — Isabella, tesoro mio, co mincio a parlare proprio come un romanzo! Che stai facendo Elena? Spegni quel fuoco! Qui si soffoca. Apri le finestre e lascia entrare il sole. Che giornata magnifica e quanto mi sento felice! Elena — La signorina Isabella si stava lamen tando... Caterina — Si lamentava? Ma non ha proprio nulla da lamentarsi. Le voglio tanto bene e vo glio bene anche a te, Elena. (Elena esce). Isabella — T i dispiace chiudere quella porta? Caterina — Ma la giornata è così calda! Isabella — Allora vado a chiuderla io. Dov’è Edgardo? Caterina — Ma cosa vuoi che ne sappia! Isabella — Non mi piace il tono che usi quan do parli di mio fratello. Caterina — Come! Ma se gli voglio tanto bene. E’ tanto caro e tu pure sei tanto cara. Isabella — Non ti ho domandato la tua opi nione nei miei riguardi. Caretina — Ma io ti voglio bene. Isabella — Aspetti Heathcliff? L’ho indovi nato! Caterina —- Spero che venga. Faremo una bel lissima passeggiata. Isabella — Sono certa che avrai apprezzato la condotta di Edgardo. Caterina — Nei riguardi di chi? Isabella — Di Heathcliff. Edgardo non lo vede di buon occhio e tuttavia gli permette di venir qui. Caterina — Ma anche se non lo permettesse Heathcliff verrebbe lo stesso. Tuo fratello non ha nessun potere di vietare a Heathcliff di ve nirm i a trovare. Isabella — No, credo di no. (Singhiozza piano). Caterina — Ma che hai? Isabella — Nulla. Caterina — E allora perchè piangi? la voce n e lla tempesta Isabella — Non piango. Sono raffreddata. Isabella •— Basta. Non ho nessuna voglia Caterina — Vorrei sapere che cosa ti contra d’ascoltarti. ria. Ti ho fatto qualcosa? E’ tutta la mattina Caterina — Ed invece è un uomo cattivo e che cerchi di attaccare lite con me. Forse non brutale. stai bene veramente, tesoro mio. Allora vattene Isabella — Smettila con le tue maledette subito a letto. Non è prudente venire oggi a pas menzogne. Vuoi indurmi a credere che non c’è seggio con noi. bontà nel mondo, e a vedere le cose come le Isabella — T i vuoi sbarazzare di me! vedi tu, tutte nere. Caterina — Sbarazzarmi di te! Bambina! Caterina — Voglio che tu conosca la verità. Come puoi dire una cosa simile! Effettivamente Isabella — No, tu sei egoista e perversa. Ti non stai bene. Vieni, ti metto a letto. odio e non parleresti in tal modo di Heath Isabella —- Non voglio andare a letto. Non cliff se non fossi gelosa! sono ammalata. Non è vero che ho il raffreddore. Caterina — Gelosa di te? Per Heathcliff tu Sei tu che mi rendi infelice, con la tua cattiveria ! non conti nulla. Caterina —-Io? Ma sei pazza! Quando sono Isabella — Lo so, ma egli potrebbe amarmi stata cattiva con te? se tu glie lo permettessi. Isabella — Ieri e adesso. Caterina —- Lo credi? Sta bene. Ho voluto Caterina -— Ieri? soltanto avvertirti. In fondo, sei una bambina. Isabella — Mentre passeggiavamo per la lan Isabella — Non mi chiamare bambina. Sono da. Mi hai detto di andare a fare due passi dove una donna. meglio mi piaceva, mentre tu hai continuato a Elena (entrando) — C’è Heathcliff. (Entra camminare con Heathcliff. Heathcliff in abito da passeggio. Elena esce). Caterina — Ci era perfettamente indifferente Caterina — Benissimo. Vieni Heathcliff, il che tu fossi o non fossi vicino a noi. Credevo solo tuo arrivo è veramente a proposito. Stiamo li che i discorsi di Heathcliff potessero annoiarti. tigando da un pezzo e tutto questo per i tuoi Isabella — Annoiarmi? No, mi hai mandata begli occhi. via, perchè sapevi che desideravo restare. Isabella — lo me ne vado, Caterina. (Tenta Caterina — Ti posso ripetere la nostra con di svincolarsi, ma Caterina la tiene ferma per versazione parola per parola; mi dirai quali un braccio). erano gli argomenti che ti interessavano. Caterina — Heathcliff, Isabella deve dirti Isabella — Che vuoi che ine ne importi della qualche cosa. vostra conversazione? Desideravo solo... Isabella — Te ne scongiuro, Caterina. Caterina — Solo? Caterina — Sono fiera di mostrarti final Isabella — Essere con lui. Non voglio asso mente qualcuno che ti adora più di chiunque!... lutamente che tu continui a mandarmi via. Sei Isabella — Caterina! come un cane geloso del proprio osso! Tu sola Caterina — Questa povera piccola si sta spez vuoi essere amata! zando il cuore per la tua bellezza morale, ci Caterina —- Insolente! Ma è buffo. Non pos siamo baruffate per te come due gatte ed io so credere che tu abbia messo gli occhi su sono stata completamente battuta. Heathcliff. Isabella — Grazie della tua sincerità, ma Isabella — Lo amo ! Lo amo più di quanto lasciami andare. tu ami Edgardo. Ed egli mi amerebbe, se tu Caterina — Nemmeno per sogno. Non voglio non ti opponessi! essere più chiamata un cane geloso del proprio Caterina — Davvero? osso. Isabella sostiene che il mio amore per Ed Isabella — Sì. Caterina — In tal caso non vorrei esser pro gardo non è niente rispetto a quello che lei prova per te. prio nei tuoi panni. Isabella — Caterina! Isabella — Perchè? Caterina — Figurati che è digiuna da ieri Caterina — Così. Isabella — Dimmelo: perchè? sera, perchè mi sono permessa di allontanarla Caterina — Tu non lo conosci: sta in guar dalla tua compagnia, e privarla dei dolci ac dia, non ti fidare di lui. centi -della tua voce! (Isabella esce di corsa, Isabella — Non è vero, è buono e generoso. piangendo). Caterina — Che ne puoi sapere, piccola scioc H e a th c liff — Che scopo avevi a tormentare ca? Tu immagini che la sua aria triste nasconda così quella povera bambina! tesori d’amore. Caterina — Volevo solo punirla della sua EMILIA BRONTE impertinenza. E le voglio troppo bene per la sciare che cada nelle tue mani. H e a th c liff — E’ orribile come i suoi occhi somiglino a quelli di Edgardo. Caterina — Orribile? Delizioso, vorrai dire, sono occhi d’angelo, di colomba. H e a th c liff (brusco) — Sei pronta per uscire? Caterina — Sì. Che giornata meravigliosa. Elena ci ha preparato una buona colazione per la nostra gita. Ma guarda che smemorata! Mi dimenticavo della nostra piccola Isabella. Figu rati che disperazione! La chiamo? H e a th c liff — Fa come vuoi. Caterina — Desideri che ci accompagni? H e a th c liff — Sì, perchè no? Caterina — Sta bene, non avrai preso sul serio quello che t i ho detto di Isabella. H e a th c liff — Oh! no. Caterina — Lo so che non ho fatto bene a tormentarla. Ma è giovane e alquanto oca e tu sai che le voglio bene. Voglio che ti persuada che ho scherzato, la cosa è assurda. H e a tfic liff — E allora, perchè ne parli? Caterina — Lei è veramente innamorata di te. Ma si tratta di una infatuazione fanciullesca. H e a th c liff — Smettila di parlare di lei. Usciamo? (Pausa). Caterina — Non ci tengo più. H e a th c liff — Ah! Bene. Caterina — Non sei mai stato così insoppor tabile. H e a tfic liff — Io? Caterina — Oh, Heathcliff, come sei cam biato! Quando sei tornato, ho creduto di essere nuovamente felice ed invece mi hai dato sol tanto amarezze. H e a th c liff — E tu che mi hai dato? Poche parole cortesi ed il permesso di venire alla villa. Caterina — Heathcliff! H e a th c liff — Mi hai condannato all’inferno e mi chiedi di dimenticare il mio tormento. No, non voglio e non posso perdonare. Quelli che ne sono capaci non sentono nulla. Io posso solo ripagare col male, quello che gli altri mi hanno fatto. Caterina — Quale è allora la mia sorte? Come quella di Giuseppe, oppure vuoi appen dermi per i capelli ed accendermi dei carboni sotto i piedi? Isabella ha un bel trattato sulle torture. Fattelo dare in prestito. H e a th c liff — Tu sai come torturare, senza bisogno di ricorrere ad istruzioni. Caterina — Già, e così? Forse ho sofferto anch’io. H e a th c liff — Te lo meritavi e se hai vera mente sofferto ne sono felice. Vorrei farti sof frire di più, farti provare tutto l’inferno che ho provato io. Caterina — Vaitene! M i fai paura! Lo so che vorresti farmi del male. Isabella ed io oggi usciremo sole. M i pento per il modo con cui l ’ho trattata in tua presenza e voglio farle le mie scuse. Ma tu è meglio che te ne vada. (Esce, rientra Isabella). Isabella — Debbo parlarvi. Sono così morti ficata per tutto quello che ha detto Caterina, chissà che avrete pensato di me. Spero che non le avrete creduto. H e a th c liff — Allora non era vero? Isabella — No. Ma guardatevi da Caterina, non credo alle o rrib ili cose che ha detto sul vostro conto. Ha parlato contro di voi. Ha un cuore perverso. H e a tfic liff — Quello che ha detto Caterina è esatto, signorina Linton. Isabella — Se fosse capace di comprendere il vostro carattere, allora riconoscerebbe tutta la vostra bontà. H e a th c liff — Che cosa vi fa pensare che io sia buono? Isabella — La vostra grande devozione per Caterina, e la pietà per il povero Giuseppe. Tutto questo esprime la vostra nobiltà d’animo. H e a th c liff — Siete una sciocchina, Isabella. Isabella — V i ho forse fatto arrabbiare? H e a th c liff — Che vi ha detto Caterina? Che ho raccolto Giuseppe per pietà? Isabella — No, per un altro motivo; per qualche cosa di terribile. H e a th c liff — E’ la verità. Isabella — No, non è possibile. Non posso crederci. Non volete che la gente vi creda buono. Ma io vi comprendo, Heathcliff. H e a th c liff — Allora non avreste paura di sposarmi? Isabella (interdetta) — Mi amate? H e a tfic liff — V i ho soltanto domandato se vorreste sposarmi. Dovreste vivere alla a Tem pestosa ». Isabella — La « Tempestosa » è così roman tica. H e a th c liff — Un giorno o l ’altro potreste cambiare idea e convincervi che Caterina ha ragione. Sono proprio come mi ha descritto. Se mi sposerete temo che sarete infelice. Isabella — No, Heathcliff, non potrei mai essere infelice. H e a th c liff Può darsi, allora volete ve nire con me? Isabella — Ora? la voce n e lla tempesta H e a th c liff — Non aspetterete che vi diano il consenso! Isabella — Ma non ho nulla di pronto. H e a th c liff — Non avete bisogno di nulla. Avrete un mantello, è sufficiente. Isabella — Che cosa emozionante! Fuggir mene all’insaputa di tutti! e Caterina fuori di sè. M ’avete parlato sul serio? Non ci credo, non posso crederci. H e a th c liff — Su, uscite presto. Vi raggiun gerò subito e resteremo al « Tarling » sino a quando non saranno fatte le pubblicazioni. Isabella — No, no. Edgardo non me lo per donerebbe mai. ( Voce di Caterina: « Isabella! ») Sta venendo. (Istintivamente gli si stringe ad dosso. Caterina entra e li scorge abbracciati). Caterina — Heathcliff... Isabella!... Isabella — Non ho più nulla da dirti. (Esce alteramente). Caterina — Che cosa le hai detto? Non vor rai approfittare di Isabella! H e a th c liff — Non vorrai darmi ad inten dere che ti preoccupi della sua sorte. Caterina — Invece, me ne preoccupo moltis simo. Che le hai detto? H e a th c liff — E’ così semplice. Voglio tutti i beni del mio vicino. Caterina — Ma i beni di questo tuo vicino sono miei. H e a th c liff — Non lo saranno sempre. Caterina — Isabella non possiede nulla. H e a th c liff — Quale suo marito posso ac campare dei diritti. Intendo ottenere ciò che mi è dovuto da Edgardo, da te e da tutti i miei nemici. Caterina — Allora consideri anche me come tua nemica. H e a th c liff — Sì. Caterina — Ma perchè sei tornato? Quando eri via avevo almeno il tuo ricordo. Sapevo che in qualche parte del mondo c’era qualcuno che io amavo, ma ora non ho più nulla. (Heathcliff le si avvicina, Vabbraccia, ma Caterina lo re spinge con disgusto) Non mi toccare! Esci di casa mia ! Isabella non la vedrai più. Preferisco vederla morta anziché tua moglie. Edgardo [entra mentre Caterina sta per an darsene) — Non mi aspettavo proprio di tro varti qui. Elena mi aveva detto che volevi fare una gita a Dixton H ill. Caterina — Abbiamo cambiato idea. Heath cliff se ne va. Edgardo — Veramente? Mi sorprende. Ep pure mi era parso che pensavi a questa gita con tanto piacere. Caterina — Già. {Heathcliff s’avvia per uscire). Edgardo — Heathcliff, aspettate un momento. Nell’entrare ho inteso le ultime parole di Ca terina. Caterina — Sei proprio sicuro che non stavi ad origliare alla porta? Edgardo — Sono stato oltremodo paziente, ma vorrete convenire che anche la pazienza ha un limite. H e a th c liff — Un limite? Edgardo — Sì. E se le vostre visite alla « V il la » vi sono servite da pretesto per circuire mia sorella... Caterina — Che pretesto! Ma eri cieco a non vedere che le sue visite erano per me? Ma è bene che tu sappia che Isabella è innamorata di lu i ed è stata sul punto di commettere una pazzia. Edgardo — Non voglio crederlo a nessun co sto. Ad ogni modo vi proibisco d’ora innanzi di metter piede in casa mia. Non ho mai avuto della simpatia per voi. Lo sapete, ma dopo quanto è accaduto comprendo che ila vostra presenza è un veleno morale per la mia casa. Esigo quindi la vostra partenza immediata se non volete che vi faccia cacciare dai miei servi. H e a th c liff — Proprio così, non ho più nes sun motivo di tornare qui e vi prometto che non metterò più piede nella vostra casa. Addio. [Esce). Edgardo — Spero che avrai finalmente sco perto la vera indole del tuo amico. Caterina — Ma ho scoperto anche la vera indole di mio marito. Edgardo — No no, non sono così cieco come credi. Io so che tu ami Heathcliff. Caterina — Che cosa te lo fa pensare? Edgardo — La tua gelosia per Isabella! (Suo na il campanello). Caterina — La mia gelosia per Isabella! Quando mi preoccupavo soltanto di proteg gerla ! Edgardo — Non sono sicuro che tu l ’abbia fatto soltanto per amore di mia sorella. Tu ami Heathcliff, Caterina. Forse è la tua male dizione come l ’amarti è la mia. Elena (entrando) —• Avete suonato, signore? Edgardo — Dite alla signorina Isabella di venire subito da me. (Elena esce). Caterina — Che vuoi da Isabella? Edgardo — E’ più che naturale che le parli subito. Voglio sentire da lei che cosa ci sia di vero in questa ridicola storia. Caterina — E se lei ti confessa che tutto è vero ? Edgardo — In tal caso... EMILIA BRÒNTE Elena (entrando) — Se ne è andata: ho tro qui per lavorare come una serva e dormire in una soffitta. vato questo foglio nella sua camera. Isabella — Martin, è vero che Caterina sta Caterina (dopo aver letto) — Se ne sono per morire? andati. M artin — Ogni cosa si sconta, la fine. Edgardo — E' impossibile. Isabella — E si è ammalata a causa della Caterina (porgendogli il foglio) — Leggi! mia fuga. Che ho fatto... Martin che ho fatto! Edoardo — No, non voglio leggerla. I l mio cuore è tornato alla « Villa » un’ora dopo Caterina — E allora che decidi di fare? che ne ero partita. Elena — Non devono essere molto lontano. M artin — Non è posto per te, perchè ci sei Caterina — Hai ragione. Saranno ancora nel parco. Manda tutti i servi a cercarli e a farli venuta? Isabella — Martin, voglio fuggire. Non ne tornare indietro, mentre siamo ancora in tempo. posso più di vivere in questo inferno. Mio figlio Edgardo — No. nascerà lontano di qui e lui non lo vedrà mai, Elena — Ma, signor Linton! Edgardo — No, che se ne vadano. Non è par capisci? M artin — Lo dici per dire. Sei troppo debole. tita di sua spontanea volontà? Caterina — E’ una bambina. Non sa la gra Ma io ho sopportato abbastanza. Per un uomci vità del suo atto. Egli si vendicherà su di lei che non ha più niente da sperare è una piace vole tentazione. in modo atroce. Isabella — Che cosa? Edgardo — Quell’uomo non era tuo amico? M artin (mostrando una pistola) — Non posso Ormai tutto ciò mi è indifferente. Caterina — Non lo credevo capace... gli più separarmi da quest’arma. M’è diventata più avevo detto di lasciarla stare; credevo mi cara di un figlio. Ogni notte salgo alla sua ca avrebbe obbedito, ma è capace di tutto, ora mera. Se una volta trovo la porta aperta, è lo so, lo odio! (Si getta alle ginocchia di Ed spacciato. Isabella — Ma non puoi far niente. Costrin gardo) T i supplico, Edgardo, salva tua sorella. gilo ad andarsene. Pensa che ogni minuto favorisce la loro fuga! M artin — Si è radicato qui ormai. Ma devo Riderà di noi! Io non voglio! (Si volge rapida a Elena) Elena, presto scendi, chiama i dome dunque perdere tutto? Se io oggi muoio, Heathstici, bisogna raggiungerli, cosa aspetti? Io im cliff diventa il padrone di « Cime tempestose ». pedirò questo delitto, comprendi? Io li costrin Isabella — E in che modo? gerò a ritornare e li ucciderò. M artin)— I l gioco! Ho ipotecato fin l’ultimo Edgardo — Caterina, basta. Se Isabella se ne metro di terreno. E mio figlio cadrà sotto que è andata vuol dire che lo desiderava. D ora sto miserabile bastardo raccolto in un vicolo innanzi non sarà più mia sorella. Ma quel ba di Liverpool? No, io riavrò i miei beni. Se lo stardo dovrà pure pagarla. Preghi Dio di non lasciassimo fuori tutta la notte sotto la neve, incontrarsi sul mio cammino. che ne pensi? Caterina (gli si butta ai piedi, con angoscia-, Isabella — Fa come vuoi. — No, non voglio... non voglio, che tu gli fac M artin — Aiutami. Abbiamo un conto aperto cia del male. con lu i; basta con le debolezze. H e a th c liff (di fuori) — Martin, che succede là dentro? M artin (a Isabella) — Sei anche tu come tuo fratello? Sopporterai tutto fino alla morte? Isabella — No, sono stanca di sopportare. Ma mi fai paura! Stai attento! M artin — Ma se non ci difendiamo è la morte e la rovina per noi! QUADRO P R IM O H e a th c liff (di fuori) — Sbrigatevi ad aprire! (La stessa scena del Primo Atto, alla « Tem M artin — Senti come batte alla porta! Sembra pestosa ». Isabella e Martin parlano tra loro. Isa bella ha l’aspetto di vittima rassegnata alla sua già il padrone! Isabella, è l ’ora. Saremo liberi sorte; Martin invece ha lampi di odio negli oc dopo, liberi! (Si avvia verso la porta con la pistola in mano). chi e accenti di collera nella voce). Isabella — No, non lo toccare! Lascia stare Isabella — Come sono stanca, Martin! la porta! M artin — Non lo credevi così, eh! Sei venuta LA VOCE NELLA TEMPESTA M artin — Tu l ’ami ancora, perdio? Ma io farò giustizia per tutti. H e a ttic liff (sempre di fuori) — Volete mi surare la mia collera? Isabella — Fuggi. Martin vuol ucciderti. H e a th c liff — Fai meglio ad aprire, sgual drina! (Isabella apre. Heathcliff si precipita den tro, devia il colpo di Martin) Ubriacone, ti inse gnerò io a fare il vigliacco; è passato quel tempo, adesso tocca a me. Va su. (Martin si allontana barcollando. A Isabella) Tu cospiravi contro di me, vipera? Che cosa fai lì, invece di lavorare? Isabella — Dio, come vorrei essere morta! Se almeno avessi un poco di bontà per me. Non posso soffrire che mi odii. H e a th c liff — Non fai altro che piangere. Isabella — E che altro potrei fare? Mi hai distrutta la vita! H e a th c liff — Ti sono passate le idee roman tiche, eh? Isabella — Allora non avevo vissuto ancora tra queste pareti. E non potevo sapere che cosa realmente fosse. E’ una casa lugubre e la odio. Se avessi saputo... Non ho lasciato tutto per te? Pensa a quello che avevo, una casa, dei servi, e ho rinunciato a tutto per che cosa? H e a th c liff — Smettila!... Isabella — Che cosa è diventata la mia vita? Esilio! Anche i vicini non mi rivolgono la pa rola. H e a th c liff — Una volta eri tu che non la rivolgevi a loro. Isabella — Contadini e straccioni! Che vuoi che mi importi della loro indifferenza? H e a th c liff — E’ questo che hai scritto nella lettera a tuo fratello? Isabella — Quale lettera? H e a th c liff — Hai mandato una lettera alla « Villa » a mezzo del piccolo Tom. Ho visto quando gliela davi. Isabella — Sì, ho scritto ad Elena. H e a th c liff — Hai raccontato ad Elena la tua infelicità e la cattiveria di tuo marito? Isabella — Come lo sai? Allora hai letto la mia lettera. H e a th c liff — Perchè avrei dovuto leggerla? Conosco le lamentazioni di voi donne. Imma gino che avrai invitato Elena a venire qui. Isabella — Sì, aspetto proprio lei. Sono di sperata e divento pazza se non vedo qualcuno di casa. H e a th c liff — E che diresti se non la la sciassi entrare? Isabella — La lascerai entrare. Scommetto qualunque cosa. H e a th c liff — Che cosa ti dà questa certezza? Isabella — Perchè desideri vederla come me. Caterina è ammalata e tu l ’ami sempre. Vuoi avere sue notizie. Per questo la lascerai entrare. H e a th c liff — Basta! Isabella — Non ne posso più! Sei un mostro! H e a th c liff — Un tempo mi credevi nobile e generoso! Isabella — Ero pazza. Ma ora ho aperto gli occhi. Hai raccolto Giuseppe e lo lasci vivere per lo stesso motivo che lasci vivere me; vuoi fare del male a tutti, a Caterina, a Edgardo, a me più di tutti. H e a th c liff — Ne ho abbastanza delle tue chiacchiere! (Bussano alla porta). Isabella — Dev’essere Elena, vado ad aprirle. H e a th c liff — Fermati. Vado io. (Apre, entra Elena) Ti attendevamo. Entra. Elena — Grazie. Lo sapevo. Isabella — Edgardo vi ha dato una lettera per me? H e a th c liff — Se hai qualche cosa per Isa bella, dagliela. Non occorre far misteri. Non ci sono segreti fra noi. Elena — No... Gli ho detto che m’avevate scritto e che desideravate rivederlo... Isabella -— Allora? Elena — M’ha risposto che ormai siete divisi per sempre. Isabella — Non so più a chi chiedere aiuto. H e a th c liff — E Caterina? Dimmi, Elena, come sta ora? Elena — E’ appena convalescente. H e a th c liff — E la causa del male? Elena — Lo sai quanto me. Bisognava evi tarle ogni emozione. I l dottore lo aveva racco mandato da tre anni. H e a th c liff — Che muoia! Che muoia! Si è uccisa da sè. Non credere che io sia responsa bile della sua morte. Ma del resto che me ne importa? Elena — Quando le è stata comunicata la tua fuga è stata fuori di sè per alcuni giorni. Da allora il suo stato è assai grave. H e a th c liff — E ora? Elena — Sono sicura che non la riconosce resti più. H e a th c liff — Bisogna che la veda... che le parli... non posso restare più a lungo lontano da lei. Elena — Se hai un po’ d’amore per lei evita di vederla, non ritornare più sulla sua strada. H e a th c liff — Aiutami, Elena, debbo rive derla ad ogni costo. EMILIA BRÒNTE ___ Elena — Non contare su me. Un nuovo in contro fra te e Linton finirebbe con ¡’ucciderla. Perchè vuoi turbare la sua guarigione e imporle il tuo ricordo, quando ti lia quasi dimenticato? H e a th c liff — Dimenticato? Ma sai bene che non è vero. Per ogni pensiero che ha per suo marito ce ne sono mille per me. Come sono stato sciocco a credere che potesse preferire un altro a me. Ella si cura di Linton quanto del suo cane o del suo cavallo. E come potrebbe amarlo? Isabella — Caterina ed Edgardo si vogliono bene. T i proibisco di calunniare cosi mio fra tello. H e a th c liff — Sì, fai bene a difenderlo! Vedi come si preoccupa di te! Isabella — Non sa quanto soffro. H e a th c liff — Sei tu che l ’hai voluto. Elena — Sii buono. Pensa, Heathcliff, che Isabella ha abbandonato tutto per seguirti. H e a th c liff — Perchè s’era illusa. Caterina non ha fatto che rivelarle la mia cattiveria e la mia brutalità, ma niente ha potuto trattenerla. E come avrebbe fatto Caterina ad amare un uomo così profondamente perverso? Secondo lei io ero un agnello travestito! No! Tu non appartieni al nostro mondo. Noi amiamo con tro tutto e malgrado tutto, e non sappiamo che farcene delle vostre ipocrisie. Isabella — T i detesto... H e a th c liff — Ah, è così? Ma se ti lascio per un giorno tornerai da me singhiozzando e supplicando, e mi pregherai di batterti! (Tonfi e grida si odono dal piano superiore). Elena — Sei pazzo! Heathcliff! Che cos’è?... H e a th c liff — E’ Giuseppe. Vedi? La giu stizia! Vado a farlo tacere. (Via). Isabella — Elena, Elena, ti supplico, non dire a mio fratello come mi tratta ; Heathcliff vuole spingerlo alla disperazione! Elena — V i batte? Isabella — Non mi batte, ha repulsione per me, e perciò non mi tocca mai. Non mi batte, ma vorrei clic lo facesse, sino a farmi morire. Elena — Anche voi parlate come lu i! Isabella — E te ne meravigli? Elena — Coraggio, Isabella. Calmatevi; vo lete che vi porti con me? Venite via, lasciate Heathcliff e questa casa spaventosa. Isabella — No, non voglio lasciarlo. Elena — Allora, perchè mi avete scritto quella lettera? Isabella — Non lo so, forse perchè mi sentivo