34° ANNO ■ N. 265 ■ OTTOBRE 1958 sped. « atb. post. 3' Gruppo LIRE 400 L I MENSILE DI COMMEDIE Di GRANDE D R A INTERESSE DIRETTO DA LUCIO RIDENTI M M A A \ F OF K W OL p e r u n c o c k t a i l e l e g a n t e c r a c k e r s ~ N A B I S C O M o t t a r i t z - t r i a n g o l i n i - c o r n t h in s - c i o c c o l i n i N O V I T À ______________________________________________________ A L L A R A D I O E A L L A T E L E V I S I O N E / m OTTOBRE NOVEMBRE 15-10 18-10 20-10 22-10 22-10 23-10 25-10 29- 30- 31- 1-11 5-11 8-11 10-11 11-11 12-11 13- 14- 15- PROGRAMMA TERZO NAZIONALE SECONDO TERZO SECONDO SECONDO NAZIONALE 10 SECONDO 10 SECONDO 10 NAZIONALE NAZIONALE TERZO NAZIONALE SECONDO NAZIONALE SECONDO 11 SECONDO 11 TERZO 11 NAZIONALE TUTTO PER AMORE * j. dryden ■ Trai. c. daldini INCONTRI IN UNA STAZIONE DI PROVINCIA di P. levi L'IMMAGINE * a. conti e c. zorzi IL PRIGIONIERO a b. boland IL CREPUSCOLO DELL'EROE a a. ferrini LE BELLE SABINE &■ l. andreiew - Trai. o. campa SULLE RIVE DELLA PL0TINITZA ,u w. hildesheimer ■ Trai. i. pizzetti LA CONTADINA FURBA ì è Stat0 Vlnt0 da Paol° Lcvi' con la commedia in tre atti Lastrico d’inferno In questo fascicolo avremmo dovuto pubblicare— come facciamo tutti gli anni, in omaggio al «Riccione» — Venera vincitrice Z l J T n Cl ha.pTegial° dl sPost<"-e}a data di pubblicazione perchè deve apportare alla sua commedia qualche variazione, agli effetti della imminente rappresentazione. In attesa di pubblicare Lastrico d’inferno come è convenuto con Vantare, pubbli- chiamo intanto la commedia che ha avuto il secondo premio al «Riccione», e cioè Irene fra due rive di Gian Paolo Callegari questo autore la nostra Rivista ha già pubblicato Cristo ha ucciso e più recentemente Le ragazze bruciate verdi la cui appresentazione è ancora proibita in Italia (nè si potrebbe supporre assurdo maggiore) mentre, conosciuta la commedia in stata r vanghe, falci, un erpice, un piccolo aratro, uno spruzzatore di solfato per vigneto ecc. — appoggiati alla parete 0 buttati a terra. Appesi alla parete vi sono altri arnesi, cesti, imbuti grossi da vino, cianfrusaglie conservate in attesa che si possano usare, con quella parsimonia spesso assurda dei contadini. Pendente dalla trave centrale è un’assicella a bilancia con sopra una fila di vasetti che conterranno chissà cosa e che debbono essere irraggiungibili dai topi. Accanto alla grande porta di fondo si nota una vecchia bicicletta che, priva di una ruota, sta ritta e capovolta sul manubrio. A T T O P R IM O Saverio Varapodio, siciliano, è seduto sopra il calesse in posizione evidentemente innaturale e scomoda per la sistemazione del calesse stesso; egli è un giovane sui ventidue anni, esile, serio, contegnoso, con un’aria intelligente ma trasognata. Indossa vec chi pantaloni, scarpacce contadine e un maglione grigio alla ciclista, tutta roba troppo grande per lui. Vittorio Ubertelli, milanese, un pìccolo uomo digni toso e asciutto dì circa sessantanni, sta seduto a cavallo dello spruzzatore da solfato e con un piccolo cacciavite lavora attorno ad una grossa sveglia; porta con cura un vecchio abito scuro con qualche strappo e la camicia senza cravatta diligentemente abbotto nata al collo. E’ evidente l’importanza quasi religiosa che attribuisce al suo metodico lavoro. Sulla porta che prospetta la riva del fiume è appoggiato al bat tente aperto Adriano Morali, torinese, un uomo dall’aspetto energico e signorile malgrado la barba trascurata; indossa sopra vecchi pantaloni di tela chiara una frusta giacca di velluto verde bottiglia alla cacciatore che lascia vedere sotto la canottiera senza camicia. Egli fuma inquieto guardando fuori nel senso di destra dove si suppone che passi la strada: è chiaro che attende qualcuno o qualcosa. Saverio (parlando a Vittorio) — ... siedono allora sull’erba e formaggio mangiano. Bisogna vederli come gustano il formaggio con i vermi che non sono vermi veri, ma vermi del formaggio, cioè for maggio anche loro, formaggio vivo. Sulla carta aperta, piccoli come virgole, saltano allegri; e loro con il pane li fermano e giù in bocca, con un tòcco di formaggio. Le ragazze sono le più golose, perché hanno più fame degli uomini, siccome la cava è un lavoro pesante che tira giù lo stomaco come un sacco vuoto... Belle sono, anche se a maneggiare pietre spropositate e a pestare scalze brecciame e fango fanno mani e piedi larghi e nodosi come radici d’olivo. Una c’era, con gli occhi in «excelsis deo» e un gran stacco di fianchi: Cata si chiamava. Ma, dopo averla vista mangiare, non ho avuto mai il coraggio di baciarla... Lei l’avrebbe baciata, signor Vittorio?... (Vittorio alza appena gli occhi e lo guar da come non abbia sentito) ... Non c’è da scanda lizzarsi; voglio dire quando lei era giovane... Se GIAN PAOLO CALLEGARI pensa che allora, anche in vacanza, mi facevano portare la sottana da prete e già uno studente prete, alla regola, è come vecchio, come nessuno per le donne... Tre anni sani mi mancavano ancora per essere prete... Cospitelli, un galantuomo di Piazza Armerina, si fidanzò con una ricamatrice che era ancora vestito; e proprio d’accordo con le famiglie che lo lasciarono in seminario fino alla licenza liceale, così avrebbe potuto dare il concorso nelle poste prima di ammogliarsi... Sono le risorse della miseria. Voi a Milano avete le fabbriche, e noi, in Sicilia, il seminario. V ittorio (di scatto alza il capo) — Milano non c’è più!... Non c’è più! Sale di sodio, carbone coke, poi lignite e tutto pari... Adriano (che si è voltato alle prime parole di Vittorio, entra dentro e si avvicina, rivolgendosi a Vittorio) — Mi faccia un piacere, sistemi bene quel la sveglia... (Vittorio, borbottando qualcosa di incom prensibile, riprende il suo lavoro. Adriano si avvici na a Saverio e gli porge la mezza sigaretta che ha in bocca) —• Fuma!... E non fare questi discorsi. Te l’ho già detto a Ostiglia, quando quel calzolaio ci cacciò di notte. Saverio —• Io fui a rompere tutti i bicchieri contro il muro?... Lui fu! Adriano —• Perché tu parli come non si deve. Saverio —■ Se lui è matto, non è colpa mia. (Adria no gli fa cenno di tacere). Adriano — Finché non siamo a posto, dovete ubbi dirmi, poi ognuno si arrangia. Saverio — Il Cristone ti ha forse ubbidito, con il guaio che ci procura? Adriano — Il Cristone non è come te, mi capisci. Tu sei come me e dobbiamo aiutarci. (Saverio sod disfatto fa un segno di assentimento) T i ricordi esat tamente dove avete nascosto i due zaini? Saverio — Dietro la siepe del calderaio, fra la letamaia e la legna da bruciare. C’era anche lui (Accenna a Vittorio). Adriano — Se hanno pescato anche Mario, siamo a posto. Saverio —• Meglio scappare subito senza attendere. Adriano —- No!... Dico io quello che si deve fare. (Torna verso la porta di fondo e guarda con insi stenza verso il lato destro). Vittorio (ascoltando la sveglia contro l’orecchio) — ... ottantasette, ottantotto, ottantanove, novanta... (Riprende a lavorare attorno alla sveglia, mentre Adriano, fuori, si allontana lungo la riva come pas seggiando in attesa. Si ode una voce argentina di donna che canta, forse una lavandaia al fiume). Voce lavandaia (mentre Saverio va indolentemente a stuzzicare i polli, canta un motivo popolare delle mondariso) —■ « La majulin la va al mulin - dal biondo mulinaro col sacchettin. - O mio bel muli nare son poverina - la mamma è in letto' sensa medgina. - O mio bel mulinaro son poverina - non tengo gnanca la camisina. - T i dono i oci e la bocca in fiore - fammi limosna della farina. - Vegno da marna con rose in mano - e il sposalizio non è lontano... (All'improvviso la sveglia di Vittorio trilla rumorosamente con evidente piacere del vecchio che non sorrìde mai). Saverio (avvicinandosi a Vittorio) — A casa tene vamo un orologio a muro, portato da mio nonno che otto anni scaricò carbone nel porto di New York. Quando le ore battevano, usciva il presidente Lincoln che abbracciava un negro nudo con le catenelle ai polsi... (Con stridore del contrappeso scorrente in alto, si apre la porticina a destra sopra la scaletta ed entra la Parpajola). Parpajola (è una donna sui 35-38 anni, piacente, robusta, dall’aria energica. Porta un grembiule da cucina mezzo arrotondato alla cintola, un fazzoletto chiaro in testa, le maniche rimboccate e le ciabatte ai piedi nudi. Scende i primi due scalini e si ferma sull’ultimo) —- Cos’è tutta questa suoneria? Mi sve gliate il bambino. Vi ho raccomandato di stare tranquilli e zitti, mica solo per me, ma anche per voi... Saverio (accennando a Vittorio, fa segno alla Par pajola che va compatito) — Va bene, non ci pensi, starò attento io che non suoni più. Parpajola — Se i « crucchi » si accorgono che siete qui, vado nelle peste io, ma a voi vi portano via. E chiedetelo all’Irene se c’è gusto a farsi mettere dentro qui. La settimana scorsa a due ragazzi di Ficarolo, scappati dal distretto di Rovigo, hanno scottato i piedi con la liscivia bollente. L’Irene le sa tutte queste faccende... Oltre il guaio combinato dal vostro compagno, siete tutti senza carte... Saverio (freddamente) —• Io di carta ne tengo quanta ne vuole. Parpajola — Il vostro amico, invece, ha detto che... Saverio (interrompendo) — Trecentosettantacinque fogli, tutti di carta patinata!... Guardi la stampa!... E le figure!... (Si avvicina a braccia aperte come offrendosi e la donna si ritrae di uno scalino) Guar di!... Perché ha paura ora, lei che alza la voce con gli altri?... M i apra!... Mi sfogli!... Parpajola (disorientata) — Perché devo avere pau ra?... Non capisco che vuole dire... Io parlavo per il bene vostro, perché se vi scoprono è peggio per voi e non starei bene nemmeno io... Ho dei bambini, io, e sono piccoli ed hanno bisogno di me. Saverio — Forse lei non sa leggere. Se non sa leggere, lo può dire, non c’è da vergognarsi. In Sici lia c’è ancora molto analfabetismo... Parpajola (risalendo in fretta l’ultimo scalino, riapre la porta sempre più disorientata e dice in fretta, senza attendere risposta) — Quando torna il vostro amico, quello dalla giacca di velluto, dica che mi chiami. (Esce, la porta si richiude da sola). Saverio (sale il primo scalino come a seguirla) — Senta, le spiego!... Tutta l’enciclopedia è in trenta volumi... (Si arresta sfiduciato, torna indietro e si rivolge a Vittorio) Sono molto ignoranti da queste parti. Buona gente, ma ignorante e rustica... sabato, sabbia, sacca, saccente, saccheggiare, sacchetto, sacco, saccoccia, saccone, sacerdote, sacramento... V ittorio (come svegliandosi) — ... estrema unzione... Nemmeno l’estrema unzione hanno avuto! Saverio (nuovamente normale) — Non ci pensi, se va così non l’avremo nemmeno noi... (Gli batte la mano sulla spalla, poi va di nuovo a sedere sid calesse fischiando « Lilli Marlen », mentre Vittorio seguita il suo lavoro. Entrano insieme frettolosamen te Adriano e Mario. Questi è un giovane sui tren tanni che indossa, con maggiore proprietà dei com pagni, una giacca a vento di foggia militare sopra una vecchia camicia sportiva e calza stivaloni vecchi ma robusti. Zoppica leggermente camminando). Mario (seguitando il discorso) — ... tutte supposi zioni inutili, mi pare... Intendo arrivare anch’io dove volete andare voi... E allora? Adriano — Temevo che avessero arrestato anche te. Mario —- Accidenti alla premura!... Tanto amore dopo tutte le liti fatte... Adriano — Non illuderti, ma stiamo tutti sulla stessa barca. Se fossi caduto nelle loro mani, ti avreb bero fatto parlare e il malanno finiva anche nostro. Mario — Sta’ calmo. Ho imparato prima di voi come si squaglia, anche se questa gamba non è tornata ancora a posto. Saverio — Il Cristone allora sputerà tutto. Adriano — Te lo ricordi a Mombello? Se la crisi di oggi è una delle solite, resterà balordo almeno un paio di giorni. E due giorni dovrebbero bastarci per passare tutti insieme dall’altra parte. Mario — E se a me non facesse ancora comodo di passare dall’altra parte? Per tua regola, il tutore servirà a loro due (accenna a Saverio e a Vittorio) ma io non ne ho bisogno. Adriano (prendendolo per il petto) — Con me non ti conviene più di alzare la cresta. Ci siamo fatti condurre fino qui perché tu eri pratico dei posti e dicevi di avere fatto qui la resistenza. Ma il tuo patriottismo di marmellata non mi piace proprio più. Mario (scrollando le mani di Adriano) — E la gamba allora?... Mica sono storie, c’è qui Saverio che mi ha preso su... Saverio — Una volta il cameriere del vescovo di IRENE FRA DUE RIVE Noto sentì alla notte un rumore dei ladri nel giardino e prese un fucile a canna corta... Mario (interrompe con una risata) — M i piaci proprio, quando parli con quella testa guasta! Saverio (con impeto) — Se un’infamia mi fecero il rettore e mio fratello insieme, non credere che la mia testa sia peggiore della tua! Adriano (energico) — Basta!... (A Mario) Perché non sei venuto subito? Ti avevo fatto avvertire che ci riunivamo dalla Parpajola. Mario — Dovevo vedere l’Irene. Era a fare erba, per i conigli delle vecchie lungo il canale e ho perso tempo. Adriano —■ Ti arrestano sulla piazza il Cristone a due passi e tu pensi soltanto di andare a fare all’amo re. Per fortuna, lo perdiamo presto lo « sparaviri della Juppa». Saverio — Non è certo un affare perderla, l’Irene. Se non c’era lei, non avremmo potuto restare qui tanti giorni tranquilli e mangiare... Adriano — Voi due vi trovate d’accordo soltanto quando si tratta di andare dietro alle gambe graf fiate della prima sporca contadina che ve le mostra. Mario — Sentimi, senza fare tanto il caporale. Pi ho condotto al Po da questa maledetta parte perché sapevo che c’era l’Irene che ci avrebbe aiutati. Ma se ora non ti faccio più comodo, posso andar mene per mio conto. Adriano — Potevi dirlo subito, quando ti abbiamo pescato come un beccaccino impallinato nel Iago di Mantova con la fucilata nella gamba : « portatemi di peso dalla mia amica e tante grazie». Ma ora tu devi venire fino in fondo. La nostra pelle è legata alla tua e la tua alla nostra. Se non ti va, discutiamo la questione davanti a «Buffalo Bill». Mario (arrendevole) — Non prendere tutto per la punta. Vengo, vengo!... Lo so anch’io che stiamo sulla stessa barca e guai affondare. Saverio — Perché non lo hai trattenuto il Cristone? Adriano — Tre volte ti ho ripetuto oggi di non lasciarlo andare. Non mi piaceva da ieri, era a corde tese. Mario —• Volevo vedere voi. Aveva la forza di un elefante. Adriano — Dovevi trattenerlo nella bottega del fabbro. Sarei tornato subito. Mario — Quando ha sentito la trombetta dei saltimbanchi, non ho potuto più fermarlo. Gli sono andato dietro. Credevo che si calmasse, si divertiva a guardare quell’accidente peloso che spezza le catene. Rideva anche. Ha cambiato registro appena hanno fatto la piramide. Ha visto la donna montare sulla testa dell’uomo e il bambino arrampicarsi su fino a rizzarsi in piedi sulle spalle della donna e allora ha gridato con un urlo: «Cade cade!... Ven- GIAN PAOLO CALLEGAR! turino!... VenturinoL. Assassini! ». Ha fatto un salto avanti e si è buttato contro lo stomaco dell’uomo con la testa bassa. Ci saresti riuscito tu a fermarlo?... Sono caduti tutti, lui e i tre saltimbanchi, in un mucchio; e il Cristone dava pugni e calci con la forza di dieci muli, senza guardare a chi prendeva. Gli è venuta la bava alla bocca e ragliava davvero come i muli. Facevamo sangue un po tutti, anche quelli che si sono rovesciati sul mucchio per se pararli. Saverio — E tu? Mario — Ho visto che arrivava la Feldgendarmerie con la piastra come i cani di lusso e via corda! Adriano — ...dallo « sparaviri della Juppa » per rifarti la bocca con l’amore. E noi ad aspettare, senza sapere bene le cose, e con una fifa nera. Saverio — Dovevi portarlo via prima della pira mide. C’era da immaginarlo che appena vedeva il bambino su in cima diventava una bestia. Mario — Dovevo, dovevo!... Perché non lo avete badato voi che siete tanto bravi e che sapete come va trattato, voi che ci siete stati insieme un anno e mezzo?... Io lui lo conosco come conosco voi, da tre settimane... Che me ne frega di lui? Vittorio (cow il solito momentaneo risveglio) — Chi se ne frega della galera, camicia nera trionferà!... E’ tornato il Cristone con le bombe? Adriano (con tono 'persuasivo) —■ Signor Vittorio, oggi il Cristone è molto occupato. Alle bombe ci penso io. Vittorio (riprendendo il suo lavoro) — Va bene... Ottantasette, ottantotto... Adriano (a Mario e Saverio) — Prima di notte, filiamo. La Parpajola deve darmi ancora una con ferma, poi tutto è a posto. Mario — E i due zaini?... C’è anche roba mia dentro. Adriano — Saverio sa dove sono. Andate voi due a prenderli. Mario — Già!... Perché il capoccia ha le gambe che tremano. Saverio — Se Adriano avesse avuto paura, ti avrebbe lasciato sotto Mantova, con quelli che ti davano la caccia. Chi ti ha portato a spalle? Lui! Adriano —• Era meglio lasciarti nel lago a bagno maria... Fai quello che ti dico, se vuoi riprendere la tua roba. La mia la posso lasciare. (Saverio si muove svelto per uscire e, quando ha varcato la soglia, Adriano richiama indietro Mario) Sta’ bene attento questa volta. Non fare discorsi sbagliati a Saverio, per il bene di tutti. Parla dell’Irene, che è un argomento che gli piace. Che non vengano fuori storie di libri, di carta o di stampa, altrimenti ricor mincia con il volume della S della enciclopedia e non lo reggi più. Mario — Va bene. (Esce frettolosamente per rag giungere Saverio). Adriano (siede sopra le stanghe del calesse e si ac cende una sigaretta mentre Vittorio da una tasca prende fuori due orologi da braccio e li confronta con la sveglia. Adriano si alza e si avvicina) — Che sono quei due orologi, signor Vittorio? V ittorio — Con tre orologi, nel paragone, il mi nuto si spacca in tre. Non andiamo bene ancora e finché non si spacca il minuto non avremo l’ora esatta per sganciare... Adriano — Sono suoi i due orologi piccoli? Vittorio —• Me li ha prestati Mario, per prepa rare tutto. (Adriano li guarda con curiosità, poi li rende a Vittorio che li ripone in tasca. Adriano toma a sedere sulle stanghe del calesse. Vittorio ripone la sveglia dentro un fazzoletto e infila tutto nella tasca della giacca che fa un grosso gonfiore)... Non ci siamo ancora, non ho potuto ancora calcolare il minuto X. Adriano — Con un poco di pazienza riuscirà a precisarlo. Vittorio (avvicinandosi) — La difficoltà è una sola. Deve segnare mezzanotte e un quarto, perché l’ora è mezzanotte e un quarto... E’ stato proprio a mezza notte e un quarto e perciò quella è la sua ora... Dal gabinetto fuori sul terrazzo ho sentito benis simo... Toc!., il quarto dopo mezzanotte!... Bombe da quanto? Adriano (con pazienza, come trattasse un bambino) — Diecimila. V ittorio — Perfetto. L’aereo è un modello nuovo... Stukas, picchiata, Stalingrado... Adriano — Va bene, signor Vittorio. V ittorio (va a sedere sopra il fieno dietro il calesse sistemandosi i pantaloni con cura; poi prende fuori un brandello di giornale dalla tasca)... —- Ottanta nove, novanta, novantuno... (Inforca gli occhiali e si mette a leggere. Adriano comincia a passeggiare inquieto per il locale. Si ode il rumore di un camion e Adriano va a guardare fuori sulla porta di fondo, poi si riavvicina rasserenato quando il camion sì allontana. Intanto riprende il canto della lavandaia al fiume). Voce lavandaia — « O bella Majulin sta qui al mulin - e dolce Majulin dame un basin. - O biondo mulinaro sono putina - tengo ogni cossa a posto pur povarina. - Posa fra le mie braccia bruna mondina - e ti rigalerò la camisina - una camisa tutta seta e fiori - che racconsolerà tutti i dolori! ». (Durante il canto si affaccia da destra Parpajola). Parpajola (scendendo la scaletta e avvicinandosi, si rivolge ad Adriano) —• Mio marito non dovrebbe tardare molto, ma tornerà con la barca carica di canne. A scaricarle si fa presto, sono legate a fasci. Adriano — Se la barca è grande, è meglio lasciarle sopra. Parpajola —• Dipende dal carico che ha fatto. Adriano — In tutti i casi è meglio attendere che faccia un po’ scuro. Parpajola — « Buffalo Bill » mi ha detto che non portate armi. Questo è importante, nel caso che ci fermino. Adriano — Viene lei a traghettare? Parpajola — E’ meglio. Mio marito ha già dato all’occhio. Ma non dovrebbe capitare nulla, andia mo per i canali dove fra canne alte la barca passa appena. Il pericolo è al punto dove per forza entre remo in Po grande traversandolo verso l’altra riva. Le motovedette vanno per il Po grande cominciando al primo buio; ma non accendono i fari perché altri menti gli americani fanno il tirassegno con i can noni. Hanno degli animali di cannoni che arrivano fino qui, porca miseria! Adriano — Mario, quello che zoppica e sta con noi, faceva qui il partigiano l’anno scorso? Parpajola — Non ci si conosce tutti, proprio per sicurezza. Ricordo che lavorò da meccanico qualche mese e faceva all’amore con l’Irene. Quando se ne andò, dissero che erano mancate due gomme. Ma lei ne saprà più di me. Adriano —■ A sentir lui, lo hanno ferito i tedeschi. Parpajola (avvicinandosi di più e guardando con diffidenza verso Vittorio che seguita a leggere total mente astratto) — Senta, volevo chiedere una cosa. Adriano (che intuisce la diffidenza verso Vittorio) — Può parlare. Non ascolta mai, insegue le sue idee fisse. Parpajola — Ci si può fidare di questo e del biondino smilzo?... All’improvviso saltano fuori con dei discorsi, dei gesti che... non so. Adriano — Ho capito cosa vuole dire: da pazzi. E’ vero sono pazzi. Eravamo in manicomio insieme a Milano. Mombello, l’ha mai sentito nominare? Parpajola (stupita) — In manicomio?... Anche lei?... Adriano — Credevo che « Buffalo Bill » le avesse detto... Parpajola — « Buffalo Bill » parla poco e si fa vedere meno. Fa bene. Se lo beccano lo fucilano senza nemmeno chiedergli dove sta di casa. Adriano — Quando mi sono preparato la fuga, i miei compagni di stanza mi hanno scoperto. I pazzi, anche i più confusi, l’idea della libertà la inten dono sempre. O portarli con me, come pretende vano, o rinunciare... Parpajola — Non mi dica sfacciata, perché non me ne intendo... Anche lei, allora, voglio dire, era stato malato prima... IRENE FRA DUE RIVE Adriano —• Ha ragione di pensarlo. No, sono stato sempre sanissimo. Fu una finta. Parpajola — « Buffalo Bill » mi ha detto una sola cosa, che lei è un signore che sta dalla parte dei poveri, che la pensa come noi. Dice che suo padre a Torino ha una fabbrica con molti operai. Adriano —• Mio padre ha le idee diverse, ma da rebbe la testa per me. Fu lui l’anno scorso a farmi passare per pazzo, con la scusa dell’esaurimento che mi aveva procurato l’esonero dalle armi. Quando mi trovai nei pasticci per i manifestini ci era di mezzo il tribunale militare e cavarsela con la totale infermità mentale era una grossa fortuna. Parpajola — Ora capisco. Avevo subito sentito che lei parlava come noi, mentre gli altri due sgrana vano discorsi strani. Adriano — Fio dovuto fare la commedia per un anno, dicevo che ero un brigadiere dei carabinieri e gridavo gli « attenti » a tutti. Pensi che ogni giorno mi facevo con un foglio di giornale un cappello a raviola e minacciavo gli infermieri di portarli in casenna. Il professore si era accorto del gioco, io credo, ma era un brav’uomo e forse non se la sentiva di rimandarmi al tribunale. Parpajola — A portarsi via quei tre, ha avuto un fegato grande così. Adriano —■ Più che fegato, uno studio, deve dire, uno studio per evitare tutto quello che li avrebbe eccitati e scatenati in discorsi o in gesti che ci avrebbero scoperti. Da Milano fino al Po, attraverso le campagne, evitando le strade, tutto e tutti, è stato uno sforzo che non si può immaginare. E’ vero che avevo sempre, dall’uno all’altro, qualche compagno al quale appoggiarmi. Tuttavia non lo ri farei e, finché non saremo arrivati dall'altra parte, non ho nemmeno il coraggio di dormire. Parpajola — Perché non li ha mollati?... Tanto non le servono a niente. Adriano —• Lina questione di coscienza. Sono come bambini e sono buoni. Abbandonarli voleva dire consegnarli ai tedeschi che ai pazzi veri non cre dono e li trattano da impostori. Saverio, quello smilzo, ha dieci minuti al giorno che è diverso da noi; ma bastano quei dieci minuti per mettere in aria un paese, quando crede di essere un libro rile gato in cuoio rosso con i titoli incisi in oro. Parpajola —• Ah, è per questo che mi ha detto poco fa di sfogliarlo, venendo avanti a braccia aperte. Adriano — Il volume S di una enciclopedia che sarebbe un dizionario, cioè un libro molto grosso. Parpajola —• Non me ne intendo, non leggo mai; prendo qualche volta il giornale. Adriano —• A Robecco sull’Oglio, nella casa di un fattore che ci aveva dato da dormire, una notte si svegliò urlando perché sentiva che lo avevano stretto GIAN PAOLO CALLKGARI nel torchio per rifargli la legatura. Con delle grida che arrivavano in piazza, apri una finestra per but tarsi di sotto e si fermò una ronda. Soltanto perché il fattore era amico del maresciallo, non accadde nulla: ma dovemmo scappare subito, quattro fore stieri in quella casa, senza documenti, erano peggio di bombe sotto il letto. Parpajola — Mio marito era in piazza, questa mattina, e ha visto il bordello di quel vostro bestione con i saltimbanchi. Dice che la gente scappava come cadessero bombe. Per fortuna il bambino della pira mide non se fatto nulla: gli è venuta soltanto una paura che ha continuato a far pipì per un pezzo. Adriano —• E’ stato proprio il bambino sulla pira mide a scoppiargli la crisi. Lo chiamano anche a Mombello il Cristone, tanto è grosso e buono. Fa ceva il trapezista e durante uno spettacolo si lasciò scivolare dalle mani il suo bambino che aveva do dici anni. Vederlo, a terra con la spina dorsale spez zata gli guastò il cervello. Lo chiama sempre « Ven- turino!... Venturino! » ma sta calmo... Una vera di sgrazia oggi incontrare proprio saltimbanchi con un ragazzo. Parpajola — Se non scoppiava la buriana di sta mane, potevate restare qui senza disturbo. Non era vate ancora in cattiva vista alla gendarmeria. Si dice che gli americani arrivano presto e quando arri vano speriamo di avere tutti il fiato libero... Ma lei, mi scusi, non poteva nascondersi a Milano o a Torino dai suoi, senza impegolarsi con una squadra così disgraziata? Adriano — Sarebbe andata lei a mettere nei pa sticci la sua famiglia. E poi mi sembrava giusto fare qualcosa: non si può stare fermi a vedere il macello che stanno facendo. Parpajola — Ci ho rimesso due fratelli e un co gnato non si sa che terra tenga. Se dovessi essere sicura che il mio bambino cresce per fare un’altra guerra e ammazzare o farsi ammazzare, lo annego in Po finché è piccolo... (Entra in bicicletta dalla ■porta di fondo sul fiume una ragazza che porta ap pesa al manubrio una grossa sporta. E’ una mondina, Lisetta: porta un fazzoletto in testa con sopra un cappello di paglia tutto buttato indietro, un giub betto stinto che s’infila dietro un paio di rozzi panta loni maschili legati con una funicella alla cintura e al polpaccio. E’ scalza. Appena entrata, scende dalla bicicletta restandovi appoggiata con aria tra diffi denza e timidezza. Eia circa vent’anni ed è piacente). Lisetta — Buongiorno! Parpajola —■ Ah, Lisetta, me ne ero già scordata. Lisetta — Se disturbo, passo più tardi. Parpajola (andandole incontro) — Vieni avanti, questa è gente quasi di casa. Lisetta (prende fuori un sacchetto dalla sporta, mentre Vittorio rialza il capo, la guarda e, ripiegato il giornale e ripostolo nella tasca, si alza per avvici narsi. Lisetta porge il sacchetto) —■ Ecco! Parpajola —• L’hai pesato? Lisetta —'T re chili esatti. E’ riso dell’anno pas sato, ma mica di seconda... Parpajola (prende il sacchetto, lo soppesa e lo posa sugli scalini, andando poi verso le botti in angolo) — Anche la Marianna di Paluzza e Figone me lo hanno chiesto, ma l’ho tenuto per voi, come si era d’accordo. (Prende da un nascondiglio una botti glietta d'olio e la porge) Ecco! Lisetta — Mia madre credeva che ce ne deste di più. Dice: si fa baratto, tre di riso contro tre quarti d’olio... V ittorio (guardando con fissità la mondina) — Un quarto. Mezzanotte e un quarto... Se stanotte c’è nebbia, faremo il volo strumentale. Lisetta (perplessa, prendendo la bottiglia) — Cosa vuole quest’uomo? Adriano (alzandosi svelto e intervenendo) — Ci mettiamo d’accordo noi due, signor Vittorio. Que sta ragazza non è pratica. Vittorio (con insolita vivacità) — Nemmeno la Mariolina era pratica, incartava le caramelle. Non le hanno chiesto se era pratica e giù... gliele hanno buttate addosso... Ho ragione o no?... (Senza atten dere risposta, lentamente va verso la porta di fondo ed esce fermandosi subito fuori, immobile a guar dare il fiume. La Lisetta gli guarda dietro, mentre la Parpajola controlla la qualità del riso nel sac chetto). Lisetta — Cosa voleva dire?... Che ha? Adriano — Non ci badi, non è a posto con la testa, ma non fa del male. In un bombardamento gli hanno ucciso a Milano la moglie e due figli. Si è salvato lui solo perché in quel momento era al gabinetto e solamente il muro, con il terrazzo e il gabinetto, è rimasto in piedi. Lisetta —• Poveretto! Parpajola — L’ha scritto sulla faccia che è il più disgraziato. E’ un vecchietto proprio come si deve. Adriano — Lo hanno trovato al mattino, lui solo vivo, proprio sul gabinetto, in camicia, e il vuoto e le macerie davanti ai suoi piedi con tutta la casa spro fondata. Rideva e contava da ottanta a cento: era già pazzo. Lisetta — La moglie e due figli, che disgrazia! E’ meglio mangiare magro e stare piantati nella fanga della risaia come noi, ma salvare la famiglia, vi sembra? Parpajola — Un vecchietto così pulito!... Ha la derma del professore. Adriano — Lavorava da specializzato in una mec- IRENE FRA DUE RIVE canica di precisione. (Lisetta colloca la bottiglia del l’olio nella sporta). Parpajola — Ti gira la testa?... Se ti scoprono l’olio andiamo tutti in fumo! Lisetta — Dove posso nasconderla?... Ah, ecco, guardate qui!... (Si infila la bottiglia dentro la cin tura dei pantaloni gonfiandosi il ventre). Parpajola —• E’ il sistema delle donne di una volta quando passavano il dazio a Rovigo. Sembra vano sempre incinte. Lisetta — Per me è presto. Ci vuole almeno il fidanzato. (Rimonta in bicicletta e conclude uscendo) Arrivederci a tutti!... Adriano — Arrivederci! Parpajola — Il vecchio, quando siete dalla parte degli americani, dovrete consegnarlo. Non, ne dice e non ne fa una a segno. Adriano — Non si dovrebbe dire, ma era meglio che morisse anche lui. (Si ode un fischio conven zionale dal fiume, ma vicino). Parpajola (fa attenzione e il fischio si ripete) —■ Aspetti qui!... (Esce svelta e va sulla riva del fiume, dove ancora, in disparte, è Vittorio. Verso il fiume ella risponde con altro fischio, quindi rientra) Mio marito... Adriano —• E’ già pronto? Parpajola —• Non ancora. Risale con la barca verso il paese per controllare se le motovedette si preparano per uscire... Dice che questa sera, più a mare, sul Po grande c’è movimento e che conviene attendere. Adriano — Come vi siete detti tutto questo? Parpajola — Ci capiamo a fischi, come gli uc celli. E’ un’abitudine dei fiumaroli, e ora torna comoda. (Con il solito stridio del saliscendi, si apre la porticina di destra ed entra, scandendo leggera gli scalini, l’irene. E’ una bella ragazza dall’aria provocante e libera; indossa una grossolana e ade rente veste da lavoro scolorita dal sole, tenuta alla cintura da uno spago e che non manca di