ANNO X IX -M . 4 1 4 - 4 1 5 - 4 1 6 15 NOVEMBRE - 1° e 15 DICEMBRI 1943 N U M E R O T R IP L O . f SOCIETÀ EDITRICE TORINESE- TORINO f ¡2 B J Spedii. in ctoboncm.postole120Grappe) U l ® V I L D R A M M A QUINDICINALE DI COMMEDIE DI GRANDE SUCCESSO DIRETTO DA LUCIO RIDENTI ANTON GIULIO BRAGAGLIA r l.a (’¡pria Gardenia è lina >cra e propria crema pol\eri/./.ala composta di odo sostanze naturali rese impalpabili. Aderisce perfettamente, ha un profumo delicatissimo. Dodici tinte per dodici tipi. Pì< f f u L. Nel cuore dell'inverno la delicata epidermide femminile ha bisogno di esser maggiormente protetta e rinforzata da cure attente ed assidue. Elizabeth Arden raccomanda in questa stagione l'uso di creme nutrienti come 1 A lim e n t o O ra n g e e la C re m a V e lv a che conservano all'epidermide freschezza ed elasticità e la difendono in modo perfetto dagli attacchi della temperatura rigida e dall'aria frizzante Nei Saloni Elizabeth Arden si applicano trattamenti adatti ad ogni tipo di epidermide, trattamenti che hanno anche • un'azione riposante, altamente benefica MILANO, VLA M.ONJTENAPOLEONE I PRODOTTI SALÓNI PER TRATTAMENTI TELEFONO 71-^579 - ROMA, PIAZZA DI SPAGNA 19. 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Essi parlano a questo proposito del «gusto lungo» di (Salisburgo, di una certa riposata solennità, ade guata alla proporzioni dei banchetti di questi forti mangiatori, gente coscienziosa e posata, amanti delle costruzioni solidamente sviluppate, del lavoro ben fatto e sostanzioso. Alle grazie dello stile galante, che deliziava l’aristocraaia di Salisburgo, questi borghesi ben pensanti preferivano uno stile leggermente invecchiato, se si vuole, ma nutrito di idee efficaci e di vigorosa dottrina, sincero come il buon pane casalingo. Del resto Mozart superò di colpo tutte le limitazioni etutte le antinomie — vecchio e nuovo, aristocratico e borghese, galante etradizionale — con la! Serenata che, su commis sione trasmessagli dal padre, mise insieme in 14 giorni neli’estate 1782 mentre era sovraccarico di lavoro, di fastidi e d’affanni iper la messa in scena del «Ratto dal Serraglio», ed anche per il suo imminente matrimonio. Una vigoria fino allora sconosciuta pulsa nel robusto movimento dei bassi nel primo tempo, quasi un presagio dei tempi nuovi che la fine idei secolo andava preparando. La melodia che si affaccia sotto una nota dei violini lungamente ripetuta nel secondo tempo ha la_trepida delica tezza dei bucaneve che spuntano timidamente dalla coltre invernale al primo tepore di primavera. La musica richiestagli, Mozart l’aveva composta di furia, aveva lavorato di notte e spedito a Salisburgo ognuno dei pezzi man mano chel’avevafinito. L'anno seguente, quando si Pece rimandare la sua musica per farla eseguire a Vienna, rimase egli stesso sorpreso della bontà del suo lavoro. Ter togliergli il carattere leggero e occasionale della serenata, soppresse due dei sei movimenti di cui era composta, arricchì lo strumentale che era per soli archi, e ne Pece quella che è ora nota come la «HaffnerSinfonie», la più bella realizzazione sinfonica in cui egli abbia espresso la serenità dei suoi anni giovanili. L’arte direttoriale del M° Herbert von Karajan, vigoroso interprete e fedele esecutore, ha creato nella superba composizione mozartiana un’atmosfera di rara bellezza realizzando così un'inci sione perfetta sotto ogni riguardo. RR 8035- HAFFNER-SINFONIE (K. V. 385) inre maggiore (Mozart) - 1°tempo Allegro con spirito - Parti I-II RR 8036- HAFFNER-SINFONIE (K. V. 385) inre maggiore (Mozart) - II0tempo Andante HAFFNER-SINFONIE (K. V. 385) inre maggiore (Mozart) - III0tempo Minuetto RR 8037- HAFFNER-SINFONIE (K. V. 385) inre maggiore (Mozart) - IV0tempo Presto (dischi serie Polydor) Soprano P. TASSINARI - Tenore F. TAGLIAVINI - Mezzosoprano M. HUDER - Baritono E. MASCHERIN1 con l'Orchestra Sinfonica dell'Eiar diretta dal M° Ugo Tansini I canti di Mimi e di Musetta, come quelli di tante altre deliziose protagoniste delle opere puccinjane, nacquero a Torre del Lago dove il M° Puccini amava rifugiarsi lungamente. Egli 'adorava il lago di Massaciuccoli dove la vaghezza del vivere al cospetto 'della natura si contrapponeva vittorio samente alla vita irrequieta delle grandi città. In questa sede veramente appropriata Puccini com pose la «Bohème» che non è soltanto un’opera ed un successo, ma la stessa anima di Puccini. L’opera fu comporta ivi interamente nlel 1895; ed è certamente una fra le opere più ispirate idei grande lucchese per la fluidità dei suoi motivi, la costante ispirazione, la dolcezza delle frasi, la facilità degli sviluppi. (Essa è tutta un canto primaverile, sgorga dal cuore e vii ritorna., commuove, esalta, si incide profondamente nell’anima. Ciò perchè è l’espressione musicale della vita, nelle sue passioni, pei suoi tormenti, nei suoi amori, ned suoi disinganni. Impossibile resistervi: non si resiste alla piena dei sentimenti. Ha commosso tutta una generazione e continuerà così per lungo tempo fino a quando l'anima umana canterà i suoi amori ed i suoi dolori, finché la gioventù avrà spensieratezza, fino a che gli ^innamorati godranno delle loro piccole gioie e dei loro contrasti sentimentali. Fra le pagirie più ispirate va notato il «Quartetto e finale atto terzo », dolce, nostal gico, brillante, incisivo; una pagina vibrante, altamente emotiva, che ha fatto scrivere ad uno dei più noti critici dell’epoca: «....il quartetto della "Bohème” (fatte le dovute proporzioni) è forse il solo quartetto italiano che è stato scritto dopo il Quartetto del ’’ 'Rigoletto” ». L'incisione è stata realizzata dalla CB.T.R.A. col concordo dei più noti e celebrati alrtisti. Infatti (Ferruccio Tagliavini, la Tassinari, Maria Huder ed Enzo Mascherini ne danno una interpretazione viva e palpitante, dolce e suggestiva, tanto che l’incisione fa rivivere l’emozione che il pubblico prova ogni volta che, a teatro, si trova di fronte all’esecuzione idei celebre «Quartetto». BB 25121 - BOHÈME (Puccini) «Quartetto e finale atto terzo» - Parti MI Soprano P. TASSINARI con l’Orchesira Sinfonica dell’Eiar diretta dal M° Ugo Tansini BB 25122 . WERTHER (Massenet) « M’ha scritto che m’ama » LE NOZZE DI FIGARO (Mozart) « Deh vieni non tardar» CB 20310 - GLORIA IN EXCELSIS DEO (Parelli), pastorale - Orchestra Sinfo nica e Coro dell' Eiar diretti dal Mo Ugo Tansini LARGO (Haendel-Kalisch) - Mezzoso prano Ebe Stignani - Orchestra Sin fonica dell'Eiar diretta dal Mo Ugo Tansini REQUIEM IN RE MINORE (K. V. 626) (Mo zart) per quattro parti principali e coro Orchestra e Cori dell’«Eiar » diretti dal M° Victor de Sabata (da SS 1001 a SS 100S). PASSIONE SECONDO SAN MATTEO (MATTHAUS-PASSION) (Bach) per soli, coro e orchestra - Coro Filarmonico Tedesco «Bruno Kittei » - Orchestra Filarmonica di Berlino diretta dal M° Bruno Kittei (da RR 8040 a RR 8057) - (Disco serie Polydor). CORALE (Bach-trascriz. Gui) «0 uomo piangi la tua grande colpa» - «In Te è la gioia» - Orchestra Sinfonica dell’«Eiar » diretta dal M° Vittorio Gui (BB 25116). LARGO (Haendel-trascriz. Molinari) Parti l-ll - Orchestra Sinfonica della R. Accademia di S. iCecilia diretta dal M° Bernardino Molinari (TI 7013). MISSA DE ANGELIS - Canto gregoriano Kyrie - Gloria - Credo - Sanctus - Agnus Dei - Ite Missa est - Schola Cantorum del Seminario Metropolitano di Torino diretta dal M° Don G. Pistone (da DR 105 a DR 107). HODIE CHRISTUS (Palestrina) canto polifo nico a quattro voci pari - Schola Cantorum del Seminario Metropolitano di Torino diretta dal M° Don G. Pistone. TACITA NOTTE SACRO MISTER (Gruber) coro natalizio a quattro voci virili - Schola Cantorum del Seminario Metropolitano di Torino diretta dal M° Don G. Pistone (DR 108). SEPULTO DOMINE (Haendel) per quattro voci bianche sole - Coro di voci bianche dell’«Eiar » diretto dal M° Bruno Erminero. 0 SALUTARIS HOSTIA (Cherubini) per tre voci bianche sole - Coro di voci bianche dell’«Eiar » diretto dal M° Bruno Erminero (PE 113). ALBERO DI NATALE - DOLCE NOTTE (Mar telli) due canti popolari natalizi - Coro di voci bianche dell’«Eiar » - Orchestra d’archi diretta dal M° Spaggiari. NOTTE DI NATALE (Joselito) coro di voci bianche dell’«Eiar » - Orchestra d’archi diretta dal M° Spaggiari (AA 310). LA NOTTE DI BETLEM'ME (Barzizza) inter mezzo - Orchestra diretta dal M° Petralia. PASTORALE MONTANINA (Ranzato) intermez zo . Orchestra diretta dal M° Petralia (DC 4169). PIFFERATA DI NATALE (Parelli) Orchestra Cetra diretta dal ¡M° iPetralia. PASTORALE FRANCESCANA (Parelli) Orche stra Cetra diretta dal M° Petralia (C7966). TRIO CAPINERE - Orchestra Cetra diretta dal M° Barzizza DC 4260 - LA VISPA TERESA(ChlocchioMorbeìli) cartone animato radiofo nico - Parti I-II (con Mario Riva) DC 4261 - LA VISPA TERESA(ChiocchioMorbelli) cartone animato radiofo nico - Parte III (con Mario Riva) UNO, DUE E TRE (Castiglione-Age) canzone ritmo allegro AVVENTURE DI TOPOLINO, fiabe musicali di Nizza-Morbelli-Storaci - Orchestra Ce tra diretta dal M° Petralia (Topolino e la collana di noccioline - C 7938/39) (Topolino fra i corsari - C 7940/41) (Topolino e la vecchia befana - C 7942 e 7943) - (Topolino nel castello incan tato - IC. 7944/45) IL PIFFERO MAGICO (Avanzi) fiaba musicale - Orchestra iCetra diretta dal M° Petralia (C 7946/47/48/49) L’ARCA DI NOE’ (Astore-Morbeìli) fantasia musicale - -Regìa di R. Massucci - Com pagnia della rivista - Orchestra della can zone diretta dal -M,° Angelini (DD 10118 e 10119) LA PARTENZA DEL CIRCO EQUESTRE (Avan zi) fono-bozzetto - Compagnia Cetra (DR 110) LA PRINCIPESSA BIANCANEVE (Avanzi) fa vola - Compagnia Cetra (DR 109) I dischi sono presentati in elegante album //a Mezzosoprano EBE STIGNANI - Orchestra da camera dell'Eiar diretta dal M° Petralia AA 314 - M’AMA... NON M’AMA (Mascagni) romanza CANTO D’APRILE (Bossi) romanza Violinista MAX LADSCHECK al piano A. Preuss (Cetra serie Polydor) LL 3013 ■ MADRIGALE (Simonetti) RICORDO (Drla) Viol. Vasa Prihoda, al piano Otto A. Graef 'm t é a TITO^PETRALIA con l'Orchestra da camera dell'Eiar PE 115 - SERENATA AZZURRA (Plessow) pianisti Bussotti e Bersone NAVARRESE (Escobar) DC 4268 - RUSTICANELLA (Cortopassi) mar cia - Banda M° Cirenei ADDIO, MIA BELLA, ADDIO (N. N.) can zone marcia - Coro e Complesso strumenti a fiato diretto dal M° Storaci MoANGELINI conl'Orchestra della canzone AA 351 - TI CONOSCO MARIOLINA (Per siani) ritmo moderato SCHERZANDO SUL PIANOFORTE (Fer rari) ritmo moderato - solista Ferrari Orchestra Cetra diretta dal M° Barzizza AA 353 . E’ TANTO BELLO SOGNAR (D’Anzi) ritmo lento DOLCE SOGNO (D’Anzi) ritmo lento l - T O R IN O Mo BARZIZZA con l'Orchestra Cetra AA 352 - STUDIO DI BRAVURA (Ferrari) ritmo allegro PER FINIRE (Perazzi) ritmo allegro AA 354 - IO VI CONOSCERÒ’ QUANDO (Borello-Hassel) ritmo mod. - solista Ferrari SONNOLENZA (Hassel) ritmo moderato solista Ferrari WOLMER BELTRAMI e il suo ritmo DC4265 - QUANDO S’INCONTRARONO PAPA’ E MAMMA (Di Lazzaro) ritmo lento Al TEMPI DELLA VALENCIA (Di Laz zaro) ritmo allegro DC 4266 - COME TI CHIAMI (Di Ceglie) ritmo allegro ALIDA (Di Ceglie) ritmo moderato Tenore EMILIO RENZI Orch. da cameradell'Eiar dir. dal MoPetralia AA 355 - CAROVANIERE, FERMA! (Faliano) IL GIARDINO DELL’OBLIO (Faliano) ERNESTO BONINO Orchestra Cetra diretta dal Mo Barzizza DC 4245 - MADONNA LUNA (Trama-Cifra) canzone ritmo allegro SENZA ROSSETTO (iCalzia-Valabrega) can zone ritmo allegro SILVANA FIORESI Orchestra Cetra diretta dal Mo Barzizza DC 4208 . CANZONE VA (Bixio-De Torres) canzone CUORI INNAMORATI (Di Ceglie) canSILVANO LALLI Orchestra Cetra diretta dal Mo Barzizza DC 4212 - CON LA BELLA IN CALESSINO (Concina-Bruno) canzone ritmo moderato NON SO PERCHE’ (Alcioni-Larici) can zone ritmo moderato NELLA COLOMBO Orchestra della rivista diretta dal Mo Zeme DC42513 - OP OP TROTTA CAVALLINO (Kramer-Frati) canzone ritmo moderato IL VALZER DELL’OSCURITÀ’ (MariottiKramer) canzone valzer TRIO AURORA Orchestra Cetra diretta dal Mo Barzizza DC 4242 - LO DISSE IL NONNO (FerrariDe Santis) canzone ritmo allegro SOGNO D’AMORE (Liszt - trascriz. Fer rari) canzone ritmo allegro OSCAR CARBONI Orchestra Cetra diretta dal Mo Barzizza DC 4279 - LO^A LIOLA’ (Pagano-Cherubini) canzone ritmo moderato SOGNO SUL MARE (Gamero-Veltroni) canzone rumba ALFREDO CLERICI Orchestra Cetra diretta dal Mo Barzizza DC 4281 - LINA... RITORNERÒ’ (UboldiLuraschi) canzone ritmo lento CANDIDA (Ferrari-iDe Santis/ canzone ritmo lento TINA ALLORI Orchestra Cetra diretta dal Mo Barzizza C 8000 - DON -CRISPINO (Pagano-Cherubini) canzone ritmo allegro CANZONE DI SAN REMO (Faliano) can zone valzer C 8028 - COME UNA LAMPADA (RampoldiMazzoli) canzone ritmo lento OOCHI VERDI (Di Roma) ritmo lento - T E L E F O N I: 4 1 - 1 7 2 - 5 2 -5 2 1 r A B B IA M O IN P R E P A R A ZIO N E DUE NUOVE C O LLE ZIO N I TEATRALI N e lla collezione « I ca p o la vo ri» p u b b li e li e re m o le o p e re p iù s ig n if ic a t iv e e d i r is o n a n z a m o n d ia le di u n o stesso a u to re d ra m m a tic o d i ogni epoca e d i qualsiasi Paese. Scegliendo le p iù im p o r ta n ti ed a ffid a n d o le a v a r i co m m e d io g ra fi, c r it ic i e le tt e r a ti, p e r la tra d u z io n e , re v is io n e , n o te e presentazione, v e rre m o a fo rm a re u n v o lu m e d i grossa m o le che c o m p re n derà p ra tic a m e n te « t u t t o u n a u to re » . I l p rim o v o lu m e con te rrà le com m edie, u n iv e rs a l m ente riconosciute ca p o la vo ri, di E N R IC O l l t s c \ Collaboreranno alle traduzioni, note e pre sentazioni, alcuni espèrti in materia, scelti tra i seguenti: mario apollonio, Enrico basSANO, FRANCESCO BERNARDELLI, EUGENIO BERTUETTI, UGO BETTI, GIUSEPPE BEVILACQUA, MAS SIMO BONTEMPELLI, ANTON GIULIO BRAGAGLIA, ERMANNO CONTINI, ENZO CONVALLI, LINA COSTA, GINO DAMERINI, ENRICO DAMIANI, SILVIO D’AMICO, ACHILLE FIOCCO, ENRICO FULCHIGNONI, ALDO GA BRIELLI, ETTORE GIANNINI, LORENZO GIGLI, RUG GEROJACOBBI, STEFANO LANDI, CARLOLARI, CARLO LINATI, CESARE VICO LODOVICI, ETTORE LO GATTO, GIOVANNI MARCELLINI, VINICIO MARINUCCI, CE SARE MEANO, RAFFAELLO MELANI, ALFREDO MEZIO, GIGI MICHELOTTI, GIULIO PACUVIO, EUGENIO FER DINANDO PALMIERI, AGAR PAMPANINI, CORRADO PAVOLINI, FRANCO MARIO PRANZO, GIORGIO PRO SPERI, LORENZO RUGGÌ, ALBERTO SAVINIO, ALES SANDRA SCALERÒ, RENATO SIMONI, TERESAH, VIN CENZO TIERI, GIORGIOVENTURINI, ACHILLE VESCE. 1 S N e lla co llezione «Le m em orie» p u b b lic h e re m o i r ic o r d i a r tis tic i d eg li a u to r i e d e g li a tto r i di o g n i epoca e d i q u a lsiasi Paese. C i lu s in g h ia m o così d i in d u rre a lc u n i illu s t r i co n te m p o ra n e i a scrive re le lo ro m e m o rie , q u a li Renato S im o n i, E rm ete Zacconi, E m m a G ram ática, Ruggero R uggeri, A rm a n d o F a lc o n i, ecc. R iu n ite in u n ’ a p p o s ita collezione a r tis tic a e p u b b lic a te in m odo pregevole, le m e m o rie n o n sa ra n n o p iù se m plicem ente dei «ricordi» (dai q u a li g iu s ta m e n te a lc u n i rifu g g o n o ), m a d elle r ie v o c a z io n i d ’a rte a d a tte a se rvire a lla s to ria a v v e n ire d e l n o s tro T e a tro . L a collezione si in iz ie rà , e n o n p o tre b b e essere d ive rsa m e n te , con a lc u n i v o lu m i la cu i p u b b lic a z io n e v o r rà essere u n om aggio ai n o s tri m a e s tri d e l T e a tro d e l ’ 700 e ’800. R is ta m perem o p e rc iò t r a i p r im i v o lu m i le m e m o rie d i: c a b lo g o ld o n i * CABLO GOZZI * A D E L A ID E BISTOEI * GUSTAVO MODENA * TALMA * EDO AEDO SCASPETTA LE DUE NUOVE COLLEZIONI SARANNO DIRETTE E CURATE DA LUCIO RIDENTI OGNI VOLUME DI BEL FORMATO, NITIDAMENTE STAMPATO SU CARTA DI APPOSITA FABBRICAZIONE, ILLUSTRAZIONI, RILEGATURA EDITORIALE E SOPRACOPERTA A COLORI NZIONI DI " I L D R A M M A ,, - CORSO VALDOCCO, 2 - TORINO Anno XIX 15 Novembre - 1° e 15 Dicembre 1943 N. 414-415-416 Q U IN D IC IN A L E D I C O M M ED IE D I G RAN DE SUCCESSO D IR E T T O D A LU C IO R ID E N T I C ilic i: Corso Vnido eco, 2 - Torino - Telefono 40-443 Cn fascicolo L. 2,50 - Abbonamento: un Anno: L. 50 Semestre L, 26 -■ Estero : un Anno !.. 80 - Semestre : L. 40 Borrirsi del Conto Corrente Postole N. 2/6540 intestato a S.il.T. Anton Giulio Bragaglia, tra gli ama C O P E R T IN A tori di Teatro il più esperto, con "k immutata ed immutabile passione, A N T O N G IU L IO ci ha dato la possibilità di pubbli care in questo fascicolo, un « pezzo D R A G A G L I A [Disegno di Paolo Garretto) di Teatro» - per dirla alla ma niera degli studiosi - di eccezionale interesse: i «Lazzi di Brighella», di Atanasio Zanoni, comico della Commedia all’Improvviso o Com media dell’Arte. È un documento fra i più semplici e divertenti della genialità di quei comici che per tre secoli diedero vita, con quanta virtuosità è risaputo, in Italia e all’estero, alla Commedia Italiana. Anton Giulio Bragaglia, con un ampio studio che precede i « Lazzi di Brighella » dice - da maestro - di quel nostro glorioso periodo. E noi vogliamo esternargli la nostra gratitudine pubblicando in co pertina un disegno del pittore Garretto, caricatura particolarmente cara ad Anton Giulio perchè - come egli ebbe a dirci pochi mesi fa, quando gliela presentammo appena ricevuta dal pittore - Garretto ha saputo realizzare nel disegno ciò che Bragaglia scrisse quando aveva il Teatro degli Indipendenti: «1 miei fratelli prendono parte alla mia vita come pezzi di me stesso». Il disegno di Garretto rias sume infatti in una caricatura «cumulativa» i fratelli teatranti: sommando il naso di Arturo, attore fotografo; gli occhi sentimentali di Carlo, regista cinematografico, sul viso emaciato di Anton Giulio, tra le parentesi dei suoi sopraccigli satanici e dei sottili mustacchi «da terreno» nati al tempo dei duelli e dell’Index. Vera rarità nel genere delle caricature, questa sintesi di una famiglia teatrale: uno e trino, l’Anton Giulio è ad un tempo Carlo e Arturo. Al grande disegnatore Garretto, che da New York si è ora trasferito a Budapest, per dar vita a dei nuovi cartoni animati del cinema, è felicemente riuscito l’affettuoso scherzo, ricordo dei vecchi suoi amici confusi in divina Trimurti. HANNO COLLABORATO A QUESTO FASCICOLO: afe Luigi Capuana, con il dramma in quattro atti: GIACINTA - Paul Vin cent Carroll, con la commedia in tre atti e due quadri: IL CORSIERO BIANCO (versione italiana di Vinicio Marinucci) - Eugenio O’ Neill, con il dramma in un atto: LA CORDA (traduzione di Franco Rossi) - Enzo Convalli, con la versione di TRE NO GIAPPONESI DEL XV SECOLO: Il vecchio Pino ed il Susino-Rosa; I due Pini che sono invecchiati insieme; Lo specchio dell'illusione - Lord Dunsany, con la commedia in un atto e due quadri: LE TENDE DEGLI ARABI (versione di Vinicio Marinucci). ♦ Atanasio Zanoni: LAZZI DI BRIGHELLA - Raccolta di motti brighelleschi, arguti, allegorici e satirici, presentati da Anton Giulio Bragaglia. $ Con artìcoli, scritti vari e disegni: Brunetta - Paolo Garretto - Giovanni Marcellini - Vinicio Marinucci - Roberto Minervini - E. Ferdinando Palmieri Lucio Ridenti - Renato Simoni. Seguonolerubriche: Varie-Epoche-Cronachefotografiche-Termocauterio. X Nelle Compagnie di prosa, ven ticinque anni fa, Natale non passava inosservato. Anzi, si cercava in questa occasione di rinnovare il calore della affettuosa cordialità della «piccola famiglia »., come allora si considera va una Compagnia di comici che per tre anni almeno, e qualche volta sei o nove, vivevano insieme, secondo l’uso delle scritture triennali. Le abitudini di vita erano mode ste; il senso di disciplina manteneva costante Vequilibrio, e la considera zione per i compagni più in alto nella scala dei valori, unita alla sim patia del pubblico per essi, smor zavano le vanità. Tranne piccole an tipatie, pur sempre contenute nei limiti della riguardosa gerarchia e soprattutto dissimulate nel vivere co mune, quelle venti o venticinque persone riunite insieme per «fare Varie », ossia per recitare, non ave vano bisogno davvero, come nel Set tecento napoletano di re Carlo, che si stipendiasse un « Uditor dell’eser cito » per riferire alle autorità come andassero le cose in palcoscenico. Tutto ciò che poteva avvenire allora nelle Compagnie era qualche piccolo intrigo d’amore, d’altronde riguardo samente mantenuto. E anche risapu to, si poteva considerare l’indiscre zione come un pettegolezzo. La co munità era formata dalle «coppie » e dai «ragazzi »: le prime erano i legittimi sposi e coloro che vivevano uniti per deliberata volontà; gli al tri erano gli scapoli-, uomini o donne. Le coppie illegali non erano poche, ma davano esempio di amore-costan za-fedeltà, e durava tutta la vita. Ne abbiamo conosciute di quelle che vi vevano insieme da diecine di anni in tale oleografica reciproca abnega zione, dà sacrificare perfino la pro pria carriera. Avveniva, infatti, che se ad uno di essi si offriva la possi bilità di raggiungere, in virtù dei propri meriti, la notorietà e l’agia tezza, soltanto separandosi dal com pagno, rinunciava all’occasione, pur convinto che la fortuna non sarebbe mai più ritornata. Ma restava l’amore. Le abitudini di vita, in massima, si completavano in quell’espressione comune di « casa e teatro », cioè non un passo fuori dalle proprie condi zioni e dalle abitudini tradizionali. Percorrendo tutta l’Italia, da regione a regione e di città in città, nessuna sorpresa poteva turbare il viver tran quillo dei comici, giacche in qual siasi luogo — tranne nei paesini do ve si capitava una volta e per caso in tempi di « debutti » — si ritor nava tutti nelle medesime case d’af fitto, che i « padroni » ormai amici, informati dai custodi dei teatri del « giro » delle Compagnie, e riallac anzi assicurato, « un Natale » gastro ciando continuamente rapporti epi nomicamente eccezionale. Dovevamo stolari, assegnavano le camere, con incassare alla «vigilia » dei « mati comodo di cucina o senza, secondo née », cioè dei compensi straordi** nari per spettacoli diurni già fatti, se ospitavano coppie o ragazzi. L’unico pasto quotidiano si consu e li avremmo spesi tutti, proprio tut mava dalle quattro alle cinque del ti, in cibarie e leccornie. Ne par pomeriggio, dopo la prova, e distan lavamo continuamente e intanto in te dalla recita quanto bastava per goiavamo saliva. La Compagnia reci presentarsi alla ribalta in perfetta tava a Brescia ed era diretta da Leo elasticità di corpo e serenità di men Orlandini, un ottimo attore che ci te. Nelle prime ore del mattino, avan incantava quando l’ascoltavamo la ti la prova, e la notte, dopo teatro, sera, incollati alle quinte, recitare il caffelatte. L’eterno caffelatte, del « Raimondo di Braganza » in II ri quale il nostro viso, poco più che dicolo di Paolo Ferrari, o «Ruggero adolescente, aveva preso il colore. di Ceran » in II mondo della noia Col sistema della rotazione degli al di Pailleron, o quando nell’ultimo loggi, noi sapevamo in anticipo quale atto di Odette egli, nella parte del attore di altra Compagnia ci lasciava marito, piangeva in fondo alla scena, il letto, e qualche volta, entrando in voltando le spalle al pubblico. Quel casa, trovavamo un biglietto di saluto l'attore sapeva muovere le spalle con lasciato sulla tavola dall’amico. Di tale mimica abilità da far «sentire » questi saluti scherzosi ne ricordiamo i suoi « soffocati singhiozzi » (che il uno di Renzo Ricci; diceva'. «In pubblico non vedeva e non udiva) questa camera non potrai dormire fino a commuovere non soltanto la per l’eco dei versi di Shakespeare, platea, che lo ricompensava di ap tanti ne ho studiati ad alta voce! plausi, ma anche noi che lo vedeva Ciao ». mo di fianco, in palcoscenico, dove Solo i capocomici, e non tutti, in l’illusione avrebbe dovuto svanire. cominciavano a quel tempo ad eman Era uno di quegli ottimi attori «caldi ciparsi nelle agiatezze e alloggiava e appassionati », secondo la formula no in un « Grand Hôtel ». A noi dell’800, che in Luigi Carini hanno Z’«Hôtel » dava tanta soggezione che avuto l’ultimo rappresentante fino al quando eravamo chiamati, per re settembre di quest’anno. Orlandini carci dal capocomico, ci si vestiva era « un vero primo attore » di al meglio del solito e incominciavamo lora: alto, forte, corretto, dignitosis a toglierci il cappello prima di infi simo e dai lineamenti non banali. lare la bussola girevole. Senza la por Lo si sarebbe potuto classificare tra ta a ruota, non avremmo mai chia gli « aristocratici » — secondo l’uso mato « Hôtel » un albergo. — se non avesse avuto Vabitudine di Natale, abbiamo detto, ci riuniva: recitare quasi sempre, cioè quando i ragazzi erano invitati dalle coppie, non si controllava attentamente, con in tante diverse case d’affitto, ad una le gambe larghe e le mani in tasca. tavola lieta. Si pranzava abbondan Ma « diceva » con una naturalezza temente il 25 dicembre a mezzogior sbalorditiva; «non recitava, parla no e si sbadigliava dietro le quinte va », secondo il giudizio dei comici. allo spettacolo pomeridiano. Si desi Questo caro e bel signore, nostro te nava, dal 24 al 26, due volte il gior mutissimo capocomico, fin dal primo no. Così decidemmo di fare, già da giorno di riunione della Compagnia qualche settimana prima di Natale, non si era mai accorto di Melnati e Umberto Melnati e noi che, scrittu di noi, ultimi generici. Non esisteva rati nella medesima Compagnia quel- mo. Pure tutte le sere, giacché le l anno 1915, eravamo subito diventati commedie erano sempre «piene », fraternamente amici. Melnati aveva comparivamo sulla scena con inim coti se la mamma, la signora Marcel maginabili fluentissime barbe di stop la, e abbiamo detto altre volte in pa, con lunghi e cadenti stifelius, questi ricordi, coinè in quel periodo con enormi cappelli a cilindro. Le ella avesse con se due figli. Eravamo nostre parti mute erano quasi sempre così poveri e volevamo tanto bene al quelle di « un presidente del Sena Teatro, che mettere insieme le nostre to »; « il presidente della Repubbli miserie e le nostre speranze fu lieta ca »; ecc. e facile impresa. Le speranze erano In quei giorni precedenti il Nata grandi e si ingigantivano — in un le, Orlandini si ricordò di noi: fece continuo sognare ad occhi aperti — cenno di avvicinarci alla sua sedia ogni giorno di più. Avevamo tanto direttoriale accanto alla buca del ossessionata la mamma in quei giorni suggeritore, durante una prova, e pu che precedevano il Natale, che la si lendosi gli occhiali da miope che gnora Marcella ci aveva nromesso. poggiava poi in bilico sul piccolo naso, da farli somigliare ad una far falla che riprende il volo, ci disse distrattamente: «Si prova, oggi VAi grette di Niccodemi. E’ una comme dia nuova su questa piazza. Voi due avete una parte di molta responsabi lità e siete sempre in scena col pri mo attor giovane ». E indicò Sandro Ruffini, come se non lo conoscessi mo. « Tutti e tre dovete indossare un costume da scherma: calzoni cor ti di raso nero, calze lunghe di seta, scarpe da pedana e il giubbetto bian co degli schermitori ». Poi soggiun se: « Siete magri tutti e tre : starete benissimo; sarà un bel quadro». E ci consegnò il foglietto con le bat tute ricopiate. Finalmente avremmo detto qualche parola : finalmente una «bella parte»! Ma l’esultanza fu soffocata dallo scoramento di do verci provvedere del costume cfa scherma a nostre spese, secondo l’uso. Ne parlammo con la signora Mar cella, fino a due giorni prima del l’andata in scena della novità, che si sarebbe rappresentata la vigilia di Natale. Sommammo infiniti progetti, accavallammo moltissimi inutili ri pieghi. Dal cerchio chiuso della no stra povertà era impossibile uscire: occorreva, non diciamo comperare i due costumi, ma almeno provvedersi della stoffa. Li avrebbe confezionati la mamma. E il tempo stringeva. Fi nalmente decidemmo di domandare all’amministratore i compensi dei « matinée » e, ottenutoli, comperam mo le calze, il raso per i calzoncini corti e le scarpe. Avevamo così speso tutto il danaro, compreso quello del la mamma, ed eravamo vestiti a metà. Ma la signora Marcella ci disse, con un sorriso che noi non dimentiche remo mai, che si « poteva ancora ri mediare » per il giubbetto bianco: tolse da un « cassone » il suo antico e candido abito da sposa e sulla ta vola della camera d affitto, con una macchina da cucire ottenuta in pre stito dalla padrona di casa, rifinì più col cuore che con le mani, due giub betti da scherma. Li avevamo provati cento volte : li indossammo a pen nello. Recitammo la scena con onore e componemmo con Ruffini il « bel quadro » desiderato dal capocomico. Era la vigilia, abbiamo detto, e rincasando mangiammo, tutti e tre, il caffelatte, senza accorgercene, an cora emozionati dal successo della commedia e dal compiacimento del capocomico per la nostra scena. Il giorno dopo — Natale — mat tino, giorno e sera, ingoiammo il caf felatte senza più una parola. rid. D R A M M A IN Q U A TTR O A T T I DI L U IS I C A P U A N A Riduzione di TURI VASILE, rappresentato al Teatro delle Arti di Roma, diretto da ANTON GIULIO BRAGAGLIA, 1*11 gennaio 1943 2P®R§©W ACS€rI GIACINTA - LA SIGNORA MARULLI - LA SIGNORA BIANCHI - GINA, sua figlia - MARIETTA, cameriera - BATTISTA - ANDREA GERACE - IL CONTE GIULIO GRIPPA DI SAN CELSO - IL CAVALIER MOCHI - IL COMMENDATOSI SA VANE - IL CAPITANO RANZELLI - IL SIGNOR MARULLI - MERLI - RATTI - IL DOTTOR FOLLINE Salotto in casa Maritili Signora Marulli — Parlatemi sinceramente. Mochi — Al mio solito; sì, la Società dello zolfo è già in via di fallimento. Signora Marulli ■ — Lo sospettavo! Mochi — Savani affetta d’essere tranquillo... Signora Marulli — Forse lo è davvero... Mochi — Dovrei crederlo troppo sciocco; non è que sto il suo difetto. Voi, intanto, non vedete che pei suoi occhi! Signora Marulli — Io? Mochi (tentando dì stringerle ironicamente la mano) — Vi riconosco, Teresa! Signora Marulli — Sempre maligno! Non m’avete ancora perdonato... Mochi — V’ingannate. La mia vanità è soddisfatta. Tutti mi credono, a torto, il felice predecessore del vo stro Savani; e questo mi è bastato... finora. Mi si vieta forse di sperare? Signora Marulli — Non dite sciocchezze! Siamo quasi vecchi tutti e due. Parliamo di cose serie: il pericolo è imminente? Mochi — Lo temo. Savani ha molti nemici, che sono anche i vostri. La sua Società dello zolfo era già mal vista; ma, dopo le sue ultime operazioni, via, un po’ loschine, corrono attorno delle voci assai cattive. Signora Marulli — Dimettendovi da membro del Con siglio d’Amministrazione, le avete avvalorate. E’ una ven detta anche questa? Ma io non sono la Società dello zolfo. Mochi —< Molti lo credono. Signora Marulli — Sentite, Mochi, vi ho stimato sem pre un amico sicuro... Mochi — Sono tale, mio malgrado^ è un’imbecillità come un’altra... Signora Marulli — Che avete questa sera? Schizzate fiele! Mochi -— Vi sembra. Io compatisco tutti, voi lo sa pete; e comincio da me stesso. L’esperienza della vita rende noi uomini assai indulgenti. Signora Marulli — Voialtri soltanto? Mochi — Risparmiateci; è inutile. Siamo a quattr’oc chi; non c’è nessuno a cui darla ad intendere. Signora Marulli — Siete proprio cattivo! Mochi — E non me ne trovo male, ve l’assicuro. Sicnora Marulli — Però volete farvi credere peggiore di quanto non siate; è la vostra posa. Mociii (guardandola negli occhi) — E la vostra in questo momento? Un’insolita dolcezza a mio riguardo. Su, parlate franca, se avete qualch’altro piccolo servigio da chiedermi. Signora Marulli — Delle altre informazioni... Mochi — Bancarie? Sicnora Marulli — No. (Esitante) Quel capitano Ranzelli che voi presentaste in casa mia... Mochi — Un genero all’orizzonte?... Sarebbe tempo. Signora Marulli — Giacinta non ha fretta. E’ ricco? Ha davvero un titolo? Mochi — Chi non ha un titolo al giorno d’oggi? In quanto all’essere ricco, pare di sì. Spende e spande. Sta a vedersi, chi può saperlo?, se quei quattrini siano suoi. Io, voi lo sapete, ho la debolezza d’una grande ammira zione per chi si serve, senza tanti scrupoli, del denaro altrui; vuol dire che chi lo dà in prestito non sa ado perarlo in diversa maniera ed è la più balorda. Signora Marulli — Vuol lasciare il servizio. Mochi — Se è ricco, fa bene. Signora Marulli — E’ un bravo giovane, colto, ele gante. Mochi — Vi conviene? Sicnora Marulli — Sventuratamente, con quella bi slacca testolina della Giacinta, non sono io che debbo decidere; è la mia pena. Il legato di due milioni fattole da quel mio parente è una specie d’indipendenza per lei; sarà, fra pochi mesi, l’indipendenza assoluta, quando Giacinta diventerà maggiorenne. Mochi — Vi ha fatto un gran torto colui; eppure era vate in ottime relazioni, mi pare. Signora Marulli — Bisogna scusarlo. Viveva da trent’anni a Parigi; non ci conosceva neppure di vista. Era Giacinta che gli scriveva nelle grandi occasioni... Mochi — Sicché, voi abdicate! Mi sorprende. Signora Marulli — Ho paura che mia figlia non m’ab bia a dare un giorno o l’altro qualche grande dispiacere. Non capisce nulla della vita; è una sciocca, oppure è un enigma. Mochi — Siete molto severa. Signora Marulli — Non riesco a capirla. L’altra volta, per esempio, non mi parlava - vi parrà incredibile - di voler entrare in convento?... In convento! Mochi — Qualche amoruccio contrariato; voi donne, spesso vi date a Dio solo per far un dispetto agli uomini. LUIGI CAPUANA Signora Marulli — Non ha cuore quella ragazza; non vuol bene neppure a sua madre! Mochi —- Ve ne siete occupata poco anche voi, sin da quand’era bambina. Signora Marulli — Oh! la solita accusa che mi si butta in faccia. Voi che mi conoscete meglio degli altri, voi che sapete bene... Mochi — Io non so nulla; so quello soltanto che ripe tono le cattive lingue. Signora Marulli — E’ un’infamia! Mochi — Dovreste indignarcene meno. Siete una donna eccezionale, senza nessuno dei pregiudizi, senza nessuna delle esitanze che indeboliscono il vostro sesso. Che v’importa di quel che dicono o non dicono le cattive lingue? Signora Marulli — Non tocchiamo questo tasto!... Dunque, quel Ranzelli? Mochi — Sarebbe il vostro candidato? Signora Marulli — Non ve lo nascondo; ma, cosa strana in un militare, mi sembra un po’ timido. Mochi — E vorreste che lo incoraggiassi io! Signora Marulli — Mi basterebbe che voi scrutaste le sue intenzioni. E’ un favore d’amico e perciò lo do mando a voi. Mochi — Grazie. Cercherò di servirvi questa sera stessa. Egli sarà qui fra poco; non manca mai. Ed ora, se non avete altro da chiedermi, permettete che vada di là, per la solita partila con Savani e vostro marito. Egli batte sempre il povero commendatore. E’ una giusta ri vincita! Signora Marulli — Siete insoffribile. Savani (tirando in disparte la Marulli) — Se il Potati vi parlasse di quel suo affare, ditegli che le settantamila lire sono presso di voi. Signora Marulli — Ma... io non le ho più! Savani — Non le avete più?... Voi dunque dubitate, come gli altri? Vi unite ai miei e ai vostri nemici? Signora Marulli — Volevo parlarvene; ma non siete stato libero un solo momento in questi ultimi giorni. Ho trovato un buon collocamento con ipoteca di beni stabili. (Parlano concitatamente sottovoce). Mochi (con aria di mistero, a Giacinta che rimescola i fogli di musica al pianoforte) — La Marietta è una sciocca... Mi ha frainteso. Giacinta (sottovoce) — Se aggiungete una parola di più... dirò tutto a mia madre. Mochi (c. s., insinuante) — Più tardi, quando ci sarà gente, venite sulla terrazza. Voglio scolparmi. Quella sciocca non m’ha capito. Giacinta — Ho capito abbastanza io! Mochi — Voglio scolparmi. (Si allontana). Savani (alla Marulli) — Oh! anche voi, Teresa! Signora Marulli — Ma se vi dico di no. Savani — Mi credete tutti sull’orlo d’una voragine e mi date, tutti, la spinta perchè io vi precipiti più presto... Signora Marulli — Siete cattivo. Savani — Vorrei ingannarmi! Venite, Mochi? Mochi — Volentieri. (Escono insieme). Signora Marulli (in disparte) — Se s’immagina di trascinarmi nell’abisso con lui! (A Giacinta) Che cerchi? Giacinta — Il duetto del « Ballo in maschera ». Ha mandato a chiederlo la signora Villa. Dovrebbe essere qui. Signora Marulli — Falle rispondere che non hai po tuto trovarlo; sarà meglio. La signora Villa non resti tuisce mai la musica e i libri le si prestano. Giacinta (che ha trovato il fascicolo) — Ma anche lei ha prestato a noi dei libri di musica. Signora Marulli — E’ diverso. Nói li restituiamo sem pre. Sei incorreggibile. Tu ti figuri che la società sia proprio quale appare in un salotto o in una festa dove tutti si sorridono e si scambiano strette di mano... Giacinta — Non l’ho creduto mai. Signora Marulli — E giacché siamo su questo di scorso... Quando ti metterai in testa che devi pensare seriamente al posto da prendere in società? Giacinta — Va bene... Ci penserò... seriamente. Signora Marulli — Questa maniera di rispondere, tu lo sai, non mi piace... Giacinta — Come vuoi che ti risponda?... Va bene, ci penserò. Sicnora Marulli — Parecchi giovani hanno mostrato... un’attenzione speciale per te... Tu intanto... Giacinta —- Li ho lasciati fare... (Risoluta) Senti, mam ma; hai ragione, non sono più una bambina; debbo pen sare al mio avvenire... e ci penserò. Vedrai! C’è un de stino per tutti; io voglio andare incontro al mio, sbada tamente; tanto, è inutile: non gli si sfugge! Che te ne importa? Con te sarò sempre la stessa... Buona, docile... mi presterò a tutto... come mi prestai tre mesi fa... Marietta — La ragazzina mandata dalla signora Villa vuol sapere se deve attendere... Giacinta — Dalle questo qui. (Porge il fascicolo di musica). Signora Marulli (togliendole di mano il fascicolo) — No; dille che non è stato possibile trovar quella mu sica. (Marietta esce) Oramai ti ho capita; bisogna farti violenza, per il tuo bene. Dicevi?... Giacinta (reprimendosi) — Dicevo che sarò sempre buona, docile con te, come tre mesi fa, dopo la mia con valescenza, pel pranzo e il ballo dati agli azionisti... col pretesto che festeggiavi la mia ricomparsa in società... Signora Marulli — Col pretesto?... E’ il cavalier Mochi che ti ha suggerito questa malignità... E tu gli hai creduto?... Tu gli hai creduto?... Giacinta — Hai ragione, mamma; è meglio parlar chiaro... Sappi, dunque, che alla mia situazione, al mio avvenire ci ho pensato lungamente. Sono cresciuta fin oggi quasi abbandonata a me stessa. Non ti accuso... Hai avuto, hai tuttavia tante occupazioni più gravi : la fa miglia, la banca, gli azionisti... che so io?... Lasciami continuare a vivere così, abbandonata a me stessa; non dubitare, non avrai noie per causa mia. Le mie idee non sono assurde... vedrai! Ma lasciami libera, assolutamente, te ne prego... In ogni caso, dovrei prendermela soltanto con me! Signora Marulli — Per ora, qui comando io! Che t’immagini?... Che ti hanno fatto capire? Sono questi gl’insegnamenti che ti davano in collegio? Giacinta — Il collegio ci rende quali ci ricevette. Signora Marulli — Sei un’ingrata! Giacinta — No, mamma! GIACINTA Signora Marulli — Sei un’ingrata! Ma, bada, veh! E’ bene che tu lo sappia, a nte i romanzetti non piacciono punto; so come stroncarli sul nascere! Giacinta — Se credi che io abbia dei romanzetti per la testa! Signora Marulli — Che significa, dunque, quel « la sciami libera»? Giacinta — Te lo spiegherei, se tu fossi più calma. Signora Marulli — Sono calma, calmissima; ci vuol altro per agitarmi. Giacinta — Significa che l’avvenire è ancora lontano; che, per ora, nè tu, niè io dobbiamo legarci le mani... Non dartene pensiero. Però, se dovessi, come pare che tu desideri, prender marito, prenderei soltanto una per sona di mia scelta, risolutamente... a costo di farti di spiacere. Ma non lo prenderò, non lo prenderò! Ho un triste presentimento... perchè... perchè... ecco, non mi riesce di spiegarmi; mi mancano le parole... Te ne prego; non occuparti più del mio avvenire! Non me ne occu lterò nemmeno io... Qualche cosa avverrà. Te lo ripeto; non avrai noie per causa mia. Lasciami fare... anche una sciocchezza!... Che te n’importa? Signora Marulli — Sei ancora malata, qui, nel cer vello. Hai scartato il Porati, un figlio unico! Hai scar tato il Gessi, con la scusa ch’era un grullo e arrossiva di tutto a sproposito, e alla Maiocchi non è parso vero di prenderselo per la sua Elisa. Hai scartato il Merli, un giovane serio, con un avvenire magnifico per via di suo zio!... Se ti fa girare la testa quel chiacchierone del Ratti... Giacinta — Oh, mamma! Signora Marulli — Se t’abbaglia il romanticismo d’Andrea Gerace, un impiegatuccio della Banca nazionale, uno spiantato!... Giacinta — Ma chi ha potuto dirti questo! Signora Marulli — Ho gli occhi per vedere... e an che gli orecchi per sentire. Signora Bianchi (alla Marulli) — Non volevo venire; credevo che tu non ricevessi... Signora Marulli — Gli amici più intimi soltanto. Le circostanze, capisci... Signora Bianchi — E anche perchè questa sera abbia mo il palco al teatro. (A Giacinta) Ma la Gina deside rava di vederti.. Come sei seria! Come siete serie!... In fine, era un parente mollo lontano. Signora Marulli — Ma così buono, così generoso ! Si ricordava sempre di noi. (Continuano tra loro). Gina (a Giacinta) — Sono contenta per te; con la bella dote che ora hai... Giacinta — Tu non pensi ad altro. Gina — A che dobbiamo pensare noi ragazze! (Conti nuano sottovoce). Signora Marulli — Ernesta Majocchi non si vede più. Sua figlia è molto malata. Signora Bianchi — Povera Elisa! Pareva che tutto fosse combinato. Sicnora Marulli —• Questioni d’interessi, dicono. Signora Bianchi — E’ la mamma di lui che non vuol saperne d’uria ragazza malaticcia, mezzo rachitica. (Con tinuano sottovoce). Gina — Tu sei diffidente. Io ti dico tutto, invece. Giacinta — Non ho nulla da dirti. Gina — Va, io prenderei subito marito... per curiosità. Ratti (alla Marulli) — Non vi ho più veduta alle Assise. Signora Marulli — Oh! avvocato... Quel processo va troppo per le lunghe. Signora Bianchi — Di che si tratta? Ratti —* D’una donna maritata che per gelosia ha ucciso l’amante. Signora Marulli — Mi contento di leggere il resoconto nei giornali. Signora Bianchi — Sono tutte fandonie quelle che scrivono. Gina (andando incontro a Gerace) — Gerace, vi siete rammentato di quel disegnino? Gerace — Eccolo, signorina. Gina — E’ autentico? Gerace — Guardate la firma : Morelli. Gina (mostrando il disegno a Giacinta) — E’ pel mio album. Giacinta (distrattamente) — Bello! Merli — Posso osservarlo anch’io? Gina — Guardate pure. Gerace (sottovoce a Giacinta) — Perchè non hai ri sposto alla mia lettera. Giacinta (piano) — Che hai? Gerace — Me lo domandi? Giacinta — Più tardi. (Si allontana). Merli (raggiungendo Giacinta) — Signorina! (Rimane imbarazzato). Giacinta — Ebbene? Merli — Dunque mi sfuggite! Vi ripeto... Giacinta (ironica) — Risparmiatevi! Merli — Parlo seriamente. Giacinta — Non fate quegli occhi... Mi viene da ridere. Merli — Come siete crudele con me! Invece, con qualche altro... Giacinta — Ora mi dite delle impertinenze. (A Ranzelli) Capitano! Promettete di dirmi la verità. (Lo pren de in disparte). Ranzelli — Dico sempre la verità! Gina — Gerace, Gerace, ascoltate! (Gerace si avvicina-). Giacinta (a Ranzelli) — E’ vero che il tenente Brogini ha un’amica vecchia e brutta che talvolta lo picchia? Ranzelli — Scusate, signorina... ma... Giacinta — E’ una mia curiosità; ditemelo. Fatemi questo piacere. Dopo, magari potrete sgridarmi. Ranzelli — Non vi sgrido, non ne ho il diritto, nè i’aulorità. Però nutro tanta stima per voi e vi voglio... Giacinta — Tanto bene! Si sa! Ranzelli — Sì, tanto bene, che non posso vedervi commettere, senza dispiacere, anche una leggerezza da nulla. Giacinta — Come siete severo! Oh! Oh! Ranzelli (continuando) — Non dite così. Il mondo giudica dalle apparenze, e quando... Giacinta (interrompendolo) — E’ vero che il tenente Brogini... Ranzelli — Sentite; sedete qui cinque minuti soltanto. (Continuando sottovoce). Gina (a Gerace) — Che avete? Siete distratto. LUIGI CAPUANA Gerace (che osserva Giacinta e Ranzelli) ■ — Non mi pare; vi ascolto attentamente. Ratti (tirando in disparte, sul davanti, il Foliini) — Caro dottore, voi che siete già savio a ventisette anni, mentre io, che ne ho già trentadue, non ho ancora messo il dente del giudizio... Follini — Non abbiate fretta. Ratti — Voi che siete un savio, un filosofo, uno scienziato... Follini — Troppe cose in una volta! Ratti — Sposereste voi Giacinta, ora che ha due mi lioni di dote... quanto bastano per far dimenticare molte cose? Il capitano Ranzelli assalta la fortezza, a quel che pare. Follini —• Non mi occupo dei fatti altrui. Ratti — La sposereste? Follini — E voi? Ratti — Ma io sono ritenuto un mezzo matto, e se facessi una sciocchezza non se ne meraviglierebbe nessuno. Follini — Fatela, dunque. Giacinta è assai migliore di quanto la gente non la stimi... Il resto, mio Dio!... è un’opinione. Ratti — Non direte che sia un’opinione anche la madre. Follini — Se mai non dovrete sposar lei. Ma voi, con queste idee, perchè frequentate la casa? Ratti — Oh, bella! E’ una casa eccezionale in pro vincia. Si va, si viene, senz’etichetta, senza noie; vi si può parlare liberamente di tutto e di tutti... C’è una ra gazza che promette. Fino a tre settimane fa nessuno vo leva sposarla... Follini —• Oggi vorreste sposarla tutti. Ratti — Io no; non sono di quelli che prendono mo glie. Le mamme lo sanno e perciò non mi tentano, come fa ora la signora Rossi, osservate, che vuol accalappiare Gerace per la sua Gina e non lo lascia tranquillo. Oh che mondo! (Continuano sottovoce). Ranzelli — Dico bene? Giacinta — Può darsi, certe cose non le capisco. Ranzelli — Voi vi calunniate! Giacinta — La mamma ci osserva. Ranzelli — Tanto meglio. Ratti (a Follini) — Il capitano rinnova l’assalto; ma non è allegro. Follini — Perchè v’interessate? Che ve ne importa? Ratti — Gli darei noia volentieri. Gina (a Gerace) — Ma lasciate stare quei poveri baffi. Vorreste strapparveli? Gerace — E’ una mia cattiva abitudine. Giacinta — Poesia, caro capitano; nient’altro. Si vede che siete anche poeta, nella vita almeno... Io, invece, credo unicamente alla prosa... alla triste prosa... mio malgrado... E i cinque minuti? Ranzelli — Per me non sono passati. E se non vi infastidisco... Giacinta — No. (Continuano). Conte (a Ratti) — Arrivo troppo tardi?... Gerace ha forse cantato?... Ratti — Ma non si può più cantare qui. I Marnili sono in lutto... per l’eredità dei due milioni. Conte (non comprendendo) — Ah!... (A Foliini) Buona sera! (A Gina) Signorina! (Tornando da Ratti) Ah! Ho capito!... Bel lutto! Ratti (al dottore) — Che rapidità d’intelligenza. (Ri dono. Il conte va a salutare la Maritili e gli altri). Conte (presentandosi con esitanza a Giacinta) — Di sturbo?... Capitano, buona sera... La signorina sta molto bene vestita a lutto. Per un parente della mamma, è vero?... Un cugino?... Ma, quando le disgrazie arrivano così... accompagnate! (Ride scioccamente) Infatti, dice il proverbio ; le disgrazie non vengon mai sole... E’ veris simo! (Ride, ma si accorge che gli altri non ridono) Disturbo?... (Si allontana). Follini — Conte, avete poi vinto la vostra scommessa? Conte — L’ho perduta. Quel cavallo... era una giu menta. Ratti — Oh! Oh! Un cavallo ch’era una giumenta! Conte — Ma io credevo... Ratti •— E’ sorprendente. (Molti ridono). Gina (a Gerace) — Vedo che non mi date retta; ne riparleremo. Gerace — Scusate. Sono un po’ nervoso questa sera. Ranzelli (a Giacinta) — Vi ricrederete! Vi ricre derete ! Giacinta (alzandosi) —- Non mi capisca al rovescio... (Va incontro a Gerace e gli dice piano) Che ti prende? Vuoi farti scorgere? (Alla Bianchi) Andate già via? Signora Bianchi —- Arriveremo al secondo atto... Gina!... Buona notte. Signora Marulli — Buon divertimento. (La signora e Gina escono) Capitano, questa sera avete un’aria, una cert’aria, non saprei... Ranzelli — Può darsi. Signora M arulli— Dunque, siete deciso! Lascerete il servizio? Ranzelli — Tento di ritrovare un migliore ingaggio, come diciamo noi militari. Signora Marulli — Quale? Ranzelli (guardando Giacinta che passa) —■E’ ancora un segreto; se permettete... (Si congeda). Conte (a Ranzelli) — La vita militare. Bellissima! Io fui riformato... per gracilità... (Ranzelli esce). Ratti (piano a Gerace) — E’ rimbecillito. (Forte) Oh, sì, Andrea! due milioni! Ecco una fortuna che non capi terà mai nè a voi nè a me! Savani — Ma se non avevo neppure un asso! Mqchi — Commendatore, avete torto : dovevate rispon dere a bastoni. Marulli — A bastoni: ecco! Savani — Gerace, non andate via; debbo pregarvi di farmi una piccola ambasciata al vostro direttore. (A parte) Teresa, vi dispiace se andiamo un momento di là? Ratti —• Sempre in faccende, commendatore! Gli azio nisti non vi dànno pace. Savani — Sono più noiosi delle mosche. Ratti — Il miele dei dividendi li attira. (Piano a GIACINTA Gerace, mentre il Savani e la signora Maritili escono) E ci restano, poverini! Mochi (a Giacinta) — Voglio scolparmi... (Giacinta gli volta le spalle ed esce). Ratti (a Gerace e a Mochi che si è avvicinato) — C’è del marcio, a quel che si dice, nella Società dello zolfo. Il commendatore non mi sembra allegro e la si gnora Marnili neppure; che donna, eh? la signora Marulli! Dal nulla, da moglie d’un povero impiegato... Mochi (vedendo accostarsi il Maritili che ha lasciato il conte Grippa a guardare un album) — Diceva qui il nostro avvocato, caro Marulli... Ratti (imbarazzato) — Io... non dicevo nulla. Marulli — Che bisognava rispondere a bastoni? Ratti — Precisamente. Marulli — Siamo d’accordo. Ratti — Restate ancora, cavaliere? Mochi — No, vengo via. E voi, Gerace? Gerace — Il commendatore Savani mi ha detto di attenderlo. Mochi — Buona notte. Noi andiamo al Caffè della Pantera... Ratti — Nel mezzanino, s’intende. Questa sera sono in vena. Oggi, due onesti clienti, merce rara, mi hanno portato gli onorari. Mochi — Sono da compiangere. Ratti — I clienti? Mochi — Gli onorari. Ratti — Per carità, non mi smontate. Perderò. Arri vederci, dunque, Gerace. (Escono Mochi e Ratti accom pagnati da Marulli). Marietta (al conte che guarda l’album) — La signora non è qui...? Conte (fermandola) — E’ di là, col commendatore. Non scappar via; senti... Se la tua padroncina volesse diventare la contessa Grippa di San Celso... Marietta — Domandateglielo! Conte —■Diglielo tu. Non scherzo mica. Diglielo tu. Marietta —■ Sì, sì proverò. (Esce ridendo). Gerace (al conte, scherzando) — Ma come? Volete sedurre la cameriera? Oh, conte!... Conte — Tutt’altro!... Se sapeste!... Ma non dovete saperlo. No, no. Ah, quella romanza da voi cantata!... Bella! Bella! Però preferisco l’operetta o la rivista. Che gambe, quella Balda! Che gambe! Vo a teatro, ad ap plaudirla! Giacinta — Perchè mi hai scritto « io non me ne rallegro »? Gerace — Perchè ora sei troppo ricca. Giacinta — Tanto meglio. Gerace — Chi lo sa? Giacinta — Dubiti di me? Gerace (dopo ima pausa, con voce repressa) — Che pretende quel capitano? Giacinta — Nulla. Gerace — Ti ama. Te lo diceva poco fa... Giacinta —• Vorresti impedirglielo?... Per carità, non fare scene! Gerace — Ho torto? Giacinta —- Sì. Gerace (esitando) — Dammene una prova. Giacinta —- E’ impossibile. Gerace — Sposerai lui! Giacinta ■ — Nè te, nè lui. Gerace — E tu mi ami? Giacinta — Con tutta l’anima! ...Ma è un’altra cosa, Dio mio! Gerace —• Chi ti capisce? (Abbassano la voce guar dando dalla parte dove sono entrati la Marulli e il Savani). Giacinta — Mi tormenti iter capriccio; non può es sere altrimenti! Tu sai che io non mento. Ti ho detto che ti amo, sei il solo a cui Pabbia detto; non lo dirò a un altro, puoi esserne certo... Ma ti amo a modo mio... Lasciati amare così! Non tormentarmi. Gerace — E per l’avvenire? Giacinta — Per l’avvenire?... Ti amerò sempre; non posso, capisci?, non voglio amare che te! Ma lasciati amare a modo mio. Non tormentarmi inutilmente, ti ripeto. Gerace — Vorrei mi tagliassero la testa, se ne com prendo qualche cosa! Giacinta — Ti ricordi un anno fa? Eravamo seduti vicino al caminetto... Tu armeggiavi con le molle, per ravvivare la fiamma. Io ti dissi: « Ho segnato con la mia sorte un patto terribile ». « Quale? », mi domandasti. « Lo saprete un giorno », ti risposi. Allora, fui io che ti tesi la mano, quando meno te l’aspettavi, quando, forse, cominciavi a disperare... Gerace — Infatti... Giacinta (concitandosi sempre più) — « Mi amate davvero? », li domandai. Tu mi baciasti una mano. Gerace — L’unico bacio che mi hai permesso! Giacinta — Che ti dissi allora?... Lo rammenti? Gerace — Oh, sì, Mi dicesti: «Hai fiducia in me?». « Illimitata », risposi. Giacinta — Ma soggiunsi: «Sei capace di tener se greto questo nostro amore, fino a che non ci sarà più ragione di tenerlo nascosto? Un amore alla vista di tutti è un amore sciupato! Non devi adombrarti di nulla...». Gerace — « Di nulla, ora che mi so amato ». Ti risposi così. Come posso aver dimenticato? Giacinta — E sarai paziente, senza lagnarti mai? Il mio cuore è tuo, Andrea, completamente tuo e per tutta la vita... L’hai dimenticato? Gerace — Chi ama, teme; non si ragiona quando s’ama. Allora però non eri così ricca. Giacinta — Non proseguire; mi sentirei insultata! Gerace — Tua madre... Giacinta — Mia madre non può nulla su di me. Le ho resistito fino adesso; potrò resisterle meglio ora che la fortuna mi ha emancipata da lei. Il dolore mi ha tem prata. Oh, quello che ho sofferto, tu non puoi immagi narlo! Quante umiliazioni! Fossi morta quattro mesi fa! Nello stordimento della febbre solo un pensiero persi steva nella mia intelligenza: sto per morire!... Perchè non sono morta?... LUIGI CAPUANA Gerace — Non dire così; non dire questo. Mi addolori. Giacinta — E intanto mi torturi insieme agli altri, quasi che io non soffra abbastanza senza la tua gelosia, i tuoi sospetti e i tuoi rimproveri!... L’avvenire!... L’av venire!... Oh, lo so bene quale sarebbe il mio avvenire anche con te! L’uomo non è mai generoso; non dimen tica, non scusa, non perdona... mai!... Verrebbe un giorno, arriverebbe un momento che anche tu saresti così vile... da rinfacciarmi... (Si copre il volto colle mani). Gerace — Che cosa? Giacinta .