scoraggiata e avevo bisogno di conforto. Ma non ti sei accorta che io amo Heathcliff, che lo amo senza rimedio? Elena — Lo amate ancora? Isabella — E’ la mia disperazione. Sa Iddio se ho provato a dimenticarlo, ma è stato impos sibile. E’ come se mi avesse stregata. Sono nulla nelle sue mani. Questa è la verità. Farei qua lunque cosa perchè egli mi amasse. Ma Cate rina ha il suo cuore e non potrò mai distoglierlo da lei. Ed io la odio, Elena, la odio. QUADRO SECONDO (Salottino in casa Linton. Caterina è distesa sul divano, morente. Edgardo le offre un mazzo di erica. Elena sta ritta ai piedi del letto). Caterina — Sono i prim i fiori delle « Cime ¡empestose » !... Mi ricordano i prim i raggi tie pidi del sole. Non viene vento dal sud, non è comparsa la neve? Edgardo — Non c’è più neve qui, mia cara. Un tempo, Caterina, avrei voluto tenerti sem pre con me, ma oggi vorrei che tu fossi sulle colline. L’aria è così pura lassù che presto sa resti guarita. Caterina — Non andrò più sulle colline; quando ci tornerò ci separeremo. Ci resterò per sempre. Edgardo — Non parlare così, il dottor Kennet m’ha detto che la tua guarigione ormai è que stione di settimane. Non essere così abbattuta. Ti abbiamo portata qui nel salotto perchè non voglio che tu resti in quella camera dove hai tanto sofferto. Caterina — Non voglio più ritornare in quella orribile camera. Edgardo — No, mia cara, non ci ritornerai più, te lo prometto. Caterina — Sei buono Edgardo, dovrei pro prio guarire, curata come sono, presto ringra zierai il cielo per la pace che tornerà nella tua casa; ritornerai ai tuoi libri, tranquillo; non ti verranno più a tormentare i capricci di Cate rina Linton. Edgardo — Devi vivere, Caterina, tua figlia ha bisogno di tutto il tuo affetto. Caterina — Che cosa gli dirai di sua madre? Povera piccola, abbandonata così presto. Edgardo — Abbandonata? Ma siamo tu tti qui a vegliare su di lei. Caterina — Mi sembra così debole, ha biso gno di tutte le tue cure. Edgarboì — Ma no, è così bella e sana! Caterina — Possa un giorno ripagarti di tutto il male che ti ho fatto. Edgardo — Non parlare così, ti prego. (Si ode scampanìo lontano). Caterina — Perchè le campane di Gimmerton suonano con tanta insistenza? LA VOCE NELLA TEMPESTA Caterina — Sì. Edgardo — E’ domenica, mia cara. La funzio Elena -— Ecco! Vuoi che la legga io? E’ di ne sta per cominciare. Heatbcliff. Caterina — Domenica... Caterina — Heatbcliff... Elena... lui! Edgardo — Ora vado, ti prego, riposa. (A Elena — Vorrebbe vederti. E’ giù nel giar Elena) Restate vicino alla signora. Vado a chia dino che aspetta un mio cenno per salire. Cosa mare il dottor Kennet. (Esce). Caterina — Elena, non te ne andare, resta devo fare? Tutti i domestici sono in chiesa. Ma eccolo, non ha potuto attendere. (Entra Heathcon me. cliff). Elena — Non vado via. Caterina —- Heathcliff! Caterina (estrae piume dai cuscini) — Una H e a th c llff — Cathy! (Si abbracciano). piuma di anitra... una di colombo... una di pa Caterina — Siamo di nuovo uniti. Non te ne voncella... pavoncella... come vola alta nel cielo, in mezzo alla brughiera. Un giorno di inverno andrai mai più, vero? H e a th c liff — Cathy! vidi un nido di piccoli uccelli morti. Heathcliff Caterina -— T’ho chiamato. Hai inteso i miei ci aveva messa una trappola cd erano morti di fame. Gli feci promettere che non ne avrebbe sospiri nella notte? H e a th c liff — Perchè m’hai imposto il tor mai più ucciso uno. Elena — Su, smettila con queste fantasie, mento di vivere lontano da te? Caterina -— Non avrò pietà. Perchè non do chiudi gli occhi e cerca di dormire. Caterina — Ho paura di dormire. I miei vresti soffrire? Non soffro io? Ma tu mi di sogni mi spaventano. Non dir niente e resta menticherai? H e a th c liff — Non mi torturare! con me. Se potessi essere nel mio letto, nella Caterina -— Si finisce sempre per dimenticare. vecchia casa... con il vento che agita gli abeti H e a th c liff — Sei pazza, perchè parli così? vicino alla finestra. Lasciameli sentire... Elena — Caterina... Caterina — Fra dieci anni quando tutto di Caterina (alzandosi a stento dal divano e por me sarà scomparso, tu dirai: « Questa è la tomba tandosi alla finestra) — Solo un momento... viene di Caterina Linton, una volta l ’amavo, tanto dalla landa... lascia che lo senta sul viso. Da tempo fa, e sono stato così infelice quando l ’ho perduta ». Ma il dolore passa con il tempo. Non quanto tempo sono inalata, Elena? è così che dirai, Heathcliff? Elena — Saranno tre mesi domani. H e a th c liff — Come ti accanisci a straziarmi ; Caterina — Vorrei essere fuori. Nei vento, vorrei essere ancora la ragazza selvaggia, intre sai bene che tutte queste parole mi resteranno pida e libera, e ridermi del male. Perchè sono impresse nella carne. Che ti importa che io così cambiata? Ritornerei me stessa là nella mi consumi nell’angoscia, quando tu riposerai in pace? brughiera, sulle mie colline. Guarda! La mia Caterina — Mai potrò riposare in pace. No, camera! Come è lontana. Non lasciarmi sola Heatbcliff. Se tu verrai, ti terrò sempre con me, amor mio, tu non devi avere sofferenze più amare anche se mi metteranno dieci metri sotto terra delle mie. Perdonami. Non mi hai fatto del e mi faranno crollare addosso la chiesa io non male. Lo so che mi amerai sempre e che non avrò pace fino a che non mi sarai vicino. potrai amare nessun’altra. Elena — Non parlare tanto! Ritornerà la H e a th c liff — Perchè m’hai disprezzato? Nè febbre e non potrai più alzarti, ed allora non la miseria, nè il delitto, nè la morte avrebbero potrai più guardare le « Cime tempestose » nean potuto separarci. Tu eri mia... non dovevi di che da lontano. viderti dal mio amore. Caterina — Ma perchè non viene? Aspetta Caterina — Anche tu m’hai abbandonata. Ma forse che io vada da lui? io non li rimprovero. Ti perdono. Perdonami. Elena — Sei sfinita, torna a letto. H e a th c liff — T i perdono il male che mi Caterina — No, devo andare da lui, non hai fatto. Ma come perdonarti il male che hai posso restare vicino a Linton, lontano dalla fatto a te stessa? mia casa. Caterina — Io non voglio morire! Non voglio Elena — Se sarai calma, forse verrà, me l'ha morire ! promesso. H e a th c liff — Posso ridarti la vita se vuoi Caterina -— Se sarò calma? vivere. Elena (dandole un biglietto) — Ecco una let Caterina (estatica) —• Sì, sì, si, fuggiamo... tor tera per te. Vuoi elle te l ’apra io? niamo alle « Cime tempestose » ! H e a th c liff — R i troveremo tutto quello che abbiamo perduto. Caterina — Torne remo nella landa fra l ’erica in fiore. Elena — I l padrone sta per tornare! Pre sto! Nasconditi finché non sarà rientrato. Caterina — Non vo glio che te ne vada; portami alla finestra a rivedere le « Rocce ros se ». H e a th c liff — Ma tuo marito sarà qui fra un istante. Caterina (imploran te) — Non te ne an dare. H e a th c liff — Cal mati, Cathy, resterò. (La porta alla finestra). Caterina (con lan guore estatico) — Le « Rocce rosse »... il nostro castello... (Muo re fra le braccia di Heathcliff). Edgardo (entrando) —- Caterina! (Ad Heathcliff, con ira) Che avete fatto?! H e a th c liff (voltan dosi) — Non la toccate. Essa non vi appartiene più. Edgardo (con dispe razione) — E’ morta ! L’avete uccisa! H e a th c liff — Che bisogno ha delle vostre lacrime? Ora è mia. (Sempre stringendo fra le braccia Caterina, si volta nuovamente alla finestra, con lo sguar do lontano sulla landa deserta, come se Vanima della morta lo chia masse a sè dall’alto delle « Cime tempesto se »). FINE DEL DRAMMA L’ultimo giorno del 1942 è morto Uberto Paimarini. Un uomo e un attore senza fortuna. Quando lo conoscemmo noi, nel 1915, ci parve una creatura prediletta dal Cielo, tanto irreprensibile era la sua ele ganza; ma subito ci stupimmo per il contrasto di vederlo recitare, quasi tutte le sere, parti di vecchio. Fra questi prediligeva i peggiori : cadenti um iliati infelici disgraziati. E aveva un apposito corredo, non occasionale, ma minuziosamente preparato, per vestirli; si compiaceva, per la scena, dei cenci nati cenci. Sembrava provasse una gioia, e certo doveva essere così, a rendere più pietosi quei disgraziati giacche a taluni personaggi aggiungeva, come per annientarli, anche offese fisiche non necessarie. Era nato vecchio e viveva da vecchio; ma nella vita, abbigliandosi da giovane con estrema raffinatezza, sembrava un aristo cratico ammalato di malinconia. Quell’anno, il primo di Quaresima — inizio di « triennio » per tutte le Compagnie — si riuniva la nuova formazione Ferrero-PalmariniCelli-Pieri, nella quale avevamo trovata « scrittura » Umberto Melnati e noi entrambi non ancora diciottenni. Aspiravamo, naturalmente, alle « alte vette dell’arte » e im bottiti dagli insegnamenti appresi dai grandi che avevano molto sofferto prima di raggiungere la gloria, tro vavamo naturale mangiare il meno possibile, mantenendoci in piedi con molta volontà e le tre lire il giorno anticipate sulle sei che avremmo percepito se il pubblico avesse fatto più credito a quella numerosa ditta. Ma forse mai si erano trovati uniti quattro attori tanto diversi. Di Uberto Paimarini abbiamo detto temperamento e inclinazioni; Ernesto Ferrerò avrebbe a suo modo fatto ridere, quale a brillante », se gli avessero permesso di recitare tutte le sere La zia di Carlo; Maria Le tizia Celli avrebbe strabiliato gli uditori, a volerle credere, se l’avessero lasciata avvolgere in un peplo ad ogni recita; di Vittorio Pieri, sareb bero state apprezzate le qualità di « caratterista » se Paimarini, primo attore, non lo avesse schiacciato col peso dei suoi tremendi rottami di vecchiaia. Era dunque una Compagnia dove ognuno parlava un lin guaggio diverso, ma i cpiattro capocomici lo ignoravano, convinti che il disinteresse veniva loro dalla incomprensione della « provincia » pel le eccezionali doti artistiche di ognuno, e che la a città » col suo pub blico progredito, ci avrebbe salvati tutti. Noi aspettavamo la città con gli occhi che si dilatavano sempre più nel viso fatto soltanto con i due buchi delle guance. Venne la città: Napoli. La raggiungemmo da Bergamo, con un viaggio simile a un naufragio. L’esordio era per la vigilia di Natale, se condo la consuetudine. Arrivammo nel vicolo dei Fiorentini il pome riggio di quella vigilia. Nulla era più lontano da Napoli, nell’euforia della festosa ricorrenza, come la Compagnia di prosa che da quella città attendeva la salvezza. Entrammo in teatro almeno due ore prima del necessario, storditi dai rivenditori, dagli scoppi a « tric-trac » dei ragazzi, dalla folla con pacchetti che impediva di camminare, dalle vetrine ricolme di vivande festonate di strisce colorate. Avevamo la sciata la valigia nella cameretta d’una casa d’affitto, sull’angolo di piazza Municipio, il cui marciapiedi era una siepe di rivenditori im pazziti nel superarsi alla voce. Solo il Teatro dei Fiorentini ci sembrò oasi di pace con quel custode già in accordo con Dio, seduto fuori dalla porticina di sinistra, sull’angolo dei due vicoli, sotto la pensilina liberty. Egli salutava, dicendo a eccellenza » a tutti gli « artisti » che entra vano; salutò così anche noi. Uberto Paimarini era già in teatro, nel suo camerino, intento a preparare le brache cadenti del protagonista di Fiamme nell’ombra. Sentendo il nostro saluto, rispose affabilmente con un suo vezzeggia tivo abituale per i giovani della Compagnia: a addio, omarino ». Noi avremmo dovuto dire, alla recita, poche parole al terzo atto; manca vano almeno cinque ore. Ma ne aspettammo solo tre, fino a quando il cav. Erminio Scalerà, amministratore del principe di Santobuono, pro prietario del teatro, vestito di nero con cappello a bombetta, baffi bian chissimi alla Vittorio Emanuele Secondo e colletto inamidato alto nove centimetri, venne a dire che « il Natale potevamo farlo ognuno a casa nostra, dal momento che il pubblico era stato della medesima opi nione ». I l vecchio attore Brignone, suocero di Paimarini « secondo carattere » della Compagnia, che indossava sempre magnifici e vistosi panciotti di colore, ci spiegò come quell’annuncio volesse significare in gergo teatrale che avevamo fatto « forno » e non si recitava. Venti persone, rese mute, uscirono nel vicolo dei Fiorentini e si incamminarono in direzioni diverse sulle loro ombre. A noi non rima neva che raggiungere la camera e la valigetta. Ma prima di sbucare sulla piazza che fa da bocca d’imbuto al vicolo, sentimmo giungere Paimarini alle spalle. Cercò di essere allegro; ma si capiva che faceva quello sforzo per la prima volta, a Dove vai, omarino? ». ((A casa». «Dove hai trovato camera? ». Dicemmo l’indirizzo, un augurio e la buona notte, consumando così lutto il fiato che ci rimaneva. A casa, bocconi sul letto, impazzivamo per le. grida dei rivenditori nella strada. Più forte di tutti e cento e mille volte, ininterrotto, era il grido dei rivenditori di anguille e capitoni: i vivi e i rnuorti dicevano, sintetizzando la spiegazione dei pesci uniti nello stesso mastello. A poco a poco quelle grida diventarono un trapano nel cranio. Non si poteva resistere. La porta della camera si aprì e fummo invitati dalla padrona a scendere subito, giacche il commendatore della Compagnia aspettava nel portone. Giungemmo davanti a Paimarini e ci sembrò un topo che sorridesse dallàmpio bavero di pelliccia. « Hai mangiato? ». Non r i spondemmo. « Sono venuto a prenderti per questo, omarino ». E ci prese a braccetto. Attraversammo piazza Municipio; finalmente — a poco a poco — le grida dei vivi e i muorti si affievolirono e si persero nell’aria, uscendoci dal cervello. Sorridemmo la prima volta, pochi minuti dopo, quando in una luminosa trattoria il cameriere domandò se volevamo mangiare, se condo la tradizione, il capitone di Natale. rid . [ £ r i e ★ Autori italiani all’estero: di Alessandro De Stefani, è stata rappresentata al «Landestheater » di Salisburgo, la commedia: Mattinata d’aprile; di 'Luigi Bonetti, è stata rappresentala allo «Schmtspielhaus » di Fran coforte sul Meno, la com media: Cicero. La stessa commedia è stata rappresen tata al «Tentro Mie » di Bu carest; di Giovacchino For zano è stata rappresentata al '(( Tentro Nazionale » di Jasi (Bucarest) la comme dia: Napoleone eie donne; di Rino Alessi, è stata rap presentata, allo «Stadttheater n di Dortmund, la com media: Ànime smarrite. Elio Talarico, autore sempre discusso, dopo De dalo e fuga rappresentata la scorsa stagione al Teatro delle Arti di Roma, farà re citare una sua nuova com media: Giorni segreti. Nes suna analogia, salvo nel ti tolo, con I giorni felici di Pouget. La commedia di Ta larico presenta un dramma tico caso di psicologia co niugale, in un ambiente bor ghese dei nostri giorni, ma con uno spirito diverso da quello della commedia bor ghese. & E’ morto a Roma, dopo brevissima malattia, Corra do De Cenzo, notissima figura nel mondo teatrale di prosa, quale amministra tore ed organizzatore di Compagnie, spettacoli e giri artistici. Da qualche tempo partecipava, come attore, a riprese cinematografiche. ^ Si è spento a Genova, ancora in giovane età, l’at tore Flavio Diaz che per quattro anni ha fatto parte, molto dignitosamente, della Compagnia delle Arti di Roma, diretta da A. G. Fra gaglia. lì li ÌM3Ì0 ! Forse non abbiamo capito. Scrive Silvio D’Amico: «Risorge... l ’eterna questione che, da tanto mai tempo, sentiamo puerilmente dibattere circa l’in terpretazione della poesia in teatro: in che modo si ha da recitare? veristicamente e (come volevan gli scrittori di cinquantanni fa) non facendo sentire il verso? oppure cadenzandola e cantilenandola (come si predicava venti o venticinque anni più tardi) al modo degli esteti, decadenti c dannunziani? Pare impossibile ci voglia tanto a capire che no, la poesia non è nè prosacela chiacchierata, nè retorica canti lenata... ». Forse — ripeto — non abbiamo capito. In fatti ci pare impossibile che Silvio D’Amico creda di parlare di poesia, mentre parla di forma poetica; anzi di forma volgarmente detta poetica. 0, tì. fjd «Teatro di poesia non significa poesia a teatro; ma significa che parola, gesto, voce, silenzio, scena, costituiscono una poesia, l ’un l ’altro soddisfa cendosi, l ’uno all’altro aderendo, imbevendosi ». (Edi lio Rusconi). Dfil mestiere: I l mestiere è il surrogato dell?arte. Il mestiere tenta dì darci in monete false quello che l’arte, quando c’è, ci dà in monete buone. Sbagliano, comunque, coloro i quali credono di lodare un’opera dicendo: « non c’è mestiere ». Già questa formula non esprime se non una parte, e ben secondaria, di ciò che si vorrebbe dire. Per essere esatti bisogne rebbe sostituirla con la seguente: « non c’è nè arte nè mestiere ». Oggi sono numerosi quelli che fanno su quest’argomento una grande, confusione, e, come credono talvolta di scoprire gli effetti del mestiere dove si tratta invece di effetti dell’arte, così credono di scoprire l ’assenza — lodevole — del mestiere, dove c’è anche, e sopra tutto, l’assenza — biasimevole — dell’arte. 0 AmletO 0 niente! / pazzi, in scena, non li vogliamo. (« I comodi espedienti della follia » E. F. Palmieri). Accettiamo soltanto Amleto, ch’era un pazzo finto. F0reStÌerÌSm0: I l naturale e innegabile fascino che, per gli uomini, emana dai Paesi lontani e dalla vita e dagli spiriti diversi, è una delle forze di cui si vale il teatro (e l’arte in genere) per conquistare simpatie fuori di casa propria. Anche il nostro teatro, in terra straniera, si giova di questo fascino; e si può notare come la più grande fortuna all’estero sia degli au tori che quei pubblici considerano più rappresenta tivi della vita e dell’anima del nostro Paese. E’ già stato detto, d’altronde, che l ’arte diventa universale per merito appunto della sua fedeltà alla terra d’ori gine. Accade, però, che qualche cattivo autore, su bendo il fascino di cui s’è detto, diffonda in casa propria stentate imitazioni di teatro straniero, e qual che ingenuo critico o spettatore, a sua volta, subisca quel fascino, e prenda per buono il pessimo. Parole povere: Certi candidi amatori di teatro, ai loro prim i contatti con questa arte, scoprono quasi sempre qualche au tore che a loro pare misconosciuto. Pen sano che la disgrazia di quell’autore di penda dalla cattiva organizzazione del no stro teatro. Invocano anche per il nostro teatro un’organizzazione simile a quella, per esempio, di qualche altro Paese. Ma quei candidi amatori di teatro, se s’infor massero un tantino, vedrebbero, forse, che il loro autore misconosciuto ha giti ten tato in ogni modo di arrivare con le sue opere nei Paesi ove il teatro è tanto bene organizzato; e non l’hanno voluto nep pure là. Insistiamo : A teatro cè posto per tutti, ha detto Lari per noi. Ma intendiamoci bene : per tutti i vivi, e per nessuno — è logico — che non sia vivo. Torna dunque a propo sito insistere sulla distinzione che già pro ponemmo, fra « teatro vivo » e « teatro morto ». Questa è l’unica distinzione di cui deve preoccuparsi chi voglia veramente gio vare al teatro e riportarlo a una vita piena, spontanea, feconda. La distinzione fra « tea tro bello » e « teatro brutto » arriva in un secondo tempo; e non manca mai. Ten tarla in partenza (e in base a quali prin cìpi, poi, e con quale onestà di giudizio!) è, oltre che errato, ingenuo e pericoloso. I l nostro teatro ne ha già patito abbastanza. E sèguita a patirne. C0nStataZÌ0ne: Quando gli attori son bravi, anche se il regista è cattivo qualcosa si salva. Niente, invece, si salva, quando, pur essendo bravo il regista, sono cattivi gli attori. Immaginate voi un direttore d'or chestra, che riesca a ottenere un’esecu zione artistica da strumentisti che non sappiano sonare? Se poi sono cattivi tanto il regista quanto gli attori, non c’è più niente da dire. CESARE MEAXO sfondo portato improvvisamente in p ri mo piano, ad inquadrare giustamente nel tempo i. caratteri della vicenda e i moti dram matici dei personaggi : l’opera viene in tal modo a raggiungere una realtà di vita contingente, insieme al l’universale durevolezza dei sentimenti basilari che la ispirano. Si direbbe che Bertolazzi, molto avvedutamente, abbia pensato a fornire in tal modo la sua creatura di un elisir di lunga vita. I l a fatto » — come nella maggior parte delle opere dialettali — è un « fattaccio » : Bianca, una fanciulla di N U O V E E R I P R E S E modesta condizione, vive con il suo In questa rubrica «Commedie nuove e riprese »noi diamo notizie, con amante Enrico, un giovane di mezzi an i pareri dei maggiori critici, dell’attività della scena di prosa. .Conti nueremo a farlo come per il passato ma già nel fascicolo scorso vi cora più modesti; attratta dal miraggio abbiamo apportato una innovazione con l'Intenzione di mettere in della vita facile e lussuosa —- la gibi rilievo quelle opere che per il loro valore o interesse particolare di gianna, appunto, ossia lo specchietto pubblico, formano l’eccezione. Pubblichiamo cioè, saltuariamente (e in ogni fascicolo nei periodi di maggiore attività delle Compagnie), un sfaccettato che serve di richiamo agli articolo critico di Vinicio Marinucci che valga non soltanto come cri uccelli — si abbandona agli amori mer tica al lavoro in sè, ma anche come considerazioni di indole generale. Articolo documentato che indichi via via i lati singolari e attuali del cenari finché una coltellata dell’amante cammino del nostro Teatro. Nel fascicolo scorso è stata recensita la disperato e respinto la pone in fin di commedia di Ugo Betti «Notte in casa, del ricco »; ora Vinicio Mari nucci si occupa della ripresa al Teatro delle (Arti di Roma, il 22 di vita. I l sipario discende sulla veglia cembre. con l’adattamento e la regìa di Anton Giulio Bragaglia, di: dell’uomo al capezzale della donna pentita e che forse — auguriamoci —• si desterà nella redenzione. Tema popo L A G IB IG IA N N A ovvero laresco, come ben si vede, e adeguataVALIDITÀ DEL TEATRO DIALETTALE mente moraleggiante; conclusione a ★ Bianca o La gibigianila di Carlo Bertolazzi risale al lieto fine, come il gusto d’allora prefe 1898; scritta in dialetto milanese e dallo stesso Bertolazzi riva. Ma la vitalità delVopera riscatta volta in italiano, fu scarsamente rappresentata, nonostante completamente la banalità che potreb il grande successo iniziale, a causa del gran numero dei be derivare dalla trama. Qui sorgono spontanee alcune rifles suoi personaggi secondari e della complessità che ne deri vava per Vesecuzione: la più recente rappresentazione r i sioni sul teatro dialettale. La stessa sale al 1921 con la Compagnia « La lombarda », diretta da Compagnia delle A rti ci offrì nelle Colantuoni, e della quale facevano parte Gilda Zucchini precedenti stagioni O Giovannino o la Majone, Tina Bandi, Luigi Zoncada. Più che una ripresa, morte di Matilde Serao e di Ernesto quindi, lo spettacolo presentatoci dal Teatro delle Arti, Murolo e Luciella Catena di Ferdinan con la regìa di Antoni Giulio Bragaglia, può chiamarsi — do Russo, insigni esempi del teatro na se il gioco di parole è consentito — una seconda « prima ». poletano : anche qui tradimenti e col La commedia, infatti, è stata non solo rappresentata in tellate, ma anche qui vita, forza dram lingua, ma rammodernata nel testo e ridotta nelle scene, matica, poesia: teatro, insomma, nella sì da presentarsi come riproposta al giudizio del pubblico pienezza \dei suoi mezzi e delle sue in una veste più consona al gusto attuale, o meglio, al espressioni. Poesia, e quindi nobiltà, concetto più o meno stereotipato che il pubblico d’oggi che derivava dalla profondità di senti si va facendo — per influsso sopra tutto del cinemato menti genuini, resi da scrittori che grafo — dei modi e delle forme di vita dell’Ottocento, dalla cronaca sono giunti alVumanità, quasi di un secolo già remoto nella storia. e pertanto all’universalità. E’ superfluo « Interessante esumazione », definiva il manifesto lo elencare tito li e nomi di opere e di spettacolo e, per quanto totalmente aderiamo alla prima autori del teatro napoletano, siciliano qualifica, altrettanto respingiamo la suggestione