darle una certa rustica grazia. Porta le maniche rimboccate al gomito, una fettuccia a legarle indietro i capelli ed è scalza. Si rivolge senza un saluto ad Adriano). Irene — La Lisetta ti ha visto? Parpajola — Perché sei passata dalla bottega? Irene — Perché la Lisetta non capisse che venivo da loro. Vi ha visti voi due? Adriano — E’ stata qui a cambiare riso con olio. Irene — Me lo immaginavo. Siamo sistemati. Parpajola — E’ da ieri che doveva venire per l’olio. Irene — Quella gatta morta non ha bisogno del vostro olio, ha il tedesco che le passa perfino la cioccolata e gli aghi da macchina. Fa le viste di andare elemosinando con il fiato mozzo, ma è tutta una mossa per spiare. Sulla strada mi ha fatto un certo risolino. « Vai a fare la visita ai matti? », mi ha chiesto. « Io?... Li ho già levati dai piedi », dico, «vado a comprare un pugno di sale grosso». Ma quella non ci crede. Adriano — Non è la fine del mondo, fra poco ce ne andiamo al largo. Parpajola — Ci sono abbastanza preoccupazioni perché tu ti presenti sempre a portare il batticuore. Irene — Voi siete più dura del pane che vendete, Dio ve lo perdoni! Non volete credere che la Lisetta è uno scorpione. Lo sanno anche i calabroni che va a letto con quel tedesco biondo dagli occhiali che ingrassa le motociclette della Feldgendarmerie, perché tutti l’hanno vista nelle scoline e nei pagliai a fare all’amore con lui. Fra dieci minuti gli dirà che siete qui. E’ spia e crumira. (Alla Parpajola) Lo sapete anche voi come si comportò alla monda lo scorso anno, quando stavamo con la squadra della Battilocchi al Bondaino sotto Copparo. Per lo sciopero lavorò lei sola, insieme a una decina di bastarde locali, per avere il premio. Parpajola — De] Bondaino a te conviene star zitta. Ci sono trenta chilometri di mezzo o non so quanto, ma anche i sassi del nostro paese parlano di quanto hai combinato laggiù con il figlio dei padroni. Irene Io e Gianni ci siamo innamorati davvero e lui s era presa una scuffia che piangeva come un vitello. Ma anch io gli volevo bene, proprio bene; se non scoppiava il bordello dello sciopero chissà se non ci fossimo sposati. Quando una ragazza co me me non ha nessuno al mondo e le manca anche l’acqua fresca, cosa si trova di suo se non l’amore? Parpajola Ma tu in fatto di amore mi vai diventando una capitalista. Adriano — Basta, non abbiamo tempo da perdere! Irene (sempre polemica) — E sapete cos’è tutto questo?... Che anche la Lisetta s’era innamorata di Gianni. Parpajola — Chiudila con la Lisetta e con le chiacchiere, che la Lisetta deve buscarsi il pane a giornata come tutte. Irene stiti in casa? Adriano piazza? Irene (eccitata) No, tu devi lasciarmi finire con la Parpajola perché io i bocconi interi non li mando giù. Parpajola — E per finire ti dico allora che in bottega con i soldi in mano entri quando ti pare, ma un passo per la mia casa non lo fai più. Sot tane sporche per casa non ne voglio! Irene — La mia sottana è più pulita di quella della Lisetta e di tante altre. Almeno io non corro dietro all’interesse, e non faccio la santa, io... E a me allora portano i capponi già arro Basta le discussioni. Cos’hai saputo in GIAN PAOLO CALLEGASI Adriano (scuotendola per un braccio) — Basta, razza d’una pettegola!... Allora? Irene (cambiando tono) —• Gli hanno dato un sac co di legnate, al Cristone. Un poco di bastonate e un poco di mastelli d’acqua gelata. E ha detto tutto. Adriano — E che ha detto? Irene — Che era con voi, chi siete voi, da dove venite e che volete passare con gli americani. Parpajola — Se non è con tutta la testa a casa, come poteva essere tanto chiaro? Guarda di non lavorare di fantasia come al solito per mettere paura e zizzania. Irene — E che ci provo gusto, io? Se marcia male, prendono su anche me e faccio, ben che vada, la fine della Florestina che dopo un diluvio di cin ghiate dovette subirne quattordici a cavallo del biliardo. Adriano — Qualcuno ti ha detto tutto... Irene — La Sbuldrona. Fa le pulizie in caserma. Ha sentito gli urli. Poi ha sentito dire: «Bisogna cercare il capo, quello dalla giacca verde». Parpajola — E la Sbuldrona capisce il tedesco se non capisce l’italiano? Irene — Fate il processo a me? Ma vi prenda un accidente, con tutta la stima per gli accidenti sec chi! Siamo qui per aiutarci fra noi, mica per fre garci!... La Sbuldrona il discorso lo ha sentito da quel brigatista toscano che chiamano il « Morta- spicchi». Poi non ho insistito, era meglio che non mi facessi vedere, perché con voi c’è di mezzo Ma rio, e con Mario vado subito di mezzo io. Mi sono buttata per i campi nemmeno lungo le cappezzagne ma attraverso le siepi ed ho preso più spine che se fossi un mazzo di rose. (Si guarda la pianta di un piede e se la palpa come a cercarvi una spina in fissa). Adriano — Appena tornano gli altri due, è meglio andare. Temo che fino a buio non si possa resistere. Parpajola — Manca poco a notte. E con la luce è come buttarsi nelle loro braccia. Irene — Fate attenzione che hanno messo una nuova ronda sull’argine delle Casazze. Parpajola — Non muovetevi da qui. I vostri ami ci, appena tornano, non facciano confusione. Cerco di spicciarvi prima... (La Parpajola risale in fretta la scaletta di destra ed esce per la porticina). Irene (con aria infantile) — Ce l’hai sempre con me? Adriano — Non ce l’ho, ma qualche volta la gio stra che fai è pericolosa. Irene — Capisco. Tu sei una persona seria e i tipi come me ti danno ai nervi. Adriano — Niente nervi, ma preoccupazioni. La famiglia a Torino, e non so nulla... E questi che porto dietro non credi siano pensieri grossi? Irene (sovvenendosi, improvvisamente si toglie una lettera dal seno e gliela porge) — M i dimenticavo. Questa è per te! Adriano (emozionato, la prende e l’apre in fretta) — Ti sei rischiata di andare alla posta per me?... Ora?... Irene — Non è una cosa speciale, mi pare. La Concetta delle poste è stata mia compagna di scuo la. Dice che la lettera è arrivata da quattro giorni. Adriano (alzando il capo dalla lettura) — Dice che il bambino sta bene. Già sei chili, lo immagini?... E’ nato mentre ero chiuso a Mombello e non l’ho mai visto... (Stringe Irene con mezzo abbraccio di gratitudine). Ìrene — Mi fa piacere vederti ridere. M i dai sem pre soggezione con quella faccia. Adriano — Se tutto finisce bene, ti inviterò un giorno a vedere il mio bambino a Torino'. Mia mo glie sarà contenta. Ìrene (ironica) — Le mogli di qui metterebbero filo spinato attorno a casa per non farmi avvici nare. Mica è poi vero che mi piacciano tutti gli uomini. Quando una vive sola e lavora a giornata si fa un cattivo nome. Se ci piangi sopra, ti pe stano come uva da mosto e sei puttana. Se te ne freghi ti rispettano in faccia per politica e puttana resti. Io me ne frego, no? (Entrano con i due zaini Mario e Saverio). Saverio (posando il bagaglio) — Credevo che non saremmo arrivati. Per due volte abbiamo dovuto distenderci nel fosso lungo la strada. Ci stanno già cercando. Ne abbiamo visti passare tre in sidecar con il mitra. Adriano — Venivano da questa parte? Irene — Siete sicuri che non v’hanno visti? Mario — Hanno voltato a Ca’ Filotto, ma non ci hanno visti. Saverio — Il vecchio che impaglia le sedie ci ha indicato dove passare. Dice che gli urli del Cri stone si udivano fino al lavatoio. Adriano — Saverio, riporta dentro il signor Vitto rio, è meglio che non stia in vista. (Saverio esce per obbedire) Dobbiamo stare calmi e ad orec chie ritte. E’ questione di minuti, poi andiamo. (Rientra Saverio con Vittorio) Signor Vittorio, è meglio che lei riposi un poco perché stanotte si viaggia. Vittorio — Si vola. Adriano — Esatto. (Lo invita e sospinge garbata- mente a distendersi sul fieno) Il riposo le farà bene. Vittorio — A mezzanotte e dieci mi svegliate. Cinque minuti ci vogliono. Adriano — Me ne occupo io. Si distenda, (Vittorio ubbidisce docile. Adriano solleva uno zaino e poi fa per prendere l’altro che è ai piedi di Mario). Mario — Questo lo porto io. Adriano — Quanto sei geloso della tua roba. Mario —■ Credo di fare un piacere a spallare un po’ di bagaglio. (Adriano esce per la scaletta e la ;porticina di destra. Saverio siede sull’innafflatore da solfato. Si ode il pianto del bambino della Parpa- jola). Saverio — Mannaja u’ sticchiu!... (Mostra un bot tone) M ’è saltato l’ultimo bottone. Come reggo i pantaloni? Irene (porgendole un ago che si stacca dal petto) — Sarò disordinata, ma un ago e filo al petto li porto sempre... Aspetta che ti attacco. Saverio — Da’ a me. Faccio da solo, mi piace, co me avere un’arma in mano. A Mombello certa roba non si tocca. (Comincia a cucirsi). Mario (a Irene) — Li hai presi? Irene — Che cosa? Mario —- Non fare la cretina, ora!... Gli arnesi che ti ho detto dal fabbro. Irene — Mica è facile sfilarli via così, sotto i suoi occhi. Non ci sei riuscito te, restandoci una mezza mattina con il Cristone, finché quello non ti è scap pato dietro i saltimbanchi. Mario —■ Per questo non sono riuscito. Altrimenti non mandavo te. Irene — Non intendo crearmi altre disgrazie per te. Anche questa, dei tuoi amici, la devo a te. Bravi ragazzi, ma una rogna che se mi prendono mi levano le sette pelli. La serva a un disonesto come te non la faccio più. Mario (l’afferra con violenza storcendole le braccia fino a farla urlare) — Disonesto a chi, porca put tana?... Disonesto a chi? Saverio (balza in piedi, afferra Mario) — Lasciala stare!... Giù le mani!... Mario (rivoltandosi) — Negli affari fra me e lei non infilar le dita che te le schiacci, faccia di be duino!... (Rientra da destra Adriano). Adriano — Branco di incoscienti!... Litigare ora! Quando saremo in salvo, vi butto l’uno contro l’al tro come due caproni. Saverio — Voleva picchiare l’Irene. Irene — Che picchiare?... Senti questo!... Fra due che fanno all’amore si può anche litigare. Saverio — Voleva che prendesse gli arnesi dal fabbro. Mario — Che arnesi?... Sturati le orecchie quando parlo. Irene —• Che vuoi parlare tu? (A Saverio) E’ una questione che ho D col fabbro, da prima. E la sciami perdere altrimenti ti rifaccio la chierica con le unghie. Adriano (interrompendo) — Tu Mario vieni con me. Andiamo per la barca. Mario — Ma io... (Sta vicino allo zaino). IRENE FRA DUE RIVE Adriano —- Forza!... Il sacco lo prendi dopo. (Mario si muove svogliato). Irene (ironica) — Il leone!... (Mario si trattiene dal dirle una parolaccia ed esce dal fondo con Adriano. Saverio, muto, torna a sedere sul calesse, nel sedile. Irene rimane in piedi davanti a lui e lo fissa) T i sei arrabbiato? Rispondimi. Ti sei arrab biato? Saverio — Mi dispiace quando mi tratti male. E Io fai quando ho ragione. Irene — Sei un bravo ragazzo, mi sei simpatico... Saverio —• E allora perché mi salti agli occhi come una gatta arrabbiata? Irene — Lo devi capire. Quando tutti ve la pren dete con Mario, devo pur difenderlo. Saverio —• Con Adriano non alzi mai la voce ed è sempre lui ad iniziare le discussioni con Mario. Irene (con dolcezza, si accoccola in terra davanti a lui) — Adriano mi lascia imbambolata quando fa un gesto o parla. Anche Mario, che è ben aspro, con Adriano non fiata. Anche a brandelli, senti che è un signore, ma un signore di dentro nel sen timento; e che è nato per comandare... Scusami, sai. Tu invece sei più come noi. Soltanto con quelli che un po’ si amano e si tengono in confidenza si può alzare la voce. Saverio — Non parlarmi di amore. Anche se lo tratti a volte a sputi in faccia, ti traspare dalle dita dei piedi ai capelli che sei innamorata di Mario. Irene •— Non è vero. Voi siciliani siete duri. E’ la terza volta che ti dico di no. Saverio — E ci stai insieme, e vi baciate di fronte ai cristiani. Poi dici che malafemmina non sei, ma soltanto debole e troppo sola. Crederti!... Irene — Io non so spiegare le cose. Ma quando una donna si trova per sua disgrazia ad avere pa recchi uomini, è proprio come non abbia nessuno. Vedi?... Lui fu qui l’anno passato e me la battevo male. Sciopero contro sciopero, non si lavorava e non si faceva una lira. Ed io, crumira, mai: piut tosto mi annego nel Po. Quando poi ho dovuto lasciare la stanza. che avevo dietro la fornace, che dovevo fare? Ci dormiresti tu sugli argini alla neb bia? Ed io, piantatelo in testa, non faccio la vita e con un uomo vado se mi fa simpatia e nemmeno un fazzoletto mi lascio regalare. Saverio — E Mario che c’entra? Irene — 1 i ho detto che non so raccontare le cose. Lui c’entra. Lui allora... No, ecco... Io allora trovai da dormire dalla vecchia Battilocchi in cambio dei servizi; ma per mangiare dovevo arrangiarmi. Mica si può mangiare l’intonaco dei muri e l’erba dei fossi come i conigli. Allora Mario, che era qui a lavorare, mi ha aiutato. Lavorava qui... Saverio — Se lavorava come ora, che voleva farti rubare dal fabbro... GIAN PAOLO CALLEGAR! Irene (insorgendo) — Non rubava, lavorava da meccanico. Ed è bravo anche. Saverio — E perché ora ti ha mandato a cercare certi arnesi dal fabbro? Irene — Non avete nemmeno un bastone in quat tro che siete. Qualcosa da difesa vi serve. Lui è più pratico di voi, ha già combattuto alla macchia e proprio voi l’avete raccolto ferito. Saverio —• Dalle tue parole s’intende che sei in namorata. Irene — Essere innamorata è un’altra cosa. Delle caldane si prendono, lo so e me lo dicono ed è per questo che mi son fatta un nome tristo. Ma innamorarmi non mi riesce facile. E innamorata davvero mi sono ritrovata una sola volta, l’anno scorso, al Bondaino, sotto Copparo, dove andai per la monda. Era il figlio dei padroni, si chiamava Gianni, un ragazzo con tutti i sentimenti. Con lui ero diventata una pecora, tremavo quando parlava. I suoi hanno bajocchi e bestie e si danno arie. Quando se ne sono accorti, mi alerebbero scorticata viva. Meglio non pensarci. Per disperazione mi sono rimessa con Mario quando siete arrivati. Sen za un uomo che mi dica una buona parola e che mi prenda a braccio, mi sento freddo come fossi nuda... Poi l’uomo mi pianta perché vuole solo di vertirsi; e io ancora mi sento fredda e nuda e cerco di scaldarmi e mi illudo... L’amore non è una cosa facile, fila liscio e comodo per le donne che hanno i soldi. E sono proprio i soldi a tenere oneste e a faccia pulita certe donne. Saverio — Voi almeno l’amore siete liberi di pren derlo e di lasciarlo; noi no. Irene — Voi chi? Saverio — Noi giù, in Italia meridionale. In Si cilia, al paese mio, l’amore tiene tutte le regole come la grammatica e si deve andare avanti, capi tolo per capitolo, come dispone la regola dei geni tori, quella dei compari, perfino quella dei princi pali galantuomini del paese che moderano gli inte ressi di tutto il vicinato. Irene — Che strano sei!... In tre settimane è la prima volta che ti sento parlare della tua casa, del tuo paese... Però non capisco tutto, non ho fatto le scuole e tu parli difficile. Vuoi dire che hai avuto una delusione d’amore? Saverio — Il vescovo di Noto fu, a mandarmi a Treviglio. Sai, Treviglio? Lombardia. Sei ore di lezione al giorno, quattro di studio libero, poi i fioretti al santo del giorno, le preghiere di mattu tino e di notturna. LTn freddo, mamma bella... A Sarina scrivevo le lettere e le nascondevo qui... (In dica la tasca) fra le pagine del volume. Quando monsignor rettore mi trovò tutte le lettere, il fini mondo fu; disse che l’angelo custode mi aveva la sciato, che il demonio s’era insediato fra le mie costole e che la mia veste talare era scomunicata. E sai che disse? Che le unghie del demonio mi avevano sfasciato, che tutte le mie pagine si sareb bero disseminate. Per questo mi mandarono a Mom- bello, per rilegarmi... (Irene si disorienta) Hai mai provato l’incisione a fuoco con la porporina in fogli? Irene (incerta) — Io, no... Ma so che alla Flore- stina, quando la arrestarono per una spiata, fecero due piaghe così sul seno nudo perché dicesse i nomi. Saverio — M i fai conoscere questa ragazza? Lei mi capirà, se le parlo. Irene — Fu l’anno scorso. Chissà dov’è finita. For se in Germania, non so... Sarina non te la fecero sposare perché eri prete? Saverio — Non per questo, per non dividere i feudi fra me e mio fratello. Lui solo ha diritto di sposare, perché tutto resti al suo primo figlio, anche il mio possesso... Irene — Bella carognata si usa al tuo paese. Pro^ prio come ai tempi di una volta, quando davano i cristiani da mangiare ai leoni. Dico bene? Saverio — Sarina incartava arance al magazzino di don Micuzzo Lapicerella, in fronte di casa mia. Si era accorta che la guardavo, tornando1 per le va canze, ed era rossa, felice, senza meraviglia della mia veste nera. Irene — Se eravate tutti e due innamorati, potevi spretarti a scappare con lei. Saverio — Potevo sì, ero soltanto seminarista. E il rispetto per la mia famiglia, per il paese?... Co manda mio fratello. Lui va al circolo, succhia gra nite con bignè e ogni tanto va a Catania dove ci sono belle donne forestiere di molto divertimento. Invece Agatina e Concertina, le mie sorelle, non escono mai di casa e cominciarono a ricamarmi cotte da messa quando a indossarle mi arrivavano sotto i piedi. Irene —..Eri stupido te, ma anche quella ragazza. Quando la baciavi avresti dovuto trovare un po’ di fuoco nel sangue per mandare tutto all’aria. Saverio — Non l’ho mai baciata, nemmeno toc cata. Una volta sola ci parlammo. Ma ebbi la voglia di baciarla e di nascosto mi misi i pantaloni di mio fratello per cercarla di sera. Fu allora che mi scoprirono e mi rimandarono subito al seminario, senza finir le vacanze. Sarina si ammalò di langui dezza, proprio per me; cominciò a mandarmi lettere dicendo che il paese la disonorava, che suo padre l’aveva fatta benedire da un cappuccino contro il sacrilegio, dopo averla battuta con la frusta dei muli. Il reverendo Corallo trovò le lettere, le mostrò al vescovo e allora sua eccellenza, d’accordo con mio fratello, mi mandò al seminario di Treviglio. A Tre- viglio lei non scriveva, ma scrivevo io a lei e an cora scoprirono tutto. Mio fratello è come l’aria, si trova dappertutto e non mi lascia. Irene — Qui i fratelli sono molto diversi. Non ti dico il mio, sa appena come mi chiamo. Quando emigrò in Francia, chiuse la casa, la rese al pa drone e non mi chiese nemmeno dove sarei andata a dormire. Sua moglie, quando sposò, non la co nobbi nemmeno perché diceva che due cognate, quando si frequentano, seminano la zizzania. So appena che è bionda e cuce in bianco. (Passa fuori, dove è imbrunito, una luce veloce sul fiume. Ireine si volta, la indica a Saverio mentre scompare) La prima motovedetta. Più avanti spegne le luci. Ora mai potrete provare a passare. Saverio — Sono gli ultimi minuti che sto con te. Mi dispiace di lasciarti. Irene — Se tutto va liscio, fra dieci giorni sarai a casa. Credo che la guerra avrà cambiato molte cose anche al tuo paese e riuscirai a sposare Sarina. Saverio — Non voglio più Sarina. L’ho vista be nissimo una notte, vestita soltanto con la carta ve lina che fascia le arance, entrare nel letto di padre Corallo... Malafemmina, disonesta!... Dovevo imma ginarlo che padre Corallo mi aveva trasferito per gelosia... Ho visto con i miei occhi. Anche sant’An tonio di Padova, un giorno, rimase in Padova e si trovò da suo padre in Lisbona. Irene —• Troverai una ragazza migliore. Sei tanto giovane... Non hai mai parlato tanto con me come questa sera e mi fa piacere. Saverio — Non avevo coraggio... Ora che vado via, che non ci vedremo mai più, te lo dico. Sono inna morato di te, Irene! Irene (con semplicità) — Non merito nulla, io, ho lasciato fili della mia gonna attaccati a tanti pan taloni... Ma ti ricorderò, perché sei istruito e sei anche gentile. Mi parli come se fossi una signora tutta in ordine. Saverio — Al mio paese dicono che tutte le set tentrionali sono malefemmine. Però, quando ne vedono una, la studiano e la imitano e il sogno degli scapoli galantuomini è di portarne una al braccio come sia una principessa... Irene (ride) — Se mi presento io, altro che prin cipessa. Saverio — Eppure ti porterei così scalza come sei, senza vergogna. Ti lascerei prima di entrare in pae se nella masseria di un mio compare perché, avanti di mostrarti, dovrei fare un certo discorso... Irene — Tuo fratello o il parroco? Saverio — Affatto!... Gente che mi può aiutare... La mafia! Irene — Non me ne intendo. Ma ora non par liamo più di tutto questo. Tu vai e io resto qui. IRENE FRA DUE RIVE Speriamo che presto ci sia la pace, perché vorrei andare per la monda in Piemonte. Si guadagna di più e, sotto tetti nuovi, può darsi che faccia mi gliore fortuna. Che ne dici? Saverio — Non ti importa nulla di me? Rispon dimi. Irene (sincera) — Forse un poco, non lo so. Ti ho detto che soltanto di Gianni del Bondaino mi innamorai davvero, di altri no. Forse mi attacco troppo spesso a degli uomini, ma per poco. Saverio — E’ la prima volta che dico così, proprio con le parole e in viso, ad una donna che la amo. Mi sento tutto caldo addosso, forse mi fa bene, per ché il pensare alle donne sempre da soli e da lon tano confonde la testa. Irene — T i farà bene, Saverio; e sarai ancora più contento quando troverai una donna che ti accon tenta e che è adatta a te. Noi restiamo amici, ma non devi pensarci per amore... Io ora devo1 preoccu parmi di mangiare, di coprirmi, di vivere; proprio niente altro, per ora, come le galline o le pecore. Tutti abbiamo da pensare soltanto a questo, spe cialmente a vivere, perché siamo in mezzo a una tenaglia e se non stiamo attenti rimaniamo schiac ciati. Possono ammazzarci tutti da un momento' al l’altro, possono portarci via come bestie da macello. Così non riesco a pensare a nulla, a nessuno... (Sa verio china la testa senza rispondere. Irene gli si avvicina di più e gli posa le mani sulle ginocchia con tenerezza) T i ho fatto dispiacere? Sto bene con te. Se tornerai da queste parti sarò contenta... (Si apre la porticina a destra, entrano in fretta Adriano, Mario e la Parpajola). Adriano — Svelti!... Andiamo subito! Dobbiamo passare fra la prima e la seconda motovedetta. (Sa verio e Irene si alzano). Parpajola — Senza un fiato che si senta, per ca rità. Mi rovinate! Adriano (scuote Vittorio che si leva a sedere) — Signor Vittorio, partiamo... (Vittorio si alza, segue Adriano come un automa, mentre Mario solleva il suo zaino) Arrivederci, Irene! Grazie!... Ci vedremo, io spero... Irene (commossa saluta con la mano; poi guarda Mario, al quale si rivolge) — Mario... ti ho messo del salame nel sacco. Mario — Se va liscia, a Bologna il mio indirizzo è: Franco Bonini, meccanico, via del Borgo, 12. Va bene? (Esce. Saverio è ancora immobile; la Par pajola si ferma). Parpajola (a Saverio) — Andiamo, non c’è tempo da perdere! Irene, resta qui finché non torna mio marito. Se qualcuno mi cerca parla con giudizio. Sono andata per il vino alla Casazza... (Esce). Saverio (prende fuori una penna) — Ho salvato GIAN PAOLO CALLEGAR! solo questo, una stilografica regalatami dal com pare. Tienila! (Gliela dà). Irene (confusa) — Non scrivo io. Saverio — La tieni per ricordo. E’ oro a diciotto, costerà trecento lire... Quando hai bisogno la vendi. Arrivederci, Irene! (Saverio prende su da un an golo la sua vecchia giacca rotta e si muove). Irene (combattuta, immobile) — Saverio... Save rio, vengo anch’io con voi! (Saverio le mette sulle spalle la sua giacca ed escono). A T T O S E C O R 1)0 Siamo a pianterreno nella grande antica cucina dei ricchi contadini proprietari del fondo Bondaino, sulla riva ferrarese del Po: tipico ambiente di agri coltori agiati, ma avari e rustici. Sul fondo, al centro, è chiusa la grossa porta scura che dà uscita sull’aia del podere; alla sinistra della porta si apre una piccola finestra che ha i vetri chiusi ed evidentemente bagnati di pioggia anche se al di fuori una delle due persiane è accostata. Sulla destra della porta è contro il muro una grande credenza che ha in vista piatti, bicchieri, stoviglie; mentre accanto, verso l’angolo, stanno a terra un paio di sacchi rigonfi, probabilmente di sementi. Contro la stessa parete, oltre i due sacchi, sono al cuni di quei piccoli arnesi rustici che non di rado i contadini tengono in casa, come zappe, falci, tri denti; e sopra di questi sta appeso un tipico grande calendario agricolo — nella valle padana lo chia mano il « Lunario di sant’Antonio del maiale » — che porta illustrazioni e consigli didascalici sulla lavorazione dei campi. A sinistra, al centro della parete, sta un grande focolare all’antica con l’aròla molto bassa e molto larga, sormontata da una cappa monumentale e tanto alta che ci si può sedere sotto. Il focolare è guarnito da grandi alari con le teste figurate di ottone e mostra, sopra un fuoco grande ma lan guente, il solito paiolo affumicato che pende dalla catena fissata sopra la cappa. Sull’aròla del focolare, dalla parete verso fondo, è una bassa e rozza panca sulla quale ci si può sedere molto accosto alle fiam me per riscaldarsi. Sopra la cappa del focolare, a mensola sporgente, sono appesì recipienti di rame lucido e « stellette » e « stampini », pure dì rame, che una volta le massaie contadine usavano per cu cinare pasticcini e budini e che ancora mantengono per dare bellezza e induce di benessere nelle loro cucine. Sul ripiano della mensola sono alcune indi stinte immagini sacre e qualche più evidente e buffo ritratto di defunto familiare, con i fiorì di carta in un bicchiere e un lumino acceso sopra un piat tino, posti davanti quale onoranza. Fra il focolare - e il fondo sta una grande cassapanca scura che contiene il corredo di cucina; sulla cassapanca sono in vista immancabili cianfrusaglie e il cesto del cucito. Quasi in angolo, dopo la cassapanca, è in fissa al muro a media altezza la grossa « gramola » per lavorare la pasta del pane. Fra il focolare e il proscenio si apre un uscio a vetri che conduce ad altra stanza e che è guarnito da mezza tendina chiara con pizzi grossolani. Sul lato destro scende verso il proscenio una sca letta di legno il cui ballatoio, a mezza altezza, dà accesso alle stanze superiori; naturalmente anche il ballatoio è ingombro di qualche cesto e di una dami giana. Sotto la scala si vedono più verso il fondo un fornello a carbone con pentole e tegami al fuoco; e più verso il proscenio un rozzo lavandino accanto al quale sono due secchi. Al centro, circondata da sedie impagliate, è una grande tavola apparecchiata per quattro con stovi glie, sotto una semplice lampadina sormontata da un piatto bianco e appesa alquanto bassa. Stesa in terra, per il momento, è, fra la porta e la tavola, una bicicletta. Matilde Baldoni, la padrona, è in piedi accanto al fornello dove ha sospeso di rimestare nelle pentole, poiché ascolta con visibile ansia i discorsi di « Bru- chin». Matilde è una donna attorno ai cinquanta anni, asciutta, forte, dall’aria dura e imperiosa; veste di scuro, ha le calze nere, gli zoccoli di legno, i capelli raccolti sotto il fazzoletto nero annodato siti la nuca, un grembiale da cucina alla cintola. In vece Asmara detta « Bruchin » — piccola brocca di siepe — è una graziosa e selvatica ragazza sui venti anni, la servetta di casa; ha un cappottino scuro sopra una veste chiara e gli stivaloni di gomma fino al ginocchio. Tiene in mano un grosso ombrello bagnato. E’ sera, l’ora della cena; la luce elettrica è accesa. Matilde — Ti sono sembrati spaventati?... Li hanno fermati o si sono fermati? Bruchin — Macché spaventati! Il padrone, par lando con l’ufficiale, rideva anche. M i ha comperato un cartoccio di lupini, è tornato indietro a pren dermi un pizzico di sale perché erano insipidi... Sono andati insieme, lui e l’ufficiale, verso l’osteria di Cazzola. Matilde —■ E Gianni? Bruchin —• L’ho visto un lampo. Vostro marito lo ha spedito dove stavano le bestie. Dice che era meglio starci vicino, non si sa mai... Matilde — Allora le bestie non le hai viste. Bruchin —• Le bestie no, le avevano portate nel cortile delle scuole. C’era il contadino della Palla- biscia che cercava un vitello. Dice : « Il mio vitello, mi gioco il collo, l’hanno mangiato... ma le vostre manze, che bellezza, neanche nelle stalle dei mar chesi Campeggi si trovano così»... dice... (Bruchili, parlando, apre l’ombrello e lo posa a terra accanto al fuoco per asciugarlo). Matilde — Proprio le parole precise che ti ha detto lui, come sono?... Da te non si capisce un’accidente, mi lasci sempre nell’angustia. Bruchin (levandosi il cappottino che appende ad un chiodo accanto alla porta di fondo) — Ve l’ho detto bene... Dice: « Di’ a mia moglie che stia tran quilla e che mangi nella sua santa pace perché per questa notte noi non torniamo a casa»... Matilde (impaziente) — E poi?... Ti devo tirare le parole con le tenaglie? Bruchin (pettinandosi davanti ad uno specchietto infisso al muro di sinistra) — «...noi stiamo qui, come sentinelle, finché non ce le ridanno. L’ufficiale me lo ha promesso, ma bisogna andarci attorno con garbo... Si tratterà come sempre di bajocchi, boia d’un mondo...». Sapete come parla lui... Poi mi ha stretto l’occhio. (Si siede sull’aròla del focolare, co mincia a sfilarsi gli stivaloni di gomma, poi le calze). Matilde (rimescolando nuovamente dentro un te game sui fornelli) — Gli venga un cancro a quei mangiamale! Nemmeno la Pasqua tutti insieme, con i piedi sotto la tavola, ci fanno fare. Non si può rimanere tranquilli mezzo minuto che, giù, ti ar riva la botta... Due manze di un anno e mezzo sono almeno trentamila lire... Una bella nespola! Bruchin (mentre a piedi nudi va cercando gli zoc coli dietro i socchi) — Non c’è un cane in giro per il paese; si vede soltanto qualche vecchio bacucco. Dice che anche i figli della Pirulèra, per non farsi arrestare, sono scappati nelle valli... (Si infila gli zoccoli di legno). Matilde — T i ricordi se Gianni stamattina si è messo in tasca la carta che lui è invalido? Bruchin (va ad attizzare il fuoco) — L’ho visto io che la mostrava al contadino della Pallabiscia, di ceva che lui è di quarta. Poi è arrivato un tedesco, diceva « gut gut » come dice sempre Manstauffen quando viene a bere. Matilde — Poco fa ho avuto paura per te. E’ pas sato «Pippo», si sono sentiti i motori, ma non ha tirato bombe. Capace di ripassare stanotte... Bruci-iin — Non l’ho sentito, ma l’ho saputo da Manstauffen ora. L’ho incontrato dietro l’argine del Colmatello, lavorava con il biondo e con il pan zone alla linea. Matilde — A chi vogliono telefonare oramai?... Pare che gli americani siano già sulla strada d’Ar- genta. (Va a prendere del sale in una ciotola a sinistra). Bruchin (spezzando bacchette per avviare il fuoco) — Chissà cosa capita a casa mia, se passano di là. IRENE FRA DUE RIVE L’ultima volta che ci andai, c’era dietro il cimitero una intera compagnia con quei cannoni che ten gono sotto il braccio e sembrano tubi da stufa... Con mia nonna sorda... Chissà... Matilde — Che può capitare là?... E’ un posto dove non ci passano nemmeno i gatti se no affon dano nel fango fino ai baffi... Poi due vecchie sole chi le tocca, quando non hanno il becco di un quat trino?... Va’ a prender acqua Bruchin! Bruchin (si posa sulla testa un sacco vuoto siste mato a cappuccio e che le scende dietro a ricoprire le spalle; poi prende su i due secchi accanto al la vandino) — Se viene la pace, sapete che faccio?... Voglio montare sopra un aeroplano. Me la caverò la paura provata per due anni con quei bestioni sulla testa! Matilde — Va’ là, matta!... Non dovrebbe più piovere... Bruchin (sid punto di uscire) — E’ tempo balle rino. Tornando, ho aperto e chiuso l’ombrello al meno venti volte. Matilde (tornando aspra) — Potevi asciugare su