{fiera.) — Tu lo sai, non mentire! La mia fanciullezza macchiata dalla brutalità d’un... Tu lo sai, e su ciò non tollero nemmeno la tua pietà! Gerace 1 — Ti amo!... So dimenticare, l’hai già veduto. Perdonare?... Non è il caso. Giacinta — Non m’illudi! Ti voglio troppo bene da accettare il rischio di doverti un giorno odiare o di sprezzare, che sarebbe anche peggio!... Senti, Andrea, te ne supplico; non far comprendere alla gente che tu sei per me più degli altri!... E se ti pesa l’essere amato a modo mio, se non hai più la forza e il coraggio di continuare ad amarmi, lasciami ,in pace!... Sarà quello che sarà. Che posso dirti di più? Gerace — Ma io ti amo, tanto! Giacinta — Già, ad una (spiegazione dovevamo arri varci. Ti vedevo da qualche tempo così irrequieto, così smanioso... Gerace ■ — Come non esserlo? Giacinta {sorridendo) — Sono forse gelosa di te per la Gina? E lei, Ilo so, ti si butta fra le braccia. Gerace —■Serve a sviare i sospetti. Giacinta — Ed ora, avrai fede in me? Sarai prudente, non t’adombrerai di nulla, è vero? Che vuoi?... Sono un po’ diversa dalle altre donne... forse, sono fatta male... me n’accorgo. Ho sofferto troppo! Ma non sono cattiva: orgogliosa, sì; anche troppo... L’orgoglio è il mio co raggio. Gerace {guardandola negli occhi) — Sicché... Giacinta — Oh!... Ma perchè vuoi torturarmi così? E allora, sappilo : l’uomo del mio cuore potrà, forse, un giorno diventare un amante, ma marito no, mai. Zitto... Non vedi come tremo!... Mai! Mai! (Si ricompongono, sentendo arrivare Marulli, Savani e la signora Marulli). Savani ■ — Scusate, Gerace, mi sono fatto attendere, vero? Andiamo? (Escono). Signora Marulli (che si è accorta del contegno di Giacinta) — Pazza! Giacinta — Mamma! Marulli — Che c’è? Signora Marulli — C’è che tua figlia ha perduto la testa! (Esce irritatissima). Marulli — Perchè? Giacinta — Nulla, babbo. Sai bene... la mamma!... . Marulli — Che vuoi farci? La tua mamma è così!... E’ stata sempre così quella donna!... Sempre! (Esce lentamente). Giacinta — Povero babbo! (A Marietta) Dirai che non ceno. Vado in camera mia. Marietta ,— Non vi sentite bene, signorina? Giacinta — Un poco. Non mi sento bene. Marietta — Vi darò una bella notizia prima che an diate a letto. (Ridendo) Sapete che cosa mi ha detto poco fa il conte Grippa? «Se la tua padroncina volesse diventare la contessa Grippa di San Celso...». Giacinta (dopo una breve pausa) — Ti ha detto così?... Marietta — Proprio! Giacinta — Sta bene. Marietta — Volete che vi accompagni in camera? Giacinta (assorta) —■No. Marietta (imbarazzata) — Non avete bisogno di nulla? Giacinta (sempre come assente) —• No. Marietta — Posso andare? , Giacinta — Sì, grazie. (Marietta esce. Giacinta, come ridestandosi) Lui? lui? E perchè no? PRIM Q ^ = > m r m D Un’altra stanza in casa Marulli, illuminata a festa Signora Bianchi (dal fondo) — Ed ora che vi siete tolta la curiosità che ve ne pare della camera nuziale? Ratti —■Non me ne parlate!... , Signora Bianchi — Torniamo di là. Siamo troppo lontani dalla sala dove si balla; la vostra compagnia è compromettente. E avete una lingua!... Ratti — In una festa di nozze, un po’ di maldicenza non guasta. Signora Bianchi — Oh, io non credo ai miei occhi! Questo matrimonio mi sembra una tale assurdità!... Da quattro mesi la povera Giacinta deperisce, è diventata pallida, ha gli occhi infossati... Non si riconosce più !... E Teresa vuol darci ad intendere... Ratti —• Assicurano che sia proprio furibonda. Signora Bianchi — Infine, contessa Grippa di San Celso non suona troppo male. E’ vero che il conte ha così rindorato il suo blasone... Abbiamo sempre creduto che fosse un imbecille; non lo è poi tanto quanto pare... Ratti — Forse. Ma è certamente il marito che serviva a Giacinta. Con quel punto nero!... Signora Bianchi — Non dite male di lei! Le voglio bene. Ratti — Specifico un fatto... (Entra Mochi che si av vicina pian piano). Signora Bianchi .— E’ forse provato?... E quand’an che fosse così? Non fu una disgraziata? Colpa della mamma. Una bambina di tredici anni, lasciata in balia delle persone di servizio, d’un ragazzaccio raccattato non si sa dove... Mi fate parlar male di un’amica!... Mochi — Se non si potesse dir male di un’amica, a che servirebbe l’amicizia fra le donne? Signora Bianchi —* La vostra amicizia non preserva. GIACINTA Mochi — Io faccio il mio mestiere. Il mondo è uno spettacolo che mi diverte. Dopo aver visto il gran mondo altrove, sono tornato al mio guscio; la terra dove si è nati ci attira sempre, ed ho scoperto che il piccolo mondo di provincia è divertente almeno quanto l’altro: basta saperlo osservare. Mi dicono un po’ maligno... Signora Bianchi — Un po’?... Che modestia! Mochi — .Mettiamo maligno addirittura. Se fossi un ingenuo, non mi divertirei, vedrei soltanto la buccia delle cose, il falso! La commedia vera è quella che non si scorge di fuori, in provincia come altrove. Più in provincia che altrove, perchè qui si è più guardinghi, più ipocriti... Questo matrimonio, per esempio... Ratti — Appunto, se ne ragionava... Mochi — E’ il più bel colpo di Teresa. Signora Bianchi — Ma lei, invece, protesta... Mochi —- Siete buona!... L’aristocrazia l’ha sempre tenuta a distanza, non ha mai voluto saperne di lei... E lei porta la figliuola in mezzo all’aristocrazia, e di quella più pura! Ciò che accadrà non è difficile preve dere... I San Celso sono senza un quattrino, indebitati fino agli occhi; ma di nobiltà ne hanno molta... E del fumo poi, quanto se ne vuole. Avete osservato? Nes sun parente del conte è venuto alle nozze... Ma Teresa li ammanserà... E Giacinta pure... E’ bellina... Il conte non può dar ombra... Signora Bianchi (si alza, scandalizzata. A Ratti) — Andiamo a veder ballare? (Saluta Mochi con un cenno del capo). Ratti (dandole il ibraccio) — Resta solo: dirà male di noi con se stesso, ma lo dirà. Signora Bianchi — Speriamo che non lo dica ad alta voce. Mochi — Chi cercate, Gerace? La signorina Bianchi?... Siete tragico questa sera. Gerace —■Ho un forte mal di capo. Scusate. (Esce). Giacinta (entrando) — Non è qui? Ma dov’è andato? Mochi — Che hai? Giacinta — Nulla. Di là non si respira. (Apre la fi nestra) Un po’ d’aria! Mochi — Siamo d’accordo, contessimi; io continuerò a darti sempre del tu. Giacinta — Andate via!... Lasciatemi sola!... Quanto male m’avete fatto! Mochi — Male? Giacinta — Mi avete aperto gli occhi, m’avete aizzata... m’avete dato la spinta... ¡Se precipiterò in un abisso, sarà colpa vostra. Come vi odio! Mochi — Dovevo aspettarmelo! Giacinta —• Sì, mi avete fatto molto male, e fredda mente, abusando della mia inesperienza di ragazza, della vostra qualità di amico di famiglia... Mochi — Dovevo aspettarmelo! Giacinta — Ed io che vi credevo ! Ed io che vi ero grata, quando venivate a stringermi la mano, a stillarmi il veleno nel cuore, contro di mia madre, contro tutti. Mochi — Mentivo forse? Giacinta — ¡Sì, nelle intezioni, perchè ora le conosco bene. Mochi — E’ tua madre che t’ha detto questo? Giacinta (ironica) \— State tranquillo. Tutto è sepolto qui dentro. Nessuno ha visto le mie lagrime, nessuno ha udito i miei sospiri. Mi avevate ammaliata! Ogni vostra parola era l’oracolo per me. E più non sentivo e più non pensavo che sotto la vostra influenza, ciò che più vi accomodava farmi sentire e pensare... Sono stata il vostro trastullo: ¡come vi odio! Mochi — Ti vedevo soffrire per via di tua madre... e volevo darti coraggio; ¡confortarti. Posso essermi ingan nato nei mezzi... Giacinta — Oh! voi sapevate benissimo ciò che face vate; una vigliaccheria degna di voi! Siete stato voi che mi avete atterrita, che mi avete fatto smarrire il senno, dicendomi che ogni avvenire m’era chiuso... che dovevo attendermi tutto da tutti e ch’ero perduta! Oh, quando penso che ero soggiogata al punto di vedere in voi il mio pietoso salvatore, l’uomo che avrei amato, venerato, per gratitudine... mentre voi tentavate... Che infamia!... (Quasi tra sè) Ed ora eccomi perduta, stordita, come una pazza che non sa quello che ha fatto, nè ciò che farà... Mochi —■Sei ingiusta verso di me! Bada!... c’è gente sulla terrazza. Possono sentirti... Giacinta — Non m’importa!... Lasciatemi, lasciatemi sola!... Conte — Ah! siete voi che me la rubate! Signora Marulli — Sei pallida. Ti senti male? Mochi — L’emozione: non è nulla. Conte — Si sente male?... C’è il ¡dottore... Signora Marulli — Non è nulla. Malessere passeggero: vi prego, non fate accorrere gente... Giacinta — Sì, non è nulla; forse l’emozione. Lascia temi sola qualche istante, chiudete quella porta. Mochi (a un cenno della Marulli) — Conte, andiamo di là; è meglio. (Tra sè) Se non sbaglio, c’è ancora qualcosa da fare! (Esce, conducendo via il conte). Signora Marulli — Giacinta, che c’è? Parla: tu mi nascondi qualcosa... Sei tu che l’hai voluto, no? Non puoi esserne pentita. Ha prevalso solo la tua volontà. Giacinta — Sì, mamma ; sono io che l’ho voluto ! Signora Marulli — Ed ora, dunque? Giacinta — Ho fatto ciò che dovevo. Signora Marulli -— Una pazzia! Giacinta — Quel che dovevo!... Non mi rimprove rare!... Nessuno può rimproverarmi, nessuno ne ha il diritto, tu meno degli altri... Signora Marulli —- E’ colpa mia? Giacinta — Di tutti!... Della mia sorte!... Signora Marulli — Ma non sei stata tu? Chi ti ha imposto ciò che hai fatto? Giacinta — Nessuno. Hai ragione. Ecco: è passato. Sto bene, tranquillizzati. Mi sono lasciata sorprendere da un istante di smarrimento... E’ passato!... Sono i miei nervi, non la mia volontà... Torniamo nel salone. Conte —■Si è rimessa? Signora Marulli — Completamente. La ricondurrete voi. (Esce). Conte — Giacinta! (Premuroso) Tu soffri!?... Che cosa è successo? (Fci per toccarla). Giacinta — Non mi toccate... Siete ghiaccio!... Conte (sempre più premuroso accenna a volerla ha dare) — Giacinta, siate buona!... Perchè non volete?... Perchè? LUIGI CAPUANA Giacinta — Oh, no!... Non ora. Vi prego, non adesso, Gerace (pentendosi del suo slancio) — E’ stata un’in qui? ! famia! Lo capisci? Lo riconosci? Conte ■ — Perchè?... Siete mia! Nessuno potrebbe me Giacinta — Zitto!... Ti amo! Ti amo! ravigliarsene. Gerace —■ Che vuoi? Che pretendi?... Vuoi che ti Giacinta (tra se) — Sua! dica che hai fatto bene per calmare i tuoi rimorsi? Che Conte — Siamo soli. Da un mese non siamo rimasti hai ragione; hai ragione tu? soli neppure un minuto... Giacinta! Giacinta — Non alzare la voce! Giacinta (sfuggendogli) — Oh!... E’ più orribile di Gerace —■Oh!... Non voglio comprometterti!... quanto che credevo!... Sua!... Per sempre!... Giacinta — Parla, parla pure. Ma non umiliarmi, Conte — Fermatevi... Che avete? Siete ancora agitata. non insultarmi. Hai torto. Non capisci, dunque? Sono (Cerca di abbracciarla, ma Giacinta si sottrae) Siete mia sull’orlo di un abisso che ho scavato io stessa con le moglie, infine?! Giacinta, perchè questo? mie mani!... Doveva essere così... C’è una terribile logica Giacinta — Basta!... Mi fate male! nel male; in quello che ci ,vien fatto dagli altri, in Conte (mortificato e intimidito) — Scusate. Scusami quello che facciamo noi!... Quante lotte m’eri costato! Giacinta! T’avevo conquistato a prezzo di lacrime!... Tu non sai Giacinta — Vi prego, andate di là; non voglio che nulla!... Tu ignori tutto!... E’ per questo che mi con s’accorgano!... Andate di là, ve ne supplico!... danni! Ascoltami, Andrea!... Conte — Vi amo, Giacinta. A farvi mia moglie avevo Gerace — E’ inutile ormai!... Tutto è finito!... pensato sempre! Sapete?... Ma avevo paura di voi! Pure Giacinta — Ascoltami! Lasciami dire; ti amavo trop dicevo: è nata per essere contessa. Non osavo di propor- po; ti amo tanto! Perderti era un dolore superiore alle velo... Ora mi invidiano; me l’hanno confessato. Hanno mie forze... e ti volevo per me, ad ogni costo!... E’ vero!... ragione. E’ vero!... tu sei stato il solo cuore che m’abbia amato Giacinta — Me l’avete ripetuto tante volte!... Lo so, per me sola, per solo amore. Lasciami dire! Quella che vi ringrazio. Ora andate di là, o volete che vada via io? faccio in questo momento è la confessione più disperata Conte — No, no. Vado. (Esce). della mia vita! Da un anno, un chiodo piantato qui!... Giacinta — Che ho mai fatto! Ho paura di me stessa, Un’idea fissa!... Un pensiero che mi trascinava, che mi fa della mia audacia!... Infine... che colpa ne ho io? Forse ceva gelare di terrore, ma che mi dava conforto, che mi con minore fierezza avrei potuto vivere tranquilla, e sorreggeva. (Battono leggermente all’uscio. Con voce forse anche felice!... Ma chi mi garantiva, chi? Un gior soffocata) Qualcuno!... (In ascolto) E’ andato via. Forse no in un momento di collera, me lo avrebbe rinfacciato. mia madre... Non abbiamo che pochi momenti... Non No, no! E’ stato più forte di me! Il mio destino era m’interrompere. Ti giuro... questo! Meglio cosi. Sarà la mia rivincita! Ho preso Gerace — Non dirmi nulla, non giustificarti, non cer un marito, mi son messa in regola colla società... Che care delle attenuanti. Che m’importa ora di ciò che puoi vorranno di più? Le conosco quelle che mi condanne dirmi? Sei sua moglie, la moglie di un altro, di quel ranno!... Quelle che più alzeranno la voce!... Ma io non l’uomo. C’è da impazzire e io impazzirò davvero. La farò come loro. Non avrò le stesse abitudini. (Affaccian sciami uscire, lasciami andar via : è meglio, prima dosi alla finestra, a voce repressa) Andrea!... Andrea!... che io perda il controllo di me stesso. Vederti qui alle Per carità!... Una parola, una sola parola. (Delusa) Non tue nozze, alla tua festa di nozze, c’è da impazzire. mi ha ascoltata, non mi dà retta!... E’ andato via!... Perdo la testa, capisci? Lasciami andar via, ti prego, (Andrea Gerace entra in quell’istante. Giacinta che stava lasciami andar via... rinchiudendo la finestra) Ah! Andrea! Giacinta (con impeto di viva disperazione) — Andrea, Gerace (dopo aver chiuso l’uscio) — Sono venuto alle no, non lasciarmi così, n,on andar via, Andrea, non mi vostre nozze! Avete voluto così! Mi avete chiesto l’ul abbandonare. Ascoltami, ti supplico: sono io che l’ho timo sacrificio... Vi ho accontentata! voluto. Stupidamente ho creduto di salvarmi così; ma Giacinta — Oh, Dio! Andrea non parlarmi così, non ora la disperazione mi ha invaso e vedo in quale abisso farmi sentire che non mi ami più. sono precipitata. Ma io non volevo ingannarti con la Gerace — Mi fate pietà. (Con impeto improvviso) mia innocente ignominia, col disprezzo della gente. Non Dovrei odiarti, dovrei disprezzarti, ma la tua misera volevo doverti nulla e non potevo non essere degna di vanità di donna ti scusa ai miei occhi!... Ti sei messo te. Capisci, ora? Ma ti amo; ti amo disperatamente. Tu sotto i piedi il solo cuore che t’abbia amata per te sola, non sei mio marito; non possono deriderti se io ora per solo amore! sono tua, se fuggo con te. Vuoi? Sono pronta a farlo Giacinta — Andrea!... Andrea!... in questo istante, stanotte, quando vuoi. Sono pronta a Gerace — Volevi anche lo spettacolo del mio dolore, tutto per te. Ed è anche la mia rivincita. Non abbando della mia disperazione di amante tradito?... Non ho narmi. (Si sente passar gente sulla terrazza). pianto; non mi son disperato. Quello che oggi è acca Gerace — Viene gente. Sta accorta, ricomponiti! (Re duto, lo avevo previsto da tempo! stano qualche istante in ascolto; la gente passa. Si ode Giacinta — La mia vanità! Non mi ami più, Andrea?... in lontananza l’andirivieni, il fermento e la musica della Non mi ami più?... festa di nozze). Verranno qui, possono scoprirci. Sor Gerace (stringendola, convulso, fra le braccia) — prenderci... Per te... Come hai potuto?... , Giacinta — Per me? Che importa di me? Io voglio Giacinta — Zitto! gridarlo il mio amore; voglio portarla in trionfo questa GIACINTA anzi di manica larga in questi argomenti, e se dovessi dirla, una bella signora che non abbia un amante mi sembra una stupida. Ma nel caso nostro la questione muta aspetto. Ne nascerà un gran pettegolezzo; anzi è già nato. E lui, Gerace, se ne infischia. I vostri nemici, scusatemi, ma ne avete parecchi, gongoleranno di gioia e ne rideranno troppo. Lasciatemelo dire: mancavano i giovani qui? Sembra fatto apposta per divertire il paese. Si può dar loro torto? E Gerace se la spassa. Gioca, lui. E ora gioca più generosamente di prima... Signora Marulli {vivamente colpita) — Che infamia! Ma allora? Voi credete! Mochi — Non credo; lo vedo giocare. Perde: paga. Non mi sorprende. Signora Marulli — E’ un vile! Come può Giacinta far questo; come può stimarlo? Mochi — Voi donne! Ce ne vuole per capire voi donne! Beh, lasciamo stare... Dunque, saltando di palo in frasca, sapete che Savani ha già fondato a BuenosAires una Banca degli italiani? Poveri italiani! E un portento quell’uomo. Signora Marulli — Mochi, non siete mai stato molto benevolo verso di me; m’avete sempre fatto una piccola guerra a colpi di spillo perfino in famiglia, quando non potevo neppure sospettarlo, nè mettermi in guardia... Non faccio recriminazioni inutili; è per intenderci. Mochi — Intendiamoci! Sarà la prima volta. Infine, una volta o l’altra, dovevamo arrivarci. Signora Marulli —■ Se la direzione generale della Banca nazionale non credesse opportuno... Mochi — Oh! Vedrete. Mi meraviglio anzi che la risposta non sia già arrivata. Signora Marulli — Ma se non fosse quale noi la desi deriamo? Mochi — E’ un’ipotesi assurda. Non si tratta mica del direttore o del cassiere della succursale, ma d’un impie gato secondario. A meno che il Gerace abbia nella stessa direzione generale qualche grosso protettore. Di cono che sia di buona famiglia decaduta. E a meno che abbia avuto sentore delle nostre pratiche e scritto ^ ® e l SECONDO ^ colà per sviarle... Ma anche questa è un’ipotesi assurda; la persona a cui mi sono rivolto ha troppo le mani in pasta per vedersi negato il favore del trasferimento d’un impiegatuccio... Signora Marulli — Tutto sta bene; ma l’assurdo ac i r < < cade, talvolta. E noi dobbiamo prepararci, essere pronti... Mochi — A far che? Piccolo salotto in casa Marulli Signora Marulli -— Io conosco bene mia figlia. Attac Mochi — Temo che diventerà presto il segreto di cata a viso aperto, resisterà; s’impunterà nella sua stol tezza. Pulcinella. Mochi — E’ quello che temo. Signora Marulli — Non lo avrei mai creduto!... Quasi Signora Marulli —- E allora, una guerra sorda, di non lo credo ancora! Giorni fa, per scandagliarla, le dissi: «Gerace ti sta sempre alle costole». «E’ un buon dispetti, d’umiliazioni, di insulti velati... Siamo vittime giovane », rispose con indifferenza. « La gente non la della nostra gentilezza, della nostra cortese ospitalità con pensa così», replicai; non volevo metterla in sospetto. queU’uomo. Io sono stata con lui più cortese e più gen « Lo tratto come gli altri », mi disse. «Pare di no », tile che con tutti... Ne sono ben ripagata... Accade sem replicai, ed insistetti più vivamente. Non si scosse; non pre così. Se fosse vero, e sarà verissimo! Ne è capace! Ma se è vero che il denaro di mia figlia serve ai capricci si tradì! Mochi — E’ una vera donna! E’ forte... quasi quanto e ai vizi di quel... E’ un’indegnità. Mochi — Capisco. Ma io conosco parecchie persone voi, sia detto senza malignità. In fin dei conti, io non la biasimo, precisamente; non voglio fare il moralista. Sono che pel gusto di farvi un dispetto... mia passione che è pura, che è soltanto fatta di cuore e di bene, in- mezzo a tante brutture. Non mi capisci? Hai paura? Sei tu che hai paura? Gerace (affranto, ma implacabile) — Non t’illudere; non illuderti! L’irrimediabile è compiuto! La legge degli uomini non si distrugge così in un istante. E’ troppo tardi! Giacinta (sempre più disperala; aggrappandosi a lui) — No, Andrea, no; nulla è perduto, -non è troppo tardi se tu mi ami. Ascoltami, Andrea, un momento solo, un solo minuto; devi convincerti, non sono pazza, devi aver pietà di me, devi aiutarmi, non puoi non aiutarmi se ti amo tanto, se senti il mio cuore. Io non esisto, non mi pento, non m’importa in qualsiasi modo mi si giudichi. Ti amerò sempre di più. Se non vuoi portami via, dimmi che continuerai ad amarmi: sarà il nostro segreto, il no stro grande segreto... Gerace — Ti illudi, Giacinta, ti illudi. La vita ti prende, ti porta sul tuo cammino che non è il mio stesso, ti rovina seminando sempre altra rovina. Non è più possibile: dobbiamo separarci. Bisogna aver il co raggio di non rivederci; bisogna avere la forza di non rivederci mai più. {Fa per uscire). Giacinta (ancora con un ultimo sforzo disperato) — Ascoltami! Andrea, ascoltami! {Il brusio dalla terrazza sale, sempre crescente; si capisce che da un istante al l’altro gli invitati entreranno nella sala. Infatti dietro l’uscio, come se stesse per essere aperto, si sente la voce del conte che cerca sua moglie). Voce del Conte {da destra) — Giacinta? Ma Giacinta, dove sei? Andrea — Eccoli! {Si trae in disparte). Giacinta — Andrea, mio Andrea! {Poi, rivoltandosi all’uscio prima di dare il tempo che la gente entri, e con uno sforzo di suprema volontà, corre verso la porla e fa per aprirla lei esclamando, con forzata gaiezza) Eccomi, eccomi, sono qui da voi! LUIGI CAPUANA Signora Marulli — Non so darmene pace! Compro mettersi, e per chi. E quando? Quando io già sognavo la vita tranquilla di chi arrivato alla mèta vuol godersi il riposo; quando già cominciava per la mia famiglia un’esistenza nuova di considerazione, di rispetto... di per sone influenti... , Mochi — Non siate così severa. Signora Marulli — Con voi non voglio essere ipocrita. Sì, nella mia vita c’è quello che la gente chiama un passato... Ma io venivo dal nulla; la mia giovinezza era trascorsa nell’oscurità e quasi nella miseria. Ho dovuto sopportare delle protezioni, degli appoggi... Non ho po tuto mai fare quello che il mio cuore avrebbe voluto... Voi lo sapete bene! Voi lo sapete bene... Mochi — Questo lusinga il mio amor proprio... Signora Marulli — La passione, l’amore sono un lusso nella vita; non se li può prendere chiunque. Lo capii subito, ed ho sempre sopportato, sempre, con questo divieto davanti agli occhi. Credetemi, non è stata allegra la mia vita. Ed ecco mia figlia che rovescia, di colpo, un edificio così penosamente costruito. E per chi? Per chi? Mochi — Il vostro vero torto è questo! (Si alza). Signora Marulli — Il mondo dimentica facilmente; non guarda tanto pel sottile scorgendoci in alto... E que sta risposta che non arriva! Mochi — Arriverà. Io ho più interesse di voi che ar rivi presto. Le alleanze non si conchiudono soltanto a beneficio d’una parte... Signora Marulli — State zitto, Mochi. Non sono più nulla io. Mociii — Ma no, ma no, vi calunniate. (Tra sè) La figliuola sarebbe stata meglio... ma, ormai... (Entra la cameriera ed annuncia) Marietta — La signora Bianchi. (Esce). Signora Bianchi ■ — Disturbo? Signora Marulli — Anzi! Ma, cara, perchè dici di sturbo? Benvenuta! Mochi — Stavo per andar via... Vi si legge in viso tutta la felicità d’una mamma che marita la figliuola... Signora Bianchi — Se credete che, per una mamma, il separarsi da una figliuola unica... (Alla Marulli) Di glielo tu. Mochi — Io non capisco questa strana gelosia di voialtre mamme... Vi si sbarazza! Signora Bianchi — Sbarazza! Che strane espressioni, Mochi, per la vostra educazione. Mochi — Non è parlamentare, ma esprime meglio l’idea; perché, infine, una ragazza che rimanga in casa zitella ¡non può dirsi una delizia.... Signora Bianchi (pausa. Si capisce che non ha piacere di continuare sull’argomento) — Dunque, non vi ho disturbato? Mochi — Quello ¡che disturba fra due mamme è un vecchio scapolo come me. Due parole soltanto e vi lascio libere. (Alla Marulli) Potete dunque dire alla contessa... Signora Bianchi —• Come sta? E tuo marito? Signora Marulli — Al solito. La podagra questa volta lo minaccia seriamente. Non posso vederlo sof frire!... Oggi abbiamo un consulto. Mochi —• Dite dunque che i costruttori della palaz zina... Signora Bianchi |— E’ proprio vero che compra una palazzina? Mochi — Quella dei Barbetti, rimpetto al palazzo Sturini. Signora Bianchi — Bella, ho inteso dire. Signora Marulli —■Un alveare. Certe stanzine!... Ma Giacinta se n’è così incapricciata... Mochi — E i costruttori, che se ne sono accorti, ora la pigliano per la gola. Dite, dunque, che non c’è altro da fare: o accettare le condizioni ch’essi propongono o smetterne il pensiero. Signora Marulli — Ho inteso. Mochi (ammiccando alla Marulli) — Se ci sarà qualche cosa di nuovo vi terrò avvisata. (Esce). Signora Bianchi — E’ però sempre un gentiluomo, con tutta la sua cattiveria. Signora Marulli — In faccende, eh? M’auguro che questa volta non ci saranno altri ritardi. Signora Bianchi — Lo spero. Quel benedetto ragazzo è un pulcino nella stoppa. Signora Marulli — Contentati di lui. Signora Bianchi — Credevo di trovare qui Ernesta Villa. Doveva venire per domandarti non so che cosa... Mi deve accompagnare poi pei negozi. Non si finisce mai con un corredo. Meno male che tu ora non hai più di questi pensieri... Già... Ma... Che strano, credevo di trovarti sola... Signora Marulli — Ma ora siamo pur sole... Hai da dirmi qualche cosa? Signora Bianchi — Non so come incominciare. Eppure vi ho pensato tutta la notte... ed ora, come vedi, non so da che parte incominciare. Signora Marulli — Non incominciare da nessuna parte. Dì l’essenziale. Ho capito. E’ cosa grave? Signora Bianchi ■ — Grave, grave, dipende. Almeno all’apparenza... L’ho sempre detto : quel Gerace non mi va... Signora Marulli — Naturalmente, si tratta di Gerace? Signora Bianci-h — E... della contessa!... Hai capito! Una calunnia, certamente; un’infamia, ne sono convinta... Ma non si parla d’altro, mia cara. Giacinta è buona, non diffida di nessuno... II conte, poverino... massime ora che pare vada perdendo sempre maggiormente la salute con la brutta malattia che lo minaccia... L’imprudente è Gerace. Le sta sempre attorno!... Capisco, lei non può cacciarlo via. Ma... Signora Marulli — Ma se si dovesse tener conto di tutte le malignità della gente!... Signora Bianchi — Non si parla d’altro, ti ripeto. E mi è parso un dovere d’amicizia... Signora Marulli — E io dunque non ho occhi?... Non ho orecchi? Signora Bianchi — Avviene sempre così in questi casi; gli ultimi ad accorgersene sono gli interessati. Non te l’hai avuto a male, spero. Si precisano dei fatti... Che so? Dei ritrovi in una casa di campagna fuori Porta Augusta... Calunnie, ne sono certa!... Si saranno incon trati per caso; li avranno visti insieme... Ci vuol meno GIACINTA di questo... Ma io mi scordo che ho fretta... Ora tu sei avvertita... Un Gerace!... Via, è inammissibile... Signora Marulli — Ed io credevo fermamente che volessi fartene un genero. Signora Bianchi — Di lui? Avrei piuttosto lasciato morire mia figlia! (Fa per avviarsi, ma entrano Giacinta, Gerace, il conte, preceduti dalla cameriera, che li intro duce ed esce). Signora Marulli (a Giacinta) — Giacinta, cara, eri già fuori? (Risponde freddamente al saluto di Gerace). Giacinta — Ho voluto dare un’ultima occhiata alla palazzina. Il babbo riposava. E siamo andati col conte... e Gerace che abbiamo trovato per via. Mi sono decisa. Passando, ho detto al notaio... Conte — Abbiamo detto al notaio che... Signora Bianchi — Quando hai in testa una cosa... Giacinta — Non esito, non ci rifletto su. Io, lei lo sa, credo al primo entusiasmo, in tutto, e mi affido ad esso. Signora Bianchi —• Una bella palazzina, pare. Giacinta •— Ariosa, piena di luce; una magnifica vista da ponente; il mare, le colline... E poi, lo spazio è così bene distribuito!... tutte le comodità... Conte — Tutte le comodità... E’ vero, Gerace? Gerace — Certamente. Giacinta (alla Marulli) — Il babbo riposa ancora? (Alla Bianchi) Abbiamo un consulto oggi. Gerace (per dire qualche cosa) — I dottori hanno poco da fare. Conte — Avevo uno zio benedettino... E’ morto. Pro prio la podagra, ma che podagra! Le dita contortecosi!... E’ morto di tifo... a... lasciatemi dire, a... non ricordo più. Signora Bianchi — Basta; è morto. (Alla Marulli) Povero conte! Perde proprio terreno. Signora Marulli — Purtroppo. Giacinta — Andate via? Signora Bianchi — Ho tanto da fare! Quando siete entrati stavamo dicendo che con mi corredo non si fi nisce mai! (Piano, .alla Marulli, nelVandar via) Vedi com’è imprudente? (Esce accompagnata dalla Marulli). Gerace (sottovoce a Giacinta) — Tua madre è imbron ciata con me. Giacinta — Non ci badare! Che importa? Non do vresti nemmeno notarle queste cose. Gerace — Ha risposto così freddamente al mio saluto! Lo noto da più giorni! Giacinta — Mi fai dispetto con questi continui timori. Noli sei sicuro di me? Che t’importa degli altri? Conte (avvicinandosi) — Che cosa dice? Giacinta —■ Nulla, così, si discorre... Conte — Ti fa stizzire? Oh, oh, Gerace!... Con una signora!... Ecco, ora me lo ricordo bene, è morto a... (Lo interrompe Manetta, entrando dal fondo). Marietta — I dottori sono di là. Se la signora contessa... Giacinta — Vengo. (Marietta esce). Conte — Ah... i dottori, andiamo subito. (Esce in fretta). Giacinta — DiveUti troppo guardingo. Prima non eri così. Gerace — L’imprudenza non giova a nulla. Giacinta — Ma sospettare sempre, di tutto! Infine son io che dovrei essere più cauta di te. Gerace — Hai torto a non esserlo. Quando il nostro segreto sarà scoperto... Giacinta — Ebbene, sarà scoperto. Che importa? Gerace — E le conseguenze? Giacinta — Quali conseguenze? Gerace — Ma io qui sono un forestiero; mi troverei in gravi impicci. ,Tua madre... Giacinta — Sempre mia madre!... L’hai già visto che ha potuto fare mia madre! Gerace — Sono superstizioso; io credo ai presentimenti... Giacinta — E intanto... Oh! Tu non mi ami come do vresti. Mi tratti come se fossimo estranei. Sere fa, l’ho saputo, hai perduto al gioco... non negarlo. Gerace — Ma no, non lo nego. Un’inezia. Cosa tra scurabile. Perchè dirtelo? Giacinta — E piuttosto che dirlo a me, confidare solo nel mio aiuto, sei ricorso al Merli per pagare il tuo debito. Gerace — Nelle questioni di denaro, tu non devi entrarci. Giacinta — Voglio entrarci. Tutto ciò che avviene nella tua vita è come se avvenisse nella mia. Esigo da te, soprattutto, questa prova d’amore. Vedi come sei cattivo ? Gerace — Non giocherò più. Prometto. Giacinta — Benissimo! Per farmi dispetto... Oh, An drea, ma perchè fai così? Io sono felice! Ho perdonato tutto a tutti!... Tanto ti amo. E tu sei sempre sulle spine... Ma che significa, dunque, questa sciocca paura che ti prende ogni giorno di più? Che temi? Gerace — Temo di perderti, per la tua, per la nostra imprudenza! Ieri avrei schiaffeggiato quel burattino del Ratti... Pare che si siano accorti di qualche cosa, lui o altri. Incontratomi due volte, mi salutò con un sorrisetto così significativo, quasi avesse voluto dirmi: Mi rallegro! Giacinta — E’ la tua immaginazione che travede. Gerace — Dio voglia che sia così!... Ma non ho tra visto poco fa con tua madre... Era glaciale, severa. E’ terribile tua madre! Giacinta — Infatti. Infatti ci ha impedito d’amarci! (Entra Marietta). Marietta (porgendo una lettera a Gerace) —■L’usciere dice che ha cercato a casa il signor Gerace, ma non avendolo trovato, è venuto qui... (Esce). Gerace (sorpreso) — Ma è pazzo, costui? Non è mica casa mia questa!? E perchè l’ha portata qui? (Non risolvendosi ad aprire la lettera, mentre Giacinta ne è curiosa) Vedi che tutti credono che questa sia casa mia, che mi si può trovare sempre qui, che mi si possono perfino recapitare delle lettere?... Giacinta (sviandolo) — Ma è una combinazione, cer tamente. Perchè pensi sempre al peggio? Vedi come sei diventato apprensivo? Ma non bisogna far caso anche alle cose insignificanti. (Cercando di accomodare la cosa) Sarà -stato un caso: quell’usciere, non avendoti trovato a casa, aveva ancora con sè la lettera, sarà passato di LUIGI CAPUANA qui, ci avrà veduti entrare ed ha pensato di togliersi l’imbarazzo. Gerace (per nulla convinto., apre intanto la lettera e dopo averla scorsa rapidamente, si turba). Giacinta (che noti ha perduto il minimo suo movi mento) ■ — Che è stato? Che è accaduto? (Si ferma ve dendo entrare sua madre. Gerace nasconde la lettera. Il dottor Foliini segue la Marulli), Signora Marulli — Venite, venite, dottore. Siate gen tile di spiegare a mia figlia l’uso di quel rimedio, perchè io in queste cose non so proprio raccapezzarmi. Follini — Ma è semplice... Signora Marulli —• A lei, spiegatelo a lei, a Giacinta. (E’ evidente che non vuole fermarsi con Gerace). Giacinta — Come va, dottore? Il consulto è già ter minato? Così presto? Come mai? Non va bene? Follini —■No, no, non preoccupatevi, non agitatevi così... Il consulto è stato di breve durata perchè siamo subito rimasti d’accordo sulla cura da seguire. Io ho proposto un rimedio di recente scoperta, ottimo, che ho studiato in Germania ed ho portato io stesso l’anno scorso. L’avevo con me; l’ho portato perchè sapevo che saremmo stati d’accordo sull’uso. E poiché non è facile trovarlo, qui, in farmacia, ho preferito non aspettare lo si mandasse a prendere. (Dalla borsa professionale prende una boccetta che mostra a Giacinta) Ascoltatemi bene: ogni quattro ore, da cinque a sei gocce in mezzo bic chiere d’acqua. State accorta alle dose. Giacinta — Certamente, dottore. Follini (come vedendo Gerace solo in quel momento) — Ah, Gerace, come va? Vado appunto dal vostro diret tore. E’ pieno di apprensione per una febbre da nulla. Gerace — Lo so, sono stato da lui un’ora fa. Ho visto che è impressionato. Altrimenti vi accompagnerei io stesso. Follini — Grazie. Grazie. Arrivederci, contessa; arri vederci, Gerace. (Esce. I due lo accompagnano distratti). Giacinta — Che è stato? Gerace (dandole la lettera) — Mi mandano a Firenze. Giacinta (dopo aver letto) — Ah!... E’ opera di mia madre! Gerace — Te Io dicevo io. Giacinta — Non andrai! Gerace — Come è possibile? E’ il mio pane. Giacinta — Il mio non è anche tuo?... Non andrai! Gerace —• Non è possibile. Vedrai che bisognerà par tire! Ci dividono! Vogliono dividerci. Giacinta — E’ così che mi ami? Esiti? Gerace —• Rifletti; sarà per poco. Scriverò, suppli cherò. Ho delle persone influenti laggiù; un intimo amico di mio padre. i Giacinta — Intanto dovresti partire! Quando? Gerace — Subito. Leggi l’ordine della lettera. Giacinta — Fingiti ammalato. Gerace — Ah, tu non sai con che rigore ci trattino! Giacinta — Manda la tua dimissione, subito, subito. Gerace — Giacinta! Rifletti, te ne scongiuro! E’ im possibile!... Non allarmarti. Ci divideranno per poco; uii mese, anche meno! Giacinta — Neppure un giorno! No! No! Se t’allon- tani, ti perdo. No!... Ti ho sacrificato la mia vita; sacri fica anche il tuo avvenire. Che timori hai? Ciò che pos seggo non è forse anche tuo?... Di che temi? Gerace —■ Non posso, la mia coscienza d’uomo si ribella. Giacinta — E per me, per me, il cuore non ti si ribella? Gerace — Perchè mi avvilisci così? Giacinta — Non mi ami!... Non mi hai amata mai! Gerace — Giacinta! Giacinta — Non mi ami! Tu senti la tua coscienza d’uomo; dovresti sentire solo il tuo cuore, amandomi. Gerace — Tu non capisci quello che mi chiedi! Giacinta — Non dovevi aspettare che te lo chiedessi, dovevi pensarlo, deciderlo all’istante, appena letta questa lettera. No, i miei e i tuoi nemici non trionferanno. E se per gli occhi della gente occorre che tu abbia un posto... solo per gli occhi della gente, lo avrai qui, do mani, oggi stesso!... Gerace — Giacinta! Giacinta!... Non insistere... Te ne prego!... Giacinta — Scrivi due sole parole... (Lo costringe a sedere allo scrittoio). Gerace — Oh Dio! che mi costringi a fare? Giacinta — Scrivi!... (Segue con rocchio la mano di Gerace e ripete, leggendo) Accettare le mie dimissioni... Benissimo! (Piega il foglio, lo mette dentro la busta, fa scrivere su l’indirizzo e poi suona. Entra Marietta) Questa lettera alla Banca nazionale, subito, personal mente al direttore. Marietta — Bene, contessa. (Marietta esce). Gerace — Vedi se ti amo!... Ho fatto male! Ho fatto male ! Giacinta — Non rimpiangerlo!... Gerace — Purché un giorno non si sia costretti a rimpiangere insieme ! Giacinta — Io no! Anche quando... (Vedendo la ma dre che entra) Grazie, Gerace. Arrivederci. (Gerace esce). Signora Marulli — Sei dunque proprio ammattita? Giacinta — Perche? Signora Marulli — E me Io domandi? Quel misera bile è il tuo amante... lo dicono tutti. Giacinta — Non è vero. Signora Marulli — Non è vero? Tanto meglio! Al lora bisogna smentirli. Giacinta — Certe calunnie non si raccattano... Signora Marulli — Avvertirlo che ti si calunnia per lui. Se è un uomo d’onore... Giacinta — Varrebbe come dirgli di allontanarsi da casa mia. Non voglio abbassarmi fino a questo; farei piacere a troppa gente. Un gesto come quello che tu pretendi da Gerace, se non è spontaneo, non ha valore. Signora Marulli — Non rispondi altro? Alzi le spal le?... Ma tu non ti accorgi che sei la favola della città?... Che t’hanno spiata?... Che t’hanno veduta?... Giacinta — Dove?... Quando?... Che cosa hanno ve duto... che cosa? Sicnora Marulli — Fuori Porta Augusta... Io non so in quale villa... Giacinta — Io passeggio dove mi pare. Ovunque, fuori Porta Augusta, come altrove; ricevo Gerace, come ricevo tanti altri... E perchè darmene uno, non due, non tre degli amanti? Poiché ci si son messi!... Signora Marulli — E sai tu che si dice anche?... Lo sai tu? Giacinta — Non voglio saperlo. Non dirmelo. Signora Marulli -—- Devo dirtelo. Si mormora che vive col tuo denaro, che gioca col tuo denaro! Giacinta (coprendosi gli occhi con le mani) —• Che viltà, che gentaglia, che schifo... Signora Marulli — Vile lui che ti mette in queste condizioni, vero o non vero che sia tuo amante. Ma tu l’ami! E come puoi stimare uno che... Giacinta — Taci, mamma! Signora Marulli (continuando) — E’ vero: si serve del tuo denaro? Giacinta (al colmo dell’ira, non riuscendo più a con trollarsi e non sapendo più quel che si dice) — E’ que sto che ti fà rabbia, semmai!? Già, si capisce; tu prefe riresti per essere coerente con te stessa, che fossi io a servirmi del suo denaro! Signora Marulli (colpita in pieno, cade a sedere, co prendosi il volto con le mani) —■Signore, Signore Iddio, perdonatela! Lo ama fino al punto di insultare sua madre! Giacinta — Mamma, mamma, perdonami!... Dimen tica!... Non volevo dir questo! No, mamma, perdonami! Signora Marulli —• E’ un colpo che mi uccide!... Sei libera, lo so! Io non posso impedirti... Ma te n’avvedrai un giorno, povera illusa! Tu che ti fidi dell’amore di un uomo, d’un uomo come quello!... Oh, fa pure, fa !... Non ti dirò una sola parola!... Aspetterò. Quando avrai finito di mettere il tuo nome, il tuo onore, la tua for tuna sotto i piedi di quel miserabile... Vedi? lo dico senza sdegno; quando avrai... Giacinta — Taci, mamma, taci! Signora Marulli — Quando avrai soddisfatto i nostri nemici, ed essi ti avranno visto precipitare dove neppure il loro odio avrebbe creduto possibile tu giungessi; quando la passione che ora ti rende cieca... Ma allora, certo non sarò più qui a rinfacciarti queste cose. Sarò morta... Ma non vorrà dir nulla ! Te le ripeterai da sola. La mamma aveva ragione, dirai, la mamma aveva ra gione!... E queste mie parole che ora disprezzi e sono servite a farmi insultare, tutte, sillaba per sillaba, ti ritor neranno sul viso, vedrai! Giacinta — Mamma! Mamma!... E’ un’orrenda sen tenza che tu getti sulla mia vita! Signora Marulli — Incolpane te stessa! Giacinta (rizzandosi, fiera) — Io lo amo, capisci? L’amo! E non potrò più fermarmi dinnanzi a nessun ostacolo. Signora Marulli (andando via) — Lo vedremo! Giacinta (sola, sfinita, umile) — Ti comprendo, mam ma, hai ragione, forse; ma perdonami. Tutto quello che avete fatto è inutile. Non sono io che ho segnato il de stino della mia vita: è più forte di me, è più grande di me. Io lo amo, ed egli resterà. ù e l te rz o ^ Salottino elegante in casa Grippa Battista (entra dal fondo) — Signora contessa... il signor conte strepita e urla; vuol venire qui... Chiede del signor Gerace... Non so più come trattenerlo... Giacinta (agli altri) — Permettete un momento. (Esce col domestico). Mochi — Povera Giacinta! E’ diventato la sua croce. (A Foliini che entra dalla comune) Dottore, si parlava del conte; non c’è dunque nessuna speranza? Follini — Nessuna. Non gli è rimasto un barlume d’intelligenza. Idiotismo progressivo. Mochi — La natura in questo caso dovrebb’essere più benigna e agire lestamente. Follini — Invece, spessissimo, quando l’attività cere brale s’affievolisce o cessa del tutto, l’organismo si raf forza, vegeta più che non viva e perciò dura di più. Mochi — Una bella prospettiva per Giacinta! Ratti — E pel Gerace. Battista (ritornando) — La signora contessa prega il signor dottore di andare da lei... Follini — Eccomi. (Esce). Mochi (trattenendo Battista) — Il conte va male? Battista — No, signor cavaliere; è soltanto un mo mento cattivo. Il dottore riesce a calmarlo facilmente, quando non c’è il signor Gerace. (Esce). Merli (a Ratti) —■L’hai notato? La contessa non è più di buon umore da qualche tempo in qua. Dev’esserci qualcosa per aria; dei dissensi fra lei c Gerace. Il dottor Foliini fa troppe visite con la scusa del conte. Mochi — E’ una vostra supposizione! Non ci son più giovani al giorno d’oggi! Ai miei tempi, Gerace sarebbe stato soppiantato in meno d’un mese... Ratti — Via! Via! Gerace è una forza. Io, che non sono mai riuscito a conquistare una cameriera a modo, l’ammiro! Quando gli facevamo anni addietro quella guerra sorda; quando arrivammo perfino a negargli il saluto, indignati... indignati di che? La società è buffa qualche volta! Io lo ammiravo. Fermo e impassibile, l’ha spuntata lui. Ora siamo di nuovo tutti in pace con lui: Gerace di qua, Gerace di là, più di prima! Gerace è una forza. Il dottor Follini può fare la gatta morta quanto vuole... Mochi (piano a Merli) — Che discorsi grulli, quel Ratti! Giacinta (rientrando) — Scusate; il conte ha una delle sue crisi. Non posso lasciarlo solo con i domestici. Merli (sottovoce, a Mochi) — Il dottore resta! Giacinta — Una crisi anche più forte del solito... Mochi — Mi dispiace assai. Ratti — Contavamo tanto di avervi con noi. Mociii —• Io rido, pensando al cronista del « Popolo » che andava preparando in anticipo la cronaca del con certo. Lo ha domandato a me ed io gli ho detto di sì. Certo, tra le intervenute anche la contessa Grippa. E do- LUIGI CAPUANA mani si leggerà: «Fra le belle signore»... Ah! ah! (Ratti, Merli, Mochi escono). Giacinta — Non è ancora venuto!... Eppure sapeva che sarei rimasta in casa... Oh! vi sono dei momenti che temo davvero di impazzire. (Al dottor Follini che entra e sta per licenziarsi) Avete fretta per il concerto anche voi? Follini — Ma... Un po’ di musica, ogni tanto. Non è soltanto un divertimento; direi un bisogno. Giacinta — Un momento, dottore, un momento solo. Sento che mi ammalerò. Siate buono, aiutatemi voi. Po tessi alrneno morire. Follini — Non è precisamente il mio mestiere. Giacinta — Datemi ancora della morfina... qualche cosa... Sono parecchie notti che non chiudo occhio. Follini — Ma, contessa, la morfina non è un salici lato: è veleno. Giacinta — Fatemi dormire, ecco. Ve lo domando per favore. Non posso continuare con questa tensione nervosa, questa insonnia continua. Follini — Procurate di star tranquilla; evitate ogni emozione violenta. Giacinta — Sono cose che avvengono nostro malgrado. Follini —• Talvolta sembra, ma non è così. Certi do lori morali hanno come un fascino : si prova una strana soddisfazione nel fissarli, nel sentirsene presi... Giacinta (assente) — E’ vero. Come un’attrazione. Una forza... Follini — E questo aumenta ancora la forza. Bisogna sapersi difendere, sviarli nei primi momenti. Tutto il segreto della forza morale consiste in questa semplicis sima difesa. E’ un agguato. Giacinta — Ma quando non si sa, quando non ci si può più difendere? Ilo ormai bisogno di riposo; sono stanca, sfinita. Dottore, vi prego. Follini (scrivendo la ricetta) ■ —- La solita mistura. (Porgendo la ricetta) E badate; quel Battista non dà al cun affidamento. 