funerea e veneto —■i più significativi nel reper implicita nella seconda : che La gibigianna è opera ancor torio dialettale — ma riveste invece par oggi ben viva c vitale, e per gran tempo ancora conserverà ticolare importanza la constatazione che valide le sue forze, prima di mantenerle intatte ma incar il più vivo teatro italiano, oggi, è quello tapccorite sotto una teca da museo. che, nato in dialetto e quindi apparente La gibigianna vive in virtù della genuinità, sia pure mente fra le limitazioni maggiori, ha elementare, delle passioni che in essa si agitano e per saputo trascendere in virtù di un au l’autenticità dei caratteri che la popolano, a guisa di tentico afflato umano e poetico. Oggi, che la crisi del teatro italiano è in primo luogo crisi di opere, questa validità del teatro dialet tale dovrebbe essere fonte di non trascurabili insegnamenti. Elenchiamoli. Innanzi tutto, ecco un teatro — quale con tanto affanno si auspica — prettamente italiano e al tempo stesso universale. Ecco un teatro umano, palpitante, teatrale, eppure lirico, e perciò di valore letterario. Ecco un teatro che soddisfa gli attori ed il pubblico, e non è di ma niera, non è su misura, non è, sopra tutto. Vap plicazione di vacue formule transitorie. Questo, si intenda bene, non è un assurdo invito a scri vere dialettalmen te : è un richiamo ad una realtà viva ed umana, dalla quale soltanto potrà scatu rire un teatro valido nel tempo, che non sia vano se pur intelligente compiacimento letterario, che non sia costruzione di parole invece che di valori teatrali, che non sia commerciale imita zione dal francese o dallungherese. L’elevatezza dello scrittore ne segnerà i lim iti della nobiltà, che potrà giungere alle vette più alte: ma le montagne non poggiano sulle nuvole e Varie non può essere avulsa dall’umanità. La gibigianila, che ci ha offerto il motivo per queste considerazioni, non è certamente un ca polavoro; ma è onera che vive nel tempo. La parte migliore è Viniziale : nel primo atto, Vam biente gramo, che irrita e affatica, in cui vivono Bianca ed Enrico, è reso con semplice ma sin cera penetrazione, al pari dei caratteri dei due amanti, ansiosi e tormentati; al secondo atto — quasi del tutto irrilevante ai fini della trama — si svolge una girandola di tipi, di caricature e. di macchiette che riempie la scena di una stra ordinaria, pittoresca e divertentissima anima zione; ben si comprende (manto dovette riuscire gustoso e piacevole nuest’atto al pubblico delVepoca, quando La gibigianila fu eseguita per la prima volta in un caffè-concerto milanese. Per quanto ridotto nel numero dei personaggi e pri vato del sale del dialetto, lo spettacolo riuscì festoso, affiatato e intonatissimo. La regìa di Bra gaglia. ben coadiuvata nei costumi d a ll opera della Calderini, condusse a questa fusione ed armonia di esecuzione ; lavori di colore e di sen timento, veristico-popolari come questa Gibigianna o romantici tipo Catene, si sono dimo strati i più atti a fornire un compiuto, bene amalgamato e definito saggio della regìa bragagliana. I l temperamento italiano e meridionale di Fragaglia ha fatto sì — e potrebbe a prima vista apparire strano, ma a ben considerare non lo è affatto — che tutta la sua esperienza avanguardistica e intellettualistica di ogni tinta e na zionalità, venisse, con. il suo com pleto bagaglio di astuzie, trovate, « luci psicologiche », ecc. a met tersi al servizio di questi « generi » semplici e immediati ma pur così profondamente ricchi di pathos e di umana liricità. Gli ultim i due atti del lavoro — scarniti, e ridotti da Bragaglia in due quadri d i un unico atto — palesano l’impianto popolaresco della commedia e scivolano nell’inevitabile luogo co mune conseguente; la riduzione, mentre ha gio vato ad eliminare espressioni alle quali il gusto dello spettatore moderno avrebbe reagito, ha reso d’altra parte più evidente la convenziona lità del traliccio, mentre la mancanza del dia letto ha tolto a queste scene l’ingenuità toccante dell’originale. La recitazione, convinta ed affiatata in un insieme lodevolissimo, ha naturalmente risentito un poco della genericità degli ultim i due quadri, ma nel complesso ha contribuito con tutte le sue più valide forze al successo dello spettacolo. Anna Proclemer, interprete di Bianca, possiede doti istintive di sincerità, di sentimento e di introspezione — qualità rarissime tutte, ma quest’ultima in particolar modo — che danno la certezza di un grande, luminoso avvenire; ella ha conferito alla protagonista de La gibigianna una spiritualità pensosa che senza dubbio, esterior mente, il personaggio non ha, ma è giunta in tal modo ad esprimere l’essenza intima, la por tata dei sentimenti più celati e magari inconsci nei loro lim iti estremi della giovane donna. Adolfo Ceri, eccellente in queste parti angosciate od equivoche di succube della vita, ha avuto accenti particolarmente felici al primo atto. Lo devoli tutti gli altri, senza eccezioni, ma special mente Anita Griarotti, Giovanni Saccenti ed An gelo Calabrese. I l successo de La gibigianna dimostra, tra l’altro, come, quando si sappia ricercare e sce gliere oculatamente, le belle commedie — o, se si vuole, le commedie che possano dar luogo a un bello spettacolo — non siano poi tanto scarse di numero nel repertorio italiano antico e mo derno. V in ic io M a rin u c c i ■jSf La sera del 15 .dicembre, al Teatro Odeon; di Milano, la Compagnia di quel teatro ha rappresentato la com media in tre atti di Franco Bondioli e Giuseppe Lanza: Ombre nel tempo. Un vivissimo successo ha arriso a que sto nuovo lavoro, degno — dice Carlo Lari — dei due apprezzati e valorosi scrittori. Ombre nel tempo non è commedia di facile e rilevato svolgimento. La teatralità non è data dal rinnovarsi delle situazioni, e neppure dalla pittura viva dei caratteri (uno solo dei quali, quello della protagonista, è amorosamente disegnato e curato) ma, so prattutto dal calore di certe scene, dalla tormentata ana lisi di alcuni stati d’animo: argomento e trattazione — in verità — più da romanzo che da commedia. I risul tati ottenuti dai due autori sono tuttavia notevoli anche dal punto di vista teatrale. Alcune scene sono apparse ben preparate e accortamente sviluppate: proprio quelle nelle quali la commedia tendeva a sciogliersi in movi menti umani ed a chiarificarsi. Il pubblico ha accettato ed ha applaudita questa com media, anche se gli elementi che dovevano rivestire di un’azione lo scheletro di essa, non l’hanno aiutato a -dare alla commedia stessa una varietà e una vita da renderla più attraente e avvincente. «Antonella Petrucci ha recitato molto, ma molto bene : Elegante e piacevole scena di insieme di «La satira e Parini», la commedia in versi di Paolo Ferrari, ripresa da Ruggero Ruggeri al Teatro Olimpia di Milano il 23 dicembre. Nella fotografia sotto: RUGGERO RUGGERI e CORRADO ANNICELLI. RUGGERO RUGGERI FANNÌ MARCHIÒ CORRADO ANNICELLI ella ha approfittato dei segni del carattere di Marzia per darle un rilievo netto. Ed ha trovato accenti com mossi, dolorosi, disperati, dando alle parole quell’eco interiore che soltanto gli artisti sanno suscitare. Anche tutti gli altri, sotto la regìa di Luigi Carini, hanno reci tato col voluto colore: la signora Mercedes Brignone e lo stesso Carini, la simpatica Lina Bacci, sempre since ramente comunicativa, ed il Toniolo (che vedo tuttavia più volontieri nelle parti caratterizzate). « Il Lombardi, nella parte impegnosa di Luigi Corga, ha detto con bella commozione le due scene più impor tanti della commedia, ottenendo sempre gli effetti pro postisi ». La sera del 30 dicembre, al Teatro Olimpia di Mi lano, la Compagnia di Ruggero Ruggeri, ha rappresen tato — con vivissimo successo — la commedia in tre atti di Vincenzo Tieri: Servi e padroni. Dice Angelo Frattini: « Si le parlato -molto, moltissime volte, a proposito di Vin cenzo Tieri, di « abilità », — vale a dire, si è sottoli neata la sua bravura tecnica, si è lodata la sua espertis sima mano, talora — e ingiustamente facendo passare quasi in seconda linea i motivi, i disparati motivi che ispirano il suo teatro. Ora, pare che di proposito in que sta commedia, egli abbia voluto affidare alla -sua tradi zionale bravura un ruolo di secondo piano, per far con vergere sul tema, sul contenuto intrinseco dell’opera, tutto l’interesse e tutta la attenzione di chi ascolta. E il tema, riconosciamolo, è interessante. «Il ricco e nobile Valfreda, diviene improvvisamente povero per le male arti del suo maggiordomo, Minorca, che, con la complicità dell’amministratore Ajana, lo ha depredato di tutto il suo patrimonio. Al nobile deca duto, ormai non resta che la strada della mediocrità ma, quasi volesse esaltare la sua superbia, il conte Valfreda, sceglie la via della umiliazione e si riduce a -servire come cameriere in un grande albergo II paradosso è evidente: il contrasto è -duro, ma la mano di Tieri si fa più effi cace proprio da questo punto; e, dal dialogo serrato, arguto, trae il filo sottile che -guida la commedia verso il sicuro epilogo. Il conte Valfreda, nella sua nuova veste di cameriere, incontra nell’albergo i -suoi ex-servi e, forse, per premiare tutto il suo sacrifizio, gli sarebbe bastato vederseli strisciare ai piedi come una volta, atavicamente servili anche nella loro nuova veste di padroni; ma la notizia che forse una sua ¡figliola sposerà il figlio di Minorca lo scuote tutto, gli ifa perdere la sua classica calma e gli mette nel petto una sorda ribellione. Però egli non può opporre all’amore dii |questi due Igiovani. di un -mondo nuovo, che la sua vanità ed il suo orgo glio di casta ed allora lascia che il destino si compia, allontanandosi dalla vita della sua famiglia con la sua grande illusione racchiusa nel ¡cuore. «Naturalmente, Tieri non (ha mancato di sorreggere la vicenda col meglio della -sua esperienza d’autore: l’im postazione è salda, il procedimento serrato; il dialogo veramente arguto, molte volte ha fatto sorridere il pub blico che non ha lesinato gli applausi alla fine di ciascun atto. Ruggero Ruggeri, Calò, la Marchiò e tutti gli altri hanno recitato con quella maestrìa che altre volte ab biamo loro riconosciuto. Quattro chiamate al primo atto, sei al secondo e sei al terzo. ¡II pubblico ha tributato applausi anche all’autore che è stato chiamato alla ribalta alla fine -del secondo e terzo atto ». ìAr La sera del 2 gennaio, -al Teatro Odeon di Milano, la Compagnia di quel Teatro, ha rappresentato la com media in tre atti di Giuseppe Adami: Il cascinale. Il la voro ha avuto un vivissimo successo, con cinque chiamate al primo atto, sette o otto al secondo, cinque al terzo di cui molte anche all’autore. «E’ il migliore Adami che ri torna, con questa -commedia ricca d’una commozione che si fa di mano in mano più intensa ma che invece di esplo dere nel dramma si scioglie in un motivo patetico come certe volte accade al dolore che -si placa nelle lacrime anziché di incupirsi nel tormento -senza voce. -Se, più che giudicare il mezzo adoprato per arrivare alla -conclusione, ci si volesse soltanto soffermare sul contenuto di queste lavoro dell’Adami, si potrebbe senz’altro accettare la com media con lo stesso entusiasmo del pubblico. In essa in fatti l’autore vuol difendere l’amore dei fi-gli dall’accusa che spesso -gli -si -fa — nella vita e sul teatro di essere egoista e di sacrificare a questo egoismo ogni sentimento di tenerezza verso i genitori. Ed è bello che un uomo di teatro, non più -giovane, se ne faccia paladino proprio sul teatro dove questo sentimentalissimo e romantico spunto non -è stato sempre trattato obiettivamente. La commedia ha avuto un grande successo, dovuto in parte anche a una magistrale interpretazione di Luigi Carini, che ieri sera è -stato fatto segno a ovazioni come da tempo c’eravamo dimenticati di -sentire. Mollo bene al suo fianco Antonella Petrucci, in una parte ch’ella ha saputo rendere -con mezzi particolarmente felici. E bravi pure il Lombardi e la Bacci ». La sera del 1" dicembre, al Teatro della Pergola di Firenze, la Compagnia del Teatro Nazionale dei Guf, diretta da Giorgio Venturini, ha rappresentato la tragedia in tre atti di Federico Hebbel (Wasselburen: 18 marzo 1813-Vienna: 13 dicembre 1863): Maria Maddalena, nella traduzione e riduzione di Raffaello Mela-ni. Inscenata con molta cura e vivissima intelligenza da Giorgio Venturini, la bella e nuova riduzione del Melani, ha ottenuto un successo calorosissimo. Federico Hebbel ideò e -scrisse in parte a Monaco la sua tragedia; terminata a Parigi, fu pubblicata nella sua lingua originale nel 1844. -Gualtiero Tumiati volle portarla, anni fa, sulle nostre scene nella traduzione di Ferdinando Pasini. Ma la -nuova edizione della Compagnia del Teatro Nazionale idei Guf è così perfetta die si -può considerare come nuova la rappresen tazione. Dice Emilio -Marcueci: «Tragedia borghese, ha voluto definirla il grande scrittore che, -nel darla alla luce, s’era proposto, come scrisse, due scopi: risollevare i valori artistici della tragedia tedesca scaduti a’ suoi tempi — secondo lui — per l’assenza di elementi dram matici attivi nell’interno, nell’ ” Idea ”, e rinvigorire il processo -mondiale ch’egli vedeva svolgersi sotto i suoi occhi, non già nel -senso di abbattere le istituzioni esi stenti dell’umanità (politiche, religiose, morali) ma di mi gliorarle. Due scopi mirabilmente raggiunti. Nella sua mente geniale Hebbel aveva concepito l’idea di Clara fin dal 1839, annotando nel suo Diario: ’’ Agire soffrendo: idea della donna, Clara ” : Clara, sorella in eroismo sof ferente di Giuditta e di Genoveffa, atto vivo d’accusa contro le aride formule di una vita sociale chiusa, anche tra le umili classi artigiane, -nelle sue tradizioni e nel suo convenzionalismo, e dura e caparbia e -pervicace nei suoi pregiudizi. Per rompere quel mondo così povero di pietà e scarso di -carità -è necessario il sacrificio, e a compierlo è -destinata Clara; sarà la fragile creatura a cozzare contro il macigno e a -farlo vacillare e precipi tare. ” Io non capisco più il mondo ” esclama Mastro Antonio a conclusione della tragedia. Il suo mondo vec chio, -cocciuto, formalisti-co, egocentrico, che crolla con lui e con lui si disperde sulle rovine della sua famiglia dov’egli si illudeva di essere tuttavia il -modello dei mariti e l’esemplare dei padri, e non s’accorgeva di spin gere freddamente la figlia al -suicidio e il figlio alla fuga, meno sensibile al dolore di quella e al bisogno idi libertà di questo die all’opinione delle male lingue. (E’ il rim provero che gli muove Federico, accusandosi a sua volta dello stesso errore poiché, invece di correre a salvare l’amata, egli pensò al miserabile seduttore che avrebbe potuto canzonarlo, facendosi con ciò schiavo di uno peg giore di lui). iS’è voluto che in Mastro Antonio, figura scultorea, Hebbel disegnasse suo padre, cui egli dovette forse quelle crisi spiritual; che lo portarono alle più alte meditazioni sul significato della colpa intesa come espia zione e redenzione; crisi rivelatrici, secondo j critici, del carattere essenziale dell’intuizione hebbeliana nella salda unione del dramma religioso col dramma umano. Donde l’accostamento di Clara alla biblica Maddalena. Anche la donna di Hebbel pecca per amore e, travolta nell’atmo sfera tragica, si sublima fino al martirio, non arretrando dinanzi alla morte sua e dell’innocente che porta in grembo, pur di salvare la vita del padre. Che è il se condo eroe della tragedia e aduna in sé molteplici ele menti della più intensa drammaticità, composti con quel senso austero del (dramma che in Hebbel era un culto, collocandolo egli 'tra il più perfetto dei generi letterari e cercandovi modelli in Goetbe, Kleist e ¡Shakespeare. « Grato alla (Compagnia del Teatro Nazionale dei Guf per averlo messo a contatto del capolavoro, il pubblico ha mostrato di apprezzare la fatica degli intelligenti in terpreti, .che non era poca nè facile. ¡Essi hanno saputo creare l’atmosfera conveniente alla tragedia, rispettosi della sua essenza fin nei minuti particolari. Della reci tazione, che è ¡filata colorita e, omogenea, non possiamo dire che bene. La Palmer ha dato alla dolente figura di Clara soavità di accenti e incisiva drammaticità di toni, riscuotendo, accanto al Randone, un (vivo successo per sonale. Mastro Antonio era Randone, e la caratterizza zione del tipo gli è riuscita perfetta, compatta, tutta in quel robusto rilievo come la ¡concepiva Hebbel. Spon tanei ed espressivi il Villa, il Santuccio e il Giangrande, ottimamente assecondati dagli altri. La messinscena è ap parsa appropriata a ridare il ¡colore dell’ambiente. Gli applausi sono stati unanimi e calorosi alla fine di ogni atto, con una dozzina complessiva di chiamate ». * Pubblicheremo nel prossimo fascicolo questo capolavoro della letteratura drammatica tedesca. ^ Anton Giulio Bragaglia, direttore del Teatro delle Arti, ha presentato ,nella propria sede di Roma, il 5 di cembre, la sua nuova « Compagnia delle Arti ». Come è risaputo e come ampiamente abbiamo pubblicato, la Sta gione XII dell’Anno XX : 1943, con le nuove giovanis sime reclute, ha avuto inizio ¡a Milano, al Teatro Nuovo, il 15 ottobre, dove ba svolto una parte del programma. Dopo un breve giro in altre città minori dove sono state rappresentate le commedie date a Milano ¡(con in più una importante ripresa della commedia-parodia in versi in tre atti e sei quadri di Riccardo Castelvecchio : La donna romantica e il medico omeopatico, data al Teatro del Corso di Bologna, ,con la regìa di Ruggero Jacobbi, ottenendo un vivissimo successo) Tinaugurazione della Stagione alle «Arti » è stata fatta con due commedie di Angelo Beolco, detto il Ruzzante, padovano del ’500: Bilora e Fiorina: atto unico il primo; due atti, l’altra. Un vero dono per gli amatori del Teatro italiano, nn « divertimento » apprezzatissinio dal pubblico, giacché a recitare le popolaresche scene sono stati chiamati ad in terpreti i «ruzzantini di Padova » che hanno recitato per la prima volta, dopo il xvi secolo, in parlata pavana ru stica. Lina Costa ha curato la regìa. «Fra gli interpreti si distinse per verosimiglianza il Capuzzo che fu ” Pitaro ” nel Bilora e ’’ Marchioro” nella Fiorino; modesta ma educata la recitazione della Sottocliiesa rispettivamente ’’ Dina” e ” Fiore ” . Antonio Rossi che fu ’’ Bilora” e poi ’’ Ruzzante” caricò i toni farseschi, con volonterosa fatica ». 4 .■Fiorina » è stata pubblicata nel fascicolo di ” Il Dram ma ” N. 380 del 15 giugno 1942, nella traduzione c adatta mento di Cesco Cocco. 1^" La sera del 15 dicembre, al Teatro Argentina di Roma, la Compagnia di Renzo Ricci ha ripreso il Lorenzaccio di De Musset. Dice Giorgio Prosperi: «Immaginate la situazione del Giulio Cestire shakespeariano e mettete Amleto al posto di Bruto; avrete, non voglio dire la for mula, ma una indicazione significativa su le fonti e la situazione di Lorenzaccio. De Musset, del resto, non si curò mai di nascondere la sua adorazione per l’autore di Amleto e della Tempesta. Le sue commedie, oltre ai suoi drammi, non lasciano dubbi in proposito. Tuttavia quella che fu la sua ambizione doveva fare i conti con i caratteri e le possibilità del suo temperamento: quello che in Sha kespeare è maturo, adulto respiro dell’immaginazione, qui è retaggio della sua minore sorella, la fantasia. Ciò che lì è alta vibrazione di pensiero, qui è esasperazione di sensibilità. E non vi accadrà mai di pensare che Sha kespeare sia per caso Amleto oppure Bruto; non c’è dub bio, invece, che Lorenzaccio sia lo stesso De Musset ». « Renzo Ricci ha rimesso il scena 1Lorenzaccio, accen trando ancor più, nella riduzione, tutte le luci attorno alla mobile figura del protagonista. Quella variabilità è anche la misura ¡del suo registro di attore. A volte per fettamente in chiave, creava sulla scena con intelligenza immediata, estemporanea; a volte forzava fino all’eccesso il delirio intellettuale .del personaggio, fino a dare a quel suo fiorentino del cinquecento, per amore di immedia tezza, discutibili cadenze vernacole. E proprio .dove il dramma peccava di densità, la fatica dell’attore era più esteriore e visibile. Ma l’assoluta padronanza della parte, e le sue innate risorse lo facevano muovere con grade vole ¡disinvoltura nei panni rinascimentali di Lorenzaccio e gli valsero applausi ripetuti ed entusiastici da parte del pubblico. « Bene accanto a lui TOppi, in .cui era chiara la (lode vole preocupazione di ispirarsi alla iconografia del duca Alessandro. E piacevole la calda e vibrante voce della Gal letti che impersonava la marchesa jRicciarda. Sciupata ed inadeguata la Magni nella parte maschile del pittore. Qui viene la grossa questione di come vanno rappresentate queste grosse opere in costume e gran numero di quadri. Certo il cinematografo ha esasperato le nostre esigenze in fatto di realismo scenico. Bisogna tuttavia riconoscere, per questo spettacolo, che, in paragone dei mezzi, era difficile dare di più ». La sera del 18 dicembre, al Teatro Nuovo di Milano, la Compagnia di quel Teatro, con Laura Adani e Luigi Cimara, ha ripreso la commedia in tre atti di Guglielmo Zorzi : Le due metà che ebbe molto successo all’epoca della Compagnia di Dario Niccodemi, della quale faceva parte Luigi Cimara. Esordiva la nuova Compagnia degli « Spettacoli Errepi » che quel successo ha rinnovato. « La commedia — dice Renato Simoni — ha molto divertito giacché è soprattutto un giuoco. Solo per giuoco, un ar rendevole mantenuto può essere l’ideale di una ragazza che vuole accasarsi ragionevolmente; è solo per giuoco che un uomo, che ha fior di capacità industriali, può accettare di essere assunto al talamo nuziale a patto che si lasci poi relegare in salotto e quasi quasi in cucina ». «Il carattere di questa interpretazione è stato una sobria lucida e allegra eleganza. Il primo saggio della nuova Compagnia di Luigi .Cimara e Laura Adani è stato, in questo senso, eccellente. Laura Adani ha rap presentato con piacevole autorità la donnina che, pur re stando donnina, si occupa di navi, di carboni, di contratti; e poi si mette a piangere d’amore; e Luigi Cimara, con la sua arte personalissima, ha procurato tutte le attenuanti a Vittorio, quasi canzonandolo con malizioso umorismo da principio, e poi riscattandolo, con un bel passaggio agile e ironico dal r idicolo alla serietà. vAnche gli altri attori hanno recitato bene, in special modo il Caliudri e le signore Seripa Negri e Altieri ». lAr La sera del 22 dicembre, al Teatro Nuovo di Mi lano, la Compagnia di quel Teatro, con Laura Adani e Luigi Cimara, ha ripreso la commedia in tre atti di Giovacchino Forzano: Madonna Oretta. Dice Renato Simoni: «La commedia è un giuoco, per certi aspetti della sua costruzione scenica, un pochetto settecentesco; e, per il travestimento di Oretta in un allettante fanciullo del <(uale Ginovieffa si accende, anche cinquecentesco. Nella commedia italiana del Cinquecento, le ragazzine che por tano, irriconosciute, panni virili, sono numerosissime. Noi siamo, al teatro, un pubblico più scanzonato di quello di allora; e l’artifizio ci pare incredibile; ma non per ciò risulta meno dilettoso. Madonna Oretta ha circa ventisei anni; scritta per Dina Galli fu, se non erro, rappre sentata nel ’17. Serba ancora il suo buon umore e si fa ascoltare piacevolmente. Le sue invenzioni e le malizie burlesche non si sono scolorate, anche perchè la inqua dratura scenica è sempre abile. Tanto è vero che il pub blico ha riso spesso ed ha applaudito dopo ogni alto. « L’interpretazione è stata fervida e pittoresca. Laura y Adani, da fiorentina astuta e godereccia, da finto ragazzo languente d’amore e da donnina stizzita e risoluta a vin cere, ha recitato con vivacità e con brio versatile ; nel riso e nelle lagrime vere e in quelle finte, ¡è stata comi camente persuasiva. Luigi Cimara ha fatto il nobiluomo altezzoso, l’ingenuo che si crede furbo, il geloso che si ragiona acerbamente la propria gelosia, con una forte semplicità evidente e incisiva. Tra gli altri, il