bito la bicicletta. Con la pioggia si mangia la cro matura e costa un occhio. Te lo dico sempre, e tu niente. Mica rubiamo i soldi noi e a metterli insie me si fatica. Voi poveretti siete poveretti perché li cacciate, perché massacrate tutto senza riguardo... tutto, come te!... (Bruchin apre la porta ed esce senza rispondere; Matilde prende uno straccetto e si china ad asciugare la bicicletta che solleva appoggiandola poi alla parete). Bruchin (riaffacciandosi alla porta semi-aperta) — C’è una ragazza che vi vuole. Matilde — Chi è?... Poi a quest’ora mi pare... (Bruchin, sempre a cavallo della porta, gira lo sguar do come a interrogare la sconosciuta ancora invi sibile). Irene (entra oltrepassando Bruchin che resta inter detta sulla soglia) — Scusatemi la maniera e anche l’ora. Dovreste ricordarvi di me... (Irene è ancora scalza, come è fuggita, con i piedi e le gambe infan gati e bagnati; porta ancora addosso la logora giubba di Saverio chiusa al collo con un grosso ago dì sicu rezza; la giubba le riesce molto grande e le maniche le nascondono quasi le mani. In testa ha un fazzo letto che s’annoda sotto il mento. E’ tutta bagnata dalla molta pioggia presa). Matilde (si avvicina per riconoscerla) — Ah, Io « sparaviri della Juppa »!... Ci vuole una bella faccia per venire qui, proprio qui! Irene — Sono tempi che occorre avere altro che faccia... Matilde — E tu hai lingua, mani e coscienza sporche. Irene — Come vi pare. Non son venuta per liti- GIAN PAOLO CALLEGARI gare. (Si ferma -provocante nel mezzo della cucina togliendosi la spilla e aprendo la giacca). Matilde (a Bruchin rimasta curiosa sulla soglia) — Ti muovi con quest’acqua?... (Bruchin scompare richiudendo la porta. Matilde nuovamente si rivolge con tono aspro e ostile a Irene) Ti conviene spic ciarti. Se tornano a casa mio marito e mio figlio dovrai filare come unta. Irene — Non sono venuta per vostro figlio, state sicura. Sarò una poveretta ma non ho bisogno di Gianni perché qualcuno mi voglia bene. Matilde —• Gianni è un ragazzo con la testa fra le orecchie, la caldana gli è passata. Levati le illu sioni dal cervello. Ha capito di che pasta sei e ora, se ti vede, gli fai disgusto. Irene — Non intendo provocare il voltastomaco a nessuno, per carità!... Anche a me non va un uomo che non mantiene la parola e la cambia come si fa con le camicie. Spianatevi la faccia: non vengo a riprendermi vostro figlio. Di Gianni non me ne im porta un fico secco. Chiaro? Matilde (avvicinandosi ancora più aspra) — In questa casa, per offendere e per provocare, non ti fermi nemmeno un minuto. Ho le mani ancora buone per sfrombolarti sull’aia!... Non ce l’ho con te per le baggianate che faceste tu e il mio Gianni. Un giovanotto può anche divertirsi... Irene —• ... con una mondina che viene a rom persi la schiena sulla sua risaia e che alla fine della campagna se ne riparte, abbia o no la pancia gravida. Matilde (impressionata) — Che discorsi sono?... Parla spiccio! Irene (con una risata) — Non prendetevi paura. Non gli ho fatto un figlio. Nemmeno me ne sono liberata prima. Tengo aperti quattr'occhi quando ho attorno un uomo che il cuore lo tiene dalla parte del portafoglio e la coscienza dentro i sacchi di riso. Matilde — Quest’anno i sacchi di riso non li abbiamo pieni come credi. Ed è proprio merito tuo, per quello che ci combinasti nella monda scorsa. Ho la memoria buona, non credere. Irene — Lo sciopero non fu una mia stizza contro voi, dovreste arrivarci. Allora ero anche innamorata di Gianni. Come potevo far del male a Gianni e ai suoi per puro gusto? Matilde — E invece lo hai fatto, proprio tu, per ché le altre s’erano impaurite all’arrivo dei caporali della bonifica. Tu ti sei buttata sotto; tu a gridare, a montare perfino sopra il carro perché staccassero. E proprio nel momento che lo « sgiavone » non si strappa subito, guasta la risaia intera. Non illuderti che lo dimentichi. E ringrazia Gianni, se non sei finita dritta dritta alla polizia. Irene —■ Voi signori certe cose non le capite. Vi ripeto che non ce l’avevo con voi. Lo sciopero si doveva fare per i tedeschi, per i fascisti. Lo avevano fatto da tutte le parti, anche a Torino nelle fab briche, a Milano... Matilde — Il riso nostro non ha niente a che fare con Torino e Milano. Irene — Già... E che si vada tutti quanti in malora, che portino i ragazzi in Germania e che sparino a chi vuole la libertà, a voi non importa nulla perché usate solamente la misura dei soldi... (Scaldandosi) Lo dovevo fare e se non c’ero io, che non avendo nulla da perdere non manco di fegato, le altre se la sarebbero fatta sotto. Non è stato contro di voi, non ce la potevo avere con i Baldoni. Ero innamorata matta di Gianni, mi sarei lasciata scorticare viva per vederlo contento; ma l’ho fatto perché si doveva farlo e lui, Gianni, in quel momento, lo ha capito. Si può rimettere mezzo raccolto di un anno, peT raccogliere in pace quello degli anni dopo... Ma voi davvero sulle cose non ci ragionate! Matilde (con un cenno) — Parla piano! Attorno abbiamo sempre i tedeschi. Per la nostra terra pas sano le loro linee del telefono e tengono anzi una baracca al di là del frutteto. Irene — Lo so, li abbiamo visti, ma sono pochi. Più avanti invece deve esserci un reparto più gros so fra Colmatello e il fiume. Per questo sono venuta, altrimenti non vi avrei disturbata. Matilde — Non so cosa farti io. Mio marito e Gianni sono rimasti in paese per riavere indietro due manze che stamattina ci hanno sequestrate. E a me tocca di finire qui la Pasqua da sola, con la preoccupazione degli uomini via, sola e imbu cata come una talpa, con la serva che appena apre la bocca pare che dia i numeri al lotto'. Irene — Non sono sola, ho quattro uomini con me. Matilde — Qui fuori?... Che vogliono? Irene — Sono nascosti fra le canne. Nessuno ci ha visto. Abbiamo passato il Po questa notte e se non lo facevamo subito finivamo dentro. Matilde — Dimostri davvero il bene che volevi a Gianni. Vuoi farci fucilare tutti insieme sull’ar gine, se vi scoprono. Irene — Volevo bene da morire a Gianni, ma per questo non posso piantare quattro uomini che non sono pratici e che se sbagliano un passo sono rovinati. Sono persone perbene, due hanno gli studi e sono anche educati... Lo vedete come sono ri dotta? Gli altri non stanno meglio. Abbiamo preso tant’acqua da scioglierci anche le ossa. Non vi chiedo molto, vi chiedo soltanto di farli entrare perché si asciughino. Ci basta dormire nella stalla, nella capanna degli arnesi, dove vi pare, pur di essere al coperto. Vi giuro che domattina prima di luce ce ne andiamo e nessuno ci avrà visti... (Ma- tilde tace) E’ un discorso che rivolgo alla vostra coscienza. Perché non mi rispondete? Sono sicura che Gianni, se ci fosse, mi direbbe di sì... Mica per amore, oh lo so, a lui non gli importo più... Mi direbbe di sì ricordando i rischi che passò in Gre cia, perché lo sa che significa trovarsi in queste condizioni. Matilde — Mio marito ha sempre aiutato i par tigiani. Noi due non siamo più in età da esporci, lo vedi tu stessa; e Gianni è invalido di guerra, con tutte le carte in regola... Il mese scorso venne di notte quello che chiamano il « Buffalo Bill » e mio marito gli diede un quintale di grano e cento scudi. Siamo a posto più di quanto credi e la parte nostra Tabbiamo fatta. Irene — Ora è un altro discorso e vi ripeto che Gianni lo capirebbe... Quando lui restò ferito in Grecia e rimase disperso tre giorni, se fosse arri vato insanguinato, bagnato fino alle ossa, ad una casa di contadini e loro non gli avessero aperto perché erano in regola con chi comanda davanti e chi fa paura di dietro... voi, sua madre, lo avreste qui a casa il vostro Gianni?... (Entra dalla porta Bruchin, portando i due secchi pieni d’acqua. Irene smette di parlare). Matilde (a Irene) — Non avere paura, el Bruchin è più fidata del cane. Irene (a Matilde, con tono espressivo) — Allora? Matilde — E’ garantito che domattina prima delle cinque ve ne andate? Irene — I miei difetti li sapete tutti, ma sapete anche che quando prometto una cosa, buona o cat tiva che sia, la mantengo. (Bruchin, posati i secchi accanto al lavandino, si toglie il sacco dal capo). Matilde — Va bene, falli venire... Accostati al fuo co, mi sembri un’annegata. Irene — Grazie. Qualche volta vi penso peggio di quello che siete. Matilde — Sei tu che male operi e male pensi degli altri. (Mentre Matilde si avvia alla scala, Irene s’avvicina alla porta e si rivolge ridendo). Irene —■ Vogliamo sempre litigare, Matilde? Vi ho promesso che non mi occuperò più di vostro figlio. Non vi basta? Matilde —- Dalla finestra di sopra vado a tenere d’occhio i tedeschi guardiafili. Se picchio da sopra con lo zoccolo, vuol dire pericolo. Capito? Irene —■ Capito. (Guarda Matilde che scompare su per la scaletta di legno, mentre Bruchin resta so spesa accanto al lavatoio. Apre la porta sull’aria, poi due volte spegne e riaccende la luce elettrica al com mutatore che è li accanto; quindi richiude). Bruchin —■ Un segnale? Irene — Via libera. (Lentamente si toglie giacca e fazzoletto dal capo; li distende ad asciugare sopra i IRENE FRA DUE RIVE fasci di bacchetti ritti a lato del fuoco. Bruchin, sem pre guardandola di sottecchi, versa l’acqua dal sec chio al lavandino e comincia a lavare delle stoviglie. Irene siede sulla panca del focolare con le spalle a Bruchin; tende con le mani la gonna bagnata alle fiamme e avvicina i piedi nudi bagnati e infangati al calore). Bruchin (con timidezza) — C’è anche vostro ma rito fra questi che vengono? Irene — Non ho marito. Bruchin — Con tutta la gioventù in guerra, ora ci si sposa di meno... Se seguita a questa maniera, mi sento che finirò zitella. Irene — Sei una parente dei Baldoni? Bruchin — Sto qui a servire. M i trovo come di casa. Irene (voltandosi) — E hai paura di restare zitella? Basta che tu ci sappia fare. Bruchin (confusa) — Cosa intendete dire? Irene — Con un tipino come te, Gianni mica starà fermo. Bruchin — Che grilli vi prendono? Gianni è il figlio dei padroni, poi è uno che sa tenere il suo posto. Se può finire questa maledetta guerra me ne rivado a casa da mia nonna. Ora si mangia me glio servendo dai contadini. Dalle mie parti siamo tutti braccianti. Eppur di star qui mi sono già stancata. Irene — La mia ingenua! Tu allora non vai a letto con Gianni. Bruchin (offesa) — Io non vado a letto con nes suno e mi meraviglio di questi discorsi da sfacciata, che non mi conosci nemmeno. Ci andrai te a letto! Irene (ridendo provocante) — Sì, io ci vado a letto! E con Gianni ci sono stata. Ti fa rabbia, vero? Bruchin (confusa) — No... Sono affari tuoi, se gli vuoi bene... Irene —• Ero innamorata cotta, da piangere, quan do facevo la monda l’anno scorso. Bruchin — Allora ho capito! Tu sei la ragazza dello sciopero, quella della squadra forestiera. (Vie ne di fronte a Irene, asciugando i piatti, per ve derla bene) Gianni ogni tanto ci torna sopra e sua madre si arrabbia. Irene (prendendo per un braccio Bruchin) — Come ci torna sopra? Bruchin — Voglio dire che gli viene in mente, che gli scappa detto qualcosa. M i pare che non gli sia passata, ti nomina troppo. Irene (colpita, china gli occhi; poi prende un fu scello e distrattamente si toglie con questo i grumi di fango fra le dita dei piedi) — Come ti chiami? Bruchin — Asmara, però qui mi dicono « el Bru chin ». Sai, le brocche delle siepi... Invece a casa mia mi dicono proprio Asmara. Fu mio padre a GIAN PAOLO CALLEGARI mettermi questo nome. Le liti con mia madre!... Lo racconta ancora mia nonna. Perché mio padre e mia madre sono morti tutti e due di pleure... Lui, mio padre, aveva il chiodo dell’Africa, al- l’Asmara era stato attendente di un capitano. E all’Asmara ci sono i neri, neri come il diavolo... Irene — Lo hai sentito tu che Gianni parlava di me? Bruciìin — Più di una volta. E tu sei ancora in namorata? Sei venuta per questo? Irene — Fossi matta! A me le cotte passano come il bagnato di pioggia. Poi, con una suocera come la Matilde, c’è da finire tubercolosa. Bruchin (viene a sedere sull’amia davanti a Irene) — Hai ragione, non c’è da fare conto su Gianni. Sai che ti dico? Irene (interrompe) — Ah, vedi che anche tu gli hai messo sopra gli occhi? Bruchin — Non è vero, te lo posso giurare. In tendo dire che Gianni, per amore o per forza, si segna con la mano di sua madre e chi lo sposerà dovrà anzitutto sposare la Matilde. Tu sarai una brava ragazza... Irene —- Io non sono affatto una brava ragazza. Bruchin — ... ma per la Matilde sei peggio del colera. Li sento i discorsi dei due vecchi: soldi, bestie, campi misurati a tornature, la dote. Sono pieni di roba e avari come una raspa. Per paura dei tedeschi, dei partigiani, degli americani, che so io, hanno sepolto tutto dentro le casse, perfino roba da mangiare... Sai la Matilde chi voleva dare a Gianni? La figlia del fattore dei marchesi Cam- peggi, che aveva perfino avuto la richiesta di un geometra. E lei ci stava ed è una ragazza con i fiocchi. Irene — E Gianni? Bruchin — Non ne ha voluto sapere lui e c’era da baciarsi il gomito con quella ragazza. Invece Gianni non ha intenzione per nessuna. Irene —• Ascolta. Parlarono di me, quando discus sero di quella ragazza? (Prima che Bruchin rispon da, entrano dalla porta Adriano, Mario, Saverio e Vittorio. Vestono come quando lasciarono la casa della Parpajola; ma tengono i baveri rialzati. Sa verio ha il solo maglione. Sono bagnati, infangati, intirizziti. Bruchin si alza in piedi scusandosi). Adriano (verso Bruchin) — Buonasera!... Irene le ha detto tutto? Bruchin — Non sono io la padrona. Irene — E’ sopra, la vedrete dopo. Sono già d’ac cordo. (Irene si alza in piedi mentre gli altri si stan no scrollando gli abiti bagnati) Venite accanto al fuoco, io sono già abbastanza asciutta. (Vittorio e Mario siedono sulla panca del focolare, Adriano e Saverio restano in piedi) Dalle canne a qui come avete impiegato tanto tempo? Saverio — Sono passati due tedeschi in bicicletta, ci siamo fermati dietro una siepe. Bruchin (timida) — Sono i nostri. Li chiamiamo così perché stanno qui sul podere. E’ gente tran quilla. Mario (a Irene, aspro) — Potevi avere più giudizio a scegliere il posto dove fermarci. Irene (dura) —■ Ci siamo fermati qui perché co nosco questa gente. E da altre parti sei sicuro che ti avrebbero fatto entrare? Devi tu ringraziarmi : sei il solo che non può sforzarsi a camminare. Mario —• Basta. Chiudi il becco. (Irene lo guarda con lieve avversione, poi si avvicina a Saverio). Irene — Levati il maglione, Saverio. Ti prenderai un malanno. (Lo aiuta a sfilare. Saverio resta in canottiera) Un malanno per me... senza giacca... Saverio — Il maglione tiene, non mi sento freddo. Tu senza giacca crepavi. (Irene distende il ma glione ad asciugare accanto al fuoco), Adriano (a Irene) — Sei d’accordo anche per dor mire? Irene — Purché scompariamo prima dell’alba. (A Bruchin) Posso aiutarti. (Le prende i piatti dalle mani e asciuga lei, mentre Bruchin va ai fornelli). V ittorio (si alza in piedi, si guarda attorno) —- Pri ma dell’alba?... No, questa notte a mezzanotte e un quarto. I bengalini gialli fanno le facce da morto... e tutto in picchiata, dirompenti ventimila libbre! (Bruchin lo guarda stupita e preoccupata, Irene le fa un segno rassicurante). Mario (si alza avvicinandosi ai fornelli) — Da ieri sera, senza mangiare un boccone, è troppo. Ho una fame che mi squarta. (Si riempie una scodella dalla pentola). Adriano — Non toccare, aspettiamo la padrona. Mario — Non me ne frega niente! (Vittorio siede a tavola, ma sul piatto posa la sua solita sveglia at torno alla quale prende a trafficare). Adriano (portandosi davanti a Mario) — Qui con viene tacere. I conti con te li farò dopo. Bruchin — Lasciatelo mangiare, non c’è nulla di male. (Irene siede sull’aròla ai piedi di Saverio che sulla panca batte i denti; gli carezza le mani). Mario (ingozzandosi) —• Hanno forse fatto com plimenti con la mia gamba? Ed io non faccio com plimenti con questa gente. Adriano (aspro) — Alzati in piedi! Non sei en trato con la forza, sei un ospite! Mario — Che comandi tu, d’accordo, ma fino a un palmo dal mio stomaco e mai, dico mai, dentro! Irene (balza in piedi) — Non fate discussioni qui. Rispondo io per voi. (A Mario) Solo un cane si arrabbia per la zuppa. (Appare Matilde sul balla toio della scaletta). Matilde — Dovevo immaginare, Irene, che razza di gente mi portavi. (Tutti si voltano a guardare mentre Matilde discende). Adriano —■ M i dispiace. Ci scusi, non mangiano da ieri sera. Irene — Prima che venga un filo di chiaro sul Po, domattina togliamo il disturbo. M atilde — La sera di Pasqua chi entra in questa casa non resta senza una scodella calda. Quello che non sopporto sono le prepotenze. I Baldoni non le inghiottiscono da nessuno, né da quelli che portano la divisa e il fucile, né da quelli che por tano il fucile alla macchia. Adriano — Se lei si è offesa, possiamo andare via subito. Siamo dei galantuomini che se fuggono alle ingiustizie e alle cattiverie non intendono farle agli altri. Possiamo andare via subito. Saverio (interrompe agitato, forte) — Non vado via!... Non vado via!... Mi ammazzo piuttosto! Irene (quasi abbracciandolo per placarlo, mentre Adriano guarda attento Matilde e Bruchin con angoscia e Vittorio é Mario non se ne curano af fatto) — Calmati, Saverio. Restiamo qui, non an diamo via. Saverio — Oui torna l’angelo, lo sento... Se mi stai vicina, qui lo teniamo fra noi due, Irene!... Sta’ vicino a me... E’ come prima qui. Non mam- datemi via!... No!... No!... (Irene soffoca le sue ul time parole stringevi do gli la testa contro il seno; si odono i singhiozzi di Saverio). Irene (verso Adriano, alludendo a Matilde) — Di glielo tu! Le cose le spieghi meglio. Non è gente cattiva, non fa del male, Matilde. Adriano — Abbia pazienza, non c’è nessun peri colo, le spiegherò dopo, da solo. M atilde — Mettetevi a tavola tutti. (Prende la pentola dai fornelli, la posa a tavola, mentre Adria no siede). Adriano — Grazie, signora. (A Irene e Saverio) Venite. Mario (porgendo la scodella a Bruchin che riempie) —- Ancora. Con un po’ di pepe. Non ci mettete il pepe qui? (Irene sospinge Saverio perché vada a sedere sul tavolo). Adriano (a Matilde) — Mi rendo conto che lei, così, senza spiegazioni, non può farsi una ragione. Matilde — In questi tempi siamo tutti cambiati. Tempo addietro avrei scrollato le spalle a sentire certe cose. Ora invece mi vengono i brividi. Adriano — La gente è cambiata, ma non per sua colpa e tutti ora ci presentiamo con un volto e con dei modi che non sono lo specchio dei nostri senti menti... (Irene e Bruchin si servono per idtime; IRENE FRA DUE RIVE Bruchin mangia in piedi con la scodella in mano, Irene siede sull’amia del focolare con le spalle alle fiamme e la scodella in grembo) Dovrei nascondere quel sacco... (Indica uno dei due zaini portati dentro all’arrivo e lasciati a fianco della porta) Per noi e per lei, se dovessero scoprire noi, è meglio che non trovino quanto è in quel sacco. M atilde — Dopo ve lo sistemo io nel porcile. E’ un posto sicuro, sotto il letame. I maiali non li abbiamo più. Mario (si alza sollecito, prende il sacco suo e; lo porta accanto ai suoi piedi sotto al tavolo) — Que sto no, c’è la roba mia e sta con me. Matilde (guardando Vittorio a trafficare attorno alla sveglia sul piatto) — Il vecchio non mangia? Un po’ di brodo caldo gli fa bene. (Bruchin posa la sua scodella e si affretta per servire Vittorio; fa il gesto di togliergli la sveglia dal piatto). Vittorio (reagisce trattenendo la sveglia) — Chi suona a mezzanotte e un quarto? Chi la suona?... Via. (Bruchin si ritrae). Adriano — Lasciatelo stare. Matilde — Potete mangiare tutto, mio marito e mio figlio questa notte non tornano. Se vi fa voglia, affetto della coppa da inverno. Bruchin, porta il vino! (Bruchin prende dalla credenza il fiasco; men tre sta posandolo sul tavolo, si apre la porta di fondo, entra il « Peldwebel » Manstauffen. E’ un sottuf ficiale tedesco sui quarantacinque anni, dall’aria goffa ma non crudele. Indossa il pastrano di pelle che è lucido di pioggia come il berretto. I quattro uomini e Irene faticano a contenere un moto di paura; soltanto Matilde si domina sicura). Manstauffen (festoso alla sua maniera) — Guten Nacht! Meiné liebe Frau, bono Pasqua! Matilde — Buonasera, maresciallo. Adriano — Buonasera. Manstauffen (fermandosi in mezzo) — Uno poco vino?... Vino Bondaino sehr gut! Matilde (con un gesto a Bruchin) — Un bicchiere al signor Manstauffen! (Bruchin esegue, mentre Manstauffen osserva attentamente i presenti). Manstauffen — Oggi festa...? Alles parenti? Adriano (pronto) — Lavoriamo alla strada di Frat tanto. Anche ieri gli aeroplani, che sdrumata! Mez zo ponte giù... Matilde — Sono amici di mio figlio. Li ho invi tati a fare Pasqua con noi e lui non c’è, per la storia delle due vacche. Manstauffen (puntando il dito verso Irene) — Questa notte du qui dormire? Irene — Vado via con loro, sto con loro. Adriano — Più tardi torniamo a Frattarolo. A piedi, come Dio vuole, una bella tirata. (Matilde versa il vino al tedesco). GIAN PAOLO CALLEGARI Manstauffen — OutL. Sehr gut!... (Alza il bic chiere) Prosit! Bono Pasqua! Adriano e Mario (alzando il bicchiere risollevati) —■ Prosit! Salute! (Bevono, imitati dal tedesco e da Matilde; Vittorio e Saverio non guardano). Manstauffen (posa il bicchiere, assume tono im perioso indicando la finestra) — Finestra aperto, così non bono. Verboten! Licht Raf, alles kaputt. (Fa il gesto di bombardare). Matilde — Bruchin, brutta scimmia, ti raccoman do sempre la finestra! (Bruchin si affretta, aperti i vetri, a richiudere la mezza persiana). Manstauffen (torna ridente) — Questa sera Freu- de, Pasqua!... Ah, ab!... (Prende Bruchin e fa un mezzo giro dì ballo con lei che si schermisce). Adriano — Poca gioia quest’anno. Finché c’è la guerra non si può essere allegri. Manstauffen — Du no allegro? Ich allegro?... Fleil Pasqua, Fleil Hitler!... Questa sera fuochi, bum bum, allegria soldati... Gut? Mario — Gut. Va bene. Matilde — Signor Manstauffen, avete telefonato al vostro comando per quell’affare? Manstauffen — Mio Hauptman non può fare nulla. Tue vacche per Oberkommando... (Si avvi cina a Irene e la scruta) Du hir arbeit?... Lavoro? Irene — No qui, lavoro con questi uomini. Manstauffen (le tocca la spalla) — Du bella... schòne!... Bella!... (Le fa una carezza goffa che Irene schiva) Nicht arbeit! LiebeL. Saverio — Non mettetele le mani addosso! (Fa per alzarsi, Mario prontamente lo fa risedere) Lasciatela stare! Manstauffen (voltandosi quasi divertito) — Con me, silenzio... Tua moglie? Irene — Macché moglie, siamo compagni di la voro. Lui impasta la calce, io la porto nella conca. Manstauffen (ride) — Du niente marito!... Du niente amore schòne MàdchenL. (Appoggia le mani sulle spalle di Saverio che sembra scattare e trema tutto) Du... du Kartoffel! Adriano (ponendosi fra il tedesco e Saverio) — Non ci faccia caso, ha un attacco di malaria, la febbre. Capito? (Si ode una voce fuori la porta). La voce tedesca — Herr Feldwebel Manstauffen! Herr Feldwebel bitte! Manstauffen (va alla porta socchiudendola ap pena) — JaL. JaL. La voce tedesca ■— Alle fertig!... Bitte!... Manstauffen — Sehr gut!... DankeL. Kommen!... (Si volta ai commensali) Ora fuochi gioia! Bum!... Heil Hitler!... Heil Pasqua!... (Ridel forte e se ne va richiudendo la porta. Tutti restano tesi, in si lenzio). Adriano (a Saverio, dopo un poco) — Mi hai fatto sudare freddo. Che ti è saltato in testa? Saverio — Con le mani camminava, se non lo avessi fermato. Irene — Mi difendo da sola, non sono una bam bina. Non c’è da fare caso, sapeva di vino lontano un miglio. M atilde — Domattina ve ne andate, speriamo che fino a domattina vada liscia. (A Saverio) Ma voi, giovanotto, dovete tenere la cresta più bassa con i tedeschi; questo è un brav’uomo, con un altro era no pasticci. Saverio (vivace) — Voi l’avete resa peggiore di quanto sia l’Irene, perché non le date rispetto e lasciate che non glielo diano! (Bruchin porta in tavola la pietanza e tutti si servono). Mario — Il discorso è per me, siccome riguarda più me che voi l’Irene. Irene — Sono stata spesso un osso1 fra più cani, ma un osso che non si tiene in bocca facilmente e che spezza i denti. Non datevi da fare per me e pensate piuttosto a voi, per non fare sciocchezze proprio l’ultimo minuto. Matilde (a Bruchin) — Va’ fuori a vedere cosa armeggiano. Quando bevono, possono mandare an che a fuoco la stalla. Feuer, feuerL. Sempre fuoco, per fare festa! (Bruchin si mette sulle spalle uno scialletto ed esce) Nel sacco1 avete roba che scoppia?... Fio fatto male a prendervi in casa. Non ci si deve mai impietosire, si finisce a pagare per tutti. Adriano — Non abbia timore, sono carte. Non abbiamo nemmeno una pistola con noi. Irene — Ci fate dormire dove alloggiate le mon dine per la campagna? Matilde —• I tedeschi sono proprio là, con il ma teriale. Starete nel fienile. Domattina, quando ve ne andate, non vi avvicinate a quella parte, c’è la sentinella giorno e notte. Saverio (a Matilde) — Vostro figlio è scappato di casa questa sera per non incontrare l’Irene?... (A Irene) Vedi, era inutile che tu venissi a cercarlo. Matilde (vivacemente all’lrene) — Che gli hai detto tu, di Gianni? Hai la lingua come un mulino, non sta mai ferma. Irene — Per carità, non prendete per oro colato ogni parola, qui! Matilde —• M i prendono i capogiri con tutti questi discorsi. Adriano (a Matilde) — Le ho già detto che dopo, da solo, le spiegherò. Mario (a Irene) — E tu insisti a raccontare i tuoi affari d’amore a tutti! Così ti ritrovi nuda in piazza, come una bestia in vendita. Irene — Sarò una bestia, ma dalla tua stalla sono scappata da un pezzo. Saverio (seguendo la sua idea, rivolto a Matilde) — Questa notte tornerà vostro figlio? Devo parlare con lui... Poi parliamo io e te (indica Mario) e lui. Mi ascolti, Irene? (Improvviso si ode uno scoppio forte. Tutti tacciono, si guardano ansiosi. Vittorio scatta in piedi, gli occhi dilatati. Un secondo scop pio; e Vittorio, frenetico, scaraventa a terra il piatto con la sveglia). Vittorio (lancia un urlo forte e disperato) —• Ah! (Un terzo scoppio più vicino; Vittorio afferra un coltello sul tavolo ritraendosi) Assassini!... Scendete col paracadute!... Assassini!... (Adriano e Mario gli balzano addosso, lo afferrano, lo disarmano, collut tandosi con il vecchio inso spettatamele forte nella pazzia. Egli urla). Matilde — Fate piano!... Fatelo tacere!... Per l’a- mor di Dio che non vengano qui. Ci arrestano tutti! (Adriano riesce a tappare la bocca di Vittorio che si agita nella stretta. Anche Irene, a terra, afferra le gambe di Vittorio. Il solo indifferente è Saverio che ripiega il tovagliolo). Adriano — Come facciamo? Qui non può restare. Irene — Le crisi gli durano spesso un giorno intero. Mario (a uno scatto di Vittorio) — Tenetelo forte! Ahi!... Tenete!... Matilde (aprendo l’uscio a vetri di sinistra) — Por tatelo da questa parte... Venite!... Chiudiamolo al meno dove non escano le grida che fa. (Trascinano a fatica il pazzo oltre l’uscio di sinistra). Adriano (sulla soglia, a Irene che segue) — Tu fermati qui, con lui... (indica Saverio) ... è meglio. (Mentre di là, oltre l’uscio richiuso da Adriano, si odono i repressi ruggiti di Vittorio, Saverio va tran quillamente a sedere sulla panca del focolare; Irene comincia lentamente a sgomberare l’apparecchiatura della tavola). Saverio — Povero Vittorio! Lui è veramente pazzo. In manicomio molti vengono rinchiusi con l’ingan no per qualche sporco interesse, per qualche ingiu stizia, come fu per me e per Adriano. Ma in mezzo c’è sempre qualche pazzo, vedi il caso di Vittorio. Irene — Il signor Vittorio ha patito più di voi. Lo capite voi stessi che siete suoi compagni e lo trattate con un rispetto diverso. Saverio — Mi incute rispetto perché parla poco e tuttavia sempre mi sembra che non sia solo, che stia discutendo piano, con della gente che non posso vedere. Irene — Sono forse i suoi morti. Anche mia madre, negli ultimi anni, parlava sempre con mio padre, diceva lei, in paradiso. Ero bambina, mi veniva da piangere. Le vicine dicevano : « Si vede che la chiama e lei presto andrà da lui». Io scappavo a piangere dietro il pagliaio, invece mio fratello an dava a vedere le corse ciclistiche. IRENE FRA DUE RIVE Saverio — Perché tua madre non ti ha scelto un marito prima di morire? Era meglio per te. [rene — Ero troppo piccola, avrò avuto dodici anni. Non pensavo certo agli uomini, dovevo procurare da mangiare a me e a mia madre che non si alzava dal letto. Mio fratello si arrangiava da solo aiutando i barcaioli della Pila che trasportano la rena. Alla canapa ero capace di fare il lavoro di una donna grande e in risaia andai che ero la più piccola di tutte. Quando ero libera, giocavo ancora, ma pre ferivo i maschi, con i quali si può fare a pugni. Saverio — Tua madre poteva egualmente sceglierti un marito. Mia sorella Concettina venne promessa che aveva otto anni, in segreto tuttavia. Giocava ai mulattieri con Cosimello e non sapeva che si dove vano poi sposare. Irene — Da noi questo non accade, molte volte le famiglie sanno del matrimonio soltanto quando c’è già un figlio per la strada. Sarebbe stato meglio un fatto come questo anche per me, forse mi sarei calmata, senza passare dall’uno all’altro, come il pallone quando giocano al calcio... Magari avrei ora quattro figli e sarei più brutta. Saverio — Mi sento freddo dentro e le gambe a tremare, ma contento e allegro più degli altri giorni. Irene (gli posa sulle spalle una delle giacche che si è già asciugata) — E’ la pioggia presa, poi la stanchezza. Tu sei delicato e non hai abitudine agli strapazzi come me. (Saverio la trattiene per le braccia). Saverio — No, non è quello che dici. Sei tu... Non mi sento male, ma come alla fine di uno sforzo, con il desiderio di riposare... Tu sei stata! Irene (sciogliendosi garbatamente da lui) —■ E’ meglio che tu vada a dormire. So dove si trova il fienile, ti porto io. Saverio — Non vado a dormire, ci andrò quando verrà anche Mario. Irene — E’ meglio che Mario badi al signor Vit torio, è un disastro se ancora il vecchio si fa sentire a urlare. Saverio (eccitato) — No!... E’ perché tu vuoi an dare a dormire con Mario! Irene — Non siamo in albergo per scegliere le stanze. Vedrai che dormiremo tutti insieme. Saverio — Allora io dormo qui, su questa panca. Non intendo sentirti fra le braccia di Mario. Tu lo temi, lo tratti male, gli rispondi con rabbia, ma gli resti attaccata ed io allora... Sai che farò io? Irene (interrompendo) — Non fare la cavalleria rusticana, a noi la vostra gelosia fa ridere. (Siede sulla panca accanto a Saverio) Sono forse venuta con voi per Mario? Saverio — Sei venuta per me, Irene? Rispondimi. GIAN PAOLO CALLEGAR! Irene —• Sono venuta per te... per tutti voi. Siamo compagni nello stesso pericolo. Saverio — Non hai il coraggio di dire la verità, tu che non hai paura di nulla, che in certi mo menti sei più sicura di un uomo. Qui abita il tuo fidanzato di prima. Irene (rìdendo) — Oh, i fidanzati di prima!... Ce ne sono parecchi, ma non contano. Guardo sempre avanti, muovo sempre un passo avanti. M i sembra di traversare uno di quei fiumi a mezz’acqua con i sassi nel guado nel mezzo. Poso il piede su uno, poi l’altro sull’altro e così via, per arrivare alla riva e la riva è sempre più lontana. Penso che ogni sasso sia un uomo, uno di questi uomini ignoranti, duri, spesso cretini o senza coscienza... Saverio — E la riva? Irene — La riva