11 conte, nello stato in cui si trova, avrebbe bisogno di un domestico più abile. Costui non ha pazienza e sembra si diverta a contraddirlo. L’ho sor preso io due volte e l’ho sgridato. Ma è necessario lo facciate voi: siete la padrona. Giacinta — Lo sgriderò. Follini — Stavo per dimenticarlo. Ricorro nuova mente alla vostra carità per quella mia povera ammalata. Giacinta — E’ assai grave? Follini — In fin di vita, e non vorrebbe morire. Giacinta — Con una vita così piena di stenti! Do vrebbe benedirla la morte! Follini — E’ per la sua povera mamma, cieca e para litica, che perirà di fame senza di lei. Quante sciagure a questo mondo ! Nessuno può saperlo meglio di noi che vediamo ogni giorno, continuamente, miserie e dolori senza neppur poterli alleviare. Che cosa sono, in con fronto, certi dolori che si crede di soffrire? Giacinta (andando ad un cassetto) —• Vi ingannate, dottore! (Gli dà del denaro). Follini — Può darsi. Grazie! E’ anche troppo. Come sarà contenta quella infelice! Io abuso di voi; della vo stra carità. Giacinta — Non mai abbastanza. Vi prego di farlo sempre. Follini — La contessa Grippa di San Celso ha sempre le benedizioni dèlia povera gente! Giacinta — Si vede che per me non sono sufficienti, (con tristezza) o non giovano. Follini (fissandola) — Gioveranno. Gioverà anche il tempo, che è un grande rimedio. Giacinta — E se v’ingannaste? Follini — Può anche darsi. Forse non ho osservato bene: forse... Giacinta — Forse? Dite... Follini — Forse non sono più così disinteressato... Giacinta (alzandosi, seria) — E’ una gentile maniera di rimproverarmi. Avete ragione. Divento importuna. Ma, vi prego: tolleratemi come una malata noiosa. Follini — Purché il contagio non s’attacchi al dottore. (Salata ed esce). Giacinta — E’ un uomo! fatuo anche lui! Ma forse ha ragione: non voglio più pensarci. Devo distrarmi, stordirmi! E’ stato parecchie volte così... dopo la morte della mamma... dopo la disgrazia della nostra bambina... Povera Adelina!... No! non voglio più pensarci. (Esce. La scena rimane vuota un istante; poi Marietta seguila da Battista). Marietta (non vedendo la contessa) — Sarà di là. Battista — Se credete tutti quanti che debba istupi dire anch’io, vi sbagliate. Le parlerò più tardi. Non ne posso più. Marietta —• Siete pagato bene. Battista — Bene, sì bene, ma tutto ha un limite. Sono intontito, non fa altro che parlare! Un mulino! E che discorsi! Senza capo nè coda. Chi gli resiste? Ci vor rebbe una statua al mio posto. Marietta — Dite le cose come sono : volete un au mento di stipendio? Battista — Infine, per quello che mi dànno... (Siede sul divano). Marietta — Per quello che fate! Il signore fate: tutto il vostro compito consiste nell’avere un po’ di pazienza. Se il signor conte parla è perchè quella è la sua malattia; se dice scemenze è perchè quella è la sua disgrazia. Non siete mica obbligato a imparle a memoria le sue stu pidaggini. Battista — Ma finirà per suggestionarmi; diventerò stùpido anch’io! Marietta (osservandolo seduto sul divano) — Lo siete già; e maleducato per giunta! Battista — Ehi, ragazza... Marietta — Che ragazza! Alzatevi... Battista — Non posso stare nemmeno seduto? Marietta — Non qui, mi pare... Battista — Non lo sciupo mica. Marietta — Non si tratta di sciupare! Battista —• Già da qui io debbo andarmene. Marietta — L’uscio è aperto. Battista — Infatti, la padrona dà il buon esempio. (Sente dei passi e si alza con sveltezza. Dopo un istante entra, infatti, Gerace) Buona sera, signore. (Si appresta a togliergli il soprabito). GIACINTA Gerace — Buona sera, Manetta; buona sera, Battista. Marietta — Vado ad avvertire la signora contessa. Gerace — Non occorre. (Marietta esce. A Battista che sta per seguirla) Battista, è venuto il dottore? Battista —■Sì, signor Andrea. Gerace —■... E’ rimasto a lungo? Battista — Come le altre volte... Si è trattenuto con la signora contessa. Gerace — Non vi domando questo... Ha detto nulla del conte? Battista — Nulla, ch’io sappia. Il signor conte era un po’ esaltato. Credete, signor Andrea, non se ne può più. Io mi sento sopraffatto, e non sono uomo da avvi lirmi per poco. Appunto dicevo alla Marietta che non ricomincerei neppure per mille lire. Dovreste, per favore, parlarne voi alla signora contessa. Sono servizi ecce zionali. Gerace — Gliene parlerò. Andate. (Battista esce. Ge race avvicina una poltrona al camminetto, siede e si di spone a fumare) Perchè me ne preoccupo? Sarebbe un gran favore, anzi!... Dovrei abbracciarlo quel dottore... Sì? Sì? (A se stesso) Io mento a me stesso: divento un vile. Non vorrei essere un ingrato! Ma che colpa ne ho io? C’entra forse la mia volontà?... La mia vera colpa è mentire! Perchè non parlo? Perchè?... Che vita! Ho qui alla gola qualche cosa che mi fa nodo da due anni! Da due anni! Mi manca ogni energia dinanzi a lei!... E’ stata una fatalità!... E questo tempaccio che mi intri stisce l’anima!... Giacinta (entrando) — Oh!... Eri qui e non mi hai fatto avvertire? Gerace — Arrivo in questo momento. Giacinta (suona. Entra Marietta) — Il conte è già a letto? Marietta — Si sta spogliando, signora contessa. Giacinta — Ha preso nulla? Marietta — Non saprei. Volete che lo domandi a Battista? Giacinta — No... Non sono in casa per nessuno. Marietta — Va bene, signora contessa. (Esce). Gerace — Perchè non hai voluto andare al concerto? Giacinta — Mi seccava; e poi... Gerace — Dicono che quell’artista è bravissima. Giacinta — Sarà benissimo. (Pausa) Ti sei fatto attendere. Gerace — Sono appena le quattro. Giacinta (pausa) — Non hai nulla da dirmi? Gerace — Ho dormito poco la notte scorsa. Ho un forte mal di capo. Giacinta — Hai anche dei segreti! Gerace — Vorresti farmi una colpa perfino... Giacinta (mostrandogli una cambiale) — Guarda!... E’ tua. Gerace — Quel gobbaccio!... E tu l’hai pagata? Giacinta (dolcemente) — Perchè hai fatto questo? Una cambiale!... E perchè volerla rinnovata? Non sei padrone tu, qui? Gerace — Non volevo abusare... Giacinta — Diventi strano!... Ma non posso più star zitta!... E’ un martirio. Gerace — Daccapo?... Che hai dunque contro di me?... Chi ti sobilla? Giacinta —- Chi mi sobilla?... Ma sono io che vedo, son io che osservo... Gerace — Senti, Giacinta!... Questa vita di diffidenza, di sospetti, di rancori nascosti diventa insopportabile per tutti e due. Tu pretendi l’assurdo. Non si può essere tutti gli anni, tutti i mesi, tutti i giorni di un medesimo umore. I nervi, la stagione... che so io?... E credi che ogni anno che passa ci lascia immutati? Si diventa più vecchi; si guarda la vita in altro modo... Si... Si ama quanto prima. Giacinta (interrompendolo) — ...si finisce di amare! Gerace — Da un pezzo mi tormenti, mi rimproveri, mi tratti come un amante venuto in uggia, quasi tu cer cassi un pretesto, una scusa... Giacinta — Io? Ma Andrea... Gerace — Chi dunque? Giacinta — Andrea, queste parole puoi pronunciare tu? A me, a me che li ho dato tutta me stessa. Ora mi rassegno a chiederti, quasi in carità, quel poco di affetto che avrei di diritto di esigere... Io... io ho piegato il mio orgoglio di donna fino ad implorare una terribile dichiarazione. Non mentire! E tu non sembri mai sicuro, non parli mai con franchezza, ti avvolgi in una nebbia di mezze negazioni che complicano gli equivoci tra te e me e ne cagionano dei nuovi... Fai di più! Inverti le parti. Sono io, io, che ti tratto come un amante venuto in uggia?... Parla, non borbottare. Gerace (con finto slancio, alzandosi) — Ebbene... par lerò... Quel tuo dottore... Giacinta (abbracciandolo) — Bambino!... Sei geloso?... Amore mio, non mi hai detto mai una parola d’amore più dolce di questa! E tu sospetti?... Bambino! Gerace — Non negarlo, c’è stato un giorno... Giacinta — Sì, perchè negarlo? C’è stato un giorno, un istante, in cui ho desiderato, per disperazione, di non amarti più. E pensai anche di finirla, di scomparire. E ci penso anche adesso. Ma, amare un altro? E’ mai possibile?... Oh, come mi hai fatto soffrire! Vuoi che il dottor Follini non metta più piede in casa mia? Non verrà più, puoi esserne certo. Gerace — No, no, è un’esagerazione. Io dicevo... Giacinta — Oh!... Mi sento rinascere!... Risento nel cuore la gioia dei primi giorni del nostro amore, con qualche cosa di più soave, di più pacato!... Andremo nella casa di campagna, vi passeremo delle settimane, dei mesi... Sarà una delizia! Gerace (distratto) — Certo!... Una delizia! Giacinta — Andremo in barca; ci divertiremo a pe scare; come due anni fa, te ne rammenti? Quando tu volevi saltare da una barca in un’altra e... che paura ve derti cadere in acqua. Credetti di morire. Gerace (annoiato, tornando a sedere) — Sì, me ne rammento ! Giacinta (pausa. Appoggiandosi alla spalliera della poltrona) — Oggi si compiono sette anni; e non vi hai neppure badato! Sembra ieri! Gerace — Sette anni! Giacinta — E lo dici in un modo! Hai freddo? Gerace — Questo tempaccio!... Me lo sentivo da due giorni nelle ossa. Forse non sto bene. Non so. LUIGI CAPUANA Giacinta — Sette anni!... Comprendi ora perchè non ho voluto andare al concerto?... E avevo tanta tristezza qui!... Mi sentivo soffocare! Gerace — Purché tu non ricominci! Giacinta (pausa) — Andrea, ma non sai dirmi altro? Non trovi altra parola per me... Gerace (per sviare il discorso) — Ho visto il piccolo nato di Elisa Gessi: mi ha disgustato. Un mostricciattolo. Ed Elisa è così contenta... E come potrebbe essere diver samente? Una madre vede i figli soltanto come angeli. Giacinta — E’ la mamma. Se la nostra Adelina vivesse ancora!... Bisogna che te lo confessi, è la sola mia colpa nascosta, sono stata ingiusta verso di te. Credetti per un po’ di tempo, quand’essa era in fasce, che tu non ramassi, che tu mal soffrissi il veder diviso il mio cuore fra te e lei... Gerace — Come hai potuto pensare questo? Giacinta — E quando la poverina stava per morire, perdonami, Andrea, ma voglio confessartelo, mi sem brava di averla uccisa io. Una bestemmia! Spesso, quan do sono sola, mi sembra da un momento all’altro di vedermela venire incontro all’improvviso, con quei suoi capelli d’oro, arruffati, da piccola selvaggia... Ricordi? Gerace (cupo) — Sì! Sì! Un allegro anniversario! Giacinta — Ma era la nostra creatura! Gerace — Dico per te... per non rattristarti. Giacinta — Come vuoi ch’io sia lieta?... Non mi dai retta... Tu fumi, non mi ascolti. (Prorompendo) Andrea, tu menti! Tu reciti la commedia con me... Gerace (scattando si alza dalla poltrona) — Oh, senti! Giacinta — Sé tu menti commetti un’infamia. Gerace — Io commetto un’infamia? E quando ti davo il mio cuore, la mia vita, il mio avvenire? Giacinta (impaurita) — Ebbene, che hai, Andrea, che hai? Gerace — Ah! commetto un’infamia? Questo tu credi? Giacinta (ancora più impaurita) — Andrea! Gerace — Ed ora non posso continuare a commetterla, non tentando di ribellarmi, non osando alzare il capo! Ora il mio cuore è mutato, la mia coscienza è scossa, mi tormentano, mi insultano, non mi lasciano in pace un momento. Giacinta — Andrea, amor mio, calmati, dimmi che non è vero! Che dici queste cose per punirmi! Sono stata cattiva, perdonami, non so più come controllarmi... Gerace (incalzando) — E tu mi rimproveri? Mi tor turi? Ma non t’accorgi, dunque, ch’io soffro più di te? che se mento è per te, unicamente per te, per pietà di noi! Ah! io soffoco, lasciami andare, meglio così, final mente! (Via). Giacinta (tentando di trattenerlo, ma inutilmente) — Non andar via, Andrea, pietà, Andrea... (Rimane ferma sulla porta, finita, sconfitta. Poi riprendendosi nel suo smarrimento, con grande angoscia) Non è vero, non è vero, sono io pazza; ho delle allucinazioni, mi è sem brato di aver inteso... No, non sono parole di Andrea, Andrea non può parlarmi così. Ah, mia madre: ecco le sue parole, come le avevo sentite. (Ricordando e scan dendo) «Te lo rinfaccerai da te stessa». Come aveva ragione! Ma che ho fatto per meritare tutto questo? Ho amato, l’ho amato. Ma è dunque un delitto amare così? E perchè non piango? Sono dunque impietrita? Il mio castigo; e vorrei almeno sapere di meritarmelo... dovrei meritarmelo. Dovrei gettarmi fra le braccia del primo che passa, sentire tutta la ripugnanza della carne, per dere ogni scrupolo del pudore... (Nella sua scena di disperazione, inavvertitamente poggia la mano su un campanello da tavolo e dopo qualche istante entra la cameriera). Marietta — La signora contessa ha chiamato? Giacinta (scossa dalla realtà delle cose, dalla pre senza della cameriera) — Chiamato? No, avrò suonato distrattamente, senza volerlo. (Parla volgendo la schiena alla cameriera; quasi non avendo il coraggio di doman darlo, ma nello stesso tèmpo per sentire con altra voce la sua condanna) E’ andato via? E’ uscito? Marietta — Sì, signora contessa. Giacinta (facendole cenno di andare; la cameriera esce) — E’ andato via; è finita: non tornerà più... Sono due anni che dura questa tortura, questa agonia, ed ho voluto illudermi, non ho voluto credere... perchè vivere ancora? Ho proprio sentito la sua pietà... era più nelle parole non dette, tanto io l’ho sentita. E’ orribile! Tutta la mia vita, tutta, non è valsa a niente... (Sfinita si acca scia piangendo col volto tra le mani. Una pausa, rotta solo dai singhiozzi. Ad un tratto appare il conte, spet trale e folle). Conte (è in disordine, curvo, barcollante, spettinato) — Sentite... sentite qua... dov’è Gerace? Chiamate Gerace... Giacinta (presa da un supremo senso di pietà, gli si butta alle ginocchia) — Giulio, povero Giulio, per donami... Conte (non riconoscendola e scostandola) — Ma che fate, lasciatemi stare... la contessa ci aspetta... Giacinta — Giulio, Giulio, sono io, Giacinta, perdo nami, ascolta, un momento. (Il conte infastidito si scosta sempre di più facendola trascinare sulle ginocchia). Conte — La contessa ci aspetta, Gerace, dov’è Gerace?... voglio Gerace... Giacinta (più a se stessa che al conte) — Mi confesso dinanzi a te, dinanzi a Dio... Conte — Voglio Gerace, dov’è Gerace?... La contessa ci aspetta in campagna, dobbiamo andare in campagna... (Brutale) Che volete? Giacinta — Giulio, Giulio, perdonami! (Con risolu zione improvvisa si alza, corre verso un armadio, prende il revolver ed esce precipitosamente di scena). Conte (chiamando) — Gerace! (Una tragica pausa. Di dentro, un colpo di revolver. Invocando nella sua follia) Gerace, amico mio, perchè non rispondete? R E N A T O C IA L E H T E 0 A Roma, ¡1 27 novembre, un’auto ha investito e ucciso Renato Cialente. Ne siamo angosciati e commossi, giacché il tragico incidente ha tolto al Teatro uno dei suoi attori migliori, ed all’affetto degli amici un carissimo compagno. Diamo questa notizia, con poche parole, e soprattutto in uno spazio non degno perchè di questo fascicolo, già tutto stampato, non rimane che la sola possibilità di questa pa gina per poterlo fare immediatamente. Ma nel prossimo numero ricorderemo Renato Cialente con fraternità di cuore e come la sua notorietà di attore ha ben meritato. 0TT© eEN T0 C A R L © B E ^ Bel giovine, alto e gagliardo e roseo, con gli zigomi forti sotto gli occhi azzurri, d’un biondo grigio e serico i capelli, di colore più caldo i baffi densi, figlio primogenito d’un danaroso agente di Borsa che la vincita d’un premio del prestito Be vilacqua La Masa aveva anche più arricchito, circondato da fratelli e sorelle affettuosi e festosi, comme diografo applaudito fin da quando, scatenatissimo studente di legge, di sturbava i silenzi notturni di Pavia, amico di innumerevoli amici e dei comici vaganti e degli ilari vini, Carlo Bertolazzi era, nell’ultimo Ot tocento, uno dei milanesi più felici. Le nuove generazioni che ammi rano la sua Gibigianila e stimano la sua Liilù, sanno noco di lui. E’ morto all’inizio dell’altra guerra e già da qualche anno viveva appar tato, distrutta la sua salute florida da un male di cui sapeva il corso implacabile e quasi il giorno del prefisso esito nero. E tuttavia, riten tava il Teatro, con delusa malin conia, quasi sentendosi non eia vivo in esso, ma un esule intimidito che, appena tornato, doveva rassegnarsi a ripartire per il più lungo dei viaggi. Per il Teatro era nato; il Teatro era stato il suo estro, la sua delizia, la sua vocazione, la sua felicità e la sua baldanza. E’ difficile dire se egli sia andato, verso il Teatro, carico di vita, o, verso la vita, carico di ri cordi, di commozioni e di formule teatrali; tanto, nella sua opera co piosa, s’alternano l’invenzione fresca e libera ai contrasti impolverati del repertorio, l’osservazione brusca e crudele alla sentimentalità e ai pes simismi convenzionali, e, ai tipi di seconda scelta, le figure schiette, spiccate e risolute. Non si esercitò a lunao per farsi la mano a queste modellazioni sicure. Nei primi boz zetti, nesli atti unici che le Compa gnie milanesi gli recitavano, tra le macchiette linguacciute che prende vano meno corpo che colore dal li tigioso fermento corale dei piane rottoli, dei cortili e del Verziere, il piglio e l’accento di alcuni personaggi preannunziavano, per una cer ta loro rilevata energia, il migliore Bertolazzi. Dopo i primi passi spediti e lieti, T E H T R ftL E R T O L A Z Z I il piacere che dava al giovine com mediografo la vivacissima tavolozza dialettale suscitò in lui più animose ambizioni. Dagli abbozzi ove il dia logo simulava l’azione, si volse a immaginare quadri complessi, colle gati dal filo d’una vicenda. Predo minavano tuttavia l’«ambiente » e la ricerca del colore; ma non più d'un colore fluido, profuso e sgargiante; ora lo sosteneva il disegno solido e le tinte erano più crude, e il fondo era tetro. Ecco E1 nost Milan, Mi lano della miseria; la fiera perma nente del Tivoli, con le baracche, i padiglioni, le giostre, lo zucchero filato e le frittelle e gli imbonitori, i saltimbanchi, le indovine, le amaz zoni del flobert, nell’ora della chiu sura, quando le fiammelle si speivgono e la guitteria, deposti i lustrini e caduti i rossetti e le biacche, mo stra i cenci e le grinte; e poi le cu cine popolari, è il cortile dove si astraggono i numeri del lotto; e il dormitorio pubblico, rigido e afoso; cioè gli spettacoli poveri, la mensa promiscua dei poveri, l’illusione e la speranza dei poveri, il sonno dei poveri. E’ il Giorno della miseria e lo vive un’esile figliuola, innamorata di un acrobata tisico, voluta e pre sa dal Togasso, giovinastro grifagno, ladro e sfruttatore di donne, di bre ve e secco discorso, saettante dagli sguardi freddi la volontà prepoten te. Egli appare in poche scene ma empie di se la commedia affollata; vi passeggia da padrone, dondolan dosi impassibile sulle anche elasti che e sugli scarpini aguzzi, e fa cendo oscillare largamente i lembi del mantello a ruota. Bella dimostrazione d’ingegno ric co, pronto a rivivere artisticamente quel mondo che gli era proprio per diretta attenta appassionata cono scenza; ingresso luminoso e vitto rioso nel vero Teatro. Ma, non mol to dopo, la seconda parte del Nost Milan, sott’intitolata I sciuri, sceneg giava una società vista dal di fuori, non descritta, ma caricaturata, rico struita sugli aneddoti e sui pettego lezzi che circolavano allo Stoker e al Bar Americano e l’ira satirica, piuttosto assunta per incitamento del tema che sentita da quell’anima gio conda, sforzava fino alla deforma zione grottesca le personificazioni della nobiltà squinternata e boriosa e della ricchezza viziosa ed oziosa, e, atteggiandosi a verista, sfruttava le posizioni, i contrasti e il fondo declamatorio del vecchio e scadente romanticismo sospingendo la comi cità verso l’operetta e In drammati cità verso il melodramma; sì che la morale della favola era affidata a un esploratore nato nel ceto dei sciuri e impoveritosi per amore del la scienza, ed alla vittima del To gasso, che, divenuta un’etera sfron tata, si redime rinunciando all’amo re di quell’ex-ricco, perchè se ne reputa indegna. Strane e ripetute contraddizioni e oscillazioni nel Teatro di Carlo Ber tolazzi, che tante volte si propose assunti bellissimi e tante altre si contentò di rimuovere e riatteggiare materia già colata e indurita entro stampi mediocri. Forse questo av veniva quand’ei sceglieva categorie sociali o professionali per riprodur le, e, nell’opera scenica, collocava, con foga indiscriminata, personaggi che, per eccesso di intenzioni, le rap presentavano troppo; e, questi perso naggi, non nascevano in lui portan do seco la necessità o la possibilità del mondo che dovevano riflettere per definirsi. Nella Maschera, per esempio, egli portò alla ribalta le tribolazioni, le disventure e le ven ture delle piccole Compagnie d’oneretta; e non seppe liberarsi dalla consueta tipificazione macchiettistica, dalla verbalità e verbosità attri buite per convenzione ai comme dianti falliti. La vanità, Vinvidia, la venalità, il mestieracdo e il dilet tantismo, le colpe e le virtù non vi hanno un gesto, un soprassalto, un grido che non derivino dalla canzo natura e dalla sentimentalità gene riche. Nel Successore, il giovine di farmacia che innamora la figlio e seduce la moglie del suo padrone, e, morto disperatamente costui, si impadronisce di tutto, troppi dram mi sono involontariamente riecheg giati; nei Giorni di fesfa, dopo un primo atto leggiadro, la commedia va, con artifici comodi, verso il lieto fine pur sfiorando il sadismo in qual che episodio secondario, per capric cio inopportuno di audacia; in Stroz zino! si ripete ancora una volta il conflitto nel cuore d’un usuraio, tra la crudeltà feroce contro i debitori e la umiliata tenerezza paterna. Ma questo non è il vero Berto lazzi; o è il Bertolazzi trascinato via dalla propria fecondità tumultuosa. Il Bertolazzi artista scrive La gibi gianila e il primo atto e le scene della febbrile speculazione borsisti ca della Casa del sonno, e L’egoista cui mancano solo la discrezione e l’alone delle sfumature per essere una commedia ammirabile; e, in collaborazione con Francesco Pozza, scrive Dalla sera alla mattina, rap presentazione di una prima notte nuziale che rivela allo sposo l’impu rità della sua donna; .e scrive Lulù e il Matrimonio della Lena. La Gibigianna, il luminello della chimera, che accende pazze scintilla zioni fuggenti, e guizza rapido e brilla più in là e rimbalza altrove, allontana dall’amante che non trova lavoro e dalla soffitta dove tante volte, dopo tristi digiuni, i baci ave vano ingannato la fame, una giovane illusa da presentimenti vani d’impos sibile fortuna; e la travia e la di strugge, Commedia panoramica come E1 nost Milán ma più centrata e appro fondita; e, in essa, forse per la pri ma volta nel Teatro di Bertolazzi, un’ anima femminile (quell’ anima volitante di farfalla) si scioglie dal la patetica docilità di vittima e dalla fissità o stinta o monocorde delle mogli fedeli e delle aride adultere che l’hanno preceduta. Nella Gibi gianna la domm diventa la protago nista e lo sarà poi nel Matrimonio della Lena e in Lulù; la sua fragi lità va contro la luce e proietta om bre; ella crede in un destino chiaro e il mistero suscita la sua ansia su perstiziosa ; tra il suo istinto e la sua coscienza vi è alternativa di pre dominio e talora di sopraffazione; è risoluta e labile, buona e involon tariamente crudele, in un giuoco di rinunzie e di tentazioni; bugiarda con scrupolo, mentre, più tardi, Lulù lo sarà con sfrenata impudenza. Si dà, non per amore, ma passando so pra l’amore nella speranza di giun gere a una indefinita felicità. Lulù, invece, tradisce per facilità arrende vole dei sensi, per costante abitudine all’incostanza, sempre falsa, anche con se stessa, senza necessità, senza scopo, per il gusto di romanzare e di romanzarsi; e si fa accoppare dal marito, amato, ingannato, riamato, svergognato, urlando atterrita sup pliche, vituperose confessioni e men zogne disperate. Meno screziata, anzi opaca e chiu sa ed intensa, la figura della Lena, ragazza senza sogni. Figlia d’un bot tegaio è la serva di casa e obbedisce a tutti con beffarda condiscendenza, ridendo della madre ingiusta, del padre indifferente, della sorella ido leggiata e privilegiata, che andrà presto a nozze, e del fidanzato di costèi e delle dolcezze smorfiose del loro amoreggiare. Ella sembra fatta di carne dura e sorda; ma sotto alla sita sfacchinante sciatteria ancillare, ella sente, talora, rimuoversi caldi fermenti che la inteneriscono e la irritano; e la vicinanza dell’uomo la turba e la incita a scontrosità amare. Il giorno in cui la sorella si marita, quando tutta la famiglia ac compagna gli sposi alla stazione, la Lena resta sola, dopo il banchetto, nella casa disordinata, tra le bot tiglie stappate, e beve a tutti i bic chieri, e si burla di se, e si posa sui capelli il serto di fiori d’arancio de posto dopo il rito. Un vicino, col quale aveva talvolta conversato dalla finestra, sopraggiunge e trovandola così, Cenerentola ebbra e coronata, l’afferra riluttante e la profana ce dente. Questo è il matrimonio della Lena, vergine fuligginosa, redimita di fiori candidi e brutalmente diso norata. Ma una commedia di più vaste proporzioni aveva ideato Carlo Ber tolazzi: I paurosi. Si proponeva di personificare in essa gli spaventi e le fobie, dissimulati o palesi, che affannano l’anima umana: i terrori dell’inferno, delle malattie, delle in fezioni, del malaugurio, di improv vise povertà, e i sospetti angustiati, le diffidenze; le esitazioni, le vigliac cherie, le sfiducie di sè, i tremiti e i pallori dello spirito. L’opera gli riuscì minore ; dell’idea iniziale non rimasero che pochi segni, appena epidermici, nei tre atti che, in ve neziano, si chiamarono La tosa al palo, e, in italiano, La zitella. Il bel tempo alacre di Carlo Ber tolazzi era finito. Suo padre morto, il patrimonio assottigliato e diviso. Il giovane dagli occhi azzurri, aman te il rischio delle prime rappresen tazioni, a tal punto che, per godere il brivido e la trepidazione del suc cesso incerto, e quasi per reazione alla scioperataggine della sua prima vera universitaria, di tanto in tanto si presentava a qualche commissione esaminatrice, beccandosi felicemente inutili diplomi di notaio, di segre tario comunale e di non so che al tro, appariva sempre più pallido e pensieroso. Dubbi, sconforti, insi stenti sofferenze fisiche, la capacità di fare non pronta e spaziante co me l’invenzione, lo svogliavano dal lavoro e disgregavano le sue ener gie. Ma ritrovò la volontà, con do loroso coraggio, quando costrinse il medico a confessargli che breve cam mino di vita gli restava ormai: tre o quattro anni, forse. Tremò per l’avvenire della sua donna, la cara e devota signora Elisa, e volle gua dagnare tanto danaro che bastasse a salvarla dai disagi quand’egli non ci fosse più. Si prefisse una cifra e poi ricorse a uno dei suoi inutili di plomi: quello di notaio. Morituro, intraprese la nuova professione e la vorò tenace per quella speranza, con l’ansia del tempo rapido e dell’im prorogabile scadenza, dando ancora al teatro qualche idillio mesto, co me Lorenzo e il suo avvocato. Poi, esile e cereo, compiuto, nella mi sura che si era comandata, l’affet tuoso dovere, s’addormentò confortato' fie n a io Rimorsi Di /Carlo Bertolazzi abbiamo pub blicato nel /fascicolo n, 396 « La Gibig-ianna » e prossimamente pubblicberemo, in un volumetto della colle zione « Teatro », «L’egoista », testo italiano dell’autore e presentazione di Eugenio Ferdinando Palmieri. C \ IL PROSSIMO FASCICOLO N. 417-418 (1° E15 GENNAIO) USCIRÀ IL 15 GENNAIO E CONTERRÀ: I N Q U E S T O SO LO H O M O ® Commedia in tre atti e 4 quadri di S T I F A i @ L A 13 D 5 Uno degli autori contemporanei più significativi che del Teatro fanno opera di poesia. Rappresentata dalla Compagnia Benassi-Carli S I M A E S T R O i IL D IS C E P O L O Dramma in un prologo, due parti e un epilogo di S C U C IA ¿SVAKUZO Riduzione e versione di VINICIO MARINUCCI «Si tratta del famoso ” Sciukke tu Son Desci ” (pubblicato nel 1918 in Giappone dove ha avuto enorme diffusione con più di cento edizioni. La sua grande popolarità è dovuta alla profonda, sincera e com mossa esposizione idii un travaglio di fede e di coscienza, che nella convulsa epoca presente serve di ispirazione e di aiuto a risolverei tanti problemispirituali ». V. M. V __________ - J ... per rendersi particolare nell’eseguire la parte di questo personaggio (Brighella), Atanasio Zanoni ha voluto allontanarsi dall’adottato suo in via i costume, e l ’ha reso un uomo illuminato e spiritoso, che parla con eleganza, che raziocinia con buon criterio, che ha qualche cognizione della scienza, e eh’è naturalmente un poco filosofo. Francesco Bartoll: «Notizie ¡storiche del comici italiani che fiorirono intorno all'Anno MDL Ano al ffiorni nostri: 1782 ». v M B R I G H J E f ■ RACCOLTA DI MOTTI BRIGHEILESCHI, ARGUTI, ALLEGORICI E SATIRICI DI ATANASIO ZANONI IMPROVVISATORE DELLA MASCHERA DI BRIGHELLA T&C « Me chiamo Brighella Cavicchio. Se la se desmenteca el nome, la se serva del cognome quanto le piace ». Brighella Cavicchio della Val Brembana disceso, brigando e imbrogliando, dalla parte alta di Bergamo, era un « furbo », e furbo voleva dir ladro. a Mi l’è zà un pezo che ho fatto divorsio co l ’onoratezza ». La cedo in tutto « ma non in fur beria perchè ghe n’ho per mi, e per i me fradei, per i 16 Timotei, per 40 ebrei, per lei e per chi fa per lei e intanto unisco a lei gli ossequi miei ». « Mi son omo insigne ne le furberie e le più belle le ho inventade mi e lo ho illustrade ». I l primo costume di Brighella era costituito da un giacchetto con pantaloni corti, larghi e bianchi, con berretto e mantello, tutto a galloni e filettature verdi. Portava una mezza maschera olivastra con un po’ di barba pendente. In se guito Brighella assunse vera livrea verde con mantello bianco. I l lettore vedrà i commenti che Brighella fa sul suo abito, alla sua prima « sortita ». Uno dei prim i personaggi di Brighella si r i scontra nella commedia di G. Gabrielli II studio. Sappiamo che nella Compagnia dei Confidenti del 1638 c’era un Brighella. Nel 1671 ne morì uno a Parigi che avrebbe dovuto essere sosti tuito, secondo il Rasi, dal comico Cimadori, detto Finocchio, il quale non raggiunse Parigi, perchè morì a Lione durante il viaggio. A ltri Brighella, dei quali ci è rimasto il nome, furono Domenico Bononcini, che nel 1687 vediamo a Monaco al servizio dell’Elettore di Baviera; Tommaso For tunati, che Francesco Bartoli illustra « come altro figlio di Domenico (1691-1746), il quale re cita nella maschera del Brighella » e sa « molto bene le commedie all’improvviso a memoria, le concerta con dello spirito e non è indegno del l’epiteto di buon commediante ». I l più illustrato di tutti fu Giuseppe Antonio Angerleri, mila nese, attore premeditato e di parti serie, ma so prattutto celebre Brighella, che morì avvelenato. Ricordati Brighella del Settecento furono Fran cesco Panazzi, Antonio Romagnoli, Giuseppe Marliani, zio della moglie di Medebach, e Ata nasio Zanoni, autore della raccolta di motti che pubblichiamo. I tip i delle Maschere erano fissi, ma aspiravano a variare almeno col nome. Per questo anche Brighella ebbe molte denomina zioni per quanto restasse il solito Zanni in tri gante e raggiratore. I l mio amico P. L. Duchartre (La Comédie iLalienne) traccia a dirittura un albero genea logico di Brighella, e nomina Beltrame, Gradelino, Scapino, Tramagnino, Mezzetlino, un Fenocchio del 1560; Flautino, Brigarli, Pasquariello, Narcisino, Turlupin, Gondolin, Grotteland, Sganarello, Mascarillo, La Montagne, Frontin, Lambrance e perfino Figaro. Ma Duchartre poteva enumerare tutti i secondi Zanni cugini di Arlecchino, come Truffaldino (Carlo Palma), Trivellino (Domenico Locatelli), Frittellino (Pier Maria Cecchini, « astuto et ingegnoso » con fur fanteria), Trappolino (Giambattista, figlio di Sil vio Fiorillo che Cecchini afferma inventore del Pulcinella), Francatrippa (1593) e specialmente Buffetto Carlo Cantù (maestro del famoso arlecchino Dominique), Bagolino e Bertolino; non ché gli Zanni elencati nel manoscritto della Uni versità di Bologna (266, Tab. I, n. ITI, fase. 10), il Zan Beltram già visto, Zan Padella, Zan Capella, Zan Doni, Zan Batochio, Zan Capocchio, Zan Farina, Zan Pauol, Zan Cauol, Zan Bagozza, Zan Carozzo, Zan Frittada, Zan Gradella, Zan Tripu, Zan Pedron, Zan Pignatta, Zan Zanchetta, eccetera eccetera. Zan Capochio fe Zan Intrigh Zan Intrigh fe Frega el bus Frega el bus fe Zan Brutigh Zan Brutigh fe Zan Ambrus Zan Ambrus fe Rocca e Fus E de Fus naq Zan Pestel Zan Pestel havea un fradei Che si chiama Zan Farina Bona sera, o Bettolina. E magari Duchartre poteva ripescare tutti i Covielli meridionali che eran aneli essi Zanni intriganti e malandrini sul genere di Brighella. Atanasio Zanoni nacque circa nel 1720 da Zanone Zanoni, ed entrò in arte provenendo dai filodrammatici. Appartenne alle Compagnie Me debach e di Antonio Sacco. Dal Rasi appren diamo che sposò la sorella di questi, nel 1750, e si recò con lui, nel ’53, nel Portogallo, restando in Compagnia 32 anni; ma lo abbandonò quando il Sacco, già vecchio, s’innamorò di una ragazza e per gelosia prese a fare ogni sorta di follie. Brighella si vantava: «Ho insegna le finte convulsión a le donne maritade per sortrarse alla collera dei m ariti: e con ottica affatto di versa ho indotto gli omeni maritadi che pre tende veder assai, ad esser de corta vista ». In segnamenti pacifici che non portavano rimedio! Carlo Gozzi, a proposito del Sacco, scrive che Atanasio Zanoni, « di lui cognato, valentissimo comico, onest’uomo e d’indole dolcissima, ferito dalle stravaganze del vecchio inviperito (dalla gelosia) trattava di sottrarsi dalla Compagnia »; e, nel mentre Brighella Zanoni consigliava « un cristero de ammonizion per farlo evacuar i tristi sospetti della gelosia », Gozzi s’intrometteva per far tornare Zanoni in Compagnia, con nuovi patti d’indipendenza, fissati in una speciale scrit tura; e « il huon’uomo Atanasio » temeva di r i manere, « ridendo sulla scrittura » e dicendo al Gozzi « lei vedrà che con mio cognato le scrit ture non valgono un fil di paglia ». Spiegava Brighella: «La gelosia fa prima l’orno tormentado, poi matto, e infin desonorado. Nasce nell’interno del diffidente dalla pultredine del sospetto un verme de strana sorte, che volgarmente vien de zelosia, e per primo pasto el gihe rode el cor, ed ecco l’omo en pene, e in tormenti. Per farlo po anche matto, el verme se trasforma, el mette le ale, e el sale al pascerse a una parte più alta, che l’è el cer vello, e tutto el ghe lo rode, e consuma, ed ec colo vaneggiante, in figura de matto. Per farlo po anca disonorado dopo che el gha magna el cervello, el ghe sbusa, e el ghe trapana el cra nio, e el spunta fora no più un verme solo, ma diviso in due, che sentendo l ’aria i se indurisce come el coral, e i mudam de nome, e chi li chiama rapi, chi pennacchi, é chi fusi torti. Ma tutti sti nomi assieme altro non conclude, che significa, che disonor, vitupero, infamia e ver gogna ». E’ ricordata dal Gozzi la interpretazione nel Re Cervo di « Atanacio Zannoni, che sostiene con rara abilità il personaggio del Brighella tra le maschere della Truppa Sacelli»; egli «rap presentava codesto vecchio con quella perfetta imitazione nel vestito, nella voce, negli interca lari, nel gesto e nella positura che suol far sem pre nei teatri un grande effetto con indicibile plauso ». Compose la raccolta che ripubblichiamo nella sua vecchiaia disoccupata, quando era diventato un brontolone moralista deformando spesso il carattere di Brighella, da ladro diventato filo sofo. Difatti Francesco Bartoli nelle sue Notizie Istoriche di comici italiani, 1781, così descrive il nostro improvvisatore della maschera di B ri ghella: «Atanasio Zanoni, per rendersi parti colare nell’eseguire la parte di questo personag gio (Brighella), ha voluto allontanarsi dall’adot tato suo trivial costume, e Fha reso un uomo illuminato e spiritoso che parla con eleganza, che raziocinia con buon criterio, che ha qual che cognizione della scienza, e ch’è natural mente per se stesso un poco filosofo. Colla let tura di molti lib ri francesi e spagnoli, non che italiani (bello quel « non che ») ha saputo egli trovare una fonte di gustosi concetti di massime dilettevoli ed istruttive, di sentenze dall’univer sale approvate, d’apologhi semi-Esopiani argu tissimi e faceti. Ne’ Contratti rotti, negl ’Influssi di Saturno, nella Vedova Indiana, ed in altre commedie dell’arte, dove egli abbia un assoluto maneggio, vedesi pure il Zanoni porre in opera tutto il suo ingegno, ed infaticabilmente adoprarsi con lode nell’esecuzione dello studiato suo personaggio... ». I l vecchio Brighella era meno saggio, ma più spiritoso. Diceva anche lu i: « Vorria lassar l’o norato mestier del ladro, me par anca d’esser resolto, ma torno anco ad esser lì stesso; son come tanti altri un omo de boni proposeti ma de cattive intenzioni ». Atanasio Zanoni morì a Venezia nel 1792 uscendo da una cena e cadendo iti un canale. La sua raccolta di motti ebbe varie edizioni. L ’ultima fu pubblicata da suo figlio Alfonso che non recitava propriamente come Brighella, ma sotto una variante di carattere, sparuto sfia tato e moribondo, chiamato Agonia. Alfonso aumentò lo zibaldone raccogliendo battute da ogni parte. Giacche quei grossi codici di facezie erano composti di lazzi inventati ma anche ru bati; sebbene ned’edizione 1807 di Alfonso Za noni si legga: « Quei che dise le barzellette dei atri, son come i chiodi grossi che no voi entrar ben nel legno, se prima la trivella no ghe fà el buso ». E appresso : Un chiodo grosso non può entrar nel legno se pria non ve fa el buco la trivella; così avvien ad un uom de scarso ingegno che fa in scena la parte di Brighella. Corre in Italia in questa parte e in quella, e perchè sa ch’è inetto al grande impegno, se vuol dir cosa spiritosa e bella la ruba male a chi fe pria il disegno. I motti di Brighella che pubblichiamo sono lazzi di parole che, messi in opera, diventavano azioni sceniche: « chiamando lazzi, l’arte co mica, l’arguzia di parole e di fatti ». Le raccolte di questi materiali generici in ita liano, in veneto o in napoletano, eran chiamate Zibaldoni o Cibaldoni o Repertori e perfino Selva, come quella dell’erudito frate Adriani, della Biblioteca di Perugia, e quella del Vati cano. Nei Mémoires il Goldoni dice di averne pos seduto una molto antica. Egli stesso ne preparò qualche quaderno per uso dei Comici dell’Arte. Queste grosse riserve di facezie in ogni forma contenevano Disnerazioni, Pensieri, Dialoghi co mici, Concetti, Rimproveri, Paralleli come dire Paragoni, Consigli, Persuasioni, Maledizioni o Imprecazioni chiuse e chiusette, Saluti e coni- miati; in una parola contenevano lazzi da met tere in azione col dirli, adattandoli al caso e cioè rifacendoli. L’abate Perrucci, vero Aristotele della Im provvisa, ne spiegherà direttamente l’uso al pub blico vasto di questa rivista (Andrea Perrucci, Dell’Arte Rappresentativa premeditata ed all’im provviso, Napoli 1699) : « Lazzo non vuol dire altro che un certo scherzo, arguzia o metafora in parole o in fatti » — « e deve il corago o concertatore della commedia spiegarli allora che concerta il soggetto » — « e questo in quanto ai lazzi vecchi; perchè i nuovi bisogna che gli dichiari e specifichi colui che l ’ha ritrovati ». « I l corago, guida, maestro o più pratico della conversazione, deve concertare il soggetto prima di farsi, acciocché si sappia il contenuto della commedia, s’intenda dove hanno da terminare i discorsi e si possa indagare concertando qual che arguzia o iazzo nuovo. L’ufficio, dunque, di chi concerta non è di leggere il soggetto solo, ma di esplicare i personaggi coi nomi e qualità loro, l’argomento della favola, il luogo ove si recita, le case; discifrare i lazzi e tutte le m i nuzie necessarie, con aver cura delle cose che fanno di bisogno per la commedia, come lettere, borse, stili ed altro, notato nella fine del sog getto ». « Vada poi il concertatore discifrando e spie gando i lazzi e l ’intreccio, dicendo qui ci vuole il tal lazzo, qui la tal metafora, la tal iperbole, ironia ». « E così di tutti i lazzi e scherzi, dando sod disfazione ai personaggi in quelle difficultà che gli faranno ». A chi sembrasse più semplice la preparazione di un testo scritto il competente di teatro dirà che il risultato non sarebbe stato lo stesso. A ltre far dire agli attori parole più o meno imbalsa mate, perchè cavate da un libro, e altr’è far vi vere ai comici le azioni, le battute, i soggetti dì una serie di avvenimenti. Essi le ricreavano pro prio reinventandone la sequela, con la forma richiesta dall’occasione. Ecco dove intervenivano le qualità primordiali della razza nostra, con forza comica d’eccezione, con originali espres sioni del modo di essere, popolari nel sangue. « Quando però da buoni recitanti vien fatta una commedia all’improvviso, suole riuscire di maniera che punto alla premeditata non cede ». « M i rido poi di coloro, che, avvezzi a rap presentare solo premeditato, dicono non essere I perciò buono chi fa all’improvviso, ch’è più dif ficile. Facile più gli sarà il recitare premeditato, che, mancandoli la memoria o succedendo qual che sbaglio, è abile a rimediarvi, nè accorgere l’udienza faranne quando colui, che da pappa gallo rappresenta, in ogni mancanza resterà di stucco ». Quest’era la commedia dei figli d'arte, nati già ricchi di un patrimonio di schemi e lazzi che veniva accresciuto generazione per genera zione, come si vede nell’ultima edizione dei motti brighelleschi aumentati da Alfonso. Lazzo (da actio) in qualche codice del Seicento an cora si trova scritto correttamente azzo. Ne La forza della Magia (Cod. barber. lat. 3845, Bibl. Vat.) si legge: « l’azzo del saluto ». Ne I I volu bile in amore: « gZ’azzi delle cerimonie». Ne Il tutore: a sui azzi». Nella Celinda: aloro azzi » e « con azzo muto ». Nel Pulcinella finto dottore (a stampa 1728, atto I, p. 45): «P. con un conto in mano, facendo azzi e conti con le dita » e cioè — come dice G. Signorelli nella prefazione a La tartarea (1614) — « burle, lacci, botte, accompagnati da motti e facezie ». I l fatto d’inserire all’improvviso, nel mezzo di un dialogo, un proverbio, di questi non faceva certo diventar premeditata la commedia a brac cio, giacche questa conservava tutti i lampi delle idee e delle azioni, che venivan ricordate e r i fatte senza un obbligo rigido, ma nella fre schezza della ricreazione. Dicevano gli antichi che l’azione, questa elo quenza del corpo, consiste in tre cose: la me moria, la voce e il gesto; e che tutte e tre si coltivano con Vesempio, la riflessione e la pra tica: cioè con « l’Arte ». L’ideale tecnico del regista, come quello del l'attore — cioè degli intenditori professionisti della recitazione — è il raggiungimento della freschezza nell’intonazione: il possesso della na turalezza semplice, della verità naturalmente scaturita. Vedemmo già che la Commedia del l ’Arte non fu grande per i testi, ma per le ese cuzioni: essa non va giudicata sul traliccio dei canovacci, ma sul fatto che l’improvvisazione dava il massimo risultato teatrale, il quale era meno finzione scenica di quella premeditata. NeZZ’improvvisa la espressione vocale è sor giva, autentica, prodotta dal moto vocale della battuta detta mentre la si pensa, o mentre la si reinventa pur sotto lo spunto di uno scenario, e sia pure tra le sovvenzioni di uno zibaldone. Per merito del continuo rimaneggiamento dei soggetti, rivissuti, il lazzo, scritto prima, non pre giudicava la improvvisazione; perchè esso non era soltanto una battuta ma una azione e, me glio ancora, un gioco di battute in azione, senza testo propriamente obbligato. Giacché non è detto che i pezzi dei zibaldoni dovessero esser ripetuti alla lettera; ma, nei migliori casi, è da immaginare che venissero ripensati e variati. come agli attori capita ancor oggi di far alle commedie scritte, tra le proteste del regista e quelle dell’autore. La materia dei zibaldoni, an che essendo vecchia, acquistava il calore dell’in venzione e la freschezza dell’espressione dalla ricomposizione sull’atto. Quando Tespi inventò il dialogo creò il tea tro; quando i letterati fissarono il dialogo scritto inventarono la letteratura drammatica; quando i Commedianti dell’Arte ritornarono al prim i tivismo del dialogo all’improvviso, sia pure su materia in certo modo premeditata calcolata sperimentata dalle prove nei suoi effetti, si ri- portarono alla sincerità del vero, e non soltanto pericoloso. Del resto il suggeritore allora non parlava di continuo nemmeno nelle recite delle alla sua imitazione studiata e composita. A consolazione dei letterati diremo che l’aver commedie letterarie, tanti erano i soggetti anche chiamata commedia improvvisa la Commedia in queste. Non sembri dunque curiosa la conclusione che dell’Arte apparve esagerazione nei tempi tardi; perchè l ’improvvisazione s’era allora ridotta sol la commedia improvvisa poteva esser fatta sol tanto alla parte espressiva, giacche troppo, nel tanto da quegli attori premeditati che erano i l’ultimo secolo, s’era accumulata la materia già comici dell’arte, e che la commedia premeditata premeditata. Negli ultim i tempi le commedie veniva sostenuta e aerata soprattutto per le qua dell’arte erano « sostenute » quasi come quelle lità di soggettisti possedute anche dai comici letterarie. C’era poca differenza tra le due. Spe della premeditata. Maurizio Sand racconta nei suoi Masques et cialmente se si ricordi che anche i testi scritti Buffons che, nel castello di sua madre, si usava venivano allora, dai comici non improvvisatori, rifatti e infarciti con pezzi apocrifi, così da di improvvisare le commedie alla maniera italiana da parte di signori e scrittori amici di Giorgio ventare anch’essi come canovacci e zibaldoni. Specie nell’Ottocento era diffuso il diritto di Sand; ed egli asserisce che quelle recite riusci soggettare anche nelle commedie scritte. Special- vano benissimo. Gli amici di Madame de Sta'èl mente nelle commedie comiche e soprattutto per quanto inesperti fossero, erano forse altret nelle farse. Quando nessun spettacolo di prosa tanto colti da cavarsela; ma nella Venezia edifi poteva terminare senza la farsa, il « brillante » cata lo Strozzi afferma: « Quel cH’anch’è diffi — allora i ruoli erano scrupolosamente osser cile a’ più saggi » è il a pronto uscirne il di vati per contratto —- e il « secondo brillante », scorso ed improvviso — e regolare il subito con che nella farsa era il « partner » dei vari Ma cetto — la norma di strettissimo soggetto». cario di oggi, si accordavano sul soggettare non Spiega infatti il Perrucci che questo « sia diffi solo quando « mettevano su la farsa », ma anche cile ai più saggi l ’ho esperimentato più volte, volta per volta, cioè sera per sera, a seconda del attesoché avendosi voluto provare a recitare al l’occasione, del tempo loro consentito in rap l ’improvviso poeti, dottori e letterati, si sono di porto alla lunghezza del dramma rappresentato maniera confusi e turbati che non hanno accer prima e alla fine dello spettacolo, per un avve tato a dir parola, e pure sono stati abili e con nimento particolare, per un clamoroso fatto di la lingua e con la penna nei rostri e sulle carte cronaca occorso nel luogo dove recitavano, ecc. e su le renghiere ». Giacché « si deve sapere che Io posseggo il testo della Locandiera recitato non ignudi affatto di qualche cosa premeditata dalla Duse giovinetta, tutto rifatto e rimpolpet- devono esporsi al cimento, ma armati di certe composizioni generali che si possono adattare tato mediante lunghi tagli che davano sjKizio ai soggetti; i quali erano più di settanta, a quanto ad ogni specie di commedia, come sono... con mi diceva Carlo Duse ottantenne, caratterista al cetti, soliloqui e dialoghi... consigLi, discorsi, sa Teatro degli Indipendenti e donatore di quel luti, disquizzi e qualche graziosita ». « In questo anche ci vuole ingegno e prattica ». copione. L ’importante era il fatto di togliere la con Tutti sanno delle trasformazioni apportate dai comici di ogni epoca ai lavori di Shakespeare. gelazione ai pezzi premeditati, lasciando libero l’attore di inserirli prima o dopo, e in quella Anche ai giorni nostri le opere del grande W ill sono depositate alla Società degli Autori sotto forma o in altra, col calore dello scatto, ad il nome di capocomici che le recitano nell’adat occasione colta di sorpresa, nel fuoco della scena reinventata a braccia, giacché questo tamento loro, percependo la metà dei d iritti solo possiede il dono della spontaneità e del d’autore... vero. Ed era importante inserire a proposito il Così anche la Commedia dell’Arte negli ultimi pezzo dello zibaldone, senza uscir dall’argo anni della sua decadenza, alla quale reagì il Goldoni, era, si può dire, sostenuta; non bastan mento mutando il costrutto del periodo già dole il canovaccio e talvolta valendosi persino scritto e gettando la battuta allo sbaraglio per del suggeritore (Vedi Perrucci, Op. cit., Regola conservare il tono alla invenzione improvvisa. ottava. Delle Memorie ed uso di essa in appren La cosa più difficile era l’avere « arguzie pronte, der parti: « per essere la memoria labile, vi è improvvise, frizzanti » e cioè « a tempo », « il necessario chi suggerisca o soffii, chiamati anche che può nascere così dalla natura, che crea al dagli antichi monitores; però questi hanno da cuni (comici) proprio per questo effetto, come servire in caso di bisogno, quando il rappresen furono i Gonnella, il Piovano Arlotto, e, tra gli antichi, Plauto »; come si può anche acquistare tante intoppasse »). I l soggetto proponeva i temi dialogici introduttori degli argomenti, e la me con lo studio e con l’arte, benché « necessaris moria dei soggetti formava la polpa allo sche sima sia, e negli uni e negli altri, la grazia na letro del canovaccio. Le tirate degli zibaldoni turale ». Quel che conta è la spontaneità della battuta venivano press’a poco apprese a mente, ed ecco il suggeritore. Ma questi non parlava di conti trovata all’improvviso, giacché « il motteggiare nuo, solo interveniva a raddrizzare il discorso è di due maniere, uno continuo e l ’altro breve, il primo è per tutta la commedia, il secondo a quando si smarriva o si paralizzava in modo tempo, breve ed acuto, e sono questi granelli di saie che si spargono ma di modo che non tac ciano la cosa soverchio falsa ». I l corago faceva per questo le prove, soprattutto a uso del primo personaggio conduttore dell’intreccio; ma queste prove non miravano principalmente a mantener sciolto l'attore, pur tenendolo su un prestabilito indirizzo. i l Ferrucci raccomanda che le composizioni cavate dallo zibaldone non si facciano scoprire nel costrutto improvvisato: «non presentino esse tanto l ’aria di intarsiature; ma le une e l'altro abbiano una cert’aria di famiglia. Diver samente la disparità di stile offenderà l ’orecchio delicato dello spettatore ». Quel che importava non erano i soggetti, bensì il modo di porgerli. Del tutto oziosa è la polemica dei lapalissiani sostenitori della letteratura drammatica, contro lo scarso valore letterario di un dialogo improv visato, e cioè reso pubblico senza correzioni. Resta che la letteratura è una cosa e il teatro un’altra; e che, teatralmente, vale più la battuta imperfetta detta spontanea, che quella lettera ria detta scritta. I l dialogo premeditato è certo più nobile del dialogo improvviso, ma la reci tazione improvvisa è superiore alla recitazione premeditata: offrendoci una finzione più vicina alla realta e cioè un teatro più vita. L ’attore che pronunzia un testo scritto può dirlo senza pen sarlo, come capita purtroppo cento volte. I l co mico dell’arte doveva pensare, ben convinto, a quello che diceva, giacché, se non lo pensava, non poteva dirlo. E, anche citando un proverbio o un pezzo di zibaldone dimostrativo, doveva ripensarlo e non dirlo meccanicamente, con in tenzione generica professionale distratta. I l mondo del teatro si divide ancora tra parti giani del teatro e partigiani della letteratura. Però Goldoni tanto più è stato felice come au tore premeditato, quanto più è restato vicino alla improvvisa, dalla quale venne partorito e allattato. A n to n G iu lio B r a s a g li» PREFAZIONE ALLA “ RACCOLTA CI MOTTI BRIGHELLiSCHI„ - 1787 r\ La Commedia improvvisa dell’Arte affari. Ed ognuno confesserà questa comica fu per quasi tre secoli un pre verità. Nella mia veccmezza, fatta più gio dell’Italia, ammirato da tutte le grave dalle disgrazie che l’accompa altre Nazioni, a segno che fu accolta, gnano, ho il conforto di sentirmi per e protetta da Monarchi esteri alle loro le vie commiseraco, e di udire uni Corti, e nel mezzo a popolazioni, che versalmente esagerato il dispiacere poco o nulla intendevano il linguaggio delio scioglimento della nostra Com Italiano, specialmente ne’ suoi dialetti pagnia Comica un tempo tanto favorita Veneziano, e Lombardo, che la com di concorso per la nostra Commedia pongono in parte. improvvisa dell’Arte. Tre secoli di durata, di concorso, e E’ per me un sollievo il cercare nella di fortuna, ch’ebbe questa Commedia mia memoria una infinita di que’ detti improvvisa Italiana fanno al parer mio che m’uscivano dalla voce improvvisa un’autentica fede, ch’ella ha qualche mente ne’ tempi felici, detti, che dal merito. Un’immagine di coltura teatrale l’umiltà mia non sarebbero punto con plausibilmente nata nell’Italia fu utile siderati, se non avessero avuto l’onore anche per questo genere di commedia; della pubblica generosa acclamazione, perchè, se ella era anticamente grosso e non fossero stati da questa conside lana, e confessiamolo, immodesta, poco rati sali, facezie, sentenze e acutezze a poco ella s’è uniformata alia coltura di qualche merito. e alla decenza. Mi venne fatto, trascrivendoli per Le invettive di rispettabili scrittori passatempo, d’empiere di questi un centro questo genere all’improvviso, buon numero di fogli e se ho il corag l’hanno danneggiato, ma non estinto. gio, o Leggitore benigno, di presen Danneggiato, perchè co’ loro disprezzi, taceli, io vi prego a non giudicarmi e le loro persecuzioni, sbigottirono gli presontuoso, ma a considerare ch’io li individui Comici a tale segno che essi credo non indegni del vostro aggradi credono di prostituirsi a studiarlo e ad mento, soltanto perchè furono grati al esercitarlo. Non estinto, perchè si vede Pubblico, e qualificati dal Pubblico per chiaramente, che tutte le Compagnie qualche cosa. Comiche Italiane, sono in necessità di ATANASIO ZANNONI sostenerlo per la loro sussistenza, ben comico ché sommamente avvilito e snervato. Se m’è permesso il pronosticare in Sortite dalla scena su i Teatri Comici nell avvenire, dirò, che il nessun premio fissato nell’Italia M Corpo de Ziove cornudo a mi a’ benemeriti scrittori Teatrali, e la deiezione in cui codesti benemeriti dinne servitor? A mi dirme scrittori hanno fatta cadere la Comme dia Italiana improvvisa, cagionerà tan che porto la livrea come in to languore, e abbandono a grado a grado ne’ Comici Teatri, che aneleran segna de la miseria, e de la no chiusi per necessità, e già si co schiavitù? Mi me ciamo sensal mincia a veder sopra a questo mio pro nostico segni evidenti di verificazione. de matrimoni, mediator de le Tutto questo preambolo, non è che rotture amorose, consolator de’ uno sfogo della mia passione per ve dere oppressa, e ridotta ad uno sche poveri innamoradi, protettor letro quell’arte che per tanti anni ho de le ragazze abbandonade, av esercitata col pubblico liberale compa vocato in primo appello de le timento. Nessuno potrà negare, che un tal ge diferenze dei maridadi, arbitro nere ben esercitato, oltre al divertire de gli intrighi d’amor, e quello ch’esso fa al minuto popolo, serve di ricreazione e d’allegro sollievo ai gran in somma che favorisse le spe di e alle colte persone ch’escono affa ticate la mente e lo spirito da gravi ranze, soddisfa i desiderj dei pazzi innamoradi. La divisa che porto bianca e verde la vuol significar, bianco perchè ho carta bianca nelle man per sa ver far e disfar quanto me piase; verde perchè coi razziti de la mia testa mantegno sem pre verde i desiderj de’ me clienti. H E1 mondo l ’è una commedia in cui ogni omo deve far la so parte. Cortezar chi spende, adular chi regala, amar chi ac corda, seminar dove se racco glie, fìnzer amicizia dove se gode, desmentegarse de chi è inutile, prometter a tutti, man tener a pochi, profittar sempre del verbo rapio rapis, che noi porta altro nome che meus mea meum. B Mi pover omo! Gh’ho tentà la fortuna in zento versi, e la m’ha sempre voltà tanto de spalle. Me son ntisso a far el cocchier, e dopo tre zorni de servizio ho rizevesto hona peada in una gamba che felizemente me la scavezzà in do pezzi, e questo l’è sta ’1 salario del primo mese. Chi no s’ajuta se nega. Son passà a far el Caffetlier, ma una notte me taccà fogo a la bottega, e son sta carzerà per inzendiario. Me son messo a far el barbier; ma ho dovù sospender ben presto per chè i diseva che scollegava i animali. Chi no s’ajuta se nega. Senato Romano, el Culiseo; el grand’edifizio de nu altri fazMe son misso a sollevar dal lor zendieri. Se una di queste man peso la borsa e l’orolojo ai ga- Zerusico el ghe remette i denti. lantomeni, e i m’ha fa ’1 torto Lo speccio i e conseja a prender ca, la macchina l ’è sconvolta, e tutte le figure, e tutt’i caratteri tutto va in prezipizio. da metterme in berlina. Ho tenta l’onorato mestier de traf- che i desidera, ed ecco ste bel S3 Mi, l ’è zà un pezzo che ho fegar carne de contrabbando, e lezze postizze che no i è altro fatto divorzio co l ’onoratezza. i m’ha fado frustar tre zorni per che tanti sepolcri imbiancadi. 