Mastrantoni. il Calindri, la signora Altieri, il Galli, il Meneghetti, è da nominare particolarmente Renata Negri, specialmente per il imodo con cui ha recitato la prima (parte del se condo atto ». La sera del 23/dicembre, al Teatro Olimpiaci Milano, la Compagnia di Ruggero Ruggeri ha ripreso la com media di Paolo Ferrali: La satira e Parini. Dice Renato Simoni: «Per molla parte del pubblico questa commedia era nuova. Forse alcuni spettatori ne sapevano qualche verso o qualche emistichio, divenuti quasi proverbiali, come «le accademie si fanno o non si fanno », o «tra il sì e il no son di parer contrario »; apoftegmi o modi di dire appartenenti al più vivo e colorato personaggio, il marchese Colombi. Questo marchese Colombi, colto dal vero, ha fatto la fortuna di La satira e Parini. Dovrebbe essere un giovine, e, se non impersonare compiutamente il « giovin signore », rappresentarne almeno uno degli aspetti. Questo mi hanno raccontato i figli di Paolo Fer rari. Fu, invece, sempre interpretato dai caratteristi; e l’ultimo fu Oreste Calabresi, che gli dava una stupidità decorativa pingue paffuta pretenziosa e pacioccona. Da quali gote rotonde, da quali fumide labbra lasciava sgor gare le sue approssimazioni verbali lepide e squillanti! E con lui, quale schiera di attori! Ruggeri, nella prima luce della sua fama, che diceva già stupendamente, come li ha detti anche ora, i versi del Parini, e quelli che Paolo Ferrari fa dire a Parini; Virgilio Talli interpretava la vanità sfacciata del poeta improvvisatore Degianni, ed Irma Gramática era la sposa del regio e imperiale gover natore di Milano ' ». «Fu un piacere riudire Ruggeri in questa commedia; spqcialmente negli atti in cui Parini parla di più, ha da recitare maggior numero di quei martelliani bruttini ma efficacemente teatrali del Ferrari, e più ancora nella scena in cui il commediografo gli fa leggere versi autentici de! Giorno, l’episodio della «Vergine cuccia delle grazie alunna » parente prossima della Lilla, cagnuola maltese, tutta pelo, tutta gozzo e tutta lardo, della portiana mar chesa Travasa. Il pubblico, dopo questi quadri, e questi atti, applaudì con grande calore; e ha voluto alla ribalta il Ruggeri nove o dieci volte. Sarebbe difficile dire meglio i versi belli. Sono sembrati quasi belli anche quelli che non lo sono. « La commedia è stata posta in scena con molta e leg giadra ricchezza di costumi, ideati da Salussolia; assai belle le scene del Broglio; ma foggiate a paraventi e forse di lina eleganza di stile non aderente a quello della commedia. Valentino Bruchi era il marchese Colombi e risultò comico; d’una comicità un po’ secca, forse, non ampia ariosa e fastosa, non sostenuta da una sufficiente autorità di attore; ma il buon gusto fu da lui sempre rispettato c molti effetti furono raggiunti con franchezza e sapore. Romano Calò ha detto con elegante fluidità le autoapologie del Degianni; e tutti gli altri, Fanny Mar chiò, Mirella Parili, particolarmente vivace, l’Annicelli. il Sormano, il Verna, il Grassi, composero un insieme bene intonato, anche se individualmente non ebbero gran di cose da fare. Applausi dopo i quadri del primo atto; più caldi e numerosi dopo il secondo e il terzo. Ruggeri fu applaudito anche a scena aperta ». "ÀT La sera del 24 dicembre, al Teatro Odeon di Milano, la Compagnia di quel Teatro, diretta da Luigi Carini, ha ripreso la commedia in tre atti di Dumas figlio : La prin cipessa Giorgio. Dice Renato Simoni: «Il teatro del se condo Dumas, ehe fu, con qualche esagerazione, conside rato un predecessore di Ibsen, ha sempre discusso alla ribalta qualche problema. I suoi personaggi sono anch’essi un poco simbolici; non già di un simbolismo'astratto, che i problemi che l’autore della Principessa Giorgio ha por tato alla ribalta sono d’ordine morale e insieme di ordine pratico. Nora di Casa di bambola che lascia il marito e i figli per riconoscersi nel proprio destino, gli sarebbe sembrata immorale c quasi pericolosa come la contessa di Terramonde. Nella commedia La principessa Giorgio, dopo tanti e tanti anni, si continua la polemica cara al Dumas contro le cortigiane trionfanti; e si tocca anche un altro tema: quello della legge che obbliga il marito a garantire alia moglie abbandonata la vita materiale, ma è impotente a proteggere e a salvare la sua famiglia* che crolla. Per questo riguardo Alessandro Dumas, con una eloquenza bene argomentante, chiedeva troppo al codice. Ma nella Principessa Giorgio queste tesi passano in se conda linea. La commedia è d’amore. L’amore vi trionfa sull’istinto ». «E’ stata messa in,scena con buoni risultati da Luigi Carini. Belli i costumi di Brunetta e del Salussolia. Anto nella Peti-ucci ha sofferto il dramma della protagonista recitando con ardore giovanile e commozione sentita; Carlo Lombardi ci ha presentato una impetuosa figura romantica con molto rilievo; Mercedes Brignone ha por tato nel dramma una gustosa nota di sensata comicità; Luigi Carini ha recitato con la consueta simpatia e uma nità; e Lina Bacci, Niella Zocchi, il Toniolo, il Sanni, il Battistella, le signore Olivetti, Rizzo e Papa ebbero meri tata parte degli applausi ripetuti e molto calorosi che dopo ogni atto chiamarono gli interpreti alla ribalta. Ot tima, per esattezza e teatralità, la traduzione di Carlo Lari ». 7^ La sera del 31 dicembre, al Teatro Nuovo di Milano, la Compagnia di quel Teatro (Spettacoli Errepi) con Laura Adatti e Luigi Cimara, ha ri preso la (bella e divertente commmedia in tre atti di En rico Raggio: I vestiti della donna amata. Il successo che già ottenne questa commedia nel 1936, quando noi l’abbiamo pubblicata, nel fascicolo nu mero 229, si è rinnovato feste volmente, giacché il pubblico — dice Eligió Possenti — «ha riso spesso e si è continuamente divertito. La gaia leg giadra e umoristica commedia trae le sue origini da fonti straniere. In essa un barone maturo ed elegante, piantato in asso dalla moglie, non vo lendo più vedere in casa nep pure i numerosi e meravigliosi abiti dell’infedele, ordina al maggiordomo di regalarli alla prima che passi. La quale è una fanciulla di popolo vivace e spavalda. Figuratevi lo stu pore della ragazza, uno stu pore pari a quello di Sly, quan do si risveglia in casa del principe; ma si adatta subito alla nuova aurea sorte e tanto sa fare che il barone se ne in namora e, condotta a termine la pratica di divorzio con la moglie, le propone di pren derne il posto. Ma ora il ba rone vuole troppo e la ragazza, che già somiglia fisicamente al l’altra, rifà il gesto di quella e se ne fugge con un nipote del suo generoso e innocuo protet tore. Tutta questa storia che pare una fiaba ad amaro fine è sceneggiata con composta gio vialità, dialogata con malizia bene educata e rallegrata da particolari graziosi e ridenti e soprattutto recitata mirabilmen te da Luigi Cimara e Laura Adani, che hanno fatto del ba rone e della ragazza due figure disegnate con fine gusto, felice comicità e molta ed esperta bravura. Renata Seripa è stata d’un’arguzia piacevolissima, Er nesto Calindri, Augusto Mastrantoni, il Galli e il Carloni hanno dato ai loro personaggi il tono e il colore appro priati ». G I U D I Z I C O N Ca leva del ’90 CZ II nostro caro e bravo Gherardi ha elencato recentemente, in una rivista teatrale, un gruppo di commediografi italiani (anzi: due gruppi, secondo un’amena distinzione della quale la colpa non è davvero sua), e ha fatto seguire all’elenco, tra l’altro, l’afferma zione: «tutti sono della leva del ’90». Del ’90? Il nostro caro e bravo Ghe rardi, evidentemente, ha un concetto assai personale del valore degli anni. Precisiamo dunque, su autorevoli do cumenti, l’età dei signori di cui Ghe rardi si occupa, compreso lui. Per ordine decrescente (decrescente in età, intendiamoci): Lodovici 1885, Viola 1887, De Stefani 1891, Gherardi 1891, Giannini 1891, Betti, 1892, Can tini 1893. Landi 1895, Tierì 1895, Meano 1899. Quella che, per Gherardi, sarebbe la leva del ’90, comprende, dunque, esat tamente, un quindicennio. Pensiamo a quello che accadrebbe se Gherardi fosse impiegato in qualche Ufficio Leva: richiamando due classi e mezza si farebbe una mobilitazione generale. (Da una nota di Cesare Meano). Cinema e X.eatro rT II divo Nazzari ha detto su d’un giornale che non fa l’attore di prosa per non interpretare commedie stu pide e insulse. Infatti egli non inter preta che film profondi elevati poetici filosofici leonardeschi e danteschi! La verità è che nel cinema il divo Nazzari incassa 10.000 lire al giorno, mentre nel teatro avrebbe solo 50 lire di paga. (Da una nota dti Carlo Veneziani). ^ Lilia Silvi, d’una stucchevolezza che questa volta supera ogni limite, e Ame deo Nazzari sul viso del quale difficil mente sì riescono ad individuare le pieghe non diciamo di una partecipa zione ma almeno quelle di un decoroso mestiere. (Dalla critica di Giuseppe De Santis al film La ’bisbetica dormita). Verismo "W Era la sua serata d’onore e Cenassi non lesinò gli effetti; anzi puntò tutto su di essi giungendo con un realismo estremo fino a malmenare ser'amente Laura Carli, a somministrarle autentici e sonori schiaffi, a graffiarla (come Grasso faceva con Mimi Aguglia che ritornava sanguinante in camerino e piena di lividi), a sbatterla su una pol trona novecento (perciò angolosa), a scuoterla come un alberello pieno di frutta. Bisogna riconoscere che la Carli sopportò tutto con calma e compren sione. (Dalla critica di Francesco Calieri, ellecommedia: I disonesti di Rovetta). Clsa (e compagni) 1K Che festa sentir recitare così bene Elsa Merlini ed i suoi compagni! An cora una volta si è avuta la con ferma che il teatro — intendo dire lo spettacolo, il fatto scenico — si basa essenzialmente su gli attori: la loro espressività, la loro naturalezza, la loro fusione, il senso di sincerità L E F I N Z E viva c commossa, sentita, vissuta che fa dimenticare di trovarsi di nanzi alla elaborata finzione di un palcoscenico; tutto quanto nella vi vezza del gioco scenico, nei gesti, nella voce, nel sorriso, nel pianto, nel silenzio degli interpreti si fa pre stigioso inganno e seducente emozione illudendo lo spettatore di sorprendere una verità sofferta e spontanea; que sto miracolo inuguagliabile è veramen te il segreto e il fascino del teatro, la sua eterna giovinezza. Giustamente, al l’uscita, un collega mi ricordava l’os servazione di un grande regista: una commedia ben recitata è come se fosse ben fatta. (Dalla critica di Ermanno Contini al la commedia di Guido Cantini : Gli addii). epoche TRT Nel programma è detto che Fazio» ne si svolge «quando e dove volete ». Chiamati ad esprimere la nostra pre ferenza, diciamo: Nel 1910, sul palco scenico di una piccola città di pro vincia. (Dalla critica di Enrico Damiani alla commedia di Guido Cantini : Gli addii). ves*a9Ì*a Naturalmente il più a posto di tutti in questo lavoro (« Sogno di una notte d’inverno » di T. Musatescu) fu Lombardi. Al quale sono disposto a perdonare ogni cosa ma non la so lita vestaglia di velluto nero. Adesso basta. L’ho vista troppe volte. Ogni suo personaggio, appena può, si mette la solita vestaglia di velluto nero. Almeno la facesse scingere. E soprattutto non gli perdono che su quella vestaglia, ricamate in filo d’argento, tenga le iniziali «C. L- » che essendo del suo nome accusano dJi «infatuazione per vestaglia » non tanto il personaggio quanto l’attore. Il che, umanamente parlando, è assai più grave. Tanto più che Lombardi quando riceve delle am miratrici prima di presentarsi a loro, sicuramente si mette quella famosa vestaglia di velluto nero. . “ “p lauditores,, ^ In platea, applaudirono molto i «plauditores ». Chi sa se un giorno potremo assi stere ad una prima senza di loro e sapere veramente il parere del pub blico. Perchè, d’accordo, anche questi signori laterali sono pubblico; ma pub blico pagato al quale viene detto il numero delle chiamate da realizzare ad ogmi atto. Quel numero che poi fedelmente i crìtici dei quotidiani ri porteranno come espressione di plauso vero. I «plauditores ». Ecco una delle vere calamità del teatro. Sarebbe ora di piantarla con questi mestatori del cat tivo gusto. Il pubblico ormai ha ab bastanza intelligenza per capire il bel lo e il brutto. Lasciatelo fare e saprete veramente i suoi gusti. E, soprattutto, i signori dei quotidiani evitino di par lare di calorose accoglienze quando poi il vero pubblico esce scuotendo la testa e dicendo: «L’è una stupidata». (Dalla critica di Gilberto Lover&o a Sogno di una notte d’inverno). B O U O C O M M E D IA I L D A L L E m S S O M G G K DONNA JUANA - DON MARTIN - DONNA INES DON PEDRO - DONNA CLARA - DON JUAN QUINTANA - CARAMANCHEL - OSORIO - DON DIEGO - DON ANTONIO - VALDIVIESO . DON DECIO - UN ALGUAZIL - UN MUSICO. IO A L Z E IN T R E G IO R N A T E D I T I E S O D A Riduzione italiana di ALESSANDRO BRISSONI --------------------------------------------------------------ò T^rso da Molina è lo pseudonimo di quel frate Gabriele Tellez autore — a. sua stessa confes sione — di oltre trecento commedie scritte in soli 14 anni. Tirso da Molina deve essere piaz zato in mezzo ai due più grandi poeti spagnoli del suo secolo (il XVII): Calderon e iLope de Vega. Forse i due lo sopravanzano; il primo per la più solenne religiosa visione della vita; il secondo per la potente fantasia che, con bar bagli di genio, ha dato fondo ad ogni possi bilità umana; ma Tirso scavalca entrambi per la teatralità della favola, l’eleganza e la sciol tezza del linguaggio, la fresca fonte di riso e, soprattutto, la malizia spesso picaresca delle situazioni. «Don Gii dalle calze verdi », consi derato il capolavoro di Tirso da Molina, ri specchia un quadro di quella Spagna che sta fra il triste «Don Chisciotte » e i suoi grandi mistici. V ____ J G C R N A T A P R I M A QUADRO P R IM O Sul ponte di Segovia. Quintana — Donna Juana, varcato questo ponte noi ci troveremo nella grande Madrid. Riposiamoci un poco. Nes suno ci sente. Sotto di noi - guarda - scorre fra la sabbia rossa il piccolo rigagnolo del Manzanares. Perchè siamo qui a guardarlo? Nella nostra bella Valladolid avevamo l’Esqueva, con le sue acque chiare e impetuose, avevamo i nostri giardini fioriti e tante altre cose ancora. Perchè abbandonare tutto questo? Perchè arrivare sin qui? Per chè, per qual pericolo - posso saperlo una buona volta - ti sei travestita da uomo con questa buffa livrea verde? Donna Juana (che è travestita da uomo, con giubba e calze verdi) — Non posso ancora dirtelo, Quintana. Quintana — Senti, da cinque giorni ti seguo in silenzio. Da quando tu decidesti di abbandonare il tuo vecchio padre che ti adora e m’imponesti di non domandarti mai il perchè e il per come della tua partenza, da allora io ti seguo come un allocco e, camminando, mi pongo conti- V E R D I M O L IM A nuamente domande e fabbrico ipotesi. Quel giorno io ho preferito seguirti in silenzio, piuttosto che restarmene a casa a compiere il pietoso ma meno faticoso ufficio di consolare un vecchio padre angosciato. Oggi ti prego di ricompensare la mia' fedeltà con un po’ di fiducia e un po’ di confidenza. Donna Juana — E va bene. Ti racconterò. Quintana — Dimmi. Donna Juana — Due mesi or sono, era la Pasqua e l’aprile stendeva sui campi una veste nuova, lieve come la seta, soffice come il velluto. Sul ponte, come tu sai, in quel giorno, tutta Valladolid si reca a passeggiare. E an ch’io vi andai; e non ne sono più tornata. 0 meglio, non è più ritornata da quel giorno la mia anima. E’ rimasta attaccata ad un giovane che incontrai presso la Vittoria, un giovane bello come un Adone, capace di fare innamo rare mille Veneri, di fare ingelosire mille Marti. Il cuore mi avvertì subito - il cuore è il guardiano della nostra anima • e tremai come mi fossi trovata dinanzi al giu dice di tutta la mia vita. Inciampai, mi si sfilò una scar petta, ed una mano, bianca come l’avorio, mi sostenne. Ahimè, come sapeva sostenere bene! «Signora, un Sera fino celeste non deve cadere sulla terra imitando l’esempio dell’angelo superbo », così disse e mi portò via il cuore. I giorni di aprile sono lunghi, ma quel giorno passò in un soffio. Al tramonto mi lasciò. Come seppe simulare bene in quel suo primo addio amore, gelosia, fedeltà! Se tu mai hai amato, puoi capire come quella notte fu in sonne. Il sole non spuntava mai; pensavo che se ne fosse dimenticato o ¡sdegnasse ormai d’illuminare il nostro cielo. Mi levai con gli occhi pesti e stanchi, aprii la finestra del balcone, laggiù era lui. Da allora egli rinnovò assalti su assalti per abbattere la mia libertà spensierata: lettere, sonetti durante il giorno, serenate durante la notte. Mi mandò dei gioielli, io li accettai e tu sai cosa voglia dire accettare gioielli da un uomo. Ma perchè ti stanco con questi ricordi? In due mesi Don Martin de Guzman, tale è il suo nome, superò con l’astuzia ogni ostacolo. Promise persino di sposarmi, ma la sua parola fu prodiga nel pro mettere, avara nel mantenere. Suo padre venne a cono scenza del nostro ¡amore, seppe che ero nobile, ma non molto ricca. Nello stesso tempo ricevette una lettera da un suo amico di Valladolid, certo Don Pedro di Mendoza, che gli proponeva sua figlia Ines, con settantamila ducati di dote, come Isposa di ¡suo figlio Martin. Temendo uno scandalo pubblico, fece allora preparare di nascosto una carrozza, ed inviò il mio promesso sposo in questa città, così piena 'd’inganni. Quintana, egli è già a Madrid! Per TIRSO DA MOLINA evitare noie dalla giustizia, nel caso io lo avessi fatto per compensare le riduzioni sul mio salario ; del marito ricercare, quel padre interessato consigliò Don Martin di una bella donna e dovevo passare le mie giornate nelle di cambiare il suo nome in quello di Don Gii e scrisse anticamere di personaggi autorevoli. Se ti dovessi dire a Don pPedro, comunicandogli che suo figlio era ormai tutti i padroni che ho avuto, farei più presto a contare fidanzato con una certa Donna Juana e che gli mandava tutti i pesci che sono nel mare. Ti basti sapere che in in cambio un illustre Don Gii, non mi ricordo più di fondo, come tutte le persone di vero merito, io non sono che un grande incompreso. quale illustre casato di Valladolid. Donna Juana — Ebbene, se un giorno farai l’elenco di Quintana — E tu come venisti a sapere lutto questo? tutti i tuoi padroni, dovrai metterci anche me, perchè Donna Juana — I .gioielli che mi aveva regalato servi rono a ifar parlare chi poteva parlare. Ogni mio dubbio, da oggi ti assumo al mio servizio. Caramanchel — Questa è bella! Un paggio che ha ogni mia incertezza femminile scomparvero di fronte ad un cosi grave insulto. Ed eccomi qui, decisa a ritrovarlo bisogno idi un lacchè! Donna Juana — Non sono e non sono mai stato un e a mettergli più di un bastone fra le sue ruote. Per questo paggio. Io vivo di rendita. Il mio servo si è ammalato mi sono travestita e perchè egli non possa neppure lonta e ho dovuto venir qui da solo per conoscere la risposta namente indovinare l’inganno tu dovrai allontanarti da me. a una petizione che ho fatto. Andrai fino a Vallecas che è distante da qui appena una Caramanchel — Entrate giovane nelle anticamere, e ne lega e là aspetterai. Ogni giorno ti manderò mie notizie uscirete vecchio. per mezzo dei fornai che scendono in città. Donna Juana — Il tuo spirito mi piace. Quintana — Con te sono divenuti possibili gl’incante Caramanchel — Alla mia collezione di padroni man simi del mago Merlino. Non voglio darti consigli. Che cavano due soli esemplari; uno con la mente da poeta e Iddio ti aiuti. Mi scriverai veramente ogni giorno? l’altro con la voce da cappone. Voi colmate la lacuna Donna Juana —Stai tranquillo, Quintana. Addio. (Quin del secondo esemplare. tana esce). Donna Juana —'Come ti chiami? Caramanchel (entrando e parlando verso l’interno) — Caramanchel — Caramanchel. E voi? Se non vuoi vendermi a crédito, bottegaio, vieni fuori se Donna Juana — Don Gii. hai coraggio. Caramanchel — E poi? Donna Juana — Ehi! Quel giovane! Donna Juana — Don Gii e basta. Caramanchel (c. s.) — Ti aspetto qui sul ponte e ti dò Caramanchel —- Un cappone anche nel nome! Il co una bella garanzia. gnome è infatti nel nome come i peli, che voi non avete, Donna Juana —- Cosa vi succede? sul viso dell’uomo. Caramanchel — Niente di straordinario: mi sto ormai Donna Juana — Per adesso è necessario che io non abituando a non trovar più credito. mi faccia conoscere da nessuno. Sai indicarmi un albergo Donna Juana — Cosa fate? decente? Caramanchel — Niente. E’ appunto per ciò che sto Caramanchel — Vi porterò in uno dei più puliti di prendendo queste abitudini. Madrid. Donna Juana -— Sei senza padrone? Donna Juana — C’è una padrona? Caramanchel •—- ISì, e sono così sfortunato che se i! Caramanchel — ¡Sì, e giovane. cielo piovesse padroni, le pulci diventassero padroni, e in Donna Juana — Piacevole? padroni si trasformassero persino le pietre del selciato, io Caramanchel —- Solleticante. passerei avanti senza riuscire ad acchiapparne uno. Dona Juana — Che via? Donna Juana — Non sei mai riuscito davvero a trovare Caramanchel -—- Delle Urosas. un padrone? Donna Juana — Madrid, accogli nel tuo grembo questo Caramanchel — Ne ho avuti tanti, ma non uno clic nuovo cittadino. mi piacesse. Fui una volta servo 'di un medico e dovetti Caramanchel — E festeggialo col tuo dolce vino andarmene per ordine della mia coscienza. moscato. Donna Juana — Per ordine della tua coscienza? E Donna Juana — Andiamo, Caramanchel. perchè? Caramanchel —- Andiamo, don Gingillino. (Escono). Caramanchel — Egli era così ignorante che una volta QUADRO SECONDO dovendo curare quattro ammalati nello stesso giorno, ri Stanza. in casa di Don Pedro. copiò quattro ricette diverse da un vecchio almanacco, se le mise in tasca e ne tirava fuori via via una per ogni Osorio — 'Siete certo clic non vi riconoscerà? ammalato. Veder guadagnare i soldi in modo così diso Don Martin — Come potrebbe riconoscermi? Mi ha nesto era uno spettacolo per me troppo penoso e me ne visto un’unica volta quando avevo appena due anni... andai. eccolo. Donna Juana — Un vero modello di onestà! Don Pedro (entrando) — Che tu sia il benvenuto, caro Caramanchel — Fui poi servo di un avvocato, ma non Don Martin, ¡come sta tuo padre? potevo sopportare le sue difese che rimettevano in libertà Osorio (piano) —-Vi ha riconosciuto. dei criminali; di un ecclesiastico e mi faceva orrore la Don Martin (piano) — Non è possibile. sua idolatria per i grassi capponi e per il buon vino; Don Pedro — Vieni, non indugiare, abbracciami, che io di un avaro e dovevo rivendere la biada del suo ronzino posso davvero considerarti ormai come un -figlio. DON GIL DALLE CALZE VERDI Don Martin — Signore, vi stagliate: io non sono Don Martin, sono Don Gii... di... di... Albòrnoz. Don IPedro — Scusatemi... ma il servo mi aveva avver tito che venivate da Valladolid e avevate una lettera da parte del mio vecchio amico Don Andres de Guzinan. Don Martin — Infatti... ma il figlio non è potuto ve nire ed io l’ho sostituito come potrete leggere appunto in questa lettera. (Porge una lettera a Don Pedro che Iti scorre. Piano ad Osorio) Ah!... è andata! Osorio (c. s.) — Sbrigatevi allora a concludere il ma trimonio prima che ci capiti fra i piedi Donna Juana. Don Martin (c. s.) — Lascia fare a me. Don Pedro (dopo aver letto la lettera) — Signore, siate mille volte benvenuto. Donna Ines sarebbe stata fortunata se, per nobilitare il nostro casato, le virtù di Don Martin e le nostre si fossero unite. Ma poiché il poco accorto Don Marlin rende impossibile questo matrimonio, l’essere venuto voi, signor Don Gii di... di... Com’è già il vostro casato? Don Martin —• Ah, sì! Già... proprio... (Piano ad Oso rio) Come mi chiamo? Don Pedro (che ha guardato nella lettera) —- Signor Don Gii di Albòrnoz... Osorio — Di Albòrnoz, sicuro! E’ un nome che si di mentica facilmente. Don Pedro — Al contrario! D’ora in avanti sarà scol pito nella mia mente e nel mio cuore. Questa combina zione mi rende felice, signore, benché non possa dire che la mia Ines ottiene in questo