sarebbe il matrimonio, ma forse è soltanto una scusa per me, per passare da un sasso all’altro, da un uomo all’altro... o che io non 10 merito davvero di finire finalmente con i piedi all’asciutto, come tutte le donne. Saverio — Tu verrai con me in Sicilia. Laggiù ti troverai con i piedi all’asciutto, sulla riva, come tu dici. Irene — No. Sono propositi che1 ti nascono ora, così, perché non ti trovi ancora nella tua casa, fra la gente che conosci, nelle tue usanze. Te ne penti resti subito, io sono pratica. Saverio — E allora perché mi hai seguito, quando sono uscito per ultimo dal pollaio della Parpajola? Perché lo hai fatto? Perché? Irene — Ho capito che ti facevo bene, se venivo, che stavi... non so spiegarmi... stavi meglio, più contento. Ma questo non significa che io sia per te, per tutta la vita. Forse con Mario sarà diverso. Mario è peggio di tutti voi, ma è un disgraziato come me e forse senza di me farebbe più male di quanto ne ha fatto, di quanto ne fa. Perché Mario... sai che ha sempre fatto Mario?... (Si arresta senza coraggio dì seguitare; distrattamente ributta verso 11 centro del fuoco un legno che sta cadendo). Saverio — Tu non gli vuoi bene. State insieme solo perché... perché tu sai di lui e lui... Irene (insorge aspramente) — Cosa sai tu?... Dim mi cosa sai! Saverio — Ti ho sentita l’altro giorno, quando eri distesa con Mario all’ombra della siepe, dietro la casa della vecchia. « Alla fine preferisco non guar darti più in faccia», dicevi, «mi viene la nausea e sento che non sei più nulla. Basterebbe che dicessi una parola sola su quello che di te so... ». Così hai detto e lui ti ha dato uno schiaffo. Irene (scatta in piedi furibonda) — Che non ti venga mai più in mente di spiarmi! Non mettere il naso negli affari miei, spretato maledetto! (Lo scuote con violenza) Mi hai capito? Saverio (stupito più che offeso) — Lo dico per aiutarti, perché tu trovi una via di essere felice, la sponda che nominavi prima, e non sempre un sasso nella corrente, poi l’altro, poi l’altro... Vorrei aiutarti, come tu mi hai seguito per aiutare me a sentirmi meglio. Irene —■ Scusami, Saverio. Alle volte sono una cattiva ragazza. Non mi piace che tu dica male di Mario, anche se può essere giusto, anche se tu sei migliore di lui, anche se forse il. tuo bene è più vero del suo. So che non va, ma a me tocca Mario, perché di meglio non ci può essere per me... Se ti dessi ascolto e venissi con te fino a casa tua, come credi che finirebbe? Saverio (alzandosi per bere un bicchiere d’acqua) —- Meglio che con Mario perché io non sono un vigliacco. Mario non s’è mosso quando il tedesco ti ha toccata. Irene —■ Sarebbe davvero il finimondo se qui, per ogni gesto, si finisse a pugni. Saverio — Non era un gesto senza significato, si vedeva che il tedesco ti voleva. Mario ha avuto paura, e un uomo che ama non deve avere paura. Irene —- Dobbiamo farci fucilare tutti perché un porco mi gira attorno? Saverio — lo saprei correre questo rischio. Noi si ciliani lo sappiamo fare... Capiresti allora com’è l’amore vero. (Torna a sedere alla panca). Irene (prendendogli una mano) — Oh, Saverio, dobbiamo cercare di vivere e l’amore per vivere. Sono anni che stiamo sempre sul punto di morire. Stiamo vivendo, correndo, nascondendoci come po vere bestie piccole e perseguitate; ' stiamo patendo fame e freddo, tutto per vivere e per poterci volere bene. E tu, per volere bene, vorresti morire. E tu vorresti... (Si apre la porta di scatto, entra Bruchin angustiata). Bruchin — Dov’è la padrona? Irene (alzandosi in piedi) — Di là, con il vecchio che si sente male. Che c’è? Bruchin — Niente. (Chiama forte) Matilde! Ma- tilde!... La voce di Matilde (dall’altra stanza, donde esce anche un rumore indistinto) — Che vuoi? Bruci-iin — I tedeschi hanno fatto saltare il noce grande! Matilde (entrando eccitata) — Il noce? Quello?... Bruchin — Prima la querciola storta, poi il noce, proprio quello!... Si è aperta la buca, con lo strappo delle radici. Matilde — La cassa? Bruchin — Si è scoperta per forza. L’hanno aperta con le baionette e gridavano di gioia, dei gridi da oche. Matilde — Santo cielo, la mia roba! Bruchin — Si sono infilati i cucchiaini d’argento in tasca, la biancheria è là per il fango... Stanno bevendosi le bottiglie di liquore a garganella. Matilde —■ Che disastro!... Tutto il servizio d’ar gento di quando mi sposai!... E la biancheria da letto per Gianni se prende moglie!... Come hanno fatto a indovinare l’albero? Non lo sapeva nessuno. Bruchin — Ne hanno minati tre a caso per fare festa... Fra i tre, il noce. Matilde — Lo sapevi soltanto te dove era sepolta la cassa! Bruchin (quasi piangendo) — Io non ho detto nulla!... Non parlo mai con i tedeschi, mi fanno paura! Matilde (con stizza) — Lo dici troppo che gli uomini ti fanno paura per non nascondere qual cosa!... Gattamorta sei, bada che il mio naso ha l’odorato fino e se mi accorgo... Irene (interrompe) — EI Bruchin che interesse aveva di parlare? E’ stato un caso. Matilde — E così ho perso il meglio della casa!... Quando torneranno a casa i miei uomini sarà un bell’affare!... Tocca tutto a noi, maledizione. Saverio — L’importante è che tornino a casa vostro marito e vostro figlio. Matilde (voltandosi vivacemente) — Che volete fare l’uccello del malaugurio? (Si apre improvvisa mente la porta di fondo, entra Manstauffen con il berretto buttato indietro, il pastrano slacciato, una bottiglia di liquore in ogni tasca del pastrano, una terza bottiglia stappata in pugno. E’ già mezzo ubriaco. Tutti si ricompongono). Manstauffen — Lied Pasqua!... Meine liebe Frau Matilde, bere!... Bere con noi?... Likòr sehr gut!... Bere Likòr? Matilde — Grazie, non bevo, non mi sento bene. Manstauffen — Feuer!... Bum bum!... Christus portato regalo WehrmachtL. Bono Christus Italia!... Regalo, Chocholate, Likòr, argento... (A Bruchin) Du bere?... (Bruchin si schermisce) Nein bere?... Oh! (Fa un gesto di disappunto e si rivolge a Irene) Du bere?... Bere, bere!... (Le spinge la bottiglia contro la bocca; Irene beve un sorso a collo e rende) Noi bere tutti insieme, venire qui, bere insieme! Matilde — No, qui no, non si può! Manstauffen — Perché no? (Si ode un urlo re presso di Vittorio, egli ascolta). Irene — Uno dei nostri compagni sta male. E’ la malaria. Manstauffen (ìndica Saverio) — Lui malaria? Saverio — Il malato è il vecchio. Ha il delirio. IRENE FRA DUE RIVE Manstauffen (ride) — Non capito!... Ist Likòr, ja!... Likòr... Noi venire qui! M atilde (sospingendolo verso la porta) — No!... Veniamo noi nella vostra baracca a bere. Beviamo insieme, se vi fa piacere, ma veniamo noi. Andate avanti, vi raggiungiamo. Quando prometto una cosa la mantengo... (Il tedesco esce non convinto; appena esso è fuori, Matilde si rivolge a Bruchin) Dammi lo scialle, svelta!... (Bruchin lo prende e lo porge). Bruchin — Ci andate davvero? Matilde — E tu vieni con me. Tentiamo almeno di riprendere l’argenteria, la biancheria e la roba che non si mangia. Profittiamo che prenderanno la sbornia. Bruchin — Quando sono ubriachi mi fanno paura. Lo so come fanno... M atilde — Sei con me, non devi avere paura. Li ho già messi a posto, lo sai. Irene — Se voi tardate, posso portare i ragazzi a dormire nel fienile? Moriamo tutti di sonno. Matilde — E’ conveniente che ci andiate subito, che non vi facciate vedere per casa, perché i te- deschi sono capaci di ricondurci fin qui. Ci sono sacchi vuoti per ricoprirvi, nel fienile. E badate al vecchio, mi raccomando. (Matilde esce dalla porta in fretta trascinandosi quasi Bruchin che a sua volta s'è buttata addosso uno scialle). Saverio —• Perché hai bevuto il liquore? Irene — Per accontentare quel bestione, così si calma. Saverio — E’ la tua regola accontentare tutti gli uomini? Irene — E’ la mia regola, di questi tempi, evitare dei guai che paghereste voi per me. Saverio — Una regola senza limiti, vuoi dire. Sei proprio buona come la Maddalena. Irene — Pungi pure come l’ortica. Non passo dalle braccia dell’uno a quelle dell’altro come le balle di fieno alla trebbia. Non faccio il mestiere: guar dami addosso e negli occhi se puoi capire. Le ra gazze che accettano soldi non vestono questi stracci. È le occasioni per stare bene con le comodità non sono mancate nemmeno a me. Saverio —• Parli sempre di uomini. Non di un uomo; di uomini, di uomini... Irene — E’ che uno buono, serio, che mi capisca e mi rispetti non lo trovo ancora. Le mie amiche dicono che sono di carbone dolce, che prendo fuoco subito, ma non è vero. Ho bisogno di uno che mi voglia bene e mi illudo e resto alla fine piantata come un palo nella vigna e ancora viene chi si aPP°ggia di nuovo al palo e ancora resto sola... Questo è il mio male. Uno, uno solo che mi creda, che abbia fiducia... Saverio (inginocchiandosi ai suoi piedi) — Io ho GIAN PAOLO CALLEGARI fiducia. E ti voglio bene. Te lo dico da quando siamo insieme, ma tu ridi e cambi discorso. Irene — T i sembra che sia così, perché da molto tempo non vedi altre donne, non ne avvicini altre e da quando sei scappato sei sempre stato con me peT forza. Appena non avrai più da scappare, ti verrà da ridere ripensando a me. Ci sono tante ragazze migliori. Saverio — Io invece so che quando non ti vedrò più ripenserò a te, sempre, perché è con te che ho cominciato a dimenticare le mie disgrazie. Non è vero che sei cattiva: con te ritorna l’angelo cu stode, lo sento. E quando lui toma, si ridiventa uomini e nessuno osa più fare quello che agli uo mini veri non si fa. Anche le bestie, quando ave vano l’angelo, erano uomini; anche le sedie, gli alberi, i libri... Con te ridivento come prima ed è segno che l’angelo mio cammina dove passi tu... Per questo ti voglio bene. Per questo non voglio perderti, Irene!... (Irene si -piega su di lui, lo ca rezza e poi timidamente lo bacia a lungo in silenzio ma con un atteggiamento composto di fidanzata al primo bacio. Ella si stacca per prima; i due giovani si fissano ancora). Irene — Va’ a vedere cosa capita con il vecchio. Ci farà stare svegli stanotte. Saverio —• Non ho mai passeggiato con una ra gazza al braccio. Irene (ridendo) — Bella coppia, così conciati, noi due! Non ci manca altro che la gabbietta con la cocorita e l’organetto per andare all’elemosina. Saverio •—• Arrivando in Sicilia con te, farò valere i miei diritti. Irene —• Non farmi sognare cose impossibili. Devo smettere di crederla a voi uomini! Saverio (alzandosi) — Devi smetterla di parlare di uomini, di tanti uomini!... Sono geloso anche se so tutto. C’è sempre un momento in cui tutto può ricominciare da capo. Irene (amara) —• Sì, ricomincio da capo, tutte le volte; e finisce come tutte le volte e quello che resta dietro non lo perdo ma me lo trascino alla gonna come certi cavalli che si impigliano in un ramo di spini e se lo portano attaccato alle zampe fino alla stalla... Va’ subito da Vittorio!... Vai, ti dico!... (Saverio esce, guardandola; ella resta un attimo pensierosa, finché entra dalla stessa porta Mario). Mario (va a versarsi un bicchiere di vino e con il bicchiere viene avanti a Irene che gioca fustigando con il bastoncino la brace) — Un bacio veramente romantico, oppure pietoso. Vi ho visto, non sono entrato perché non sono geloso. Irene — Non è a tuo vantaggio non essere geloso. Mario — Dipende. Forse conosco bene la mia be stia e so che dalla stalla non esce. Poi ogni donna serve per quel che serve, lo sai... Vuoi bere? Irene — No. Mario — Hai il reggiseno? Irene — Cosa vuoi dire? Mario (prendendo dalla tasca alcuni orologi) — Che tu ti nasconda questi nel petto. Con la cintura stretta si reggono lo stesso. Irene — Ecco il tuo bene. Già: ogni donna serve a quel che serve. Io servo a passar per ladra in conto tuo. Mario — Idiota! Se ci prendono insieme, o io o te è lo stesso; ma su di me c’è molta roba scritta e su di te le carte sono bianche. Mica potevo la sciarli addosso a Vittorio ora che si dimena come un verme. Li aveva in tasca e li spaccherebbe tutti. Uno è già andato, guarda! (Glielo indica). Irene — Adriano ti avrà scoperto. Mario — No. Vittorio è stato zitto, sai la mania che ha per gli orologi. Tieni! Irene — Non voglio!... (Desolata, in sordina) Non voglio tutto questo!... Credevo che ti fossi messo a lavorare. Io le mani le ho pulite. Non voglio! Mario (inginocchiandosi davanti a lei come Sa verio prima) — Devo pure arrangiarmi ora. Quando sarò dall’altra parte ti prometto che cercherò qual cosa di meglio. Irene — Di sporco, di disonesto come questo, vuoi dire! Non ti piace altro... Ed io ti vengo dietro, così, senza sapermi staccare... E ti strozzerei! (Pren de a forza gli orologi e li nasconde in seno). Mario (soddisfatto, fa per abbracciarla) — Andrai sempre senza scarpe finché non ti aprirai il cer vello. Non basta aprire le braccia agli uomini! Irene (respingendolo con ira) —• No!... Mi fai schifo!... (Lui con una risata l’afferra, la travolge in un lungo bacio sensuale al quale ella si abban dona per un attimo, svincolandosi infine e balzando in piedi) Non pensare di starmi vicino questa notte! Mario (seduto, ironico) — Rispetto alla casa del tuo ex innamorato o al libro rilegato in pelle? Irene — A me, che non ne posso più. (Scoppia in singhiozzi). A T T O T E R Z O Il fienile del Bondaino è un grande stanzone con il soffitto alto, a capriata, formato a vivo dallo stesso spiovente del tetto di cui appare all'interno la parte inferiore delle tegole incastrate. I muri, come il pavimento, sono a pietra viva senza intonaco. Sul la parete di fondo, spostato verso la sinistra, si apre il portellone di accesso che essenzialmente serve per introdurre dagli alti carri il fieno. Il portellone arriva fino al pavimento1 e — alto certamente dal suolo come un ■primo piano — ha due grandi bat tenti, dei quali uno è chiuso e l’altro aperto in fuori. Al lato appare la sommità di una scala a pioli ap poggiata dui fuori: è il solo mezzo per salire e scen dere dall’esterno dell’aia. Sul fondo, la visione della sommità di uno stollo da pagliaio, qualche albero lontano e infine la campagna. A destra, verso il proscenio, una botola con il co perchio sollevato e ritto lascia vedere il passaggio alla sottostante stalla nella quale si scende per una scaletta a sbarre di ferro infisse: da questo passaggio si scarica il foraggio di sotto, al bestiame. In tutta la zona destra, fra la botola e il fondo, fin presso al portellone, è ammucchiato fieno secco che dalla parete a montagna digrada distendendosi verso il centro. Nel fieno sono qua e là infilati due o tre grossi forcali per maneggiarlo. Contro la parete opposta stanno a pila dei sacchi vuoti ripiegati e alcuni grandi copertoni impermeabili da carico, essi pure ripiegati. Dove il fieno digrada da montagna a soffice tap peto, fra la botola e la parete di fondo, sono distesi Adriano, Mario, Saverio e Irene, coperti da sacchi. Irene, nettamente separata dagli uomini, si è siste mata dietro di loro, più su, quasi sepolta dove il mttcchio di fieno è più alto. Matilde è davanti ai tre uomini ancora mezzo ad dormentati. Irene dorme ancora e quasi non si vede in mezzo al foraggio. Matilde ha le ciabatte di pezza senza tallone e le gambe nude, uno scial- letto sulle spalle e le trecce abbandonate sul collo; evidentemente s’è alzata dal letto accorrendo in fretta. Gli uomini e la donna hanno dormito com pletamente vestiti. Albeggia. Matilde — Questa è ingratitudine, questo è ricam biare il bene con il male!... Volete proprio- mettermi nei guai, dopo che vi ho fatto una carità cristiana... E non c’è da scherzare, lo capite. Ho due uomini in casa, e quelli là non vanno per le lunghe, se si arrabbiano. Gli uomini sapete come li trattano, lo sapete meglio voi di me... Saverio — Non potevamo abbandonare il signor Vittorio nelle condizioni in cui si trova. Adriano —- E portarlo come?... Legato e imbava gliato, a spalle... Come si poteva? Matilde — Eravamo d’accordo che ve ne anda vate prima di luce. Solo a queste condizioni ho detto di sì all’Irene. Irene (si muove rivelandosi dove fa un mucchietto imprecisabile) — Ci siamo addormentati. Cosa c’è di male? (Si alza in piedi e scende giù dal mucchio di fieno disordinatamente). IRENE FRA DUE RIVE Matilde — C’è di male sì, che qui al tedesco puzzate più del pesce marcio! Mario (che Irene pesta scendendo giù per il fieno) — Oh cavalla matta! Bada dove pianti le zampe! (L’afferra per una caviglia e la fa cadere, seduta fra lui e Saverio). Matilde — Ridete, giocate pure! Nel malanno, quando ve ne sarete andati, ci resto io. Eravamo d’accordo che prima di luce... Irene — Un’altra volta dateci la sveglia!... O por tateci il caffè a letto! M atilde —• Non sei cambiata da quella dell’anno scorso, « sparaviri della Juppa »!... M i sono sbagliata a credere che eri meglio. Sei la solita bestia scap pata... Irene — E’ inutile che stiate a offendere, ora. Cosa dobbiamo fare? Saverio — Volete che andiamo subito? Adriano — Col bagaglio che abbiamo è questione di un minuto. Saverio — E il signor Vittorio? Adriano — Ci arrangeremo. Pesa come una piuma. Matilde — Bisogna prima pensarci. E’ già giorno, non dovete fare colpi di testa. Bisogna pensarci... Irene, (alzandosi in piedi e stirandosi tutta) — E pensateci, Matilde!... Non so che dirvi, facciamo quello che pare a voi, ma non rompeteci l’anima sempre!... Uh che freddo, questa notte!... Lo spor tello mezzo aperto. Matilde — La seconda metà non sta più chiusa da anni, con l’umidità s’è imbarcata e non combacia. Mario (inquieto) — Del freddo non me ne frega niente, se viene il sole ci scaldiamo oggi. La que stione è un’altra, andare via svelti da qui. Non ho fatto questa ammazzata con la gamba fottuta per restare in trappola alla fine. Cosa c’è che non va stamattina? Matilde — Manstauffen. Questa notte mi ha sve gliata. La paura che mi sono presa! Credevo si fosse accorto che con Bruchin ci siamo ripresa tutta la roba della cassa dissepolta. Invece mi ha chiesto di voi, dice «non bone, non bono»... «Non bono» sareste voi. Gli ho detto che eravate già andati via ed è tornato a dormire tranquillo. Ora capite, se vi vede... Saverio —■ Non dovete farci caso, il tedesco era ubbriaco questa notte. Matilde — Nemmeno per sogno. So come fa. Si ubbriaca e poi vomita apposta e gli passa. Dice porco a tutti, ma è lui il vero porco. Però non c’è da prenderlo in giro... Irene —• Se avessi tempo, mi divertirei : credo sia proprio il tipo da prendere in giro. (Si muove verso il portellone). Mario — -Dove vai? GIAN PAOLO CALLEGARI Irene —- Paura, eh?... (Ride) Voglio lavarmi il muso, mi pare... Saverio — E’ pericoloso che tu ti faccia vedere. Matilde — Forse no. Se avete intenzione di sbu care da qui, un giretto dell’Irene a sentire che aria tira è la cosa migliore. Saverio —■ Perché l’Irene? Non sono mica un vigliacco, posso andare io. Adriano —- Non capisci nulla, una donna è una cosa diversa. Mario — Vi siete accorti degli occhi del tedesco quando la guardava? Lei corre minor pericolo che noi. Saverio — Sei il solito. Una donna ti piace per fartene uno scudo e sederti dietro al riparo. Mario —• Oh basta! Se non fosse la parola data ad Adriano, già ti avrei rotto la faccia da un pezzo!... (Irene si avventa sui due che stanno per accapi- gliarsi; p rende per i camelli Saverio mentre con un ■piede puntato sul petto sospinge indietro Mario). Irene — Avete da piantarla, caproni!... La gelo sia!... Ed io che sono, una pupazza nel mezzo?... Basta! Adriano — Basta!... Maledetto il momento che ci siamo presi dietro una donna! Matilde — State fermi! Non gridate!... Volete finir male?... (Mario e Saverio si fermano). Irene (scrollandosi dopo la colluttazione) — A chi devo chiedere il permesso per darmi una lavata? Adriano —• Al tuo giudizio, se ne hai. Soprattutto se vedi in giro i tedeschi. Matilde (a Irene) — Trovi sapone da bucato e un asciugatoio proprio sul pozzo. (Irene esce dal por- tellone scendendo la scala a pioli e scompare). Mario (infilandosi le scarpe e allacciandole, si ri volge a Matilde) — E’ meglio che andiamo verso il fiume, secondo voi? Matilde —• La più sicura è la strada sull’argine del canale di bonifica. Vi porta sulla carrabile di Ostel- lato che vi conduce per le valli fin sotto il paese. Adriano — A Ostellato ci sono ancora i tedeschi e siamo da capo. Matilde — No, sono già venuti via. Ieri mattina gli alleati erano già davanti al cimitero ma non si decidevano di entrare. Sono andati il prete, il far macista e altri signori a chiamarli dicendo che non c’era più nemmeno un tedesco. Me lo ha detto un bovaro che sta al querceto. Saverio —■ Allora a Ostellato saremo in salvo... Ho fatto voto che quest’anno, alla festa di Santa Repa rata, porterò io la statua per penitenza. M i metterò una corona di spine d’acacia sulla fronte... L’ho giurato, se arriverò salvo .a casa... Ma noi ci siamo già salvati, vero? Adriano — Speriamo di sì. Certo la coda è sempre la più dura da scorticare. Mario — E’ stata tutta una coda. Matilde —- Non converrà che vi allontaniate tutti in gruppo. Adriano — L’ho già pensato. Farà da battistrada uno di noi, per avvertire gli altri se ce pericolo. Mario —- Io no di certo, con questa gamba... Saverio — Più andiamo avanti e più mi avvedo che l’eroe, quello che ha fatto sempre le schiop pettate... Mario — Ci vuol la tua lingua sporca. Adriano —■ Finitela, perdio!... Non ho mai pen sato che andasse Mario. E’ naturale che avanti andrò io. Matilde — Allora posso scendere, devo finire di vestirmi. E state attenti! Mario — Potremmo mangiare un boccone? Scusate, ma con tanta strada addosso, la fame si ammucchia. Matilde — Scendete in cucina quando vi pare. Per la stalla, non per l’aia mi raccomando! C’è solo caffè d’orzo, ma pane quanto ne volete... (Dalla botola che porta alla stalla sottostante si affaccia Bruchin emergendo a mezza cintola). Bruchin — Padrona, il vecchio. Adriano —■ Che ha fatto? Bruchin (esce del tutto; è in sottoveste, con la coperta sulle spalle e i piedi nudi; porta i capelli legati con una cordicella) — Mi sono presa paura. Si è levato il bavaglio ma non grida. Ha tutti gli occhi rossi dove c’è il bianco e la bocca con la schiuma. Mamma mia!... Tira calci in avanti a paia con le gambe legate... Mi ha preso qui, alla bocca dello stomaco, e credevo di mancare!... Dormivo così bene... Matilde — T i avevo detto di tirare la tua branda più lontana. Per badargli non avevi da dormire sotto i suoi piedi. Adriano — Vengo giù io. Di solito riesco a calmarlo. Saverio —■ Se ha la bava alla bocca, sarà la volta di Mantova: si sente soffocare e non può gridare. Matilde — Fino a che non ve ne andate dovete badargli voi. Non posso lasciargli sempre accanto la ragazza e poi, se si agita, Bruchin da sola non ce la fa certo a tenerlo. E’ già troppo che abbia dormito tutta la notte accanto a lui nella stalla. Bruchin — Se riusciva a slegarsi durante la notte, poteva scannarmi senza dire ah!... Mamma mia! Adriano — Non fa del male, di solito. Ora vedia mo... (Adriano scende per la botola seguito da Ma- tilde; Bruchin si ferma prima di seguire la padrona e si volta). Bruchin (piano) —■ Vi fermate a Ostellato? Saverio -— Forse sì. Bruchin —■ M i dovete fare un piacere. Dovete chiedere se sta ancora per lavorante dal falegname un certo Mattioli Settimio. E’ un biondino, alto... Mattioli Settimio, capito? Mario — E se ce ancora? Bruchin — Niente. Gli dite che m’avete visto e che vi ho incaricato di cercarlo. (Si gira svelta per scendere). Mario (levandosi a sedere) — Ehi, vieni qui!... (Bruchin si ferma perplessa e poi torna indietro riavvicinandosi lentamente). Bruchin — Cosa volete? Mario — Se io fossi Mattioli Settimio, cosa faresti? Bruchin — Niente. Gli uomini mica sono cani che si tengono alla catena... Niente. Mario (alzandosi) — Io invece farei così... (Scatta per afferrarla in un abbraccio, ma Bruchin balzando indietro lo evita, coglie il forcale infisso nel fieno e lo punta verso l’uomo). Bruchin (con calma) — Ed io... così! Mario (arretra ridendo) — A me o a lui? Saverio — A te, come ti meriti. Bruchin — A tutti e due. Ho imparato con la mia pelle la moneta che pagate. (Mario, sempre sorri dente, cerca di avvicinarsi evitando il forcale). Saverio — Lasciala in pace, non è il momento. Mario — Credi che sia anche lei santa Reparata?... Una serva di campagna, ben che vada, se ne è visti passare sopra quanto di carri una strada. Bruchin — Questo lo potrete dire della vostra fidanzata. Non ho sul dorso la veste sporca d’erba. (Butta il forcale nel fieno e svelta scende per la botola). Mario — Che lingua tiene nascosta in bocca questa marmotta! Saverio — Tutte le donne si ritrovano una lingua come questa con te. Dipende da come le tratti. La ragazza dell’oste a Novellare, ricordi che ti fece? Rimanesti anche bruciato con i] ferro da stiro. Mario — E’ la loro maniera di difendersi, perché sentono che con me ci cascano, prima o poi, ed io sono un uomo vero, che gli fa paura e piacere insieme. Con te invece non hanno né da tirare fuori la lingua né le unghie, perché è come se tu non ci fossi... Saverio (vivace) — Perché io non ci sono? Mario — Voi terroni andate avanti con discorsi, spiegazioni e domande; poi vi arrabbiate se uno le canta chiaramente. Non c’è Vittorio, non ci sei tu... Basta! Saverio — Vittorio è vecchio, io no. Io posso voler bene a una donna, sposare... Mario — Sembra che sia io a voler litigare, ma le strappi tu le parole con le tenaglie. Sai cosa intendo IRENE FRA DUE RIVE dire e perché le donne non ti guardano, appena ti hanno sentito un poco... Saverio —- No, so cosa intendi dire, quello che mi dici dal primo giorno, che io sono pazzo... Senti come lo dico? « Pazzo... pazzo». Non l’ho mai detto così, senza arrabbiarmi, senza gridare... Vuol dire che non sono più come il primo giorno che mi hai conosciuto, come i giorni passati... Vivere come l’al tra gente fa bene e lava da dosso tutto quello che per forza si attacca a stare rinchiusi là dentro... Voi tutti non credete pazzo Adriano anche se è stato rinchiuso in manicomio. Io mi sento ora come Adriano. Non mi avvilisco più a sentir parlare di pazzia come una volta. Allora ero debole, avevo la testa stanca perché a sentire sempre la stessa cosa non si capisce più nulla, si cerca di studiare sopra se stessi ed è male... Tu allora mi facevi paura e mi davi soggezione perché sembravi forte e dicevi cose e facevi movimenti in mezzo* a tutti quanti come io sentivo di non potere fare così, senza uno sforzo, senza pensarci con tutta la mia energia.,. Mario — Se tu non ti sforzassi a dire tante cose, forse ci crederei di più. Ma sono affari tuoi, spero proprio che oramai possiamo andare ognuno per proprio conto. Non ho più voglia di ascoltarti. Saverio — L’Irene, che è come te e capisce anche di più, mi ascolta e sa rispondermi. Mario — Tutto, per te, finisce sempre con una parola, l’Irene. Saverio — M i tratta con rispetto e mi ha ridato coraggio. Mario — Ringrazia me che ti ho lasciato fare sem pre lo stupido con lei. Non illuderti per l’Irene, è soltanto più gentile di me e ha molta pazienza. Se non si fosse trattato soltanto di questo e di tante chiacchiere da parte tua, vi avrei fermato con un dito. L Irene si *arrabbia con me, ci si arrabbia sem pre quando nell’amore c’è sostanza; ma non si stacca da me nemmeno se ci provi con la mannaia. Saverio —- Il cuore spesse volte è più forte di una mannaia. Mario — E tu va’ avanti con le parole, con i pen sierini rosa, se ti serve di cura. Te ne accorgerai appena questa partita insieme è finita. L’Irene ha bisogno di vedere che un uomo è forte, deciso, che sa difenderla con le mani se c’è bisogno, magari anche picchiarla con quelle stesse mani per tenerla in riga. Saverio — La difendi tu che la lasci vivere come una zingara? Mario — E’ lei che ha gusto a vivere così, altri menti avrebbe già trovato uno straccio d’uomo con GIAN PAOLO CALLEGAR! il quale fermarsi per mettere al mondo figli come una coniglia. Io la difendo come piace a lei, anche se non si vede. Saverio —- No, è l’Irene che protegge te, che ti ripara. Ed anche se ora sono soltanto tutti discorsi, io saprei mettermi davanti a lei e non dietro. Mario — Non faccio da quattro settimane questa marcia fra mille pericoli per fare la cura dei ragio namenti. Ho bisogno di mettermi in salvo, di riavere la mia gamba in ordine e di riprendere a vivere. E ora ho fame... Saverio —■ Tu la sposeresti? (L'irene affare di lena a salire sidla scala a fioli che per il fortellone im mette nell’aia. I due non la vedono subito). Mario (cinico) — E tu, il mio prete, la sposeresti? Irene — Giocatemi a briscola dopo, non ora!... Deve ancora nascere quello che mi chiude nel pol laio a covare le uova... Badate piuttosto alla pelle, in questo momento... (Si guarda un visibile stravfo alla gonna e a una gamba nuda che le sanguina abbondantemente). Saverio — Che ti sei fatta? Irene —• Non ci si può muovere ora, c’è movi mento di tedeschi, stanno risalendo la strada che passa sull’argine... (A Mario) Dammi il pettine! (Mario le dà un ficcolo fettine che ha in tasca). Saverio —- Dovremo fermarci finché sarà buio. Irene (sciogliendosi i cafelli per fettinarsi) — Non credo. Mi sembra che vadano via da qui, indietro. (Si ode un urlo dalla botola) Non sono capaci di farlo tacere? Mario — Gli riprende la crisi, al vecchio... (Va a inginocchiarsi sulla botola per ascoltare cosa accade sotto; poi dice dentro la botola) Tappategli la bocca, ci sono i tedeschi in giro, li ha visti l’Irene! Adriano (la voce dalla botola) —• Teneteli d’oc chio!... Bruchili; acqua e aceto subito!.. Bruchin (la voce dalla botola) — Accidenti!... Un calcio come un mulo!... Saverio (siede sul fieno, mentre Mario resta a guardare dentro la botola a quanto accade di sotto; Irene seguita a fettinarsi. Saverio guarda la gonna straffata di Irene e la gamba che sanguina, indi cando) — Come hai fatto? Irene — A passare la siepe. Ho i piedi pieni di spini... (Saverio con il fazzoletto comincia ad asciu garle il sangue) Ci sono attorno quelli dei fili tele fonici, ritirano la linea. Ho dovuto sganciarmi a palla di schioppo dal maresciallo di ieri sera... (Mario si volta dalla sua osservazione alla botola e torna verso Irene). Mario —• Ti ha vista? Irene — E’ venuto al pozzo mentre mi lavavo. Mario — Dici sempre le cose a pezzi e non ti fai mai capire. Irene —■ Neanche tu sei un avvocato quando parli... C’è da stare con le orecchie dritte, non si fida di voi. Ho dovuto dire che siete già andati e che io mi sono fermata ad aiutare la Matilde perché la serva non sta bene con il vino che le hanno dato da bere ieri sera... «Tuoi compagni alles rebelli» diceva... Ho dovuto rispondere che io vi conosco poco più di lui, che vi ho trovati ieri sul lavoro... Mica si è tutti amici se per un giorno si lavora in sieme e si mangia insieme... Scuoteva la testa, « po- lizei, polizei! » ha detto. Capite? (Si siede sul fieno, con Mario e Saverio di fronte; si falfa i fiedi rovinati). Saverio — E la siepe? Irene — Sono corsa da quella parte, proprio nel fitto e lui c’è rimasto impigliato né dentro né fuori, mentre io passavo di là. Mario — Bel giudizio fare la casta Susanna e la scontrosa! Era meglio che facessi un poco la com media e lo calmassi. Irene — Va’ giù te a calmarlo con il tuo sorriso d’angelo! A me non va. Saverio (a Mario) —• Cerca il tedesco, tu che le donne le difendi! Irene (frende Saverio fer il fetto) — Non provo carlo! Litigare fra noi è come mandarli a chiamare e farsi prendere. Ho detto che non ci siete più. Forse ci ha creduto. Hanno molto da fare ora, rac colgono i fili. Saverio — E se viene