9 Tutti i dise gran passaggio, la zitta a cavallo d’un somaro. Bl Molti i dise che le Donne Mi no so più cosa far; ma zer- son la mercanzia più buona che gran viazzo terribile che l ’è cherò d’acquistarme tanto me se 'possa trovar; ma mi son de quello dell’altro mondo, A mi, rito da farine innalzar su un sentimento contrario, e ghe di- ino me par, ch’el sia ’1 più fazitrono di tre legni, e farme pro rave che l’è una mercanzia da le, perchè ’1 se fa con i occhi clamar reo per man de Mastro scarto; perchè zeneralmente le serra-di, comodi perchè semo collegadi, e besogna che anca el Slricca. Donne i e inquiete ne la sozietà, legno de la vettura sia perfetto, insoffribili ne’ tratti, lezere nel perchè de tanti che se ne son Di bravura e di furberia parlar, sfrenade negli appetiti, servidi, no ghe ne sta un solo ■ Tanto se fa per le Donne, e volubili nel zenio, incostanti che se sia lamentado. Tutto el alla fin de’ conti i ve paga con un saldo d’ingratitudine; i ve nell’amor, vendicative ne le of mal el consiste che per retor soddisfa con un pagamento de fese, mancabili ne le promesse, nar quà nei nostri paesi, in quel pentimento perpetuo, i ve pre dispettose nei torti, importune mondo di là, no ghe son calessi nelle rizerche, intollerabili ne de ritorno. mia con una sicura rovina de le stravaganze, imperdonabili salute e de borsa. No fazzo per ne le debolezze, ostinade ne’ 9 Oh mi no me confondo, de yantarme, ma per una Donna supposti, sperzure da zovene, 12 anni son sta la prima volta son sta anca mi tre mesi all’Oin preson, de 15 in berlina, de infedeli da maridade. spedal, nel qual tempo gh’ho m’in- 20 frustado, de 25 la prima imparado tre scienze: Filoso Onde scrisse ben, se non [ganno, volta in galera. Grammatica, fia, Astronomia, e Umanità. F i disse Umanità, Rettorega, e Filoso losofia, perchè mentre que’ ze- Quello che per dir donna fia i miei studj gli ho fadi tutti [danno. lebri pittori i me dava la p ri con zelerità. ma tinta tormentosa, i me di- Bi Quando se fa de le furberie 9 Quando la Furberia la me I seva: spirito forte, spirito forte, besogna farne molte, che ne le scrive, la se degna da danne ’1 e a forza de tolleranza son de- baronade no ghe vuol econo titolo de fradello. mia, sebben el dise el prover ventà filosofo a la moda per nezessità. Astronomia, poiché seb- bio ch’el buon zorno de’ Furbi 13 Del zorno no posso sortir de casa, perchè i creditori i m’ha ben no gh’abbia mai mesurà la sta sotto le scarpe del boja. sfera del globo zeleste, nè ’1 nu Si Le busie besogna dirle gros fado deventar un pipistrello, mero de’ pianeti, so che in gra se. Le busie, le frittade, e le una civetta, che no posso sortir dal nido che de notte. zia de Venere e de Mercurio polpette o grosse, o niente. son passa dal polo artico a l’an 9 Andemo a pranzo in casa de E3 Mi son omo insigne ne le fu r tartico, per farme numerar le quella vecchia, che ne darà un berie e le più belle le ho instelle anca in tempo de zorno. gran piatto de brodo, con tren ventade mi, e le ho illustrade. Umanità, perchè a forza de gri ta o quaranta risi lontani e di Mi fazzo zirar con nuova ma da e dei lamenti de tanti altri visi l ’uno dall’altro come una niera el Sedazzo; mi ho una poveri desgraziadi regalà da le fameja in discordia. La ne darà cabala, e una ziffera perchè i donne era costretto a sciamar: un tocco de pan duro come el amanti s’intenda assieme per povera umanità, povera uma cor de Neron, un po’ de vin de fettamente. Fazzo Talismani, nità! quello che servì Annibai Car- pietre triangolari perfette, l’emChe in grazia del bel sesso tazinese per spezzar le monta piastro Magnetico, pozioni aLa povera umanità tormenta gne dell’Alpi, e così el desinar inatorie, mi ho eredità la fa [adesso. l’è fenido. La sera pò, a cena, la vola de’ foletti, per comodo notturno de le serve innamoraB Pare che no se possa nomi sarà come quella de Bertoldo: nar una donna se no se ,ghe dise un piatto de ventosissimi fasoi, de. Ho insegnò le finte convulI bella, e no i sa che ste bellezze un lesso de speranza, un ragù sion alle donne maritade per i se prende ad imprestanza de desiderio, un rosto de aspet- sottrarse a la collera dei rnadalla toletta. Questa la vien cla tazion, un discorso de antighi- ridi, e con ottica affatto diversa ho indotto gli omeni maridadi mada « la vera resurrezion de tà, e a letto cantando. la carne » perchè el Droghier SI Gh’ho più da far mi, che no che pretende veder assai, ad es el ghe somministra el rosso e el gh’ha ’1 diavolo su una festa da ser de corta vista, e disinvol tura per non accorzerse de le bianco; el perrucchier el ghe ballo. Trattar, trottar, tratteremette la testa; le mercantes gnir e far contratto, son le bizzarie delle mojer, e cavarne quattro basi che sostengono el profitto. se de moda i ghe impresta el ■ Mi gh’ho la bugia al me co romper lutL’i zuramenti. 1 fa El Per desingannarve de la pas mando: perfetta, autentica, co uso anca de la Gradazion per sion che avi per la sciora Rome i l ’ha inventada le Signore salir de domanda in domanda, saura, besogna che ve fazza ve Donne la prima volta, illustra- ■sinché i osserva el fondo de le der la donna ne le parole del da dalle promesse dei sartori, scarselle, e pò i se serve de la l’Alfabeto. commentada dai sospiri degli Dissoluzion per redur al verde A. Amore per le donne l ’è un eredi, adornada dai scorrucci anca i più facoltosi. Quando ziogo de parole, che i se ne delle vedove, decorada dagli pò i ha ne le man il verbo Ot serve quando le so scarselle appuntamenti dei debitori, pa- tenere, se ne servono de la Presoffrono de le vizilie penose. rafrasada dalla sommission de- sunzion per negar la recom B. Bellezza finta, c donna di gl’ippocriti e dalle lodi degli pensa. Allorquando pò i se vede pinta. adulatori, che son quei che l’u- nel caso passivo, fanno uso del- C. Cabala, la donna l ’è ’1 vero san con mazzor decoro, e con FApostrofe per animar e ricon retratto. più profitto, de tutti gli altri. durre i disertori alla residenza. D. Donativi, l’è ’1 termine più Negano a tutti la Concession, bello che piase a le donne. ■ Furbo l ’è una parola latina. quando vedono mancar el Da E. Errori, le donne ne commet L’è un’Aritmetica che include tono ogni momento. tutta l’abilità de la persona tivo dei presenti, e allora l ’è la F. Fedeltà, no ste mai a zec possedente. Furbo significa la zircostanza che i poveri innacarle ne le donne. dro, e il 6 e l ’O mostra sessanta, moradi i se trova nel caso de per ispiegar che l ’ha da saver usar de tutte le Figure e le G. Giudizio, presso le donne ,ghe n’è sempre carestia zerubar in sessanta modi, nascon Frasi per inveir contro il sesso, neral. der in sessanta maniere, e con damandole Sanguisughe de gli sessanta rason deluder la vizi- omeni, Mignatte de le borse, I. Infermità, le donne sono un Arpie de le tavole, Tarlo de le vero Ospitai de tutti i mali. lanza de la zustizia. ■ Vorria lassar l ’onorato me- famiglie, Voragini de la zo- L. Lingua, che felizità se la vita da Forno la fosse tanto stier del ladro, me par anca ventù, esterminio de le case, ed lunga quanto la lingua de d’esser resolto, ma torno ad es il ludibrio de la Sozietà. de le donne! ser l’istesso; son, come tanti B Innamorarse d’una donna! M. Maldizenza, ve ne sarà sem altri, un omo de buoni prope Ma no sala cosa,son le Donne? pre sin che durerà la razza Eibhen, mi in poco ghe fazzo cl seti; ma de cattiva intenzion. de le donne. quadro: La donna l ’è un com Dissuasive agli amanti posto de poche bellezze, e de N. Nodo, le donne li formano, dal prender moglie e li rompano in tutti i molte imperfezion. L’è una Si tempi. ■ Me maravejo scior Fiorindo rena terrestre che incanta co le O. Onor, mercanzia ne le don che per quattro buone grazie parole, e la tradisse co’ fatti. ne troppo diffizile da con condide de dolze parole, l ’ab Che ve alletta col volto, e la servar. bia da perderse drio a una don mentisse col cor. Una volpe che P. Porta, chi non porta non na. Eia l ’è un zovane de primo ogni dì la muda pelo, e mai el entra mai in quella de le pel, e besogna informarlo de la vizio, Un impasto de venità e donne. rettorega de le donne che i met d’ambizion, un composto de te sempre in opera per prender leggerezza e de difetti Un fo Q. Quiete, chi s’avvisina a le donne l ’è sempre sicuro da ne la rete i poveri merlotti. Le go d’artefizio che presto s’ac perderla. donne, quando i vede avvisi- cende, e presto si sfuma. Una R. Rapina, mascherata che ru narse qualche gabbiotto, i sco- calma pericolosa che eoa le ba i denari e la salute. menza : Col Deliberativo, per più tempestose burrasche. Un persuaderlo coi più forti inzen- laberinto intrigado che no se S. Sinzerità, se la credè tro varla ne le donne è troppo tivi ad attaccarse a la so ami- trova mai el filo per sortirne. diffizile. zizia. Col Dimostrativo d’una Un complesso partorido da la finta passion, perchè nel zercar malizia, dall’inganno e dal T. Taser, le donne no i tase mai se non quando son no i incontra una negativa. Col tradimento. Una banderola morte. Zudiziale, perchè se no avè che se spiega ad ogni vento. V. Vaso, se dise che Madonna bezzi, vù se zudicà in ultemo Una debole fortezza che cade Pandora ha scaricà un zorappello incapaze da sostegnir al primo assalto. Una Cornac no su la terra el so vaso la causa. Quando pò loro non chia che se veste co le penne pieno de mali, e le donne ziova la Perifrase, per dar la del Colombo, una Tigre che se seguiteranno per tutti i se cazza a qualche merlotto con covre co la pelle dell’Agnello, coli a far lo stesso. de le tenere parole, passano una Penelope in apparenza e alla Trasgression de tutti i do una Frine in sostanza, una Da ■ Mi ghe digo scior Florindo veri, a la desmenteganza de ma che si converte in Pedina, che s’el fa tanto d’innamorarse tutti i favori. I ricorre in se un’Aurora notturna che non noi trova più un momento de guito a la Repetizion per an produse che maligne influenze, pase. No sala che amor l ’è un nullar tutte le promesse, e per e per dir tutto: una donna. ragazzo senza zudizio, ma eh’el se fa ben presto un ¡rigante per resister a tutti? Che l ’è un zieco ch’el guida gli altri al prezepizio, ch’el porta le saette per far piaghe mortali dov’el ferijse, e la fiammella de fogo per brusar dov’el tocca? Dissuasioni ai vecchi di non maritarsi ■ Elo el se crede vivo all’immaginazion, ma l’è morto in quanto a le forze, come el diseva Seneca, in senili corpore, tamquam in putrì edifìcio, Om ni junctura diducìtur. Un vec chio l ’è come una nave senza timon e sdruscita, che a ogni urto la se rompe. Scisso navigai velo el dise lo stesso Filosofo, e perziò mi lo consejo ad abban donar l ’impresa, altrimenti el sarà pò costretto a batter una vergognosa ritirada, per non esser al caso da sostener l’onor de la battaglia. ■ Un omo come ciò coi piè che i batte el sepolcro pretender da sposar una zovene? Mi no ghe posso dir altro che la so casa mal soffrendo i maligni influssi del tropico del Cancro scior Dottor, la passerà ad esser dominada dall’intemperie del Ca pricorno. Proteste di bravura e di fedeltà ai propri padroni Ifl Quando s’impegna dei omeni de sta sorte, el poi esser sicuro de guadagnar la causa anche più desperada. El sa scior Florindo che per intrighi non la zedo a tutte le donne teatranti, per raggiri ai prim i impostori del mondo, per cabale a tutti i Zingani dell’Egitto, per ca v illi a tutti gli Avvocati causi dici, per impianti a tutti i ciar latani, per ripieghi a tutti gli Impresari d’opera in musica, e per frottole a tutti i Gazzettieri d’Europa? ■ Scior Ottavio la se lassa re golar da mi, che farò per elo come un avvocato. Se farà besogno de le Zittazioni per so stener el 'so merito, sarò più eloquente de Zizeron. Se sarà necessario de le Scritture, e dei Documenti per avvalorar le so promesse; sarò più abbon dante d’un Bartolo, e d’un Cu a Va là clic te possa aver tante laccio. Se i me domanderà dei maledizion, quante onze i roba Costituti per garanzia de la so in un zorno i salzizieri, i salu persona, sarò più pronto d’un mieri, e i panatieri. banchier. Se i vorrà de le Pro a Che te vegna la sanità delle teste per sostegnir el so decoro, ocche che le se pela tre volte e ghe ne farò quanto la casta l’anno. Penelope. Se i ine domanderà Di povertà de le Sospensioni per deferir le cose, e ghe prometto da far B Oh povero Scior! Oh come gliene quante ne può eseguir l ’è vestido! L’ha l ’abito infer una Sonador prinzipiante de mo, la fodera agonizzante, i Violili. Se i [me zerclierà de le bottoni defunti senz’anima. Assunzioni per sostegnir gTim- ■ Ho avudo una pugnatta de pegni, e me proverò a farne brodo così chiaro, che Narziso quanto un professor de palloni el se podarave specchiarse drento mejo che a la fontana. Per aerostatici. Se i me domanderà de le Deputazioni per incam mover a pietà nel domandar minar ben l ’affare, e ghe ne l’elemosina, besogna adoperar manderò tante da superar quel una vose tetra e mortifìcada, le dell’antico Senato Romano. come quando un fattoi- de cam Se i zeccherà de le Conferenze pagna el vien ciamado dal so per vegner a buoni patti, glie padron a render i conti; come ne procurerò più di quelle che fa un musego quando no l’è pafeze in Atene la Cortesana Fri- gado dall’impresario, o come fa ne. Se i vorrà de le Appella questi quando l ’opera l ’è in pe zioni per riasumer la lite, e ricolo. procurerò de pellarli quanto Ad un povero, ma innamorato una ballerina da teatro. In somma per Articoli non la zedo B L’è un scior caldo d’amor, e a Licurgo lezislator Spartano, fresco de denari. Noi beve al per Operazioni ai prim i Chi tro che malvasia de nuvole, e rurghi dell’Ospedal, e per as moscarello de zisterna. sistenze a le prime Comari del B L’è un scior ch’el gh’ha dodese mesi d’entrada aH’anno. la Zittà. H La velada del me padron l’è Augurio ad un Oste stada impegnada tante volte, B Prego el ziel ch’el Plenilunio che la sa più la strada del no ve lassa manco in cantina monte di pietà che quella de le acque necessarie pei besogni la pianura. de la Cusina. B L’è un scior ch’el gh’ha le ■ Che auguro l’ultima scena budelle vuode come le scattole del Convitato di Pietra. d’un speziai fallido. El Ghe auguro zent’anni de vi a Son do settimane che no mata, ma novanta de febbre ma gnemo altro che ceriese, polen ligna, e diese de penosa agonia. ta e salata; onde vedo rosso, zalo e verde. L ’è una cosa da Augurio cattivo SI Va là che te possa aver tutte evacuar l’arco baleno. La senta le maledizion che i dise i Ma pò ’1 miserabile equipaggio de rinici- in tempo de burrasca, i la meschina mia biancheria : le Beccali in tempo de quaresi mie camise son de numero di ma, i pescatori in tempo de car spari, e no i arriva a tre. La nevai, i commedianti quando ghe fazza el conto che in zepiove verso sera, tutte le male nere de camise, ghe n’ho una dizion die i tira le donne quan de più de quelle d’un nudo. do perde el moroso, unide a H El me da del pan così pic quelle d’un ziogador despe- colo, che ghe vuol el microsco pio a vederlo, a /S § « jf V ii p r e d ir s e le (S i G c B d le n i Nicola Maresca, ventaglierò, è stato Vautore della prima commedia dialettale napoletana: La Diana o 10 Lavenaro, pubblicata nel 1706 da Niccolò Valiero, con la prescritta li cenza de’ Superiori. Per amor di poesia, riteniamo che egli non si sia dedicato ai ventagli da fuoco, ma a quelli, d’avorio e sete acquarellate, destinati a celare i baci delle dame e degli abatini. Di codesto singolare artigiano che per primo, a Napoli, anticipò personaggi, caratteri e fatti teatrali della commedia goldoniana la storia del Teatro si è appena oc cupata, inserendolo, sia pure con una certa distinzione, tra i Cuccavo, gli Aita, i Fortunato, i Federico ed altri, autori di macchinose e scialbe com medie in lingua che risentivano an cora dei monologhi (o gliommeri) di Jacopo Sannazzaro, delle farse del Caracciolo, di quelle cavaiole o di quelle di Vincenzo Braca, più cele brate di tutte. I suoi dati biografici sono incompleti’, nacque a Napoli 11 4 ottobre 1677, scrisse tre sole commedie di cui una incompiuta, morì prima del 1720. Aggiungiamo oggi altre notizie sulla sua vita: fu battezzato nella Parrocchia di San Giacomo degli Italiani, dimorava a San Marzo dei Lanzieri, ebbe per fino un pseudonimo: Foreano Pica. La commedia napoletana del tem po, strettamente imparentata con l’opera buffa, conserva di questa i congegni, lo stile, gli espedienti e Vingenuità, ma si serviva ancora di certi intrighi di quella cinquecente sca e di quella spagnola, quando non imitava addirittura Molière e vol geva il dialetto in un italiano artifi cioso, rettorico e pedantesco. Solo più tardi Pietro Trincherà scriveva una commedia dialettale (La gnoccolara overo li nnammorate scorcogliate) pubblicata nel 1733 che lo fece ritenere un precursore napole tano di Goldoni. Ma la commedia del Moresca, rappresentata da dilet tanti, secondo il costume del tempo, prima in casa del magistrato M. Ca puano e poi altrove con tanto desi derio di ciascheduno agognata e con tanto applauso veduta da molti, co me si legge nella prefazione al libriccino di cui Punico esemplare, ch’io sappia, trovasi alla «Lucchesiana » di Napoli, precede di molti anni questa Gnoccolara che ha Punico pregio di affondare le sue radici nel sobborgo, senza riuscire tuttavia a nascondere le sue derivazioni. Don Felice Rispolo, autore della prefazio ne alla Diana, aggiunge che Fautore ha durato gran fatica in andar racco gliendo per quei luoghi dove iingesi la commedia, le proprie parole, i moti, le azioni, gl’inventati, le pro poste, le risposte, la frase, e quanto mai in questa o somigliante comme dia si può desiare. Non vi sarebbe, forse, da aggiun gere altro alle parole dell’accorto prefatore: siamo già, con questa fre sca, agile e mossa Diana, nella ri forma goldoniana. La commedia al tro non è che un’imitazione della natura. Il modesto ventaglierò, cer to senza proporsi una teorica del ge nere, s’era liberato dai vecchi canoni ed aveva attinto direttamente dai vi coli e dalle piazzette del Lavinaio le vicende, la parlata e i caratteri realistici della commedia. Ci appare così, con un anticipo di circa quarant’anni, il mondo delle prime e delle seconde commedie goldoniane. Il Moresca non combatte come farà il Goldoni, la Commedia dell’Arte, ma userà, come lui, un procedimento analogo: servendosi della parte viva o vitale di essa, di alcuni suoi effetti sicuri, di certo gioco scenico su cui s’incardinava e procedeva, elimina tutto ciò che vi è di artificioso o di convenzionale, di volgare o cFinvero simile, di vieto e di stucchevole, ed agisce con i suoi personaggi, presi dalla vita reale, attraverso equivoci, caricature, scontri, paradossi, e nella successione di rapidi quadri che hanno sempre sia pure nella loro ingenua composizione, qualcosa di vivo e d’inatteso. La Diana si svolge, per tre atti ben folti, in una piazzetta del Lavi naio, dove tutti s’incontrano, si par lano dalle vicine finestre, vivono ac canto, gomito a gomito, donnette pet tegole, sempre in procinto di attaccar lite, e venditori ambulanti, un avaro e i suoi astuti garzoni, un vecchietto galante e tre innamorati. Non è que sto forse il campiello, la piazzetta, il quadrivio di Carlo Goldoni? Come lui il ventaglierò vede i suoi perso naggi in funzione di maschere; ma schere delPavarizia, dell’amore, della bugia, della furberia. Non entra in profondità: si compiace anzi d’indu giare sulla loro apparenza, sui loro caratteri esteriori, nel gioco verbale di un dialetto gustoso, colorito e di vertente, che tuttavia non riuscirà a definirli. I dieci personaggi della commedia si muovono bene, intrec ciano colloqui tra i balconcelli e la strada, si nascondono e riappaiono sempre in tempo per creare un nuo vo interesse scenico, ma non hanno un vero volto o una personalità de finita: vanno e vengono, proprio co me maschere, tra bisbigli, susurri, invettive, clamori, sbatacchiar di fi nestre e dischiudersi di portoncini obbedendo ordinatamente a quanto l’autore ha prestabilito. Un venticel lo ironico si direbbe serpeggi qua e là: la commedia si complica e si semplifica, si accende e si spegne, in una finzione che non sempre somiglia alla realtà che l’ha ispirata e su cui si modella. La Diana s’inizia all’alba e termina di sera. Ascoltate questa calascionata che è un precorrimelo della canzone napoletana: Susete gioia bella, nocchie d’argienlo, uocchie spertosa core, accedetaro, rape sta porta e fance trasì dinto lo nnamorato de sto Lavenaro! Ciommo, innamorato corrisposto di Annuccia, ed il suo garzone Giacchimmo, tentano, con la voce ed il suono, di destare la bella che dorme. Una pietra, lanciata contro una fi nestra di lei, invece di risuonare sui vetri, colpisce il padre di Annuccia, Ambruoso, destato dall’insolito cla more. I due, intimoriti, sono scom parsi, ma il vecchio, ncazonette e ncammisa, si lamenta per il colpo ricevuto e cerca di darsene conto. Sull’attiguo balconcello Diana, che è una donnetta lesta, astuta ed inge gnosa come un diavolo, litiga con il vecchio Mase, suo marito, che sospira anche lui per gli occhi di Annuccia. Giù, non visti, Meo e Cola, i due garzoni di Ambruoso, si godono la scena. Ciommo, Pinnamorato di An nuccia, un tempo ha amato Meneca, figliuola di Diana e di Mase: bi sogna, consiglia ora la madre alla ragazza, che tenti con tutti i mezzi di riprenderselo. Segue una scena tra Mase, che pretenderebbe di non es sere deriso e chiamato vecchio dal vicinato, e il garzone Meo che riesce ad estorcergli un po’ di danaro con la promessa di far cessare la beffa. Ma c’è in vista un altro alterco: men tre Mase fa il tenero con Annuccia che s’è affacciata, sopraggiunge Dia na e il temporale si scatena. Ma la impavida donnetta le buscherà, que sta volta, di santa ragione. Questo primo atto, di cui occorreva raccontare le successioni sceniche per dimostrare, sia pure in modo succin to, quali fossero i procedimenti, gl’in trecci e i caratteri pre-goldoniani di questa commedia, trova, nei due suc cessivi, un eguale, costante e ritmico gioco alterno di fatti, di vicende e di piccole avventure. Meneca, ora spalleggiata dalla ma dre che vigila, tenta di ricondurre a sè Giommo; Meo, che ama in segreto Annuccia, le riferisce di uno strano colloquio tra i due ex innamorati, ma le promette, fingendo, di aiutar la; Ambruoso, che a causa del suo ipotetico male per la pietra che l’ha colpito, riesce a cavar danaro a Giommo, infierisce sempre contro i suoi garzoni infedeli e toglie ad uno di essi le scarpe per ripagarsi, dice, d’un furto subito; il vecchio Mase sospira ancora; Diana, sempre pre sente, spia, dispone, architetta, prov vede; Cola, Valtro garzone, è scac ciato da Ambruoso. Diana, questa volta, ha creato davvero un imbro glio, confessando al vecchio che Cola avrebbe aiutato Ciommo a fuggir sene con la ragazza. Non è vero, s’in tende. Il garzone scacciato., invece di protestare o piangere sulla sua sorte, sapete che fa? Conclude il dialogo e Vatto con un vernacchio. Il terzo atto rivela Ambruoso il cui carattere sorpassa perfino l’avarizia: Ciommo, per aggiustare le cose, è andato a chiedergli di sposare Annuccia, ma il vecchio lo avverte che non potrà dar nulla in dote alla ra gazza. Afferma anzi che non è giusto, che un uomo si porti via mia donna come una vacca. Ciommo è ben di sposto a dargli qualcosa. Ma quanto? Una ventina di ducati, confesserà il bugiardo Ambruoso a Meneca che ha già ordito un suo nuovo piano : gliene darà trenta, lei, a quell’omaccione avido, a condizione che rinun ci ai progetti di matrimonio. Ambruoso, felicissimo, vorrebbe subito accettare, ma che cosa racconterà al la figlia, quali pretesti saranno buoni per lei? Potrà dirle, ecco, gli sugge risce Diana, che Ciommo è in car cere per aver mancato alla sua pa rola con Meneca e tutto andrà per il suo verso. Annuccia sposerà il suo Meo., Ciommo la sua Meneca, e la commedia si conclude, come si e iniziata, al suono di un arpicordo'. Giacchimmo e Cola restano a can tare la bona notte sotto le finestre chiuse di Ambruoso e di Mase. R o b e rto M in e rv in i Il Ministero della Cultura Popolare dispone che i periodici a formato rivista debbono ridurre di un quartoil numero delle pagine, computando anche la copertina. Il nostro fascicolo normale essendo di 48 pagine, copertina compresa, diventa così di trentasei pagine. Quando i nostri fascicoli saranno doppi, daremo 72 pagine, coper tina compresa; i fascicoli tripli, 108 pa gine, copertina compresa. L’eccezionaiità della materia supplisce e supplirà sempre la povertà dello spazio. I nostri lettori lo vedono. Manterremo sempre la Rivista all’altezza culturale raggiunta, orgogliosi del primato guadagnato in venti anni di lavoro, e con l’amicizia dei nostri lettori. Per il 1944 il rinnovo dell’abbonamento o un nuovo abbonamento ci conferme ranno ancora una volta questa simpatia. ------- 42-------------------------------- P E R S O N A L IT À D I P A U L V IN C E N T C A R R O L L 'jAr Irlandese purissimo, di nascita e di personalità — è nato nella contea di Louth, presso Dundalk, nel 1900 — Paul Vincent Carroll iha ottenuto a New York i suoi due massimi successi, che lo hanno consacrato autore di portata e di risonanza mondiali: Il corsiero bianco e L’ombra e la sostanza. Il lettore, al quale offriamo per la prima volta in Italia un saggio dell’opera di Carroll con la traduzione de II corsiero bianco (l’altro suo capolavoro apparirà prossimamente nella collezione « Teatro »), intenderà immediata mente, al termine della commedia, i motivi che hanno provocato il semiostracismo in patria all’autore di essa. Il lettore, intendo, che abbia avuto sia pure appena sentore della mentalità religiosa del popolo irlandese. Una delle figure più incisive e artisticamente perfette de II corsiero bianco è un maestro di scuola, un maestro di quelle scuole di provincia irlandesi amministrate e gestite dal clero, e che sono le uniche scuole della regione (nulla di comune, quindi, con le «scuole domenicali» annesse alle parrocchie inglesi); un altro maestro, di identica condizione ma di figura morale molto diversa, è l’antagonista del parroco de L’ombra e la sostanza: un maestro in' quelle stesse scuole, e chissà quanto spesso animato* dagli stessi sentimenti dei suoi personaggi, è stato Paul Vincent Carroll per circa dieci anni. La sua polemica nasce quindi da un’esperienza personale lunga ed amara, di cui egli si è liberato soltanto dopo la sua quarta commedia (ha scritto precedentemente: The watched pot nel 1931 e Things that are Caesar’s nel 1932, in collaborazione con Teresa Deevey) e che ha dato il fuoco e lo slancio alle sue opere migliori. La grettezza della vita religiosa irlandese, le intolleranze e i pregiudizi di cui popolo e clero sono imbe vuti possono trovare un equivalente soltanto nella Spagna di alcuni anni fa. La «questione religiosa!», assume poi, in Irlanda, una particolare asprezza per la diffusione del protestantesimo e per i vasti, asprissimi conflitti che ne derivano (i matrimoni misti «tra cattolici e protestanti hanno offerto tutta una gamma di temi alla drammaturgia irlandese). Ora, la polemica di Carroll non (è ispirata da lotte di fede o da interessi particolari: essa non è che la rivolta dell’uomo contro la sopraffazione, spesso violenta e spietata, della meschinità, della miseria morale, cui presta compiacentemente un sacro manto la dignità sacerdotale. E’, questa, una lotta universale e attualissima, le cui espressioni investono ogni piano del l’esistenza. Carroll, nelle sue opere, ce la presenta nel suo aspetto religioso: ma sa di parlare al cuore dolente ed infiammato dell’umanità. Ecco il mo tivo intimo del successo e della perfezione artistica raggiunta dai suoi drammi: la sofferta sincerità dell’impulso e la rispondenza universale. Naturalmente, tali opere dovevano incontrare in patria la più violenta opposizione. Esse, pertanto, ebbero le loro prime a New York) e fino all’i nizio della guerra non erano state ancora rappresentate in Irlanda. Eppure, non v’è irlandese più genuino del Carroll e stupisce come almeno una parte di quel popolo non si riconosca in lui al punto da difendere e imporre le sue opere. Lo spirito pronto/ al sogno, all’esaltazione e alla depressione, il temperamento ora bonario ora rissoso, la mistica tendenza alla risoluzione soprannaturale, sono le qualità di Synge, di O’ Casey, di Yeats. L’irruenza, il sarcasmo, l’acuta ironia volte ad un fine idealistico e umano — ancor più evidenti ne L’ombra e la sostanza — sono ben quelle di Swift, di Shaw e, sia pur esercitate sopra altro oggetto, di Wilde. Artisticamente, Carrol è un modernissimo. Ha superato la fase evolu tiva del Teatro irlandese (tracce deH’avanguardismo tanto di moda una diecina d’anni fa in Irlanda si riscontrano nel suo atto unico d’intonazione politica Coggerers) ed offre una piena, matura, personale contemperazione di tutti i vari elementi caratteristici di esso. L’evoluzione artistica di Paul Vincent Carroll, ora ohe egli appare defi nitivamente uscito dalla sua polemica religiosa, offrirà certo un grande inte resse, poiché questo scrittore si è affermato come tra i più dotati e signifi cativi dei moderni. Egli è una forza viva, che ha' sempre qualcosa da dire e sa come dirla. I suoi ultimi lavari, dei quali la guerra non «ci ha permesso di prendere conoscenza, sono Kindred, un dramma di aspirazioni tarpate, e The old foolishness, del quale non ci è giunta notizia che del titolo. Mentre L’ombra e la sostanza è del 1934 e ricevette il premio per il miglior lavoro straniero dell’annata, Il corsiero bianco, cui fu assegnato il premio dei critici americani, è stato rappresentato per la prima volta a New York, al teatro Broadhurst, il 10 gennaio 1939, prodotto da Eddie Dowling e interpretato dal grande attore irlandese Barry Fitzgerald nella parte del parroco Lavelle, da Jessica Tandy, George Couloris, Liam Red mond e Ralph Cullinan. Due dei maggiori critici americani, Brooks Atkinson e George Jean Nathan, lo definirono rispettivamente «un capolavoro» e « il miglior lavoro della stagione ». V in ic io M ariniucci por C O M M E D IA IN TRE A T T I E DUE Q U A D R I ID I P A U L V IN C E N T VERSIONE ITALIANA DI VINICIO MARINUCCI NOTA DELL’AUTORE: Il lavoro è simbolicamente basato sull’antica leggenda di Ossian, figlio di Finn, che fu condotto dalla bella Niam sul suo corsiero bianco alla terra dell’eterna giovinezza. Tornato dopo trecento anni in cerca di suo pa dre, Ossian trovò tutti gli eroi morti e la sua patria formico lante di piccoli uomini meschini e di preti. Un giorno egli si chinò verso terra dal suo corsiero bianco e scagliò in aria una bandiera di marmo, che cento piccoli uomini cercavano invano di sollevare; ma nel far ciò ruppe la cinghia della sella, ed avendo toccato la terra con i piedi, avvizzì mise ramente e moni. 3P®3&S©KLA€fG5 i l p a r r o c o m a tt la VELLE - IL REVERENDO SHAUGHNESSY - NORA FINTRY - PHELIM FINTRY - DENIS DILLON L’ ISPETTORE TOOMEY - PATRICK HEARTY - SARAH HEARTY - DONNACHAIDH MOGIOLLA PHADRAIG - BRIGID BRODIGAN - MICHAEL SHIVERS - ROSIEANNE - MEG MAGEE Nel piccolo villaggio maiittimo di Lorcan, nella contea di Louth, in Irlanda. - Tempo presente. Scena: Una stanza di soggiorno nella casa parrocchiale di Lorcan, piccolo villaggio in riva al mare, sovrastante la baia di Carlingjord e, sormontato dalla catena sud dei colli Mourne. I mobili e le suppellettili della stanza sono comuni e tipici. Una credenza, uno scaffale per libri, qualche tavolo pesante e un tavolinetto, un altare in miniatura della Beata Vergine con una lampada; sui muri, una raccolta di quelle sanguinarie oleografie sacre, che rendono così opprimente l’atmosfera delle case di persone religiose. Un vecchio apparecchio radio con una batteria. Una finestra, nel centro in fondo, dalla quale si intravedono una siepe, dei giardini e il muro di una chiesa. Una porta, a sinistra, conduce alla cucina; un’al tra, in fondo, al corridoio d’ingresso. (Vicino al caminetto, a destra, c’è una larga sedia a bracciuoli, sulla quale siede il parroco Matt Lavclle. Egli ha un aspetto debole e sciupato, ad eccezione degli oc chi, che ancora scintillano di sentimento ed alle volte di spirito. Un attacco apoplettico gli ha paralizzato le gambe, che riposano su di un poggiapiedi imbottito, vi cino alla sedia. Un’ampia coperta è avvolta intorno al suo corpo; gli occhiali gli pendono dal collo con un laccio nero, un cuscino sostiene il suo capo che, nel ri poso, è reclinato sulla spalla. E’ addormentato. Dopo qualche minuto si sveglia improvvisamente e si guarda intorno con ansia, quasi spaventato. E’ un pomeriggio d’autunno, ai nostri giorni). I l Parroco — Che Dio mi benedica! (Si guarda in torno un po’ spaventalo} Rosieanne! Rosieanne! (Pausa) C A R R O LL Ma dov’è andata quella benedetta donna! '(Rosieanne, un’anziana domestica, entra). Rosieanne (un po’ stizzita) — Oh, vi siete svegliato un’altra volta... I l Parroco —• Svegliato un’altra volta... E’ così che vi preoccupate del mio riposo... Credete che lo faccia apposta? Rosieanne — No, ma se mi costringete a correre con tinuamente da voi, come farò a stirare e a lavare e o preparare il pranzo di padre Shaughnessy e... I l Parroco -—■ ..je a chiacchierare col portalettere e col lattaio e col carbonaio e con tutti i fornitori. Rosieanne — Dio mio, anche a voi non dispiace qualche! parola ogni tanto. Del resto, (io me ne vado la settimana ventura e così vi libererete di me. I l Parroco (contrariato) — Che dite? Eccolo qui, il bel risultato delle vostre chiacchiere. Vi sposerete col carbonaio. Rosieanne — Ma no davvero. I l Parroco — Beh, sarà il panettiere. Rosieanne — Ma no, e nemmeno il postino, se volete saperlo. Io me ne vado perchè nemmeno un santo po trebbe sopportare quel padre Shaughnessy che è venuto al vostro posto. I l Parroco —■Va bene, Rosieanne, io gli parlerò di voi. Rosieanne — Servirà a molto! L’unica persona a cui dà retta è se stesso. I l Parroco — Aspettate e vedrete. Metterò i piedi a terra. Rosieanne — Dio mio, ma quali piedi metterete a terra? E anche a farlo, non lo sapete che va dicendo sempre che il vescovo gli ha dato pieni poteri finché voi non guarirete? I l Parroco — Ma anche con questa maledetta paralisi sono sempre io il parroco! Rosieanne — Sarà, ma chi comanda è lui. I l Parroco (adirato) •— E’ una cattiveria parlare così! Se non fosse per le gambe, starei benissimo! (Pausa) Dite, Rosieanne, dove si trova adesso? Rosieanne — E’ in chiesa. Ha una riunione. Ha sem-> pre delle riunioni in qualche posto. I l Parroco —• Ha una vera passione per le riunioni. Rosieanne —• Avreste dovuto sentirlo l’altra sera giù al molo! Finirla col bere, finirla coi balli, finirla con l’amore! E’ una vergogna, in un paese cattolico! Spaz ziamo per sempre questa manciata di protestanti! (Si ode bussare). I l Parroco — Chi può essere? Se è padre Shaughnessy, portatemi in camera mia. Non fa altro che opprimermi PAUL VINCENT CARROLL con tutti i suoi progetti e mi farà peggiorare in salute. Rosieanne (guardando dalla finestra) — Ma no, è Phelim Fintry, il nostro fornitore di verdura. I l Parroco (mentre lei sta per andare alla porta) — Ehi, prima che cominciate a chiacchierare con Phelim, accendetemi la radio, e fatemi sentire i resoconti spor tivi di padre Q’ Dooley dalla stazione di Athlone. Rosieanne — E’ ancora presto, ma se lo volete... (Ac cende la radio) Va hetne cosi? (Esce. Dalla radio si odono alcuni rumori, poi la voce dell’annunciatore che dice) L’Annunciatore — Alla Camera dei Comuni il Mi nistro dei Dominion, rispondendo alla domanda del maggiore Sorefoot se fosse vero che l’Inghilterra aveva giocato il suo onore, la sua sicurezza e la sua ragione, nel cedere al Governo dell’Irlanda meridionale i porti del Trattato, ha dichiarato che la risposta alla prima parte dell’audace interrogazione era «no», alla seconda «sì». Una successiva domanda dol signor Stanislaska, richiedente se il giusto nome dell’Irlanda meridionale fosse quello di Eire, è stata soffocata fra grida di « Or dine! Ordine!» dai banchi del Governo. (Rosieanne rientra portando una lettera). I l Parroco (irato) —- Non c’è ancora padre O’ Dooley. Fate smettere quelle sciocchezze, Rosiearsne. Credevo che l’avessero fatta finita col « Giornale degli Indipen denti ». (La donna spegne la radio) A proposito, dov’è il mio giornale? Siete forse stata... Rosieanne — Ci siete seduto sopra. I l Parroco (mortificato) — E’ vero... (Se lo mette sulle ginocchia) Ma non c’è bisogno di rimproverarmi! Rosieanne — Questo è il conto di Phelim Fintry pel le sue verdure. Ed è un conto proprio salato! I l Parroco (prendendo la busta) —• Phelim manda un conto a me?! Ma voi scherzate! E’ lui che deve pagarmi le decime da un mese! Leggete un po’, io non ci vedo più a due passi di distanza. Rosieanne (estraendo il conto dalla busta) — E’ pro prio un conto. I l Parroco — Che? Rosieanne —• E’ un conto, vi dico. Per le verdure. Il parroco Matt Lavelle a Phelim Fintry, per fornitura di erbaggi dal mese di aprile 1925 al dicembre 1937: 17 ster line, 4 scellini e 6 pance. Che vi avevo detto io? I l Parroco — Date qua. (Sbircia il foglio) E’ proprio così. Ma non m’aveva detto cento volte che avrei avuto la verdura gratis fino all’ultimo giorno della mia vita? Ha perduto la grazia di Dio, ecco cos’è. (Pausa) Ne sa pete niente voi? Rosieanne — Beh, io non volevo annoiarvi, padre, ma è per causa della figlia di Phelim, Nora, quella ra gazza che è impiegata nella biblioteca. Sapete che è «tata educata in Inghilterra. Beh, padre Shaughnessy l’ha cacciata dalla squadra sportiva l’altro giorno. I l Parroco — E perchè? Nora è una brava ragazza. Rosieanne — Perchè, perchè andava con un giovanotto. I l Parroco (spazientito) —- Un giovanotto! E con chi diavolo voleva che andasse, con un elefante!? Rosieanne — Dice che le ragazze della squadra si comportano scandalosamente con i giovanotti, facendosi corteggiare e baciare. I l Parroco —• Già, e la cifra dei matrimoni è la più bassa in Europa. Doveva scegliere proprio la figlia di Phelim. Ed ecco che i miei bei cavolfiori e le carote e i porri se ne vanno per sempre! Rosieanne — E questo è niente. Aspettate che il nuovo Comitato di vigilanza si metta al lavoro! I l Parroco — Che cos’è questa faccenda che sento sempre nominare? Rosieanne — E’ un gruppo di uomini e di donne che lui manda in giro in ogni posto a sorvegliare che non ci si baci per le strade e che non si facciano balli im morali e ci si unisca ai protestanti. E quel giudice con il nuovo nome irlandese, una volta si chiamava Daily Fitzpatrick, ha promesso che tutte le persone accusate dal Comitato di vigilanza saranno severamente punite. I l Parroco — Chi, quel vecchio imbecille che andava a scuola quando venni qui? Lo cacciarono via perchè non si lavava gli orecchi. (Padre Shaughnessy entra, portando un mucchio di giornali e di libri che getta sul tavolo con sdegno. Egli è un uomo allo e magro, con lineamenti scuri, riservato e con una mente matematica. Sotto la sua imparzialità c’è una sfumatura crudele. Ha passato di poco la trentina). Shaughnessy — Fango ! Fango! Da ogni parte. I l Parroco — Dove li avete presi quei libri? Shaughnessy —• Li ho confiscati proprio dalla vostra biblioteca circolante. Dovremo discuterne seriamente, molto seriamente. I l Parroco (dando segni di disagio) — Non mi sento affatto bene, oggi. Shaughnessy (disponendo dei giornali sul tavolo e preparandosi a lavorare) — Circa questa mia campagna, che spero si diffonderà in tutta l’Irlanda... Rosieanne — Padre, il parroco non è in condizioni di discutere e di affaticarsi: l’ha detto il medico. Shaughnessy (brusco) — Andate in cucina, Rose, e rimaneteci finché vi chiameremo. Rosieanne — Come volete, padre. (Al parroco) Vi dò un mese di avviso per il mio licenziamento, da oggi, reverendo. Il Parroco — Non vorrete farmi questo, Rosieanne. Shaughnessy — Il vostro licenziamento è accettato. E ora andate. (Rosieanne esce con culmo. Il parroco la segue con lo sguardo) Quella donna è un’insolente. Sarei lieto di avere qui la mia domestica, se fosse pos sibile. I l Parroco — Ma io... io sono abituato con Rosieanne. Shaughnessy — Ed io non posso abituarmici. I l Parroco (timoroso) — E allora dovremo prenderle tutte e due. Shaughnessy (cupo) — Lasciamo andare, per ora. Ci sono cose molto più importanti da discutere. Per primo questi libri che ho trovato in biblioteca. Il Parroco — A quanto vedo, non ce ne saranno ri masti troppi. Shauchnessy — Ce n’è sempre abbastanza. (Pausa) Un’immoralità incredibile. Le bassezze di Swift, l’umo rismo sacrilego di Bernard Shaw, le furie di un presun tuoso chiamato Ibsen... Un mucchio di bestemmiatori anticattolici. E inoltre, non ho ricevuto che risposte sfacciate e impertinenti da quella ragazza che voi avete IL CORSIERO BIANCO nominata assistente nella biblioteca, al punto che con l’aiuto del signor Giolia Phadraig, il giudice distret tuale, l’ho fatta immediatamente sospendere. I l Parroco — In nome di Dio, parlate di Nora Fintry? Shaughnessy — Credo che questo sia il nome. I l Parroco — E l’avete anche espulsa dalla squadra sportiva? Shaughnessy — Proprio. La morale dev’essere man tenuta e le leggi spirituali rispettate. (Pausa) Vi ren dete conto della triste situazione di questa parrocchia? I l Parroco (debolmente) — Ma sono poveretti, e non si può cavare sangue dalle pietre. Shaughessy — Non è di questo che parlo. Io parlo della rilassatezza morale, dell’indifferenza spirituale e di un generale regresso della moralità. (Batte sul tavolo con la matita) Non mi piace tutto questo, e non è il caso di parlare dolcemente. I l Parroco — Può darsi che ci sia un po’ di ostina tezza, ma, in fondo, è tutta brava gente. Shaughnessy — Niente affatto. E’ una vecchia opi nione che non regge più. Abbiamo nuovi nemici da com battere, l’irreligiosità e l’ateismo militante. Per tacere dei quattro matrimoni forzosi che ho dovuto celebrare da quando sono qui! I l Parroco — C’è stata sempre una percentuale di debolezza umana in ogni comunità, fin dal tempo in cui Davide trascinò Betsabea fuori del bagno. Shaughnessy — Non posso accettare queste ragioni. Ho intenzione di lavorare in stretto accordo con la legge civile e fare pieno uso dei miei poteri. Ho già annunziato pubblicamente che mi rifiuterò, in qualsiasi circostanza, di battezzare figli illegittimi o nati da un matrimonio misto tra cattolici e protestanti. I l Parroco — Ma è un successo! Non si può fare della religione un codice di leggi imposte con la paura di Dio! Shaughnessy — Anche se fosse soltanto un codice di leggi, sarebbe preferibile a una pozzanghera passionale. Qui i sentimenti dominano nella forma peggiore, e go vernano il cervello, l’anima e il cuore. Non pretende rete che io tolleri questa situazione! I l Parroco — Sarà vero, ma io ho sempre fede in questa povera natura umana e nell’eterna grazia di Dio. Sono un vecchio cieco e ho il pelo strappato dai venti e dai morsi, ma conosco le tenebre e so riunire il gregge in torno a me, e condurlo all’ovile. Shaughnessy (calmo) — Credo di annoiarvi, padre, e vedo che non state bene. I l Parroco — Niente affatto, sono in ottima forma, invece. Shaughnessy — Vi farò portare un bicchiere di latte caldo da Rose. I l Parroco (ruvido) — Vi ringrazio, ma il dottore mi ha proibito quel goccio di vino che bevevo e non ho proprio voglia di sostituirlo col latte. E’ una bevanda per le vecchie nonne. Shaughnessy — Bene, come volete. (Pausa) Cono scete un uomo chiamato Michael Shivers? I l Parroco — Ma certo, chi non conosce Mick? Ha l’albergo Stella Maria, giù al molo. Shaughnessy — Non viene a messa quasi mai. I l Parroco — Può darsi, ma se c’è imi tetto qui, sulla vostra testa, lo dovete a lui. Shauchnessy — Sulla «vostra» testa. I l Parroco — Va bene, sulla mia testa. Shaughnessy — E vi pare che sia una ragione per giustificare la sua mancanza dalla messa? I l Parroco —- Spesso in questi casi il tempo e la grazia di Dio aggiustano le cose senza che noi dobbiamo in tervenire. Shauchnessy — Ma non è cosa da tollerare, e come questa ce ne sono mille altre nella parrocchia. I l Parroco — Non crediate che io parli per contrad dirvi, ma voi pretendete un’esattezza matematica nelle cose spirituali e non potrete mai ottenerla, nè qui nè altrove, ma soprattutto mai qui, in Irlanda. In questo nostro paese, con tutto il rispetto per le vostre idee e per le leggi del Governo, il popolo è e rimarrà fonda mentalmente libero. Voi volete sostituire al loro vecchio amore di Dio, sorto e rafforzato nel sangue e nel fango di una vita dura, il terrore di Dio, che renderà inari dite le loro esistenze. Se questo è il vostro scopo, andate in Scozia, dove si è pesata al millesimo ogni parola della Bibbia e si è privata la vita di ogni bellezza, ren dendo la Bibbia stessa il più dannoso di tutti i libri. Shaughnessy — Io non discuto di un paese prote stante. Ma voglio sapere se voi siete con me o contro di me. I l Parroco — Io non vedo il motivo di questa vostra manìa riformatrice. Shauchnessy — E potete dire questo dopo che quattro ragazze nel mese scorso sono state costrette a sposarsi e che tre o quattro matrimoni sono avvenuti tra cattolici e protestanti, e che perfino il maestro corteggia una ra gazza protestante? Io lo farò destituire, se sarà necessario. I l Parroco (riscaldandosi) — Voi non potete far questo. Shauchnessy — E chi me lo impedisce? I l Parroco —• Ma se quel poveretto ha una tale paura del suo avvenire che chiede l’elemosina per noi alla porta della chiesa e mi aiuta durante le funzioni e dopo suona perfino l’organo! Non sapremmo come fare senza di lui. Shaughnessy — Non c’è niente di straordinario che un maestro faccia questo per la chiesa. Lo farà il suo successore. I l Parroco — Non lo credo. E se, come uomo, è un debole, come maestro è prezioso. Shauchnessy — Sarà ancora migliore quando avrà risolto la sua posizione. L’ho mandato a chiamare. I l Parroco — Volete dire che verrà qui? Shaughnessy — Ma certo. Questa casa dovrebbe es sere il centro di ogni attività morale. I l Parroco — E voi permetterete che venga qui a stri sciare e a piagnucolare mentre io non mi sento bene? Shaughnessy — Non posso fare altrimenti. Ho anche riunito qui il mio Comitato di vigilanza per il rapporto settimanale. Se volete, vi farò condurre nella vostra camera. I l Parroco — Non è possibile tenere acceso un fuoco in camera e un altro qui e un altro in cucina. Nè io posso starmene al freddo per il Comitato di vigilanza. Shaughnessy — E allora, perchè non accettate l’offerta del vescovo di ritirarvi in pace nella Casa dei vecchi sa cerdoti, vicino a Dublino? I l