modo un migliore marito, per non fare una lode che suonerebbe sgradita al mio amico; ma credete che lo ¡sento, anche ¡se non lo posso dire. Don Martin —• Signor Don Pedro, la vostra cortesia e la vostra accoglienza mi rendono muto, perchè non mi è possibile trovare parole di ringraziamento degne di tanta affabilità. Qui a Madrid ho molti parenti, alcuni dei quali piuttosto conosciuti. Ciò mi è di aiuto perchè così potrete informarvi subito, evitando lunghe ricerche. Mio padre infatti vorrebbe darmi a Valladolid una sposa più adatta al suo gusto che al mio e se, passando molti giorni, venisse a conoscere il mio progetto, ¡potrebbe forse osta colare questo matrimonio. Don Pedro — Non ho bisogno d’informazioni. La firma del mio amico è la maggiore garanzia che io possa avere. Anche se voi foste un miserabile idalgo, vi darei in sposa Donna Ines se Don Andres intercedesse per voi. Don Martin — Vi sono profondamente obbligato. Don Pedro — Non voglio che Donna Ines apprenda al l’improvviso una così bella notizia. Un inatteso piacere può provocare un’impressione che è meglio invece atte nuare a poco per volta con prudenti parole. Se volete vederla subito e manifestarle il vostro sentimento, senza che sappia chi siete, la potrete incontrare oggi nei Giar dini del Duca. Don Martin — O sole! Fermati, non far mai tramontare la tua luce, perchè il giorno del mio primo incontro con lei non possa mai finire. Don Pedro —• Arrivederci allora nei Giardini del Duca. Più tardi, verrò anch’io. Vi accompagno alla porla. (Esce con Don Martin ci Osorio. Da un'altra porta entrano Donna Ines e Don Juan). Donna Ines — Se continui con questi sospetti, l’anno prossimo non l’avremo ancora fatta finita. Don Juan — Desideri tanto farla finita? Donna Ines — Oggi sei noioso e irritante. Don Juan —- Ti prego di non andarci, se t’importa an cora un poco di me. Donna Ines — Ma l’ho promesso a mia cugina... Don Juan — Quando si vuole, le scuse non mancano. Donna Ines —• Ma che noia ti dà se ci vado? Don Juan — Non so, ma ho come un brutto presenti mento... Allora, hai proprio deciso? Donna Ines — Vieni anche tu e potrai vedere con i tuoi occhi se ti sono fedele o no. Don Juan — Tu ordini. E io obbedisco. Donna Ines — Don Juan, una persona gelosa dubite rebbe anche della stessa innocenza. (Don Pedro sulla porta si ferma ad ascoltare) Vieni oggi al giardino, Don Juan. E ricordati che tu solo sarai il mio sposo. ¡Don Pedro (rientrando piano) ■ — Suo spoiso? Don Juan — Non sono convinto, ma me ne vado, Donna Ines. Donna Ines —iChe il cielo t’illumini. Don Juan! (Don Juan esce). Don Pedro i(facendosi javanti) i— Ines. Donna Ines — Padre mio, debbo uscire. Mia cugina mi sta aspettando. Don Pedro — Mi meraviglio molto che tu distribuisca così leggermente promesse di matrimonio. Sei forse tal mente vecchia da non poter ¡più aspettare? Cosa faceva Don Juan qui? Donna Ines — Non adirarti in questo modo, padre mio. Io gli Ilo dato la mia parola, perchè credevo che anche tu ne saresti stato contento. L’illustre casato di Don Juan dovrebbe fartelo accettare con gioia. Don Pedro — Io ti ho destinato uno sposo più degno. Non volevo parlartene così presto ma tu mi obblighi a farlo: è un giovane di Valladolid molto ricco e ben nato. E io gli ho dato quella stessa parola che tu hai concesso a Don Juan. Donna Ines —- Madrid non era abbastanza grande per cercarmi marito? Madrid è immensa come un mare; ma no, bisognava andare a pescarlo a Valladolid, in un ruscel letto di campagna. E io dovrei accettare tino sposo scono sciuto e rifiutare l’uomo che ho veduto con gli occhi dell’a more?... Pensa bene a quello che fai... Come si chiama codesto bel tomo? Don Pedro — Don Gii. Donna Ines — Don Gii! Magnifico nome per un marito di campagna. Gii! Gesù, che orrore! Per il suo onoma stico gii regalerò una casacca di pelle e un bastone da pastore. Don Pedro — Non fermarti al suo nome. Egli è nobile e ricco. Oggi lo vedrai e stasera tornerai a casa innamorata pazza di lui. Donna Ines (ironicamente) — Proprio cosi? Don Pedro — Mi avevi detto che tua cugina ti stava aspettando. Donna Ines — Non avrei mai immaginato di andar così mal volentieri ad una festa che avevo tanto desiderato... TIRSO DA MOLINA Caro padre, sono desolata, ma oggi sarò costretta a pre sentarmi vestita cosi... per domani mi procurerò un bel l’abito di pastorella. {Esce). QUADRO TERZO Il giardino del Duca. Caramanchel — Don Gingillino mi ha detto di aspet tarlo qui. Con quella voce e quel portamento ho proprio paura che sia la personificazione di uno,spirito folletto Se riesco a scoprire che è così, lo denuncio al Santo Uffizio. Donna Juana (entrando) — Caramanchel. Caramanchel — Qual buon vento vi conduce, padrone? Donna Juana — Un gentile zeffiro d’amore. Caramanchel — Amore per chi? Donna Juana — Amore per una dama che adoro. Caramanchel (a parte) — Una dama? Quando mai si è visto un cappone innamorato di una gallina? (Entrano nel giardino Don Juan, Donna Ines, Donna Clara e alcuni musici). Un Musico — Piccoli pioppi del prato, il mio amore è addormentato: cespugli verdissimi e folti, deli, fate che essa mi ascolti. Stormite leggeri leggeri scacciate i brutti pensieri, i capricci, ogni moina, dalla bionda testolina. E voi pure, o ¡fonti chiare, la dovete risvegliare. Deh, cessate il mormorio: apre gli occhi l’amor mio. Donna Clara — Che bel giardino! Donna Ines —■Questi pergolati sembrano baldacchini sospesi fra i pioppi e i loro grappoli sono lucenti come dei gioielli. Fermiamoci in quest’ombra. Don Juan — Bacco è protettore dell’amore. Speriamo che l’ombra di questo pergolato imi porti fortuna,. Donna Ines — Sediamoci qui, Donna Clara. I baci di questa chiarissima fonte c’inumidiranno le labbra. Don Juan -— Hai voluto dunque venirci ad ogni costo? Donna Ines — Proprio. Per farti vedere come ti sono fedele,. Donna Juana (piano a Caramanchel) — Dimmi se non è bella! Caramanchel — E’ quasi più perfetta del denaro, che per mie ¡è ,sempre stato il massimo della perfezione. Donna Juana — Sono pazzo di lei, voglio parlarle. Caramanchel — Parlatele. E’ lì. Donna Juana (facendosi avanti) — M’inchino a lor si gnori e ardisco chiedere la grazia di unirmi ad una com pagnia così gentile. Donna Clara — Se vo,i non ci foste, non lo sarebbe. Donna Ines — Vostra Signoria non è di Madrid? Donna Juana —- Nacqui a Valladolid e vengo appunto da là. Donna Ines — Avete i lineamenti fini come una fan ciulla. Donna Juana — Per essere più gradito alle gentili signore. Donna Ines -— Don Juan, fate posto a questo cavaliere. (Piano a Donna Clara) Molto simpatico questo giovanetto. Don Juan (piano) — Tutte queste cortesie non mi per suadono. Donna Ines — Se Vossignoria è di Valladolid cono scerà forse un certo Don Gii che è giunto or non è molto da quel paese. Donna Juana — Don Gii... e poi? Donna Ines — Non so. Ma è possibile che esistano altre persone al mondo con un nome simile? Donna Juana — Perchè? Non vi piace? Donna Ines — E’ un nome da contadino e non da cavaliere. Donna Juana — Eppure, anch’io mi chiamo Don Gii, per servirvi. Donna Ines — Voi Don Gii? Donna Juana — Se non vi piace chiamarmi così, da temi un altro nome e io mi ribattezzerò oggi stesso. Don Juan — Cavaliere, alle signore qui presenti poco importa che vi chiamate Gii o Girolamo; fate perciò un po’ meno lo spiritoso. Donna Juana — Scusatemi, ma non volevo recare of fesa a nessuno, volevo soltanto... Donna Ines — Don Juan, state calmo. Don Juan — lo dico: cosa importa a noi se si chiama Don Gii? Donna Ines {piano) — E5 dunque lui il mio preten dente. Mica male. Ha un visetto dolcissimo. Donna Juana — Sono dolente di esservi dispiaciuto pure senza averne l’intenzione. Don Juan —• Dovete scusare anche me se ho passato i limiti. Donna Clara — La musica porti la pace nei vostri cuori. (Si alzano). Donna Ines (a Don Juan) — Non venite con noi? Non ballate? ¡Don Juan — No. Non ballo. Donna Ines — E il signor Don Gii? Donna Juana — Veramente... Don Juan — Non abbiate riguardo per me, vi, prego. Danzate pure. Donna Ines — Don Gii balli dunque con me. Don Juan (tra se) — Ecco quel che si ottiene ad esser cortesi. Donna Clara { tra sè) —• Questo giovinetto sembra un angelo: i suoi lineamenti sono arditi e delicati nello stesso tempo. Non voglio lasciarlo solo con Donna Ines. Donna Ines (tra sè) — Io sento già di morire per lui. (Le tre dame incominciano la danza). I l Musico — Al mulino dell’amore la fanciulla va a portare le speranze a macinare: e vi mette dentro il cuore. Amore è dentro il mulino, macina, macina la farina leggera, bianchissima e fina, la notte, la sera, il mattino. DON GIL DALLE CALZE VERDI ,Nel torrente sono i pensieri, l’uno viene e l’altro va, si accavallano, si rincorrono, notte e giorno sempre corrono. 'Ma i ¡buoi, cioè i sospetti vanno a ¡bere nel torrente e l’asciugan lentamente: mentre meno te l’aspetti, la ruota si è fermata, la fanciulla comincia ad amare, ed amor la sta a guardare con la faccia infarinata. Dimmi, amor, perchè mi guardi? Per te ormai è troppo tardi. Dimmi allor che mai farò? Fuggi, fanciulla, o t’infarinerò. (Termina la danza). Donna Ines (piano a Donna Juana) — Don Gii, a ogni passo di danza la mia anima ti è venuta sempre più in contro. Perdonami se ti ho rifiutato quando ancora non ti avevo veduto. Tu sarai il mio sposo. Ti amo. Donna Clara {tra sè) —■Mio adoralo Don Gii, io lo amo. Donna Juana Kpiano a Donna Ines) — Quel vostro cavaliere ci sta guardando. Me ne vado. Donna Ines — Geloso? Donna Juana — Per niente. Donna Ines — Sapete dove abito? Donna Juana — Lo iso. Donna Ines — Mi verrete a trovare? Donna Juana — Stanotte sospirerò sotto le vostre fi nestre. Donna Ines — E io non dormirò. Donna Juana — Addio. Donna Clara (tra sè) — Che peccato! Se n’è già an dato. (Escono Donna Juana le Caramanchel). Donna Ines — Cosa avete, Don Juan? Don Juan — Ah, Ines, adesso finalmente ho capito. Donna Ines —• Ecco mio padre: smettila o rimanda a dopo le tue solite scene. Don Juan — Me ne vado: ma non finirà qui. {Esce). Donna Ines — Faccia quello che vuole, Giara, io amo Don Gii. Don Pedro {entrando con un musico e Don Martin) — Ines. Donna Ines —■O caro padre mio, Don Gii non iè un uomo : è uno scrigno... Don Martin — Come? Donna Ines —- E’ uno scrigno 'dove amore ha riposto la grazia, la bellezza, lo spirito, la gentilezza, la poesia. Io l’amo, l’adoro, sento che morirò se non mi starà sem pre vicino... Don Pedro {piano a Don Martin) — Don Gii, quando mai vi ha veduto? Don Martin — Se non mi ha visto uscendo di casa per venir qui, non saprei (davvero quando. Don Pedro — E’ bastato. Tutto merito del vostro aspetto, Don Gii, me ne rallegro. Tocca a voi; fatevi avanti. Don Martin —• Signora... non ho parole per esprimere i sensi della mia più viva gioia nell’ascoltare le vostre parole. Non avrei mai sperato che bastasse vedermi un solo momento per istrada iper farvi innamorare in questo modo di me. Donna Ines — Ohe dite? Io innamorata di voi? E chi vi 'ha mai visto? Siete pazzo? Don Pedro — Ma Ines, figlia mia, che ti prende? Non parlavi proprio adesso di Don Gii? Donna Ines — Ebbene? Don Pedro — Non eri entusiasta di lui? Donna Ines — Infatti: egli non è un uomo, è un angelo. Don Pedro — Ebbene, eccolo. Don Martin — Son qui. Donna Ines — Voi? Don Martin — Io. Donna Ines — Buffone! Donna Clara — Presuntuoso! Don Pedro — Ma ti assicuro che è lui... Don Martin — ...vengo da Valladolid... Donna Ines — Anche il mio Don Gii viene da Valla dolid, non ha una brutta faccia come la vostra e ha in vece due calze verdi che non sono due calze ma due cieli. Don Pedro — E il suo casato sarebbe? Donna Ines — Don Gii dalle calze verdi: a me basta. Don Pedro — Donna Clara, volete dirmi voi cosa è successo? Donna Clara » — E’ successo che io da oggi ho un pa drone e si chiama Don Gii. Donna Ines — Tu? Donna Clara — Proprio io, e dirò subito a mio padre che lo voglio sposare. Donna Ines — Se fai questo, ti strappo il cuore. {Donna Clara esce). Don Martin — Ho l’impressione che esista un altro Don Gii. Don Pedro — Te la farò smettere con questi capricci. Donna Ines — Capricci? Tu mi hai proposto Don Gii e io sposo Don Gii. Don Martin — Ines, sono io quello vero, quello che vi renderà felice. Donna Ines — Il vero Don Gii ha le calze verdi. Don Pedro — Nella mia lunga vita non mi era mai capitato di vedere una ragazza innamorata di un paio di calze. (A Don Martin) Non temete, riuscirò ben io a farle passare questi grilli dalla testa. Andiamo, pazzerella. {Esce con Donna Ines). Don Martin — Verdi! E’ un colore un po’ vistoso... ma se piace e lei... {Al musico) Scusate, sapreste indi carmi un negozio di calze in città? {Il musico fa cenno di no con la testa. Don Martin esce). I l Musico {andandosene) Amore è dentro il mulino, macina, macina la farina leggera, bianchissima e fina, la notte, la sera, il mattino. F I N E D E L L A P R I M A G IO R N A T A G IO R N A T A S E C O N D A QUADRO P R IM O Stanza in casa di Donna Juana. Quintana — Ad ascoltarti mi sembra di sognare: pos sibile che in così poco tempo tu abbia combinato tutti questi pasticci? Donna Juana (vestita da donna) —• Non sono poi molti: Don Martin vuole conoscere ad ogni costo chi gli ha rubato il nome e l’amore, e fin qui niente di stra ordinario. Don Pedro è in grande agitazione perchè Donna Ines non vuole sposare Don Martin, e questo è logico. Donna Ines è innamorata perdutamente di me e passa tutto il giorno alla finestra domandando se è stato visto un tale con le calze verdi... Quintana — ... e anche questo rientra nell’ordine na turale delle cose. Donna Juana — Ah, dimenticavo; un certo Don Juan, ex-prediletto di Donna Ines, è geloso pazzo e mi sta cercando per ammazzarmi. Quintana — E questa è una piacevole prospettiva... Donna Juana — Ah, c’è poi anche una certa Donna Clara, cugina di Donna Ines. Lei invece ha ottenuto da suo padre il permesso di sposarmi subito e ha sguinza gliato i suoi servi per tutte le osterie della città... Quintana — ... alla ricerca di un certo Don Gii da Valladolid... Donna Juana — ... con le calze verdi. Quintana —■Connotati chiarissimi per un piccolo vil laggio come Madrid. Donna Juana — Ah, mi sfuggiva: quel mio nuovo servo del quale ti ho parlato, quel Caramanchel, da ieri non è più riuscito a trovarmi e finirà col credere che sono stata uccisa dal geloso Don Juan. Quintana — Forse lo farà anche arrestare. Donna Juana — Può darsi: benché questo particolare non abbia nessuna importanza nel mio gioco... Quintana —- Povero Caramanchel! E cosa fa adesso? Donna Juana — L’ho visto passare proprio adesso per la 'Strada : va fermando tutti i passanti per chiedere in formazioni su di un tale dalle calze verdi... Quintana — Mai un paio di calze fu così famoso! Donna Juana — Certo che Caramanchel non s’imma ginerà mai che mi trovo qui e vestita da donna... Quintana — A proposito, non te l’avevo domandato, perchè questa nuova trasformazione? Donna Juana — Come Don Gii, abito in un albergo lontano da qui. Vestita così, mi chiamo invece Donna Elvira e sono vicina di casa di Donna Ines, la quale, colpita dalla straordinaria rassomiglianza del mio volto con quello del suo scomparso Don Gii, è diventata mia buona amica. Quintana — E tutto questo perchè? Donna Juana — Non capisci? Essa riversa su di me la piena delle sue pene e delle sue disavventure e così io posso essere informata minutamente, giorno per gior no, dei movimenti di Don Martin in casa sua. Quintana —■Però, tenere contemporaneamente due al loggi in Madrid non deve costare molto poco. Donna Juana — Li ho pagati con l’ultimo gioiello dì Don Martin. Adesso dovrò andare avanti con la mia sola intelligenza. Quintana —• Ho l’impressione che arriverai molto lontano. Donna Juana — Ti ho fatto chiamare perchè dovrai recarti oggi da Don Martin e dirgli che mi hai visto... Quintana — Che ti ho visto? Ma come? Donna Juana — Non mi hai visto a Madrid, natural mente, ma a Valladolid, nel convento di San Quirce. Quintana — Nel convento di San Quirce? Donna Juana —• Ma sì: è molto semplice. Nel con vento di San Quirce, piangente, disperata e incinta. Quintana —- Incinta? Donna Juana — Naturalmente. E’ logico. Disonorata, abbandonata, ho voluto non assistere allo sdegno e alla morte per disperazione di mio padre. Quintana — Sì, tutto questo è molto naturale come dici tu, ma perchè dovrei raccontare questa favola a Don Martin ? Donna Juana — Per evitare che sospetti òhe io mi trovo a Madrid per disturnargli i suoi piani. Ad un certo momento comincerà a pensare che tutti questi ostacoli non sono molto naturali. Quintana — Se lo dici tu... Donna Juana — Ti darò anzi una lettera da portargli. Andiamo di là, chè in questa stanza aspetto una visita. Quintana — Di chi, se è lecito? Donna Juana — Di un personaggio abbastanza impor tante: di Donna Ines. Da questa parte. (Esce con Quin tana). Donna Ines (entrando con Don Juan da una porta op posta a quella da dove è uscita Donna Juana) — Don Juan, seguirmi fin qui: tu sorpassi i limiti. Don Juan — Tu li sorpassi, con la tua incostanza. Donna Ines — La natura è ¡mutevole, Don Juan, e perciò è bella. Io voglio essere come la natura: beila e mutevole. Don Juan — Se queste virtù sono in proporzione, tu diventerai bellissima. Donna Ines — Smettila con ¡queste ¡stoltezze. Ricordati ¡che siamo in casa altrui. Don Juan — Va bene, me ne vado: vado ad ammaz zare Don Gii. Donna Ines — Guarda che c’è un Don Gii più peri coloso di quello che tu ¡conosci. Don Juan — Ce n’è un altro? Donna Ines — iSì, si ctiiama Don Gil -di Albornoz, e mentre il primo è scomparso, questo secondo è andato da mio padre, gii ha chiesto la mia mano e l’ha ottenuta. Don Juan — Don ¡Gil di Albornoz... dove abita? Donna Ines — Nel palazzo di fronte al nostro. Don Juan — Tu lo ami? Donna Lnes — Mio padre mi comanda di sposarlo e dovrò obbedirgli... Ma io lo odio e vorrei saperlo morto. (Don Juan esce precipitosamente) Riuscisse almeno a levarlo di mezzo. Così rimarrei libera e potrei unirmi al mio adorato Don Gii. Donna Juana (rientrando con Valdivieso) — Oh! Donna Ines! Mi avete prevenuto! Stavo proprio per uscire e DON GIL DALLE CALZE VERDI venire a farvi visita! Olà, Esperancilla, Vega, Serafina! Ma dove sono andate a finire tutte le mie domestiche? Valdivieso — Ma chi state chiamando, se non ci sono che io in questa casa? Donna Juana — Questo succede a concedere troppa li bertà alla servitù! Beh, voi, Valdivieso, togliete il man tello alla signora. (Valdivieso toglie il mantello a Donna Ines ed esce borbottando). Donna Ines —■Donna Elvira, la tua gentilezza è pari alla tua grazia. Donna Juana — (Accetto i tuoi complimenti anche se conosco che tanta simpatia deriva dalla somiglianza con un certo signore. Donna Ines — Non devi dir questo: sono sincerissima. E meriteresti che «’innamorasse di te un Adone, un Nar ciso, il sole stesso! Donna Juana —Mi accontenterei di un semplice uomo che invece mi ha abbandonato. Donna Ines — Non è possibile. Chi è questo infame? Donna Juana —- Cambiamo discorso, Donna Ines, mi viene da piangere. Non tocchiamo una ferita ancora aperta. Donna Ines —, Io ti ho confidato le mie sventure. Tu devi confidarmi le tue, se bai fiducia nella nostra nuova amicizia. Vedrai, servirà a sollevarti. Donna Juana — No, non insistere, mi si spezza il cuore. Donna Ines — Ti prego, amica mia... Donna Juana —- Ebbene, promettimi di non piangere al racconto delle mie disgrazie. Nacqui a Burgos... sai, Burgos? Donna Ines — Sì, Burgos, capitale della Castiglia! Donna Juana — Proprio, Burgos, capitale della Ca stiglia... mio padre si chiama Don Rodrigo de Cisneros... bel nome, no? Donna Ines — Sì. Donna Juana — Fin dall’infanzia amai un certo... Don Miguel de Ribera. In principio mi corrispose. Poi, come succede con gli innamorati incostanti, dopo aver tutto ot tenuto mi abbandonò... mi abbandonò e fuggi a Valla dolid... è chiaro fin qui? Donna Ines — Sì: perchè dovrebbe essere oscuro? Donna Juana — Sai... con tanti nomi... A Valladolid Don Miguel de Ribera andò a trovare Don Gii de Albòrnoz, suo cugino. Seppe che stava per partire per Madrid con una lettera di presentazione di suo padre per tuo padre Don Pedro. Don Miguel allora, vera anima di avventu riero, concepì un piano diabolico: rubò la lettera a Don Gii, venne a Madrid e si presentò al suo posto in casa di tuo padre. Donna Ines — E tu, come hai fatto a sapere tutto questo? Donna Juana —- Dal giorno che mi abbandonò, ho sempre seguito i suoi passi come un’ombra. Ebbi poi la ventura di conoscere, durante il mio viaggio verso Madrid, Don Gii in persona che, scoperto il furto ed il tranello del cugino, veniva anche lui per smascherare il colpevole. Durante il viaggio, come è logico, la nostra simpatia reciproca si accrebbe anche per la straordinaria somi glianza dei nostri volti e-,lui addirittura s’innamorò... Donna Ines — Di chi? Donna Juana — Di me. Donna Ines — Don Gii di Albòrnoz? Donna Juana — Don Gii di Albòrnoz, quello vero. Donna Ines —■ Quello con le calze verdi? Donna Juana — Verdi come l ’aprile e l’erbetta tenera dei giardini reali. Donna Ines — Tanto ti ha colpito il colore delle sue calze! Lo ami, dunque! Donna Juana — Com’è possibile, se sono sposata, benché abbandonata? Sono costante, benché donna. Donna Ines — Ahimè! Cosa posso più ormai sperare, se egli ti ama, cara Elvira? Ecco perchè non mi ha più cercato ed è scomparso come nebbia al sole! Donna Juana — lo ho già respinto Don Gii, e con tinuerò a respingerlo... se tu respingerai don Miguel. Donna Ines — Puoi dubitare di ciò? Come posso spo sare un uomo che ha già moglie? Stai tranquilla. Donna Juana — E allora, accomodati. (Le indica una porta) Scriverò sotto i tuoi occhi una lettera per Don Gii nella quale gli toglierò ogni possibile speranza. Donna Ines — Ah! Elvira, da oggi io sono la tua schiava... (Esce dalla porta indicatale). Donna Juana — La sciocchina è già nella trappola. Dunque... io Don Gii amo Donna Elvira, io Donna El vira amo il falso Don Gii... che poi è falso in tutti i casi, perchè non è mai esistito un vero Don Gii... Ho paura die la faccenda si vada complicando... (Canterel lando) Nel torrente sono i pensieri, l’uno viene e l’altro va, si accavallano, si rincorrono, notte e giorno sempre corrono. (Esce). QUADRO SECONDO lina strada di Madrid. Don Martin (vestito di verde) —• Quali tristi notizie mi porti, Quintana. Dunque l’hai vista proprio in un convento? Quintana — Se l’ho vista? E’ in uno stato pietoso, sta per diventar madre. Don Martin — Che dici? Quintana —- E’ questione di giorni ormai, se non di ore. Ha continui mancamenti, voglie di ogni genere... se non correte da lei, morirà per il dolore ed il disonore. Don Martin — E io, Quintana, avrei giurato che fosse venuta a Madrid per perseguitarmi. Quintana — Fate molto torto alla sua persona pen sando questo di lei. Don Martin — Non avrebbe potuto seguirmi tra vestita? Quintana -— Ma questa lettera che vi ho portato, non vi ha proprio detto niente al cuore? Don Martin — Hai ragione, Quintana, le sue invoca zioni sono troppo sincere e ne sono profondamente tur bato. Ripartirò per Valladoiid entro la settimana, appena avrò sbrigato un affare che ho ancora in sospeso. Do mani passa da me, che ti consegnerò una lettera per lei. Quintana (piano) — Dove andrà a finire tutto questo imbroglio? (Esce). Don Martin — Donna Juana sta per avere un figlio, un figlio da me. Io sono padre!... Era veramente indegno quello che io stavo per fare qui in Madrid... indegno so- TIRSO DA MOLINA prattutto per un cavaliere. Torniamocene al più presto a Valladolid. Don Juan (entrando) — Signor Don Gil de Albornoz, se siete così bravo a maneggiare la spada come a pre tendere di sposare una donna che vi aborre, rechiamoci in un luogo dove possiate mostrarmi un coraggio almeno uguale alla vostra impudenza. Don Martin — Contenete la vostra collera, signore, o sarò costretto a contenerla con la mia spada. Calma, si gnore. Se Donna Ines mi aborre e ama invece voi, an diamo da lei e sentiamo cosa essa dice. Io mi rimetto al suo giudizio. Don Juan — Essa ha detto che vi sposerà, ma che lo fa per