qui, come si fa? Mario — C’è la Matilde, dirà le stesse cose dette dall’Irene. Saverio — Questa volta l’Irene non se la farà scap pare. E’ meglio che uno di noi... Irene (interromfendo) — Se torna a cercarmi, tu stai sotto il fieno zitto e cheto, come tutti. E’ con te che ce l’ha, crede che tu sia il mio amante e che per te non voglia andare con lui. Mario (ridendo) — Ah, ah!... Finalmente fai una buona figura per merito di una donna, prete! (Si ode un altro grido di Vittorio dalla botola). Saverio — Voglio vedere se la sai fare tu una buona figura per l’Irene se il tedesco viene a cercarla ancora. Mario — Nessuno ha qui da fare la bella figura: qui la pelle dell’uno è legata a quella dell’altro come le salsicce... Qui c’è da stare zitti tutti, anche Vit torio che, se muggisce ancora, non guardo in faccia nessuno e lo sgozzo come un maiale... Voglio arri vare salvo dall’altra parte, nessuno ne ha tanta voglia quanto me!... Chiaro? Irene — Non dovete mettervi pensiero per me. Non intendo mettere io in pericolo la vostra pelle. Me ne andrò via da sola, facendomi vedere dal tedesco e state certi che verrà dietro a me e non a voi. Mario — Tu non vai via! Prova a muoverti di qui! Irene (ironica) — Ah, ti innamori adesso?... Ti vanno a gusto le cose quando le perdi... Saverio —• Non hai da andartene, Irene. Se pro prio lo vuoi ti accompagno io. Mario — Nemmeno tu ti muovi!... Non mi fido di nessuno. Siamo sospettati. Irene (alzandosi) — Va bene. So io cosa ci vuole perché stiate in pace. Saverio — Dove vai? Irene — Alla baracca dei tedeschi. Se vado a letto con quel porco, nessuno vi cercherà, nessuno vi toc cherà. Ci vado! Va bene?... E’ il programma di Mario, no? Ci vado subito! Saverio — Non è il programma mio! Non ho bi sogno che tu mi salvi e saprei io salvarti se occor resse. (La trattiene). Mario (cinico) — Tutti eroi e tutte teste calde!... Non intendevo mandarti a letto con il tedesco, ma dico che ci vuole un po’ di garbo, un poco di commedia... A questo punto non resta che infilarsi in una chiavica come i topi e attendere... Voi cam perete d’amore, beati voi. Io mi sento svuotare dalla fame. Porto su un poco di pane e salame? Bruchin dice che ne ha messo da parte un pezzo. Irene — Mica va male mangiare qualcosa. Senza carburante le gambe non vanno e qui le corse non finiscono mai. Mario (a Saverio) — C’è da tener sempre quella faccia?... A me è passata. Sono discussioni che si fanno nel momento della paura, poi si ragiona calmi e ognuno ha un po’ di ragione... Irene (a Mario) — Guarda se trovi ¡anche un po’ di prosciutto!... (Mario scende per la botola; Irene si rivolge a Saverio) Che hai? Non devi essere ge loso, è ridicolo essere geloso di una donna come me... Con me bisogna prendere quello che si trova, nulla di più. Guai stare così, come te, con la testa... (Si interrompe). Saverio — Finisci! Irene — Volevo dire la testa nei sogni, nelle nu vole, non so... Saverio — Perché parli ancora della mia testa?... E non mi ascolti... E non mi ascolti ora, quando proprio tu mi hai cambiato. Irene —• Vienimi vicino. Non essere arrabbiato. Saverio — Questa notte eri diversa con me. Ti ho creduto. Irene — Sono stata felice anch’io questa notte. A dormire abbracciata a te, mi sembrava di avere ma rito, proprio come le altre donne... Mario è diverso, poi lo vedi : mi tiene con una catena ma non gli importa quello che faccio... Deve essere bello avere IRENE FRA DUE RIVE marito... Il marito è anche geloso, come te, vero?... Lo sai che non ho mai dormito con un uomo, pro prio così, tutta la notte nel letto? Saverio —- Anche per me è la prima volta. La prima di tutto, di tutto... (La fissa). Irene — Vuoi dire che non eri mai stato con una donna?... Saverio — Da lontano soltanto la guardavo Sarina. Eppure anche con gli occhi ci facemmo capire e scandalo fu, terribile. Avessi avuto il coraggio di scappare con lei, come fece uno dei contadini nostri che si portò la figlia sedicenne di un mulattiere, povera come una canna al vento d’inverno... La fa miglia di lui non voleva, questione della dote; e lui la nascose in una grotta per un giorno e una notte, una grotta dove dicono che anche Proser pina si nascondesse quando Plutone... Sai chi è Proserpina? Irene — Io non leggo i giornali... Se non è una santa del tuo paese... ma vado poco anche in chiesa. Saverio — Proserpina era una santa dell’inferno e scappò come fece il mio contadino... ma non conta che tu lo sappia, Irene... Quel ragazzo, dopo un giorno e una notte nella grotta, si presentò con la mulattiera a mio fratello e disse: «Bacio le mani a vossia e vi presento la mia rispettabile signora... Fateci complimento di portarci in grazia vostra a mio padre che ne perdoni tutto quanto»... Lui così disse e mio fratello lo accontentò... ma a me mio fratello non avrebbe mai contentato! Irene — Tu parli sempre di Sarina e di quello che non hai fatto con lei. Saverio — Perché tu sei anche Sarina, ma sei an che di più, tutto completamente... Irene — ... la prima e la sola... (Saverio accenna dì sì; Irene lo abbraccia quasi commossa) Oh Save rio, è tanto bello per me... ma tu meriti una donna più a posto di me; una donna, voglio dire, dalla faccia pulita... Per Mario sono anche troppo, credi! Saverio — Anche tu parli sempre di Mario quando si tratta di noi soli. Irene —• Perché Mario è quello che mi tocca, il resto sono fantasie che mi danno un filo di calore, ma per poco... Saverio — Dipende da te, perché io te l’ho già chiesto se vuoi... Irene — Sei proprio un bambino, credi che il mondo finisca fra le braccia della prima donna che hai avuto, qualunque essa sia. Non avrai bisogno di molto tempo per convincerti che il mondo va più in là della prima, della seconda, della terza e che quasi tutte sono immondezza... Saverio — Non sarà così per me, lo sento. Irene — Dicono tutti così e finiscono tutti allo GIAN PAOLO CALLEGAR! stesso modo. Mario è furbo, lo sa e per questo ride di quello che facciamo. Saverio —■ Se ne è accorto di noi due? Irene — Penso di sì, ma non mi importa; forse importa poco anche a lui, perché gli servo e crede che tu sia per me una prova divertente, soltanto. Saverio —• Questo sono per te? Dimmelo! Irene — No, no, ti giuro!... Io sono per te un passaggio che ci voleva, come ci vuole il fiato per vivere... Tu mi ricorderai, mi ricorderai?... Saverio — Ricordare da questa notte in poi, e dimenticare dietro, questo dovremo... (Stanno stretti un attimo. Irene si stacca imbarazzata). Irene — Questa notte lo hai visto: non mi sono fatta toccare neanche le dita dei piedi da lui. Ed è stato per te, credimi. Saverio — Se io fino all’alba mi fossi trattenuto accanto a te lassù? (Indica la sommità del fieno dove ■prima dormiva Irene). Irene — Che lui ci vedesse insieme per me era lo stesso... Non guardarmi fissa, provo vergogna certe volte con te... Saverio {amaro) — La vergogna davanti al prete... Mi vedi sempre con la veste nera! Irene — Non è questo, non sei mai stato prete. E la vergogna di fronte a un uomo che è diverso da quelli avuti... sei meglio, ma sei anche peggio... Non so spiegarmi. Nei primi giorni mi facevi rabbia anche con i tuoi discorsi; ma ora tremo di dentro quando ti sento e mi sembra che tu parli in un modo nuovo. Anche il tuo modo di prendermi per il braccio, come fai ora, è diverso da quello delle prime volte. Oppure sono cambiata io e allora sei stato tu a farlo. Saverio (stringendosi a lei) — Io sono cambiato; e tu mi hai cambiato... Forse lo avrebbe potuto anche Sarina se l’avessi avvicinata; o un’altra donna, non so. Ma in verità tu sola mi hai cambiato... Il vescovo disse: «Tu hai perduto l’angelo custode nel pec cato e perciò sei piombato nella confusione che annebbia chi ha smarrito la grazia, cioè l’angelo»... Ora mi sembra che l’angelo sia tornato, perché non sento più, anche addosso a me stesso, quello che sentivo prima... I libri sacri dicono che l’angelo custode può prendere anche forma terrena; per Tobia divenne un cane fedele... In te c’è il mio angelo ora e non mi deve più lasciare... Non mi devi lasciare, non ci dobbiamo lasciare! Irene {si distacca da lui) — Un angelo che dice brutte parole e cammina nel fango?... {Rìde) Non si tratta dell’angelo ma di te stesso, credi a me. Hai ripreso coraggio, hai finalmente cominciato a sen tirti un uomo, questo solo... Non ti conviene pen sarmi troppo, oramai siamo alla fine. Appena arri veremo dall’altra parte, troverai modo di tornare a casa tua. Con le disgrazie e la paura che tutti in tutto il mondo abbiamo provato, anche tuo fra tello sarà migliore e ammetterà le cose che prima non digeriva... Dicono che i treni da Firenze in giù hanno ripreso a camminare; impiegherai qual che giorno, la Sicilia è lontana, ma arriverai. Ci scommetto che anche i siciliani saranno cambiati, con tutte le loro idee all’antica, e non pretenderanno più di farti prete per forza. Saverio —■ Io non andrò, se tu non parti con me. Irene — Tu partirai, Saverio, ed io resterò qui nella Bassa, dove parlano come me e, se sono poco schietta, ci passano sopra. Vuoi portarmi con te ora, perché ti sembra che sia la sola donna al mondo, perché io sola per la prima volta ti ho fatto sentire che sei uomo, come tutti; ed avevi proprio bisogno di questo per stare meglio... Il primo paese che traverserai, dove ci saranno tante donne contente e sicure che camminano ben vestite a testa alta, fuori dalla paura per la quale ci sentiamo piantati fino al collo nel fango a tremare come bestie da macello... nel primo paese pacifico, dico, ti passerà tutto e a me guarderai con meraviglia per te stesso di tutto quanto hai detto e fatto con me, oppure con pietà. Ti accorgerai allora che sono una vil lana, che può fare la sua figura dietro una siepe 0 nella risaia, ma che sotto la luce dei grandi negozi, sul selciato ad asfalto delle strade ben pulite, fa l’effetto di quelle zingare che vanno in giro con i pappagalletti e i pianeti della fortuna... Non voglio né pietà né delusioni, capisci?... Guardami le mani, 1 piedi!... Sono una bracciante, una donna di cam pagna e fatico a seguirti in tanti ragionamenti. Tu fra poco sarai il signorino meridionale, vestito di nero come uno scarafaggio alla vostra usanza, ma signorino pulito e riverito. Fossi almeno non toc cata come la frutta in cima agli alberi... invece lo sai come sono!... Ti andrebbe bene, con il tempo, una donna rozza e ruvida come le bestie da tiro, tu che sei abituato alle vostre donne di famiglia tenute in casa con lo stesso riguardo della biancheria pulita?... Senti la mia pelle, qui!... {Si fa toccare un braccio nudo)... E qui!... {Si fa lisciare un polpaccio nudo) Sono aspra e grossolana, quale è la vita che ho sempre fatto. Le rivedrai le donne con la pelle tanto dolce che sembra addirittura malata. E allora l’Irene ti passa allo stesso modo che passa il sapore del pane secco appena si mette in bocca una fetta di torta!... Vedrai che non mi sono sbagliata! Saverio — Non sarà come dici, lo so. Io penso, penso sempre, anche troppo. E se sono stato tanto male è perché penso troppo, fino a confondermi. Ho paura che senza di te tornerà la confusione di prima. I tuoi discorsi sono sempre cose che si pos sono toccare e con te non aspetto, non cerco ma trovo quello che diciamo fra noi, che io voglio... Non vuoi venire con me perché andrai con Mario? Irene — Andrò con Mario, ma non perché non voglio venire con te. Non vengo per il tuo bene. Invece Mario è come me ed anche se ci guardiamo senza entusiasmo, sentiamo di essere attaccati allo stesso carro. Tiriamo insieme con la stessa miseria, ma tiriamo insieme per forza. Saverio — E’ questione di volontà, forse di amore... Come io sto cambiando vicino a te, anche tu con me puoi cambiare, senza nemmeno avvedertene... (Dalla botola entra Mario, angustiato e trafelato). Mario — I tedeschi! (Saverio e Irene balzano in ■piedi) Non muovetevi, state zitti! Irene ■— Dove? Mario — All’ingresso della cucina. La Matilde sta parlando, cerca di trattenerli. Ho fatto in tempo a nascondermi. Saverio — Adriano? Mario — E’ sempre nella stalla col vecchio. Sta male, Vittorio, trema tutto ed è viola... Adriano gli ha messo un fazzoletto dentro la bocca perché non possa gridare. Se entrano nella stalla siamo scoperti. Saverio — Piai capito che cerchino noi? Mario — Ho capito soltanto che il maresciallo cerca l’Irene. (I tre si guardano e poi in silenzio Irene e Saverio strisciano sul pavimento ponendosi distesi sul ventre l’uno accanto all’altro a guardare giù dal portellone, tenendosi nascosti dietro il bat tente accostato. Alario resta accoccolato più indietro, teso, in ansia. Una voce di soldato tedesco canticchia annoiato e rauco la prima strofa di « Lìlli Marlene »; si ode qualche passo pesante sull’aia). Mario (dopo una lunga pausa angosciosa) — Lo capite? Ci trovano!... Ci possono fucilare anche su bito!... Irene, scendi, fatti vedere!... E’ te che cer cano... Mica ti vuole far male il tedesco, lo sai cosa cerca. Irene — Lo so da ieri sera. Era meglio che non scappassi quando mi ha vista al pozzo. Saverio — Perché deve scendere lei? Mario —• Per lei si tratta soltanto di lasciar fare, di avere pazienza... Per noi è la pelle!... Irene, per ché mi guardi così? Irene (si alza) — Va bene!... Vado giù!... (Saverio l’afferra, la tira ancora per terra). Saverio — No, tu non scendi!... Sta’ qui!... (Indica Mario) E’ lui che ti vuole bene?... E’ lui che seguirai? Irene — Sta’ zitto, per l’amore di Dio!... Ci facciamo prendere tutti! Saverio (eccitato) — Di’ a lui che scenda, che parli con il tedesco, che lo mandi via!... Di’ a lui che ti difenda!... (Si alza di scatto e scende la scaletta che porta sull'aia). IRENE FRA DUE RIVE Irene (protendendosi) —■ Saverio!... Saverio!... (Ma rio si lancia a carponi accanto a lei, l’afferra). Mario — Taci!... Sei pazza anche tu, come lui!... (Stanno distesi a terra guardando giù dal portellone, in una ansiosa tensione). Irene (dopo un poco) — Scendo anch’io, non posso lasciarlo solo. Mario (la inchioda al suolo perché non si muova) —- Ferma! Irene — Lo fa per me!.... Tu non lo avresti mai fatto! Tu sei un vigliacco, lui no!... (Mario lotta con lei a terra per trattenerla; ella si dibatte) Vi gliacco!... Vigliacco!... Mario — Stanno parlando... Taci!... Irene — Altro che discutere, lo portano via! Mario —■ Che gli debbono fare? Quando si accor geranno che è pazzo... Irene — Non è pazzo!... Io l’ho capito perché era pazzo... ma non lo è più! (Dalla botola entra Adria no agitato e si avvicina pure liti strisciando). Adriano — Dovevate fermarlo. Mario — Si è buttato giù come un falco... Voce soldato tedesco (rauca dalla corte) — Hi- neinL. Hinaus!... Scimeli!... (Si ode sbattere la porta della casa di Matilde; poi passi). Irene (a Mario) — Tu hai paura!... Lui no!... Man da me ora, mandaci tutti per stare nascosto tu!... Vedi che tremi!... Mario — Non l’ho costretto a scendere... (Si ode una raffica di mitra). Irene (con un grido) — Ah! Mario (tappandole la. bocca con violenza) — Taci!... (Restano tesi a guardare). Adriano — E’ caduto dietro la siepe. Non si vede... Mario —■ E’ fra la siepe e il pozzo, più vicino al pozzo... (Subentra un attimo di silenzio assoluto, dentro e fuori. Irene sconvolta arretra, va a sedere sopra il fieno; si abbraccia le ginocchia e posa sulle ginocchia il mento fissando avanti, mentre gli altri due scrutano fuori, sempre distesi al suolo). Irene — Non era pazzo, era un ragazzo che aveva bisogno d’amore... Perché nessuno lo capiva, nessuno gli voleva bene, si comportava come un matto! Adriano — Sono stato un anno con lui. Aveva soltanto delle fissazioni, ma il più delle volte ragio nava bene. Irene — Era come noi, meglio di noi. Ha voluto farmelo capire. Se una donna gli avesse voluto bene davvero, sarebbe stato sempre normale... Poteva ri manere qui nascosto, come noi, come te. (Indica Mario). Mario —■ Solo uno con le rotelle in disordine può andare contro i mitra così. Irene — Rispettalo almeno ora. Ti ha fatto comodo. GIAN PAOLO CALLEGAR! La pelle a tutti ce l’ha salvata lui... (Si ode lontano il rumore di un automezzo). Adriano —• Vanno via! Mario —■ Conosco le carogne che sono. Possono nascondersi dietro l’argine per beccarci tutti insie me... (Entra dalla botola Matilde, che è compieta- mente vestita come nel secondo atto). Matilde — Che disgrazia!... Come si fa ora?... Lo sapevo che finiva così con voi!... Torneranno ad arrestarci tutti!... (A Irene) E’ colpa tua, bestia! Do vevi dirmelo ieri sera che non era gente sana di mente!... Avrei chiuso la porta, vi avrei lasciati fuori!... Mio marito e mio figlio li arresteranno per la strada mentre tornano... Per colpa vostra!... (A Irene) E tu dicevi che volevi bene a mio figlio!... Ecco il tuo bene! Irene — Non abbiate paura, Gianni tornerà. E’ lui, Saverio, che non tornerà mai più a casa sua. Non dovete arrabbiarvi, siamo tutti in una disgra zia... (Mario e Adriano si alzano, si avvicinano). Adriano — Bisogna andare a prenderlo. Può essere ancora vivo. (A Mario) Vieni con me! (Mario non si muove). Matilde — Meglio portarlo su nel fienile, qui!... In casa è un pericolo per noi. Qui non lo cerche ranno. Adriano (a Mario) — Ti muovi?... Su, andiamo! Mario — Non vengo! Non c’è bisogno che ci ri mettiamo la pelle tutti per uno solo. Adriano (duro) —• Non credo che tu abbia com battuto contro i tedeschi. Ti sei impastato di paura. Dove hai preso quella fucilata nella gamba?... Hai soltanto paura!... Saverio era un nostro compagno, siamo insieme da un mese e tu non senti il dovere... Mario (interrompe agitato) — Abbiamo corso fin qui per salvarci e forse ci siamo salvati ed io non rischierò mai perché un pazzo... Irene (alzandosi di scatto) — Vengo io! (Ad Adriano indicando Mario) Lascia perdere questo straccio, tornerà pieno di coraggio quando ci sarà da andare in cento contro uno, oppure quando ci sarà un ma gazzino da vuotare. Mario (a Irene) — Venne velenoso!... Tornalo' a dire che ti mando i denti in gola!... (Irene lo guarda a sfida senza rispondere, Mario non si muove. Ella con Adriano scende la scala a pioli che conduce giù nell'aia. Matilde resta un attimo a guardarli, poi si volta verso Mario). Matilde — Io non centro con le vostre liti, ma voglio che andiate via tutti al più presto. Devo sal vare mio figlio, mio marito. Il vecchio lo terrò na scosto, se volete. Oppure lo portate via con il faz zoletto in bocca, perché può camminare... Cosa ci vuole? Lo lascerete più avanti; tanto a lui del male non ne possono fare, non ragiona affatto, non parla, è come un povero animale... L’altro poveretto, non so; vedremo con mio marito. Mario (siede tranquillo e, preso fuori da una tasca pane e salame, comincia a mangiare) — Io non centro più cogli altri. Dite tutto ad Adriano. Per mia parte il disturbo lo tolgo presto, me ne vado da solo. Con la gamba sto meglio e a mescolarmi con gente senza giudizio ci rimetto. Al vecchio ci penserà Adriano, io penso a me solo. Se si va in giù, verso Firenze, magari fino a Roma, ci sarà da fare bene. Vi immaginate il traffico che ci sarà dove la guerra è finita? Matilde — Non vi capisco e non mi sembra nem meno che facciate una buona figura con i vostri compagni. Avete combattuto, avete rischiato la vita per stare libero e ora mi sembra che sia tutta una questione di commercio, per voi... Mario — E per voi non è commercio, forse? Dal momento che vi ho conosciuta, avete parlato sol tanto delle vacche che vi hanno fregato. Oh, non vi dovete offendere, tutta la guerra è così, anche per quelli che dicono di trovarci un sentimento: è questione d’affari. Matilde — Il vostro compagno Adriano parla in un modo diverso, e dimostra che ci crede a quello che dice. M i ha detto tutto quando siamo stati in sieme a tenere fermo quel povero vecchio. Mario — E’ questione di saperci mettere sopra lo zucchero. Io non ce lo metto... Porterò via soltanto l’Irene. Matilde — Rimandatela al suo paese, che si metta in pace. La state rovinando tutti quella ragazza. Mario — Siete diventata di cuore tenero per lei, dopo averne detto peste. Non abbiate paura che gli americani la sciupino. Matilde — Non sono discorsi puliti che fate. La Irene non è una santa, lasciatelo dire da me che mi sono rovinato il fegato quando se l’intendeva con mio figlio... Ma ho ancora un poco di sentimento e mi sembra un delitto spingerla nel fango fino al collo. Credevo che ve la foste portata dietro per rimetterla in piedi e mi faceva piacere, anche se davvero lo « sparaviri della Juppa » sotto il mio tetto non l’ho rivisto di gusto. Può tornare una donna come si deve, se incontra un uomo con un pizzico di coscienza; ma voi la coscienza l’avete sotto le suole delle scarpe, è il fango che pestate! Mario (ridendo aspro) — Senti chi predica! Se c’è una che ha dato della puttana ogni due parole all’Irene, siete voi! Quando c’era di mezzo vostro figlio era da scorticare viva, ora va indorata e inco ronata! Matilde (avvicinandosi al portello al rumore dei passi) — Basta! Avete il veleno nel sangue da par lare in questo modo?... (Dopo una pausa) Si muo- ve!.. E’ ancora róvo!... Potrebbe anche essere una ferita da poco... Il Cielo lo aiuti, che possa tornare a casa quel povero ragazzo!... La voce di Adriano (da sotto il fienile) — Dateci una mano!... Matilde!... Mario!... (Matilde si pro tende al portellone, Mario si alza in piedi senza avvicinarsi). Matilde — Ecco!... Fate piano!... Su, forza!... (Dal la scala a pioli appare Adriano che porta a spalle Saverio ferito e insanguinato. Matilde aiuta a ti rarlo dentro. Saverio viene portato sulla soglia del portellone al suolo; si muove appena. Dietro Adria no viene ultima Irene). Adriano — Posiamolo sul fieno... Piano, ché perde sangue! Matilde — I sacelli! (Irene corre a prendere i soc chi vuoti e li distende sul fieno). Adriano (a Mario) — Che stai a guardare?... Aiuta! (Mario aiuta Adriano a trasportare Saverio sui soc chi. Adriano, Irene e Matilde si inginocchiano ai suoi lati, mentre Mario resta a guardare in piedi. Adrano toglie faticosamente la giacca al ferito per scoprirgli la ferita) Piano!... Sollevategli la testa!... (Irene solleva la testa a Saverio). Saverio (con voce fioca) — Irene... Irene —■ Sì, sono qui! Non parlare. Se stai tran quillo, guarisci prima. Devi tornare in Sicilia presto. Saverio — In Sicilia... non tornerò in Sicilia... Matilde — Due o tre settimane d’ospedale... Ma gari fate convalescenza qui... Ora viene il bel tempo e la campagna fa bene. Saverio — M i piacerebbe tanto... Irene — Cosa ti piacerebbe? Saverio — ...mangiare un’arancia... non ne assag gio più da quando ero a casa... Matilde — Non se ne trovano più da queste parti da molto tempo. Ma ho delle pere sciroppate... Adriano (piano) — Come si può fare?... E’ lon tano l’ospedale? Matilde — Al paese, otto chilometri. Potrei darvi il carretto, ma che ci attaccate? Il cavallo è stato requisito, le vacche se le sono prese ieri... Irene — Non è mica un treno il carretto. Posso tirarlo io. Adriano — Io e l’Irene. Si può fare così. Non pos siamo tenerlo in questo stato senza un medico, sen za qualche cura. Mario — Vi dimenticate i tedeschi. Vi farete pe scare come due pulcini. Adriano — Se avessimo fatto il tuo ragionamento quando ti trovammo in terra ferito, dove saresti ora? E’ un nostro compagno e la sua vita conta come la nostra. Irene (a Mario) — Non temere, non ti chiediamo di venire anche tu. Anzi, posso andare io sola. Una IRENE FRA DUE RIVE donna se la cava sempre; lo sai anche tu che mandi di regola le donne avanti. Non è pesante il car retto... Mi gioco il collo che se incontro dei te deschi mi aiutano pure!... (Severa) Me lo hai inse gnato tu, Mario, come ci si comporta per tenere calmi e soddisfatti i tedeschi!... Saverio merita che lo faccia di buona voglia, senza schifo. Andate a prendere fuori il carretto. (Nessuno si muove. A Mario) Va’ tu a prenderlo fuori. Abbi almeno il grande eroismo di aprire da solo la porta della ri messa qui sotto! Mario — Tutti l’avete con me! Volete che i tede schi mi sparino. Possono essere dietro la siepe... Adriano —• A noi non hanno sparato. Mario — Perché portavate un ferito. (Rumore■ di autocarri) Sentite? Sono molti! Irene — Vigliacco... (Mario non reagisce) Va bene, di te non c’è bisogno. Adriano (a Matilde) — Avete qui la chiave della rimessa dove sta il carretto? Matilde — Si apre senza chiave. (Entra eccitata dalla botola Bruchin che è già vestita come la sera avanti: ha gli zoccoli in mano per salire più lesta la scaletta a sbarre). Bruchin — Padrona!... Padrona, stanno arrivando! Adriano — Chi arriva? Bruchin — Guardate! Si vede anche da qui!... Gli americani! (Tutti accorrono al portellone del fienile; soltanto Irene rimane inginocchiata accanto a Sa verio che è ad occhi chiusi e respira sempre più a fatica. Il rumore dei mezzi meccanici aumenta av vicinandosi). Matilde — Se Dio vuole, è finita!... E’ finita!... (Bruchin si infila gli zoccoli). Mario — Era tempo!... Due anni che aspetto... Porca miseria, è venuto il giorno!... Adriano —• Non c’è più bisogno del carretto. Corro incontro a loro, sono sicuro che ci aiuteranno a por tare Saverio all’ospedale con un autocarro. Bruchin — Guardate quella fila laggiù, lungo l’argine! Sono più degli stomi per l’uva! Adriano (aprendo la seconda metà del portellone a fatica) — State con lui. Spero di tornare a pren derlo tra pochi minuti con una macchina. (Scende velocemente la scaletta a pioli che porta nell’aia). M atilde (torna verso Saverio, mentre Mario se guita a guardare la sfilata dei mezzi alleati dei quali si ode sempre il rumore) — Fatevi forza, Sa verio!... Sono arrivati finalmente gli altri ed è finito tutto! Tutto, finalmente!... Ora vi porteranno al l’ospedale e non vi mancherà nulla per la cura!... Vedeste quanti sono, con i cannoni, i carri armati... Bruchin (si avvicina a Saverio come scoprendolo ora) —• Mamma mia!... Come è stato?... Quanto sangue!... (Irene le stringe il braccio per farla tacere). GIAN PAOLO CALLEGAR! Matilde (a Bruchiti) — Porta asciugamani puliti, due o tre, di quelli a spugna che stanno nel mio cas settone... Quelli del corredo, capito? Svèlta! Bruchin (sfilandosi di nuovo gli zoccoli e correndo a ficài nudi per fare prima) — Subito!... Ci vorrà anche dell’acqua tiepida! (Esce per la botola). Mario (si avvicina al gruppo formato da Saverio inerte e dalle due donne) — Ora posso andarmene, tanto non sono certo io che lo posso curare... Se poi arriva un autocarro per trasportarlo, servo an cora meno... Irene — Dove vai? Mario — In giù. Verso Bologna. Dovrei forse tor nare indietro? Irene (dura) — Non ti conviene. E’ più prudente che tu vada dove non ti conoscono. Mario — Il tempo per usare certi toni è passato e puoi trovarti male assai a provarti ora. Finalmente tiro il fiato come mi piace perché adesso ognuno può fare quello che gli pare, se ci sa fare. Matilde — Parlate piano, riposa... Mario — Non lo disturberò ancora molto. (A Irene) Muoviti! Vieni con me. Saverio (fioco) — Irene, dove vai?... Resta qui... (Le prende la mano). Irene — Non vado via, Saverio. E’ Mario che se ne va, e, finalmente, se ne va del tutto. E’ venuto il suo momento, quando non si rischia più la pelle e chi ha le mani svelte trova da fare bene... Mario — Benedirai le mie mani, quando mangerai meglio di ora. Ti ho detto di venire via. Muoviti! Andiamo verso Ostellato, là qualche mezzo che porta a Bologna si troverà. Questa sera voglio essere a Bologna. Irene (ride ironica) — Io non vengo, sono libera anch’io ora. Con te viene ciò che ti interessa! (Si fruga in seno e prende fuori un involto) Ecco!... Ora puoi andare a vendere la roba che hai rubato! (Mario le strappa l’involto dalle mani). Matilde — Dove hai rubato? In casa mia! Mario — Non ho rubato da nessuna parte. E’ que sta carogna che vuole rovinarmi, soltanto perché non le piaccio più. L’ho aiutata quando moriva di fame, le ho fatto del bene e lei... Irene — Il tuo bene!... Sono stata stupida, questo sì. Ma ora basta!... Questa brava gente ti ha cre duto. La lotta contro i tedeschi, i partigiani!... Un rapinatore, altro che partigiano!... I veri partigiani non hanno la tua paura e la tua faccia!... Mario (muovendosi verso il portellone) — Sputa il tuo veleno finché ne hai! Se hai perso la testa per il prete spretato, vagli dietro, anche all’altro mondo, se ti pare. Credevo di farti un piacere a portarti con me, a stare meglio... Sempre così le bestie disoneste: prima leccano la mano e poi la mordono! Me ne vado, ma se ti incontro, sta’ at tenta! Irene (balza in piedi di scatto e lo ferma a forza) —■ Prima le devo dire tutte sulla tua faccia lurida! M atilde — Non litigate qui! Sembrate degli ani mali! Questo poveretto sta male! Saverio (con il solito fìl di voce) — Lasciatela par lare... devo sapere... Irene (trattenendo per la manica Mario) — Tu mi senti, Saverio!... Devi sentire!... La ferita alla gam ba, i tedeschi? Gli avete creduto, lo avete aiutato e invece era andato a rubare da un orefice e sera preso una fucilata scappando!... Se restava al suo paese, finiva dentro; se lo prendevano i partigiani 10 facevano fuori come un ladro che si finge un soldato... E voi l’avete portato a spalla credendolo un eroe! Mario (si divincola di scatto) — Serpe velenosa!... (Le dà uno schiaffo) Non mi fai paura!... Non mi fate paura nessuno! Matilde — Due donne e un ferito che non si può muovere. Irene — Ecco il tuo coraggio! Dichiarare che non hai paura quando la paura non esiste più per nes suno!... Tutti sanno chi sei ora! Vattene! Mario — Con te i conti non sono finiti! Irene — Falli ora con me, con i tuoi compagni che ti hanno dato il rispetto che non meriti!... At tendi che torni Adriano e ripeti che non hai paura. Mario — Dicevi di volermi bene!... Che verme mi sono portato addosso! Irene — Mi vergogno di averlo detto. Era poco rispetto che avevo di me, ma in un minuto si può ritrovare la forza per rispettarsi da sola, mi rispetto non per le disonestà che ho commesso, ma per il coraggio di avere detto la verità, per aver saputo- anche vergognarmi, finalmente!... (Mario scende la scaletta a pioli che dal portellone reca all’aia; scom pare come fugga) Scappa, come tutti i ladri! Ti troveranno, non illuderti... (Dopo una pausa) E’ stato bene così, per me e anche per lui, se si può salvare... Ma non è un uomo che si salvi, perché 11 male lo ha dentro e gli piace; gli piace anche quando non gli serve... Credere che due tegoli rotti come noi due, appoggiandosi l’uno all’altro, reg gano al vento... (Si avvicina lentamente a Saverio) Per questo gli andavo dietro, scontenta sempre, ma rassegnata all’idea che, malandata come sono, me glio non potevo trovare... Matilde, ve lo giuro: ne ho fatte a questo mondo, ma sempre con l’idea di fare meglio e confondendo il meglio con il peggio, e sempre per andare dietro alle debolezze del cuore e non al cervello... Matilde — Non parlare più. Lo fai agitare e deve stare tranquillo. (A Saverio) Adriano non dovrebbe tardare più: andiamo subito all’ospedale... Saverio — Parla, Irene... Sto meglio a sentirti par lare... (Irene nuovamente si inginocchia accanto a Saverio, gli prende la mano) Ti sei fermata per me?... Irene — Per te... Vedi, ti sono vicina e non mi muovo... Verrò anch’io all’ospedale e starò sempre vicina al tuo letto. Chiederò se mi danno una bran da per dormire accanto a te, come questa notte... Poi, appena ti potrai alzare, faremo la prima pas seggiata insieme... Saverio — Ti sei fermata soltanto perché sono fe rito, oppure... Irene —• Non sarei mai andata via con Mario. Se lo facevo, era soltanto