Parroco (irato) — Io non accetterò mai una simile offerta e non sono un vecchio sacerdote. Io non ho PAUL VINCENT CARROLL che 67 anni e sono sano come un pesce, se non fosse che per le gambe. (Entra Rosieanne). Rosieanne (al parroco) — Per favore, padre, Phelim Fintry vorrebbe dirvi una parola. I l Parroco — Di nuovo? Fatelo entrare, Rosieanne. Se a voi non dispiace, padre. Shaughnessy — Affatto. (Rosieanne esce) Io desidero parlare con chiunque in piena amicizia. I l Parroco — Acc...! Povero Phelim! Shaughnessy — E’ il padre di quella ragazza Nora Fintry? I l Parroco — Già, ed è la sua unica figlia. Era im piegata in Inghilterra in una biblioteca, poi tornò a casa ed ebbe il posto qui. Sua madre morì di parto e Phelim non volle mai darle una matrigna. Shaughnessy —• Ho dovuto sospenderla per la sua impertinenza nella biblioteca e ho trovato che eserci tava una cattiva influenza nella squadra sportiva. L’In ghilterra non le ha fatto alcun bene. I l Parroco — E’ facile dare la colpa di tutto all’In ghilterra. Se l’Inghilterra non esistesse, i moralisti di qui l’inventerebbero. (Rosieanne rientra seguita da Phe lim Fintry., un mite campagnolo di mezza età). Rosieanne — Ecco Phelim, padre. I l Parroco — Vieni, Phelim, siedi accanto a me e par liamo un po’. Phelim (prendendo lentamente una sedia e fissando il parroco) — Mi dispiace di vedervi così, padre. I l Parroco — Beh, guarirò presto, non dubitare. Co nosci padre Shaughnessy? ¡Phelim — L’ho incontrato una volta. Io sono venuto, signor parroco, a domandarvi che cosa ha fatto di male mia figlia Nora per esser cacciata dalla squadra spor tiva e poi dalla biblioteca. Shaughnessy (interponendosi) — Nora è stata sospesa per impertinenze insopportabili in una ragazza irlandese e fu espulsa dalla squadra da me per essere venuta meno a una delle regole dell’Associazione. Phelim —«Posso domandarvi quale regola, padre? Shaughnessy — La regola, buon uomo, che proibisce a -ogni membro della squadra di rimanere in compagnia con un uomo. Phelim — E perchè, è diventato forse un delitto per una donna fatta, come Nora, di cercare questa com pagnia? Shaughnessy —■No, Phelim, non è un delitto, ma le strade solitarie e i ponti oscuri lungo la costa non sono i luoghi adatti per dei fidanzati cattolici, e una simile condotta (non può essere tollerata. Phelim — Potete dirmi allora un posto migliore, padre? Shaughnessy —■ Come buon cattolico non dovreste aver bisogno che vi si dicesse che tale posto è la vostra stessa casa. Phelim — Conoscete la mia casa, padre Shaughnessy? Shaughnessy — Non posso dirlo ancora. Phelim (quasi supplichevole) — E’ una casupola con due stanze biancheggiate, costruita più di cento anni fa, con un pavimento di pietra che ha ucciso mia moglie dalla fatica. Io dormo in cucina in una specie di scatola e mia figlia nell’altra stanzetta. Ha un letto di legno e delle coperte vecchie, e i pochi mobili sono rovinati dal tempo; c’è una tendina dietro a cui Nora appende le sue poche robe buone, un vestito blu, qualche paio di calzette e un abituccio da ballo da pochi soldi. Essa potrebbe mo strarvi tutto ciò, padre, perchè un ministro di Dio capi rebbe, ma come donna è impossibile che voglia far vedere queste cose a un giovanotto come Dermot Corr. Shauchnessy — Queste cose sono di importanza minere e io mi preoccupo di fatti ben più gravi. Sta a voi, Phelim Fintry, di dirmi se siete con me o contro di me in questa mia lotta di epurazione della nostra par rocchia. Phelim (in uno scatto) — Bene, padre, se volete sa pere da che parte sono, io sto dalla parte del mio sangue. I l Parroco — Mi meraviglio, Phelim; che modo di parlare è questo? Shaughnessy — Avete detto abbastanza, Phelim Fin try. Potete andare. Phelim — Io me ne andrò quando avrò ottenuto quello che voglio. Shaughnessy — E che cosa volete, se non disordine e immoralità? Phelim — Io sono venuto per il buon nome di mia figlia ma vedo che questo non è possibile, e mi conten terò di meno. Prenderò la somma del mio credito per le verdure che vi mando da quindici anni. Mi aiuterà a fare la stanza di Nora adatta per i suoi amici. (Si ode bussare. Nora Fintry entra con aria di sfida. E’ una bella ragazza sui venti anni, calma e pensosa, ma di spi rito ardente — Tu non devi parlare così, hai capito? (La scuote) Devi star zitta, hai capito, o ti metterò fuori di casa! i Dillon (conciliante) — !Nora, datemi ascolto... Nora —- State lontano, Dillon. Un giorno vi ho chia mato verme. Chiedo scusa a quel verme. Non siete che un pidocchio. (Dillon si ritira angoscialo). Shauchnessy — Voi dovete sopportare tutto questo, signor Dillon, in assoluta umiltà. Dillon — ,Sì, padre. Shauchnessy — Quale servo di Dio, Nora Fintry, io sono tre volte obbligato ad essere paziente e tollerante. Sarah — Povero padre! Vergognatevi, sfacciata! Shauchnessy — Io vi permetto di presentarvi domani alle cinque davanti al Comitato per compiere un atto di umiltà e dichiararvi fermamente risoluta a non rive dere mai più quello Shivers. In caso che voi rifiutaste, dovremo prendere immediati provvedimenti. Phelim — Vi rispondo per lei, padre. Verrà. Shauchnessy — Deve dirlo lei stessa. Nora >— Io non ci verrò mai. Io non sono la figlia di uno schiavo, ve l’ho già detto. Shauchnessy — Il male assimilato in terra pagana è radicato in te, o donna. Nora — Oh, non è stata l’Inghilterra a darmi il mio PAUL VINCENT CARROLL carattere, ma questa terra stessa, dove Aideen andò in battaglia a fianco del suo amato, ed Ossian tornò in dietro sul corsiero bianco di Niam, e pianse sul paese formicolante di uomini meschini, come questo maestro disgraziato, e di preti spietati, come voi! Ed è per que sto che io mi rifiuto di presentarmi al vostro Comi tato e di ingoiare l’antica bevanda di schiavitù! (Sarah Hearty si slancia improvvisamente avanti e afferra Nora furibonda). Sarah — Sgualdrina maledetta! Io non ti lascerò in sultare il prete in mia presenza, con la tua lingua dan nata ! (Nella sua furia getta Nora in terra. Padre Shaughnessy interviene troppo tardi). Shauchnessy (a Sarah) — Lasciatela! Come vi per mettete?! (Egli si china e gentilmente aiuta Nora a rialzarsi. Ella scuote la testa e si riaggiusta) Vi ha fatto male, figlia? (Si guardano l’un l ’altro). , Nora (lentamente) — Non ha importanza. Shauchnessy — Ne ha molta, invece. (A Sarah) Sarah Hearty per questo oltraggioso atto d’insubordina zione voi siete espulsa immediatamente dal Comitato. Sarah (protestando) — Ma, padre, è una cosa ter ribile! Shauchnessy -— Andate via! E subito! (Le indica la porta. Ella esce). Sarah (sulla porta, volgendosi) — Ma la conosco io; ha battuto i marciapiedi in Inghilterra ed è possibile che Una donna senza scrupolo come lei e «l’uomo senza paura » siano la stessa persona. E’ proprio possibile. (Esce). Shauchnessy (lentamente) — Faremo meglio a can cellare tutto ciò dalle nostre menti. (Si mette il cap pello preparandosi ad uscire) Io vi lascio la chiave della porta suprema della salvezza, Nora Fintry. Sta a voi di non gettarla. (Nora senza guardarlo va nella sua ca mera, e suo padre la segue quietamente. Mentre il prete sta per andarsene, si ode bussare. L’ispettore Toomey entra togliendosi il berretto). Toomey > — Mi hanno detto alla parrocchia che vi avrei trovato qui, padre. Shauchnessy — E’ successo qualcosa? Toomey — C’è stata un’aggressione molto seria all’al bergo Stella Maria, quello del signor Shivers. Patrick Hearty ha voluto entrare per forza nel locale dopo l’ora della chiusura e Shivers l’ha buttato fuori. Shauchnessy (accigliandosi) — Una notizia alquanto inesatta, probabilmente, o forse deliberatamente ine satta. Hearty aveva esibito la tessera nell’entrare? , Toomey — Cosi ha detto, ma Shivers ha risposto che non avete alcuna autorità per dare ordini che sono di competenza soltanto della polizia. Shauchnessy — Imparerà a sue spese come stanno le cose. Toomey •— Devo ricordarvi, padre, che soltanto la polizia ha il diritto di entrare dopo la chiusura. Shauchnessy — E che somma ricevete per non en trare? Toomey — Che somma! (Irato) Di chi intendete par lare? Shauchnessy (torvo) — Di tutti voi. Toomey — Io non permetto che si dica questo, e che voi vi approfittiate della vostra posizione privilegiata per parlare così. Shauchnessy — E io non tollero la vostra insolenza. Toomey — E’ un abuso che non posso permettere. Ogni volta che scoprirò i vostri cosiddetti poliziotti in locali pubblici, dopo l’ora della chiusura, li denuncerò per violazione di legge. Shauchnessy — Ed io saprò come comportarmi in tale caso. Ma fin da ora vi avviso... Toomey — Io non ricevo avvisi che dai miei supe riori. Il mio dovere è di dirvi soltanto che Patrick Hearty ha creduto di querelarsi contro il signor Shivers per aggressione. Shauchnessy — Perfettamente giusto. Toomey —- Giusto o no, sarete chiamato a testimo niare. Shauchnessy — Sarà un gran piacere per me, data la posizione ufficiale del signor Hearty nel mio Comitato di vigilanza. Chiederò una condanna esemplare. Toomey (nell’andarsene) •—• Se questa è la legge, sarò rimbambito. Shauchnessy (bieco) — Nessuno si opporrà alla sua condanna. (L’ispettore si rimette il berretto con ira ed esce. Dillon viene avanti impacciato). Avete udito, signor Dillon? Dillon — Tutto, padre. Shauchnessy —- Lettere minatorie prima, ed ora l’aperta violenza. Ma non dobbiamo scoraggiarci. Dob biamo procedere inflessibilmente. Voi mi sarete a fianco nel processo. Se noi vinciamo, sarà un evento di un valore incalcolabile. E noi dobbiamo vincere. Dillon — Sarà il riconoscimento ufficiale della no stra polizia morale, padre. Shauchnessy — E molto, molto di più. Mogiolla Phadraig è un ottimo amico. (Esce. Dillon guarda dietro di Itti poi si dirige lentamente verso il fuoco. Si getta a sedere pesantemente, nascondendo la testa fra le mani. Phelim e Nora entrano dall’altra stanza). Phelim {parlando mentre entra) — Lo vedi che suc cede, bambina mia! Non viene niente di buono dal liti gare, mai. Vuoi tornare in Inghilterra, Nora? Nora — Te l’ho già detto, babbo; io voglio restare dove sono nata. Phelim •— Avrai da combattere. Nora — Difenderò quello che è mio. Ci sarà pur qualcuno che dovrà farlo una volta. Phelim — Tu lo sai se ti voglio bene, Nora, ma tu non puoi continuare a stare in lotta col prete e a vivere con me. E’ contro la mia coscienza, è contro tutto. Nora — E allora dormirò all’albergo di Shivers. Cosi; potrai liberarti meglio di me. Phelim — Non è giusto parlare così, Nora. Nora — E va bene, facciamo come se non l’avessi' detto, allora. Phelim — Nemici, sempre nemici, da tutte le parti. Ora perfino tuo padre è un nemico per te. (Cammina lentamente attraverso la scena, angustiato) Andrò a par lare col vecchio parroco. Forse lui mi capirà. Posso dir gli che tu pure vuoi parlargli? Nora — Sì! Phelim — Ti ricordi, ti chiamava Noreen. Ti diceva « Sei troppo seria, Noreen. Salta e gioca; alla tua età, come una musica di gioia », ma tu preferivi di startene seduta sul davanzale e sognavi d’essere la bella Niam sul suo corsiero bianco. IL CORSIERO BIANCO Nora — Il mio corsiero bianco! (Guarda dinanzi a Dillon (prendendole le mani) — Grazie, Nora! Gra se, e un’emozione profonda la invade) Come vorrei zie di queste parole. Voi non sapete quanto valgano aspettarlo ancora in un sentiero fatato, in mezzo ai per me. (Lentamente Nora avvicina la testa a quella di campi... Ma un giorno un vecchio che passava mi disse lui e gli sfiora i capelli). che l’aveva visto vendere a un piccolo misero uomo Nora — E’ questo che volevate? alla fiera di Mullacrew... e da quel giorno io... ho odiato Dillon — Sì, ed è come se mi levassi da un sepolcro. per sempre ogni cosa piccola e misera... (La sua voce si Un sentimento strano e terribile. Quando avete sputato frange; una lunga pausa} Non far pagare al parroco il sul pavimento, stasera, quando io v’ho tradita, ho com conto di quelle verdure, babbo. E’ un peccato fare del preso in un momento che avrei potuto innamorarmi male a un vecchio. di voi. (Quasi singhiozzando) Non mandatemi via, non Pheum — Ma, certo, è stato in un momento di rab fatemi tornare un miserabile, uno schiavo di tutti... bia. Non ci penso già più. (NelVandarsene) Che Dio Portami via sul tuo corsiero bianco, Nora! m’aiuti, con questa figlia che non riesco a capire. (Esce. Nora — Ogni uomo, Denis, deve innalzarsi da sè, sul Nora si guarda dinanzi come in un sogno}. suo corsiero bianco. Nora — Niam e il suo corsiero bianco... « E quando Dillon — Ed è questo che temo; non riuscirò mai a scorse Ossian, cosi bello e forte, saggio e gentile, si liberarmi, mai! Io sono un piccolo uomo, come quelli senti invasa dal più grande amore e con le dolci mani, che Ossian trovò al posto degli eroi, quando venne a. appassionatamente si strinse nel mantello d’oro e fece cercare suo padre. Aiutami, Nora! posto a lui, accanto a lei, sul suo corsiero bianco ». Nora —1 Che posso fare, Denis? (Nora abbassa lo sguardo e scorge la miserabile forma Dillon — Darmi coraggio. Io voglio vincere questa di Dillon, con il capo ancora tra le mani) E voi, «uomo paura che mi incatena, voglio avere la forza di affron-. senza paura», non volete tornare più a casa? tare gli uomini, ed anche i miei padroni, senza tremare Dillon — Perchè mi chiamate così? innanzi a loro. Nora — E’ un nome che vi siete dato da voi stesso, no? Nora — Ma domani sarete come prima. Quando vi Dillon — Solo quando mi ubriaco. diranno « vieni » verrete, e quando vi diranno « vai » Nora —■Disgraziato! andrete. Dillon (alzando lentamente il capo) — Guardatemi, Dillon —- E’ vero. La paura mi riprende, fin dal mo Nora. Io sono un essere disprezzabile, è vero, un mise mento in cui mi sveglio, quando guardo quei santi rabile. Ma se poteste vedere dentro di me! minacciosi sopra il mio capo, quando guardo fuori dalla Nora — Volete forse che abbia pietà di voi? finestra e vedo i muri della casa del prete, e quando Dillon (quasi piangendo) — Una parola di simpatia, metto la chiave nella porta della scuola. E la mia sola almeno una sola! Ne ho tanto bisogno! (Pausa); gioia è nel sognare cose che cadono, cose ohe bruciano, Nora (guardandolo) — Dio mi perdoni, ma il solo cose che io stesso distruggo. Ecco quello che sono! (Pausa). desiderio che mi viene è quello di prendervi a calci. Nora — Anch’io ho provato sempre un gran piacere a (Un impeto improvviso Lassale) Alzatevi e uscite, prima rompere le cose. Guardate, Denis, anch’io ho sopportato che vi ammazzi! Uscite fuori, fuori di qui! Dillon (alzandosi e scansandosi) — Sì, sì... me ne per anni la vista di quelle tazze, come voi quella dei vostri santi. Sono grosse, rozze, stupide e antiche, ricordi vado. Me ne vado subito. Dio, che occhi che avete! Senza pietà, senza misericordia! Vorreste farmi a pezzi, di famiglia! Le odio come se m’avessero fatto del male. (Pausa) Dite, vogliamo farle in mille pezzi? (Si guar, non è vero? dano l’un l’altro). Nora (tra i denti) — Sì, sì, battervi a sangue! Dillon — Ma siete pazza! Phelim si arrabbierà terri, Dillon — Solo una vergine ferita come voi, aspra e spietata può parlare così! Una donna avrebbe preso il bilmente ! Nora — Lo sapevo che l’avreste detto. (Prende una mio capo tra le mani e mi avrebbe mormorato qualche tazza, la tira contro il muro e la fracassa) Ecco qui! parola di tenerezza. Nora — Siete furbo, voi, con tutta la vostra vigliac (Ne lancia un’altra) E due! (Egli la guarda affascinato, le corre vicino, prende un’altra tazza e la tira). cheria. Dillon — E tre ! Dillon — Tutti i vigliacchi sono furbi. Se fossi stato Nora (lanciando) — Là! ubriaco vi avrei detto molto di più. Non per niente Dillon (lanciando) — E anche questa! me ne sto a bere e a leggere tutta la notte quando il Nora (lanciando) —* E’ l’ultima! Ah, è meraviglioso! mio santo maestro dorme nella parrocchia! (Pausa) Ma anche voi sognate, sognate di correre lontano, di fug Mi sembra di sentire il sangue dei miei nemici, il san gire dal Papa e dal Re su di un corsiero bianco, e ab gue di tutti i maledetti che mi hanno imposto le loro bandonare gli uomini meschini e i preti come loro. Non leggi, dicendomi di amarle e di odiare la vita. A me, che ho la forza di un gigante ed il riso di un re! (Si ab. siamo un poco uguali, dopo tutto? Io mi ubriaco di bandona ad una gran risata, poi improvvisamente ritorna « whisky » e voi di sogni, e siamo tutti e due qucll’Irlanda nascosta che i poeti non hanno ancora cantato; seria. Dillon e Nora si guardano, accalorati, con gli oc, chi scintillanti. Poi, senza parlare, si avvicinano e si un fantasma di quel mondo che esisteva prima che gli uomini meschini venissero coi loro preti da terre d’ol abbracciano appassionatamente, mentre scende il sipario), tremare. (Pausa. Si guardano l’un l’altro). Nora (dolcemente) — Forse avete ragione, Denis. ^ d e l se c o n d o Forse non siamo tanto diversi. - U T r a © I T Q U A D R O P R IM O La stanza della casa parrocchiale, come nel primo atto. Una settimana dopo. (Il parroco Lavelle è addormentato nella sua pol irono, col capo sul cuscino. Respira pesantemente. Rosieanne e Meg Magee, una domestica maligna con i ca pelli rossi, relativamente più giovane di Rosieanne, fatta venire da padre Shaughnessy, stanno spolverando. Quan do Meg ha spolverato un mobile, Rosieanne viene a spol verarlo un’altra volta. Ambedue si guardano in cagnesco). Meg (irosa) — L’avevo già spolverato io. Rosieanne (irosa) — E io lo rispolvero. Meg — Se non la smetti ti spolvero io la faccia. Rosieanne — Provaci, carota. Meg —• Brutto sacco di ossa vecchie... (Si azzuffano e cominciano a strapparsi i capelli. Il parroco sussulta e borbotta). I l Parroco (assonnato) — Dai fulmini e dalla tem pesta liberaci, o Signore. Io... (Sbadiglia) Rosieanne, dove siete, Rosieanne! (Le due donne smettono di liti gare. Rosieanne si riassetta e gli si avvicina). Rosieanne (con dolcezza) — Vi siete svegliato, padre. Avete fatto un buon sonno? I l Parroco —- Buon sonno per niente. Sono mezzo morto di fame. C’è almeno un po’ di tè in casa? Rosieanne — Ve Io porterò subito, appena avrò com prato un po’ di latte. La signora Whelan non ci manda più il latte e nemmeno il burro fatto in casa. I l Parroco — E perchè? Rosieanne —• Ecco, padre, il reverendo Shaughnessy si è rifiutato di battezzarle il figlio perchè lei ha sposato un protestante e quindi, per vendetta, non ci manda più il latte nè il burro. I l Parroco (addolorato) —- Oh, che brutta notizia, Ro sieanne... E non mi faceva pagare nemmeno un soldo... Rosieanne — Non ci resta che comprare quel burro grasso che vendono, padre... I l Parroco (lamentandosi) — E’ inutile cercare di cu rarsi se mi condannano a morire di fame... E’ tornato padre Shaughnessy? Rosieanne — E’ andato in tribunale, padre, per quel processo contro Shivers, che ruppe la mascella a Patrick Hearty. I l Parroco —• Se l’avessi avuto io sottomano, gli avrei rotto anche qualche altra cosa. Ed eccomi qua, senza nemmeno un briciolo di quei bei cavolfiori di Phelim o una goccia di latte che non sia acqua; e quel burro che fa risuscitare i morti. (Pausa) Non c’è proprio niente da mangiare insieme al tè? Rosieanne — Ora che e9eo per il latte vi comprerò una focaccia di frutta, col liquore e l’uva secca. I l Parroco — Andate subito, allora, e non fermatevi a chiacchierare. Non dimenticatevi di me. Rosieanne — State sicuro, non parlerò nemmeno con me stessa. (Esce in tutta fretta. Meg spolverando si av vicina al parroco). Meg (dolcemente) — Vi sentite meglio, padre? I l Parroco (evitando di guardarla) — Certo, non sono mica malato io, solamente le gambe non mi reggono. Meg — E’ una vergogna che dobbiate mangiare quelle vecchie focacce che si vendono in giro. Le fanno con gli avanzi, e qualche volta ci si trovano dentro perfino i ragni e le mosche. I l Parroco — Dite sul serio? Meg —- Ma certo, padre. (Pausa) La cosa più sicura è prepararsela da sè. Io ho imparato a cucinare in In ghilterra. (Pausa) Proprio ora ho preparato dei pastic cini caldi per padre Shaughnessy. Potrei portarcene qual cuno, padre, con una tazza di tè. Il Parroco (indeciso) — Ma... sarebbe bello, Meg. Vi ringrazio, ma, forse, è meglio di no. Non voglio che Rosieanne si offenda. Mec — Come volete, padre. (Pausa) Sono imbottiti di crema di fragola in mezzo e tutta marmellata intorno. I l Parroco (inghiottendo) — Non me lo dite! Devono essere squisiti! Meg — Certo, padre, e se fossi in voi... I l Parroco — Beh, beh, in nome di Dio, andate, pre sto, ma non fatevi vedere da Rosieanne. Meg (trionfante) — Subito, padre, tornerò in un istan te, e vedrete che non se ne accorgerà. (Esce da sinistra. Il parroco rimane a disagio. Ascolta di qua e di là, si gratta la testa, ecc. Padre Shaughnessy entra da destra, gettando da un canto il cappello. E’ eccitato c trion fante). Shaughnessy — Dormite, padre? I l Parroco — No, ma muoio di fame. Avete saputo che la signora Whelan non ci manda più nè il latte nè quel suo magnifico burro? Shaughnessy (con un gesto di impazienza) — Inezie, inezie. Abbiamo vinto una battaglia, oggi, che è decisiva per tutta l’Irlanda! I l Parroco — Molte battaglie sono state combattute per l’Irlanda, e non tutte le hanno fatto del bene. Shaughnessy — Ma non sarà così stavolta, padre. Noi abbiamo vinto la nostra causa e Shivers è stato con dannato a una multa di cinque ghinee o a trenta giorni di carcere. Voi capite cosa vuol dire questo? I l Parroco —• Che le elemosine per la parrocchia diminuiranno. Shaughnessy — Significa il riconoscimento ufficiale, da parte dello Stato, del nostro Comitato di vigilanza; un nuovo corpo di polizia morale che ricondurrà il paese alla sua tradizione cattolica. Domani in ogni par rocchia funzioneranno Comitati come il nostro. E’ que sta la soluzione di ogni problema della gioventù in Irlanda. I l Parroco — Avreste dovuto essere un presbiteriano, voi, nato in Dcozia e allevato con farina di avena e calvinismo. Quand’ero giovane, io, prima di farmi prete, passeggiavo con la mia ragazza per i viali e la baciavo, e presi a pugni Geremia Duggan sulla strada perchè tentava di fare lo stesso con lei. E quella stessa ragazza è diventata un’ottima moglie e una figlia di lei si è fatta monaca. Non mi sembra una cattiva riuscita per quella che voi avreste chiamato una sgualdrina. (Entra Meg, da sinistra, con dei pasticcini caldi e il tè sopra un vassoio). IL CORSIERO BIANCO Shaughnessy — Non mi sembra dignitoso, padre, par lare di queste cose. I l Parroco — Io credo che il Signore non giudichi come voi. Per conto mio, vorrei avere solo un poco della fede della vecchia Mary Cassidy. (Odorando i pa sticcini) Oh, Meg, questo sì che è un buon odore! Meg — Ho messo un poco più di marmellata in cima, padre. I l Parroco — Lo vedo, Meg. Siete un vero genio. Meg — Grazie, padre. Ci penserò io, che non vi man chino mai i cibi cotti bene e saporiti. Il Parroco — Grazie, Meg, ma vi raccomando, non litigate con Rosieanne. Meg — Io no, padre, se non comincia lei. I l Parroco (dubbioso) — E’ proprio questo che ho paura... Meg —■Devo portare il tè anche per voi, padre? Shaughnessy — I pasticcini non hanno importanza. Meg — Bene, padre. (Esce da sinistra, offesa). I l Parroco — Non potreste essere un po’ gentile e non farle dispiacere? I suoi pasticcini sono veramente deliziosi. Shaughnessy — Meg dovrebbe conoscermi, ormai. Devo sbrigare queste carte per il Comitato, padre, e vi prego di lasciarmi lavorare. I l Parroco — Ma sì, andate avanti con i vostri libri mastri spirituali; io credo ancora che Dio sia un poeta. Oh, che magnifico pasticcino; speriamo che non mi si metta sullo stomaco. (Padre Shaughnessy fa un gesto d'irritazione) Avete mai notato che le nostre ragazze non valgono un soldo se non hanno passato qualche anno in Inghilterra? Shaughnessy — Non mi pare, ma se è così, cambie remo anche questo. (Continua a lavorare). I l Parroco — Se io non fossi così vecchio, invece di preoccuparmi tanto della morale, formerei delle scuole per tutte le ragazze e insegnerei loro a "cucinare e a ba dare alla casa e a non sprecare la parte più nutriente delle verdure, come si fa adesso. Shaughnessy (spazientito) — Vi prego, padre! (Il parroco lo guarda e tace. Rosieanne entra da sinistra. Il parroco con aria colpevole mette da parte il vassoio). Rosieanne — Ecco il latte, padre, e una bella focaccia di frutta con l’uva secca e... (Si ferma improvvisamente, guarda il vassoio, poi il parroco e infine scoppia a pian gere come una bambina. Il parroco la guarda avvilito. Padre Shaughnessy la fissa sbalordito). I l Parroco (lamentosamente) — Ecco, Rosieanne, ve dete... Io... ho avuto una fitta alla gamba e... Shaughnessy — Ma che sono queste storie? Uscite subito... Rosieanne — Me ne vado, me ne vado, padre, me ne vado in questo momento. Non ci resto un minuto di più. (Esce da sinistra, ancora piangendo). Il Parroco — Aspettate, aspettate; sentite. Non potete farmi questo. Vi spiegherò, io... (Spinge la poltrona a rotelle ed esce dietro a lei, gesticolando). Shaughnessy (sedendo di nuovo) — Ma quando mi libererò da questo vecchio noioso! (Entra Meg). Meg — C’è il signor Shivers, padre, il padrone dell’al bergo Stella Maria, che vuole parlarvi. (Shivers appare sulla porta. E' un uomo grande e grosso, rozzo, ma ca pace di impulsi generosi se trattato per il suo verso. Guarda padre Shaughnessy con aria di sfida). Shaughnessy (sorpreso, ma dominandosi) — Buon giorno. Meg — Chiedo scusa, padre, ma posso domandarvi se volete il vostro tè? Shaughnessy (brusco) — Non ve l’ho già detto prima? Meg — Ma è per i pasticcini; perderanno tutto il sapore, padre. Shaughnessy (autoritario) — Portatemi qui quei pa sticcini. (Ella fa un inchino ed esce da sinistra. Shau ghnessy si volge a Shivers) Potete accomodarvi, signor Shivers. Vi ascolterò subito, scusate. Shivers (sedendo con disinvoltura) — Oh, fate pure. (Mentre Shivers siede, Meg bussa e porta il tè, con i pasticcini fumanti, un po' spaventata, ma orgogliosa del lavoro). Meg — Eccoli, padre. Sarebbe stato un peccato farli sciupare. (Padre Shaughnessy con calma prende il vas soio, va alla finestra, l'apre, getta fuori i pasticcini e ri torna con il vassoio vuoto). Shaughnessy (porgendo a Meg il vassoio) —1Questo perchè impariate che niente di tutto ciò ha valore, e che solo il mio lavoro è importante. Ed ora andate e lasciatemi lavorare. Meg (a voce bassa con le lagrime agli occhi) — Sì, padre. (Esce mortificatissima. Padre Shaughnessy ag giusta qualche carta e si rivolge con voce perfettamente calma e senza ostilità a Shivers). Shaughnessy — Ed ora, signor Shivers, scusatemi se vi ho fatto aspettare, ma questi casi di disciplina sono molto importanti. Shivers — Non fraintendetemi. (Mette il cappello sul tavolo e guarda Shaughnessy in faccia) Padre Shaugh nessy, voi sapete bene quanto me che la sentenza di Mogiolla Phadraig che dà ragione a Patrick Hearty per essere entrato nel mio locale dopo la chiusura, è tutta una bestialità. Shaughnessy — Mi dispiace, signor Shivers, ma non sono d’accordo con voi. Shivers (picchiando sul tavolo) — Benissimo, padre. L’unica via che mi resta allora è di difendere il mio diritto con tutti i mezzi. Shaughnessy (alzandosi e opponendoglisi) — In ugni Paese ci sono stati degli uomini che si sono opposti ai pionieri. Ma la storia ci dimostra che questi uomini sono stati sempre spazzati via. Non vi dirò altro. Shivers — Avete già detto abbastanza. (Si guardano fissamente; si ode bussare e l'ispettore Toomey entra). Toomey — Permettete una parola, padre Shaughnessy? Shaugnessy (dopo una pausa) — Dite. Toomey — Voi conoscete la ragazza Nora Fintry. Shaughnessy — Certo. Appartiene a questa parrocchia. Toomey — Prima di appartenere alla vostra parrocchia, è una cittadina irlandese, con pieno diritto di cittadi nanza, ed ha chiesto protezione a me contro il vostro Comitato di vigilanza. Shaughnessy — E’ un gesto di nessuna importanza. Toomey — Per me invece è molto importante. Si tratta di stabilire se abbia diritto o no alla sua libertà civile e morale. Shivers — E’ proprio questo che volevo dire anch’io, ma non sono così istruito da saperlo dire. Vi chiedo anch’io la vostra protezione, ispettore. (Pausa. Toomey fissa padre Shaughnessy. Shivers, impaziente, a Toomey) PAUL VINCENT CARROLL Bene, fino a quando dovremo starcene in silenzio ad aspettare la sua risposta? Toomey — Fino a quando lo credo necessario per ar rivare a una decisione pacifica. Io mi sono trovato in mezzo alle rivolte e ho preso parte alla rivoluzione, e so cosa vuol dire l’odio e il rancore. So che significa il desiderio di saltare alla gola del nemico e quanto spesso venga travolto il senso del dovere. Ed io non voglio allontanarmi dal mio dovere. Shauchnessy — Devo intendere le vostre parole come una minaccia, ispettore Toomey? Toomey (cupo) — Io non ho mai minacciato nessuno in vita mia. Le minacce non rientrano nel mio dovere ed io ho fatto sempre e soltanto il mio dovere. Shauchnessy — E dobbiamo per forza esser nemici? Toomey — Sta a voi il dirlo. Io non voglio agire contro di voi, se posso evitarlo. Perchè dobbiamo op porci? Voi limitatevi al vostro pulpito, ed io alla mia legge. In fondo, non sono che due sistemi di costrizione della natura umana. Shaugnessy — Dimenticate un fatto importante nel darmi questo consiglio, ispettore Toomey. Toomey — E quale? Shauchnessy — Che non ve l’ho chiesto. Io devo fare il mio lavoro e lo farò. Domani tutta l’Irlanda farà quello che io ho indicato. Ne sono convinto. Toomey — Va bene, allora. Prendere o lasciare. An diamo, Shivers. Voi e Nora Fintry avete dei diritti ci vili protetti dalla legge e il mio dovere è di farli ri spettare. (Toomey si dirige alla porta con Shivers). Shauchnessy (mentre escono) — Siete andato al di là del vostro dovere, ispettore, ed è tempo che il Ministero della Giustizia ne venga informato. (Mentre essi si guar dano fra loro, padre Shaughnessy si rimette a sedere e comincia a scrivere una lettera. Mentre egli sta scri vendo, il parroco Lavelle ritorna, spingendosi sulla sua poltrona a rotelle). I l Parroco — Se non siete troppo occupato, padre Shaughnessy, vorrei accendere un momento la radio per sentire se Geremia Mulligan ha messo fuori combat timento quello scimmione negro di Chicago, che Dio l’aiuti. Shaughnessy (brusco) — Sto scrivendo un lettera im portante. I l Parroco (rassegnato) — Ah, bene. Spero che l’ab bia messo a terra, in ogni modo, con l’aiuto di Dio. Shauchnessy (irato) — Per favore! (Il parroco so spira. Nora Fintry bussa ed entra con un cestino). Nora (al parroco) — Mio padre ha mandato questo per voi. E’ un po’ di lattuga fresca e dei cavolfiori. I l Parroco — Oh, Nora, grazie; ci stavo proprio pen sando. (Prende il cestino) Siedi, figlia mia, e fammi un po’ di compagnia. Nora (guardando padre Shaughnessy) — Un’altra vol ta, padre, ora devo andare. I l Parroco (triste) — Non andartene, Nora. Non viene mai nessuno a tenermi un po’ allegro, e tu sai che mi piace vedere i giovani intorno a me... Io ero amico di tua madre, Nora... e di tua nonna... Lo sai che da ra gazzo andavo matto per tua nonna? Portava una di quelle cuffiette tanto graziose sui suoi capelli biondi... Perchè non ti siedi un po’, bambina? Nora (teneramente) •— Non posso... Ma non pensate male di me, padre. I l Parroco — Io non penso male di nessuno, Nora. E se anche provo dell’antipatia verso qualcuno, penso che Dio nella sua immensa saggezza lo ha fatto così e... Se tutto il mondo imparasse a pensare così... Nora — Anche io lo vorrei, padre. Shauchnessy (alzandosi e avvicinandosi) — Siete ve nuta per parlare anche con me, Nora Fintry? Nora (gentilmente) — In verità non posso dirlo, padre. Shauchnessy (con umanità) — Non importa. Forse verrete, più tardi. Nora — E’ molto difficile. Shauchnessy — Povera ragazza, così tormentata... Per mostrarvi la differenza delle nostre anime, sarò io a venire da voi. (Si guardano) Suvvia! (Magnanimo) Ho deciso di ridarvi il vostro posto nella biblioteca, ma a due condizioni. I l Parroco — Sia ringraziato Iddio. Nora (lentamente) — Non dovrebbero esserci delle condizioni... (Si fissano ancora). Shaughnessy — Preferisci sfidarmi, allora? Nora — Che significa sfidare? Se la sfida che voi dite è la lotta dello spirito per salvarsi dal grigiore dell’oppressione e per difendere la sua libertà e la sua umanità, allora sì, io vi voglio sfidare. Ma non sono io sola. E’ il cuore ferito del mondo, oggi, che è tutto una sfida. (Scoppia improvvisamente a piangere) Oh, Dio, perchè non vedi! E perchè non vedete! Shaugnessy (irato) -— Io non vedo altro che una donna orgogliosa e intrattabile, che rappresenta uno scandalo continuo fra tutti noi e che io non posso tol lerare! (Si guardano Futi Veltro in atteggiamento di sfida, con le lagrime che brillano negli occhi di Nora e il viso di padre Shaughnessy rigido come l’acciaio, men tre Denis Dillon bussa ed entra). Dillon (nervosamente) — Voi... mi avete fatto chia mare, padre? Io... io non sapevo che Nora fosse qui. (Accorgendosi delle sue lagrime) Ma voi piangete, Nora! (Si guardano stranamente. Gli occhi di Dillon brillano per un momento d’ira. Le porge coraggiosamente una mano ed ella improvvisamente si rifugia sulla sua spalla a singhiozzare). I l Parroco — Portatela a casa, Denis, da bravo. E’ un po’... un po’ agitata. Shaughnessy — E poi ritornate immediatamente. Ho del lavoro per voi. Dillon (ha uno scatto di ribellione, poi ritorna do cile) — Va bene. Nora (guardandolo senza rancore) — Povero Denis. Un giorno troverai la forza di dire quello che vuoi. (Patrick Hearty entra). Hearty — Scusate se sono in ritardo, padre. Avete ordini? Shauchnessy — Sì, per voi e per il signor Dillon. Dillon — Andiamo, Nora. Vi accompagnerò, se lo volete. (Evita di guardarla). Nora (prendendo il suo braccio) — Non temete, Denis. Le forze delle tenebre crolleranno un giorno, in tutto il mondo. (Escono insieme). I l Parroco (guarda dietro a loro, tristemente. A padre Shaughnessy, a se stesso) — Povera figlia... E’ una cosa IL CORSIERO BIANCO tremenda in un paese quando i giovani soffrono... (Guar dando Hearty) Dite, Hearty, è vero che vi siete fatto dare una garanzia per il pagamento della multa di Shivers ? Hearty — E’ vero, padre. I l Parroco — Che Dio vi aiuti. Conoscevo un uomo come voi che si fece dare una garanzia, e dopo uccise la moglie. Shaughnessy •— Padre, questi vostri scherzi sono assolutamente fuori luogo. Quello che noi vogliamo è l’obbedienza alle leggi e la disciplina. I l Parroco — Ahi, così dicono i padroni del mondo. Ma guardate un po’ il mondo... Grazie a Dio, io sono ancora così pazzo da preferire a tutto questo un fresco e puro sorriso. Ma mi sembra che come Cristo io getti le mie perle... Beh, troverò un’occupazione migliore. Mangerò la mia lattuga. (Stacca una foglia di lattuga e comincia a masticarla. Padre Shaughnessy lo guarda a lungo, dà un’esclamazione di disgusto e si volge a Hearty con truce risolutezza). Shaughnessy (con tono grave) — Signor Hearty, voi conoscete Patteggiamento oltraggioso e sprezzante di quella ragazza Nora Fintry. Noi ci troviamo ora nella grave necessità di non avere altro mezzo all’infuori del l'azione diretta. (Si alza gravemente, battendo sul tavolo con la matita) Quella ragazza deve essere piegata. (Vi brante) Dobbiamo farne un esempio per tutti, un esem pio che sarà la conferma della nostra inflessibile risolu tezza, un esempio che dovrà essere rapidamente seguito in tutta l’Irlanda. Andate e, sulla mia piena responsa bilità, chiamate Dillon e tutti i miei uomini e quando troverete questa ragazza pubblicamente insieme a Mi chael Shivers, conducetela qui. Hearty (emozionato) — E... e con che mezzo, padre? Shaughnessy (rigido) — Con Punico mezzo che ci è rimasto. (Hearty, con truce risolutezza, dopo un lungo sguardo con padre Shaughnessy, esce. Shaughnessy si avvicina al tavolo e vi rimane pensieroso, con i pugni chiusi, il viso torvo. Alza lentamente il capo). I l Parroco — Questo è l’ordine più pazzo che sia stato mai dato, dopo quello della carica dei Seicento. Avevate il dovere di consultarvi almeno con il vescovo. Shaughnessy (con ira) — Il vescovo è un vecchio come voi. La legge morale in questo paese deve essere difesa da chi ne ha il coraggio. I l Parroco — La sola cosa che difenderete è il so pruso di un prete contro la legge civile. Qualsiasi uomo di Chiesa con il cervello a posto vi direbbe che avete commesso la più grande delle bestialità. Shaughnessy — Oh, basta! Sono stanco delle vostre lamentele! Risolverò anche il vostro caso, una volta per sempre, e vi farò ricoverare in un ospizio di vecchi. (Esce con un gesto irato. Il parroco gesticola furibondo sulla poltrona). I l Parroco — Un ospizio di vecchi! Che il diavolo vi porti! Che vi porti all’inferno! QUADRO SECONDO La stessa scena, la sera del giorno dopo. Il parroco sbuffa irascibilmente nella sua poltrona. Rosieanne è seduta accanto a luì e lavora all’uncinetto. Su di un ta volinetto vicino c’è un giornale piegato. Il parroco alza il capo con decisione. I l Parroco (insistendo) — Sono sicuro che posso al zarmi, Rosieanne. Rosieanne — Ed io sono sicura di no, padre, ve l’ho già detto. I l Parroco — Ma io me lo sento che è possibile. Rosieanne — Perchè lo desiderate, ma non fareste che cadere e farvi male. Il dottore mi ha avvertita. I l Parroco — Santo Dio, ma non c’è più nessuno che abbia un po’ di fede almeno in se stesso. Rosieanne — Beh, la fede va bene in chiesa, ma il dottore è il dottore... I l Parroco ■ — Sì, a sentirlo, a quest’ora i passeri sta rebbero cantando sulla mia tomba! (Pausa) E smettete di lavorare quando io parlo! Rosieanne — Ma è un paio di calze di lana per voi, padre! Che vorreste che facessi? I l Parroco (gettando via la coperta che ha sulle gi nocchia) — Io voglio alzarmi, io posso alzarmi! Rosieanne (spingendolo indietro) — Ma no, padre, per piacere, voi non potete alzarvi, lo sapete che non è pos sibile. I l Parroco — Lo posso, invece. La Madre di Dio mi farà camminare! Mentre ero qui, oggi, le ho fatto un bel discorsetto. Rosieanne — Padre! Ma vi sembra il modo di parlare? I l Parroco — Sicuro. Lei lo sa bene che tipaccio sono. Avanti, dammi il braccio. (Comincia a sollevarsi). Rosieanne (tenendolo stretto) — Che Dio vi protegga! (Il parroco si sporge in avanti, ma cade improvvisa mente al suolo. Rosieanne lo guarda con le lagrime agli occhi) Avete visto! Mi ascolterete, adesso? I l Parroco — Mettetemi su, Rosieanne. (Ella lo prende per le spalle e con molta fatica riesce a rimetterlo nella sua solita posizione) Un’altra parola che dite e vi caccio su due piedi. Rosieanne — Non dirò mezza parola. I l Parroco — Invece di rispondere così, sarebbe me glio che mi portaste qualche cosa da mangiare: sono mezzo morto di fame. Portatemi del tè coi crostini. Rosieanne — I crostini sono duri. Avete detto che non volevate più quel burro grasso che si vende fuori... I l Parroco (con dolore) — E’ vero. Ma non si po trebbe pregare la signora Whelan a portarmi un altro po’ di quel magnifico burro che mi mandava? Rosieanne — E in che modo? Il suo bambino non è ancora battezzato. Vi ricordate? Ha sposato un pro testante. I l Parroco — E’ il colmo! Andate dalla signora Whe lan e ditele di venire subito qui con il bambino, che lo battezzerò io stesso subito! (Mentre Rosieanne lo guar da stupita) E ditele di portare un paio di libbre di quel suo burro, come offerta! Rosieanne — Ma padre Shaughnessy vi denunzierà al vescovo e poi daranno tutta la colpa a me. I l Parroco — E che importa se mi denunzia! Andate, andate subito, in nome di Dio! (Rosieanne esce. Egli si agita irascibilmente sulla poltrona) Se potessi alzarmi! (Ma abbassa la testa scoraggiato. Michael Shivers bussa ed entra). Shivers — Posso dirvi una parola, padre? I l Parroco — E quando mai, Michael, hai dovuto chie dermi il permesso? Shivers — E’ vero, ma che volete... Sentite, padre, PAUL VINCENT CARROLL qui si prepara un guaio grosso. (Meg Magee entra con un piumino per spolverare). Meo — Vi disturbo, padre, se spolvero le sedie? I l Parroco — Proprio cosi, faresti meglio a spolve rarti la testa, qualche volta. Meg — Scusate, padre, non voglio contrariarvi. (Men tre sta per uscire, il parroco fiuta l’aria). I l Parroco — Che buon odore, Meg. Qualche giorno un uomo ti porterà via. (A Shivers) E’ la più grande cuoca del paese, Michael. Shivers — Se è cosi, le può interessare di sapere che proprio ieri ho mandato a cercare una cuoca in Inghil terra per il mio albergo: sei sterline al mese e l’alloggio, senza contare che con tutti quei turisti americani che vengono... Meg (lusingata) — Per favore, signor Shivers, potrei venire in prova da voi? Shivers — E che dirà Sua Eminenza padre Shaughnessy? Meg — Beh, non ha mai apprezzato tutte le belle cose che gli ho fatto. Sarebbe lo stesso che cucinare per una statua. Shivers — Va bene, allora, se volete venire in prova, venite pure. Meg (impaziente) — Mi preparo in un momento e sarò subito da voi. Mi pareva miU’anni... (Esce da si nistra. Shivers c il parroco ridono). I l Parroco — Questo vuol dire una bella baruffa con padre Shaughnessy. Shivers — Ci sarà di molto peggio, padre. Questi suoi sistemi non possono andare avanti. I l Parroco (a disagio) — Ma perchè, Michael... Shivers — Ma, dite voi, come è possibile sopportarlo? E’ un abuso continuo, che vorrebbe farci tornare al Medioevo, padre. I l Parroco (scoraggiato) — E’ vero, non faccio altro che dirglielo. Non è più fede così, è una macchina. Shivers —• Vi dico la verità, padre. Io sono risoluto a difendere i miei diritti di uomo e di cittadino e la maggior parte degli altri è con me. I l Parroco — Ma non usate la violenza, per carità. Dovete tenervi lontano da Nora Fintry, Michael. Non è per voi. Shivers — Ma io non ci ho mai pensato! E se mi faccio vedere spesso con lei, ebbene, lo facciamo ap posta ! I l Parroco — Non è giusto, Michael. Shivers — Ma è umano, padre, e voi lo sapete. I l Parroco (pensoso) — E’ vero... c quante volte an ch’io... (Rosieanne bussa ed entra eccitata). Rosieanne — Padre, la signora W-helan e il bambino sono qui per il battesimo. Siete pronto? I l Parroco — Certo, in nome di Dio. Shivers —* E così, anche voi fate la vostra piccola rivolta? I l Parroco — Non c’è nessuno scopo a cercare di im pedire al mondo di girare per il suo verso. Avanti, Rosieanne, aiutatemi e fate da comare al bambino. Volete portarmi un po’ di acqua santa dal fonte? Rosieanne — E’ già fatto, padre. Shivers — Buona fortuna, padre. Non è facile trovare il buon senso, al giorno d’oggi. (Esce. Rosieanne spinge la sedia del parroco verso la porta). I l Parroco (mentre vanno) — Le avete detto del burro, Rosieanne? Rosieanne ■ —■ Sicuro... Ce n’è tanto da sfamare un reggimento. Ir. Parroco (in estasi) — Sia lodato il Signore! (Prima che arrivino alla porta, padre Shaughnessy, portando un mucchio di carte, entra adirato). Shaughnessy — Ma che succede? Che viene a fare qui Shivers? E quel bambino che piange nell’ingresso? Parlate! Rosieanne (spaventata) — E’... è il figlio della signora Whelan, padre, che dev’essere battezzato. Shaughnessy — Non avevo già definitivamente rifiu tato il battesimo a quella donna ribelle? I l Parroco —- Forse l’avete fatto, ma sono deciso a battezzarlo io! Shaughnessy — Voi non farete questo. Ve lo proi bisco. Non ne avete il potere. I l Parroco (infurialo) — E chi lo dice? Shaughnessy — Sono io a capo della parrocchia e non vi permetterò di agire contro i miei ordini! Del resto, ho già parlato con ii vescovo, ed egli è d’accordo con me nell’inviarvi in una casa di riposo. I l Parroco — Che diavolo dite? Una cosa che non accetterò mai! Shaughnessy —• Dovrete accettarla. Il vescovo ha già mandato a prendervi con la sua automobile personale e tra poco la macchina sarà qui. I l Parroco — Benissimo! Ma ci vorranno una dozzina di persone per mettermici dentro! Io sono una cosa sola coi mattoni di questa casa, e resterò qui finché essi non cadranno! Shaughnessy — Lo vedremo! E questa donna col bambino, fuori immediatamente! (Esce furibondo, sbat tendo la porta. Il parroco e Rosieanne restano in ascolto attentamente. Si ode un alterco al di fuori e poi ima porta che si chiude d’un colpo). I l Parroco — Siamo sconfitti, Rosieanne. Oh, se la Santa Vergine mi facesse camminare... Portatemi dentro, Rosieanne, al piccolo altare, che io possa dirle il disgra ziato e il peccatore che sono... Rosieanne (commossa) — Oh, padre, padre... (Padre Shaughnessy rientra). Shauchnessy — Rose, mandatemi immediatamente Meg. Rosieanne —■SI, padre. I l Parroco — Meg ise n’è andata, se vi interessa. Shauchnessy —• Andata! E chi l’ha mandata via? I l Parroco — Voi l’avete mandata via. E’ andata a lavorare con Shivers, un brav’uomo che non le getterà i pasticcini fuori della finestra. Portatemi via di qui, Rosieanne! (Escono. Padre Shaughnessy cammina su e giù con aria truce. I iminuti passano. Si ode il rumore di un automobile che si avvicina e che si ferma. Padre Shaughnessy guarda alla finestra. Rosieanne bussa ed entra). Rosieanne — La macchina del vescovo è arrivata, pa dre, e l’uomo chiede del parroco. I Shauchnessy —• Preparatelo per bene per il viaggio. Le sue cose le -spedirò io più tardi. Rosieanne — Ma lui non vuole, padre. Shaughnessy — Eseguite i miei ordini, voi. IL CORSIERO BIANCO Rosieanne — Ma il parroco si è chiuso a chiave nel l’oratorio con tutta la poltrona, e si rifiuta di uscire. Shauchnessy (con ira) — E’ ridicolo. Deve uscire. Insisto che « deve » uscire. Fate aspettare l’uomo del vescovo in cucina ed io provvederò a questo. Rosieanne —■Bene, padre. (Si volge alla iporta) Il si gnor Dillon è qui, e ha un’aria molto strana. Shauchnessy (con ira) — Lui ha sempre un’aria strana! Fatelo entrare subito. (Ella fa cenno di sì ed esce. Un momento dopo, Denis Dillon entra. E’ acceso in viso e ha gli occhi spalancati. Si leva il cappello coti difficoltà, tossicchia e fissa padre Shaughnessy. Questi lo guarda da presso) Ebbene, signor Dillon, che vi è successo? Dillon (con difficoltà) — Alfine è giunta, padre Shaughnessy... Shauchnessy (guardandolo ancora più vicino) — Non sono disposto a sentire i vostri scherzi, signor Dillon. Avete eseguito i miei ordini, oggi? Dillon (blando) — Sicuro, padre, come faccio sempre e come fanno tutti quelli come me. Ho preso il vostro gruzzolo e sono uscito, ma invece di impiegarlo in opere di bene e per la difesa della morale, sono andato alla cantina di Shivers e me lo sono bevuto fino all’ultimo soldo. E adesso sono qui. Shauchnessy (afferrandolo) — Voi siete ubriaco! Dillon — E’ vero. Io e Giuda Iscariota abbiamo an negato nel vino tutti i nostri rimorsi. Shaughnessy v— Nel supremo interesse della moralità, voi siete immediatamente sospeso dalla scuola. Dillon —• Non è la prima volta, padre Shaughnessy, che sono sospeso. Tutta la mia vita sono stato sospeso, sull’orlo di un precipizio, con l’incubo dei santi mira colosi sopra di me, mentre i preti leggevano i loro bre viari e vedevano nelle mie pene la giustizia di Dio. Shauchnessy (torvo) — E’ disgustoso. (Imperioso) Moderatevi in mia presenza, altrimenti... Dillon — Moderarsi vuol dire tornare alla paura, alla paura della vostra veste nera, dei vostri occhi e del vostro colletto. Shauchnessy (improvvisamente schiaffeggiandolo) — Ci vorrà questo, allora? Dillon (indietreggiando) — Forse. E’ sufficiente a farmi riconoscere un altro privilegio clericale. Shaughnessy — Siete d’un’insolenza incredibile. Uscite snbito e non venite se non siete tornato in voi stesso. Dillon (volgendosi lentamente) — Tornato in me stesso... quando i macigni saranno tornati a schiacciarmi... (Si ode un improvviso rumore di voci e di grida al l'esterno. Rosieanne entra eccitata). Rosieanne — Patrick Hearty sta trascinando Nora Fintry per la strada, padre. Vengono qui. Shaughnessy (calmo) — Fateli entrare immediata mente e non preoccupatevi. Rosieanne — Ma c’è una quantità di gente che li se gue, urlando e protestando. Shauchnessy — Non ci badate. Fate entrare soltanto il mio ufficiale e la sua prigioniera. (Ella fa cenno di si cd esce. Dillon fissa il prete). Dillon — Prigioniera! Che strana parola! Nora non sarà mai la prigioniera di nessuno. Shaughnessy ■ — Mi occuperò più tardi della vostra insolenza, signor Dillon. (Forti colpi alla porta di de stra. Essa si apre a Patrick Hearty che trascina dentro Nora Fintry, spingendola avanti. Egli è affannato e scal manato. Nora è sconvolta, con le vesti strappate e i capelli sul viso. Dall’esterno si ode il rumore di discus sioni animalissime e di liti che continueranno per il resto della scena). Hearty — Ai vostri ordini, padre Shaughnessy. Shauchnessy — Bene, ne risponderò io. Hearty (indicando Dillon) — E quell’uomo, padre, si è rifiutato di aiutarci in alcun modo. E’ un traditore. Shauchnessy — Per questo, Dillon, siete immediata mente destituito dalla scuola. Dillon — Cominciamo a salire. Vieni vicino a me, Nora, che non sono abituato a salire. Nora — Io non sono mai stata tanto vicino a nessun altro, Denis. Hearty (con ira) — Guardateli, i martiri rassegnati al supplizio! Io non permetterei questo, padre! Nora — Vi accorgerete che non sono troppo rasse gnata, brigadiere centrale Hearty. (Dillon ride. Da fuori giungono grida di « Lasciate stare la ragazza »; « Vieni fuori, Hearty »; « Prenditela con gli uomini»!). Hearty (a Dillon) — Vi farò ingoiare i denti, a voi! Shauchnessy (calnio) — Al contrario, signor Hearty, voi rimarrete al vostro posto e manterrete la vostra di gnità di poliziotto morale! Hearty •— Ma è una provocazione insopportabile, padre ! Shauchnessy — La provocazione è la prova del ca rattere. Ritornate al vostro posto e fatemi il vostro rap porto. Hearty (salutando militarmente) — Questa sera, pa dre, in compagnia degli agenti Driscoll, Martin, Nolan, O’ Brien e Brodigan, abbiamo visto Michael Shivers e la ragazza Nora Fintry sfacciatamente insieme in un automobile. Allora ho mandato immediatamente a cer care il segretario, Denis Dillon. Shauchnessy — E dove l’avete trovato? Hearty — Nella bettola di Shivers. Shaughnessy — Descrivetemi il suo stato. Hearty — Aveva un mucchio di soldi davanti a sè e vi stava costruendo una piramide, beveva « whisky » e soda e cantava una canzone oscena. Gli ho chiesto di collaborare con me. Shaughnessy — Che cosa vi ha risposto? Hearty — Una parola che non posso ripetere. (Dillon e Nora ridono. Da fuori vengono grida di €Parlate! Par late!»; «Lasciate in pace la ragazza»; « Vieni fuori, Hearty! s>). Shaughnessy — E voi cosa avete fatto? Hearty — L’ho buttato contro il tavolo e sono tor nato dai miei uomini. Shauchnessy (calmo) — Come poliziotto morale, non avevate alcun diritto di gettarlo contro il tavolo. Prose