obbedienza a suo padre. Don Martin —• E dunque? Essa mi sposerà. Non sono così stupido da battermi adesso che conosco la sua risolu zione e non mi faccio ammazzare alla vigilia di un matri monio, da voi stesso confermato. Fra un mese, dopo le nozze, ci potremo battere, se proprio lo desiderate. Don Juan — Ci rivedremo prima delle nozze, signore, parola di Don Juan. (Esce). Don Martin — Adesso che so che Donna Ines ha de ciso di sposarmi, il mio primitivo progetto logicamente decade. Sarebbe un vero affronto alla Provvidenza buttar via un’occasione simile. Donna Juana è intelligente, mi comprenderà e mi perdonerà. Osorio (entrando) —■Sia ringraziato il cielo. E’ arri vata una lettera per voi... Naturalmente è indirizzata a Don Gil de Albornoz... Don Martin — E’ la scrittura di mio padre. Guar diamo: ce ne sono due dentro, una per me e l’altra per Augustin Solier de Camargo, mercante. Osorio — Speriamo che sia uno che ci dia finalmente del denaro: comincia ad essercene bisogno. (A Don Martin che sta intanto leggendo la lettera) Che dice! di bello? Don Martin — Di riscuotere mille scudi da questo mercante per l’acquisto di qualche gioiello per il mio ormai sicuro fidanzamento con Donna Ines. Osorio — Non sarà poi necessario spenderli tutti in regali... Don Martin — Ah! Dice poi che Donna Juana è scomparsa da casa sua e mi consiglia di far presto a sposarmi... Osorio — Ahi! Questa è una brutta notizia! Don Martin —1Per niente! Io so dove si trova Donna Juana : è nel convento di San Quirce e per di più incinta. Osorio —■Accidenti! Un bel guaio! E cosa farete? Don Martin — Seguirò da figlio obbediente il -con siglio di mio padre: sposerò al più presto Donna Ines. Osorio — E Donna Juana? Don Martin — Le scriverò una bella lettera, commo vente. La consiglierò a farsi monaca. Osorio — In fondo, in convento c’è già... Caramanchel (correndo verso Don Martin che gli volge le spalle) — Signor Don Gii, signor Don Gii, dove eravate andato a finire? Don Martin — Che ti prende, gaglioffo? Caramanchel — Oh, scusatemi! Ma a vedervi da lon tano vestito cosi mi eravate sembrato il mio signor pa drone Don Gii... Don Martin —- Io mi chiamo Don Gii. Caramanchel — Don Gii voi? Adesso capisco la scom parsa del mio padrone da due giorni. Voi siete un as sassino di strada... Don Martin — Bada a te, villano... Caramanchel — Non ho paura di voi, briganti. Siamo su di una pubblica via, e di giorno, e io vi farò legare dalla -giustizia. Don Martin — E’ un pazzo. Andiamo, Osorio, a ri scuotere il denaro di questa lettera... Caramanchel — Ah, non vi basta depredarlo dei suoi vestiti, anche il suo -denaro,.. (Strappa di mano a Don Martin le due lettere contenute nella busta) Don Gii... C’è scritto Don Gil de Albornoz... il nome del mio de funto padrone... Don Martin — |Dammi quelle lettere... Caramanchel (cominciando a correre) — Aiuto! Giu stizia, soccorso! Guardie, cittadini, ai briganti, agli as sassini! (Fugge via). -Don Martin — Presto, Osorio, bisogna acchiapparlo! Osorio — Al ladro! al ladro! Un Alcuazil (accorrendo) -— Vi -è stato -rubato qual che cosa? Don Martin — No, grazie, niente. E’ un ladro che è passato di qui e il mio -servo -si |è messo a ¡gridare, L’Alcuazil — Dove è andato? Don Martin (indicando la parte opposta a quella dalla quale e uscito Caramanchel) — Di là. L’Alcuazil — Grazie. (Esce correndo dalla parte indi cata). Osorio —- Perchè, padrone, avete detto così? Don Martin — Non capisci che -se la giustizia si- occupa di me, scoprirà il mio vero -nome? Cerchiamo di ripren derlo. (Esce con Osorio dalla parte dove è uscito Cara manchel). Donna Juana (vestita da uomo, entra chiamando) — Caramanchel! Caramanchel! Dove corri? Caramanchel (entra correndo e si ¡erma spaventato) — Padrone, signor Don Gii, siete -veramente voi o siete soltanto un’apparizione? Non -siete morto veramente? Donna Juana — -No, a -quanto pare. Stavo proprio cer candoti. Caramanchel —■E io per cercar voi avevo messo in moto persino i banditori idi -piazza... -Ma dove vi siete cacciato in tutto questo tempo? Donna Juana — In Paradiso. O meglio, in una casa dove abitava la più bella donna di Madrid. -Caramanchel — La più bella donna di Madrid... come -si chiama? Donna Juana — Donna Elvira. Caramanchel — Dunque non vi è accaduto nessuna disgrazia, non -siete mai- -stato -depredato? Donna Juana — Il cuore soltanto mi hanno rubato. -Caramanchel —- E allora queste lettere -di Don Gii? Donna Juana — Quali lettere?... Fai vedere... (Pren dendole) Don Gil de Albornoz... sono io... Caramanchel — Voi siete un diavolo o uno spirito folletto. L’Inquisizione finirà coi fare arrestare anche me come vostro -servo. Donna Juana (che ha intanto letto) — Questo è un or- DON GIL DALLE CALZE VERDI dine di pagamento di mille scudi per comperare dei gioielli a 'Donna Ines... Caramanchel —• Mille scudi? Non ¡ho più paura del l’Inquisizione. Donna Juana (tra sè) — Di 'bene in meglio. Questa fortuna non l’avevo ¡davvero prevista. Manderò Quintana a riscuotere il denaro. (Si avvia). Caramanchel —• Padrone, padrone, non mi fate altri scherzi. Questa volta non mi scappate più. (Esce dietro a Donna Juana). QUADRO TE R ZO In casa di Don Pedro. Don Pedro — Quello ohe mi racconti è assurdo, non posso ¡crederlo. Donna Ines — E io ti ripeto che il cavaliere che si è presentato in casa nostra ¡è un falso Don Gii. Il suo vero nome è Don Miguel de Ribera ed è sposato alla mia cara amica Donna Elvira. Don Pedro — Ho paura che questa tua amica ti abbia raccontato delle grandi bugie. Conosco troppo bene la calligrafia di Don Andres: la ¡lettera ¡ohe Don Gii mi ha portata era autentica. Donna Ines — Sì, ma egli l’aveva rubata al vero Don Gii, il primo che ho incontrato, quello che non ho po tuto più dimenticare. Don Pedro — E questa tua araba fenice non la si po trà mai vedere? Donna Ines —• Sì, dovrebbe essere già qui, come mi ha promesso Donna Elvira. Don Pedro — E allora, perchè ritarda? Donna Ines — Il sole non ¡è ancora tramontato... ma, mio Dio, non è forse lui? La mia speranza riappare con il suo ritorno. Donna Juana (entrando vestita da uomo) — Perdona temi, signora, se, dopo il primo nostro incontro, ho indu giato tanto tempo prima di venire in questa casa. Mi hanno tenuto lontano l’incertezza e l’agitazione recatami da un impostore die, per ottenere la vostra ¡mano, si è impadronito persino ¡del mio nome. Non è stato per di menticanza, credetemi, perchè da quando vi ho cono sciuto non ho pensato che a voi. Donna Ines —■So che non è così, ma siano vere op pure no, accetto le vostre ¡scuse. Signor Don ¡Gii, vi presento mio padre. Egli ha bisogno di voi per chia rire l’equivoco nato dal furto della vostra lettera. Donna Juana •—• ¡Signore, mi ritengo ¡fortunato d’incontrarvi e di poter subito togliervi ogni dubbio sulla mia vera identità. Ecco la migliore delle prove: un’al tra lettera di Don Andres che ho ricevuto oggi, desti nata a voi. Don ¡Pedro (aprendo la lettera) — Sì, la riconosco: è di 'Don Andres. Sono sinceramente lieto idi conoscere il vero Don Gii. Permettete, leggo quello che mi dice il mio vecchio amico. Donna Ines (piano) — Dunque voi non avete fatto che pensare a me? Donna Juana —■ ¡Non ¡posso neppure descrivere la malinconia di ¡questi giorni ¡che ho ¡passato senza ve dervi. Donna Ines — ¡0 piuttosto senza vedere Donna El vira? Don Pedro — In questa lettera Don Andres vi rac comanda ancora una volta, illustrando la vostra fami glia e la vostra onorabilità, e mi augura di concludere presto il matrimonio. Quel Don Miguel de Ribera era davvero un bell’imbroglione. Siate il benvenuto nella mia ¡casa, ¡signor Don Gii. Donna Juana — Posso da oggi chiamarvi padre? Don Pedro (abbracciandolo) — Accogli il mio ¡consenso «e mia figlia ti ama. Donna Juana (abbracciando Donna Ines) — Credete adesso alla sincerità del mio amore? Non sarete più ge losa della vostra vicina? Donna Ines — Non lo sarò più da oggi. Quintana (entrando) — ¡Signor Don Gii, scusate... Donna Juana — Ah, sta bene... Una circostanza im provvisa mi obbliga ad andarmene subito. Ma ritornerò, se permettete, questa notte stessa. Don Pedro — Questa sera, «e vorrete, ¡potremo conclu dere le nozze. Donna Juana — Il mio cuore Io desidera ardente mente. Arrivederci, Donna Ines, tornerò presto. Quintana (piano a Donna Juana) — Tornerai come Donna Juana, Donna Elvira o Don Gii? Donna Juana (piano) — Non lo so ancora neppure io. Vedremo! (Esce con Quintana). Don Pedro (a Donna Ines) — Che giovane ammodo quel Don Gii! Semplice, affabile e soprattutto sincero. Gli si legge la sincerità sulla fronte, fa piacere a guar darlo. Si provi adesso a ritornare, quell’imbroglione. Ma eccolo qui! Che impudente! Don Martin (fra sè) — E adesso che figura ci faccio senza il regalo di fidanzamento? Speriamo che Olorio riesca aid avvertire il mercante... Don Pedro —• Vi siete dimenticato come si saluta, si gnor Don Miguel? Don Martin — Oh, scusatemi, signor Don Pedro, ma sono ancora turbato per un furto... Don Pedro — Questo vostro rimorso vi fa onore... Don Martin — Rimorso? Don Pedro — Sì, Don Miguel de Ribera, sappiamo tutto. Don Martin — Don Miguel de Ribera? Donna Ines — Sappiamo persino che siete nato a Burgos, ¡signor Don Miguel. Don Martin — Ma come! Donna Ines — Ritornate dalla vostra Donna Elvira! Don Martin — Ma cosa vi è stato raccontato? Don Pedro — Sappiate che Don Gii ci ha lasciati pro prio in questo momento, dopo aver acquistato quella fidu cia ¡che voi avete perduto. Don ¡Martin — Quale Don Gii? Don Pedro — L’unico Don Gii, quello vero. Donna Ines —• C’unico uomo al mondo che io amo. Don Martin — Ma che imbroglio è questo? Mi sembra di sognare! Qualche impostore vi ha ingannato... .Don Pedro — Tornate a Burgos, signor Don Miguel, farete bene. Vi risparmierete almeno di fìngere un ¡così grande stupore. (Esce con Donna Ines). TIRSO DA MOLINA Don Martin — E’ incredibile! Ma chi è questo Don Gii che mi perseguita e che non riesco a vedere mai? Per trovarlo regalerei mille scudi. Osorio (entrando) —- Padrone! Don Martin — Ebbene, i mille scudi? Osorio — Volati via, padrone. Don Martin — Come volati via? Osorio —• Sono corso subito dal mercante, come mi avete ordinato, gli scudi erano già stati ritirati da un tale che aveva rilasciato regolare ricevuta firmata Don Gii de Albòrnoz. Don Martin — Ma non è possibile! Osorio — Ho visto con i miei occhi la ricevuta. Don Martin — Non hai domandato com’era fatto? Osorio — Il mercante mi ha saputo dire soltanto che aveva le calze verdi... Donna Ines (rientrando) — Siete ancora qui, impo store? Don Martin 1 — Ma... Donna Ines — Andatevene o vi farò cacciare dai miei servi! E andate a levarvi subito quelle calze. Non vi ba sta di aver rubato il nome al mio sposo? Anche il suo colore preferito volete portargli via? (Esce). Osorio — Già, padrone, non ci avevo fatto attenzione prima. Avete le calze verdi! Meno male! Un bello spa vento mi avete fatto prendere! E anche adesso seguita vate a divertirvi alle mie spalle! I mille scudi li avete ritirati voi! Don Martin (urlando) — Vattene! Non mi fare impaz zire! (Con la testa fra le mani esce agitatissimo). F IN E D E L L A S E C O N D A G IO R N A T A P IO R N A T A_ T E R Z A QUADRO P R IM O Patio in casa di Don Pedro. Caramanchel (cercando di leggere dentro una lettera semiaperta) — Stasera... amore... notte... ho piacere... a donna... vado a visitare... sono vostro... mia... uhm! non ci sono più dubbi... e non c’è più rimedio per il mio Don Gingillino... Si è innamorato come un pazzo della bellezza invisibile della casa di fronte... Donna Ines (entrando) — Dov’è il vostro padrone? Caramanchel (cercando di nascondere la lettera) — Ehm! Non so... venivo appunto qui per cercarlo... cre devo fosse venuto a farvi una visita... Donna Ines —• E’ per me quella lettera? Caramanchel — No... no... Donna Ines —- Ma è di lui. Caramanchel — Sì... sì... Donna Ines — E allora se è di lui, vuol dire che lui ve l’ha data, quindi l’avete visto e vi avrà certo detto dove andava... Caramanchel — Il mio padrone non è un padrone... è un paio di calze in movimento... ora è qui e ora è là mi ha consegnato questa lettera ed è scomparso, ruzzo lato via come ruzzolano le monete che guadagno, sul ta volo dell’osteria... Donna Ines — E la lettera per chi è? Caramanchel — Non ve lo posso dire... è un segreto... Donna Ines — Via, neppure il nome? Caramanchel — Beh, quello sì, fate finta di averlo sentito nell’aria, non da me... è per Donna Elvira, la mi steriosa signora che abita nella casa di fronte... sono stato a portarle la lettera ma non mi ha risposto nessuno... Donna Ines — Oh, ma io conosco Donna Elvira, è una dama di molto merito e mia buona amica... Caramanchel — Donna Ines, diffidate allora dai buoni amici... io non potrei giurare del contenuto di questa lettera... ma ho potuto intravedere così, per puro caso, alcune parole piuttosto preoccupanti... a donna... amore... stasera... sarò vostro... sarete mia... Donna Ines (strappandogli la lettera) — Infame tradi tore, conoscerò finalmente i tuoi inganni. Caramanchel — ¡Per carità, non l’aprite, non facciamo pazzie, se ci scopre Don Gii, mi ammazza. Donna Ines — Se ti avvicini, chiamo i miei servi e ti faccio dare un migliaio di calci. Caramanchel — Gli asini possono tirar due calci alla volta, non mille. ¡Donna Ines (scorrendo la lettera) « ...e non v’inigelosite se stasera andrò a fare una visita a Donna Ines, che sinceramente detesto. Quando verrà la notte sarò vostro, o mio unico amore... » Ah, egli sinceramente mi detesta! Sono dunque un cibo così disprezzabile che si rifiuta senza neppure assaggiarlo? Caramanchel — Sapete, alle volte, sui ¡gusti... Donna Ines — Sì, sposerò Don Juan se riuscirà ad uccidere chi mi ha offeso così atrocemente! Andate, por tate pure la vostra lettera (gliela getta) e salutatemi il suo «unico amore»! (Esce). Caramanchel — Forse ho fatto male a lasciarle leg gere questa lettera. Ma tant’è: adesso mi sento meglio. Quando devo custodire un segreto, ho l’impressione di avere come un boccone a traverso in gola, come un peso sullo stomaco... e invece adesso sto meglio, ali! ho dige rito... sono leggero come un uccellino. (Esce). Donna Juana (entra, vestita da uomo, con Quintana) — Don Martin non rimase dunque molto addolorato per la notizia della mia morte? Quintana — Non tanto... mi sembrò più spaventato e preoccupato che afflitto... Donna Juana — ¡Non gli narrasti tutti i particolari che ti avevo detto? Quintana — Ma sì, l’arrivo del furibondo padre nel tetro convento, le sue amare rampogne, il vostro repen tino malore di fronte a tanto strazio, il vostro conse guente aborto di un mostro con due teste... Donna Juana —• Tre. Quintana — Gli ho detto due... è più normale... Donna Juana —• E tutto questo non lo scosse? Non gli fece invocare il mio nome disperatamente? I suoi occhi non lacrimarono alla notizia della mia morte? Quintana — Sembrò colto da un’improvvisa idea, nata forse dal grande rimorso, come una convinzione che l’iinafferrabile Don Gii che continuamente l’ostacolava fosse un fantasma, lo spirito vagante sulla terra della vostra anima inquieta in cerca di vendetta... Donna Juana — E allora? DON GIL DALLE CALZE VERDI Quintana — Decise di far celebrare mille messe con secutive nelle chiese di Madrid in suffragio della tua anima. Donna Juana — In questo modo stasera sarò già in Paradiso... Ma il rimorso gli ha fatto almeno rinunciare al suo -progetto circa Donna Ines? Quintana — Neanche per -sogno! E’ proprio per questa ragione che ti fa dire tante messe: una volta -che il tuo spirito -sia placato, egli la sposerà. Ormai - ha -detto - ne va del suo nome e del suo decoro. Donna Juana — Peggio per lui: se rimane qui, voglio vedere cosa farà quando arriverà mio padre... Quintana — Tuo padre viene a Madrid? Donna Juana — Naturalmente! Gli ho scritto che ero moribonda... Quintana — Ah! Non più morta, moribonda. Donna Juana — -Cerca di -capirmi: morta per Don Martin, moribonda per mio -padre. Quintana — E perchè questo... trattamento -di favore per tuo padre? Donna Juana — ET molto logico... Don Martin, acce cato da folle amore per Donna Ines, mi ha pugnalato per togliermi di mezzo. Morente, abbandonata, pentita, ho scritto a mio padre chiedendogli l’estremo perdono e la vendetta del mio onore offeso. Egli lascierà cosi al più presto Valladolid e piomberà inaspettatamente ad dosso al nostro caro Don Martin... e, -come è naturale, ne vedremo delle belle. Quintana — Sì, sì tutto questo è molto naturale... Io vado... Donna Juana — Dove? Quintana — Alla -cattedrale. Ho un appuntamento con Don Martin. Dobbiamo assistere ad una grande messa cantata in -suffragio della tua anima. (Esce). Donna Clara (entrando) — Oh, Don Gii, -per vedervi devo venire nella casa -di mia -cugina Ines... Non potrò dunque incontrarmi con voi in altro luogo, per un’ora.che dico un’ora? per un istante soltanto? Anch’io pos seggo una casa come Donna Ines, anch’io, come lei, so amare. Donna Juana — -Amare... chi, se è lecito? Donna Clara — Voi. Donna Juana — Me? Donna Clara — Perchè no? Donna Juana — Oh, l’avessi saputo prima! Donna Clara — Perchè?... Capisco... Io temevo... ades so è troppo tardi. Donna Juana — Ma no! Non fraintendetemi, angelo mio... Rimpiango tutto il tempo -che ho perduto venendo i-n questa casa, non osando, non sperando neppure che mi avreste degnato di uno sguardo. Non ho mai chiesto nè della vostra casa nè dei vostri adoratori, tanto ero sicuro che non avrei neppure potuto avvicinarmi alla vostra tanto vagheggiata persona... -Donna Clara — La mia casa è alla Rete di San Luigi, i miei adoratori sono mille, ma uno solo -c’è che ha preso tutto il mio cuore, le -sue calze hanno il colore della speranza, il suo -nome è Don Gii. Donna Ines (entrando e nascondendosi subito) —■ Don Gii -con mia -cugina? (Don Gii bacia la mano a Donna Clara) Possibile che un uomo così giovane ardisca tanto? (Si mette ad ascoltare). Donna Juana — -Dal giorno che v’incontrai per la -prima volta nei Giardini del Duca, cominciò per me una buia e grave notte: mancava la mia luce, il mio sole, mancavate voi, Donna Clara. Donna Clara — -E allora perchè venivate -così spesso a... illuminarvi qui da Donna Ines? Donna Juana — Ma Donna Ines è le tenebre, è il buio -completo, è l’abisso nei vostri confronti. E io ve nivo -qui per aumentare la mia disperazione e immer germi maggiormente nei -miei tristi pensieri... -Donna Clara — Non sono molto persuasa... La vostra disperazione avrebbe dovuto condurvi alla -solitudine, non a delle visite così assidue a mia -cugina... Donna Juana — Ebbene, vi dirò la verità... è -tanto logico... venivo qui -con la speranza d’incontrarvi. Donna Clara — Non avreste potuto molto più sempli cemente -domandare a Donna -Ine-s il mio indirizzo? Donna Juana —- Per carità, questo è assurdo! Inna morata, -gelosa, mi avrebbe dato -certamente un indirizzo sbagliato. Donna Clara — Don Gii, non voglio farvi altre do mande. So soltanto che vi amo e che la vostra in-diffe renza di questi giorni mi ha tolto il senno e la pace. Mi amate vera-mente?... -Chi -sa... (con un filo di voce) ...la vostra mano, vi prego... Donna Juana — Eccola... è la mano del vostro futuro sposo... (Le bacia ancora la mano). Donna Ines (a parte) — E io resto qui a guardare! Donna Clara — E’ meglio che mia cugina non ci veda insieme... Addio... allora?... vi -aspetto... Donna Juana —• Verrò. Donna Clara — Potremo... parlare con -calma... (Vol gendosi prima di uscire) Don Gii! (Esce). Donna Juana (fra sè) — Le cose si complicano... Donna Juana, attenzione a non perdere il filo. Donna Ines (uscendo dal nascondiglio) — Gran Turco! Donna Juana — Come? Donna Ines — Non una donna, tre donne egli vuole sposare: Donna Elvira -nella -casa di fronte, questa Donna Ines, così sinceramente detestata, qui -sul -posto, e Donna Clara al nuovo indirizzo. Piuma al vento, sughero nel l’acqua, traditore, impostore, ipocrita, Gran Turco! Donna Juana — C’è un equivoco... Donna Ines — Per fortuna -mia e di quell’ingenua pre suntuosa di mia cugina ho -sentito tutto... non ti resta che andarti a consolare -dalla tua Donna Elvira, da quel l’avanzo gettato via da Don Miguel ...si vede che a te piace il -frutto assaggiato da altri, la stoffa che altri ha tagliato... contento tu... Donna Juana — Ma cosa dici, mio bene? Donna Ines —- Tuo bene? E l’«unico amore» per Donna Elvira dove -è andato a finire? Donna Juana (a parte) —- Caramanehel le ha fatto leg gere le lettera che mi son scritta. Soffrirà almeno un poco come mi ha fatto soffrire lei. (A Donna Ines) Ma perchè parli così di Donna Elvira? TIESO DA MOLINA Donna Ines —• Hai igià pronta una nuova scusa? Rac Donna Ines — Ma perchè? contala a mia cugina; forse lei ci crederà. Donna Juana — Perchè... perchè... così quel servo Donna Juana — Ah, adesso capisco! Tu mi hai visto avrebbe potuto vedere se quella lettera ti faceva vera con Donna Clara! E hai creduto che facessi per davvero: mente ingelosire di Don Gii oppure ti lasciava indiffe ma non era che una burla, te lo giuro! rente, nel qual secondo caso avrebbe voluto dire che tu Donna Ines — Quel che più mi ferisce non è il tuo eri innamorata di Don Miguel. inganno, ma quello perfido c subdolo di Donna Elvira, Donna Ines —■Il tuo ragionamento è piuttosto com alla quale avevo concesso tutta la mia confidenza e che plicato... Allora, quella lettera l’hai scritta tu? ha rotto così vilmente i nostri patti. Ma io la punirò: Donna Juana — Sì, e chiesi in prestito il vestito a sposerò Don Miguel! Don Miguel è veramente un uomo Don Gii, che è folle di gelosia e d’amore per te. ragionevole e di buon gusto se ha saputo allontanarsi Donna Ines —• Don Gii folle d’amore e di gelosia in tempo da una donna simile. Lo sposo oggi stesso: per me? vado a dirlo a mio padre. Donna Juana — Sì, si. Appena ha saputo che io ero Donna Juana (a parte) — Adesso andiamo male! (A innamorata di Don Miguel, ha cavallerescamente rinun Donna Ines) Ti assicuro, t’inganni. Ascoltami, te ne ziato e ha pensato immediatamente a te, innamorandosi... supplico. di colpo. Donna Ines — Se non ve ne andate subito, vi faccio Donna Ines — Tutto questo è molto strano. cacciare a pedate dai miei servi. Donna Juana (a parte) — Dev’essere andata! Donna Juana — Lasciami spiegare, ti scongiuro. Donna Ines — Eppure io non riesco ancora a credere Donna Ines — Non c’è nessuno che possa ammazzarmi che sei una donna. quest’infame? Ah! Don Miguel! Donna Juana — Come potrei fare per convincerti? Donna Juana — Don Miguel è qui? Donna Ines — Ecco, facciamo così: tu indosserai un Donna Ines — Hai paura, eh, hai paura che Don Mi mio abito e vedrò come ti starà e come saprai portarlo. guel sia qui? Sì, è qui. (Gridando) Don Miguel, Don Cosa vuoi farci, i miei occhi vedono sempre in te il mio Miguel, vieni, presto, uccidimi quest’ingannatore di tre adorato Don Gii. donne alla volta, se l’ammazzi io ti sposo. (Finge uno Donna Juana — Va bene, andiamo. (Si avvia). svenimento e si abbandona su di un sedile). Donna Ines (fra sè) —- Che donna virile: mi sembra Donna Juana (fra sè) — Qui le cose si mettono ma impossibile. (Esce). lissimo: quello adesso m’infilza e poi sposa Donna Ines... Caramanchel (entrando) — Il tramonto è già pas (A Donna Ines) Ines, mia dolce Ines, senti... sato da un pezzo ma quella Donna Elvira non è ancora Donna Ines (gridando istericamente) —- Don Miguel! rientrata in casa. La sua lettera l’ho già letta io, l’ha Voglio la testa del Gran Turco! Ti prego, ammazzami letta Donna Ines, finirà che la leggerà tutta Madrid, Don Gii! tutti, all’infuori di Donna Elvira. Donna Juana (fra sè) — Se la va, la va... (A Donna Don Juan (entrando) — Voi siete al servizio di Don Ines con tono solenne) Donna Ines, debbo farti una grave Gii de Albòrnoz? dichiarazione: io non sono Don Gii! Caramanchel — Non lo sono, sarei... Donna Ines — Un altro inganno? Non ti crederò mai, Don Juan — Come, sareste? fossi pazza! Don Miguel, Don Miguel! Caramanchel — Servo un padrone che non vedo da Donna Juana — Ma insomma, possibile che tu non quindici giorni, dacché mangio il suo pane. L’avrò in