per liberarti dall’idea di me, dopo il poco bene che ti ho fatto. E’ così difficile che faccia del bene io che questa volta volevo pro prio essere ricordata diversamente dalle altre volte. Tutti mi ricordano male. Chiedilo alla Matilde: an che lei ha sempre avuto paura per suo figlio e in vece, per suo figlio, chi ci ha patito sono stata io... Ma nessuno ci crede e se io ti dicevo che accet tavo subito di venire con te, non mi avresti più creduto... Non ne ho colpa io se gli uomini mi vengono dietro. Ed è per questo che io non sono una buona donna... E se mi rassegnavo a Mario è perché lui, alla stessa maniera mia, non è un uo mo buono... Non sono una buona donna, come credi... Saverio — Sei la migliore di tutte... Ho conosciuto così poco le donne io, che è difficile dirlo... Ma dico quello che provo, e tu mi basti per tutto... e so che la donna che posso volere è come te... sei tu... Matilde — L’Irene non è cattiva, è meglio di quello che sembra. Fra ieri e oggi l’ho vista meglio che per quaranta giorni lo scorso anno alla monda. Sono anziana e capisco la gente... Irene (a Matilde con lieve stupore) — Lo dice perché...? (Accenna a Saverio). Matilde — Dico quello che penso. Le ore di questa notte e di questa mattina sono state lunghe come tutta la vita e con dei fatti che dànno la vista anche ai ciechi. Saverio (animandosi un poco) — Il tedesco di ceva... « Mostra dove nascosta tua moglie e io ti lascio... Signora qui e tu libero... tua moglie ribella, fonogramma Feldgendarmerie... » e rideva... Non so cosa ho fatto... Ho sentito sparare, poi caldo, tanto caldo e non vedevo più nulla... mia moglie... (Stringe il braccio di Irene che si piega ancora più su di lui; egli tenta di carezzarle il viso, ma non ha forza). IRENE FRA DUE RIVE Irene —• Tua moglie... Senti che ho il coraggio di dirlo?... Mi porterai in Sicilia. Non so nemmeno dove sia, precisamente; so che è molto in giù e che ci sono le arance e i limoni... Là devono essere a buon mercato i limoni; da noi non si trovano nemmeno più... Al mio paese c’era una volta un arrotino che era siciliano e diceva sempre « Bacio le mani a voscenza». Noi bambine gli facevamo il girotondo attorno e gridavamo « terruni... terrone del tacco! ». M i sembra adesso... Invece siete gente a posto, voi siciliani... Saverio — Ecco, fatico a vedere... forse è il san gue che perdo... (don questa nebbia ti vedo già il velo... Irene (trepida, seguitando come in sogno il suo compito di confortarlo) — Non potrò metterlo io il velo... Per mettere il velo si deve essere... (Si interrompe, stretta da un singhiozzo; Saverio si pro tende invano per fissarla, ma non può). Matilde (confusa e commossa) — Ma che fa questa stupida? (Si alza e va verso la botola, chia mando) BruchinL. Forza, Bruchin, con questi asciugamani! Irene (mentre Matilde attende alla botola, proprio per lasciare i due lìberi di parlarsi) — Non ho avuto mai il coraggio di dirti di sì, c’era Mario... Non potevi credermi, ma ora devi credere perché hai sentito che io l’ho cacciato via... Saverio (sforzando la voce) — Sono come gli altri? Vero che sono come gli altri?... La confusione che avevo in testa mi è passata, lo sento... Sei stata tu ad aiutarmi... Mi vedi come gli altri uomini?... Dimmi la verità! Irene — Come Adriano, ti vedo, Adriano che è il più sicuro e il più pronto di noi... Come i ragazzi del mio paese, quelli che dicevano in gamba... E meglio di tutti, perché io ti voglio... (Non può finire). Bruchin (entra dalla botola) —• Non erano mica nel cassettone, stavano sotto le coperte di lana del padrone. (Porge gli asciugamani; Matilde la ferma e la conduce in un angolo, ancora per lasciare li beri i due). M atilde — Tieni ben teso, facciamo le strisce! (Bruchin tende il primo asciugamano che Matilde straccia a strisce). Saverio (sempre a Irene) —- Ci potremo sposare anche all’ospedale... basta che ci sia un cappellano... Per il matrimonio in « articulo mortis » non occorre altro... Irene —• Che dici? Verrò con te in Sicilia e sarà il mio primo viaggio... Non sono andata mai più lontano di Rovigo... Non farai brutta figura se GIAN PAOLO CALLEGAR! parlo, con gli sbagli che faccio?... Cercherò di im parare almeno i gesti, come li fai tu, che sei tanto garbato... Saverio — Il signor Vittorio è ancora nella stalla? (Matilde si avvicina con le bende seguita da Bruchin molto sconvolta). Matilde —■ E’ ancora là. Come si fa a badargli ora? (Si china su Saverio per medicarlo). Saverio — Dovete slegarlo... Non fa del male... Ora che i tedeschi se ne sono andati, non ce più timore che ci faccia scoprire... Mi ricordo anch’io quanto si soffre legati... legati fuori e dentro... (Si agita). Matilde — State fermo!... Tratteniamo il sangue. Adriano con la macchina dovrebbe già essere qui, sarà questione di minuti. (Comincia a fasciarlo). Irene — Potremo arrivare in Sicilia al tempo del raccolto... Si fa il grano da te? Saverio — Grano, uva, olio... tanto vino, un vino dolce e alcoolico che lascia sempre allegri... un vino eccitato come siamo noi, di laggiù... Troveremo qualcuno che ci presta un po’ di soldi?... Voglio che tu arrivi vestita bene... A casa ce un paio di orecchini di granate che erano della nonna mia... ti staranno bene, con il rosso vivo accanto ai tuoi capelli... Hai i fori alle orecchie? Irene — Non ho i fori... Non parlare più, devi trattenere tutta la forza finché non torna Adriano... Saverio — Nel fregio dorato del letto dei miei genitori è scolpito un albero che ha per frutti dei volti di bambino. Dicono che rappresenta la vita... Irene —- La vita sono i figli... Basta, ti prego! Saverio — Tu ci hai mai pensato ai figli?... Sono lontani... (Reclina il capo, è morto). Irene (che se ne avvede per prima) — Saverio!... Saverio!... Matilde (lo scuote, prova a sollevarlo; ma lo lascia sconfortata) — E’ andato!... Poverino... (Ireire scop pia in singhiozzi coprendosi il viso) Il destino di tanti ragazzi lontani da casa... e proprio senza che nemmeno lui abbia saputo perché, e al momento in cui poteva tornare al suo paese!... (Bruchin è commossa, si fa un segno di croce imitata da Ma- tilde). Irene (fra i singhiozzi) — L’ho ammazzato io!... E’ sceso nell’aia per mostrarmi che mi voleva bene, che sapeva essere diverso dagli altri uomini per me!... Sono stata io!... Matilde (sistemando il morto) — Lo ha fatto per ché era pazzo. Quando la testa non funziona si fanno cose fuori della regola, magari più grandi. Non è tua colpa se lo ha fatto. Irene — Non era pazzo, era tornato come noi, ma è difficile capire la differenza dai pazzi e dai sani quando la guerra rende tutto cattivo e ognuno di noi spinto dalla paura... Proprio innamorandosi di me era tornato come noi. Bastava che trovasse una donna capace di stargli vicina, di fare con lui la donna per riconfermarlo sempre come uomo, e sa rebbe stato migliore di tanti... Matilde (a Bruchin) — E muoviti!... Va’ a pren dere quattro candele nel cassetto del tavolo di cu cina. Bisogna trattarlo da cristiano... Infila le can dele nel collo di quattro bottiglie vuote... Poi prendi i fiori che stanno sopra al comò... Bruchin — Le candele nel fienile?... Si può an dare a fuoco... Matilde — Non pensarci. Staremo qui finché non lo porteranno via. (Bruchin scende per la botola). Irene — Dobbiamo farlo portare al suo paese, nella tomba accanto a sua madre... Parlava sempre di lei. Matilde — E’ una cosa che costa e ci vorrà del tempo, anche per la sua famiglia. Per ora starà nel cimitero del nostro paese, ci sono degli altri ragazzi uccisi dalla guerra come lui, senza avere colpa, senza avere fatto del male... Ora speriamo che sia finita. Irene (da sola) — E’ stata colpa mia... M atilde — Se era tornato come noi, stando vicino a te, qualcosa di bene gli hai fatto... Non piangere. (Irene affonda ancora il viso nelle palme) Sii sin cera con me. Eri innamorata di lui? Irene —- Non ero innamorata, ma lui è stato il più gentile di tutti quelli che ho conosciuto. Gli altri non mi rispettano, lui mi trattava come una ragazza di famiglia. Lui mi credeva quando dicevo una cosa e capiva se eTa vera ed a lui ero costretta a dire la verità che non dico agli altri... Ed aveva coraggio, senza dire che lo aveva; mentre gli altri, per apparire belli alle donne, dicono di averlo e quando il momento viene sono dei conigli... Non ero innamorata, ma accanto a lui mi sentivo tran quilla, migliore di quello che sono e capace di cam biare anch’io come lui era cambiato con me... Io non ho avuto mai nessuno tutto per me e non so come sia il bene in tutte le sue maniere e per me un uomo è soltanto in un modo, il modo come mi vedono loro, gli uomini... Se avessi avuto un fratello buono, forse direi che gli ho voluto bene così; e invece sono finita per stare con lui come capita con gli altri uomini... Ma era diverso, non so come spiegarlo a voi... Voi mi giudicate la più malandata delle donne, lo so... Matilde — Non pensare a me, anch’io posso cam biare con le mie idee che si muovono come ci muo- viamo noi stessi. Non sono mica alberi con le radici, le idee... E Mario? Irene — Perché mi chiedete di lui?... Mi sembra perfino un sacrilegio nominarlo davanti a Saverio. {Eccitata) Voi non potete capire, perché voi state bene e avete tutto quello che vi serve. Avete ma rito; avete un figlio che amate tanto da diventare perfino cattiva con tutti, anche se in fondo non lo siete... Perché vostro figlio è per voi come le bestie che tenete nella stalla, come il riso del raccolto, come la catena d’oro conservata nel cassettone : una casa vostra che volete dare poco alla volta con le vostre mani... Per questo non potete comprendere una ragazza che non ha mai posseduto nulla e va avanti nella vita affondando ad ogni passo come si cammina sui fasci di canape nei maceri... Appena poso un piede e credo di essere sul sicuro, la terra mi manca sotto e devo aggrapparmi per restare in piedi; e la persona che mi sostiene non è mai disin teressata e vuole che le paghi il conto per avermi mantenuta ritta... Un altro passo, e ancora il rischio di sprofondare fino al collo e ancora un altro che tira su; e poi un altro conto da pagare... Ho pagato, ho pagato, ho pagato sprecando me stessa che era la sola moneta che avevo!... Guardatemi in faccia, anche se le dico tutte, questa volta! (Fissa Matilde quasi -provocandola) E’ facile fare una vita perfetta avendo tutto; ed è ancora più facile sputare in faccia alle ragazze che vivono come me, attaccandosi da una parte e dall’altra... Gli uomini?... Sì, gli uomini! Ma perché ho sempre sperato di incontrare quello che ferma e mettermi in pace con lui e bruciarmi la pelle delle braccia davanti al fuoco per cucinare ogni giorno la minestra. Basta un uomo che dica per davvero, senza cercare l’avventura o senza an dare alla conta del corredo, per mettermi in pace e diventare come le altre. Ma chi ha mai dato pace a me?... Forse questo povero ragazzo, se fosse ri masto al mondo... O almeno io mi illudo che sa rebbe stato così, per ritrovare fiducia. Matilde —- Non ti ho chiesto di difenderti e di offendermi. Però volevo dirti... Irene (interrompendola) — Ah, non ditemi nulla, ora!... Non sono mai stata senza nulla come ora, forse perché ho perso soltanto un’illusione, la pri ma senza disgusto... Lasciatemi in pace. Tanto non serve a nulla che provi di comportarmi meglio: la volta che ho tentato, è arrivata la morte a dire la sua parola e forse è la dimostrazione che non avrò mai fortuna nel bene... M atilde — Tutte le donne come te parlano di fortuna, invece si tratta di coscienza... Irene — Non ho mai fatto il mestiere io, non l’ho IRENE FRA DUE RIVE mai fatto!... E davanti a un morto dovete credermi! Sono stata debole e tutti gli uomini mi hanno por tata in giro e la mia reputazione s’è persa dietro le siepi... Forse ha ragione quel malvivente di Mario; ha ragione lui a dire che devo arrangiarmi con furberia. Verrà la baldoria, ora, con la fine della guerra, e la baldoria ci sarà anche per me. Mi ve drete ripassare da queste parti con le scarpe dal tacco alto un palmo e la veste di seta pura e fini rete anche voi per rispettarmi perché i soldi tutti li rispettano sempre; i soldi non portano odori e non dicono da dove vengono... {Entra Bruchin con le candele infilate nelle bottiglie). M atilde — Ecco!... (A Irene) Aiutami! {Irene di spone con Matilde le bottiglie, due ai lati della testa e due ai lati dei piedi del morto. Poi Matilde, con i fiammiferi che ha in tasca, le accende). Bruchin — Il fieno!... Se attacchiamo fuoco... Matilde — E scansalo un poco invece di lamen tarti sempre!!! (Bruchin scansa il fieno, mentre Irene resta sconvolta a guardare Saverio). Irene — Vorrei restare, finché non lo seppelli ranno... Ma credo sia meglio che me ne vada prima che tornino i vostri uomini. Matilde — Scendi in cucina. Dietro il lavandino c’è la camicia bianca di mio figlio. Prendila, inumi discila un poco e stirala bene. E’ molto esigente, lui, con le camicie bianche. Quando toma, se c’è festa in paese per la Liberazione, vorrà andare vestito bene... Irene — Bruchin non sa stirare? Matilde — Bruchin guasta i colletti ed io avrò da fare qui, ora... Scendi e impara ad ubbidire. In questa casa, finché terrò aperti gli occhi, di donne comando io sola e per restare sotto il tetto del Bondaìno si deve imparare l’ubbidienza. E’ chiaro? {Irene, reprimendo la commozione, si muove per scendere dal portellone del fienile; si ode il rumore di un autocarro). Irene — Adriano... Toma con un autocarro... Cre derà che sia ancora vivo... M atilde (inginocchiata a lato del morto, mentre Bruchin resta immobile in piedi a fissarlo) — Slega il vecchio, mi fa tanta pena... Nella cassapanca deve esserci un mio vestito scuro, ancora buono, che mi va stretto. Forse ti starà bene. Gianni deve trovarti un po’ in ordine... (Si ode un canto allegro in inglese, mentre il camion si arresta nell’aia). * Copyright Gian Paolo Callegari 1958. I L T E A T R O A S S O L U T O Considerati gli elementi che compongono il « teatro », testo attore palcoscenico scenografia regista pub blico, ci si può domandare se poi il « teatro » abbia una sua autonomia, sia un genere a sé, si manifesti con una libertà e originalità espressiva, unitaria e assoluta. Vorremmo dire di sì: e che anzi si può e si deve comprendere, godere, giudicare, ammirare, condividere l’arte « pura » del teatro, come si fa con la musica, la pittura, la scultura, la poesia lirica, e che questo teatro « puro », fatto di parole e di azioni, di attori e di personaggi, di artigianato e di fantasia, ha un suo linguaggio particolare, una sua « esistenza » totale. Alain, in certe pagine balenanti di sottili chiaroscuri, ha indicato felicemente l’indole propria dello spet tacolo. Molière e Shakespeare furono grandi teatranti, ossia poeti del teatro, perché modularono tutto ciò che avevano da dire e rappresentare (personaggi sentimenti idee) in forme assolutamente intraducibili in altro linguaggio, tipiche e flessibili, profonde appariscenti e legate, le « forme » teatrali. Alain dice che le passioni non sono che la materia primitiva della tragedia, e che la tragedia nasce e s’accresce sotto la pressione del « tempo », sommo provocatore e risolutore tragico. Così il « destino » avanza, serrando, stringendo tutte le cose a contrasto con i sentimenti, che nella presa si dibattono; e il movimento in se stesso, drammatico e spettacolare, fa vivere i personaggi, li rende vari, ricchi, naturali, persuasivi e possenti secondo la fantasia teatrale, nel clima astratto e rivelatore del palcoscenico. Il ritmo implacabile suscita in ognuno l’attesa; lo spettatore col fiato sospeso attende di incontrarsi finalmente con se stesso. Tutto ciò non è dunque interno all’umanità psicologica, realistica, imitativa del testo, ma alla sua verità e apparizione scenica, alla sua rinascita come spettacolo. Ed a che cosa si riferisce questa qualità estetica, originale e inconfondibile del teatro? Alain accenna a una « presenza », a certi segni espressivi che soli inducono, e senza che se ne intenda bene il senso («tei est le sourire de la Joconde»), alla percezione dello spettacolo: presenza reale dell’attore, sua possibilità di raggiungere con tutto se stesso un linguaggio assoluto di cui il pubblico si nutre. Lo slancio vitale del teatro si adempie così nell’attore, modulandosi, libero e concreto. E in certi casi, è più vicino ad un retto intendimento del teatro l’ingenuo e fanatico spettatore che segue le bravure degli attori quasi fossero quelle di un acrobata, che il falso intellettuale che mette attore e spettacolo a confronto con altre arti e immagini e forme espressive, e si compiace di riflessi pittorici, di inflessioni musicali, di scolture semoventi o che so io, mentre la tipica bellezza scenica è arcana e rivelatrice e compiuta quando porta a galla e sostiene, sola, con il suo solo linguaggio « istrionico » e trasfiguratore, una insostituibile visione del mondo. I veri attori, Io sappiano o no, subiscono questa legge serrata del moto e del ritmo. Osserva Alain che neil’« Amieto », nella scena famosa quando il principe legge camminando in su e in giù, ed impossibile pronunciare la battuta stando seduti. E’ esclama: « Parole! parole!... », è materialmente 1’ « andante » della scena ad impedirlo. Modulazione e inflessione dello spettacolo che naturalmente riassume ed esalta tutta l’umanità del testo e tutta la poesia. Con quale piacere si colgono e sotto lineano le sfumature, i timbri di quest’arte, e i rapporti interni i legamenti lo stacco e l’assonanza di scena in scena, di gesto in gesto, da un’immagine all’altra! Ogni figurina, ogni frase, ogni voce, ed episodi e personaggi e caratteri e ritratti hanno uno spicco e un volume di pura espressività, quello stesso che in un arazzo possono avere le varietà del tessuto e quella dei colori, in una sinfonia il metallo degli strumenti e l’eco dei suoni. Pensate alla shakespiriana « Dodicesima notte »: grande com media, più grande spettacolo. Nella rappresentazione ogni personaggio, con il suo peso umano e poetico, diventa puro strumento scenico. L’acido pedantissimo ridicolissimo Malvolio, il buffone Feste, i due su perbi schiamazzatori Tobia e Andrea, la servetta Maria, la incantevole Viola; saremmo tentati di dire che sono flauti ottavini oboe in un incantevole concertino, o antiche stampe colorate; ma non è vero, in realtà non sono che i tocchi successivi, la modellatura scenica, la apparizione luminosa della fantasia di Shakespeare in un linguaggio candidamente teatrale, in quell’accrescersi e divenire che è il teatro stesso. Azione creatrice, moto misterioso e concreto che, equivalendo ai tempi della musica, agli spazi pitto rici, col suo solo manifestarsi svolge, dichiara ed esalta tutto il senso di una « rappresentazione » poetica. V’è una scena, la quinta dell’atto primo, nella quale Viola, in veste di paggetto, porta a Olivia il messaggio del duca Orsino. E’ una scena artificiosa, deliziosa e preziosistica, con l’equivoco di Olivia che subito è presa d’amore per la ragazza travestita, con i languori e le malizie del discorso, e le civetterie, e le « acutezze »: un modello di quello che si disse « eufuismo », gentilissimo e manierato. Alla lettura può piacere, o magari lievemente irritare, o sfuggire: in scena è tutto un bagliore. Perché le parolette leziose vaghe vane, un po’ frivole un po’ insensate, sull’onda dello spettacolo, in quel corso gaio cantante irresistibile, si schiudono come foglie, diventano fiori, sono visibili e concrete, si incarnano nella mol lezza e nell’ardimento plastico e nella grazia fìsica e aureolata delle attrici. Diventano il fremito e il moto stesso dello spettacolo: puro teatro, e arte perfetta. Rinascono, scorrono, palpitano come «persone» di un mondo che vive di se stesso, che assume via via la sua « forma » totale, e senza equivalenti. Ed anche I’« eufulsmo », questo vizio letterario, rivela il suo integrale valore scenico di gioia giuoco dissi mulazione curiosità attesa, e soprattutto di «esistenza»: un modo di essere, una presenza, un inconfon dibile segno. Come, perché, fino a che punto è difficile indagare. Il sorriso della Gioconda, diceva Alain. Fogliame di parole che stormiscono, vento che spira come se i personaggi scuotessero legger mente il bosco d’amore, per trarne, sul tempo che trascorre, una flessibile felicità; come quei soffi e quei fiati e quei respiri che misteriosamente suonano e vaporano dalle figure dantesche, lievitando sulla arcana visione. Così, certamente, Shakespeare sentì e volle tradurre in scena le sue immagini, i suoi sogni. Apparizione di una bellezza, che rifiuta le incerte analogie, conchiusa, sigillata e ferma. Francesco Bcrnardelli I L C O N V E G N O D E L T E A T R O D R A M M A T I C O L'Istituto del Dramma Italiano (IDI) ha indetto a Saint Vincent, nei giorni 25 e 26 settembre 1958, l’An nuale Convegno — l’ottavo — del Teatro di Prosa. Ha diretto i lavori Carlo Trabucco, essendo il Presidente dell’IDI, on. Ariosto, divenuto in questo tempo Sottosegretario allo Spettacolo. Naturalmente l’on. Ariosto era presente ed ha, infatti, concluso il Congresso stesso, come è detto nella cronaca del nostro inviato Enrico Bassano. Al tavolo della Presidenza erano Eligio Possenti, Antonio Ciampi, direttore generale della Società Italiana Autori ed Editori, l’on. Ariosto e Alfonso d’Alessandro, direttore generale dell’ IDI. A relatore ufficiale è stato designato Eligio Possenti, col tema 44 II teatro di prosa negli attuali regolamenti e nelle prospettive di una nuova legge ” . Pubblichiamo per intero la dotta ed esauriente relazione di Possenti, autorizzato come ben pochi altri a svolgere un tema così importante e scottante, non soltanto per la sua posizione di critico e di teatrante, ma per il suo amore disinteressato alla scena di prosa. Dal nostro posto, certi come siamo della buona causa, sottoscriviamo interamente gli argomenti di Possenti: non si poteva trattare tale tema con maggior acume, non si poteva porre in maggior rilievo i vari argomenti, punto per punto. Segue nelle nostre pagine la relazione di Possenti, una cronaca dei vari 44 interventi ” riassunti — come s’è detto in principio — dal nostro Enrico Bassano, che al Congresso rappresentava la nostra Rivista ed il nostro direttore, da tempo impegnato altrove. SL T E A T R O D I P R O S A N E G L I A T T U A L I R E G O L A M E N T I E N E L L E P R O S P E T T IV E D I U N A N U O V A LE G G E Non vi nascondo che quando la Presidenza dell’ID I — bontà sua — mi ha invitato a svolgere dinanzi a tanto consesso una relazione sul tema « I l teatro di prosa negli attuali regolamenti e nelle prospettive di una nuova legge » ho indugiato ad accettare; innanzitutto perchè ognuno di voi avrebbe assolto il compito assai meglio di me, e inoltre a causa delle condizioni della vita teatrale italiana così allarmanti e spinose da rendere difficile discorrerne pubblicamente con sincerità, serietà e aperto animo. Ma l’amore per la scena, maturato durante ormai quarantasei anni di teatro militante, si e aggiunto alle insistenze degli amici, e oggi sono qui a discorrere con voi di quanto ci sta a cuore come fedeli all’arte drammatica e come italiani. E se, senza volerlo, mi capi terà di ferire la suscettibilità di qualcuno, datene colpa alla mia passione schietta, calda, disinteressata per quest’arte, che prediligiamo. Le condizioni sono allarmanti, ho detto. Basti rifarci a quanto scrisse recentemente Antonio Ciampi nella premessa &\V Annuario Statistico dell’anno in corso della Società Italiana Autori ed Editori: « Di tu tti i generi teatrali — nota l’autorevole direttore della Società — la prosa ha la situazione più grave. Il dato che attesta l’interesse del pubblico, cioè il numero dei biglietti venduti, registra un sensibile calo degli spettatori paganti: da 6 milioni e 900 mila del 1950 è diminuito ogni anno fino ad arrivare a 4 milioni e 100 mila nel 1957. Senza calcolare l’incremento naturale della popolazione, le scene italiane hanno avuto in questi ultimi anni una perdita di tre milioni su sette dei suoi spettatori dell’anteguerra. Per il teatro primario di prosa, sovvenzionato dallo Stato, le cifre sono meno sconfortevoli. Le variazioni fra il 1956 e il 1957 registrano lievi aumenti nelle giornate di spettacolo e nella spesa del pubblico, ma stazionario è il numero dei biglietti venduti. Purtroppo in un paese di 50 milioni di abitanti, com’è il nostro, gli spettatori del teatro primario di prosa sono poche decine di migliaia. Non si può d’altronde negare che la crisi del teatro di prosa è di antica data ed i rimedi non sono facili nè semplici, tanto più oggi che il pubblico richiede spettacoli di alta qualità ed è difficile soddisfare contemporaneamente due diversi tipi di esigenze e diciamo pure due diversi tipi di cultura. Si rischia di fallire in entrambi come sta accadendo. Ma al punto in cui siamo, ogni sforzo dovrebbe tendere a salvare quella compo nente essenziale del teatro che è il pubblico, anzi il pubblico popolare. I dati di questi ultimi anni dimostrano che più i prezzi aumentano più gli spettatori diminuiscono. Il prezzo medio degli spettacoli primari di prosa è salito da lire 877 nel 1956 a lire 907 nel 1957, ma vi sono punte elevate nei teatri maggiori, ed il rialzo continuo è assolutamente ingiustificato se la domanda diminuisce ». Il ragionamento non fa una grinza, i dati sono tu tti da meditare e di taluni riparleremo più innanzi. Intanto ricordiamo qui che sei anni or sono, in questa stessa sala, durante il terzo Convegno Nazionale degli Autori Drammatici, svoltosi sotto la presidenza del- l’on. Ariosto, generoso araldo dell’Istituto del Dramma, che abbiamo ora la fortuna e il compiacimento di salutare Sottosegretario dello Spettacolo, un illustre e dotto studioso si è meravigliato che in un congresso di autori drammatici si udisse parlare di interessi, di percentuali, di concorrenza straniera, di contingentamento, di importazione indiscri minata dei successi esteri, di questioni pratiche ed economiche invece che di idee, di ten denze, di nuove mire e di spiriti nuovi: insomma che si parlasse della scienza di Einaudi invece che dell’arte di Shakespeare. L’intemerata fece il suo effetto e suscito vivissimi applausi. Bene l’intemerata, e giusti gli applausi; ma, a parte che questi nostri incontri sono ispirati al proposito di migliorare e difendere le condizioni degli autori sul terreno della lotta degli interessi — interessi di importatori, interessi degli attori acquirenti delle commedie o com partecipi, interessi di registi compartecipi o acquirenti — come volete che si parli di idee, di tendenze e di nuove mire qui dentro quando le commedie italiane bussano alle porte chiuse dei palcoscenici come le parenti povere del teatro? Quando da anni ormai è in atto una diffamazione, cominciata fra le due guerre, lunga, tenace e continua, del reper torio italiano, diffamazione che è diventata opinione corrente delle generazioni soprav venute in campo e dalle quali sono usciti i nuovi direttori di Piccoli Teatri, i registi, ì nuovi impresari e capocomici, quelli, insomma, succeduti agli attori e ai direttori d un tempo i quali hanno creduto, invece, nell’ingegno teatrale italiano e hanno reso possibile la continuità della nostra storia del teatro? Parliamo, prima, della situazione in cui si svolge il lavoro degli autori italiani, soltanto quando saremo riusciti, se ci riuscirà, a chiarirle, saliremo a più spirabil aere e indiremo magari un congresso per discutere di idee, tendenze e nuove mire, cercando però di evi tare il pericolo di trasformare il teatro, che è soprattutto un fatto artistico, in tema di disquisizione filosofica o peggio di dissertazione politica e di non dimenticare che i drammi e le commedie non nascono dai congressi, ma unicamente dall’estro e dal talento degù autori. Quali le condizioni dell’autore drammatico? Tristissime. Scrivere una commedia oggi è un’impresa eroica e collocarla è un’impresa chisciottesca. Si, se ne rappresentano di com medie italiane, ma non tanto per fiducia quanto per interesse, per ragioni utilitarie e, di conseguenza, avvilenti per l’autore italiano. Nella stagione 1957-58, e precisamente dal primo luglio 1957 al 30 giugno 1958, sono state rappresentate 104 novità italiane, di cui 63 in tre atti e 41 in un atto. Le 63 commedie in tre atti sono state così rappresentate: 30 da compagnie primarie; 6 da Teatri Stabili o teatri regionali; 6 da compagnie dialettali; 17 da compagnie secondarie; 4 da formazioni estive, nel periodo 1° luglio-30 settembre 1957. I 41 atti unici sono stati rappresentati: 29 da compagnie primarie e 12 da formazioni secondarie e minori. E allora che c’è da lamentarsi? 