guite. ‘ Hearty — Con l’aiuto di Brigid Brodigan ho deciso di prendere Nora Fintry e di portarvela qui. Shaughnessy •— Quale è stato il suo atteggiamento? Hearty — Mi ha graffiato, battuto, preso a calci e in giuriato nel modo più feroce. Brigid Brodigan si trova ora in farmacia a farsi mettere un cerotto sul viso. Shaughnessy — E il contegno di Shivers? PAUL VINCENT CARROLL Hearty — Ho dato ordine agli agenti Driscoll, Martin, Nolan e O’ Brien di arrestarlo. Shaughnessy — Che voi sappiate, ha fatto resistenza? Hearty — Sì, padre. Stanno ancora battendosi sul ponte. Shaughnessy — Perchè non avete chiamato qualcuno in aiuto? i Hearty — La gente era tutta dalla parte sua. Sfido, dà loro da bere gratis! Shaughnessy — Ci sono prove di questo? Hearty — Quante ne volete. Shaughnessy — Allora quel locale deve esser ra diato dalla nostra parrocchia e deve proibirsi a tutti i cattolici di frequentarlo! E la polizia civile? Hearty *— L’ispettore e i suoi uomini stavano a guardare. Dillon — Anch’io stavo a guardare, sulla porta di Shivers; non ve lo dimenticate. Nora — E quando io uscirò di qui, non mi conten terò di starmene a guardare. Shaughnessy (calmo) — Un atteggiamento deplore vole, ragazza. Volete tacere e permettermi di trattarvi il più gentilmente possibile? Dillon — Accontentati delle briciole del padrone, Nora. Nora (con improvvisa violenza, esplodendo) — Nes suno ò il mio padrone. Nessuna generazione di preti dannati riuscirà a calpestarmi, lo sono nata da quello che esisteva prima di voi e sarà la madre di quello che esisteva dopo che tutti voi sarete stati distrutti. Shaughnessy (con calma) —• Vi sfinite senza necessità, ragazza mia. Fareste meglio a sedervi. Datele una se dia, Patrick Heartj'. Hearty (torvo) — Non io, padre, dopo tutto quello che m’ha detto. Shaughnessy — Eseguite immediatamente i miei or dini. (Hearty mette una sedia accanto a Nora) Potete sedere. Nora — Non voglio. Shaughnessy — Vi chiedo di sedervi. Nora (improvvisamente scaglia la sedia in mezzo alla stanza) — E questa è la mia risposta. (Un silenzio di morte). Hearty (in tono minaccioso) — Io non tollererei, padre... Shaughnessy (calmo) — Non è dunque possibile in segnarvi la pazienza? Per dare un esempio a questa disgraziata, ed anche a voi, Patrick Hearty, io stesso metterò a posto la sedia. (Alza la sedia e la rimette al suo posto) Ed ora, proseguiamo. (Entra Rosieanne turbaia). Rosieanne — Padre, l’uomo del vescovo dice che ha finito il suo tè e non può aspettare ancora. Shauchnessy — Dove si trova il parroco Lavelle? Rosieanne — Sta sempre nell’oratorio, padre, e si ri fiuta di uscirne. Shauchnessy — E’ una cosa indicibile. Non porta tegli alcun cibo finché non sarà tornato nella sua stanza, e dite all’uomo del vescovo di aspettare. Rosieanne — Bene, padre... e... c’è una folla di gente che vorrebbe entrare. Shaughnessy — Non lasciate entrare nessuno. (Si odono grida e pianti da fuori). Rosieanne — Il padre di Nora Fintry sta piangendo dietro la porta. Shaughnessy — Potete fare entrare lui solo. Rose. (Rosieanne fa cenno di sì ed esce). Dillon — Sta piangendo alla porta del prete. C’è un’eco di tempi lontani in queste parole. Shaughnessy — Per questa perfida osservazione, De nis Dillon, siete arrestato come nemico del Comitato. Dillon (mentre Hearty gli si mette accanto) — E che m’importa! Sono stato in prigione fin dalla nascita! Hearty — Se non starete zitto vi farò calmare io. Nora — Coraggio, Denis. Possono portarci via tutto, ma non quello che è stato sempre nostro, fin da prima che loro venissero su questa terra. (Entra Phelim Fintry annientato. Si guarda intorno dolorante e umiliato). Phelim (a Nora) — Che ti dicevo! Nemici, sempre nemici... Nora — Smettila coi lamenti, babbo, e portami via di qui. Phelim — Come posso portarti via io, se s-ono tutti contro di te? Dillon — Ti porterò via io, Nora. Hearty (feroce) — Noi, maestro, quando lo permet terà il reverendo. Dillon — Se io potessi, Nora. Nora — Tu lo puoi nel tuo cuore, Denis, non lo di menticare. Shaughnessy — Ciascuno di voi dovrà innanzitutto esprimere apertamente il suo dolore per avere oltrag giato pubblicamente la legge morale e per il grave scan dalo compiuto; inoltre dovete dare assoluta garanzia di vivere per l’avvenire una vita castigata ed esemplare, di collaborare nello spirito e nella lettera con il Comi tato di vigilanza. Nora (dyimpeto) — Io non sono venuta al mondo per dare garanzie a voi o ad altri come voi! Dillon — E questa è anche la mia risposta. (Pausa). Shaughnessy (minaccioso) — Nora Fintry, avete de ciso di esaurire la mia pazienza? Nora — La vostra pazienza, padre Shaughnessy!? Io non ho niente da dividere con voi. Phelim — Per amor di Dio, Nora! Non puoi dire quelle parole che lui vuole? Che cosa c’è in una parola, infine! Nora — C’è stato qualcuno, nel mondo, che ha pen sato che tutta la vita non valeva una parola sola. Ed è quello che penso anch’io. Hearty — Fino a quando dobbiamo sopportare que sto, padre? Shaughnessy — Volete costringermi ad estreme mi sure? Voi siete una minaccia per tutta la jjarrocchia. Se non vi pentirete dei vostri errori e ne darete piena assicurazione lascerete immediatamente la parrocchia. Nora — Io non vi darò niente, e rimarrò nella mia casa, dove è il mio posto. Dillon — Ed io sarò con voi, Nora. Shauchnessy (furente) — Venite avanti, Phelim Fintry. Phelim (tremante) — Sì, padre, sì. Io... io farò tutto quello che posso, padre. Shaughnessy — Voi chiuderete la vostra casa a que sta ragazza finché lei non si sarà piegata alle mie ri chieste. IL CORSIEBO BIANCO Phelim — E’... è duro, padre. Ma se voi l’ordinate... Shaughnessy — Io ve lo ordino. (Phelim abbassa la testa) E questo è solo il principio. Io ridurrò questa donna a un punto tale che neppure i cani per le strade dovranno più rispettarla. Phelim — Credo che posso andarmene a casa, ora; alla mia casa vuota! Chi vorrà più trattare con un uomo la cui figlia è odiata dal prete? (Esce con aria desolata). Dillon — Ed ecco quello che diventiamo, quando la schiavitù ha incatenato la nostra vita. Hearty (colpendo Dillon) — Ah, questo è troppo! Dillon —• Via le mani da me, poliziotto dei preti! (Si ode bussare con violenza dall’esterno e delle grida. L’ispettore Toomey, stanco e scarmigliato, entra dram maticamente da destra, dominando la stanza. Un profondo silenzio). Shauchnessy — Cosa volete, ispettore Toomey? Toomey — Ho arrestato quattro uomini, Driscoll, Mar tin, Nolan e O’ Brien, ed ora arresto voi, Patrick Hearty, per aggressione e rissa e per violenza contro le persone di Nora Fintry e di Michael Shivers. (Lo afferra salda mente). Shaughnessy — Questo è un insulto. Quegli agenti morali hanno agito dietro mio espresso ordine. Toomey — Devo comprendere, padre Shaughnessy, che voi avete spinto ed aiutato questa gente ad agire contro la legge? Shaughnessy — Le vostre frasi poliziesche non mi riguardano. Pensate pure così se vi piace. Toomey (con ira) —- La vostra dichiarazione non mi permette nessun’altra soluzione. Vi avevo avvisato prima che io non transigo con il mio dovere. Probabilmente dovrò pentirmi di quello che faccio, ma lo farò ugual mente. (Pausa) In qualità di agente dell’ordine, io vi arresto, padre Shaughnessy, sotto l’accusa di costituire una minaccia per la pace pubblica e per incitamento ad atti di violenza criminale in dispregio di ogni legge civile. Hearty (con violenza) — Idiota babbeo, non si può arrestare un prete! Azzardati a mettergli una mano addosso e vedrai... Shaughnessy — Un momento, Patrick. Dobbiamo per mettergli di fare il suo dovere, se lui crede che sia questo. (Pausa) Procedete, Toomey. Toomey — Io lo farò a qualsiasi costo. Voi mi segui rete alla sezione di polizia. Forse lì le cose si aggiuste ranno. Shaughnessy —- Io sono pronto. Hearty —• Ma niente affatto. (Corre alla finestra e comincia a gridare) Uomini e donne, ascoltate: il reve rendo è stato arrestato! Lascerete mettere le manette al vostro prete? (Grida di orrore e di minaccia). Voci — Chi tocca il prete? Chi arresta il prete? Hearty (gridando dalla finestra) — E lascerete por tare il prete in prigione come un assassino? (Le grida crescono). Shaughnessy (a Toomey) — Siete proprio certo, ispet tore, che il popolo sia contro di me? Toomey — Non me ne importa niente, contro chi sia il popolo. Vi ho detto che farò il mio dovere ad ogni costo e lo farò. Voci — Fateci entrare! Vogliamo quell’idiota! Che s’azzardi a toccare il prete! Lo cacceremo a calci! Hearty — E così, vedrete! Toomey — Ah sì? Voi la vedrete. Non è la prima volta che mi trovo nei pasticci e non sarà l’ultima! E se finisse male per me, non ci sarebbe in questo paese altra legge che la legge dei preti! Dillon (ridendo) — Che scoperta, ispettore! Merite reste una medaglia! Toomey — Zitto, Dillon, o arresto pure voi. Dillon —- Non potete arrestare chi è già in arresto. Io sono prigioniero del Santo Uffizio. Shauchnessy —- Sono pronto a seguirvi, ispettore Toomey. Toomey (con fermezza) — Va bene. (Va alla finestra, con decisione) Uomini e donne del paese! Vi avverto che chiunque si opporrà all’esecuzione del mio dovere sarà arrestato e condannato per rivolta contro la legge. Vi consiglio per questo di tornare alle vostre case o sarò costretto a fare uso delle armi per aprirmi un varco in mezzo a voi. (Un uragano di urla). Voci — Lasciate in pace il prete! Non vi azzardate a toccarlo. Idiota! Pazzo! (Delle pietre vengono lanciate contro la finestra. Toomey indietreggia). Shaughnessy — Che avete detto? Fare uso delle armi? Toomey — Proprio così, e non sarebbe la prima volta. Voci — Fateci entrare, fateci entrare! Vogliamo quel pazzo! Shaughnessy (andando alla finestra) — Amici miei, voglio che sopportiate questa crisi con calma e con di gnità cristiana. Non temete per me, non è la prima volta che un sacerdote è trascinato in prigione. Dillon -— Il martire cristiano! Ah, Toomey, che avete fatto! Toomey (proibendo a padre Shaughnessy di continuare a parlare) — Non posso permettere questo incitamento alla rivolta! Fatevi indietro. (Padre Shaughnessy ritorna dalla finestra. Nora l’osserva attentamente). Nora (amara) — Così agisce un uomo feroce e non un prete. Shauchnessy — E così ho deluso la mia eroina pa gana, no? E vi avrei deluso ancora di più, immagino, se avessi mandato voi e Dillon fuori di qui, dicendo al popolo che eravate i miei nemici? Toomey —-Non l’avrei mai permesso. Essi hanno di ritto a quella libertà per la quale io stesso ho ucciso uomini dietro le barricate, e, prete o non prete, voi non potrete mai calpestarla! Nora — Grazie, ispettore. E’ la prima volta che queste parole vengono dette nella storia d’Irlanda. Toomey — Non ringraziarmi, ragazza. E’ il mio do vere, e devo farlo fino in fondo. E’ per questo che sono un soldato. Hearty (all’ispettore) — Siete tanto imbecille da cre dere che il popolo vi permetterà di arrestare il nostro prete ! ? Toomey (deciso) — Io non mi piego dinanzi alle mi nacce. Voi due uscirete ammanettati insieme e io pen serò ad aprirmi un varco con questo. (Estrae dalla fon dina il revolver) Andiamo, uscite! Shaughnessy (bieco) — Andiamo, poliziotto. A vostro rischio. PAUL VINCENT CARROLL Tcomey — Bene, a mio rischio. Fuori! (La porta si minacciati dai comunisti, credete che li abbiano am apre improvvisamente e Rosieanne entra correndo). mazzati ad uno ad uno? Niente affatto. Li hanno messi Rosieanne (stravolta) — Il parroco, padre, il parroco! in caricatura sui giornali umoristici, con le barbe e le (Scappa via di nuovo. Tutti si voltano e fissano la porla. bombe, e li hanno affogati nel ridicolo. Mi capite? Un momento dopo il parroco Lavelle appare e avanza Toomey — Io non sono un filosofo, padre, ma eseguo a passi lenti nella stanza con Vaiuto di un bastone. Lo degli ordini. Potete assicurarmi che non vi saranno altri accolgono grida di stupore). incidenti? Tutti — Voi! I l Parroco — Sicuro, Toomey, e potete credere alle Shaughnessy (fissando) — E’... è incredibile! mie parole. I l Parroco (dirigendosi verso padre Shaughnessy) — Toomey — Bene, padre, sono contento. E che Dio La fede è sempre incredibile, padre Shaughnessy, per salvi quel po’ di felicità che c’è rimasta dai fanatici in un’anima come la vostra. (Si odono grida altissime dal buona fede come me e come quel prete laggiù. (L’ispet l’esterno) E quello che è ancora più incredibile è che tore esce. Padre Shaughnessy, che è rimasto seduto guar tutti i vostri errori abbiano fatto dei lupi furibondi del dando dinanzi a se, si alza ora lentamente ed apostrofa mio innocuo e pacifico gregge. Sentiteli! il parroco). Shaughnessy (fermando il parroco, mentre questi si Shaughnessy — Io sono rimasto in silenzio per tutto dirige alla finestra) — Voi non potete immischiarvi di questo tempo per non peggiorare la situazione, ma devo questo. Ve lo proibisco. Dovete attendere le decisioni dirvi che non vi permetterò di proseguire coi vostri del vescovo! sistemi. I l Parroco — Farò quello che credo. Ci sono in gioco I l Parroco — Ed io non vi permetterò di fare i vostri delle vite umane. (Una pausa di estrema tensione, du esperimenti di morale nella mia parrocchia. Migliaia di rante la quale essi restano a fissarsi). maestri della Chiesa si sono guardati dallo scrivere Shaughnessy (in uno scatto) -— Bene, allora, ricorda certe leggi sulla carta, e voi avete voluto scarabocchiarle tevi che vi ho avvertito. Io mi ritiro in segno di pro con la scrittura di uno scolaretto. Questo paese, se voi testa. (Batte la tavola con ira e siede). non lo sapete, è governato da leggi che nessuno ha mai Voci — Il parroco! Il parroco! Evviva il parroco! scritto, ma che vengono accettate da tutti istintivamente. I l Parroco (alla finestra, picchiando nervosamente col Sono le leggi dei codici quelle che si possono violare, bastone) — Ve li darei io gli evviva, se venissi fuori! ma non quelle che non sono state mai scritte! E ricor Siete impazziti tutti? Voi, Sarah Pender, che state lì datevi, il giorno in cui le metterete sulla carta, sarebbe come una furia invece di preoccuparvi dei vostri figli, e quello della loro fine! Voi mi credete un vecchio pazzo, voi, Nancy Rjan, che non v’ho mai visto pulire la casa perchè parlo al popolo la sua lingua, ma io seguo in in vita vostra, e tu Phil Brady, un bel lavoratore che vece l’ammonimento del Signore, che consigliò di essere sei, e tu, Barney Comiskey, vagabondo che non sei altro, semplici come le colombe e saggi come il serpente. che date questo spettacolo nella mia parrocchia! Tor Shaughnessy — Io non credo a niente di tutto que nate a casa in questo momento e pensate al vostro la sto. Non sono altro che ragionamenti sbagliati. voro e ai vostri figli, e domattina mi sentirete dal pul I l Parroco — Crederete al piombo nel vostro corpo, pito! (Si ode la gente che si allontana, poi silenzio. Il un giorno. Ci sono più Toomey e uomini di fegato in parroco chiude con forza la finestra e si rivolge agli questo paese di quanti non ne veda la vostra testardag altri, picchiando col bastone) Patrick Hearty, quando gine. (Entra Rosieanne). io ero più saldo sulle gambe, quante volte t’ho portato Rosieanne — Scusate, padre, ma che devo fare con a casa con tanto vino in corpo da ammazzare un toro? l ’uomo del vescovo? E’ molto impaziente e... Hearty (confuso) — Può darsi, padre. I l Parroco — Dategli questa lettera per il vescovo. I l Parroco — Altro che può darsi! E’ vero! E adesso (Le porge una lettera). sei diventato una specie di brigante, che aggredisce la Shaughnessy — Aspettate. (Pausa) Ditegli di prepa gente per la gloria di Dio! Vattene a casa, da quella rarsi a condurmi subito dal vescovo. stupidona di tua moglie, e prega Dio che io possa con Rosieanne — Sì, padre! (Esce). vincere l’ispettore a non buttarti in prigione! Shaughnessy — Noi non discuteremo più. Sta al ve Hearty (avvilito) — Va bene, padre, come volete. scovo il decidere. (Esce). I l Parroco — Fate bene, e vedrete che il vescovo vi I l Parroco (guarda con simpatia Nora, che è pallida manderà a Glasgow, dove i comunisti sono a centinaia ed esausta) — Nora, sembri uscita da una tempesta. Por e i martiri cristiani uno su mille. tala dentro, Dillon, e falle dare una tazza di tè. Shaughnessy (con ira) — Sono stato troppo buono Dillon — Subito, padre. Andiamo, Nora. (Nora si fa con voi. E’ questa la mia debolezza con la gente. (Esce. condurre via da Dillon. Il parroco la guarda uscire, poi Il parroco guarda stranamente dietro di lui. Entra Ro sieanne). si volge a Toomey scuotendo la testa). Rosieanne — Come vi sentite, padre? Per amor di I l Parroco — Bene, ispettore, posso congratularmi con Dio, sedetevi un po’ e non stancatevi tutto in una volta. voi! Siete il più grande idiota di tutta l’Irlanda. I l Parroco — Hai ragione, Rosieanne. (Ella gli porge Toomey — E perchè, padre? Il mio dovere viene prima di tutto. una sedia ed egli vi siede). I l Parroco — E’ vero, Toomey, è vero, ma gli uomini Rosieanne — E’ stato un miracolo, padre, proprio in fanatici del loro dovere diventano una minaccia per quel momento, con la folla che urlava e l’ispettore l’umanità. E’ per questo che i Greci condannarono a pronto a sparare. morte Socrate. Vedete, quando gli Inglesi si sono visti I l Parroco — Non lo so, Rosieanne. Ma ho pregato tan- IL CORSIERO BIANCO to, nel buio, come avranno fatto i nostri padri, tanti anni addietro, ai piedi delle rocce ostili e mi è sem brato quasi di sentirli, in mezzo al fango di quegli anni oscuri... (Pausa. La guarda) Voi non direte niente di tutto questo, con nessuno. Rosieànne — Ma certo, padre, non parlerò. (Entrano da sinistra Nora e Dillon). I l Parroco — Avete preso qualcosa, voi due? Dillon — Del tè caldo, padre, grazie; ne avevamo proprio bisogno. I l Parroco — Bene, è tempo che ne prenda un po’ an ch’io. Portatemelo ben caldo, Rosieànne. (Rosieànne fa cenno di sì ed esce) E ora, Dillon, volete continuare a vivere come un fuori legge? (Sorride e Dillon ride). Dillon — Non dimenticatevi, padre, che sono un ex maestro. I l Parroco — Ma che ex d’Egitto! Domattina andrete a scuola come sempre. Dillon — Valete dire che non sono destituito! I l Parroco — Non fate lo stupido, Dillon. (Pausa) E a me piace che i maestri siano sposati. Si mettono più a posto, così. Dillon — Nora, credi che se tornassi alla scuola... (Si ferma -e la guarda). Nora — E vorresti pure tornare a fare il chierichetto, non è vero? Sarebbe, dunque, questa la conclusione? I l Parroco — Beh, Nora, che discorsi sono questi? Nora — Deve scegliere, padre, per tutta la sua vita. À voi piace di averlo ai vostri ordini, ma io voglio che affronti la vita invece di sfuggirla e che smetta per sem pre di essere un servo e cerchi di diventare quel gigante che ogni uomo ha in se, o che dovrebbe avere, almeno per battersi contro i mulini a vento, se mai. Ma soprat tutto per aver fede nella vita e per credere che non c’è alcuna legge al di sopra di essa. E’ per questo che io gli parlo così, padre, e che non posso accettare i com promessi. Dillon — Ed allora, non farò compromessi. (Pausa) Sono dolente, padre, ma non posso accettare di tornare alla scuola. I l Parroco (andando vicino a Dillon) — E’ facile fare l’eroe, Dillon, ma poi quando tua moglie avrà fame e il fuoco sarà spento... Dillon (colpito) — Dio, non ditemi questo, padre. I l Parroco — Devo dirtelo, invece. Dillon — lo... io non posso pensarci... E’ così incerto il futuro... Nora, se io tornassi per un poco alla scuola, tanto per sicurezza, non potresti provare... Nora (lentamente) — Tu mi avevi chiesto, Denis, di liberarti dalle tue catene. Ho provato inutilmente. Ad dio, padre. Io partirò. I l Parroco — Andiamo, Nora, non fare la sciocca, ora. Non tornerai mica in Inghilterra, spero? Nora — No, padre, non lascerò mai l’Irlanda. C’è qualche cosa qui che manca negli altri luoghi. Non vi saprebbe dire nessuno come si chiama, ma forse una persona che cammini di notte sotto la luna o una ra gazza che legga dietro i vetri le leggende di Niam o di Aideen, saprebbe dirvelo. Insistete per saperlo: esse volgeranno il viso da voi, le lagrime scenderanno im provvisamente, e il grido sarà sempre nel loro cuore. Nè il denaro, nè l’amore varranno a renderli felici. (Pausa) Anch’io sono così, padre. Forse ora capite per chè non avrei potuto mai dire le parole che padre Shaughnessy voleva, e perchè non potrei mai essere la moglie del chierico della parrocchia. (Pausa. Ella guar da il parroco con occhi dolorosi e si dirige alla porta). Dillon — Abbi pietà di me, Nora. Nora — Non c’è pietà, Denis, per un uomo che ac cetta di vivere in servitù. Io sono nata da poeti e da eroi, e dovrei dare figli ad uno schiavo? Dillon — Ma non c’è altra via, Nora, non vedi? Nora — Quando non c’è nessuna via, Denis, che cosa fanno i grandi popoli? Si aprono una nuova via a forza; ma i paurosi siedono nel fango e restano a imprecare contro Dio. I campi di mio padre hanno tanto bisogno di lavoro. C’è la gioia delle vite che nascono dalla terra, la gioia di vederle fiorire, e ci sono io. Io sposerò un uomo libero o nessuno. (Esce. Dillon si volge verso il parroco e lo guarda). Dillon (con dolore) — Io... tornerò domattina per il mio rapporto, padre. Il Parroco (pensieroso) — Sì, domani... e non venite tardi, che c’è tanto lavoro per la parrocchia... Dillon — Va bene, padre, buona notte. (Fa per uscire). I l Parroco (lentamente) — Buona notte. Dillon (voltandosi sulla porta, improvvisamente) — Padre, se fosse stato in me, che avreste fatto? I l Parroco (brusco) — Andate a casa, Dillon. Io non sono voi. Dillon (con impeto improvviso) — Avreste mandato la scuola all’inferno, io lo so, e sareste andato con lei. Avreste lavorato i campi di Phelim, anche a morire di fatica, non è vero? Andiamo, padre, ditemelo! E’ que sta la verità! I l Parroco — Io non vi dico nulla. DrLLCN — E allora avete paura, avete paura della verità. I l Parroco — Che il diavolo vi porti, Dillon. Dillon — Che il diavolo si porti la schiavitù! All’inferno la scuola, io andrò da Nora, zapperò i campi di Phelim e vangherò e seminerò per lei! E combatteremo contro tutti, io e lei, sempre! I l Parroco (fissandolo) — Finalmente, Dillon, siete un uomo, una volta per tutte! Andate pure, che non ho paura di Nora, nè dei suoi figli. Un’Irlanda migliore non deve aver paura di essi. Forse mi sbaglio, ma non lo credo. Andate, Denis, e seppure volesse portarvi su di un corsiero alato, come in una leggenda pagana, non abbiate timore; vi porterà vicino alle stelle: il suo cor siero bianco non è sceso invano dopo tanti secoli su questa terra. Dillon — Grazie, padre, e perdonate se qualche volta... I l Parroco — Che l’inferno vi porti! Smettetela di chiedere perdono a tutti, e mandateli al diavolo, invece! (Dillon esce felice. Il parroco si siede lentamente e ri mane pensoso. Poi leva gli occhi verso il quadro della Madonna e con intimità famigliare) Bene, santa Madre, noi siamo abituati a queste tempeste di montagna, no? Ma le montagne restano sempre, non è vero? E allora non c’è da spaventarsi, non c’è proprio motivo di spa ventarsi... m u la 65 T E S T O N IA N A ^ Un giorno, la critica italiana dovrà finalmente giudicare Alfredo Testoni. Il Testoni più importante, infatti, è ancora per la critica un tema non svolto; dirò di più: un terna nemmeno avvertito. Vi sono due modi testoniani: il primo sorride dalle commedie in lingua, aggraziate, leggere : una sorta di giornalismo a dialogo, nel gusto e nel colore del tempo che fu; ValIrò, nelle commedie in dialetto, affer ma una vigoria fantastica, la quale va, finalmente, «scoperta ». Il caso è questo: il Testoni minore ebbe una vasta ribalta e attori famosi; e il Testoni maiuscolo rimase dentro le mura bolognesi, tra la Mascarella e San Martino, la Fondazza e San Do menico. Il primo ebbe un editore illustre, lo Zanichelli, nel fascino delVautorità carducciana; Valtro un editore modesto, il Frugnoli, con quei volumetti disadorni. « Scoprire » Testoni non significa, si intende, additare uno scrittore ignoto: il poeta della Sgnera Cattareina, Fautore del Lambertini non è di certo un mistero. Bologna è ancora per il pubblico dei teatri, per i lettori di versi casalinghi, il volto di questo suo figlio fedele, tra la spiritosa saggezza del Cardinal Prospero e la briosa furbizia della rivendugliola in tabarrino. Aggiun gerò che il successo accompagnò sem pre Vopera testoniana, che una sol lecita cordialità sempre accolse i libri e le commedie. La fortuna e Testoni si davano del tu, erano amici. Con quei buffetti a spazzola sotto gli occhi vispi e quel cappelluccio moscardino (una specie dii omaggio, nel crepuscolo della vita, alla cara giovinezza), e quel tratto discreto, affettuoso-, e quella perenne malizia a fior di labbra, Alfredo Testoni era — direbbe un bolognese — « una simpatia!»>. Come non voler bene a questa gentile figuretta? La lieta solidarietà degli ascoltatori fu ed e, prima di tutto, amore. Come respin gere quelle allegre vicende, quel garbo nella caricatura, quella scal trezza pudica nella burla? Testoni fu, prima di tutto, amato. Era di casa, schietta aria di famiglia. Per mezzo secolo fu prodigo di inven zioni ridenti, e il pubblico riconob be nella generosa gaiezza delVartista la rettitudine, la sincerità di un’in dole. Chi ride si confessa: è possi bile Vimpostura delle lagrime, non l’impostura del sorriso. La qualità umana di Testoni è ben palese nelle cento commedie e nei venti volumi. Oggi la critica discorre del nostro autore come di un agile e lindo mestierante; guarda alla Sgnera Cattareina come a una facile serie di sonetti con arguzia finale; confonde la sagacia delle commedie in lingua con il tono delle commedie in dia letto ; e il ricordo di una vita se rena, festevole, suggerisce l’arzillo ritrattino. Si cita ancora — a proposito dei Quieto vivere e di In automobile, di Fra due guanciali e di Quel non so che..., delle opere, insomma, che por tarono un nome e un brillio per i teatri d’Italia — il pariginismo delle posciadetle. A parte il modello (for nito, del resto, agli stessi francesi, per quanto riguarda la tecnica ro teante, dagli avventurosi scenari dei nostri comici delVArte), mi sembra che il « genere » testoniano sia un altro : mi sembra, cioè, che l’atten zione e l’esperienza del teatrante si rivolgano agli umori, ai fatti, alle rivelazioni, agli scandaletti della cro naca. (Dovrà, la critica, «scoprire » anche il Testoni minore?). Quei medici, quegli avvocati, que gli ingegneri, quelle « femministe », quei patrizi, quei comitali di bene ficenza, quelle recite in villeggiatura, quei « moderati », quei clericali, que gli strani inventori, quegli agitati laudesi del « progresso », quegli spor tivi frenetici, quelle dame in vena di evasioni, quei telegrammi che nel giro di un atto fanno il giro del mondo, quelle « orizzontali » scon volgenti: giornalismo umoristico alla ribalta, « riviste » senza la musica, immagini, appunto, di vita cittadina. Ilari conversari, aneddoti bricconi, sottintesi malandrini... Non satira, e nemmeno polemica. La satira è in quietudine, è dolore; e Testoni fu uomo e autore placido. La satira ci avrebbe dato l’arte; non abbiamo, invece, che una raccolta di lievi « divertimenti ». Svaporate le parole, è rimasto il mestiere: che non basta. Testoni, però, non è soltanto mestiere. La qualità poetica va cercata nel Testoni dialettale, il Testoni di Insteriari (Stregonerie) e di Seuffiareini (Crestaie), dei Pisuneint (I casigliani) e di Anca nò, PEspusiziòn (Anche noi, l’Esposizione), commedie scritte per il teatro Contavalli, caro alle fa miglie domenicali, ai fidanzati in pal chetto e ai veglioni dei rotondi salsa mentari. (Ho già informato che le commedie petroniane del nostro au tore non uscirono mai dalle mura, nonostante i validi interpreti, da Ar gia Magazzari ad Augusto Galli). Un Testoni elogiato dalla vecchia critica per la (avvampando di collera) — Oh, già; tale e quale! E sono contenta di aver preso da lei e non da voi, vec chio stregone! (Con disprezzo) Avete una bella faccia tosta ad andare cantando la Scrittura tutto il santo giorno negli orecchi della gente, voi che avete fatto morire la mamma di stenti, con la vostra maledetta spilorceria. Al cimitero dovreste andare, se avete la mania di pregare, giù da lei: e inginocchiarvi sulla sua tomba, e chiedere a Dio che vi perdoni per la vita miserabile che le avete fatto sempre fare. Bentley (borbottando) — « Quale la madre, tale la figlia ». Anna — Sì, sì, citate la Scrittura, voi! Ma la mamma era ancora calda nella terra, quando ve ne tornaste giù al porto, a corteggiare quella cialtrona che era la chiac chiera di tutta la città : e alla mia e soprattutto alla vostra vergogna non ci avete pensato, quando ve la siete sposata e portata dietro in casa: e io che ancora vado a mettere i fiori sulla tomba della mamma che voi avete dimen ticato! (Lo guarda vendicativa, e pausando per ripren dere fiato) Quanto a me, poi, avrei fatto la sua fine, se era per voi: sarei accanto a lei nella tomba, già, se non avessi sposato Pat Sveney e non fossi andata con lui a vivere un po’ tranquilla. E la vostra gran collera perchè lui era cattolico, e questo vostro continuo parlare della religione, come per dirmi che l’ho abbandonata, tutte cose per farmi dispetto, lo so, tutte cose che ve le sug geriva lei contro di me, lei. Che voi mi fate ridere quando dite che è un peccato sposare un papista, ma se è più di venti anni che non andate nemmeno alle funzioni del Sabato! Bentley (con voce ostinatamente alta) — « Egli visiterà le tue iniquità ». Anna (interrompendolo) — E come avete ridotto la nostra casa, nei sei anni che vi ho lasciato: la vergogna di tutta la contea! Vostra moglie, proprio lei, già, con quel ragazzo che lei diceva che era vostro, e intanto andava con quel famoso 'Contadino, eccetera, e perfino coi marinai che sbarcavano nel porto, e voi cieco! Luca, lo volle chiamare lei: ma ve lo lasciò che aveva cinque anni, quando /scappò di casa perchè di voi ne aveva ab bastanza. L’anno dopo lei morì, e voi siete (rimasto solo col vostro Luca! Bentley (un balbettio emozionato) — Luca!... Luca. Anna (sarcastica) — Sì, Luca. « Quale la madre, tale il figlio », questa è la Bibbia die faceva per voi, altro che le maledizioni contro di me. Non vi dispiacque mica, quando tornai a casa con Pat: bisognava mandare avanti la baracca, e soprattutto tirar su quel marmocchio. Voi gli avete sempre voluto un bene dell’anima, e come vi ha ripagato? Ha rubato i .vostri quattrini ed è scappato: aveva sedici anni, giusto l’età che poteva cominciare a far qualcosa. E ve lo disse in faccia, che aveva rubato e stava per andarsene, e si mise a ridere, quando comin ciaste a maledirlo come un pazzoide, e si limitò a ridere più forte, quando avete attaccato quella scema corda (la indica), e diceste che doveva impiccarsi con quella, se mai fosse ritornato. Bentley (incoerentemente) — Vedrete allora, vedrete. Anna (la sua faccia ritorna ad una indifferente stan chezza) — Ma già; mi pare di essere più matta di voi, a confondermi con un mezzo svanito. Però vi ripeto che il vostro Luca non ci torna qui: e anche se torna non vi farà certo la gentilezza di impiccarsi, ed è un peccato sapete. E’ come sua madre, lui. Voi avrebbe impiccato, se avesse sospettato che ci avevate dei soldi. Date retta a me, tirate giù quella sudicia corda: tanto lui la corda l’ha già avuta, da qualche altra parte, m’immagino. Bentley (spaventato) — No!... no. Anna — Oh, i tipi come lui 'finiscono tutti male. (Ir ritata) Santa Madonna, io sto almanaccando attorno alle vostre pazzie e la cena non è ancora pronta. Andiamo, babbo. Ora prendete la medicina. Avete visto, la vosLra corda non l’ha toccata nessuno. Poi sedete e leggete la Bibbia, eh? (Nessun movimento del vecchio. Essa si curva su di lui scrutandolo incerta nel viso) Non mi sentite? Spero che non siate in una delle vostre crisi, quando non riconoscete nessuno. Capite chi vi parla? E’ Anna, babbo, la vostra Anna. Bentley (con rabbioso senile scatto) — Non mia! Progenie deU’inferno! (La colpisce con un brusco mal vagio movimento sul braccio col bastone. Ella ha un grido, e si scosta stringendosi il braccio). Anna (con un singhiozzo rabbioso) — Ecco il guada gno a voler essere gentile con voi, vecchio porco diavolo! (Un rumore di passi all*esterno. Entra Pat Sveney. Ha tutto Vaspetto di uno che è stalo a bere, la faccia conge stionata, lo sguardo collerico). Pat — Non è pronta la cena, pigraccia? (Si accorge delle sue lacrime) Cosa sei stata a frignare? Anna — E’ colpa sua. Cercavo di riportarlo a casa, ma è così ostinato che non mi è riuscito di smuoverlo. E quando mi sono avvicinata mi ha colpito col suo bastone. Pat — Cosa ha fatto? Ora glielo insegno io. (Avanza minaccioso su Bentley). Anna (fermandolo per un braccio) — No, Pat. Lo vedi, ha il solito accesso. Potresti ammazzarlo! Pat — Volesse il cielo! Bentley (sibilando) — Papista! (Intona) «Rovescia la tua furia sui pagani che non ti conoscono e sulle fa miglie che non ti chiamano col tuo nome, perchè essi hanno mangiato Giacobbe e lo hanno divorato e consu mato, e hanno fatto desolata la sua abitazione ». Pat (istintivamente si segna, ma subito dopo ha un moto di disprezzo) — Sputatemi pure addosso le vostre maledizioni. Non ci credo die il Signore Iddio stia ad ascoltare un vecchio cretino peccatore come voi. (Ad Anna) Che gli è preso di arrampicarsi fin quassù? L’ho lasciato oggi in paese che non era capace di alzare un piede. Anna — La solita storia della corda. Aveva bisogno di assicurarsi che è sempre lì. E’ l’idea fissa, da quando Luca se n’è andato. Bentley (indicando la corda col bastone) — Eh! eh! Luca deve tornare. E allora vedrete, voi. Vedrete. Pat (interrompendolo nervosamente) — Smettetela con questo gracidìo da mentecatto, per amor del cielo!? (Una risataccia forzata) Ma è possibile che siate ancora convinto che quel ladro del vostro figliolo tornerà ad LA CORDA impiccarsi, pazzo che non siete altro, e per causa delle vostre maledizioni? Sono cinque anni che è scappato, e neanche la più piccola traccia di lui, per ora, capito? E voi che passate i giorni e le notti ad invocare su di lui la collera di Dio: ecco come Egli vi ascolta, cosa ne pensa delle vostre maledizioni. Anna — E’ inutile parlare con lui, Pat. Pat — Secondo me, Luca è stato impiccato, e da un pezzo, ma dalla polizia. Non penserete che sia finito hene quel ragazzo. (Il suo sguardo va alla corda) E quell’aggeggio lo voglio proprio tirar giù. Farò proprio così. (Avviandosi ad eseguire) E guardiamo se allora il vecchio birbante rimarrà a casa, dove deve stare. (Bentley agita freneticamente il suo bastone nell’aria con dei ruggiti di rabbia). Anna (spaventata) — Lasciala stare, Pat. Guardalo, è capace di farsi male. Lascia stare quella corda, non dà noia a nessuno. Pat (si ferma riluttante) — Ma è una brutta vista, lì che pende aperta come una bocca. (Il vecchio ricade in una tranquilla immobilità. Pat alla moglie, a bassa voce) Dov’è la bambina? Fai in modo che lo porti via di qui. Ti devo dire qualcosa che lui non deve sentire. (Va alla porta e chiama) Maria! Maria! (Un debole grido di ri sposta e Maria entra correndo nella capanna. Pat l’afferra rozzamente per un braccio. Essa cerca di svincolarsi spaventata) Ora tu accompagni il nonno a casa. E devi stare attenta che ci rimanga. Anna — Dagli la medicina, anche. Pat (come la bambina se ne sta attonita dinanzi a lui, scuotendola impaziente) — Hai capito? (Ad Anna) L’ho sempre detto, questa è scema. E non c’è da dire che prenda da me, perchè anche tu hai la testa un po’ in cam pana, che Dio ti aiuti. Quanto a lui, basta guardarlo. E’ un male della vostra famiglia, una maledizione, davvero! Anna — Hai bevuto in città, altrimenti ti vergogneresti a parlare in questo modo. Maria (piagnucolando) — Mamma, mi fa male...! Pat (lascia andare la bambina e si avvicina a Bentley) — Su, vecchia birba, alzatevi: tornate a casa. Vi ci porla Maria. (Bentley tenta di batterlo col bastone) Oh, vole vate eh? (Gli strappa il bastone di mano■) Non vi con siglio di riprovare, razza di manigoldo. Avanti, ora. (Spingendosi innanzi il vecchio) Vieni qui, Maria. Pren dilo per mano, svelta. (Essa esegue tremando) Portalo a casa. Anna — Da bravo, babbo. Vi raggiungo subito e vi preparo la cena in un minuto. Bentley (resiste cocciutamente e attacca a voce squar ciata) — «O Signore tu hai visto il mio errore, tu giu dica. Tu hai visto il loro desiderio di vendetta, le loro immaginazioni contro di me ». (Così spinto è arrivato alla porta. Resiste ancora. Maria lo tira per la mano con divertimento infantile. Pat lo spinge). Pat — E piantala con questa roba! Bentley (di rimando) — «Ricompensali col male o Signore, per il male che fanno... ». Pat — Zitto! Ho detto! Con codesta voce da cornac chia. Toh, ecco il vostro bastone (glielo dà). Ma che non vi salti in mente di toccare la bambina con questo, o io vi spiaccico al muro, vecchio come siete. Bentley (sulla porta scuotendo il bastone verso Pat e sua moglie) — «Appesantisci il loro cuore, la tua maledizione cada su di loro. Perseguitali e distruggili, mentre la tua ira riempie tutti i cieli ». Maria (ancor più divertita) —• Vieni, nonnino. (Escono finalmente a destra). Pat (si frega le mani con un furtivo sospiro di sol lievo) —- Sia ringraziato Iddio! Se n’è andato. Che razza di serpente. (Siede alla sinistra del banco) Vieni qui, Anna. Dunque... (Anch’essa siede. Pat ammicca con fare misterioso) Bene, l’ho veduto, che Dio mi danni. Anna (stupita) ■ — Chi? Pat (deciso) — Chi! Ma Dick Waller, il notaio! Ti ricordi che lo cercavo. (Abbassando la voce) E gli ho tirato fuori quello che volevamo sapere. (Furbescamente) Tu hai detto dianzi che ho bevuto. E’ vero, ma questa bevuta era proprio nel mio piano. (Con un sorriso) Lo sai che, quanto a bere, sono un campione: e lui, invece, poveraccio... (Astuto) Il «whisky » gli ha sciolto la lingua ed ha chiacchierato finché mi ha detto tutto quello che sa. Anna — Ti ha detto... del testamento del babbo? Pat — Sì. (Desolato) Ma per quello che ce ne viene, non valeva davvero la pena di fare i furbi! (Con uno scatto) Vecchio miserabile spilorcio! Anna — Che ti ha detto? Pat — Da principio quasi niente. E’ un tipo quello, 10 sai; ti chiederebbe la mancia per dirti come ti chiami, se gli riuscisse; soltanto che tutta l’astuzia gli è svapo rata a forza di bicchieri. Già. E così ho cominciato col dirgli che volevo solamente fargli un salutino, siccome noi ci conosciamo da anni; poi, io sapevo il suo punto debole, gli chiedo di prendere un goccio, e lì bevi e bevi, soprattutto lui: tanto pagavo io! Ad un certo punto gli faccio direttamente la domanda. Il vecchio era malato, sempre più male in gambe, gli dico, e siccome lui era 11 notaio, ed il testamento quando scappò Luca, l’aveva fatto con lui... Allora si mette a sghignazzare... e ad ammiccare, era hello fradicio ormai, e mi fa: «E’ inutile, Pat: la fattoria l’ha lasciata al ragazzo». ((All’inferno la fattoria - gli rispondo - è ipotecata fino all’ultima te gola, ma il denaro? ». «Il denaro? - mi guarda .sorpreso • quale denaro? ». «Il denaro liquido che gli è rimasto ». «E tu sei scemo - mi (fa - denaro non ce n’era affatto: solamente la fattoria». «Volete dire che lui non ha par lato di alcun denaro nel testamento »? Puoi credere, stavo ,sulle «pine. «Davvero - mi risponde - non ne ha parlato, .sulla mia parola ». (Pausa) Hai capito? (Indi gnato) Ed ora che cosa facciamo, demonio sputato dal l’inferno ? Anna .— Forse Waller mentiva. Pat — No, no. Era veramente sorpreso di sentirmi parlare di denaro. Anna — Ma i mille dollari che il babbo ricavò dal l’ipoteca, giusto prima che quella donna se ne andasse... Pat — L’ipoteca! Ed io che mi ammazzo dal lavoro per pagare l’interesse. Anna — Già. Cosa ne avrà fatto? Non credo che li abbia spesi. Erano in pezzi d’oro da venti dollari. Mi ricordo che me lo disse proprio il signor Keller, della banca. Pat — Non ha speso neanche un centesimo! Sai be nissimo anche tu che solo per il mio martellare e segare e inchiodare non è ancora finito in un ospizio, anzi in manicomio. EUGENIO 0 NEILL Anna — Che se li sia portati dietro quella cialtrona quando scappò? Pat — Ma neanche. Lo so di sicuro. Non ricordi la lettera che quella gli scrisse dopo, dicendogli che poteva tirar su Luca con il denaro avuto dall’ipoteca che avevano firmato insieme? Perchè la fattoria lui l’aveva intestata a lei, quando la sposò. E Luca? Dove vuoi che li abbia trovati quei cento dollari che aveva rubati quando scappò via anche lui? No, il vecchio allora doveva avere del denaro liquido con se, e si tratta solo di cinque anni fa. Anna — E allora saranno nascosti in qualche parte della casa. Pat — Ecco, forse questo. Stanotte mentre dorme voglio scavare in cantina. Prima ci passava le giornate laggiù, recitando la Scrittura. Anna — E Waller che cos’altro ha detto? Pat — Niente di più: eccetto che noi dovremmo metter gli avvisi sui giornali o altro riguardo a Luca. Se non torna entro sette anni, oramai ci sono soltanto due anni, il tribunale dovrebbe dichiarare che è morto e darci a noi la fattoria. E pensa che razza di comodo sarebbe, ora che siamo senza un soldo. E quest’altro imbecille che andò a penderla, per rimettersi a fare il signore! Anna — Non si può far revocare il testamento in tri bunale? Pat —.Walìer dice che non serve; il vecchio era sano di mente quando lo fece, e poi i denari per il tribunale chi te li dà? Anna (rassegnata) — Allora non c’è niente da fare. Pat — No, soltanto aspettare e pregare che quella ca naglia di ragazzo non torni più, e magari cercare dove il vecchio ha nascosto il denaro, se ce l’ha ancora. Lo prendo per il collo, guarda, e lo sbatacchio fino a che non ha parlato, come è vero che è tuo padre! (Mene fuori dalla tasca una bottiglia di un buon quarto di litro, e tira già una grossa bevuta) Ah! Se avessimo solo quei mille dollari! Si potrebbe liberare la fattoria e finirla con questa vita da cani! (Indica con scorno gli arnesi da carpentiere) Lavorando forte, magari con un uomo o due ad aiutare, in pochi anni ci si rimetterebbe a nuovo. Perchè questo è un posto che rende ed ai suoi tempi rendeva. Anna — Ah, sì, è sempre stata una buona fattoria. PAT — Si capisce. Quanto a lui non starà ancora molto in cervello, me l’ha detto il dottore. Da un momento all’altro può venirgli un nuovo accesso e dopo quello si potrà farlo dichiarare alienato, e non avrà più diritto a niente. E quel denaro che non si sa dov’è!! Dimmi se ci diventa pazzo prima di averlo trovato. E’ capace di dimenticarsi dove l’ha messo. Maledetto sia il demonio e tutto! (Un altro gran sorso: poi rimette la bottiglia in tasca; con un sospiro) Oh, insomma. Salverò quello che posso. E se ho un po’ di fortuna col commercio, può darsi che fra due anni potremo averli messi insieme. (Si è fermato: anche Anna ascolta sospesa il rumore di passi pesanti. Il rumore si avvicina alla porta, animato ora di voci, di festosi strilli di Maria e dei toni profondi di un uomo che le risponde. Pat, incerto) E’ MariaMa... (Si alza di colpo come un lampo) Non sarà... (Luca è comparso sulla soglia lenendo per mano Maria che si agita dalla gioia. Ora avanza nella capanna... con un sor riso equivoco). Anna — Luca! Pat (segnandosi) — Gloria a Dio. E’ lui!? Maria (saltando festosamente) — E’ lo zio Luca! Bene, è lo zio Luca! Lo zio Luca! (Corre verso la madre che l’allontana con un gesto assente). Luca (osservandoli entrambi con aria divertita) — Proprio così. E’ Luca. Tornato dopo cinque anni di girare per questo vecchio mondo, sulle navi e altre diavolerie del genere. Liquidato da una settimana, qual che giorno, si capisce, di pazza gioia, deciso di tornare a casa, trovata la mia strada, ed eccomi qua. E voi? Scoppiate di soddisfazione a vedermi, tutti e due, no? (Dirigendosi con un riso aperto verso Anna) Come, neanche tu hai sentito il bisogno di fare quattro chiac chiere col fratellaccio sperduto, Anna? Eppure s’andava d’accordo, io e te, porca di una miseria! Anna (con uno sguardo velenoso di odio) — E tieni le mani a posto! Luca (con un mezzo grugnito) — Sempre la stessa, naturalmente, mai una parola buona. (A Pai) E tn, come va, cognato Pat? Pat — Io... io non mi sono mai abbassato fino a strin gere la mano di un... Luca (la sua voce diventa minacciosa) — E anche tu, sempre un chiacchierone! Io però non sono più dolce come allora, quand’ero solamente un cucciolo. Non te ne dimenticare. (Intanto Maria si diverte a far balzare tra le mani un dollaro d’argento. La madre la scorge). Anna (con voce piena di intenzione) — Maria! Cosa ci hai lì? Dove l’hai preso? Dammelo immediatamente!! (Maria stringe il dollaro al petto con silenziosa ostina zione). Luca — E lasciala stare, che diavolo ti piglia? E’ un dollaro d’argento: gliel’ho dato io dianzi quando l’ho incontrata davanti a casa. Lei mi ha detto dove eravate e io gliel’ho regalato : così va a comprarsi le caramelle. L’ho avuto a San Francisco: ruote di carro, li chiamano laggiù. Da queste parti non usano, almeno che abbia visto io : apposta me lo son tenuto fin qua. Anna (in tono malignamente collerico) — Non m’im porta niente dove l’hai preso! Mi basta di sapere che non l’hai avuto certamente in maniera onesta: Maria, rendiglielo subito. (Come la bambina esita, batte i piedi furiosamente) Hai capito!! (Maria accenna a piangere, ma finisce per porgere il dollaro allo zio). Luca (prende il dollaro con uno sguardo di disgusto alla sorellastra) — Avevo ragione di dire che non sei punto cambiata, Anna: sei sempre la solita. (A Maria in tono consolante) Su, non piangere, mimmo. Ora si va fuori, io e te, in cima allo scoglio: e ci si mette insieme a tirare i sassi nel mare, come si faceva prima, ricordi? (Il visetto di Maria si rischiara immediatamente). Maria (indicando il dollaro che lui ha in mano) — Tira quello lì, zio! Salterebbe così bene, sai? Luca (con un sogghigno) — Questa è una idea, piccola. Non è buono ad altro, sai, che a fargli fare un bel volo; invece di starselo a covare come ti avrebbe insegnato la tua miserabile gente. Toh, prendilo e tiralo via. (Le rende il dollaro. La bimba trotta verso la porta). Oh, mi sto accorgendo che la vostra bambina è una ragazza in gamba. E spero (con intenzione) che non ci abbiate da fare obbiezioni. Maria (impaziente) •— Andiamo, zio Luca. Vieni a vedere quando lo tiro. LA CORDA Luca — Bene! (Fa verso la porta: indi si ferma ap poggiandosi contro lo stipite sinistro. Intanto Maria è arrivata allo scoglio e ora si sporge in avanti guardando in giù e ridendo eccitata. Egli a Pat) Gente, io esco un momento. Intanto voi due mettete fuori tutte le luride cose che state pensando di me. (Una minaccia riaffiora nella sua voce) Però, ritorno subito: e si chiacchiera a muso duro tra noi, no? Mica tornato per chiasso, io, e prima vi entra nel cervellone, meglio è, vero? Maria — Vieni, zio, vieni... Luca — Eccomi. (Esce). Maria — Lo tiro ora? Lo posso tirare? Luca — Non tanto sulla cima, piccola. E’ fondo qui di sotto, Cristo, e se sdruccioli mi diventi un topo anne gato. (Essa si ritira di un passo) Aspetta: lo tiri quando dico tre. Attenta! (Tira indietro il braccio) Uno, due e tre! (Essa tira il dollaro e si china a guardarlo sull’acqua). Maria (battendo le mani, felice) — L’ho visto! L’ho visto! Ha rimbalzato sull’acqua! E ora dov’è, zio? Pro prio in fondo? Luca — Porca miseria, se è in fondo. Via, via sta a vedere ora come le tiro lontano le pietre io. (Raccatta due pietre e se le mette ¡accanto. Durante la conversa zione seguente tra Pat e sua moglie, egli continua a giocare in tal modo con Maria. Si sentono le loro voci, delle parole indistinguibili). Pat (dopo uno sguardo sospettoso verso la porta, con un gran sospiro) ■ — Bè, parla del diavolo e ne vedi le corna. (Con furia improvvisa) Sta a buttare i dollari, quel porco ladro, e noi qui senza... Anna (interrompendolo) — Hai sentito come ha detto? Un tipo come lui non torna di certo per farci le carezze. (Abbassando la voce) Cosa credi, che sappia della fat toria?... Pat — E come farebbe? (Pensando) A meno che... (Dubbioso) Mah. (Con subitanea decisione) In ogni modo non te ne impicciare, lo sistemo io. E anzi, potevi nascondergli quel tuo maledetto odio, vipera, già, come tutta la tua razzaccia. Bisogna fargli l’amico in faccia, no, per sapere che diavolo sta meditando, ed io gli farò l’amico in faccia, che Dio arrostica l’anima sua! Corri a casa tu, vai e cerca di preparare il vecchio alla notizia: non ci pensi che se arriva qui all’improvviso, se ne va anche quel po’ di senno che gli è rimasto, e così quello ci diventa un completo scemo, e questo la fattoria se la prende domani. Anna (alzandosi) — Già: glielo dirò un poco alla volta. Pat — Brava, e mi raccomando, prudenza, almeno ora, se no stassera si perderà la fattoria, stassera. (Essa è quasi alla porta, quando Pat parla con improvvisa intima sollecitazione. Ha una strana voce terrorizzata). Hai visto? (Pausa). Anna (quasi non pensando) — Che? Pat — Luca. Dianzi, subito quando è entrato: stava là, col nodo della corda che quasi gli toccava la testa. (Esita) Quasi desideravo... Anna (con chiarezza malvagia) — Che gli stesse attorno al collo, quella corda, e che lo strozzasse. Ecco che cosa desideravo io: che s’impiccasse, proprio come dice il babbo ! Pat— Ssst! Vuoi farti sentire?! Ecco che torna, vattene. Maria (cercando di trattenere lo zio che torna verso la porta) — Un altro di quelli, zio! Me ne tiri un altro! Luca (fermando Anna che stava uscendo sulla porta) — Dove vai. a casa? E da cena, c’è proprio niente? Avrei una gran fame... Anna (con calma calcolata) — 'Sì. Luca (giovialmente) — Meno male! E dì al vecchio che sono qui, e che fra poco scendo a salutarld: sarà contento di vedermi, oh Cristo! Maria (con noiosa insistenza, tirandolo per la mano) — Un altro, ziino, un altro... Luca (liberando la mano) — Bambina, guarda quante pietre ci sono. Tirale |pure! Mica si seminano i dollari. Maria (piagnucolando) — No, no. Le pietre non le voglio tirare. Un altro di quelli! Pat (severamente) — Lascia stare lo zio, marmocchio. (Essa iquasi piange) Corri ad aiutare la mamma, se non vuoi avere due scapaccioni. (Essa corre fuori. Pat si volge a Luca e gli porge decisamente la mano). Luca (guardandolo con estrema meraviglia) — Ohè! E che significa?! Pat (con un ampio sorriso propiziatorio) — Il passato è passato, va là. E poi anche in questi anni io non ci ho avuto niente contro di te: eri un ragazzo quando 6ei scappato, e c’è davvero poco da rimproverarti. Te l’avrei data dianzi, la mano e volentieri, ma c’era lei; e sai che lingua indiavolata! Non può