m’abbia riconosciuto? Non sono Don Gii... sono Donna contrato, così per caso, due o tre volte per strada. A ve Elvira. derlo sempre vestito con la sua buffa livrea e con quelle Donna Ines — Donna Elvira? calze color ramarro, si direbbe che il suo guardaroba Donna Juana — Ma non senti la mia voce, non vedi non sia molto ben fornito... Eppure, soldi non gli man il mio viso? cano, a giudicare dai cento reali che mi ha dato il primo Donna Ines — Non sei Don Gii di Albòrnoz? Donna Juana — Non sono Don Gii e smettila di gri giorno che ¡mi assunse al Isuo servizio. ¡Pagare dunque mi paga, ma io preferirei piuttosto che mi facesse sospi dare. Donna Ines — Vi può essere un tranello più raffinato? rare il salario che sparire a questo modo. Vorrei che mi dicesse: «olà, Caramanchel, puliscimi le scarpe, vai a Tu sei Don Gii. Donna Juana — Il suo vestito e la rassomiglianza ti sentire se Donna Grimalda ha riposato bene stanotte, sel hanno ingannato fino a questo punto. Ma se ti calmi po lami il cavallo, domanda a Valdes quale commedia si rappresenterà domani ». Questo deve dire un padrone al trai accorgertene tu stessa... Donna Ines — Non posso crederti: sei troppo Don suo servo, che diamine! In questo modo mi sento meno Gii nell’abito e nel viso. E se fossi Donna Elvira, perchè mato, vilipeso, inutile. Il ¡mio padrone è come il mulo di Vamba: non parla, non dorme, non mangia, non beve, avresti fatto questo? Donna Juana -— Per gelosia: credendo, nonostante le ed è sempre in movimento. Don Juan — Sarà innamorato. tue assicurazioni in contrario, che tu fossi sempre inna Caramanchel — Sì, e molto. morata di Don Miguel, scrissi una falsa lettera indiriz zata da Don Gii a me; per mezzo di quel servo te la Don Juan — Di Donna llnes, non è vero, della signora feci leggere e... di questa casa? DON GIL DALLE CALZE VERDI Caramanchel — Macché... è innamorato pazzo di un angelo invisibile che abita nella casa qui di fronte. Don Juan •— E Donna Ines non ama Don Gii? Caramanchel — Ah, questo è un altro discorso: lui non ne vuol sapere ma lei lè innamorata in un modo irragionevole. Prova ne sia che leggendo - così per caso - questa lettera scritta da Don Gii all’angelo in visibile, è andata su tutte le furie, ed è fuggita piangendo. Don Juan — Anch’io vado su tutte le furie: ma non piango, no. Affilo la mia lama. In questa stessa notte voglio estinguere tutta la razza dei Don Gii. (Esce). Caramanchel — Appena parlo con qualcuno del mio padrone, tutti cominciano a dare in ismanie. (Guarde verso dove è uscito Don Juan). Donna Ines (entrando con Donna Juana, vestita con un suo abito) — Non ho mai visto una somiglianza si mile in vita mia, Donna Elvira. Adesso ti credo e quello che mi hai detto prima di lui, mi riapre il cuore alla speranza. Donna Juana — E io ti dico che stanotte stessa egli verrà a trovarti. Donna Ines — Ma è già notte, Donna Elvira! Caramanchel (fra se) — Donna Elvira? Ma è a Donna Elvira che devo consegnare la lettera. Come diavolo ha fatto a venire qui? E Donna Ines che l’ha già letta! Qui finisce male! Caramanchel, sento già odore di bastone! Donna Ines (vedendo Caramanchel) — Olà! Che vuoi ancora tu qui? Caramanchel (volgendosi) — Aiuto! Don Gii con la sottana! Donna Juana — Che dici? Sei diventato pazzo? Caramanchel — Cosa dico? Dico che tu sei Don Gii come è vero che io sono vivo. Donna Juana (ridendo) — Io Don Gii? Caramanchel — Sì, voi Don Gii. Donna Ines — Vedi che non sono la sola ad ingannarmi per la tua somiglianza... Questa dama è Donna Elvira. Caramanchel — Dama o cavaliere, padrona o padrone, io mi licenzio. Io non servo un uomo e una donna nello stesso tempo: non mi piace mangiare carne e pesce nello stesso piatto. Salutate Donna Ines, facciamo i conti e tanti saluti a casa. Donna Juana — Ma non vuoi proprio capire che io non sono Don Gii ma che gli somiglio soltanto? Caramanchel — Non ci credo; e a me non la date a intendere. Donna Juana — E se io ti dico che fra un’ora verrà qui Don Gii mentre io resterò insieme a Donna Ines, ci cre derai? Caramanchel — Se vedrò questo con i miei occhi, andrò a passare il resto della mia vita in una casa di alienati. Donna Juana — Egli sarà qui sotto, in strada, tra un’ora. Tu potrai vederlo e parlargli. Noi, Donna Ines, andiamo ad aspettarlo sul balcone. Caramanchel —- Vado subito in istrada. Ah, mi di menticavo, debbo darvi questa lettera per conto di Don Gii. (Consegna la lettera a Donna Juana. Donna Juana e Donna Ines escono) Per me sarà, ma io ho consegnato una lettera alla stessa persona che l’ha scritta. Nessuno me lo leva dalla testa, quello è Don Gii, è Don Gii, è Don Gii. (Esce). QUADRO SECONDO Strada di fronte alla casa di Donna Ines. E’ notte. Don Juan (entra, avvolto in un mantello) — Questa notte sarà fatale per i due Don Gii. Chiunque dei due passerà sotto il balcone di Donna Ines, 'finirà di mia mano. Caramanchel (entra anche lui avvolto in un mantello) —- Il mio padrone vestito da donna mi ha detto che di qui passerà il Don Gii vestito da uomo... ma non è pos sibile: anche se ne vedessi non due, ma mille passeggiare fischiettando qui davanti non crederei ai miei occhi e alle mie orecchie. Donna Ines (affacciandosi al balcone) —- Che notte calda. Donna Juana (affacciandosi accanto) — Sembra fatta apposta per l’amore. Donna Ines — Ma come puoi sapere con tanta certezza che Don Gii verrà qui fra poco? Donna Juana — Nessuno al mondo può saperlo meglio di me. Don Juan — La mia dolce Ines è là. Donna Ines — C’è un uomo nella strada. Che sia lui? Donna Juana — Prova a parlargli. Caramanchel (fra isè) — Ohe, ecco qualcuno sotto il balcone: Caramanchel, apri bene gli occhi. , Donna Ines — Non oso... ho paura. Donna Juana — Su, via, coraggio. Don Juan — Mi sento emozionato... non mi riesce tro var le parole... ehm... ehm... Ehi, là, sul balcone! Donna Ines — Siete Don Gii? Don Juan (a parte) — Ah, aspetta lui... ebbene, la vedremo. (Ad alta voce) Sì, sono Don Gii, e nel sentire la vostra voce mi si è gelato il sangue nelle vene. Donna Ines — E’ un ben strano complimento! Se vi faccio quest’effetto, vuol dire che come donna sono piuttosto fredda. Caramanchel — Questo qui è un Don Gii molto gros solano. Il mio è molto più fine e gentile... a meno che non si sia guastato dall’ullima volta che l’ho visto. Don Juan — No, non volevo dirvi questo: anzi, al contrario, io ardo per voi. Donna Ines — Mettetevi allora prima d’accordo con voi stesso: vi brucio o vi gelo? Don Juan —- L’amore mi brucia, mi agghiaccia la ge losia. Donna Juana (a parte) — Dev’essere certamente Don Martin. Impieghi male il tuo tempo, traditore. Donna Ines (a parte) — Eppure, non mi sembra lui. (Più forte) Scusate, siete Don Gii dalle calze verdi? Don Juan — Non mi riconoscete? Caramanchel (piano) — No, io no di certo. Donna Ines — Sapete, ci sono due Don Gii... Don Juan — E quale dei due amate? Donna Ines — Voi. Però, è strano, mi sembra che ab biate cambiato voce. Don Juan — L’ho cambiata per non farmi riconoscere da nessuno... Attenzione, arriva qualcuno! Don Martin (entrando, con giubba e calze verdi) — Non so perchè, ma nonostante tutte le messe, non sono tranquillo. Questo fantasma di Donna Juana che mi per- TIESO DA MOLINA seguita sotto il mone di Don Gii, e m’impedisce di unirmi a Donna Ines, comincia a farmi paura. Donna Ines — Don Gii, Don Gii, amor mio, dove siete? Parlatemi ancora. Don Martin — Don Gii? Quell’ombra là ferma è allora Don Gii, il fantasma di Donna Juana? Dio mio, ho paura come un fanciullo! Fosse pure il più famoso spa daccino, gli andrei incontro senza tremare, ma un’anima vagante, proprio no, non me la sento di affrontarla. Don Juan (minacciosamente) — Signore, passate oltre. Don Martin — Chi... io?... ma io... io sono qui perchè qui abita il mio amore. Don Juan — Il vostro amore: Donna Ines, non è vero? Vi riconosco alla voce, voi siete quel Don Gii che Donna Ines detesta. Caramanchel (piano) — Sento nell’aria odor di spade sguainate. Don Martin (a parie) — Soltanto un essere sopran naturale poteva riconoscermi con questo buio. Non c’è dubbio: è l’anima di Donna Juana. Don Juan —- Se siete qui per il vostro amore, difen detelo con la spada, signor Don Gii. Caramanchel (fra sè) — Un altro Don Gii? Stanotte sbucano fuori come i funghi. Eppure, neanche questo ha la vocetta del mio padroncino. Donna Ines — Donna Elvira, è venuto un altro Don Gii. Donna Juana — Dev’essere Don Miguel. Donna Ines — Sì, sì, dici bene, è lui. Donna Juana (a parte) — Comincio a non capirci più nulla. Chi è questo nuovo venuto? Don Juan — Devo ancora attendere molto la vostra spada? Don Martin — lo non mi batto con i defunti. Don Juan —■Cosa vogliono dire queste parole? Forse che sono morto di paura? Don Martin — Donna Juana, siate ragionevole... vi ho già fatto dire molte messe, alcune anche cantate alla cattedrale... Don Juan — Cosa state farneticando? Io, Donna Juana? Quali messe? Quale cattedrale? Donna Juana (a parte) — Sì, sì, è proprio lui! Che ridere! La notizia della mia morte l’ha terrorizzato! Don Martin —■Vade retro, anima del Purgatorio! Caramanchel (piano) — Un’anima del Purgatorio a spasso? Santa Susanna, San Pelagio, Sant’Elena, San Pie tro, San Paolo, San Luigi, San Carlo, Santa Casilda, San Martino, San Giuseppe... Donna Ines — Che succede? Cos’ha detto quel tale? Donna Juana — E’ un ubriaco: stai zitta e ascolta. Don Juan — Per l’ultima volta: rifiutate di battervi? Caramanchel (c. s.) — E un’anima bellicosa: deve essere lo spirito di qualche cavaliere errante. Don Martin —- Anima infelice, per quell’amore che mi hai portato in vita, cessa di perseguitarmi, abbandona quella gelosia che già avresti dovuto lasciare trapassando nell’altro mondo. Sappi che in ogni caso io sposerò Donna Ines e che la mia volontà di mortale può vincere quella di un’anima vagante. (Esce). Donna Juana (a parte) — Ma non quella di un’altra mortale. Donna Ines ■ — Cosa dici? Donna Juana — Niente... dicevo tra me che è già molto tardi e che devo ritornare a casa. Donna Ines — Vuoi che ti faccia accompagnare? Donna Juana — No, grazie, sono un passo da casa. Il mio corpo senz’anima farà presto ad arrivarci. Donna Ines -— Il tuo corpo senz’anima? Donna Juana — Niente... scherzavo. Addio. E buona fortuna con il tuo Don Gii. (Si ritira dal balcone). Caramanchel (c. s.) — Dunque Don Gii è un’anima in pena? E dire che io l’avevo capito subito!... Ecco perchè non lo trovavo ,quando andavo in cerca di lui... Gesù, Maria, Santi di tutta la Chiesa! Don Juan (che aveva seguito fino all’uscita Don Mar tin) — Era un pazzo! Meglio così... l’importante è che non mi sfugga il piccolo Don Gii, quello pericoloso. Donna Ines '(sempre.dal balcone) —■Don Gii, per difendermi vi siete esposto ad un grande pericolo. Don Juan — L’amore dev’essere ardito e incurante del pericolo... Attenzione! Arriva qualcuno. (Si nasconde). Donna Clara (entrando vestita da uomo) — Non avrei mai immaginato che sarei arrivata fino a questo punto. Se adesso mi trovasse mio padre, sola, di notte, in Madrid, vestita da uomo! D’altra parte non avevo altro mezzo per scoprire a che punto è la relazione fra mia cugina e quel terribile adorato Don Gii. Vestita con un abito dello stesso colore essa mi scambierà certo dal balcone per Don Gii e saprò a chi delle due ha detto la verità. Quintana (entrando, a Donna Clara, prendendola per Donna Juana) — Tuo padre è a Madrid! Donna Clara — Gesù! Mio padre!... E tu chi sei? Quintana — Non mi riconosci? Tuo padre è arrivato per vendicarti. Donna Clara — Per vendicarmi? Quintana — Sì, per vendicare la tua morte. Caramanchel (a parte) — Madonna, santi, profeti, che rubini, serafini, angeli custodi, stanotte in questa strada si son date appuntamento tutte le anime del Purgatorio. Donna Clara — La mia morte, cosa farnetichi? Quintana — La tua morte. Non sei forse Donna Juana? Donna Clara — Io sono Don Gii. Caramanchel (c. s.) — LTn altro Don Gii! Quintana —■E non è la stessa cosa? Donna Clara — Andatevene. Sono stanca di ascoltarvi. Quintana —- Come vuoi. Io il mio dovere l’ho fatto: ti ho avvertito. Adesso te la sbrigherai da -sola. (Esce). Caramanchel (c. s.) — Quello lì doveva essere una spe cie di funzionario destinato ad ispezionare le anime. Donna Clara (piano, tra sè) — Che paura ho avuto! Se restava qui ancora un istante mi mettevo a gridare al soccorso... Quel vecchio sembrava un diavolo... E come ha fatto ad accorgersi che ero una donna?... Vedo una ombra là sul balcone: dev’essere Donna Ines. La gelosia mi fa ritornare il coraggio. Adesso le narlo. (Ad alta voce) Olà, sul balcone, angelica fanciulla, chi vi parla è un uomo che vi adora e vi offre l’anima sua... Donna Ines —■Chi siete? Donna Clara (a parte) — E’ lei. (Ad alta voce) Sono Don Gii dalle calze verdi. Donna Ines (a parte) — E’ lui il mio Don Gii: lo riconosco alla voce. Quello di prima allora era Don Juan... Se Don Juan l’affronta, egli è perduto. (Ad alta voce) Fuggi subito, ti prego. Donna Clara (gridando) — Perchè, non ami più il tuo Don Gii? Don Juan — Mano alla spada, signore. Ho atteso fino DON GIL DALLE CALZE VEKDI ad esser ben sicuro del vostro nome... Ho paura che stanotte abbiate pronunziato le vostre ultime paiole d’amore. In guardia. Donna Clara — Chi siete voi? Don Juan — Io sono il vero Don Gii, il solo che Donna Ines ami. Donna Clara — Voi siete pazzo, il vero Don Gii non ha la vostra voce. Don Juan — E neppure la vostra. Donna Clara •— No, neppure la mia, ma neanche la vostra... cioè... volevo dire... Don Juan — Incrociamo le spade e ciascuno di noi sostenga la sua verità. (Incrocia la spada con Donna Clara che si difende tremando). Donna Juana (entrando, vestita da uomo) — Chi è che si batte? Fermi, cavalieri! Don Juan (fermandosi) — Chi è che dà questi co mandi con tanta tracotanza? Donna Juana — Io, Don Gii. Caramanchel (a parte) — E quattro! Don Juan — Qui ci sono già due Don Gii. Donna Juana — E con me fanno tre. Donna Ines — Un altro Don Gii? Cielo! Quale sarà il mio amante? Don Juan — Io sono Don Gii dalle calze verdi. Donna Clara — Io, io ho le calze verdi! Guardate! (Alza una gamba). Donna Juana — E io sono Don Gii di tutti i colori! Donna Ines — Mi sembra di esser diventata pazza! Don Juan — Ebbene, vi sfido tutti e due. (Donna Juana, Donna Clara, e Don Juan incrociano le spade). Caramanchel (c. s.) — Qui se non scaccio tutte queste anime indemoniate finisco all’inferno anch’io. (Sguaina la spada e comincia a dar colpi all'impazzata) San Mar tino, Santo Ermenegildo, San Luca, San Pietro, San Paolo, San Giuseppe. (Colpisce Don Juan). Don Juan — Aiuto! Son morto! (S’inginocchia mugo lando). Donna Juana — Avrete imparato a curarvi della vostra presunzione. Ricordatevi che chi vi ha ferito si chiama Don Gii dalle calze verdi, ed è il solo che ha diritto a Donna Ines. (Esce). Donna Ines — Amor mio, impulsivo e ardito, ti ho riconosciuto. Sento di amarti ancora di più. (Si ritira dal balcone). Donna Clara — Don Gii, ti sei confessato! Ma tu hai promesso di sposarmi e ti sposerò per forza. (Esce). Don Juan (continua a mugolare). Caramanchel — Gesù mi protegga! Come si lamenta! Ho ucciso un morto!... L’alba sta finalmente spuntando. Ombra demoniaca, rientra nelle tue tenebre! (Don Juan esce raggomitolato e barcollando. Suona la campanella di una chiesa. Caramanchel si fa il segno della croce) In chiesa, sì, in chiesa a pregare! Gesù, abbi pietà di me, sono stato il servo di un’anima in pena. (Esce). (¡ru m o te rz o La stessa scena. Il giorno dopo. Don Martin (entrando, sempre vestito di verde) — Il sole è ritornato a illuminare il tuo groviglio di strade, o Madrid. Dove si è nascosta l’ombra vagante di Donna Juana, che stanotte mi ha affrontato e che di giorno mi sfugge, precedendomi con le sue invisibili calze verdi, ovunque io diriga i miei passi? Dimmi dov’è, che io- possa scacciarla con un esorcismo o con una preghiera, con una supplica o con una maledizione. (Entrano l’alguazil, Quintana, Don Diego). Quintana (a Don Diego) — Signore, ecco là l’uccisore di donna Juana, vostra figlia. Don Dieco — Il mio braccio tremante m’impedisce di compiere da solo la mia vendetta. (All’alguazil) Alguazil, fate il vostro dovere. L’Alguazil — Cavaliere, consegnatemi la vostra spada, siete in arresto. Don Martin — Chi? L’Alcuazil — Voi. Don Martin —■E perchè? L’Alcuazil — Per assassinio. Don Martin — Assassinio? E di ohi? Don Dieco — Disgraziato, traditore, osi negare la morte di mia figlia? Don Martin — Oh! Voi... Don Diego... Sì, anch’io ho saputo della morte di Donna Juana... mi ha tanto addo lorato... Don Dieco ffa per slanciarsi su Don Martin ma viene trattenuto da Quintana e dall’alguazil) — Lasciatemi far giustizia di questo assassino! Addolorato!... Addolorato ha il coraggio di dire... Don Martin — (Comprendo -che -la vostra sofferenza vi porti a questi estremi, venerabile Don Diego... ma io non posso essere ritenuto responsabile della -morte di vostra figlia in convento... Don Dieco (sempre trattenuto, numda un mugolio che non ha più nulla di umano). Quintana — Con quale impudenza ti scagioni -così della tua colpa! Vuoi negare di aver pugnalato Donna Juana sulla -pubblica strada, di averla -sgozzata come un tenero agnellino? Don Martin — Io? Donna Juana? Pugnalata sulla pub blica strada? Quintana, per l’amor del -cielo, cosa far netichi?... Tu mi hai portato la notizia, tu mi hai portato una lettera scritta da lei prima di morire nel monastero di San Quirce! Don Dieco (mostrando una lettera) — Questa è la sua ultima lettera, scritta -negli spasimi dell’agonia; leggila, disgraziato, e trema della punizione divina e di quella degli uomini... Don Martin (prende la lettera e la scorre) — Sì, è di sua ma-no... «Il -pugnale di -Don Martin mi ha colpito all’altezza del cuore... Perdonami, padre, per lui ho tanto sofferto e da lui vengo uccisa... Vendicami, padre, ricercalo in Madrid dove -si nasconde sotto il nome di Don Gii e -compi sacrosanta giustizia »... Aiuto... Quin tana... divento pazzo... tu, tu mi hai detto che... Quintana — L’anima invendicata delle tua infelice sposa si agita nel sepolcro e sommuove il tuo spirito inquieto d’assassino. Don Martin — Gesù, Gesù. Ma -può essere vero che io abbia pugnalato Donna Juana senza accorgermene? E’ impossibile... Sono innocente... sono innocente... L’Alcuazil — Lo sappiamo, lo sappiamo, giovanotto. Tutti i colpevoli dicono così. Don Dieco — Trascinatelo subito in carcere. I miei occhi non possono più sopportarlo. TIRSO DA MOLINA Don Antonio (entrando, a Don Martin) — Scusatemi, signore, se vi rivolgo la 'parola così per strada, senza esservi stato presentato... Ma il 'colore del vostro abito e delle vostre calze coincidono con la descrizione fatta da mia ¡figlia. Voi siete Don ¡Gii de Albònnoz, non è vero? Don Martin — Ma, signore, chi siete? Don Antonio — Sono il fortunato padre della vostra futura sposa. Don ¡Diego — Ah, siete dunque voi il padre idi quella Donna Ines che ha traviato l’anima a questo sciagurato? Don Antonio — ¡Donna ¡Ines è figlia di mio fratello Don Pedro... io sono il padre di Donna Clara con la quale il signore qui presente ha scambiato solenne pro messa di matrimonio. Don Martin •—• Alguazil, rendetemi la spada: voglio trafiggermi, finirla con la vita, uscire da questo cerchio d’incantesimi e di stregonerie. Don Antonio — Signore, non comprendo le vostre oscure parole: volete o no mantenere la promessa con Donna Clara mia figlia? Don Diego — Cavaliere, io rispondo per lui: non può mantenerla perchè entro un mese il boia gli taglierà la testa sul patibolo in mezzo alla piazza. Don Antonio — E perchè? L’Alguazil — Ha ucciso sua moglie. ¡Don Antonio (a Don Martin) — Impostore ! Don Martin — ¡Sì, quello che volete: datemi la vostra spada... Mi ammazzo e ve la rendo subito. Don Antonio — Alguazil, arrestate costui anche in mio nome per le offese recate a mia figlia. Don Decio (entrando) —- Don Gii! Siete voi, non negate! Il colore del vostro vestito e delle vostre calze v’identifica. Don ¡Martin ■ — Non nego più nulla: sono quello che volete. Don Decio — Alguazil, arrestate ¡questo malfattore di strada. Egli ha ferito stanotte a tradimento mio figlio Don Juan. E’Alguazil — Arrivate tardi, signore. ¡Ci sono ¡già qui due padri che mi hanno domandato il suo arresto. ¡Don Diego (presentandosi) — Don Diego. Don Antonio (c. s.) — Don Antonio. Don Decio i(c. a.) — Don Decio. Don Martin — Signore, prima che penda per sempre la conoscenza, sappiate ohe voi, io, tutta Madrid è vit tima 'di un fantasma, di un’anima vagante in pena, dello spirito di Donna Juana... Donna Juana (entrando, vestita da uomo) — ... detta anche Don Gii dalle calze verdi! Don ¡Diego — Figlia mia! Donna Juana — Padre mio adorato! Don Diego — Sei guarita? ¡Donna Juana — Non sono mai stata nè ammalata nè ferita. ¡Don Diego -— E allora la lettera che ho ricevuto? Donna Juana —- Una delle tante lettere che ho do vuto scrivere in questi ultimi giorni... quante lettere!... questa l’ho scritta per farti venire a Madrid e aiutarmi a sciogliere la matassa che avevo 'dipanato intorno alla testa ¡del povero Don Martin... Don Martin — Tu vivi! Donna Juana — Vivo per esserti accanto, se tu mi vorrai, ¡fino a quando vorrai... Don Martin — |Sì, sì... meglio averti accanto con un solo volto che averti lontana e vicina con mille volti, con mille voci, ¡con mille strattagemmi... Donna Juana — E Donna Ines? Don Martin —• Già... Donna Ines... Donna Juana — Eccola là... riconciliata con il suo Don Juan che in questi ultimi giorni aveva un po’ tra scurato... Don Juan (entrando col braccio fasciato, con Donna Ines e Don Pedro) — ¡Signori, ho l’onore di annunziarvi che dimentico e perdono l’offesa arrecatami stanotte... Con il matrimonio di ¡Donna Ines, culmine delle mie speranze, cessa ogni affanno e ogni ferita. (Si strappa la fascia dal collo) Ahi! Don Pedro — Signori, ho l’onore d’invitarvi alle nozze di mia figlia con Don Juan... Don Dieco — Si potranno celebrare insieme a quelle di mia figlia con Don Martin... Don Antonio — Un momento! E mia figlia come ri mane? Donna Clara (entrando) — Non ti preoccupare, padre mio, della mia sorte. M’innamorai di un Don Gii ine sistente e invisibile, scomparso nell’ombra di una notte incantata. Attenderò che un nuovo Don Gii mi venga incontro e imi ami nella luce di un prossimo tramonto... Caramanchel (entrando con un aspersorio in mano) — Amen... Miserere nobis... Orate fratres... Gesù, Giuseppe, Maria... Profeti, sante e santi, aiutatemi tutti quanti... Donna Juana — Caramanchel, che ti succede? Caramanchel — Abrinunzio, vai retro. Non toccarmi, anima ¡dannata... il ¡giro di tutte le chiese di Madrid ho fatto per liberarmi dalla tua tirannia... Donna Juana — Sciocco. Io sono il tuo Don Gii: sono vivo, anima e corpo. Non vedi die tutti mi guardano e nessuno si spaventa? Caramanchel — E sei un uomo o sei una donna? Donna Juana — Sono una donna. Caramanchel — Oh! Ma allora tutto si spiega! Questo bastava per imbrogliare trenta mondi. Donna Juana — Ma non per imbrogliare d’ora in avanti il mio adorato sposo Don Martin, al quale sarò sempre fedele. Don Martin (con aria rassegnata) —■Cara, posso vera mente dire die non si vide mai fedeltà maggiore della tua... Donna Clara —- Quasi quasi mi dispiace che la vi cenda finisca ¡così... (A Donna Juana) Tu hai popolato d’intrighi e di avventure questa grande e pesante città... passeranno gli anni e in Madrid rimarrà un ricordo vago di te, come una leggenda, come la storia di un incan tesimo... e come ¡Caramanchel molti diranno... era un uomo o era una donna? Donna Juana —• Diranno... era Don Gii dalle calze verdi! FINE DELLA CONNEDIA v - c P i h Vittorio Guerriero informa da Parigi, che alla « Comédie Française » hanno rappresentato una commedia dal titolo Le dheval arabe che Fau tore \— Julien Luchaire — ha rica vato da una delle novelle «non boc caccesche » e precisamente da quella contenuta nella quinta giornata del Decamerone. «Lo spunto è filigranato da una poetica ironia che reca Vac cento della bella e larga risata di Boccaccio, il tipico sapore della sua filosofìa scanzonata. a Un marito9 avido