63 commedie nuove in tre atti e 41 in un atto! Non ci sarebbe che da pro porre un voto di plauso alle compagnie. Senonchè per 25 commedie sulle 30 rappresen tate dalle compagnie primarie, l’ID I ha erogato contributi di allestimento per 10 milioni e 300 mila lire; per 5 commedie sulle sei messe in scena dai Teatri Stabili, tre milioni e 50 mila; per 5 commedie sulle 6 messe in scena dalle compagnie dialettali, un milione e 400 mila. L’ID I è pertanto intervenuto per 35 novità sulle 63 rappresentate durante l’intera stagione con la concessione di contributi per complessivi 14 milioni e 750 mila lire. Per quanto riguarda le 29 commedie in un atto rappresentate dalle compagnie primarie, FID I è intervenuto per dieci di esse con un milione e 400 mila lire. Per le riprese, l’Istituto ha erogato complessivamente la somma di 8 milioni e 400 mila lire, di cui 4 milioni e 450 mila a compagnie primarie, lire un milione e 400 mila a Teatri Stabili e due milioni e 550 mila a compagnie secondarie. I contributi corrisposti alle compagnie secondarie sono stati concessi nei casi in cui l’ attività delle compagnie stesse è risultata decorosamente utile per la diffusione del repertorio italiano. E insieme con FIDI la Direzione Generale del Teatro costituisce una dote a queste figlie derelitte, destinate, senza quegli aiuti, a rimanere zitelle o a rinchiudersi nella clausura dei cassetti. Il voto di plauso va, dunque, all’ID I e alla Direzione Generale dello Spettacolo. Ma i due danarosi interventi dimostrano che il rischio non lo vuol correre più nessuno. Un tempo — ma s’ha da riconoscere che erano altre le esigenze economiche — il rischio era uno dei fascini del teatro: rischio del capocomico che pagava di tasca propria, rischio degli attori che faticavano a mettere in scena una commedia della quale l’esito era sempre in mano di Dio o meglio dell’orbetto. E come non si ama più affrontare il rischio, non si ha più la curiosità dei personaggi. Allora gli attori, attuata una interpretazione, vinta una battaglia, erano tormentati dal desiderio di incarnare un altro personaggio e di buttarsi a nuove prove. A volte persino toglievano dal cartellone una commedia ancor viva per mandarne innanzi un’altra nella quale era un tipo nuovo in cui misurarsi. Ciò faceva sì che, in una stagione, le novità rappresentate fossero numerose e molti autori potessero affrontare il giudizio del pubblico. Anche allora l’importazione straniera era feconda: e molti autori forestieri di pregio e non di pregio arrivavano alle nostre ribalte. Lavori italiani e stranieri che in questi recenti anni sono stati dati dai Piccoli Teatri come scoperte, erano già stati scoperti da un pezzo dai nostri attori passati, e proprio dai troppo ingiustamente vilipesi mattatori che coi loro pregi si facevano perdonare i difetti e che con le loro ambizioni ci hanno fatto conoscere grandi drammaturghi e commediografi d’ogni paese. Tanto era invadente anche allora l’importazione straniera che gli autori italiani, ad ini ziativa di Marco Praga, direttore a quel tempo della Società degli Autori, dichiararono persino guerra a un potente condottiero di quelle importazioni, nonché ai capocomici e ai proprietari di teatro, guerra calda che divenne fredda col « patto d’alleanza » con l’Unione Capocomici firmato da Ermete Novelli, Virgilio Talli, Flavio Andò, Ferruccio Benini, Oreste Calabresi, patto che divenne poi, per le difficoltà sorte nell’applicazione, non legge esecutiva ma norma indicativa. Questo accadeva nel 1909. Da allora la lotta fra importazione e produzione nazionale è stata costante. Ma tu tti sapete che un bel gruppo di autori italiani ha ben potuto, nel primo e nel secondo ventennio del secolo, venire alla ribalta: autori tradizionalisti e amori novatori; e tra questi ultimi, taluni che hanno persino prospettato avanti lettera atteg giamenti e modi del teatro francese che oggidì è detto d’avanguardia. Nel secondo ventennio le cose si fecero più difficili: era il ventennio della diffamazione cui ho accennato. Tuttavia lavori italiani ne apparvero, mentre si affermava il fenomeno Pirandello che captò la sensibilità del momento (crollo della pace e postumi di un con flitto), e cominciò, all’inizio dell’altra guerra, a proclamare il dubbio sulla realtà della vita, anticipando di quasi trentanni gli esistenzialisti di questo dopoguerra. Sartre, in certo senso, non è che un Pirandello in ritardo, più acre e disperato e senza un briciolo di pietà per le creature, mentre Pirandello nascondeva sotto lo scintillìo della sua lucente dialettica e sotto il suo tragico umorismo un sentimento di compassione per gli uomini che vivono isolati nella folla senza vedersi vivere e credono d’essere qualcuno mentre sono uno, nessuno e centomila. Ma Pirandello se ha ridato prestigio al teatro italiano, in patria e nel mondo, non ha ridato il credito al repertorio nazionale, anzi è servito ai deni gratori come pietra di paragone per avvalorare la loro avversione all’arte di casa. Il discredito settario è ingiustificato gettato sul repertorio italiano non è faede dissiparlo, anche perchè costituisce un comodo alibi a chi trae vantaggio nel coltivare il repertorio straniero. Occorre un’opera lenta di ricostruzione. Anche un grande successo in casa e fuori non conta, rimane ed è ritenuto un fatto eccezionale, un caso sporadico, una fortuna senza merito. Tutti gli interventi governativi, tanto lodevoli nelle intenzioni e nei propositi, non val gono ad accrescere la fiducia nelle commedie e negli autori italiani. Nè le nuove usanze della vita teatrale sono favorevoli a una rinascita. Le compagnie non sognano che una commedia da provare magari due mesi e da recitare per tutto l’anno comico. Sono usanze determinate dall’evolversi dei tempi, ma non si può negare che per esse gli attori si tra sformano in impiegati del teatro, che vanno all’ufficio serale del palcoscenico per le repliche. I Piccoli Teatri, o Teatri Stabili che dir si vogliano, consumano milioni per mettere in scena tre o quattro lavori che muoiono sul posto e che nessuno mai riprenderà. Le pos sibilità per gli autori italiani vengono sempre più ridotte e, nella migliore delle ipotesi, soltanto pochissimi possono vedere le proprie opere alla ribalta proprio per 1 angustia del tempo. Tutte cose che voi conoscete meglio di me come ne conoscete altre che qui non voglio elencare per riguardo alla vostra sopportazione. E torniamo ai rilievi di Antonio Ciampi, che sono, come sempre quello che esce dalla sua mente colta, vigile e meditativa, seri e fondati. Dice il Ciampi: « 50 milioni gli italiani, poche decine di migliaia gli spettatori del teatro di prosa». Possiamo dargli torto? Purtroppo no. E allora è lecito domandarsi: di chi la colpa? Del pubblico che non va a teatro o delle compagnie che non lo sanno attrarre o del repertorio che non si adegua alla sensibilità del pubblico? Certo pare si faccia di tutto per allontanare il pubblico dal teatro: innanzitutto le com medie troppo lunghe. Non si riflette che nei paesi d’origine gli orari dei teatri sono diversi e una commedia che cominci alle 19,30 e finisca alle 23,30 si può ammettere, ma che la stessa commedia, che dura quattro ore, venga rappresentata nei nostri teatri dove l’inizio è alle 21,30 è già motivo di dirottamento del pubblico verso altri divertimenti. In secondo luogo i temi di queste commedie straniere sono lontani dai nostri interessi morali e sociali. Essi riguardano una società diversa dalla nostra e, diciamo la verità, hanno (salvo rare eccezioni) ben poco da insegnarci, a cominciare dalle tanto vezzeggiate commedie americane, che, venute in Italia nell’immediato dopoguerra dopo lo stolido divieto loro posto come belligeranti, sono state accolte festosamente, a guisa di prigio niere liberate. Ma, a ben considerare, il teatro americano non fa che rimandarci contro assegno quello che la cultura italiana ed europea gli ha mandato da gran tempo e gratis. In terzo luogo le compagnie insistono nelle repliche dei lavori stranieri fino all esauri mento; spesso dopo una o due settimane la commedia è stanca, le repliche continuano, il pubblico diminuisce e la compagnia perde nella seconda parte della stagione quello che aveva guadagnato nella prima. Non potrebbe inserire una commedia italiana? Infine i prezzi, che se sono adeguati alle spese incontrate per allestire uno spettacolo, non lo sono in rapporto al suo valore e al suo pregio artistico. Un complesso di sistemi che urtano il buon senso e che, largamente adottati come sono, dànno ragione a quel tale che alla domanda: « A che serve il teatro d’oggi?» rispose: « A mandare la gente al cinematografo ». Dice ancora il Ciampi: «La crisi del teatro di prosa è di antica data ed i rimedi non sono nè facili nè semplici ». Esatto. Ma bisogna osservare che la crisi del teatro è il suo modo di essere. Il giorno in cui dovesse cessare la crisi, morirà il teatro; che, essendo un’arte in continuo divenire, vive continuamente in uno stato di inquietudine e di malessere, scontento per le cose di ieri, incerto per quelle di oggi, assetato di quelle di domani. La crisi in sè e per sè non ci deve preoccupare. Ci devono invece preoccupare i profittatori di questa crisi, vale a dire quelli che la invocano per giustificare i loro errori o i loro calcoli. Prosegue il Ciampi: « Oggi il pubblico richiede spettacoli di alta qualità ». Verissimo. Ma non s’ha da confondere alta qualità con alta spesa. Lo spettacolo è per gli occhi, la parola è per lo spirito. Lo spettacolo che sopraffà le parole è un tradimento all’arte scenica. Per questo lo sfarzo eccessivo è un segno di decadenza del teatro, è un aiuto a un teatro debole. L’Edipo re si può dare senza scene e senza costumi e, dopo poche battute, vi sentite immersi nel dramma, tale e quale e forse di più che se gli si fosse costruita intorno tutta Tebe e si fossero fatti venire soldati dalla Grecia attuale. E perchè è sorta la regìa? Così come la critica è una forza messa al servizio dell’arte per impedire che questa si abbassi, la regìa è una forza messa a servizio di un testo perchè questo venga espresso totalmente per il pieno godimento del pubblico. Questa forse deve valersi più del talento che dei milioni e credere nella potenza del verbo che vale sempre di più di una brillante squadra di riflettori e dei manovrati movimenti degli attori sulla scena, continuamente spostati o fatti arrampicare su una scala o messi ruzzoloni sul pavi mento, nei momenti patetici o eroici. La regìa è un elemento direttivo del teatro e il regista di una commedia ne è il direttore d’orchestra. Come tale deve scoprire il ritmo del lavoro. Questo è il primo suo compito. Tutto il resto è utile, giovevole, ma accessorio; completa, ma non crea. Noi apprezziamo la regìa e ammiriamo il talento del regista quando inventa qualcosa che, giovando al lavoro, non rovini l’impresario o non dissangui la cassa delle sovvenzioni. Infine il Ciampi dice: « I l rialzo continuo dei prezzi è assolutamente ingiustificato se la domanda diminuisce». Ingiustificatissimo, e, in più, una offesa a quella legge economica che regola il gioco della domanda e dell’offerta e che non si viola senza scontarne le conseguenze. Legge fondamentale non modificabile, mentre modificabili sono le regole che riguardano il teatro. Qui è opportuno dire che sarebbe bene che il teatro fosse regolato dal codice civile e penale e basta; voglio dire che in esso potesse svilupparsi l’iniziativa privata all’infuori d’ogni concetto di sovvenzione, aiuto e soccorso d’urgenza. Allora ogni ditta sarebbe impegnata in una lotta che non potrebbe non giovare allo sviluppo del teatro; allora prospererebbero solo coloro che sanno fare il teatro e non quelli che credono di farne o che si divertono a farlo. Senza sovvenzioni da chiedere, tutto un altro criterio presiederebbe alla formazione delle compagnie e alla gestione dei Teatri Stabili. Senza contare che i primi ad essere soddisfatti sarebbero tu tti quei molti contribuenti italiani che pagano il teatro per i pochi che ci vanno. Ma un ritorno siffatto non è più possibile. Indietro non si torna. Il mondo cammina, bene o male, ma cammina. Ormai è accolto il principio che il teatro è un pubblico servizio, che è d’interesse nazionale, e che perciò lo Stato deve intervenire a sussidiarlo. E a rin- focolare la tesi si invoca una parola solenne: cultura. Il teatro è cultura, si dice. E tutti 10 vanno ripetendo. Mentre invece il teatro è vita e diventa cultura quando è consacrato dal consenso di parecchie generazioni. Molière non intendeva far della cultura scrivendo 11 Misantropo, e neppure Shakespeare ci pensava abborracciando scenari e copioni e scri vendo VAmleto. Il giudizio del tempo li ha fatti diventare cultura. Il teatro dunque è vita. E come tale va sviluppato. Non occuparsene vorrebbe dire sof focare una vita. Per questo lo Stato se ne occupa, non solo, ma viene sollecitato ad occu parsene con tutte le conseguenze buone e non buone che ne derivano. Tutti gb Stati moderni si prendono a cuore il teatro: specialmente i regimi totalitari. Ma anche quelb democratici non lo trascurano, come hanno ben dimostrato questi tredici anni dopo la Liberazione. E non si può onestamente non riconoscere che, date le difficoltà di ogni genere e l’alterno gioco della pobtica d’indole tipicamente democratico, il Direttore Generale dello Spettacolo e, in particolare, l’Ispettore Generale del Teatro si meritano, nel com plesso della loro attività, il riconoscimento di quanto hanno fatto, sempre animati dalla intenzione di giovare allo spettacolo. Avrebbero potuto far meglio? Avrebbero potuto fare di più? Certo avrebbero voluto entrambi, da quei funzionari e da quegli uomini che sono, fare megbo e di più. E di questo noi lealmente dobbiamo dar loro atto. Recentemente dal Sottosegretariato allo Spettacolo sono state emanate le provvidenze a favore del teatro drammatico per il 1958-1959 ma richiamandosi a disposizioni d’altri tempi: al decreto legge 20 febbraio 1948, n. 62, e alle successive proroghe. Tali disposizioni riguardano i Teatri Stabili, le compagnie primarie, quelle minori e le manifestazioni straordinarie. Sono, in verità, norme consuete. E cioè: i Teatri Stabili devono essere costituiti in città con popolazione superiore ai 600 mila abitanti, e cioè Milano, Roma, Torino, Napoli, Genova. Per motivi speciali sono considerati Stabbi anche i teatri di Trieste e di Bolzano. E sta bene. Ma Palermo non avrà più un Teatro Stabbe? E Bari? Io credo che alla fine lo avranno anche parecchie città che non contano i 600 mila abitanti. E perchè tu tti i contribuenti italiani debbono concorrere alle sovvenzioni dei Teatri Stabili di poche città? Il Teatro Stabile è certo una bella definizione. Ma un soste nitore dei Teatri Stabili lamentava or non è molto, in una accreditata rivista teatrale, che questi Teatri Stabili non si muovano e non portino i loro spettacoli anche agli spet tatori di altri centri. Lamento assennato e che conforta la mia opinione che l’Italia, con la sua forma geografica, richieda le compagnie di giro per soddisfare il bisogno del teatro di tutte le regioni. Inoltre, questi Teatri Stabib non potrebbero essere sovvenzionati sol tanto, o per la maggior parte, dai Comuni dove sorgono e dagli Enti pubblici locali per mettendo allo Stato un più forte gettito per le compagnie di giro? Un Teatro Stabile ben condotto con gli aiuti soltanto e assai prevalentemente locali, potrebbe benissimo funzio nare qualora sapesse suscitare la vera, concreta e pagante frequenza del pubblico. Tra le altre norme è quella che esige un repertorio ispirato a criteri d’arte, concetto molto elastico perchè ciò che è arte per alcuni, non lo è per altri. E inoltre si chiede che « trovi prevalente rilievo la produzione nazionale alla quale dovrà essere riservato almeno il 51% delle recite complessive ». Ma quale produzione nazionale? Vecchia o nuova, di autori defunti o di autori viventi? Megbo sarebbe stato precisare questo comma, posto che i Teatri Stabili sono sovvenzionati dallo Stato, dai Comuni e dagli Enti locali. Per le compagnie di giro la lezione è ancora più vaga : si dice: validità del repertorio nel quale trovi posto la produzione nazionale. « Trovar posto » è una espressione poco con fortante: « Trovar posto » pare significhi: « spingi spingi, un angolino ci sarà ». Sta bene che un’altra norma aggiunge: « Alle compagnie primarie sarà anche corrisposto un premio di lire 500.000 per ciascuna delle due prime novità assolute italiane messe in scena e replicate almeno dieci volte nel corso della stagione ». Ma dieci volte nella stessa città o dieci volte nel giro? E da ultimo i premi finali. E qui è opportuno dire che, nella seduta tenuta nel luglio scorso a Venezia dalla Commis sione consultiva dei premi alle compagnie, si è proposto, nel verbale, la modifica del regolamento. È stato rimproverato alla Commissione il modo di distribuzione dei premi ma non alla Commissione andava il rimbrotto, bensì al regolamento. Sarebbe bene non fissare l’ammontare dei premi ma lasciare alla Commissione di disporre di una somma globale; ciò impedirebbe di dare premi non corrispondenti al merito. Le disposizioni riguardano anche le riduzioni ferroviarie, Opportuna facilitazione. Non avete mai pensato che se il Ministero dei Trasporti, superando le difficoltà burocratiche e i giri o gli intoppi contabili fra Ministero delle Finanze e quello del Tesoro, concedesse alle compagnie e al materiale scenico i viaggi gratuiti, il problema del teatro in Itaba sarebbe febcemente risolto? Ma si vede che ciò è impossibile, dato che non si è nemmeno tentato di farlo con la presenza dell’ on. Ariosto al Sottosegretariato di questo Ministero. Viaggi gratuiti e teatri comunali a disposizione delle compagnie. Questa è la formula più semplice per lo sviluppo della vita teatrale. Ma come sempre nella vita, le cose più semplici sono rese compHcate dagb uomini e dai dicasteri, e sono senz’altro allontanate come mosche noiose. Fin qui è il regolamento dell’oggi. Ma domani? Come sarà la nuova legge sul teatro? Poiché io credo che Ton. Ariosto ce la vorrà dare finalmente questa legge che riordini la confusa materia, liberandola dalle scorie di un’eredità di un periodo particolare della vita italiana. Se c’è un Sottosegretario che per competenza, passione, visione dei problemi si presenta adatto e preparato per un’impresa cui resterebbe legato il suo nome, questo è Ton Ariosto. Ma come dovrà essere questa nuova legge? Si preoccuperà innanzitutto dei Teatri Stabili, nonostante i risultati poco confortanti, dando loro il primo posto nella considerazione governativa o non piuttosto si prenderà a cuore il rinascimento delle compa gnie di giro riversando su di esse le sue maggiori cure? Prevarrà il concetto del teatro-spet tacolo nel quale i protagonisti principali sono sempre i milioni necessari per far fare bella figura a drammi stranieri che non lo meriterebbero? Si insisterà sulla larga protezione dei Piccoli Teatri o Teatri Stabili a detrimento degli aiuti che si potrebbero riversare sulle com pagnie ? Si vorrà considerare T Italia come la Germania e le provincie italiane come gli Stati tedeschi e sorreggere artificiosamente una struttura teatrale che non corrisponde nè alla forma geografica nè alla tradizione dell’ Italia nè alla psicologia del pubblico italiano? Si riterrà conveniente che i Piccoli Teatri sorti o da sorgere in alcune città (ma allora perchè in una sì e in un’altra no?) siano sorretti dallo Stato assai più copiosamente dei comuni che li vogliono avere? Perchè tu tti i contribuenti italiani devono concorrere a finanziare il Piccolo Teatro di X, quando le città Y, H e Z non ne hanno? Non sarebbe meglio che ogni città, che vuol avere un teatro, se lo paghi con i contributi dei suoi cit tadini? E non sarebbe giusto che i Piccoli Teatri, o Stabili che dir si vogliano, i quali vivono grazie alle sovvenzioni dei Comuni e dello Stato, offrissero i loro spettacoli ai cit tadini delle varie località in cui sono sorti gratuitamente o quasi? Perchè un teatro di questa categoria, che non ha in partenza le preoccupazioni finanziarie delle compagnie, deve avere i prezzi pari a quelli dei teatri di iniziativa privata, i cui proprietari rischiano in proprio e non sono aiutati da nessuno? Si terrà conto del motto già citato: il teatro è cultura? Si dirà che lo Stato deve aiutare il teatro perchè è cultura? Ma deve aiutarlo perchè è cultura o lo deve aiutare perchè diventi cultura? Non sarebbe meglio dire: lo Stato deve aiutare il teatro e basta? Nella parola teatro c’è tutto, anche la cultura. Ma la scelta non si può fare prima, non la pos- sono fare i contemporanei, ma soltanto i posteri. Molte opere incensate o dispregiate dai contemporanei sono divenute, alla prova del tempo, rispettivamente opere trascurabili o opere degne di suscitare l’ammirazione delle sopraggiunte e delle venienti generazioni. Esempio tipico il teatro di Feydeau che, trattato con riservato consenso al momento suo, è dalle generazioni del guf e del jazz ammirato a perdicervello. E le paghe degli attori si potranno disciplinare? Si potrà regolare la concorrenza del cinema e della televisione ? Gli attori contesi daranno la preferenza al teatro ? Si troverà il modo di indurli a non tradire il teatro? E, per gli autori, come si comporterà la censura? Io personalmente, in fatto di censura, sono di questo parere: quando una commedia non cade sotto le disposizioni del codice penale è bene sia rappresentata, subito. Penserà il pubblico a giudicarla. Il pubblico è sempre più severo dei censori, anche di questi tempi in cui le sudicerie sono scambiate per ardimenti. Ci sarà una disposizione che riguardi i teatri comunali e che li vincoli a destinare i locali per determinati periodi dell’anno alla prosa? Si preciserà che i Teatri Stabili debbano rappresentare il repertorio in prevalenza italiano e di autori viventi? Saranno sovvenzio nate in partenza le compagnie di giro? Saranno trattate almeno alla pari dei Teatri Stabili? Sarà fatto obbligo alle dette compagnie di rappresentare in prevalenza autori italiani viventi? Si prescriverà che i debutti delle compagnie siano fatti con commedie italiane? Si fisserà che i bilanci dei Teatri Stabili debbano essere resi annualmente di pubblica ragione? Si beneficerà ancora di rientri il repertorio straniero con un gesto generoso che in nessun altro Stato si registra, che sa di raro altruismo e che invano attende il ricambio dai paesi stranieri? Si indicherà chiaramente che il repertorio debba essere di autori viventi? Baderà la nuova legge al fatto grave, gravissimo, che la storia del teatro italiano dopo la Libe razione segna una lacuna e che chi scriverà la storia del teatro italiano dovrà lasciare al capitolo II teatro italiano nel dopoguerra le pagine in bianco o quasi? Si preoccuperà la nuova legge del fatto che gli autori italiani non trovano il clima che li invogli a scrivere? E terrà conto la nuova legge delle commedie vincitrici dei Concorsi nazionali destinate a rimanere inerti nel medagliere di famiglia? Mai come quest’anno, vigilia di una legge sul teatro, il nostro congresso è stato importante. Mai come quest’anno si potrà dire che il nostro convegno non è servito soltanto a rive dere i vecchi amici e a conoscere i nuovi. E se è vero, come è vero, che si lavora tu tti in vettura chiusa, apriamo gli sportelli, cerchiamoci, scambiamoci i nostri desideri e le nostre speranze. Dissidi, rivalità, emulazioni, differenze di sentimenti, di idee, di princìpi, tutto umano; ma non dimentichiamo che viaggiamo tu tti quanti sulla stessa nave che va non si sa dove, compagni di viaggio, naufraghi ieri, domani forse (Dio non voglia) naufraghi ancora. Stiamo uniti. Divisi, tu tti ne approfitteranno; uniti, tu tti ci rispetteranno. Lavo riamo tu tti insieme: ciascuno per sè, per i propri sogni, per le proprie ambizioni, le proprie mete, ma tu tti per l’ingiustamente vilipeso, e tenacemente vivo, teatro italiano. E diciamola alle folle una parola di speranza, e non ripetiamo le condanne alla vita, non ripetiamo che essa è un nulla nauseante o un destino assurdo, non ripetiamolo anche se è dolorosa — e nessuno più di me ve Io può dire in questo momento — e neppure ci perdiamo nel dubbio pirandelliano. Facciamo che il teatro si riumanizzi e che il suo colloquio col pubblico avvenga da anima ad anima non con ritorni a forme passate truccate da nuove, ma rinnovandosi veramente, fermi nel convincimento che il teatro s’infutura quando vi palpita la poesia, quando rappresenta la verità di un tempo trasfigurata dall’arte, la verità sofferta, vissuta e rivissuta dall’autore drammatico che, con i tormenti dell’opera Eiigi» Possenti d’arte, paga il suo tributo alla vita. LA C R O N AC A E GLI “ IN T E R V E N T I” A L CONVEGNO DEL TEATRO D R A M M A TIC O B DA ENRICO BASSANO, INVIATO Preliminari d’uso, come negli incontri di calcio internazionali, come nei grandi scontri fra campioni della noble art: abbracci tra i « contendenti» che si sono visti l’ultima volta al Convegno dello scorso anno, il saluto signorile e cordiale di un rappresentante della « Vallèe » (stavolta lo ha dato l’assessore al turismo della Valle d’Aosta), infine le « raccomandazioni » agli atleti (del pensiero) intervenuti: dirige Rincontro Carlo Trabucco, essendone, per ovvie ragioni, impossibilitato Ton. Ariosto — presidente dell’ID I e sotto- segretario allo Spettacolo — e tenuto lontano da un improvviso disturbo il mce-presidente delTIDI, Lorenzo Raggi. Nel parterre un pubblico numeroso, forse più abbondante degli' anni precedenti : autori d’ogni tendenza, critici, registi, attori e attrici. Tra le frequentatrici assidue degli incontri annuali di Saint Vincent mancavano Elsa Merlini e Diana Torrieri: la seconda è assente giustificata, in quanto in tournée in America a recitare tutta sola. In compenso ci sono Maria Letizia Celli, Laura Adani, Lida Ferro, Toti Dal Monte, Cesarina Gheraldi e Paola Borboni, il cui « inter venti>» porterà al Convegno una nota profondamente umana e sottil mente poetica, quasi un recital in sordina, quasi una confessione a fior di labbra. La parola viene subito data (sono le ore 16,30 del 25 di. settembre) ad Eligió Possenti, relatore ufficiale, il quale tratta il tema-, «Il teatro di prosa nell’attuale regolamentazione e nelle prospettive della nuova legge». La relazione di Possenti precede queste note e l’avrete già letta. Deve essere letta e meditata. Noi tutti sappiamo in quali condizioni d’animo e di spirito egli l’ha redatta eppoi esposta; da uomo di teatro tra gente di teatro, Possenti, colpito da un grande lutto, si è com portato come quegli attori che entrano in scena ed affrontano il pubblico a poche ore di distanza da una gravissima ferita aperta nel loro cuore; i casi sono infiniti, e il critico ha voluto affiancare il proprio sacrificio umano a quello di chi sa di non poter mai fare « scena vuota ». La relazione di Eligió Possenti è limpida e forte. La crisi del teatro esiste oggi come è sempre esistita; ma la crisi di oggi è più grave di quella di ieri, perché i motivi che Talimentano sono più numerosi, più agguerriti, più «razionali ». Bisogna fermamente individuare questi nemici, e combatterli senza incertezze, senza timori. Ci sono anche i profittatori della crisi, e non bisogna sottovalutarli. Anzi, forse essi sono più pericolosi della crisi stessa. Nessun aspetto dei cedimenti del teatro è inedito, sia quello della concorrenza del repertorio straniero, sia la rarefazione del pubblico, siano i prezzi degli spettacoli (sempre più elevati). Semmai, qualche nuovo « ne mico » appare negli sperperi dei megalomani della messinscena, nella eccessiva durata di certi spettacoli, nella scostante materia di certi testi. In vista delle conclusioni della sua relazione, Possenti allinea una bella serie di interrogativi, tutti dedicati alla conformazione della tanto auspicata e mai approvata Legge sul teatro. Che cosa attendiamo da questa benedetta Legge? Qui Possenti fa il punto sui problemi più scottanti: il rafforzamento delle Compagnie « di giro », la concorrenza della radio e della televisione, la mis sione dei Piccoli Teatri, e, infine, una invocazione agli autori: riu manizzare il teatro con testi adat ti a ristabilire il contatto emotivo tra scena e platea, sì che le due maggiori entità del teatro, attore e pubblico, possano riprendere II loro eterno colloquio « da anima ad anima». Un applauso lungo, sincero, scro sciante ha detto a Possenti l’ade sione pronta degli ascoltatori. Si è messo in moto, subito dopo, il carosello degli «interventi». E qui — speriamo — nessuno ci chiederà una esposizione minu ziosa dei vari temi toccati da oltre trenta iscritti a parlare, e il lettore si accontenterà dunque degli appunti sommari del nostro taccuino, tanto più che non pochi oratori hanno straripato oltre i confini imposti da un’equa sud- divisione del tempo. E ancora qui — con molta sincerità -— diremo come da molti, da troppi « inter ventisti » si siano sentite cose cre mai conosciute a memoria da tutti, servite come pretesti (e senza mutamenti né aggiorna menti di sorta) in tutti, diciamo tutti, i precedenti sette convegni. Tanto è vero che qualcuno (forse lo stesso on. Ariosto) si è ram maricato per non aver pensato in tempo di far leggere, prima dell’apertura delle discussioni, un sunto delle passate riunioni, onde evitare doppioni inutili quanto fastidiosi. Abbiamo sen tito parlare della cultura e della anticultura, del teatro che si fa con l’autore, della esterofilia dei capocomici, del teatro che non deve mendicare, ecc. Giannini ha concluso il suo dire con un gio chetto di parole, rivolte ad Ario sto : « Sii l’Egidio e non l'eccidio del teatro ». Ma non siamo riu sciti a sorridere. Segue Lucio Ardenzi, organizza- tanto tore per il passato, ora capoco mico con tre Compagnie sulle braccia. E’ schietto e preciso. Parla del rischio del capocomi- cato, allinea dati ed esperienze, mette le mani avanti circa la scelta del repertorio straniero, con il quale, molte volte, si salvano — dice —- le stagioni e si tappano i buchi fatti nei bordereaux dai lavori italiani. Ardenzi è giovane, ma le sue parole non sono crude-, si avvertono dettate da un tiro cinio accettato con serietà e vis suto con passione. Poi s avvicendano Enzo Duse (se Ardenzi afferma che con una commedia straniera ne ha sor retto una italiana, lui, autore, con una sua, cioè italiana, ne ha fatto navigare una straniera : pari e patta)-, Ezio D'Errico (telegra fico : chiede esplicitamente perché si sovvenzionano le commedie straniere)-, Paola Borboni nel- l’evocare la sua battaglia per i testi « difficili » ha toccato un tasto umanissimo e poeticissimo; Federico Petriccione indica un male grosso nelle alte paghe degli attori, e narra un episodio scot tante; Gian Maria Corninetti invoca dallo Stato un teatro ita liano e una difesa per il solo teatro italiano; Vittorio Gassman domanda la detassazione quale unica prova di fattivo intervento dello Stato nella vita dello spet tacolo di prosa e segnala lo squi librio gravissimo tra le somme elargite ai Piccoli Teatri e quelle destinate alle Compagnie di giro; Mario Ferrari ricorda ad Ariosto di aver presentato, nei tempi pas sati, una serie di suggerimenti nella redazione della Legge; ed ancora, con argomenti svariati, Gotta, Girola ed altri. Poiché Giulio Pacuvio si chiede, fra l’altro, se la Legge dovrà tene re conto di esigenze economiche o artistiche, Antonio Ciampi, diret tore generale della S.I.A.E., com pie il suo primo intervento su terreno concreto, toccando argo menti del più vivo interesse, rias suntivo ai fini della chiusura della prima tornata di discussioni, e utilissimo per un richiamo a dati di fatto precisi e chiarificatori. Il giorno successivo all’apertura del Convegno ci si rimette al l’opera di buon mattino (per la gente di teatro, le dieci è una levataccia). Dopo Filippone e De Angelis, è di scena Alessandro De Stefani. Dice: mettiamo un po’ di ordine nelle idee. Giustis simo. E’, questo di De Stefani, il primo realistico passo verso la costruzione di un piedistallo sul quale sentirci tutti un poco più sicuri. Auspica una Legge con pochi articoli, ma chiari e precisi; si domanda — il tema è bruciante — quali saranno, se ve ne saranno, i limiti dell’inter vento dello Stato nella vita del teatro; chiede un argine nell’ec cessiva prodigalità statale nei ri guardi delle sovvenzioni; espone i lati negativi della esistenza del tiautore italiano, rispettato più al l’estero che in patria, e chiede che il protezionismo economico sia largamente integrato da una forma di umana comprensione che dia dignità alla figura arti stica e morale dell’autore teatrale. A proposito della discesa in lizza di letterati nell’agone teatrale, De Stefani ricorda come un secolo fa, in Francia, Dumas figlio e Sardou (teatro più teatro) venissero at taccati dai letterati Maupassant, Zola, De Goncourt, e come, nella disfida, le lettere fossero costrette a cedere il passo ai muscolosi colpacci di scena dei tecnici tea tranti. De Stefani accenna, inol tre, alla televisione come spetta colo e chiede ancora che all’au tore italiano sia concesso un lem bo di dignità entro il quale am mantare le proprie ansie di lavoro e di esistenza. Acclamato a piene mani, De Ste fani. La sua attenta, appassionata, umana perorazione farà peso su questo Convegno. richiama Seguono Cataldo (rivela perché egli, come autore, sia « dormien te » da dieci anni : una palese ingiustizia sofferta da una sua commedia, sabotata da un trucco combinato per imporre un cat tivo lavoro straniero) e Remigio Paone. L’infuocato di « Eccepì » era molto atteso. Paone premette di essere intervenuto come presi dente deWAssociazione Capoco mici. Denuncia nei precedenti interventi l’ossessivo ripetersi di temi masticati e rimasticati. Se gnala i rischi gravissimi dei capo comici nessuno dei quali — dice — s’è arricchito col teatro di prosa italiano; chiede l’abolizione delle sovvenzioni; i tempi di trentanni fa, quanto non c erano i più pericolosi ne mici del teatro, cioè calcio, cine ma, radio e soprattutto, ora, la televisione. Quest'ultima, dice Paone, è la vera e definitiva af- fossatrice del teatro con i suoi spettacoli che si pagano, nei locali pubblici, con