dimenticare le risse che avevate insieme. Luca (ancora guardando la mano) — Ah ah! E’ così che tira il vento, ora. (Decidendosi) Bene, ne approfitto. (Si stringono la mano e siedono intorno al banco). Pat (tira fuori una bottiglia dalla tasca della giacca. e facendo l’occhietto) — E di un brindisi, che ne diresti? Questa è roba fine. Luca — Oh, Cristo! Che ne direi! (Beve un gran sorso e restituisce la bottiglia). PaT (beve anche lui e mette la bottiglia sulla tavola) —■Scusa se non si è fatto prima, ma è lei! Non volevo che lei vedesse. (Indica la bottiglia. Pausa, durante la quale si misurano cogli occhi, come riflettendo). Luca — Dimmi un po’, come sta il vecchio ora? Pat (cauto) — Oh, come sempre, più vecchio e più brutto, forse. Luca — Mah. Io lo facevo proprio sotto terra, ormai. Pat (in fretta) — Macche. E’ anche tanto volpone da farsi passare per scemo, però è sempre in cervello. Luca (con intima interrogazione) — E... cogli spiccioli, tirate come allora, immagino. Pat — ¡Se fosse il padrone dell’oceano, non darebbe da bere a un pesce. D’altronde non credo che gli sia rimasto neanche un soldo. Penso che tua madre gli abbia finito ogni cosa. (Luca sorride con aria di chi la sa lunga) Ha solamente questa fattoria, vedi, e piena di ipoteche, lo so io che col mio lavoro gli ho pagato gli interessi in questi cinque anni, e le note del dottore, e tutto il resto. Luca — Uhm. Come sei buono tu. Pat — Cosa vuol dire? Luca (più seriamente) — Ah, niente. (Come i suoi occhi vanno girando per la stanza, si fissano sulla corda) Toh! O che diavolo... (E’ preso da un improvviso con vulso di risa e si batte le gambe) Nooo. Oh, vecchio ma scalzone. Più mascalzone di un olandese! Pat — Cos’hai? EUGENIO O’ NEILL Luca — Quella corda! Scommetto che è lì a ciondolare da quando io scappai! Pat — Proprio così: è stato lui. Crede che tu saresti ritornato a casa per impiccarti. Luca — Sì, l’ha trovato buono. E tu dici che non è scemo? (Ancora ridendo) Qui ci vuole un altro brindisi. (Pat spinge la bottiglia verso di lui. Egli la alza verso la corda) Eccoci qua, vecchio camerata! (Bevono; Luca tace come ricordando) Dimmi: te ne ricordi come andò quel giorno... quando mi malediva perchè gli avevo, piz zicato i quattrini? Era lì, in piedi, e mi agitava contro il famoso bastone: e io ridevo a vederlo così buffo: sba vava dalla bocca come un cane rabbioso. E quando gli arrivai una botta, cominciò a urlare: «Ricordati, se ti vedrò tornare a casa, che qui c’è una corda ohe ti aspetta per impiccarti, bastardo ». (E il suo viso si aggrotta, spula con |disgusto) Vecchio pirata. Bisogna bene essere un vec chio diavolone, per avere una simile idea! Pat {di nuovo porgendogli la bottiglia) — Bevi su, e non ci pensare. Son cose passate ormai. Luca — .Ma la corda c’è ancora, no? Lui se la tiene là. (Beve un lungo sorso e così Pat) Ma ci torno, sì che ci torno da lui, vedrai. E questa volta lo pelo fino al l’ultimo soldo. Pat (con improvviso calcolo) — Se ci ha un soldo. Non è per scoraggiarti, ma... (Scuote la testa dubbiosa mente guardando fri tralice con uno sguardo penetrante). Luca (ammicca) — Ma... che?! E io non lo conosco?! Lasciami fare (Comincia a mostrare gli effetti dell’alcool. Si arrotola una sigaretta e la accende. Fumando con mil lanteria) Sei una cornacchia di paese, tu: su, più in gam ba! che ne vedrai delle belle. Vedi, anch’io ero grezzo come la canapa, quando me ne andai. Ma se ti mettessi a girare il mondo ;e a vivere nelle città, e se te ne capi tasse di tutti i generi... E soprattutto se tieni gli occhi bene aperti... Insomma si imparano, certe cosette! Pat — Hai ragione, non ne dubito. Noi del posto siamo proprio dei cretini. E d’altronde, come si fa ad imparare? Bisognerebbe aver viaggiato, come hai fatto tu. Luca (soddisfatto) — Bene, lasciami fare. Ti insegnerò io. (Sghignazza sguaiato) Così, tu pensi che il vecchio... {Accenna come a dire: ((non abbia più un soldo con se »). Pat — Già. Luca — E allora sei un ingenuo. Questo è 51 fatto, un bambinone ! Pat — Può essere. Ma (di certo, se ha qualcosa, è na scosto e bene. E’ un uccellacelo astuto, sai. Luca — Ed io un uccellino ancora più astuto. L’hai capito questo? Lui con me la fa bassa, te lo dico io. Lasciami fare! (Riprende la ,bottiglia e beve. Pat beve anch’egli: comincia ora a stare davvero male in gambe. Singulto di quando in -quando, e la sua voce è incerta e rauca). Pat — Bada, che per trovare dove li ha nascosti, bi sogna essere proprio fini... Luca — E tu lasciami fare. Vedrai se li troverò! Ci scommetto quello che vuoi. Lasciami fare, t’ho detto, lascia che mi rinfreschi le idee. E stanotte, vedrai, sta notte... (Si ode fuori un rumore di passi strascicati e la disperata voce di Anna). Pat — Diavolo! Questo è proprio lui! (Luca si alza aspettando con un piglio sicuro e insieme cauto. Entra Bentley, seguito da Anna: è in uno stato di straordinario eccitamento, tremante ed affannoso: i suoi occhi divorano Luca dalla testa ai piedi). Anna — Non ce la facevo sai. Quando gli ho detto che era ritornato « lui » non c’è stato verso di tenerlo : l'ho dovuto lasciare andare, aveva quasi la schiuma alla bocca. (Lamentosa) Avresti dovuto vederlo, Pat. Io non potevo... Pat — Basta, stai zitta, ora me ne occupo io. Anna — Ecco, bravo, mi raccomando. Io me ne vado. (Esce da destra. Luca e suo padre sono di fronte, guar dandosi. L’espressione sicura svanisce dalla faccia di Luca. Egli si apre in un ampio sogghigno). Luca (gioviale) —• Ehilà, vecchio dannato! Mi pare che vi solletichi l’idea di vedermi, oh Cristo. (Il vecchio mugola e balbetta incoerentemente; come se l’intensità del suo desiderio di :parlare gli avesse paralizzato la ca pacità di articolare. Luca si volge a Pat) Vedo che ha an cora il vecchio bastone. Ci ho spaccato tante noci, io, con quello. Bentley (improvvisamente ritrovando la voce, ùitona) — «Prendi la roba migliore e mettigliela addosso: metti un anello alla sua mano e scarpe ai suoi piedi, e prendi un vitello grasso e uccidilo e lascia che mangino e siano felici. Perchè questo mio figlio era morto ed è ancora vivo. L’avevo perduto e l’ho ritrovato ». (La sua voce si rompe in un singhiozzo). Luca (con disapprovazione lievemente imbarazzato) — Ma come, avete ancora la mania di queste strombazzate? Non ci lascerete mai in pace con Dio e tutta l’altra roba, no? Su, datemi la mano come una persona perbene. (Gli offre la mano. Il vecchio traballa verso di lui con la mano tesa, Luca la prende e la scuote vigorosamente) E’ il vostro ragazzo, porca miseria! Pat (con sincero stupore) — Guarda un po’ che razza di doppia faccia, vecchio mentitore. (Bentley accarezza tremante il corpo di Luca, toccandogli le braccia, il petto la schiena. Una gioia incontenibile anima i suoi logori lineamenti). Luca (sogghignando a Pat) — Oh, ma guardalo dav vero! (Con un tollerante buonumore) A quanto pare, ha avuto piacere di rivedermi. Ha tutto l’aspetto di uno che tenti di sorridere, e io non ricordo di averlo mai visto sorridere. (Come Bentley prova a passargli la mano sul viso) Su, piantatela. (Allontana il suo braccio, però senza mal garbo) Sono qui tutto intero, datevi pace, non sono un fantasma. Ed ora mettetevi a sedere: se no fini rete per «batacchiare in terra, con codesti trabiccoli di gambe. (Sorregge il vecchio fino al panchetto accanto alla tavola) Ecco. Accomodatevi perbene. (Bentley crolla a sedere. Luca va a cercare la bottiglia) Avete a bere alla salute del mio ritorno: vi rimette a nuovo. Pat (allarmato) — Sta attento, Luca. Può darsi piut tosto che lo ammazzi... Luca (accosta la bottiglia alla bocca del vecchio, soste nendogli lai testa. Il « whisky » gocciola dal suo mento, ed egli ha un accesso convulso di tosse. Luca ride) Ah! ah! V’è andato a traverso, eh? Guardate come si fa. (Beve) Ecco fatto: liscio come la «età! (Porge la bottiglia a Pat, che beve e la rimette sulla tavola). Pat — Ha anche bevuto: deve essere proprio soddi sfatto di averti rivisto! (Scuotendo la testa) E dire che per cinque anni non ha pensato che a maledirti, giorno LA CORDA « notte, continuamente. Io ci farei la testa... bada però eli» non ci sia qualcosa sotto sotto. Lo conosci che tipo è. Luca (come il vecchio gli fa dei segni con la mano) — E adesso che cosa vuole? Ha perso daccapo la voce. Cosa volete, eh? (Bentley indica con il bastone la corda. Muove freneticamente le labbra come facendo un tre mendo sforzo per parlare). Bentley (farfugliando) — Luca... Luca, corda, Luca, impiccare... Pat (impressionato) — Ci siamo. Cosa ti avevo detto? Ecco cosa vuole. Vuol vedere che tu ti impicchi! Bentley (assentendo) — Sì, Luca. Impiccarsi... Luca (prendendola in ischerzo con un riso squarciato) — Ah, ah, ah! Ma lo sai che è roba... Peggio degli olan desi! Il vecchio beccaccione! Bravo, bravo, molto bene. Obbligatissimo, tante grazie. Ah, ah! (Prende la seggiola dalla sinistra e la mette sotto la corda. Il vecchio lo segue con attenzione spasmodica, come compiaciuto. Luca monta sulla seggiola). Pat — Sta attento, fammi il piacere. Io non ci scher zerei tanto con codesto aggeggio. Luca — Tutti qua! A vedere l’impiccagione di Luca Bentley, fatta da me stesso. {Si mette attorno al collo il nodo scorsoio, con un’aria di sbravazzata ubbriaca, e sogghigna a suo padre. Questo gli fa violenti cenni di continuare) Guardalo, Pat. Bontà di Dio, ha anche fretta! Ah, ah! Bene, vecchio mattacchione, è fatta. (Accenna a dare un calcio alla seggiola e a lanciarsi nel vuoto). Pat (avvicinandosi ai suoi piedi, inorridito) — Luca! Sei impazzito?! Luca (si è fermato, guardando fisso suo padre che continua a gesticolare per incitarlo. Uno sguardo torvo rimpiazza il suo sorriso divertito) — Ma ci credevate davvero, di starmi a vedere mentre mi impiccavo? (Ben tley accenna di si, vigorosamente. Luca lo osserva in silenzio) Bè mi ci dannerei. {A Pat) Ed io che ero con vinto che stesse solamente scherzando. (Si toglie il ca pestro delicatamente. Il vecchio scalpita selvaggiamente, ruggendo di disappunto. Luca salta dalla seggiola ed esamina suo padre per un secondo, poi impallidisce di collera) Perdio, che vi spacco le ossa, vecchio lurido assassino! Pat (in piedi con un grido) — Luca! Per amor del cielo ! Luca (aveva agguantato la seggiola e la scuoteva sopra la testa di Bentley, come a volergliela spaccare. Ora esita, poi butta la seggiola dietro le spalle, guardando minac ciosamente il padre con le mani sui fianchi. Indi gli ag guanta le spalle e lo sbatacchia rabbioso). Sicché mi vo levate vedere impiccato, eh? E magari mi avreste im piccato da voi, se aveste potuto è vero? E siete mio padre, dannato figlio di un cane, lo avreste fatto, no? L’avreste fatto? {Lo scuote sempre di più). Pat —- Luca! Bada a quel che fai. Cosi l’ammazzi. Luca {manda disteso il vecchio sul pavimento con un ultimo strattone) — Andatevene. Andatevene fuori prima che vi finisca. (Pat si affretta a raccattare il vecchio ter rorizzato) Portalo via, Pat. {La sua voce si incupisce) Portalo via subito o gli spacco le ossa. {Alza i pugni chiusi sulla testa di Bentley). Pat — Ssst! Non urlare. Me ne occupo io. (Trascina il vecchio alla porta) Andiamo fuori, ora: tornate a casa, svelto. Avete già combinato abbastanza guai. (Escono. Luca si butta a sedere respirando affannoso. Ingurgita un gran sorso di alcool. Pat rientra e gli si siede vicino) E’ a casa, grazie a Dio. E’ là che trema come una lepre. E urla. Si sente anche a distanza, da quando urla. (Con un sospiro) Dio, che serata. Luca {cupo) — Figlio di un cagnaccio arrabbiato! Pat — Credevo che dianzi tu me lo ammazzassi, con quella seggiola... Luca — Maledettamente bene, se lo avessi fatto! Pat — E tu che ci ridevi insieme, un momento prima! Mi sembrava che tu scherzassi. Luca — E infatti scherzavo. Ma credevo che scherzasse anche lui, con me! A un certo punto mi sono accorto che faceva sul serio... {Un pugno sulla tavola) Ma sarà un beH’imferno di vecchio, secondo te? Pat —• Davvero un vecchio maialone. Luca — Perchè faceva sul serio. L’hai visto quando mi stava a guardare? {Sempre più cupo) Ma sarà un inferno di vecchio, con quella sporca idea, ma sarà? Pat {per calmarlo) — Ya là! E’ passato, non ci pen sare più. Luca {ingoiando a stento le lacrime) — Ma proprio mio padre, vedi. Vedi che gente. E’ mio padre! Ed io che patisco la fame, e mi scotenno su e giù per questo schifoso mondo, e me la sgobbo fino a morire sulle navi e peggio: e poi quando torno a casa, c’è chi mi vuol levare di mezzo... e mi vuol vedere morto davvero... e proprio mio padre... con quell’idea da sudicio boiafiglio di un cane. Pat ■ — E’ passato, non ci pensare più. Lascia perdere. {Lo picchia sulle spalle e spinge verso di lui la bottiglia) Bevi piuttosto un altro sorso. Fra poco si va a cena. Luca (beve: poi, ruvido) — Grazie. {Si asciuga la bocca con la manica, grugnendo) Però, ti voglio dire una cosa, che ci puoi contare. Perchè mica è passato, sai: e neanche passerà. (Ancor più minaccioso) Io non sono di quelli che dimenticano: e quanto a lui non dimenti cherà, ci puoi scommettere la vita, nemmeno se vive un milione di anni, porco dio. (Con impeto improvviso) E’ così. La faccio finita con lui, vecchia puzzola, la faccio finita. Lasciami fare! E anche subito, subito stasera, lasciami fare. Pat — Ma... Luca — Lasciami fare, ti dico. {Altro pugno) Ho detto che la voglio far finita e la farò finita... stanotte... e basta... stanotte. {Lo guarda un momento, torvo) Ma tu piuttosto... mica dalla sua parte, per caso? Pat {sputa) —■Questo è un discorso da ragazzini! Lo sai che cosa penso di lui. Luca {eccitato) — Bene. Allora ci andremo tutti e due da lui... io e te. Noi siamo compagni, no? Pat — Perdio! Luca — E faremo a mezzo di tutto. Eh? Sono un bravo ragazzo? Eh? Non è ben fatto questo? Pat — Certo. Luca — Perchè io di quella maledetta fattoria me ne strafotto... ti lascio anche la mia parte di quella. Mi vedi tipo da fare lo sporco zappaterra? Eh? Pat — Macché! Luca — E neppure me la sento di stare ancora a girare da queste parti. Basta! Via. Pat — Giusto. Via. Luca — Via. E questa volta non ritorno. EUGENIO O’ NEILL Pat — Ecco. Luca — E non mi si dica di fare il contadinaccio, e andare a mungere le vacche. Te la puoi prendere tutta la mia parte della fattoria; io ho bisogno di quattrini... altro che terra... quattrini: spiceioloni da poter spendere, da buttar via... come la tua bambina quando tirava quel dollaro mio sull’acqua. Ti ricordi? Oh Cristo: Un dollaro vero! Ma lo sai che è una ragazzina proprio in gamba? Pat (ansioso di riportarlo sull’argomento principale) — Già. E tutto questo denaro, dove credi di poterlo trovare? Luca — Sta tranquillo... ora ti spiego... lasciami fare! (Pausa) Io li conosco i suoi nascondigli: quando ero bambino stavo sempre a spiarlo... me lo aveva insegnato la mamma. Pat — Capisco: ma è un pezzo oramai che... ora tu non sai più... Luca — E invece lo so! Erano due i posti: uno, dove glieli ho trovati io quando scappai. Pat — Quindi, lì non ci sono di certo. Luca — Eh! ma ce n’è un altro: e lui non ha mai saputo che io lo conosco. Guarda che se non ero un ragazzo, allora e se non avevo paura di rubare di più, Io lasciavo pulito. Dunque, lasciami fare. Ci andremo insieme là, tutti e due. Io e te. Pat — E se il denaro non è nemmeno li? Come farai a sapere dov’è? Luca — Oh! Allora ce lo dirà lui. Pat — Non ci pensare. Non è tipo da parlare, lui. Luca — Ecco! Sei il solito vitellone. Io so un trucco o due per far parlare la gente quando ne ha voglia. (Prende dal banco uno scalpello) Lo vedi? Lo vedrà anche lui se non risponde subito e per bene. (Il suo viso si torce in un ghigno feroce) E ci andremo insieme, tutti e due, io e te. E lui dovrà dire dove li ha nascosti: e intanto noi giusto giusto metteremo questo nella stufa, finche non sarà bello rosso. Allora gli si leva calze e scarpe, e gli si rosola un pochettino i piedi. Sentirai come parlerà! Pat — E Anna? Luca — Al diavolo! Le cacceremo uno straccio in gola così starà zitta. Pat — E va bene. (Dimenando la testa da ubriaco, con uno sguardo avido) Mica sbagliata l’idea di riscardargli le unghie, a quel vecchio avaraccio scrofoloso, magari senza fargli tanto male. Luca (selvaggio) — Per forza gli faremo male, e non poco. (Iroso) E così lo pagherò, porco dio. Gli passerà la voglia di vedere la gente impiccarsi davanti a lui. Oh! Cristo, ne riparleremo. Gli spaccherò le ossa. (E’ in piedi con lo scalpello in mano) Andiamo! Andiamo. Io e te, al lavoro! Più presto andiamo e più presto di ventiamo ricchi. (Anche Pat si è alzato: si regge sulle gambe meglio di Luca. In questo momento Maria appare sulla porta). Maria — Ila detto la mamma che la cena è pronta. Io ho già mangiato. Luca (come una eco) — La cena. Maria (alza le braccia e salta cercando di acchiappare la corda) — Zio Luca, alzami, zio Luca. Voglio fare l’al talena. Luca (severo) — Che tu non tocchi quella corda. Hai capito? Maria (accennando a frignare) — Voglio fare l’aitalena... Luca (con un brivido) — E’ brutto fare l’altalena con quella corda, bambina. Lasciala stare. Pat — Ma sì, starebbe fresca se si azzardasse a toc carla. Ho detto. Luca — Giusto, compagno. Al diavolo anche la cena! Prima il lavoro. (Alla bimba, mentre si dirigono alla porta) Prima abbiamo da lavorare. Pat (sulla porta, volgendosi alla bambina che quasi piange) — E tu non ti muovere di qui, finché non ti si chiama. Hai capito marmocchia? Se non vuoi che ti faccia il sedere rosso come un fanale. Luca — E domattina ti darò un mucchio di quegli affari che luccicano. Allora li tirerai sull’oceano, e ti di vertirai davvero! Maria — Me li dai ora, zio Luca, me li dai ora? (Luca scuote la testa: essa ricomincia a frignare) Uno, ziino, uno, dammene uno. Luca — Impossibile, bambina. Lo ziino va col babbo dal nonnino a fargli una sorpresa... dal nonnino... Pat (aspro) — Zitto, con codeste chiacchiere. Credi che non abbia orecchie? Andiamo piuttosto. Luca (lasciandosi spingere fuori dalla porta) — Giusto! Andiamo... io e te... eccomi... oh Cristo... figlio di un cane... (Escono barcollando verso destra. Maria è sulla porta, e li spia per un momento. Poi torna nella stanza e si guarda intorno con aria decisa. Veduta la seggiola in un angolo, le si avvicina di corsa rizzandola sulle gambe... proprio sotto il nodo della corda. E’ salita sulla seggiola, afferra il nodo con le due mani. Con un grido di piacere dà un calcio alla seggiola e scivola nell’aria. La corda sembra staccarsi dal punto in cui è fissala al trave. Uno sporco sacchetto, legato alla sua estremità, cade sul pavimento con suono metallico. Maria è caduta in avanti sulle mani, ed ora è in ginocchio frignando... intanto dal solaio scendono silenziosi dei ciuffi di fieno, assieme a nuvole di polvere. Maria si è accorta di non essersi fatta male: i suoi occhietti vanno al sacco. Striscia sul pavimento fino a raggiungerlo, l’ha in mano, ne scioglie la legatura della bocca, vi caccia le mani, con una esclamazione di gioia lo rovescia versandosi il con tenuto in grembo, ridendo felice fra se; si alza, è alla porta, dispone ciò che ha in un mucchietto sul pavimento accanto alla porta stessa. Essi giacciono là in un lucido piccolissimo monte: vi si riflette con indifferente scherzo l’ultimo raggio del tramonto... Cinquanta pezzi d’oro da venti dollari. Maria (batte le mani e mormora con lieve canto) — Ora saltano, saltano, saltano... (Ne afferra quattro o cinque e corre alla cima dello scoglio: ora li getta uno dopo l’altro sul mare chinandosi a vederli schizzare sul l’acqua... e sembra un intmocente folletto, danzando contro lo sfondo acceso dell’orizzonte. Il suo riso squil lante stupisce l’aria, quando li ha finiti torna di corsa nella capanna per prenderne ancora. Riempiendosi le mani, con meraviglioso entusiasmo) Saltano, saltano, saltano... (Si volta per correre e lanciare anche quelli mentre cala la tela). F IM E B E L M E A M I A L ’ u ltim o a m o r e 'Àr Già carico di gloria e di anni, Ibsen s’innamora per l’ultima volta in vita sua, in Italia, durante il suo soggiorno nell’albergo Grobner di Colle Isarco, e l’oggetto della sua passione è una giovinetta di naziona lità austriaca: la signorina Bardock. Le fiamme di questo amore si ri verbereranno sulle opere del grande drammaturgo concepite dopo Hedda Gabler, tanto che la sua dolce amica dovette riconoscersi nel personaggio di Hilde del Costruttore Solness se, lontana dal suo illustre adoratore, ebbe a inviargli una fotografia fir mandosi «Principessa di Orangia ». L’idillio fiorì in quell’albergo del l’ultimo paese verso il confine ita liano del Brennero, che a quell’epoca si chiamava ancora Gossensass, e che anche allora era frequentato soltanto da spiriti amanti della solitudine, da qualche artista e da qualche poeta. «Nell’epoca del mio ricordo — scrive la protagonista dell’idillio — nell’albergo Grobner non vi era che una sola sala da pranzo. Ci sedevamo, mia madre ed io, ad un piccolo ta volo, e dall’altra parte sedeva Lui, Ibsen, affatto solo. Non era possibile che a qualcuno sfuggisse ch’egli mi guardava e mi osservava costantemente, e più tardi mi disse che sin dal primo sguardo era stato come sommerso. Non avevo in quel tempo letto nulla di Lui, ed egli mi faceva l’effetto di un vecchio signore che riposasse tranquillo e che amasse re stare lungamente seduto presso un bicchiere di birra. Teneva spiegato nervosamente un giornale che doveva salvarlo dai tentativi di attacco degli interlocutori, e però, fin dalla nostra prima conversazione, mi pregò di considerare quell’arma difensiva con tro gli altri come un invito speciale a sedermi presso di lui più spesso che potessi. Diventammo presto buo ni amici e sulla prima opera che mi regalò scrisse: Dedicata in buona amicizia. « Era allora nella pienezza del suc cesso. I telegrammi affluivano ad ogni rappresentazione delle sue opere ed egli li abbandonava sulla tavola lasciando a me il compito di aprirli, poiché aveva preso l’abitudine di chiamarmi la sua ” collaboratrice ” . La sua tavola veniva ogni giorno or nata di fiori da ammiratrici, ma co loro che credendosi privilegiati per nascita o per posizione sociale cer- d i E n r ic o Ib s e n carono di entrare in rapporti con lui, non hanno mai conosciuto il grande Ibsen. Uno di costoro mi di diceva: ” Se io non sapessi che Ibsen è proprio lui, non crederei nemmeno che quest’uomo fosse capace di com prendere Ibsen ” ». Continua la fanciulla nel suo dia rio : «La nostra conoscenza ebbe inizio alla fine di una festa in suo onore: credo si trattasse dell’inaugurazione di un suo busto, e la cerimonia ter minò con un concerto, alla fine del quale tutti gli si strinsero intorno. Allora una delle nostre conoscenti, la signorina Cranack, mi presentò a Lui, con queste parole : ” Ecco qui la piccola Bardach ”. Egli mi si avvi cinò levando il bicchiere e parlammo per la prima volta. « Come descrivere ora la grandez za di quest?uomo? Vi sono cose trop po delicate perchè ogni descrizione non sembri profanarle. Più d’una vol ta m’è sembrato ch’egli avesse una potenza paragonabile a quella degli elementi: la tempesta e i lampi fre mevano in Lui con variazioni ardenti. Poi ridiventava padrone di se, pren deva il tono del racconto, si serviva di un linguaggio immaginoso. Fu co sì ch’egli mi descrisse, un giorno, la festa data per l’apertura del canale di Suez alla quale aveva assistito co me rappresentante del suo Governo. « Una volta ero seduta vicino a lui, quando si avvicinò il professore Dil they, il ben noto storico della lette ratura, e tutt’e due si misero a par lare del Faust di Goethe. Egli espose idee assai personali, che mi fanno ricordare quel che di lui scrisse Giorgio Brandes: ’’ Niente è più si gnificativo per comprendere la gran dezza di Ibsen che Vosservazione seguente: in Norvegia è considerato dapprima un conservatore, poi un radicale ; in Germania un realista, un individualista e un socialista; in Francia un simbolista e un anarchico. In ognuno di questi Paesi non si scorgevano che alcuni lati del suo es sere, il che sta a dimostrare la diver sità e la molteplicità dei suoi raggi luminosi. Era un’individualità asso luta, cui non confaceva alcuna quafica, tanto più che detestava le opi nioni della moltitudine e tutto ciò che si suol chiamare partito. Biso gnerebbe prima formare una razza d’uomini nobili, e soltanto allora si potrebbe tentare di collocarlo nel novero delle loro idee „ ». Così Giorgio Brandes; ma scorria mo ancora il diario della fanciulla: «Nei primi giorni dell’ottobre del 1889 con mia madre lasciai Colle Isarco, dopo un soggiorno di tre me si. L’orario ci obbligava a partire alle tre del mattino ed Ibsen ci aspettava alla stazione, che era im mersa nella spessa nebbia autunnale propria dei paesi di montagna. Solo Le fiammate della locomotiva illumi narono i nostri addii e la fine delle nostre relazioni, le quali, date le cir costanze, non potevano avere altro seguito. Sempre durante i giorni in cui fummo insieme sentivo che non poteva essere diversamente, ma sen tivo anche che me ne sarebbero ri maste tracce dolorose ed incancella bili. Non l’ho più riveduto. Il Co struttore Solness ha parecchi rappor ti con le ore passate insieme, e la stessa lettera di felicitazioni che gli indirizzai per il suo settantesimo an no ebbe forse influenza sul suo Quan do noi morti ci desteremo, ma non certo per effetto della mia persona quanto per quello dello sguardo e dello spirito coi quali Ibsen sapeva considerare le cose ». Ma a queste pagine di sensibilità quasi infantile, fanno riscontro altre in cui la fanciulla guarda un po’ più a fondo in lui, Ibsen, e in se stessa: «:Ibsen si è incontrato con me; la sera gli son rimasta lungamente se duta vicino come accadde nel pome riggio di sabato. Tale contatto non può non farmi impressione, poiché egli mi testimonia una grande sim patia e le sue parole mi fanno spes so correre un brivido lungo la schie na. M’intrattiene sulle più gravi que stioni della vita e presume dunque molto dalla mia intelligenza; ma te mo forte ch’egli ne avrà un disin ganno. Dice che nessuno ancora lo ha tanto affascinato, ed afferma che mi studia molto, e che mi tende dei lacci nelle nostre conversazioni per farmi mentire, ma invano, poiché in me tutto è bello e nobile. Peccato che non abbia potuto fissare le sue parole: egli mi pregava insistente mente di parlare con Lui, di aprirmi completamente a Lui, in modo da. diventare collaboratori ». Ed ancora: « I o settembre. Sul sofà. Mamma è uscita. Eccomi dunque sola nella ca mera, infine libera di annotare le sen sazioni infinite che ho provato du- rante queste giornate; ma ecco che misuro come la lingua sia povera per esprimere quel che si sente. So lo le lacrime esprimono abbastanza. Non si sfugge al destino: e mi tocca di provare qualche cosa di straordi nario nella mia vita. Non vi sono gioie per me; una passione si desta sempre quando non può condurre a nulla di positivo, quando si è trat tenuti da tutti i divieti immaginabili. Ma come paragonare il presente a tutto il passato? Come tutto sembra povero e piccolo dinanzi a Lui! Mai prima d’ora m’era accaduto d’avvicinarmi ad un bene così lontano, e penso che tutti quelli che ho cono sciuto non erano che uomini ordinari mentre questo e uno spirito che do mina il mondo. Ieri Valtro nel po meriggio, quando eravamo finalmen te seduti soli insieme, ah! le sue parole! Perchè esse non si sono im presse anche più profondamente, an cor più nettamente? Prima non era che menzogna, ed ora è Vamore ve ro, l’ideale ch’egli aveva cantato sen za conoscere. Ora egli diventa poeta per il dolore e la rinuncia, ed è tut tavia felice di avermi trovato, come se fosse per lui Vavvenimento più bello, più meraviglioso. Troppo tar di! Come mi sembra meschino non essermi data a Lui! Ma tanti ostacoli ci separavano: la realtà della vita, la sua età avanzata, sua moglie, suo figlio, tutto, tutto ci separa. Come tutto ciò è potuto andare così lon tano, e potevo io prevederlo, potevo io impedirlo? Mentre mi parla mi dico spesso che dovrei partire, an dar lontano, molto lontano, e tuttavia avrei troppo dolore di lasciarlo, e soffro della sua inquietudine, e nella salo anche se siamo lontani l’uno dall’altro sento questa inquietudine come una cosa comune. Sì, tutto ciò è sopravvenuto così rapidamente, che sebbene vedessi mutato il suo modo di vivere, per l’addietro così regolare, non l’avrei mai supposto: ero lusingata del suo interessamento, della preferenza che mi accordava rispetto a tutti gli altri, ma ora... ora non ho nulla da dargli, nemmeno la mia fotografia, a Lui che mi ha dato tanto! ». La fanciulla sente Vinsostenibilità della situazione, e ne soffre. «La moglie è sempre gentile con me — continua — e ieri mi sono intrattenuta lungamente col figlio. Credo che tutti e due sentiamo che sarà meglio separarci. Ma torniamo alla vita ordinaria: papà ci scrive di non ritardare il nostro ritorno... ». E la separazione avviene. La fan ciulla torna alla vita piccolo-borghese di Vienna. Separati, lontani, corri spondono per lettera; una corrispon denza che dura fino all’aprile del 1891, epoca in cui con una lettera Ibsen tronca anche quella relazione epistolare. F P O Nessuno sospettò mai dell’amore tra il vegliardo e la fanciulla. Sol tanto una volta, a Colle Isarco, par lando della giovinetta con alcuni in timi, Ibsen si sarebbe lasciato sfug gire queste parole : « Oh, voi potrete amare quanto vorrete, ma io sono più felice dei felici, poiché so d’es sere amalo! ». G io va n n i M arce l làai a r . W F (Contratto stipulato nell’anno 1575 per costituzione di Compagnia «per fare et recitare comedie» in Napoli, nel regno e fuori, tra cinque commedianti). « Die quinto mensis Iuliis tenie Indictionis 1575 Napoli. Capituli pacti et conventioni al nome d’Idio habiti et firmati tra li Mag.ci Mario, alias Lepido, De Thomase de Siena, Iacobo Antonio De Ferrarijs de Napoli, Alfonso Cor tese de Napoli, Iulio Cesare Farina de Milano et Francisco Yitiani da Lucca, sopra la compagnia inita et firmata tra detti prenominati compagni sopra il fare et recitare comedie in questa città di Napoli et altre terre città et lochi tanto in questo Regno quanto in altri qualsevogliano Regni, Provincie, Ducati et lochi qualsevogliano del mondo. Sono videlicet: in primis li prefati magn.ci prenominati compagni promettono continuamente per anni dui da oggi avante numerandi unitamente recitare e fare dette comedie tanto in questa città quanto in altre parti del mondo dì per dì et sicome sarà comodo a detta compagnia, et non manchare per qualsivoglia causa; et caso che alcuno di essi compagni mancasse di fare et recitare dette comedie che quillo che manchará ogni volta sia tenuto pagare a detti compa gni ducati vinticinque de pena, quali sia licito a detti compagni exigerli da contravenerà et farlo convenire et costrengere in qualsevoglia parte del mondo dove se regge justitia. Item è convenuto che, caso che alcuno di essi compa gni et compagne se amalasse o andasse pregione per causa di detta compagnia, che in tale caso esso non sia tenuto a la suprascritta pena, anzi durante detta malattia et carceratione siano obligati detti compagni darle la sua parte che li compete tanto in detto loco dove se ritroverà infermo o carcerato quanto fora detto loco, et detti compagni siano tenuti conservarle la sua parte che pervenerà da dette comedie dì per dì, et possendo essi compagni siano tenuti mandarcela dove se ritrovarà, et stando infermo in alcuno loco et detti com pagni volendosi partire da detto loco et possendose portare, siano tenuti por tarlo con loro. Item è convenuto che tutto il guadagno che pervenerà da le comedie et per occasione d’esse se debba spartire tra detti compagni pro eguali parte e porzione, et all’altri recitanti che con detta compagnia andaranno se li debbia dare quello che d’accordo la magior parte de detti compa gni credarà et piacerà che se li denga per ciascaduno di detti altri recitanti, levate le spese che occorreranno tanto de magnar, come d’altre cose per servitio de detta compagnia. Rem è convenuto che per servitio di detta compagnia se debbia tenere uno garzone, al quale se la debbia dare il vitto et salario secondo la magior parte de detti compagni se contentará. Rem è convenuto che, s’alcuno d’essi com pagni pigliasse servitore per servitio suo et dandoseli il vitto de conventione, che quello sia tenuto servire tutti li predetti compagni et il suo patrone sia tenuto darli il salario. Rem è convenuto che ogni domenica a sera se debbia fare conto del guadagno che sarrà pervenuto a detta compagnia et se debbia spartire tra detti compagni modo ut supra, et trattanto se debbia conservare appresso uno de detti compagni che la magior parte de essi volerà. Rem è convenuto che ogn’uno de detti compagni se debbia confessare tre volte l’anno, cioè la Pascha de Resurrectione di Nostro S. Jesu Cristo, l’Assumptione de la Nostra Donna, et la Natività di Nostro S. Jesui Cristo. Rem è convenuto che se forte (quod absit) alcuno de detti compagni biastemasse, che quello de detti compagni l’intenderà, sia obligato subito andarlo ad accusare. Rem è convenuto che detti compagni non possano tra loro jocare in nessuno giocho nè in la loro stantia con altri. Rem è convenuto che quando venará alcuna Indulgenza et Giubileo da Sua Santità che sieno tenuti detti compagni pigliarle ». (Archivio notarile di Napoli, Protocollo del notaio Cristoforo Cerlone. 1574-75). ha recitato a Roma «Come le foglie», una delle commedie che la portarono, al prin cipio della sua carriera, alla notorietà e al successo. Nennele, la protagonista della commedia di Giacosa, è infatti una delle creature sceniche più care al suo cuore e più vicine al suo temperamento romantico. < lw < _ . Dal settembre scorso, come abbiamo annunciato, Evi Maltagliati ha ripreso a reci tare al teatro Eliseo di Roma, con Luigi Cimara. Il consenso del pubblico è stato quanto mai entusiastico per l’illustre attrice, da qualche tempo assente dalla scena. La Compagnia ha trovato opportuno svolgere un programma non impegna tivo, recitando piacevolissime commedie, da «Tuo marito» di Geraldy a «Tre, rosso, dispari» di Amiel, alla nuova commedia di L. Verneuil «Il marito che ho voluto» nella quale Evi Maltagliati ha diviso con Luigi Cimara il più lusinghiero dei successi. Le fotografìe che pubblichiamo sono state eseguite espressamente per noi : la grande, durante la recita, e la piccola ad una prova della commedia di Verneuil. T R E “ N O ” G IA P P O N E S I » E L X V S E C O L O H E L IA VERSIONE IT A L IA N A DI ENZO C O N V A LLI I l vecchio Guardiano del Pino — Questi aghi tesi contro il vento sembrano attendere con ansia l’ora di ringiovanire al sorriso della primavera! Un dio in questa Questo « nò » è la realizzazione scenica di uno di quei pic coli fatti poetici cari alla sensibilità giapponese. Un Pino stagione protegge le foglie e quando appare circonfuso ed un Susino si sono volontariamente sradicati e sono vo di sole gli aghi dei pini e le foglie -gli fanno accoglienza. lati a raggiungere il loro padrone, il ministro di Stato Allora le erbe, -gli alberi umidi di rugiada sotto la bontà Sugawara no Michizane (S45-903) ingiustamente condan nato all’esilio in seguito alle calunnie del suo rivale Tokihira. del cielo sembrano rabbrividire. O gioia! Fecondità della Prima di partire, Michizane aveva composto, dedicati ai suoi cari alberi, due piccoli poemi il cui testo è citato nel « nò » stagione nuova. -Nella dolce luce di -questo giorno vol e che sono ancora celebri in Giappone. Bisogna dire che giamo i nostri -passi al tempio del Dio e del Buddha. Ma questo piccolo dramma, cosi semplice e delicato, si arric chisce di tutta la simpatia che il popolo giapponese ha per stiamo attenti a non camminare sulle radici del Pino che Michizane, personaggio storico dei più popolari e di cui la si arrampicano tra le pietre e i tappeti di muschio! leggenda, se non la storia, ha fatto il prototipo della lealtà, I l giovane Guardiano del Susino-Rosa — Mai si spe dell’onore e della virtù perseguitate. gnerà la bellezza eterna del nostro poetico paese! I fiori 3P$38SO!SLSl6(G1 II Pellegrino - I Compagni del Susino cadono, cadono... L’immensità del cielo ne è del Pellegrino - Il vecchio Guardiano del Pino (in velata. Attenti, guardiani! Attenti, che nessuna sacrilega realtà il Dio del Pino sotto le spoglie di un guar mano colga i ramoscelli fioriti! Voglio mettere intorno diano) - I l giovane Guardiano del Susino-Rosa (in al Susino una siepe per proteggere quei fiori, i suoi fiori realtà il Dio del Susino-Rosa sotto le spoglie di che cadono in una pioggia di rosa e di neve! -Il Pellegrino — Posso rivolgervi la parola? un guardiano) - I l Coro. I l vecchio Guardiano del Pino — Ai vostri ordini, de siderate? La scena è nel giardino del tempio di Anrakou. I l Pellegrino — (Un tempo mi venne raccontata la I l Pellegrino — Una dolce pace circonda questo luogo storia del Susino-Volante... I l giovane Guardiano del Susino-Rosa — Qui noi benedetto! La porta ed il cancello senza guardiano sono l’onoriamo sotto un altro nome: il -signor Susino-Rosa. sotto la protezione degli Dei! Ah, noi veniamo da ben I l Pellegrino — Lo chiamerò dunque anch’io il signor lontano. Veniamo da Umezu, a ovest della capitale. Una notte, in sogno ho inteso una voce che mi diceva: «Vai Susino-Rosa. Il mio cuore batte contemplandolo. Deli ad onorare gli Dei al tempio di Anrakou in Tsukusbi. )>. zioso ricordo! Non è in -grazia di un poema del suo pa E' per questo che ho deciso, con i miei compagni, di ve drone che è divenuto un dio? I l vecchio Guardiano del Pino — Noi vi racconteremo nire a questo santuario. Il viaggio fu lungo, cammina vamo, camminavamo... (La brezza delicata della prima la sua storia, ma non dimenticate un altro albero divino? -Il Pellegrino — In verità anche il Pino è circondato vera muoveva le -onde -sulla riva d’Uemo, ed il suo mor morio correva come un brivido lungo il greto di Fukei. dalle sacre corde ornate dalle bandierine rituali. Il suo Poi nella nebbia lontana sparì anche Akashi. Ah, malin aspetto è impressionante. Sarebbe questo il vecchio Pino conia dell’incerto viaggio! Poi furono le spiagge senza di cui si -parla così spesso? I l vecchio Guardiano del Pino — Ne avete messo del fine di Harima; poi la porta di Muro, la città della feli cità, celebre per le- sue ghei-se, lei cui barche la notte for tempo ad accorgervene! I l giovane Guardiano del Susino-Rosa — Guardate mano gioiosi cortei che si lasciano solo al mattino. Ab biamo visto sui mari danzare i -fuochi fatui... Infine eccoci come è giovane e fresco il signor Susino-Rosa, con i nuovi fiori appena sbocciati! Come lui fi -suo guardiano e ado arrivati al tempio di Anrakou. Tutto è passato. I l giovane Guardiano del Susino-Rosa — Oh, i fiori lescente. I l vecchio Guardiano del Pino — Guardate come è del Susino-Rosa! Grazioso manto della primavera che vecchio questo venerabile Pino! La sua ombra secolare l’usignolo tesse volando tra i suoi rami! I l vecchio Guardiano del Pino — Il Pino ha ornato i è profonda. Come lui io sono ben vecchio! I l Pellegrino — Ma la storia di questi alberi? suoi aghi di un verde novello. I l giovane Guardiano del Susino-Rosa — La loro storia I l giovane Guardiano del Susino-Rosa — Giro eterno delle primavere verdi che sempre ritornano, che sempre eccola: Un uomo leale, il più buono tra tutti, il ministro Sugawara Michizane, aveva un tempo la fiducia dell’Imsi rinnovano! TUE « NO )) GIAPPONESI DEL XV SECOLO peratore. I l suo rivale, il ministro Tokihira, del celebre clan dei Fujiwara, lo calunniò, si dice, all’Imperatore che lo esiliò in questo paese. Michizane salutò gli amici e non dimenticò il Susino del suo giardino al quale si ri volse con queste parole: «Quando soffierà la brezza del l’est, mandatemi il vostro profumo, o fiori del mio Su sino! Ed anche se non avrete più padrone non dimenti catevi di me in primavera! ». Partì e venne ad abitare in questo luogo. Quale non fu il suo stupore un giorno vedendo il Susino in questo giardino! L’albero fedele era volato dietro di lui ed aveva raggiunto il suo padrone in esilio. E’ per questa ragione che quest’albero viene chiamato qualche volta il «Susino-Volante». I l vecchio Guardiano deil Pino — Non meno bella è la storia del mio vecchio Pino: l’albero, vecchio di mille anni, era, si capisce, naturalmente meno pronto e meno ardente del giovane albero rosa. Non partì subito. Allora, credendosi abbandonato, Michizane scrisse quel poema: « Il susino è volato, il ciliegio è appassito. Nel mondo non c’è che il pino che si sia mostrato insensibile »! Era un giudizio sbagliato ed ingiusto. Anche il cuore del vecchio albero era fedele: a sua volta un giorno si strappò dalle radici e volò a ritrovare il suo padrone. Per questo qualche volta viene chiamato il « Pino che segue ». I l Pellegrino — Vi ringrazio. E’ per onorare il Pino e il Susino che siamo venuti in questi luoghi sacri che vi sono familiari... I l vecchio Guardiano del Pino — ... familiari e cari. Elevammo questo tempio in una scena armoniosa; a nord le montagne lontane sono un malinconico sipario azzurro. I l Coro — E quando la luna brilla sulle vette dei monti coperti dai pini la cima del vecchio Pino brilla come un padiglione. E la sera la luce obliqua del sole sparge tra i fragili bambù una polvere d’oro. I l vecchio Guardiano del Pino — A sinistra, una torre coronata da una fiamma. Così i monti azzurri e lontani e questo fuoco di luce d’oro tra i leggeri bambù rievocano i colori del fastoso palazzo dei giorni felici di Michizane! A destra, i muri di un vecchio monastero, le campane allo spuntare del giorno, i canti sacri la sera sembrano rendere omaggio ai nostri alberi. I l Cord — Sono davvero senz’anima gli alberi come si pretende? In questo fiume di cose che scorre in questo mondo d’illusione, in questo mare d’oblio il vecchio Pino e il Susino-Rosa sono rimasti fedeli al loro padrone. Essi hanno un’anima! Hanno un’anima. Ed è per questo che qui un giorno sono diventati due divinità. I l giovane Guardiano del Susino-Rosa — Così come nei nostri paesi, dagli Hans, i pini e i susini seppero esprimere i loro sentimenti. Quando à monarchi della Cina onoravano la Poesia i fiori dei susini si aprivano, mi hanno detto, e il loro profumo era più dolce; quando si dimenticavano dei poeti, rapidamente i susini appas sivano e i loro fiori morivano. I l vecchio Guardiano del Pino — I pini hanno un’a nima certamente! Un giorno, durante la caccia, un Im peratore, il primo della dinastia: Tsin, fu sorpreso dalla pioggia. Vide un giovane pino e si rifugiò sotto i suoi fragili rami. Immediatamente, sotto la pioggia scrosciante, ecco che a vista d’occhio il giovane pino cominciò a cre scere e presto divenne enorme, i suoi rami si ergevano sulla testa imperiale così fitti e così densi che la pioggia non poteva penetrarci. L’Imperatore diede all’albero il titolo di « tayu », volendo con questo grado ufficiale testi moniare la sua riconoscenza verso il cielo. I l giovane Guardiano del Susino-Rosa — Ecco l’ora... I fiori volano nell’aria, tutto lo spazio è rosa. Partiamo anche noi? I l vecchio Guardiano del Pino — Scompariamo. I l Coro — Tutto lo spazio è roseo sotto la pioggia dei fiori rosa. Gloria al vecchio Pino ed al Susino! Che vi vano per mille generazioni. Improvvisamente come divi nizzati, i due guardiani sono spariti. Le loro forme umane sono svanite sotto la pioggia di fiori rosa! I l Pellegrino — Che stranezza. Sono spariti come delle fate. Secondo Pellegrino — Mi hanno detto che in questo tempio non c’erano guardiani... Terzo Pellegrino — Cosa significa tutto questo? Secondo Pellegrino — Io tremo... Terzo Pellegrino — Forse abbiamo parlato a degli Dei I l Pellegrino — O felicità! Erano degli Dei? Nella speranza che ritornino nascondiamoci nell’ombra del Pino. Aspettiamo. (Gli Dei del vecchio Pino e del SusinoRosa appariscono nel loro aspetto divino). I l Dio del Susino-Rosa — Quale meraviglia dobbiamo offrire ai nostri ospiti di questa notte? I l Coro —• La bruma leggera della primavera si alza... Tutto lo spazio è rosa di fiori! I l Dio del Susino-Rosa — Il Susino è tutto rosa. I l Dio DHL, Pino — Il vecchio Pino si riveste di tenero verde. I l Coro — Nelle sfere celesti, nell’infinito azzurro passa una musica deliziosa, la musica degli Dei. I l Dio del Susino-Rosa — Cantiamo le più belle can zoni, danziamo le più belle danze. Volate nel vento, o fiori del Susino. I l Coro — O dolce estasi. I rami sottili tracciano nel l’aria un delicato disegno. I l Dio del Susino-Rosa — Sulle fronde i fiori del Su sino-Rosa intrecciano ghirlande fiorite. I l Dio del Pino — E il Pino si erge maestoso sotto il firmamento azzurro. I l Coro — Che il vecchio Pino e il Susino-Rosa vivano per mille generazioni. Fino a quando questi ciottoli roto lati dalle onde azzurre non diventino delle grandi rocce ricoperte di muschio. Che gli Dei proteggano il corso dei loro anni. E che diano loro la longevità della gru e della tartaruga e che ad ogni primavera la nuova brezza mor mori: «Felicità, felicità al vecchio Pino e al SusinoRosa ». F I N E TRE « NÒ )) GIAPPONESI DEL XV SECOLO I DUE PINI CHE sono INVECCHIATI INSIEME La leggenda dei due Pini che sono invecchiati insieme — il Pino di Takasago ed il Pino di Souminoyé — è forse la più popolare del Giappone. Essa esprime l’idea che non ci può essere una vera felicità se non in una lunga e fedele esi stenza in due. L’inno cantato dal Coro, e che comincia con le parole: «Sui quattro mari, dolci sono le onde... » è, ancor oggi, cantato tradizionalmente durante le cerimonie matrimoniali. Sovente ai giovani sposi viene offerto un vas soio su cui sono fìssati dei fantocci rappresentanti i due vecchi sposi sotto un pino, simbolo della longevità. Tale è la popolarità di questa favola che i Giapponesi hanno battezzato con un soprannome familiare I due simpatici vecchi sposi: « Uji » e «Baba ». 