di concludere un buon affare, autorizza un giovane mercante di cavalli arabi a rimanere solo, per qualche minuto, con sua moglie, di cui il giovane mercante è febbrilmente innamorato. Il colloquio avverrà a porte spalancate e il marito é convinto di aver agito 'con ogni precauzione. Ma il mercante di cavalli arabi è un giovane dai conno tati molto favorevoli e, alle sue pa role appassionate, la sposa risponde con una mimica piena Idi eloquenza e di promesse. Questo eccezionale dialogo fra Vinnamorato, che decla ma la sua passione, e la sposa dell’a varo, che la contraccambia con i sor risi delle sue labbra mute e con le sue occhiate illanguidite, costituisce un momento teatrale pieno d’efficacia e di brio. Al termine Idi questo mo nologo in due cuori, il marito avrà il cavallo arabo e, forse, una piccola disavventura coniugale, <(Gisèle Casadesus, Jean Martinelli e Louis Seigner hanno animato intel ligentemente le diverse fasi psicolo giche di questa curiosa avventura d’amore ». Lo spettacolo è completato da una nuova interessante edizione di Phèdre. Al testo immortale ed armonioso di Racine, il regista Jeaiv-Louis Barrault ha cercato di imporre una specie di movimento sinfonico, espresso dalle voci e dalle cadenze degli interpreti : pesanti all’inizio quando la fatalità posa i suoi inesorabili artigli sulla colpevole passione di Fedra; vivaci quando il giovane Ippolito si op pone alla torbida proposta fatta al suo destino; scintillanti quando Fe dra tenta con l’astuzia di alterare il volto terribile della verità; solenni e funebri, infine, quando la tragedia esige dalle sue vittime la sua atroce ma giusta conclusione. Marie Bell ha prestato la sua fem minilità intelligente alle torture se- A j ^ grete di Fedra con accenti ricchi d’emozione. Jacques Dacqmine, che affrontava per la prima volta la parte di Ippolito, ha dimostrato un sicuro possesso di mezzi e una grande fami liarità con gli agguati psicologici che si nascondono nell’avventura del per sonaggio, ma ha forse avuto il torto di abbandonarsi un po’ troppo all’in fluenza personale del suo regista, ri cordando gli atteggiamenti tipici e le caratteristiche risorse dell’attore Jean-I^ouis Barrault. L’interpretazione è stata completata armoniosamente da Mary Marquet, Renée Faure, Mau rice Escande e Maurice Donneaud. Lo scenario di Jean Hugo, volutamente tetro e solenne, è ispirato ec cessivamente dall’estetica del sepol cro eli famiglia. Viceversa i costumi dello stesso Jean Hugo, eseguiti da Karinska, sono di un gusto accetta bile e l’audacia, abbastanza inedita, di liberare i personaggi dalle loro tenebrose barbe tradizionali merita un vivo e sincero elogio. Gli appassionati di spettacoli clas sici applaudiranno lungamente questa Fedra, non diremo modernizzata, per chè la cosa non sarebbe possibile, ma cautamente sbarazzata da tutti quei luoghi comuni dell’arte teatrale che spesso ne appesantiscono il ter ribile eterno e doloroso significato. H Alla «Comedie des Champs-Elisées » hanno rappresentato la com media in tre atti di Philippe Frey : Snouck. <( Snouck, proprietario terrie ro in un villaggio fiammingo, è nello stesso tempo un avaro, un diffidente e un ingenuo. Questo nefasto trittico di cadenze psicologiche è, forse, un po’ eccessivo per un unico contenente umano. Ed è probabilmente questo eccesso che impone ai tre atti di Philippe Frey un’andatura narrativa piuttosto lenta, fredda e confusa. Per giunta, nell’itinerario di questi tre atti un po’ statici, il complesso psi cologico di Snouck si frantuma in una lunga serie di reazioni, di scatti, di angoscie, senza mai incontrare la statura di un conflitto vero e proprio. Snouck diffida sua moglie, sospetta i suoi domestici, nasconde il suo te soro, mette in dubbio l ’onestà di tutti e finisce semplicemente per vivere un’esistenza infelice in tutti i suoi minuti. Lo scrittore Philippe Frey ha tentato, insomma, di costruire in torno alle ansie di Snouck, quella che si chiama, in gergo teatrale, una commedia di carattere. Di fatto il testo oscilla tra il fantasma letterario dell’Avaro di Molière e il linguaggio tipico dei personaggi di Crommelinck. Ma il fantasma non riesce a raggiun gere che raramente l’autenticità della vita e l ’idioma, con iil quale Snouck e i nemici della sua requie si espri mono, non riesce quasi mai a salire fino alla truculenza poetica di Crom melinck ». Interprete principale di questo componimento letterario, tuttavia di una signorile ed interessante qualità, è l’attore Jean Dasté ìche vibra con una convinzione spesso efficace le inquietudini di Snouck, senza però sollevare mai il suo personaggio da quell’aspetto uniforme di caso clinico che l’autore gli ha involontariamente imposto. Charles Nissar, pieno di eni gmatica autorità, Maurice JacqueS----------—--------------------------N E L P R O S S IM O F A S C IC O L O M fA R I A M A D D A L E N A TRAGEDIA IN TRE ATTI DI F E D E R IC O H E B B E L (Wesselburen18marzo1813-Vienna13dicembre1863) Traduzione e riduzione di RAFFAELLO MELANI Rappresentata il 1° dicembre, al Teatro della Pergola di Firenze, dalla Compagnia del Teatro Nazionale dei Guf, diretta da Giorgio Venturini. m La «Maria Maddalena» di Federico Hebbel è la tragedia dell’onore: il suo illustre poeta ha reso la potenza tragica di questo sentimento, nel senso più as soluto, con un carattere grandioso di universalità. A questo scopo si è valso di un am biente semplice e modesto e di personag gi pure semplici e modesti appunto per chè in essi i sentimenti sono più facil mente allo stato della primitiva purezza. Ed è proprio per il carattere particola ristico dell’ambiente e dei personaggi che questa tragedia vien considerata come una visione nuova di teatro, che avrà il suo significato e la sua importanza nello svi luppo evolutivo della scena di prosa non solo germanica ma europea. La tragedia, fortemente espressa in uno stile sostenuto, ma profondamente aderente alla vita — che Raffaello Melani ha reso nella sua sciolta, limpida, snellita e fresca traduzione con sostan1 ziosa efficacia linguistica — s’impone per la sua quadratura scultorea. L’ecces sivo senso nordico della disperazione si stempera man mano in bagliori romantici che danno ai personaggi e alla tragedia ricordi di Schiller « di ILessing, ma che fanno anche prasagire Ibsen e Hauptmann. G. B. V mont con la sua sobria ironia, Fran çoise Christophe bella e spontanea, collaborano, insieme a Julien Ver dier, Jacqueline Baudoin, Jacques Dynun e Jacques Paley, all’interpre tazione di questo lavoro (regìa di Sainval e Pietri) con il quale il «Théâtre d’Essai », diretto da Alex Madis e animato da Pierre Fresnay, ha iniziato la sua nuova stagione, de dicata ai testi inediti dei giovani autori. ■ Al « Théâtre de l ’Oeuvre » han no rappresentato la commedia in tre atti di Simone May: La 25.e heure. «1 giovani, con le loro ansie impe tuose, con i loro stupefatti segreti, con i loro destini al crocevia di tutto il bene e di tutto il male, sono, que st’anno, decisamente molto ricercati dal teatro francese. Im scrittrice Simone May è andata ad acciuffare quelli necessari al suo inchiostro in una pensione universitaria britannica. Lo studente Laurent, con le sue va ligie e i suoi sogni, giunge alla pen sione e vi ottiene la camera nella quale, pochi piorni prima, il giovane Stéphane è stato trovato ferito in circostanze misteriose. Stanco dal viaggio, Laurent si addormenta e si tuffa in quel tempo individiutle e psicologico che gli scienziati moder ni collocano volentieri dirimpetto al tempo universale, cioè al tempo del nostro orologio. In questa venticin quesima ora, che suona soltanto nel suo subcosciente, Laurent si inna mora di Christine che crede di rico noscere in lui il giovane Stéphane. Laurent, in un primo tempo, profitta del disordine che si è insediato nel cervello sconvolto di Christine. Poi. esasperato dal fantasma di Stéphane, stanco di essere un succedaneo vivo dell’assente, Laurent afferra un’arma e la punta contro il suo cuore. Come abbiamo detto, si tratta di un sem plice sogno vissuto da Laurent du rante il suo sonno, di un dramma che Laurent ha palpitato soltanto nel teatro enigmatico del suo subco sciente. Nel quadro di questa peripezia, piuttosto arbitraria e confusa, i gio vani studenti di Simone May dicono parecchie cose belle che si ascoltano senza noie e formulano alcune osser vazioni interessanti. Ma c’è, forse, troppa letteratura in quello che pen sano e dicono : una letteratura, certo, di signorile qualità ma che riesce solo di rado a sfiorare le verità della vita e i confini dell’autentica emo zione. E, poi, manca a tutti questi giovani di Simone May quello che è invece il più prezioso gioiello della vera giovinezza. Cioè l’allegria, l’en tusiasmo di vivere, la fede gioconda nelle ore che verranno e qualunque esse possano essere. La migliore scena di questa storia giovanile si svolge, infatti, fra adulti ed è quasi estranea all’aneddoto prin cipale. Questa scena è costituita dal melanconico incontro, nella stanza che hanno abitato vent’anni prima al momento dei loro studi, di due ex alunni che la vita ha trasformato in due uomini maturi. Il primo è diven tato uno scrittore celebre, ricco sti mato. Il secondo è ruzzolato fino alla Non esiste un «caso Meano» ma soltanto Cesare Meano Scriveva giorni fa Santi Savari no: «Si sta creando in Italia — ee già non s’è creato — un «caso Meano »... Che cosa avviene? Per chè questo autore italiano deve far rappresentare ell’estero le sue commedie? E come mai queste sue commedie hanno fuori tanto vivo successo e in Ital.a pare che nes suno se ne accorga? ». .Le interro gazioni di Savarino non avranno certamente una pronta risposta. E intanto ci risulta quanto segue: a Vienna, Meano ritorna con «Na scita di Salomé »allo Stadttheater e «Melisenda per me » al Burgtheater. La stessa «Melisenda per me » furoreggia ora a Dresda ed è annunziata a Monaco e a Stra sburgo, mentre è imminente al Teatro di Stato di Berlino. E a Praga? Caso senza precedenti, for se: al Deutsches Theater si alter nano «Nascita di Salomé » e «Me lisenda per me », mentre lo Stadt theater prepara l’ediz-one cèca di «Avvenirne con Don Chisciotte » e di «Spettacolo ¡fuori program ma », già recitato in tedesco, al Festival teatrale di Praga del 1940, dal complesso del Burgtheater di Vienna. «I secoli non bastano », già annunziata dallo Schiilertheater di Berlino, andrà in prima mondiale al Teatro di Stato di Braunschweig, nel prossimo aprile, in occas.one d’una settimana de dicata all’arte italiana. Lo Statale di Bochum annunzia intanto «Av venture con Don Chisciotte », e altri annunzi, non ancora confer mati, riguardano, oltre ad altre rappresentazioni delle commedie nominate, anche la ripresa di «Millesima Seconda », ch’ebbe grandissimo successo a Düsseldorf. L’editore german.co del teatro di Mtano dà anche per prossima la rappresentazione in Germania del le ultime .commedie del nostro: «Ventiquattro ore felici » e «An che così ». 11 «caso Meano », evi dentemente, diventa importante e ci si può riflettere su. Ma la ve rità è infine di una evidenza ele mentare: noi stiamo creando, se non abbiamo già creata, un «caso Meano » mentre sarebbe molto più semplice occuparsi soltanto del commediografo Cesare Meano e rappresentarlo anche da noi. miseria, al cinismo, alla delusione, ai pranzi malsicuri. Erano partiti in sieme verso gli itinerari della vita, ma le loro strade sono state diverse. 1destini umani sono macchine spaven tosamente jragili. Basta un granello di sabbia — un primo errore, uno sconforto mal interpretato, una cir costanza da nulla, il tumulto improv viso di un istinto, il risveglio di un lontano atavismo, un mazzo di carte da giuoco, il profumo di una donna, un consiglio mal ascoltato — e la macchina, funziona male fino alla catastrofe. Questa scena, eccellente e tagliata con maestria, è recitata con efficacia da Léon Gautier, Raymond I\arlay e Edy Debray, che anima con pre cisa ironia un curioso personaggio di maggiordomo-filosofo. l\el gruppo dei giovani interpreti, abbastanza ben acuitati dalla regia di Paul Valde (scenario di Goyard), bisogna ricordare Paul Renty sincero e veemente, Simone Alain suggestiva ed autorevole, Hélène Sauvaneix, Jeanine Guyon, Adrien Forge, Gé rard Doscot, Jacques Périchon, Jac ques Morange, André Morin e Ki Duyen ». M Al (( Théâtre des Ambassadeurs » lattrice Alice Cocèa ha presentato, col titolo inaspettato di Clotilde du Mesnil, il famoso testo teatrale di Henry Becque, La Parisienne, il con flitto, che ha imposto questo arbi trario cambio di etichetta, è piutto sto meschino. Fin dal 1885 — anno di nascita di questo lavoro che ha, poi, fatto il giro di tutte le ribalte del mondo — Becque fu accusato dai suoi nemici letterari di aver dato alla sua satira un accento collettivo e di aver diffamato, attraverso la di scutibile condotta della sua eroina, tutte le donne francesi. Era davvero necessario, a quasi mezzo secolo di distanza, preoccuparsi del contenuto di questa lontana polemica? Quando Becque, nel 1885, scrive La Parisienne, il teatro francese è dominato dalle abili chiacchiere con cui Dumas figlio si illude di illumimare gli aspetti sociali del suo tem po. Ma il verismo ha già iniziato la sua battaglia in molti libri. Becque prolunga questa battaglia sui palcoscenici. La Parisienne è il momento culminante di questo duello estetico che si svolge alla ribalta fra il roman ticismo attardato e ciarliero di Du mas figlio e i teoremi esigenti del verismo. Becque chiede in prestito alla società borghese del suo tempo il personaggio di Clotilde du Mesnil. E' una donna che, in equilibrio sul filo d'argento delle sue ele ganti menzogne, armonizza le esi genze della sua vita coniugale con l'ardente colpa di avere un amante. E, quando sarà necessario per facili tare i tornaconti del marito, anche con quella di averne un secondo. La situazione aneddotica è, per Becque, un semplice pretesto. Ciò' che lo in teressa è riferire, nella sua crudele verità, un aspetto della società bor ghese. La grandezza artistica di Bec que consiste nel contrasto satirico, se si preferisce critico, fra la situa zione ingrovigliata che Clotilde ha imposto alla sua vita e le parole che Clotilde pronuncia per dipanarla a vantaggio della sua serenità. Ma in filigrana a questi tre atti, quasi sprov visti di azione drammatica, fa capo lino il pessimismo di Becque, la sua disancorata nozione della società bor ghese, il suo generoso desiderio di vedere gli uomini un po’ migliori di quel che sono. Ed è quindi per que sto suo accento, forse un po’ limitato dal punto di vista artistico, ma tene broso e sincero, che henry Becque va considerato come uno degli autori essenziali della storia teatrale degli ultimi cinquant anni. Dopo di lui, sti molato dalla sua inesorabile lezione, il teatro nnuncerà in gran parte agli avbitrii appassionati del romantici smo e cerciierà la verità nelle pieghe palpitanti del cuore umano. Alice Cocéa ha completato lo spet tacolo con la farsa in un atto di George Feydeau, intitolata Mais me te prò-mene dome pas t-oute nue! Lo spettacolo, che Alice Cocéa ha allestito agganciando, l uno all’altro, i due testi rappresentativi di Becque e di Feydeau è eccellente. La regìa di Alice Cocéa (scenari del pittore Dignimont) li ha tu)fati con preci sione netla loro atmosfera rispettiva. Alice Cocéa, ha prestato inoltre le inimitabili risorse della sua intelli gente personalità alle due protagoniste femminili dello spettacolo. Ha soprattutto alleggerito Clotilde da tutti quegli accenti cupi e catastrofici che di solito le attrici le conferiscono, imponendo forse ingiustamente al te sto di Becque un suono di tragedia che l'autore, malgrado il suo pessimi smo, non ha certamente cercato. E ha animato Vincoscienza sorridente di Clarissa in camicia con una per fetta ingenuità ironica. . Inizierem o prossimamente la pubblicazione di T E A T R O raccolta di commedia di ogni epoca diretta da LUCIO RIDENTI ★ Ritenendo possa essere di grande vantaggio in questo periodo, mantenere la saldezza degli orientamenti e delle valutazioni con un panorama solido e significativo delle autentiche tappe percorse dal teatro italiano e mondiale, inizieremo prossimamente una nuova Collana : TEATRO- Questa pubblicazione in volumetti avrà vita indipendente e non è da confondersi perciò con la nostra Rivista «Il Dramma» periodico che segue quindicinalmente l'attività della vita teatrale e pubblica inoltre una commedia in ogni fascicolo, fra quelle rap presentate con maggior successo dalle Compagnie di primo ordine. TEATRO invece uscirà saltuariamente, a gruppi di due, tre o quattro volumetti per volta, contenenti ciascuno un’ opera significativa apposita mente tradotta o ritradotta, revisionata o aggiornata, e preceduta da prefazione o chiarimento o note. Inizie remo la presentazione con opere che, per l’ Italia, an dranno dal Rinascimento a Pirandello ; dal Seicento per la Spagna; dai Romantici per la Germania, e così di seguito per le altre Nazioni, prendendo a termini i periodi maturi nei quali il teatro balza come forza viva e compiuta d’arte, tralasciando perciò le origini e i prim itivi. TEATRO vuole essere e diverrà in tal modo ima Collana veramente indicativa, che rive stendo un valore particolare e originale, comprenderà le opere più significative dei caratteri e delle tendenze delle singole epoche e dei singoli paesi. A scrittori, cri tici, commediografi, studiosi di letteratura drammatica, saranno affidate le opere da pubblicare, e fra questi citia mo i primi nomi a garanzia della nostra iniziativa : Mario Apollonio - Enrico Bassano - Francesco Bernardelli - Euge nio Bertuetti - Ugo Betti - Giuseppe Bevilacqua - Massimo Bontempelli - Anton Giulio Bragaglia - Alessandro Brissoni - Ermanno Contini - Gino Damerini - Silvio D’Amico - Achille Fiocco - Enrico Fulchignoni - Aldo Gabrielli - Ettore Giannini - Lorenzo Gigli Stefano Landi - Carlo Lari - Carlo Linati - Cesare Vico Lodovici Ettore Lo Gatto - Nicola Manzari - Giovanni Marcellini - Vinicio Marinucci - Cesare Meano - Alfredo Mezio - Gigi Michelotti GiuLo Pacuvio - E. Ferdinando Palmieri - Corrado Tavolini - Gior gio Prosperi - Lorenzo Ruggi - Alberto Savinio - Renato Simon! - Giorgio Venturini. Ogni volumetto sarà presentato in bella veste tipografica, porterà la sigla della SET (Società Editrice Torinese: GAZZETTA DEL POPOLO) e sarà messo in vendita a modestissimo prezzo. vero Piero, Agatodémon; A. Torelli: I matìti, La verità, La missione della donna, Gli M IO T IC A onesti, La scuola degli arti ^ L ’ ANNUNCIO DELLA sti, La moglie, Triste realtà, NOSTRA NUOVA RACCOL Donne antiche e donne mo TA DI COMMEDIE «TEA derne, L’israelita, L’ultimo TRO» HA SUSCITATO UN convegno, Filia suavissima; COSI’ VIVO INTERESSE, G. Verga: La lupa, La caccia CHE NE SIAMO DAVVERO al lupo, La caccia alla volpe, LUSINGATI. AGLI AUGURI Dal tuo al mio; H. Becque: ED ALL’INTERESSAMENTO Des corbeaux, La parisienne; DEI MOLTISSIMI LETTORI i fascicoli esauriti di II Dram CHE CI HANNO SCRITTO, ma, nn. 24, 26, 29, 30, 31; R. RISPONDIAMO CONLA NO Sherwood: La foresta pietri STRA VIVISSIMA GRATI ficata; J. Kirkland: La via TUDINE; A TUTTI COLORO del tabacco (riduzione tea CHE DOMANDANO DI VO trale dell’omonimo romanzo LER FARE SUBITO UN AB di Caldwell); T. Wilder: Lun BONAMENTO AD UNA PRI go pranzo di Natale. MA SERIE DI VOLUMETTI, ROMOLO COSTA, Albergo DICIAMO CHE NEI PROSSI Ambasciatori - Milano, cer MI ANNUNCI, CON IL PRI ca: I volumi 1° - 2° - 5° MO ELENCO DELLE COM delle Opere dì Luigi Piran MEDIE CHE PUBBLICHE dello (Ed Mondadori). Offre REMO, DAREMO ANCHE 1 copioni dattilografati di: QUALCHE SCHIARIMENTO Zazà di Berton e Simon; AMMINISTRATIVO. CO Dora o le spie di Sardou; MUNQUE TUTTE LE AGE Se i no xe mati no li voleVOLAZIONI SARANNO FAT mo di Gino Rocca. TE AGLI ABBONATI ED AI USTO DE ANGELIS, cor LETTORI DI «IL DRAMMA». AUG so Buenos Aires, 50 - Milano, cerca: di II Dram SALVATORE ORE STANO, ma, n. il71fascicolo del 1° agosto 1929. via d’Asaro 48 - Palermo, cerca: 1 fascicoli esauriti di NICO PEPE, via Augusto Il dramma, nn.: 1, 2, 3, 5, 6, Munì, 1 - Roma, cerca: Gia 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 18, cinto Gallina (Ediz. Treves, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 26, 28, 1926-1927): La famegia del 30, 32, 36, 37, 38, 39, 40, 41, Santolo; Le barufe in fame 43, 44, 45, 46, 48, 49, 50, 51, gia; Zente refada; Telèri ve 52, 53, 54, 55, 56; IG. B.Bhaw: ci; Gnente de novo; Mia fia; Commedie gradevoli; Uomo Adio de Anzolo Moro Lin e isuperuomo; Oh, il matri ai Triestini; El fragion; Una monio; Luigi Chiarelli : Le scimia coi fiochi; El mo lagrime e le istelle; La scala roso dela nona; Nissun va al monte; Tuli in campagna!; dà s — se il silice fosse stato veramente un gas, invece di essere attore sarei maggior generale, ed ora potrei mettervi dentro invece Idi raccontarvi i fatti ¡miei. ’Ar Al poeta Ugo Betti che magnificava l’amore cam pestre, Luigi Cimara, rispose: «fare l’amore nei campi è come seminare grano sul letto ». "fa Un nostro amico, ritornato da Roma, (ma sì, ma sì, è Remigio Paone; però non lo dobbiamo dire) dove ha ascoltato la nuova commedia di Cantini Gli addii, ci ha fatto così il resoconto della serata. —■ La Merlini, incantevole, perfetta: la maggiore at trice italiana in questo momento; i suoi compagni eccel lenti, particolarmente Lilla Brignone. — E la commedia? —• E’ del «Bataille » spazzolato. 'fe Dice Onorato: «Le «stelle» e le «stelline» del cinema si moltiplicano a vista d’occhio: i giornali cine matografici pubblicano fasci di fotografie di dive in erba con la scritta: Nuove reclute del cinema. Dopo una particina o due al massimo non si sente più parlare di queste reclute. Evidentemente sono state congedate ». Proprietà letteraria e artistica riservata — Società Editrice Torinese (■Gazzetta del Popolo r Illustrazione del Popolo) Corso Valdocco, 2 Torino — Ernesto Scialpi, responsabile. I manoscritti e le fotografie, anche se non pubblicati, non si restituiscono. C APO LAVO R I D I TU TTE VO LU M I LE LETTER ATU RE □ P U B B L IC A T I : TEATRO SPAGNO'LO - Raccolta di drammi e commedie dalle origini ai nostri giorni. - 850 pagine con 80 tavole f. t. - L. 60. LE SACRE RAPPRESENTAZIONI ITALIAN E dal secolo xm al secolo xv - 850 pagine con 112 tavole f. t. - L. 75. NARRATORI SPAGNOLI - Raccolta di roman zi e racconti dalle origini ai nostri giorni. 980 pagine con 80 tavole f. t. - L. 75. GERMANICA - Raccolta di narratori tedeschi dalle origini ai nostri giorni. - 1072 pagine con 112 tavole f. t. - L. 120. LETTERE D’AMORE degli scrittori italiani dalle origini ai nostri giorni. - 500 pagine con 32 tavole f. t. - L. 40. AM ERI CAN A - Raccolta di narratori nordamericani dalle origini ai nostri giorni 1200 pagine con 112 tavole f. t. - L. 120. Edizione rilegata in tela e oro con astuccio ¡8 i ì M P I A M I B C O A M M I T A N E L S O C IE T À C A R C I A I A N A PER L E A Z IO N I C A P IT . L . 700.000.000 IN T . V E R S . R IS E R V A B A N C A D I L IR E 1 7 0 .0 0 0 .0 0 0 IN T E R E S S E N A Z IO N A L E i S covi h B E N IA M IN O PAUL s ù G IG L I - H Ò R H IG E R ■ CARLO KARL i^jS^ucL d i G IU S E P P E F A T IG A T I m m I I ROMANO | M AR TELL i jm m j l | i | j r y f jP t f ' / 1 A f e ^ L J 's Ì ~ ■1 Fornitoredella ftjHKL| CasadiS.A.R. il Principe diPiemonte - llP * > :**- ;■. .;■ , 8 6 s J / J S f e W £ c £ -ss* 4 c k im a n d o ,, Fornitoredella j|3Hw CasadiS.A..H. il Principe diPiemonte SOLTANTO IN VENDITA PRESSO I NOSTRI NEOOZI DI: T0 RI N0- ViaRoma108 VENEZIA- MercerieOrologio259 ROMA- ViaArènula43 » -Via Roma307 » -SanMarco 1299 » . CorsoUmberto401 » . PiazzaCarloFelice57 TRIESTE- PassoSanGiovanni 1 » -CorsoUmberto257 » ViaCern&ia22 . » PiazzaCiano3 » - ViaVittorioVeneto110 » -PiazzaCastelo40 BOLOGNA - ViaIndipendenza2 » . 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Tipologia

Il dramma : rivista mensile di commedie di grande successo. - Torino : Grandi firme, 1925-1992.

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