3PKDRSOKCA.G(xX Tamonari, guardiano del san tuario d’&so, in pellegrinaggio - Il vecchio Sposo La vecchia Sposa - Il Dio di Souminoyé - Il Coro. La scena è prima a Takasago, poi a Souminoyé. Tamonari — Voglio, passando, fermarmi qui nella baia di Takasago. I l Coro — Tamonari, il guardiano del santuario d’Aso, ha indossato il suo abito da viaggio. E va verso la capi tale, ma lungo è il cammino ! I l vecchio Sposo e la vecchia Sposa (due poveri che spazzano gli aghi di pino con delle scope di rami) — Noi spazziamo gli aghi caduti del vecchio Pino di Takasago. I suoi rami si agitano sotto la brezza primaverile, poi la brezza si calma quando il sole rosso discende all’oriz zonte. In lontananza si sente la campana vespertina del tempio di Souminoyé, dove vive un altro Pino non meno venerabile. I l vecchio Sposo — Rivestite di fiocchi leggeri, le rocce della spiaggia sono come dei paraventi davanti alle nubi. La vecchia Sposa — Ascoltiamo il flusso e riflusso delle onde invisibili che cantano nei nostri orecchi. I l vecchio Sposo — 0 Pino di Takasago! Mio vecchio compagno, mio ultimo amico - tutti gli altri sono morti al quale io posso ancora parlare dei giorni passati, se polti sotto la bianca neve dell’oblio ! Eccomi davanti a te, tremante di vecchiaia. Nulla più intendo, se non i di scorsi del vento tra i tuoi rami, il mattino quando mi alzo, la sera quando mi corico nella mia capanna, nido di vecchio uccello selvaggio che la luna rischiara, dove in gocce d’argento la brina della primavera si scioglie. A te, vecchio Pino, compagno del mio cuore, confido tutti i miei pensieri. I l vecchio Sposo e la vecchia Sposa — Spazziamo, spazziamo gli aghi caduti! Cadono gli aghi del Pino, come una pioggia crepitante, .sulle nostre scope che si toccano insieme. Portati dal vento, che passa sulle onde, gli aghi del Pino lontano di Souminoyé vengono in nube leggera a chiedere notizie del vecchio Pino di Takasago! Tamonari — Non mi aspettavo certamente di incon trare qui questi due vecchi, ma poiché ci sono, interro ghiamoli. {Ai due vecchi) Vi prego, buoni vecchi, per mettetemi di farvi una domanda. I l vecchio Sposo — Che cosa volete sapere? Tamonari — Qual è il celebre albero che viene comu nemente chiamato il vecchio Pino di Takasago? I l vecchio Sposo — Quest’albero venerabile, del quale spazziamo l’ombra, è il Pino di Takasago. Tamonari — Si dice di questo Pino e del Pino di Sou minoyé « che sono invecchiati insieme », ma Souminoyé è in una provincia diversa di Takasago. Come dunque si può dire che questi due alberi secolari hanno trascorso insieme il loro destino? I l vecchio Sposo — Come vi siete degnato di notare, si legge negli antichi poeti che questi due Pini, molto venerabili, risvegliano nei nostri cuori l’idea di destini inseparabili. Io stesso sono di Souminoyé; questa vecchia donna abita a Takasago. Noi siamo tutti e due ben vecchi, molto vecchi... ma mai un solo istante noi fummo sepa rati. Ne siete stupito? Tamonari —- Stupito, infatti... Voi foste inseparabili anche vivendo l’uno a Souminoyé, l’altro a Takasago, in due luoghi lontani, separati dai monti e dal mare... e tuttavia sempre insieme, sempre uniti, ditemi? Dovete scusarmi di non avere compreso. La vecchia Sposa — E’ molto semplice. Qualunque siano la distanza, i monti e i fiumi che possano separarli, i destini dello sposo e della sposa mai sono divisi quando i loro cuori battono insieme. L’anima dell’uno è diven tata l’anima dell’altro. I l vecchio Sposo — Anche abitando a Souminoyé, paese lontano, ho per compagno della mia vita questo vecchio Pino di Takasago. La vecchia Sposa — E pur abitando qui ho sempre vissuto con lui. I l vecchio Sposo — Due cuori che veramente si amano si uniscono come le onde. La vecchia Sposa — Il vero è l’unione; l’illusione la distanza. I l vecchio Sposo ■ —• Per delle vie misteriose i nostri due cuori si corrispondono. La vecchia Sposa — Come nel mare le onde si con- ' fondono. I l vecchio Sposo — Souminoyé! La vecchia Sposa — Takasago! I l vecchio Sposo — In perfetta armonia unico è il profumo delizioso dei due Pini. La vecchia Sposa — La stessa brezza in primavera canta all’uno ed all’altro una medesima ninna nanna. I l Coro — Sui quattro mari, dolci sono le onde. Il mondo è in pace! Gli aghi del Pino cadono sotto le nostre due scope. Senza -scuotere i rami il vento della primavera canta la sua canzone. Benedetti siano i pini che invecchiano insieme. In questo giorno divino la no stra grande felicità non può esprimersi. Gli aghi cadono sotto le scope leggere. Vani, in verità, i nostri sguardi commossi e riconoscenti, i nostri ringraziamenti per la grande felicità di vivere ini questa età ricca delle bontà del nostro Signore! I l vecchio Sposo — Il suono delle campane di Sou minoyé vibra armoniosamente nell’aria di Takasago. I l Coro — L’aurora si leva e la brina cade in gocce di rugiada sui rami del Pino. Il Pino sempre verde ci pro tegge -sempre dal mattino alla sera. Nella sua ombra pro fonda cadono gli aghi sotto le scope leggere, ma altri rinascono, il Pino sempre verde non muore mai. Il verde dei Pini è sempre fresco come quelle dolci vigne a Masalca che sono sempre mature. Simboli dei giorni senza fine, d’amore eterno, sia gloria a voi. Ah! siate bene- TEE « NÒ » GIAPPONESI DEL XV SECOLO delti, vecchio Pino di Takasago e vecchio Pino di Souminoyé! Che il mondo intiero canti la virtù dei Pini sempre verdi, simboli del tempo, la cui sommità trema al vento della primavera, dei vecchi Pini benedetti che invecchiarono insieme. Tamonari — Ho ascoltato l’antica e celebre storia dei due vecchi Pini che sono invecchiati insieme. Ma ditemi, vi prego, come vi chiamate? I l vecchio Sposo — Vi diremo la verità: noi siamo gli Spiriti dei Pini di Takasago e di Souminoyé manifestati sotto la forma di una coppia di vecchi sposi. I l Coro — All’ombra dei vecchi pini in questo luogo famoso un miracolo è avvenuto. Sposi fedeli, siate felici! Tamonari > — Ma, si dice, gli alberi sono senz’anima... La vecchia Sposa — Per tutti, anche per gli alberi, la felicità è di vivere in due. I l Coro — Come è hello vivere in due, sempre e sem pre, sotto il segno augusto del nostro Sovrano, il regno della Felicità! Tamonari — Una brezza leggera si alza... I l Coro — Tamonari, ecco l’ora di partire per Soumi noyé. Una barca di pescatori ti attende, già la vela si riempie di vento. (Naviga, naviga verso il famoso Pino ad onorarne il Dio. Tamonari — Obbedisco. Parto da Takasago e mi im barco su quel battello che, sulla spiaggia, mi attende. Parto con la marea le cui onde si placano ormai. Sotto la luna splendente la bianca vela riluce e l’onda della sera è piena di vaghi riflessi. Navigo verso il largo. Il vento soffia più forte ed il paesaggio cambia... Passano davanti ai miei occhi la spiaggia di Awagi, i greti dorati e le colline azzurre e lontano, dietro di me, nella nebbia leggera, si sfuma Narouvo sotto la luna. Eccomi infine a Souminoyé ! I l 'Dio di Souminoyé — Io sono ¡il Dio di Souminoyé, il Dio della felicità, il Dio della Buona Dimora. I l Coro — Grazie ti siano rese, o Dio che ti sei rive lato ai poveri mortali che noi siamo, Dio che proteggi gli Sposi. Sempre noi ti onoreremo con i nostri canti e con le nostre danze, ai riflessi d’oro dei chiari di luna! I l Dio di Souminoyé — La dolcezza di invecchiare insieme -sotto il medesimo cielo non ha eguali! Quando la discordia scoppia, allora la Sposa piega la testa come la gramigna leggera che cresce sola nel prato ed il pianto offusca i suoi occhi come una nebbia mattinale. Danziamo le nostre danze più belle per celebrare la felicità degli sposi che si amano; come si danzava una volta nell’isola di Onogoro agli sponsali degli Dei! I l Coro — Il Dio lo ha ordinato! Che intanto, in que sto mondo senza fine, le braccia stese delle danzatrici con le vesti -sacerdotali mettano in ¡fuga le ombre cd i de moni. E che incrociando le loro piccole mani sul giovane seno facciano il gesto delizioso di trattenere i giorni felici. Cantiamo l’inno dei Mille Autunni. Che il Dio da noi adorato semini le benedizioni come dei fiori! Can tiamo, cantiamo senza fine il canto dei Diecimila Anni, pei che di altrettanto sia prolungata la vita de! nostro So vrano. E che, durante questo tempo, la brezza della pri mavera, o delizia adorabile, culli le foglie e i rami dei due venerabili Pini, -dei due vecchi Pini benedetti che sono invecchiati insieme! F I N E LO S P E C C H IO D E L L ’ IL I. U S I ONE Il Padre - La Figlia - Lo Spirito della Madre - Gushojin - Il Coro. La scena ènel villaggio di Matsuyama nella provincia di Echigo. Il Padre — 0 mia felicità! Mi sembra che tu non sia durata che un giorno ! Il Coro — Per lungo tempo fu felice, con la sua sposa, nel villaggio di Matsuyama. Ma un giorno, ohimè, la sua donna morì e la felicità disparve con lei! I l Padre — Una consolazione mi resta: mia figlia, vi vente ricordo della cara -scomparsa. La povera fanciulla è così desolata per la morte della sua mamma che vuole vivere a parte, in un -solitario padiglione, per raccogliersi e pregare. Oggi è l’anniversario della morte della mia sposa. Andiamo a bruciare l’incenso davanti al suo do mestico altare. La Figlia (come in sogno) — 'Lei è morta, ma vive nelle cose che mi circondano: è la nube leggera, la piog gia, è la farfalla nella luce, la lucciola nella -notte! Come il fiore che si -sfoglia, come la neve -che si scioglie, la primavera è passata: ma dove è fuggita? Non è che di un giorno la felicità! Il pellegrino sulla grande strada trova delle guardie e delle barriere: ma il tempo non ne conosce! Già tre anni -sono passati da quando ci ha la sciati! I fiori appassiscono... gli uomini dimenticano... E’ morta; ma vive nelle cose che mi circondano. E’ la neve, è la pioggia... I l Padre — -Cosa dice?... Sembra cercare qualche cosa... Sarebbe dunque vero quello che pretende la gente del villaggio? Tremo di paura? Sarebbe vero che segretaniente si abbandona ai sortilegi, ai malefizi, agli incan tamenti che insegnano le streghe dell’inferno? La mia bambina !... La Figlia — E’ la pioggia... è la nuvola leggera... I l Padre —- Cosa dice mai? Evoca la pioggia, le nubi! Ah infelice che sono! (Alla figlia) Ah, così! Non faresti meglio a recitare dei « sutra » e delle preghiere per po terti ritrovare un giorno, nel paradiso di Amidha Bhoudda, con tua madre alla luce del medesimo loto? La Figlia — Padre, voi mi rimproverate? I l Padre — Devo dirti che il tuo comportamento mi inquieta. La Figlia — Padre mio, poiché mi sgridate, voglio dirvi tutto ! I l Padre — -Era vero dunque!... Mia figlia si è data ai sortilegi... Ah, mille volte disgraziato! Il terrore mi agghiaccia! La Figlia — La povera mamma, qualche istante prima di morire, mi ha dato questo specchio dicendomi: «Quan do lo guarderai vedrai la mia immagine. Se tu pensi a me, se mi rimpiangi, guardalo: ti apparirò sorridendo». Da allora ogni giorno io guardo lo specchio e vedo il suo viso che mi sorride. I l ¡Padre — Sarebbe strano! La Figlia — (Delle giovani donne mi hanno detto che nel fumo azzurro dell’incenso sull’altare, esse rivedevano TRE « NÒ )) GIAPPONESI DEL XV SECOLO il loro sogno d’amore e l’immagine della loro perduta Le donne del paese non hanno ancora imparato ad anne felicità. Io credo che il salice verde, curvo sullo specchio rirsi i denti nè a dipingersi! delle acque, veda delle cose meravigliose! In questo spec La Figlia — Guardate, padre mio, il viso di mia chio limpido, in ogni caso, io vedo tutta la mia felicità: madre... mia madre! I l Padre — Devi sapere, bambina mia, che uno spec I l Padre i— Illusioni! Non può essere in verità... chio riflette tutto ciò che è davanti ad esso; quando tuo La Figlia !— Se questo vi sembra impossibile vi mo padre vi si avvicina, guarda: ecco l’immagine di tuo strerò lo specchio. Avvicinatevi, padre mio. padre! Eppoi stai attenta, agito questo ventaglio. Che I l Padre — Non può essere... Tuttavia mi ricordo che vedi? mi raccontarono, una volta, un fatto egualmente strano: La Figlia — Vedo il ventaglio agitato. Quando l’Imperatore Won degli Hans perde la sua sposa, I l Padre — Quando «ul fiume di Yoshino la brezza l’Imperatrice (Lin, fece riprodurre l’immagine della sua agita i fiori sulla riva... donna, da un abile pittore, su di un muro del padiglione La Figlia —■... la loro immagine nello specchio delle della Sorgente Dolce. Ora, l’Imperatore si affliggeva di onde si sfoglia se i fiori si sfogliano, si agita se i fiori vedere questo ritratto inanimato, senza un gesto, senza si agitano... un sorriso. Un giorno un Dio gli disse: «Se vuoi vedere I l Padre — Quando un usignolo si posa su un leggero la tua sposa vivente, in una notte senza luna, brucia da bambù... vanti alla sua immagine il profumo che riporta le anime ». La Ficlia — ... il bambù si piega nello specchio delle Allora, in una notte senza luna, l’Imperatore bruciò da onde. vanti al ritratto della sua sposa il profumo che riporta I l Padre — E’ la realtà ed il suo riflesso. le anime. E nel fumo profumato l’Imperatrice gli apparve La Ficlia — Semplice gioco di illusione... Ma sono e gli sorrise. dunque tanto simile a mia madre se il mio viso è esatta La Figlia — E’ la nube leggera, è la pioggia, la far mente il riflesso della sua immagine? falla nella luce... I l Padre — Senza dubbio. Lo specchio riflette il tuo I l Padre — Ancora un altro esempio mi viene in viso. Non hai dunque capito? mente: Dopo la morte della sua sposa l’Imperatore ShoLa Figlia — O invece è mia madre che risponde al nun si abbandonò alla disperazione; invocò gli Dei e mio sorriso? questi, presi da pietà, fecero passare davanti a lui la sua I l Coro — E lo spirito della madre pensa in questo sposa in un meraviglioso palanchino scortato dalle stelle... momento: «Con le mie lacrime voglio appannare lo Ma queste sono delle vecchie, vecchissime storie; storie specchio e far cessare questo dialogo doloroso! Non vo di tempi lontani. Nulla di simile può avvenire ai nostri glio che il mio ricordo sia causa di dolore ai viventi ». giorni. (Guarda nello specchio) E’ come pensavo... Essa (Appare un fantasma di donna). non ragiona! Questo specchio è come tutti gli altri. Non Lo Spirito della Madre — Ha detto: «O invece è mia ci si vede che la propria immagine. Bambina mia, il madre che risponde al mio sorriso ». Dunque mi vuole dolore ti fa sbagliare... ancora bene e mi rimpiange sempre. Amore filiale, più La Figlia -— Sono sicura che mia madre è qui! La sua durevole e più puro degli amori. immagine è nello specchio, ma come i fagiani dorali I l Coro — Tutto fugge verso il passato: gli uomini, vanno per proprio conto sui prati, così il vostro cuore le cose, il ricordo stesso! 11 mondo e la sua immagine si è separato da lei e -se ne è allontanato. Non prendeste si sfogliano come il crisantemo di autunno. Gli amori di una nuova moglie quando le lacrime non si erano asciu un tempo sono volati via come le foglie secche dell’acero, gate ancora sulle vostre maniche? E’ per questo, senza come loro ritornano nel paese delle ombre verso la sor dubbio, che mia madre non vuole lasciarvi vedere nello gente gialla... Tutto passa!... specchio fedele il suo volto triste. Proviamo ancora... Lo Spirito della Madre — Passa tutto, veramente, come Avvicinatevi, guardate... eccola! Come è pallida e magra! il fiume che scorre? Per amore di chi è così dimagrita? Come un filo leggero I l Coro — Tutto passa come le immagini degli specchi, svolto dal bozzolo di un baco da seta la linea delle sue come si offusca lo splendore di quei ricami dorati che sopracciglia graziose si è assottigliata... Piange! Ah! la portano sui loro ricchi broccati gli uomini fortunati del tristezza dei suoi occhi! paese di Shokou. I l Coro — Sullo specchio limpido e puro sale, dal Lo Spirito della Madre — Anch’io sono, sii potrebbe basso, un umido vapore. Da dove viene? Da dove viene? dire, vestita di ricchi broccati come l’esule arricchito di Viene dalle lacrime versate dalla madre, o dalle lacrime ritorno al suo paese perchè io posseggo un tesoro: l’amore versate dalla figlia? «Ecco mia madre», grida la fan fedele di mia figlia!... Voglio parlarle del passato. ciulla, e col dito, vittoriosa e sorridente, mostra... la pro I l Coro — Oh! Non svegliatela dal suo sogno, lascia pria immagine nello specchio, e le sorride con amore! tele lo specchio dell’illusione !... Una volta, nel paese di O giovane cuore! Ti sei sbagliato! Ti sei sbagliata, Morokoshi, viveva una donna chiamata Chinshi, unita da bambina. profondo amore a suo marito. Un giorno, come capita in I l Padre — Che pena! Mia figlia vede nello specchio questo mondo incerto, lo sposo partì per un paese lon la sua stessa immagine e crede di vedere il viso di sua tano. E tutti e due pensarono con tristezza: «Ecco la madre. E’ perchè noi viviamo qui a Matsuyama, piccolo fine della nostra unione! ». Per ricordo del loro amore, paese sperduto dove gli specchi sono ancora sconosciuti. spezzarono uno specchio in due parti, e ne tenero un pezzo per uno. Lo sposo partì. E la giovane donna guar dava la metà dello specchio che le era rimasta, divenuta appannata e lattiginosa come la luna nel suo terzo giorno. Le sere passavano nell’attesa, i mattini nelle lacrime. Nessuna lettera! I giorni seguivano i giorni, lo sposo non tornava. Triste e malinconico il tempo passava. Già l’au tunno avanzava, quando una sera il mormorio del vento portò la notizia che lo sposo lontano era divenuto ricco e potente nel paese straniero. «Ahimè! », pensò l’abban donata, «le onde del fiume Yoshino si inseguono e ritor nano senza posa, ma lui non ritornerà mai più! ». Dispe rata, tenendo in mano la sua metà dello specchio, simile alla luna crescente che brilla sui monti, abbassò la testa e si mise a piangere. Ed ecco che una gazza, volando nel cielo azzurro, venne a sfiorare con l’ala nera, le soprac ciglia della poverina... Lo Spirito della Madre — Da dove veniva? Si sa? I l Coro — La gazza vola e rivola, il suo volo era come una danza e danzando girava tutt’intorno alla giovane donna. All’improvviso, miracolo!, la gazza si tramuta in uno specchio e lo specchio apparve intero, completo come era una volta e brillante come la luna piena di una lu centezza meravigliosa! Così fu annunziato, con questo avvenimento soprannaturale il prossimo ritorno dello sposo, il ritorno della felicità, ricompensa per la dolce sposa alla fedeltà del suo cuore. (Appare il diavolo Gushojin). Gushojin — Io sono Gushojin, il demonio. Io prendo nota delle azioni umane, del Bene e del Male! Questa madre, per il suo attaccamento eccessivo a sua figlia, ad una creatura terrena, ad una creatura di questo mondo d’illusione, è privata della sua salvezza e deve essere pu nita. Vengo a riprenderla ed a riportarla nel regno delle Ombre. I l Coro ■ —■Oh! il demonio, pieno di collera, ha impu gnata la sua frusta. Lai batte. Batte quell’infelice la cui anima ha lasciato il corpo. La trascina davanti lo specchio gridando: «Guarda, guarda nello specchio per Pultima volta, ci vedrai i tuoi errori; i tuoi errori ed i tuoi peccati ». Lo Spirito della Madre (guardando lo specchio) — Cosa vedo? Oh, visione meravigliosa, oh felicità! I l Coro —• Cosa vede? Il demonio inquieto guarda a sua volta lo specchio. Cosa vede? I tratti della sua faccia si turbano. Cosa vede dunque? Oh divina bontà!... In virtù delle preghiere della giovane figlia, che tanto amò sua madre e per la fedeltà del suo cuore, un’immagine meravigliosa è nata nello specchio portando il perdono e la remissione dei peccati. E’ l’immagine di un Buddha seduto su di un loto come su di un trono d’oro! Le braccia sono ripiegate e le mani giunte, i suoi occhi sono pieni di saggezza e di bontà. Dolcemente cade dal cielo una pioggia di fiori e negli spazi azzurri una musica an gelica risuona. Oh meraviglia! (Gushojin vede nello spec chio l’immagine del Buddha) Spaventato, Gushojin il de monio, indietreggia. Ah! cosa ha veduto in quello spec chio! Batte con un piede la terra e sparisce; ritorna solo all’inferno. F I N E r / m i 0 fi La Direzione generale del Teatro e Musica e la Dire zione generale della Cinematografia sono state fuse in un’unica direzione, che ha assunto la denotnitiazione di «Direzione generale dello Spettacolo ». Il regista Giorgio Venturini, che ha diretto in questi ultimi due anni il Teatro Nazionale dei Guf, ha assunto la Di rezione generale. La Compagnia Evi Maltagliati-Luigi Cimara, conti nuando le recite iniziate il 29 settembre, al teatro Eliseo di Roma, dopo aver ripreso le commedie Ga vino e Sigismondo di Viola; Se volessi... di Géraldy e La moglie ideale di Praga, ha rappresentato la commedia in tre atti di Louis Verneuil: Il marito che ho voluto. Da un giornale che ci è pervenuto da Roma, sappiamo che la commedia ha avuto un vivis simo successo, che Evi Maltagliati e Luigi Cimara hanno ottenuto i maggiori consensi del pubblico. Olga Vittoria Genlilli ha meritato tutte le simpatie unita mente a Gianni Agus, Mirella Pardi, Cartoni e Morati. Giulio Stivai ha formato una nuova Compagnia, che prenderà nome dal € Teatro Goldoni di Venezia» perchè reciterà prevalentemente in questa città. Di retta da Stivai, la formazione avrà Lilla Brignone, Lia Zoppelli, Antonietta Ramazzini, Giusi Dandolo, Carla Pini, Mirella Scriatto, Aldo Pieranloni, Fede rico Collino, Gianni Santuccio, Franco Volpi, Roberto Villa, Luciano Alberici, Tino Locchi, Mario Antonelli e Armando Calindri. Il repertorio comprende le se guenti novità: Il lungo viaggio di ritorno, di Eugenio O’ Neill; Gelosia, di Luigi Gatti tratto dal Marchese di Roccaverdina di Capuana; Altitudine 3200, di Luchaire; Il giorno della Cresima, di Enzo Duse; La prima moglie Rebecca, di Luigi Gatti. Inoltre ver ranno riprese le commedie: Le case del vedovo e Casa Cuoi-infranto di Shaw; Il marito ideale, di Oscar Wilde; Il paradiso sotto chiave, di Hennequin; Con gedo, di Renato Simoni; Il piccolo Santo, di Bracco; Bourboruque, di Courteline; Cavalleria Rusticana, di Verga; Le gelosie di Lindoro, di Goldoni; Mani in alto, di Giannini; L’asino d’oro, di Cataldo; La parte di marito, di Tieri, "h Al teatro Quirino di Roma, il 25 ottobre, ha iniziato le recite la Compagnia di Ruggero Ruggeri, con Fauni Marchiò, Renata Negri, Giana Pacetti, Mario Drizzolari, Tino Bianchi e Attilio Ortolani. Commedia di esordio: Il nuovo testamento, quattro atti di Sacha Guitry, cui ha fatto seguito Baci perduti di Birabeau. Il 17 novembre è stata rappresentata la nuova commedia di Vincenzo Tieri La dolce follia della quale diremo ampiamente nel prossimo fascicolo. Jv Al teatro Argentina di Roma, la formazione diretta da Guido Salvini, continua le recite chiamando a far parte, per ogni commedia, appositi attori. Hanno così rappresentato Come le foglie di Giocosa, con An dreina Pagnani, Paola Borboni, Annibaie Betrone, Carlo Ninchi, Roldano Lupi, Claudio Gora. Hanno anche ripresa la commedia di G. B. Shaw: Casa Cuorinfranto e quella di. Cecof: Zio Vania, protago nista Camillo Pilolto, e con la regìa di Sciarof. 'fa Al teatro delle Arti di Roma, si sono riuniti per ri prendere Fermenti di Eugenio O’ Neill, Cortese, Ines Zacconi, Margherita Bagni, Pilotto, e Nora Ricci. Un o tto in due q u a d ri d i LORD D U N S A N Y - Versione d i V IN IC IO M A R IN U C C I r --------------------------------------------------------- ^ Pubblicando, nel fascicolo 373 del 1° manzo 1942, la commedia fantastica in quattro atti e nove quadri, di Lord Dunsany: «Il cristallo magico» nella ver sione italiana di Carlo Linati, abbiamo detto come questo autore irlandese abbia legato il suo nome — unitamente a Synge, Lady Gregory e Yeats — al l'ardita impresa di dare all’lrlanda un Teatro Nazio nale. Aggiungiamo ora, pubblicando « Le tende degli arabi », come, a differenza degli altri autori che at tingevano la materia dei loro drammi dal ricco te soro delle leggende celtiche e portavano suiie scene dell’«Abbey Theatre » di Dublino l’Irlanda della realtà e della leggenda, Lord Dunsany ha sempre pre ferito crearsi un mondo tutto di sua esclusiva in venzione e fattura. Strano mondo, con strani paesi che nessun atlante ha mai segnato, abitato da strani popoli che nessuno ha mai sentito nominare. A mo menti le favole strane di Lord Dunsany sembrano resuscitate dai «IVlabinogion » celtici, create come sono da una fantasia lirica, avida e innamorata del meraviglioso, che percepisce il mondo sotto specie di mistero e di parola. IVla la sua potenza lirica è tale, che riesce nondimeno a farci accettare quel suo barbarico mondo d’idoli e di fate. Di Lord Dunsany, Vinicio IVlarinucci ha già tradotto altri atti unici che abbiamo pubblicato nei numeri: 382, «I nemici della Regina»; 384, «La maledizione delle stelle»; 391/392, « Il riso degli Dei ». V > 3P3KKS0.W AÌSGl i l re - b e l-n u rb e aub, cammellieri - IL CIAMBELLANO - ZABRA, un notabile - EZNARZA, una zingara del deserto. SCENA: Fuori la porta della città di Talaima. - EPOCA: Incerta QUADRO P R IM O Bel-Narb — Verso sera ci troveremo di nuovo nel deserto. Aub — Già. Bel-Narb — Allora non più città per noi, per chissà quante settimane. Aub — Ah! Bel-Narb — Vedremo brillare le luci, volgendoci a guardare dal sentiero dei cammelli; e sarà l’ultima cosa che vedremo di esse. Aub — Saremo nel deserto, allora. Bel-Narb — Il vecchio, iroso deserto. Aub — Con quanta astuzia il deserto nasconde i suoi pozzi! Diresti che abbia un’inimicizia con gli uomini. Non ti dà il benvenuto, come avviene per le città. Bel-Narb — Sì, ha una vera inimicizia. Io odio il deserto. Aub — Io credo che al mondo non ci sia niente di più bello delle città. Bel-Narb — Le città sono cose bellissime. Aub — Il momento più bello è un poco dopo l’alba, quando la notte scivola dalle case. Esse la traggono via lentamente e la lasciano cadere come un mantello, e rimangono del tutto nude nella loro bellezza, per ri splendere in qualche vasto fiume; la luce, allora, viene su e le bacia sulla fronte. Le voci degli uomini e delle donne cominciano a levarsi nelle strade, appena percet tibili, una per una, finche sorge un lento alto mormorio e tutte le voci si fanno una. Penso spesso che la città mi parli, allora; essa dice con quella sua voce: «Aub, Aub, che uno di questi giorni morirai, io non sono terrena, 10 sono sempre stata, io non morirò mai ». Bel-Narb — Io non credo che le città siano più belle all’alba. Possiamo vedere l’alba nel deserto in qualsiasi giorno. Io credo che siano più belle proprio appena il sole è tramontato e il crepuscolo si insinua per le strade più strette, un crepuscolo che non appar tiene nè alla notte nè al giorno, una specie di mistero in cui si possono vedere figure avvolte nei mantelli e non riconoscere che sorta di figure siano. E proprio quando sarebbe scuro, e nel deserto non ci sarebbe altro da vedere che un nero orizzonte con un cielo nero sopra di esso, proprio allora le lanterne dondolanti si ac cendono e le luci vengono fuori a una a una nelle fi nestre e tutti i colori delle vesti si mutano. Allora forse una donna scivolerà da una piccola porta e andrà via per la strada nella notte, e un uomo forse si dirigerà a passi furtivi con una daga, a causa di qualche vecchia lite; Skarmi accenderà le luci nella sua casa per ven dere liquori tutta la notte, e uomini siederanno sulle panche fuori della sua porta giuocando a « skabasc » presso il lume di ' una piccola lanterna verde, mentre accenderanno grandi pipe gorgoglianti e fumeranno il « nargrub ». Oh, è tutto molto bello da osservare. E mi piace pensare, mentre fumo e vedo queste cose, che in qualche luogo, lontano, il deserto abbia sollevato una grande nuvola rossa, come un’ala, affinchè tutti gli Arabi sappiano che il giorno dopo soffierà lo scirocco, 11 maledetto respiro di Eblis, il padre di Satana. Aub — Sì, è piacevole pensare allo scirocco quando si è al sicuro in città, ma non mi piace di pensarci ora, perchè prima che il giorno sia finito, staremo a pren dere pellegrini da condurre alla Mecca, e chi mai po trebbe indovinare quello che il deserto ci riserva? An dar nel deserto è come gettare a un cane un osso dietro l’altro; qualcuno ne prenderà, altri ne lascerà cadere. Egli può prendere le nostre ossa o lasciarci andare e giungere alla scintillante Mecca. Oh, vorrei essere un LORD DUNSANY mercante con un negozietto in una strada frequentata e starmene seduto tutto il giorno a contrattare! Bel-Narb — Ah, sì, è molto più facile ingannare qualche signore che viene a comperare sete ed orna menti in città, piuttosto che ingannare la morte nel de serto. Oh, il deserto, il deserto: io amo le belle città e odio il deserto. ÀU3 (indicando fuori scena a sinistra) — Chi è quello? Bel-Narb — Cosa? Laggiù, al limite del deserto, dove sono i cammelli? Aub — Sì, chi è? Bel-Narb — Guarda attraverso il deserto, per la via dove vanno i cammelli. Si dice che il Re venga giù fino al limite del deserto e vi rimanga a lungo nella sera, guardando verso la Mecca. Aub — E a che scopo il Re guarda verso la Mecca? Egli non può andare alla Mecca. Egli non può andare nel deserto nemmeno per un giorno. Messaggeri corre rebbero dietro di lui gridando il suo nome e lo ricon durrebbero alla sala del Consiglio o alla Camera dei Giudizi. Se non riuscissero a trovarlo, le loro teste sa rebbero tagliate e messe su qualche tetto ventoso; i giu dici le indicherebbero, dicendo: «Forse ci vedranno meglio, di lassù »,. Bel-Narb — No, il Re non può andar via nel deserto. Se Dio mi facesse re, andrei al limite del deserto una sola volta, mi scuoterei la sabbia dal turbante e dalla barba e non guarderei mai più il deserto in vita mia. Avido e arso vecchio genitore di migliaia di diavoli! Potrebbe coprire i pozzi con la sabbia e soffiare col suo scirocco, anno dopo anno e secolo dopo secolo, e non meritare una sola delle mie maledizioni, se Dio mi fa cesse re. Aub — Dicono che tu somigli al Re. Bel-Narb — Sì, io somiglio al Re. Perchè suo padre si travestì da cammelliere e venne per i nostri villaggi. Spesso dico a me stesso: «Dio è giusto, e se potessi travestirmi da re e far diventare lui un cammelliere, questo piacerebbe a Dio, perchè Egli è giusto ». Aub — Se tu facessi questo, Dio direbbe: «Guarda Bel-Narb, che io ho creato per essere un cammelliere, e che lo ha dimenticato ». E allora anch’Egli si dimen ticherebbe di te, Bel-Narb. Bel-Narb — Chissà che cosa direbbe Dio! Aub — Chissà! Le sue vie sono meravigliose. Bel-Narb — Io non farei questa cosa, Aub. Non la farei. E’ soltanto ciò che dico a me stesso quando fumo, o alla notte nel deserto. Dico a me stesso: «Bel-Narb è il Re in Talanna ». E allora dico: «Ciambellano, con ducete qui Skarmi con i suoi liquori e le sue lanterne e le sue tavolette per giocare a « skabasc », e lasciate che tutti i cittadini vengano a bere dinanzi alla reggia e glorifichino il mio nome ». Pellegrini (chiamando, fuori scena) —■Bel-Narb! BelNarb! Figlio di due cani! Vieni a sciogliere i tuoi cam melli! Vieni a partire per la santa Mecca! Bel-Narb —■Maledizione al deserto! Aub — I cammelli si alzano. La carovana parte per la Mecca. Addio, bella città. (Foci dei pellegrini fuori scena: «Bel-Narb! Bel-Narb! »). Bel-Narb — Vengo, figli del peccato. (Escono Bel- Narb e Aub. Entra il re dalla grande porta, incoronato. Siede sul gradino). Re — Una corona non dovrebbe essere portata sul capo. Uno scettro non dovrebbe essere tenuto nelle mani del Re. Ma una corona dovrebbe essere portata con una catena d’oro e uno scettro dovrebbe essere tenuto come un palo nel terreno, in modo che un Re possa es servi incatenato per la gamba. Allora egli saprebbe ve ramente che non può allontanarsi nel meraviglioso de serto e non potrà mai vedere le palme accanto ai pozzi. 0 Talanna, Talanna, quanto odio questa città con le sue strade strette, con gli uomini ubriachi che ogni sera giuocano a « skabasc » nella scandalosa bisca di quella vecchia canaglia di Skarmi! Oh, se potessi sposare la figlia di qualche casata non regale, che per generazioni e generazioni non avesse mai conosciuto una città, e potessimo cavalcare da qui per il lungo sentiero attra verso il deserto, sempre noi due, soli, fino a raggiun gere le tende degli Arabi! E la corona dovrebbe essere data a qualche sciocco, avido uomo, per il suo dolore. Ma tutto questo non può essere, perchè un Re è sempre un Re. (Entra dalla porta il ciambellano). Ciambellano — Maestà! Re — Bene, mio signor Ciambellano, avete ancora del lavoro per me? Ciambellano — Sì, c’è molto da fare. Re — Avevo sperato di essere libero questa sera, per chè le teste dei cammelli sono rivolte verso la Mecca, ed io vorrei guardare le carovane allontanarsi per il deserto, dove io non posso andare. Ciambellano — C’è molto da fare per vostra Maestà. Iktra si è ribellata. Re — Dov’è Iktra? Ciambellano — E’ un piccolo paese tributario di vostra Maestà, al di là di Zebdarlon, in mezzo alle colline. Re — Quasi, se non fossestato perquesto, quasi vi avrei chiesto di lasciarmi andare con i cammellieri alla dorata Mecca. Ho fatto il lavoro di un re per cinque anni, ormai, e ho ascoltato i miei consiglieri, e per tutto questo tempo il deserto mi chiamava; egli diceva: « Vieni alle tende deimiei figli, alle tende dei miei figli! ». E intanto, per tuttoil tempo,io dimoravo fra queste mura. Ciambellano 1 — Se vostra Maestà lasciasse la città ora... Re — Non lo farò, dobbiamo prendere le armi per punire gli uomini di Iktra. Ciambellano — Vostra Maestà nominerà i coman danti. Una tribù dei guerrieri di vostra Maestà deve es sere chiamata da Agrarva e un’altra da Coluno, la città della giungla, come pure una da Mirsk. Questo dovrà farsi con ordini sigillati di mano vostra. I consiglieri di vostra Maestà vi aspettano nella sala del Consiglio. Re — Il sole è molto basso. Perchè le carovane non sono ancora partite? Ciambellano — Non lo so. E allora, Maestà... Re (poggiando una ninno sul braccio del ciambellano) — Guardate, guardate! Sono le ombre dei cammelli che si muovono verso la Mecca. Come silenziosamente sci volano sul terreno, le belle ombre! Presto saranno nel deserto, piatte sulle sabbie dorate. E poi il sole tra monterà, e saranno tutt’uno con la notte. LE TENDE DEGLI ARABI Ciambellano — Se vostra Maestà ha tempo per que ste cose, vi sono dei cammelli per compiacervi. Re — No, no, io non voglio osservare i cammelli. Essi non potranno mai portarmi nel bel deserto, libero per sempre dalla città. Qui io devo restare, per fare il lavoro di un re. Soltanto i miei sogni possono andare, e le ombre dei cammelli li portano, per trovar pace fra le tende degli Arabi. Ciambellano — La Maestà vostra vuol venire, ora, nella sala del Consiglio? Re — Sì, sì, vengo. (Voci fuori scena: «Oh-ioh! Ohieih! Oh-ioh! Oh-ieih!) Ora tutta la carovana si incam mina. I conduttori dei cammelli porta-bagagli verranno dapprima indietro, poi domani li rimonteranno. Allora saranno fuori dalla vista di Talanna, e il deserto si stenderà tutt’intorno e la luce del sole cadrà sui suoi sorrisi dorati. Un nuovo sguardo verrà ai loro volti. Io sono sicuro che il deserto mormora loro nella notte, e dice: «Siate in pace, miei figli, in pace, miei figli». (Frattanto il ciambellano ha aperto la porta per il Re ed è rimasto ivi inchinato, con la mano risolutamente appoggiata alla porta aperta). Ciambellano — Vuol venire, la Maestà vostra, alla sala del Consiglio? Re — Sì, verrò. Se non fosse stato per Iktra, avrei po tuto andar via e vivere per un anno nel deserto d’oro e vedere la santa Mecca. Ciambellano — Forse vostra Maestà avrebbe potuto andare, se non fosse stato per Iktra. Re — La mia maledizione su Iktra! (Si dirige alla porta. Mentre stanno sulla porta, entra Zabra da destra). Zaera — Maestà... Re — Oh! Altro lavoro per un infelice re. Zabra — Iktra è pacificata. Re — Pacificata? I Zabra — E’ accaduto improvvisamente. Gli uomini di Iktra si sono scontrati con alcuni guerrieri di vostra Maestà e per caso una freccia ha ucciso il capo della rivolta; allora la folla, benché fosse più numerosa dei guerrieri, è fuggita, e per tre ore tutti hanno gridato: «Il Re è grande! ». Re — Io vedrò ancora la Mecca e le sognate tende degli Arabi! Io andrò ora nelle sabbie dorate, io. Ciambellano — Maestà. Re — Fra pochi anni ritornerò da voi. Ciambellano — Maestà, è impossibile. Noi non po tremmo governare il popolo per più di un anno. Tutti direbbero: «Il Re è morto, il Re». Re — Ritornerò tra un anno. Un anno solo. Ciambellano — E’ lungo periodo, Maestà. Re — Ritornerò a mezzogiorno, tra un anno da oggi. Ciambellano — Ma una principessa è stata richiesta da Tarba. Re — Credevo che stesse venendo da Karscisc. Ciambellano — E’ stato reputato più consigliabile che vostra Maestà si sposasse in Tarba. I valichi delle mon tagne appartengono al Re di Tarba ed egli ha grandi commerci con Sciaran e con le Isole. Re — Sia fatto come volete. Ciambellano — Ma gli ambasciatori partono in que sta settimana, e la principessa sarà qui fra tre mesi. Re — Fatela venire tra un anno e un giorno. Ciambellano — Maestà! Re — Addio, ho fretta. Vado ad approntarmi per il deserto, (esce per la porta continuando a parlare) la vecchia, dorata madre degli uomini felici. Ciambellano (a Zabra) — Un uomo a cui Dio non avesse tolto interamente il giudizio non avrebbe mai dato quella notizia al nostro giovane scervellato Re. Zabra — Ma bisognava che lo sapesse. Molte cose avrebbero potuto accadere se non l’avesse saputo subito. Ciambellano — Io lo sapevo da stamane. Ora lui se ne va per il deserto. Zabra — Questo è male davvero; ma possiamo cercare di trattenerlo. Ciambellano — Non a lungo. Zabra — Il favore del Re è come l’oro. Ciambellano — Come molto oro. Ma chi sono questi Arabi, che il favore del Re debba scendere su di loro? Le mura delle loro case sono di tela. Perfino le chioc ciole hanno una casa migliore. Zabra — Oh, è molto male. Non gli avessi mai parlato. Andremo tutti in miseria. Ciambellano — Nessuno ci darà più oro per molli giorni. Zabra — Però, voi governerete Talanna mentre egli è via. Potrete aumentare le tasse ai mercanti e i tributi ai contadini. Ciambellano — Essi pagano tasse e tributi soltanto al Re, che dà le sue largizioni a uomini giusti e onesti. Quando egli sarà via, il sopravanzo della sua ricchezza andrà a uomini ingiusti, a uomini le cui barbe non sono pulite e che non temono Dio. Zabra — Saremo veramente poveri. Ciambellano — Forse i malfattori verseranno un po’ d’oro per la giustizia, e qualche riccone per decidere delle sue dispute. Ma niente più, finché il Re non ritorni. Zabra —■ Cercherete di trattenerlo? Ciambellano — No. Quando egli verrà, con il suo seguito e con la sua scorta, io camminerò a fianco al suo cavallo e gli dirò che una marcia attraverso il de serto impressionerà bene gli Arabi col suo splendore, e volgerà i loro cuori verso di lui. Poi parlerò in se greto a qualche capitano della retroguardia della scorta e lui parlerà dopo al comandante in capo, in modo da perdere la pista dopo qualche giorno e far vagare il Re col suo seguito per il deserto e poi tornare per caso a Talanna. Così tutto potrà aggiustarsi. Noi li aspetteremo qui finché saranno tornati. Zabra —- Lo farà il comandante in capo? Ciambellano — Sì, sarà un certo Takbar, un po veruomo devoto a me. Zabra — E se non fosse Takbar, ma qualche uomo avido, che domandasse più oro di quanto potreste of frirne a Takbar? Ciambellano — Dovremmo dargli quello che chiede rebbe, e che Dio punisca la sua avidità. Zabra — Deve passare di qui? Ciambellano — Sì, deve venire da questa parte. Chia merà la cavalleria dei Saloia Samàng. Zabra — Sarà quasi scuro quando verranno. Tni?n TìTT'IVQANY Ciambellano — No, il Re ha molta fretta. Passerà prima del tramonto. Li farà montare immediatamente. Zabra (guardando fuori scena, a destra) — Non vedo nessun segno di movimento fra i Saloia. Ciambellano (guardando anch’egli) — No, no. Ma ci penserà lui a farli muovere. (Mentre essi guardano, un uomo esce dalla porta, con un grezzo mantello marrone che gli cade sulla fronte. Esce furtivamente da sinistra) Chi è quell’uomo? E’ andato verso i cammelli. Zabra — Ha dato una moneta ad uno dei cammellieri. Ciambellano — Guarda, è salito! Zabra — Avrebbe potuto essere il Re! (Voci fuori scena: « Oh-ioh! Oh-ieih! »). Ciambellano — No, non è altro che qualche cam melliere che va nel deserto. Come suona lieta la sua voce! Zabra — Lo scirocco lo ingoierà. Ciambellano — Ma... se fosse stato il Re...! Zabra — Se fosse stato il Re, dovremmo morire di fame per un anno. QUADRO SECOADO Un anno è trascorso. Il re, avvolto in un mantello da cammelliere, siede accanto ad Eznarza, una zingara del deserto. Re — Ora ho conosciuto il deserto e ho vissuto nelle tende degli Arabi. Eznarza — Non c’è nessuna terra come il deserto e nessun popolo come gli Arabi. Re — Tutto è trascorso e finito; io ritorno alle mura dei miei padri. Eznarza — Il tempo non può impedirlo; io ritorno al deserto che mi ha nutrita. Re — Hai mai pensato, in quei giorni sulle sabbie o fra le tende di mattina, che il mio anno sarebbe pas sato, e dalla forza della mia parola sarei stato condotto via alla prigione della reggia? Eznarza — Sapevo che il tempo avrebbe fatto questo, perchè il mio popolo ha imparato a conoscere le sue vie. Re — E’ il tempo, allora, che ha deriso le nostre futili preghiere? E’ forse più grande di Dio, egli che ha riso delle nostre suppliche? Eznarza —- Non possiamo dire che è più grande di Dio. Pure, noi abbiamo pregato che il nostro anno non potesse mai finire. Dio non poteva concederlo. Re — Sì, sì. Noi abbiamo fatto questa preghiera. Tutti gli uomini ne riderebbero. Eznarza — La preghiera non era ridicola. Soltanto, Egli, che è Signore degli anni, è inflessibile. Se un uomo pregasse per aver salva la vita un sultano furioso e spie tato, bene potrebbero deriderlo gli schiavi del sultano. Pure, non è ridicolo pregare per la vita. Re — Sì, noi siamo gli schiavi del Tempo. Domani verrà la principessa da Tarba. Dobbiamo piegare il nostro capo. Eznarza — Il mio popolo dice che il deserto è il Suo paese. Egli non fa del male al Suo paese, dice il mio popolo. Ma domina tutte le altre terre del mondo. Re — Sì, il deserto è sempre lo stesso, perfino la sua piccola roccia. Eznarza — Dicono che egli ami la Sfinge e non le faccia male. Dicono che egli non osi far del male alla Sfinge. Essa 'gli ha generato molti dèi, che gli infedeli adorano. Re — Il loro padre è più terribile di tutti i falsi dèi. Eznarza —• Oh, avesse almeno risparmiato il nostro piccolo anno ! Re — Egli distrugge tutte le cose. Eznarza — C’è un piccolo figlio dell’uomo che è più potente di lui, e che salva il mondo dal Tempo. Re — Chi è questo piccolo figlio che è più potente del Tempo? E’ l’Amore che è più potente? Eznarza — No, non è l’Amore. Re — Se egli supera anche l’Amore, allora nessuno è più potente di lui. Eznarza — Egli manda via l’Amore impaurito con i deboli capelli bianchi e con le rughe. Povero piccolo Amore, povero Amore, il Tempo lo spaventa e lo allontana. Re — Chi è questo figlio dell’uomo che può con quistare il Tempo ed è più forte dell’Amore? Eznarza — Il costante Ricordo. Re — Sì. Ed io lo chiamerò quando il vento del deserto batterà contro le mie inflessibili mura, e quando non potrò vedere il deserto nè potrò udire il suo vento. Eznarza — Egli ci riporterà il nostro anno, che il Tempo non può distruggere. Noi lo vedremo spesso, anche se un poco lontano, e le sue ore e i suoi giorni danzeranno per noi, e passeranno a uno a uno, e torne ranno indietro a danzare di nuovo. Re — E’ vero. Essi ritorneranno a noi. Noi faremo ritornare spesso i vecchi giorni, quando tu sarai tra la tua gente ed io miserabilmente sposato alla principessa di Tarba. Eznarza — Essi verranno con la sabbia sui piedi dal bel deserto d’oro, verranno ciascuno con un tramonto da lungo tempo svanito sul capo. Le loro labbra ride ranno con le vecchie voci della sera. Re — E’ quasi mezzogiorno. E’ quasi mezzogiorno. Eznarza — Allora noi dobbiamo lasciarci. Re — Oh, vieni con me in città e sii la mia Regina. Manderò indietro a Tarba la principessa. Tu sarai la Regina di Talanna. Eznarza — Io torno al mio popolo. Tu sposerai do mani la principessa di Tarba. Tu lo hai detto. Io l’ho detto. Ri; — Oh, non avessi mai dato la mia parola di ri tornare ! Eznarza — La parola di un Re è come la corona di un Re, come lo scettro di un Re, come il trono di un Re. Una cosa futile, come una città. Re — Non posso spezzare la mia parola. Ma tu puoi essere la Regina di Talanna. Eznarza — Talanna non può avere una zingara come Regina. Re — Io lo imporrò. Eznarza — Tu non puoi far vivere una zingara in città per un anno. Re — So di una zingara che visse in città, una volta. Eznarza — Non una zingara come me... Torna alle tende degli Arabi. LE TENDE DEGLI ARABI Re — Non posso. Ho dato la mia parola. Eznarza — Yi sono Re che hanno spezzato la loro parola. Re — Non erano come me. Eznarza — Non abbiamo altro che quel piccolo figlio dell’uomo il cui nome è Ricordo. Re — Vieni. Egli ci riporterà, prima che ci separiamo, uno di quei giorni che sono trascorsi. Eznarza — Facciamo che sia il primo giorno. Il giorno in cui ci siamo incontrati accanto al pozzo, quando i cammelli giunsero ad El-Lolit. Tu cavalcavi un po’ al largo della carovana, verso il lato del tra monto. Il tuo cammello avanzava con passo leggero, ma tu eri stanco. Re — Tu eri venuta al pozzo per l’acqua. Dapprima potevo vedere i tuoi occhi, poi vennero le stelle e si fece scuro, ed io vedevo solo la tua forma, e c’era un po’ di luce intorno ai tuoi capelli; non sapevo se fosse o no la luce delle stelle, sapevo soltanto che risplen devano. Eznarza — E allora mi chiedesti dei cammelli. Re — Allora udii la tua voce. Non dicesti le cose che potresti dire ora. Eznarza — Certamente. Re — Non dicesti còse nemmeno nello stesso modo. Eznarza — Come le ore ritornano danzando. Re — No, no. Soltanto le loro ombre. Noi andammo insieme alla santa Mecca. Noi vivemmo soli nelle tende nel deserto d’oro. Noi udimmo il libero giorno selvaggio cantare canzoni nella sua libertà, udimmo il vento della notte. Niente rimane del nostro anno all’infuori di ombre desolate. Il Ricordo le frusta, ma non le fa danzare. {Ez narza non risponde) Noi abbiamo fatto i nostri addii dove si estendeva il deserto. La città non li ha uditi. (Eznarza si copre il viso. Il re si alza e salei lenta mente i gradini. Entrano da sinistra il ciambellano e Zabra, senza notare gli altri). Ciambellano — Egli verrà. Egli verrà. Zabra — Ma è già mezzogiorno. La nostra salute ci ha abbandonato. I nostri nemici ci deridono. Se egli non verrà, Dio ci avrà dimenticato e i nostri amici avranno pietà di noi. Ciambellano — Se egli è vivo, verrà. (Entrano BelNarb e Aub). Zabra — Temo che sia passato il mezzogiorno. Ciambellano — Allora egli è morto o i predoni lo hanno catturato. (Il ciambellano e Zabra si pongono della polvere sul capo). Bel-Narb (ad Aub) — Dio ò giusto! (Al ciambellano e a Zabra) Io sono il Re! (La mano del re è sulla porta. Quando Bel-Narb dice questo, egli torna a discen dere i gradini e siede accanto alla zingara. Ella solleva il capo dalle mani e lo guarda fisamente. Egli si copre parzialmente il volto, alla maniera degli Arabi, e os serva Bel-Narb, il ciambellano e Zabra). Ciambellano — Siete veramente il Re? Bel-Narb — Io sono il Re. Ciambellano — Vostra Maestà è molto mutata da un anno fa. Bel-Narb — Gli uomini si alterano, nel deserto. Si alterano molto. Aub — In verità, Eccellenza, è proprio il Re. Quando il Re venne nel deserto travestito, io nutrii il suo cam mello. In verità è il Re. Zabra — E’ il Re. Io so riconoscere il Re, quando 10 vedo. Ciambellano — Lo avete visto raramente. Zabra — L’ho visto spesso, invece. Bel-Narb — Sì, ci siamo incontrati spesso, molto spesso. Ciambellano — Se qualcuno potesse riconoscervi, Mae stà, qualcuno oltre quest’uomo che è venuto con voi, allora saremmo tutti sicuri. Bel-Narb — Non c’è bisogno. Io sono il Re. (Il re si alza e tende la mano, con la palma verso il basso). Re — Nella santa Mecca, nella Mecca dai tetti verdi e dalle molte porte, tutti lo abbiamo conosciuto come 11 Re. Bel-Narb — Sì, è vero. Io ho veduto quest’uomo alla Mecca. Ciambellano (inchinandosi profondamente) — Per dono, Maestà. Il deserto vi ha mutato. Zabra — Io ho subito riconosciuto vostra Maestà. Bel-Narb (indicando il re) — Fate che quest’uomo sia compensato adeguatamente. Dategli qualche posto a palazzo. Ciambellano — Sì, Maestà. Re — Io sono un cammelliere, e noi ritorniamo ai nostri cammelli. Ciambellano — Come volete. (Escono Bel-Narb, Aub, il ciambellano e Zabra, per la porta). Eznarza — Hai agito saggiamente, saggiamente, e la ricompensa della saggezza è la felicità. Re — Essi hanno il loro Re, ormai. E noi torneremo a dirigerci alle tende degli Arabi. Eznarza — Essi sono degli sciocchi. Re — E hanno trovato il loro sciocco Re. Eznarza — E’ veramente sciocco, un uomo che sceglie di vivere fra le mura. Re — Alcuni nascono Re, ma quest’uomo ha scelto di esserlo. Eznarza — Vieni, lasciamoli. Re — Torneremo di nuovo. Eznarza — Vieni alle tende del mio popolo. Re — Vivremo un poco a parte, in una cara tenda marrone tutta nostra. . Eznarza — Ascolteremo di nuovo la sabbia sussur rare lievemente al vento del mattino. Re — Sentiremo i nomadi agitarsi nei loro accam pamenti lontani, sul far dell’alba. Eznarza — E il calpestio degli animali che ritornano alle loro colline. Re — Quando a sera il sole sarà tramontato, non pian geremo perchè il giorno è trascorso. Eznarza — Di notte, io leverò il mio capo contro il cielo, e le vecchie stelle, libere eternamente, risplende ranno attraverso i miei capelli, e noi non invidieremo le corone di nessuna regina del mondo. -2 ^ u b ila I PROSSIMI TR I m m i V O LU M iT T E DI T E A T R O Raccolta di commedie di ogni epoca, diretta daLucio Ridenti, conterranno: C ARLO B E R TO LA ZZ! L ’ E G O IS T A TESTO ITALIANO DELL’AUTORE E PRESENTAZIONE DI E. FERDINANDO PALMIERI Respinta da tutti i capocomici dell’epoca e portata alle scene, nel 1901, dalia Compagnia veneziana di Ferruccio Berlini, nella versione dello stesso Bellini, «L’egoi sta» è una originale e forte commedia, destinata a sorprendere il lettore: com media di carattere, di un tono che si vor rebbe definir classico. Da quanti anni «L’egoista» non appare alla ribalta? Cre diamo che, nonostante il successo, l’opera abbia avuto un solo interprete: il mira bile Benini. ” Per quanto facessi, per quanto pregassi, non mi fu mai concesso di sentire il mio lavoro rappresentato nella sua giusta veste... ,, scriveva Carlo Bertolazzi nel 1915. Il testo in lingua de «L’egoista», dato alle stampe dall’au tore in tempi lontani, è oggi introvabile: e la nuova pubblicazione nella nostra Rac colta non potrà che suscitare il più appas sionato interesse. Noi pensiamo che, non da ora, vi sia, ben limpido, un ’’ caso,, Bertolazzi: che i quattro atti de «L’egoi sta» ripropongono ai critici, ai lettori e, vogliamo sperare, agli attori. LE M E T E M P S IC O S I di Y O - T C H É O U VERSIONE IT A L IA N A E PRESENTAZIONE DI ANTON GIULIO BRAGAGLIA E M IL IO Z O L A N A IA VERSIONE IT A L IA N A E PRESENTAZIONE DI L IN A C O S T A COPERTINE A COLORI DI FEDERICO PALLAVICINI S. E.T. - EDIZIO^m «IL DRAMMA» SOCIETÀ EDITRICE TORINESE GORSO VALDOCCO, 2 - TORINO t e r m o c a u t e r i o Alcune commedie nuove sono come le farfalle : muoiono appena si prendono. Olga Vittoria Gentilli è una donna spiritosa, oltre che bravissima attrice almeno da vent’anni. Un giorno che era in nostra compagnia e ci spiegava adiratissima non sappiamo più quale complicata faccenda di diritti in un contratto con un suo capocomico, infine terminò con queste parole rivolte a sè stessa: — Io non capisco perchè faccio l’attrice: una professione per la quale non ho mai avuto alcuna simpatia! xki Storiella anteguerra: Si rappresentava a Londra una commedia di Shaw e, cosa piuttosto rara per questo autore, quella sera, il pubblico applaudiva con commovente unanimità. Soltanto uno spettatore, dal loggione, fischiava. A un certo punto, Shaw si affacciò alla ribalta e, chiesto il silenzio, interpellò così l’ostinato e solitario oppositore: «Avete perfettamente ragione, signore. Anch’io sono del vostro parere. Ma che volete farci, siamo noi due soli contro tutta questa folla ». 'A «Per i cantanti, l’adulazione è una speculazione sulla vanità. Quando fa fiasco un collega, l’adulatore non ritrae che quanto ha messo di suo, cioè ii disprezzo » (Metastasio). « La prima donna del teatro, attempata, non vuol recedere dagli antichi suoi diritti» (Leopardi: Zibaldone). « Se tutti gli ammiratori di un’attrice ascoltassero la prediletta recitare in tutte le sue parti, quell’attrice finirebbe per avere molti meno ammira tori » (J. Renard). Paola Borboni ha uno spirito corrosivo che qualche volta strappa la pelle. Sentendo ripetere «caro» «cara» proprio mentre le si presentava un indumento il cui prezzo giudicava esagerato, disse a se stessa: «Ben trovato questo vocabolo della venalità amorosa che corre! La stessa parola per ciò che si ama e per ciò che costa ». ix Dissero, davanti a un giovane attore nostro amico, questa massima cono sciuta: «Chi paga i propri debiti si arricchisce». «Sì, si — rispose l’attore — è una voce che fanno correre i creditori ». Sì, o giovani aspiranti, voi vedete il teatro, e più propriamente il palcoscenico, in una nuvola dorata. Ma non bisogna dimenticare che il teatro si compone di autori, attori, impresari. Mi ricordo di certe sale di trattoria dove la gente mangia: la sala è uno splendore, purché non guardiamo le persone che mangiano a una a una (Tristan Bernard). tir «Tutto si è perfezionato dagli istrioni in poi; ma non il teatro » (Ano nimo del XVII secolo). ★ Con solennità cattedratica — una sera che Guido Cantini riceveva a casa sua degli intimi amici —- disse a simbolo di non sappiamo più che cosa questa massima: — Se il naso di Cleopatra fosse stato due centimetri più lungo, la faccia del mondo sarebbe stata diversa. — E anche la faccia di Cleopatra — completò Paolo Stoppa rivolto a Rina Morelli che gli sedeva accanto. «Ammirazione: è un sentimento che la gente di teatro prova soltanto mettendosi davanti a uno specchio » (P. VÉron). À Le attrici, più di tutte le altre donne, odiano l’amicizia fra loro. Ed hanno ragione; in palcoscenico la temperatura è troppo bassa: ogni porta di camerino che si schiude b un raffreddore per qualcuna. A L’abitudine è figlia della pigrizia e madre della costanza: molte carriere teatrali durano, solo per questo, tutta la vita. Proprietà letteraria e artistica riservata — Società Editrice Torinese ('Gazzetta del Popolo Illustrazione del Topolo) Corso Valdocco, 2 - Torino — Ernesto Scialpi, responsabile. Manoscritti efotografie Inviati alia Direzione, non richiesti, si restituiscono solo a spese dei mittente. B C O A N M M E I T A L S O C IE T À C A R C I A I A N A PER L E A Z IO N I C A P IT . L . 700.000.000 IN T . V E R S . R IS E R V A B A N C A D I L IR E 1 7 5 .0 0 0 .0 0 0 IN T E R E S S E N A Z IO N A L E ^ N X I L O C M L O f l S O S t C O ^ I

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Il dramma : rivista mensile di commedie di grande successo. - Torino : Grandi firme, 1925-1992.

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