poche diecine di lire: ’na tazza ’e cafè... L’inter vento vibrante di Paone surri scalda l’ambiente. Arrivano al pettine anche i Teatri Stabili (ch’egli, inizialmente, ha caldeg giato, specialmente quello di Mi lano) troppo instabili, troppo si bariticamente sovvenzionati. Sot tolinea il fallimento della poli tica dei troppi « Piccoli », salvan do solo quelli di Milano e Ge nova; auspica il ritorno completo delle Compagnie « di giro », e conclude mostrandosi molto scet tico circa la promulgazione della Legge... Anche ad «.Eccepì» ovazioni ca lorose. Ci si attende la « picchia ta » di Paolo Grassi, e infatti, dopo altri intervenuti (Radice, Trevisani — che suggerisce giu stamente il riversamento nel tea tro del fondo RAI, — e qualche altro), ecco salire al podio il crea tore del primo «Piccolo ». Ci si attendeva una serie di ruggiti e magari di intemperanze verbali (ricordiamo, qualche anno fa, un suo intervento a base di insulti), e ci troviamo di fronte ad una esposizione quieta, forbita, in certi punti addirittura morbida, in cui fanno spicco concetti pulitamente espressi anche se dedicati a sman tellare la relazione di Possenti, di Paone e di altri. In sostanza, però, Grassi non riesce a provare come la relazione-base sia da con siderare « inutile dopo sette anni di Congressi», e la risposta del Possenti stesso, alle ultime bat tute degli interventi, ristabilirà un sicuro equilibrio a tutto van taggio della relazione iniziale. Una battuta di Grassi definisce la televisione quale responsabile « del totale rimbecillimento del Paese », accanto ai rotocalchi ed ai « fumetti». Ammettendo la mancata saldatura della catena di Piccoli Teatri, il direttore del Teatro della città di Milano sot tolinea comunque — e qui non si può non riconoscere i meriti che gli spettano — la conquista al teatro di un pubblico nuovo, che compra lo spettacolo di prosa a prezzi convenienti, e che al teatro si è avvicinato con una sorta di timidezza trasformata presto in calda e sicura adesione : la politica dei Piccoli Teatri ha funzionato, in questo campo, po sitivamente. Parleranno ancora Squarzina, De Bosio, Ghigo de Chiara, Wulten. Farà il punto — sempre con chiara lucidità e un mirabile equilibrio — Antonio Ciampi. Il direttore generale della SIAE espone qualche cifra, richiama qualche statistica; ma soprattutto parla realisticamente in difesa dell’autore italiano, della sua ope ra, delle sue aspirazioni giuste e umane. Invoca una Legge che difenda il nostro teatro, e la invoca con un toc cante calore di passione e di in telligente e sensibilissima parte cipazione alla vita ed ai problemi degli autori tutti. Siamo alle ultime battute del- fattivamente l’V III Convegno dell’IDI. A i suoi interlocutori risponderà Eligio Possenti, esaurendo ogni richiesta, eliminando ogni dubbio. Infine ha la parola l’on. Egidio Ariosto. Il nuovo sottosegretario allo Spet tacolo ricorda il cammino com piuto attraverso sette convegni dell’IDI. Non si nasconde il pia- tiner sur place compiuto per certi temi, e lamenta anche la carenza — nell’attuale riunione — di ar gomenti atti a portare un fattivo contributo alla definitiva stesura della Legge sul teatro. « Non amatemi così », dice l’on. Ariosto, distorcendo lieve mente il titolo di una già famosa commedia fraccaroliana, « e non create attorno al mio lavoro una attesa messianica: io vi assicuro che compirò ogni sforzo per far passare la Legge, ma non aspet tatevi il miracolismo. Auguratevi solo che la Legge sia sorretta e potenziata dalla libertà che garan tisce l’ispirazione, la scelta dei temi, la sincerità di espressione ». E infine, con un gioco perfetta mente concertato, l’on. Ariosto legge parte di un memoriale per venutogli: è una esposizione di- tare corrodenti il teatro, la vita degli autori e degli attori, la stessa organizzazione tecnica e finan ziaria del teatro. Con un diver tente colpo di scena, il sottose gretario allo Spettacolo (indub biamente destinato a darci presto qualche suo copione) rivela l’au tore dello scritto « che pare ver gato oggi, sì aderente è ai nostri problemi, ai nostri desiderata » : si tratta dì un articolo di Yorici; scritto nel 1888... Ergo: il tea tro, settanta anni fa, era nelle stesse condizioni d’oggi, cioè in crisi... Il Convegno si chiude. Non è stato inutile. Forse è stato il più redditìzio, il più costruttivo. Si sono detti fiumi di cose inutili, e anche noi, ad un certo punto, abbiamo avuto la sensazione che la barca facesse acqua da troppe parti. Poi sono bastati tre o quat tro interventi a ristabilire l’equi librio. Si studieranno ancora i problemi del teatro, qui. Con meno gente, con adatte commis sioni. Ma il tempo non è andato perduto. E se, caso mai, l’anno venturo la Legge sarà ancora « dormiente » (non è impossibile, lo diciamo francamente) tornere mo qui, a riparlarne. Risentiremo temi frusti, battute logore. Pa zienza. Poi, ad un tratto, salterà pur fuori quel tanto di costrut tivo, quel tanto di sincero e di appassionato che agisce come il vento con le nubi-, spazzandole. Enrico Bassano * Saint Vincent3 settembre 1958. LA PREMIAZIONE La commissione giudicatrice, con siderate tutte le novità italiane rappresentate dal 1° luglio 1957 al 30 giugno 1958, non ha rite nuto di assegnare Finterò premio di un milione e ha deciso all’una nimità di ripartirlo « ex aequo », fra Giuseppe Marotta e Belisario Bandone per la commedia Bello di papà, e Giuseppe Patroni-Grif fi per D’amore si muore. Per la regìa, il premio di mezzo milione è toccato a Giorgio De Lullo e un altro di trecentomila lire a Fabrizio Sarazani, autore della commedia La grande famì glia. Pure trecentomila lire sono state assegnate a Gianfranco De Bosio, regista di Bertoldo a corte, di Massimo Dursi. Dopo i riconoscimenti agli autori e ai registi, sono state distribuite le maschere con « lauro d’oro » per i migliori attori che si sono distinti nell’interpretazione di no vità italiane. Esse sono andate a Nino Taranto, Rossella Falk, Vittorio Sanipoli. Due medaglie d’oro, per la valorizzazione del repertorio italiano, sono state as segnate a Paola Borboni e Maria Letizia Celli. Il premio Silvio D’Amico di 500 mila lire, per un saggio, è stato conferito a Mario Apollonio. I C A M P IO N I D E L L ’ U M O R N E R O VECCHIO TEATRO □ ’AVANGUARDIA FRANCESE Quando perdurava nel mondo l’emozione per l’av vento al potere del generale De Gaulle, Sandro De Feo scrisse sull’« Espresso », nell’abituale rubrica tea trale : « Il teatro francese è ancora oggi, con gli alti e bassi degli ultimi tempi, il più prestigioso, il più pro vocante e ricco d’idee, d’impegni, di fermenti, di ten tativi in tutto il mondo civile. (...) Se c’è stato qual cosa di nuovo e di allarmante negli ultimi anni dalla fine della guerra, che di nuovo ha dato ahimè ben poco, è pur sempre nel teatro francese che lo trove remo: Beckett, Jonesco, Adamov e gli altri guasta feste e campioni dell’umor nero. (...) E’ forse colpa loro se sotto la melensaggine, l’inerzia e lo squallore del nostro tempo corre sempre qualcosa di sinistro e di tetro? (...) Ma è proprio questo genere di inamene scoperte, che gli artisti veramente liberi e spregiudi cati non mancano mai di fare quando ficcano lo sguardo bene in fondo all’idealismo ipocrita e all’otti mismo melenso di una società, è proprio questo ge nere di scoperte che non va a genio ai regimi come quello che sta per essere instaurato in Francia ». Cospargiamoci il capo di cenere, scriveva in sostanza De Feo: l’unica nazione nella quale il teatro diceva delle cose nuove sta cedendo sotto i colpi della rea zione, e perciò si inaridirà la sorgente del nuovo, e sarà buio per tutti. Anche Carlo Bo su « La Stampa » ha manifestato il timore che la Francia di domani non sia più, in conseguenza dell’avvento al potere di De Gaulle, la Francia che egli si rappresentava come « qualcosa che va al di là di una patria umana, di una terra, di una storia (...), una categoria dello spi rito in cui facciamo rientrare tutte le cose che ci aiutano a vivere e in cui evitiamo di mettere la parte negativa, il peso delle cose, la stanchezza e la miseria che sono di tutti ». Si tratta di giudizi in cui sono evidenti considerazioni politiche e letterarie, e che possono quindi interessarci, in questa sede, a condi zione di frazionarli, perché resti solo la parte lette raria, e più precisamente quella teatrale. Non che siano trascurabili, intendiamoci, le conside razioni politiche. E’ evidente che sarebbe un gran male — e non solo per la Francia — se l’avvento di De Gaulle al potere significasse, a scadenza più o meno lunga, il silenzio coatto di questa o quella corrente culturale; e perciò, chi identifica De Gaulle con la dittatura ha il dovere di adoperarsi, con gli scritti e le opere, perché lo stesso De Gaulle fallisca. Quel che vogliamo dire è che in questa sede, essendo « Il Dramma » una rivista specializzata, interessa soltanto accertare se, nella deprecabile ipotesi che in Francia si istituisca una dittatura, si inaridirebbe l’unica fonte del nuovo in campo teatrale. Sandro De Feo parla di « nuovo » e « allarmante », e fa i nomi di Beckett, Jonesco e Adamov, e con essi accomuna — senza nominarli — « gli altri. guasta feste e campioni dell’umor nero ». Chi sono questi altri? Gian Renzo Morfeo nella presentazione della Cantatrice calva scrive: «Appartiene (Jonesco) a quel gruppo (...) di cui fanno parte Beckett, Adamov, Genêt, Schehadé, Tardieu, Vauthier, Pichette, Wein- garten e, in qualche modo, anche Ghelderode e Audi- berti». Questi gli «avanguardisti» del teatro fran cese, i « guastafeste e campioni dell’umor nero ». Ora, una prima considerazione da fare, a nostro avviso, è questa : che la cerchia dei « novatori » pare per un lato troppo ristretta e per l’altro eccessiva. Perché non includere, ad esempio, Anouilh, Camus, Sartre? E per contro come si può concepire che, con gli attuali chiari di luna, una sola nazione abbia tanti « novatori » ? Ci si deve dunque intendere, innanzi tutto, sul signi ficato delle parole. Novatore è solo l’avanguardista, e avanguardista è solo chi fa dell 'antiteatro alla Jonesco? In tal caso si do vrebbe dire che Paolo Paoli di Arthur Adamov (opera teatralissima nonostante la proiezione su uno schermo, all’inizio di ogni quadro, di frasi « éclairant et com mentant les événements de l’année » ) non contiene nulla di « nuovo e di allarmante ». In Francia il termine avant-garde ha ancora un fascino non solo nei circoli che, genericamente, si possono defi nire « decadenti ». Il settimanale (comunista) « Lettres Françaises » ha promosso un’inchiesta fra letterati, arti sti, uomini di scienza, per sapere che cosa si debba intendere, in quest’anno di grazia 1958, per avanguar dia. E « La Nouvelle Critique » (comunista) ha pub blicato (maggio 1958) un dibattito sull’avanguardia nel quale la scrittrice comunista Elsa Triolet ha dichia rato: « Je pense que l’art est d’avant-garde lorsqu’il apporte des éléments inédits, dont certains passeront, assimilés, dans l’art qui se fera par la suite. Une fois ces éléments de nouveauté absorbés, cette avant-garde-là cessera d’en être une, et c’est l’avant-garde suivante qui viendra maintenir le mouvement perpétuel de l’art. Pour fixer les idées : le futurisme était un art d’avant- garde, il apportait, en particulier dans la poésie, des éléments inédits, tels que l’urbanisme, le thème de la machine. (...) Apollinaire avec, disons, les Calligram- mes était de son vivant à l’avant-garde de l’art; aujourd’hui, les Calligrammes correspondent à l’art moderne, ces poèmes soni de notre temps; demain ih prendront rang dans la poesie classique, si ce n’est déjà fait ». Come dire che nel processo storico c’è sempre qual cuno che precede gli altri, per cui l’avanguardista di oggi è l’uomo comune di domani: concezione otti mistica, confortante, ma che purtroppo non corri sponde alla realtà. Si prenda, dei Calligrammes, la poesia che ha per titolo « Cannonier conducteur », dove molte parole hanno una funzione per così dire geo metrica (formare dei quadrati, dei rettangoli, dei trian goli, ecc.), e si constaterà che non si tratta affatto del l’arte di oggi, bensì di una tappa di quel processo di astrazione che Kasimir Malevich ha portato, nel pro prio ambito (pittura), alle estreme conseguenze dipin gendo in mezzo a una candida tela un quadratino bianco. Col che non si vuol negare né l’arte né la funzione di Apollinaire, ma semplicemente osservare che è necessaria una concezione mitica dell’avanguardia per vedere le cose come le vede la Triolet. Il De Sanctis, che vedeva in Giordano Bruno l’uomo che aveva costruito « un nuovo contenuto, da cui doveva uscire più tardi una nuova critica e una nuova letteratura », scrisse nella Storia della letteratura ita liana, a proposito dello stesso Giordano Bruno, che egli era « inviluppato in forme tradizionali e già guaste, che accennavano già ad una prossima dissolu zione della letteratura italiana ». Bruno, in altri ter mini, pur fondando una nuova concezione della lette ratura, non scrisse le pagine del domani, ma anzi si valse di « forme invecchiate e corrotte dal lungo uso ». Per contro il Galilei, che pur negava verità alla arte (da lui collocata, in contrapposizione alla verità oggettiva della scienza, nel mondo della favola e della finzione), deve considerarsi un novatore anche in campo letterario, avendo rifiutato — come giusta mente osserva il Cassirer in Individuum und Kosmos — insieme « col contenuto del sapere tradizionale anche la sua forma », per cui sentiva il latino inade guato volendo « pensare con la propria testa ». La storia è insomma assai più complessa di quel che mostra di credere la Triolet, e spesso accade che il vecchio e il nuovo siano mescolati, per cui non stu pisce che Marx (e poi sulle sue orme Lukacs) fosse entusiasta di Balzac (che cita persino nel Capitale), nel quale vedeva un coraggioso (d’avanguardia, di rebbe la Triolet) pittore della società del suo tempo. Niella stessa avanguardia (quella storicamente determi nata, che ha come vessilliferi Chagall, Picasso, Apolli naire, Max Jacob e via dicendo) c’è il vecchio e c’è il nuovo (« Braque, ha scritto il critico d’arte Mar cello Venmroli, non fu un rivoluzionario », ma deve considerarsi il pittore che « seppe dare all’avanguar dia la più alta carica di tradizione » ), c’è un’esigenza seria ma c’è anche molto fumo, e non manca talvolta il desiderio, tipicamente piccolo borghese, di épater le bourgeois. Enzo Muzii sostiene in « Cinema nuovo », che « quan do l’uomo è alle porte della luna, l’avanguardia lettera ria ha fatto il suo tempo. Alla cultura non resta che but tare acqua su tanta euforica barbarie: riprendere, in termini moderni, il discorso della ragione». Dal che si dovrebbe dedurre che avanguardia e irrazionalismo sono la stessa cosa: tutto il contrario di quel che dice la Triolet (che politicamente è sulle stesse posizioni del Muzii), la quale sostiene che oggi l’avanguardia è il realismo socialista ( « l’aile marchante de l’art qui se crée dans la douleur » ). Atteggiamento che hanno fatto proprio quegli scienziati che hanno dichiarato a « Lettres Françaises » che avanguardista è colui che, sulla strada della scienza e della ragione, precede gli altri. Per la Triolet dunque avanguardista è sinonimo di novatore, e mentre un tempo questo titolo doveva essere attribuito all'irrazionalista Apollinaire, oggi spetta di diritto al razionalista assertore del realismo socialista (quindi alla stessa Triolet e al commedio grafo Adamov). Per contro per Enzo Muzii (che in « Contemporaneo » mette insieme Jonesco e Adamov) avanguardismo e irrazionalismo sono zuppa e pan ba gnato, roba che ha fatto il suo tempo. Per De Feo il « nuovo » e « l’allarmante » è dato proprio dagli avanguardisti: egli per altro dissente sia dalla Triolet sia dal Muzii. Ecco perché abbiamo detto che ci si deve intendere sul significato delle parole. A nostro avviso se si vuol parlare di ciò che è (o aspira ad essere) nuovo nel teatro francese, si deve far riferimento a tutti coloro che han detto, o han cercato di dire, una parola nuova indipendentemente dalle formule e dalla tendenza. Se si menziona Jonesco, si deve menzionare anche Sartre, il quale, nonostante non abbia mai fatto uso del ter mine « antiteatro », si differenzia non solo da Sardou per un lato e da Becque per l’altro, ma anche da Valéry e da Gide. Sartre, rispetto al passato del pro prio paese, è , se così si può dire, ancora più « nuovo » di Jonesco: ma con questo si deve forse inferirne che egli, e Jonesco, e tutti gli altri, ci abbiano dato quel « nuovo » cui allude De Feo; quel « nuovo », per intenderci, che è venuto invece, in campo letterario, dall’America nell’altro dopoguerra (per cui Pavese diceva : « Anche un libro minore che venisse di là, anche un povero film, ci commuoveva e poneva pro blemi vivaci, ci strappava un consenso » )? Incominciamo da Camus. Ricordate Les justesP Sem brerebbero dei pazzi, se non si giudicassero col metro AeìYhomme révolté teorizzato dallo stesso Camus. L'homme révolté non è il rivoluzionario. Il rivoluzio- nario si situa sempre in una situazione storica, e quindi parte, per la sua negazione, da determinati valori econo mici, filosofici, sociali. L'homme révolté non riconosce validità alla storia, alla logica, e quindi per lui un siste ma (capitalistico, ad esempio) ne vale un altro (sociali stico, ad esempio). Nell’uno e nell’altro l’homme ré volté, che ha coscienza della miseria umana (miseria metafisica), è un étranger. Les justes perciò fanno i ter roristi non per abbattere un ordine e sostituirlo con un altro, ma per realizzare un mondo dove l'homme ré volté non sia più un estraneo: un mondo irrealizza bile — essi lo sanno — per cui la loro fatica è inu tile al pari della fatica di Sisifo (Le mythe de Sysiphe); ma Sisifo vince il proprio destino prendendone co scienza, e ne prende coscienza appunto con la propria (inutile) fatica. Siamo sulla scia, come si vede, di Kierkegaard, della ribellione cioè alla ragione, alla storia. Non è una novità, evidentemente, tanto più in un paese come la Francia che ci ha dato Baudelaire, Rimbaud, Proust e via dicendo. Naturalmente Camus non è né Baude laire, né Rimbaud, né Proust. Ma è sulle loro posi zioni; posizioni che se ebbero una validità in un deter minato periodo storico, sono oggi anacronistiche, tanto è vero che lo stesso Camus le sta abbandonando per volgersi, per dirla con padre Fagone, verso « un nuovo umanesimo, consapevole dei suoi limiti e spoglio di ogni illusione » (« Civiltà Cattolica », 1° marzo 1958). Con Camus (che dice : « Solo il concetto di un Dio personale, creatore e dunque responsabile di ogni cosa, dà senso alla protesta umana » ) si spiega anche Audi- berti, autore del dramma Querela contro ignoto, che vorrebbe essere un processo contro il Padreterno. Si spiega anche Malraux, che non stupisce affatto sia diventato ministro delle informazioni nel gabinetto De Gaulle (se tutti i comportamenti si equivalgono e si cerca l’azione solo per compiere consapevolmente la fatica di Sisifo, non ha alcuna importanza — nella vicenda politica — essere da una parte o dall’altra della barricata). Sartre invece è un caso diverso. Anche Sartre è sulla scia di Kierkegaard, ed è esatto come fa rilevare Francesco Valentini nella sua opera La filosofia francese contemporanea — che « proustia na è la concezione dell’amore di Sartre », e che Sartre sviluppa «i temi classici di Valéry». Però Sartre, a differenza di Camus, non si esaurisce nella corrente letteraria irrazionalistica dei Valéry, dei Proust, dei Baudelaire. Sartre ha voluto fare i conti sia con Hegel sia con Marx, il che (comunque si giudichi il risul tato) ha reso più complessa la sua tematica, per cui la « angoscia esistenziale » che troviamo nelle sue opere è diversa dalla analoga « angoscia » dei prede cessori e dello stesso Anouilh (che, vicino a Sartre, è un dilettante). Sartre, nonostante sia ossessionato come Gide dall’esi- genza di autenticità, non è un’appendice gidiana, e anzi si può dire che sia oggi il personaggio più rappre sentativo del travaglio culturale francese. Ebbene, si veda il suo teatro, e ci cascheran le braccia se in esso cerchiamo il « nuovo ». I personaggi di questo teatro si possono dividere in due categorie: i salauds (che son coloro che non si preoccupano dell’autenticità) e i filosofi (esistenzia listi, naturalmente). I primi accettano, per imbecillità o malvagità, l’ordine delle cose; i secondi si ribellano, ma non perché interessi loro cambiare la realtà ogget tiva, ma solo perché la ribellione è il mezzo per la conquista dell’autenticità, che esige esperienze ecce zionali. Saremmo sullo stesso terreno di Camus, se Sartre non avesse letto Hegel e Marx. Invece li ha letti, e si è fatto in quattro per « esistenzializzarli ». Per avere un’idea del risultato che ne è conseguito si rilegga Le diable et le bon Dieu, il cui protagoni sta, Goetz, è ossessionato da una teodicea che è un vero e proprio pastiche, estranea all’uomo di oggi così come a quello di ieri. La « novità » di Sartre, rispetto agli altri « guasta feste », è di non essere appagato del proprio « umor nero». Il più inquieto di tutti è lui, fa testa più forte (dei « campioni dell’umor nero » ) è la sua. Eppure il suo teatro non ci dice nulla che già non sapessimo. La delusione è poi ancora maggiore se ci rivolgiamo al teorizzatore dell’« antiteatro », a Jone- sco, che, nel raffronto con Sartre, ci appare un pul cino nella stoppa. Si veda, se si vuol accertare quanto sia poco originale e sprovveduto questo Jonesco, il numero di febbraio della « Nouvelle Revue Française », dove egli teorizza (pp. 247-270) la propria concezione del teatro. A teatro, da parecchio tempo (dopo Shakespeare e Kleist), rien ne va plus. Sentite come Jonesco giustifica il giudizio negativo col quale liquidò il « teatro » per creare l’« antiteatro » : « Strindberg me semblait insuf fisant, maladroit. Molière lui-même m’ennuyait. Ces histoires d’avares, d’hypocrites, de cocus, ne m’inté ressaient pas. Son esprit amétaphysique (sic) me dé plaisait. (...) Il n’y a plus de magie; il n’y a plus de sacré ». E poiché Jonesco ritiene che « tout histoire est valuable lorsqu’elle est trans historique », ne deriva che « Corneille sincèrement m’ennuie. (...) Schiller m’est insupportable. Les pièces de Marivaux m’ont paru longtemps des jeux futiles. Les comédies de Musset sont minces, celles de Vigny injouables. Les drames sanglants de Victor Hugo nous font rire aux éclats: en revanche, quoi qu’on en dise, on a assez de mal à rire à la plupart des pièces comiques de Labiche. Du mas fils, avec sa Dame aux Camélias, est d’une senti mentalité ridicule. Et les autres! Oscar Wilde? facile; Ibsen? lourdaud; Strindberg? maladroit. Un auteur contemporain dont la tombe est encore fraîche, Gi- raudoux, ne passe plus toujours la rampe; autant que le théâtre de Cocteau, il nous paraît factice, super ficial. (...) Pirandello lui-même est dépassé, son théâ tre étant fondé sur des théories de la personnalité ou de la vérité aux faces multiples, théories qui, depuis la psychanalyse et les psychologies des profondeurs, sem blent claires comme le jour. En confirmant la justesse des théories pirandelliennes, la psychologie moderne, allant nécessairement plus loin que Pirandello dans l’exploration de la psyché humaine, donne une vala- bilité certaine à Pirandello, mais en même temps rend Pirandello insuffisant et inutile : puisqu’elle dit mieux, plus scientifiquement que Pirandello, ce qui a été dit par Pirandello ». Pirandello, secondo questo modo di ragionare, sarebbe stato rovinato da Freud. Corneille aveva il grave di fetto (per Gustave Lanson è un titolo di merito, per Jonesco un imperdonabile difetto) di lasciarsi influen zare dalla filosofia cartesiana, ispirata (orrore!) al culto della ragione. Schiller non immaginava, intellet tualmente limitato com’era, che « toute histoire est valuable lorsqu’elle est transhistorique », e perciò il suo teatro è « insupportable ». Sarebbe ingenuo chiedere a Jonesco perché Shakes peare, che non leggeva « La Nouvelle Revue Fran çaise », abbia toccato i vertici dell’arte drammatica. Jonesco dice che c’è il pensiero discorsivo (pensée discursive) e un piano superiore di pensiero {pian supérieur de la pensée). Noi che ci sforziamo di farci intendere per mezzo della ragione, siamo al piano infe riore. Lui e Shakespeare e qualche altro (non più di venti o trenta) stanno di sopra, in una sfera dove noi non potremo mai arrivare, la sfera della super-storia, della super-ragione, dove la parola non ha più alcun valore, dove si balza mugolando e in preda al raptus della genialità, dell’arte. Ecco quindi l’esigenza dell’«antiteatro», del teatro cioè che si fa mugolando. E vada a nascondersi Brecht col suo teatro epico, mistificazione dell’« antiteatro ». Brecht credeva o non credeva alla ragione, alla storia, al pensiero discorsivo? Ci credeva. E allora si deve concludere che con la sua pretesa di rivoluzionare il teatro, non era che un buffone e un falsario. Il vero, unico rivoluzionario è lui, Jonesco, che sa che vi sono « des états d’esprit, des intuitions, absoluments extra temporelles, extra-historiques », inesprimibili con la parola (che è storica, temporale, sociale) e che per tanto egli cerca di esprimere per mezzo di personaggi che mugolano, gridano, commettono oscenità. E’ un saggio, questo di Jonesco, che non si legge age volmente, non perché non sia chiaro, ma per la sen sazione che si ha di perdere il proprio tempo. Non sappiamo se Jonesco abbia letto ciò che nel 1947 Giorgio Kaisserlian pubblicò nel « quaderno » L’in- dagine col titolo « Il presupposto filosofico di Gide, Proust, Valéry». Sarebbe interessante saperlo, per sta bilire le « fonti », dal momento che il saggio della « Nouvelle Revue Française » si presenta come una rimasticatura non diciamo di Gide, Proust, Valéry, ma di dati di seconda mano appresi appunto dalla lettura di qualche articolo sul presupposto filosofico di Gide, Proust, Valéry. Chi conosce questi tre scrittori, e poi va a leggersi le teorie di Jonesco, non può sottrarsi all’impressione che il Faust col quale stava discorrendo poco prima si sia mutato nel famulo Wagner. « Nuovo » e « allarmante » Jonesco? A Pizzighetto- ne, dove ancora devono avere notizia di Gide, Proust, Valéry, La cantatrice calva, Jacques o la sottomissione, Le sedie, La lezione, ecc. potranno forse essere giu dicate le bombe H del teatro. Ma per chi abbia una qualche idea delle correnti irrazionalistiche francesi, sa che Jonesco è un modestissimo epigono. Noi ci auguriamo che il saggio da lui pubblicato sulla « Nouvelle Revue Française » sia tradotto e diffuso nel nostro Paese. Si chiarirebbero così tutti gli equivoci, e si capirebbe meglio anche l’autore di En attendant Godot, Samuel Beckett. In questi giorni una nuova casa editrice, la Sugar, ha fatto uscire, di Beckett, la traduzione di un romanzo, Mottoy. Con Molloy, Be ckett ha fatto, rispetto ad Aspettando Godot, molti passi avanti sulla strada indicata da Jonesco in quel suo saggio. Sarebbe dunque interessante propagare questo saggio perché tutti sappiano chi sono in realtà i « campioni dell’umor nero ». Son coloro, per dirla con Diderot, che hanno spento il lume. Che l’uomo sia avvolto, da tutte le parti, da una nera foresta, è una constatazione ovvia (che cos’è il teatro, fin dalle sue origini, se non la tragedia dell’uomo che lotta per farsi luce nelle tenebre?): ma, diceva Diderot, per camminare in questa foresta abbiamo un lume: la ragione; è un piccolo lume, ma se lo spegniamo, non potremo più far nulla per diradare le tenebre. I « campioni dell’umor nero » hanno spento il lume, e gridano che tutto è tenebra, e ci invitano a mugolare. Libero ciascuno di racco gliere o no l’invito: ma non si dica, per carità, che i ciechi, i mugolanti son i più idonei a ficcare « lo sguardo bene in fondo all’idealismo ipocrita e all’otti- mismo melenso di una società ». Goya che, in campo artistico, fu implacabile ed effi cacissimo denunciatore degli aspetti negativi della società del suo tempo, è autore, fra l’altro, di una serie di opere intese a dimostrare che « quando la ragione dorme, nascono i mostri ». Nessuno meglio di noi, che abbiamo nella carne due guerre mondiali, e tutto il resto, sa che i complici dei mostri son proprio coloro che spengono il solo lume che ha l’uomo per farsi strada nelle tenebre. Altro che nuovo! Jonesco, Beckett e via dicendo sono gli ultimi bagliori dell’orgia irrazionalistica che tanto ha giovato agli avventurieri politici di tutte le risme. Adamov (nonostante sia messo nello stesso gruppo di Jonesco e Beckett non solo dal De Feo, ma anche da critici di sinistra) è un caso a sé. Paolo Paoli non è l’opera di un irrazionalista, bensì un’opera di de nuncia sociale fatta da chi non riconosce altro pen siero all’infuori di quello discorsivo. Si potrà discu tere sulla sua validità artistica, si potrà dire che in definitiva Adamov non ha rinnovato granché rispetto a G. B. Shaw. A ogni modo quel che è certo è che non si tratta di un « campione dell’umor nero ». La confusione è tale che « Paese Sera » (filocomunista e quindi teoricamente su posizioni antitetiche a quelle decadentistiche), in una corrispondenza da Parigi del febbraio scorso, ha sostenuto : « La rivoluzione tea trale eifettuata in 12 anni da Jonesco, Beckett e Adamov si dispiega in tutti i suoi termini (...) è una rivoluzione teatrale importante ». Di qui la neces sità di chiarire, perché innanzi tutto si abbia cono scenza degli esatti termini della situazione. Jonesco non è Adamov, e d’altra parte se si identifica il nuovo con la corsa a un irrazionalismo — per così dire — sempre più conseguente, si deve inferirne che Sartre è molto più nuovo di Jonesco, se non altro perché ha tentato vie nuove con una forza dialettica inegua gliata da tutti gli altri « campioni dell’umor nero ». Ma neppure Sartre è la rivoluzione, anzi. Molto più avanzato di lui, in campo teatrale, è Alfred Simon, che sulla rivista cattolica « Esprit » lo scorso gennaio scrisse: «Tout effort de rénovation théâtrale doit tenter un retour aux sources populaires ». Il teatro, come qualsiasi altra arte, è stato nuovo nelle diverse epoche quando ha interpretato fedelmente il proprio tempo e quindi ha interessato un vasto pubblico. Nuovo era il teatro di Shakespeare, che derivava dai « misteri » (forma attualissima di teatro per un pub blico che non era più quello dell’antica Grecia), e irri mediabilmente condannato il teatro di quegli umani sti che si illudevano di resuscitare il teatro classico. Nuovo è stato, a un dato momento, il teatro espres sionista. Ma oggi l’opera che più ci ha colpito per la sua novità e stato ¿1 Diario di Anna Frank, dove si vede e la miseria e la grandezza dell’uomo, e dove la scrittura — pur avendo la dignità dell’arte — si presenta con caratteristiche familiari a un vastissimo pubblico. Questa è la strada nuova, la strada della verità. L uomo non è né il fantoccio di Jonesco, né l’eroe della letteratura verniciata sovietica, ma bensì il fratello che Anna Frank intuì nel prossimo, un fra tello degno di pietà e tuttavia capace di infinita bontà, di infinito progresso. E’ questo l’uomo che, col lin guaggio dei nostri giorni, va illustrato, se si vuol fare del nuovo e interessare il pubblico. Dario Paccino SQUALLORE PER ÏL FIGLIO DEL CAOS Giuseppe Longo è ritornato in Sicilia, dove è nato, dopo molti anni, ed ha scritto una serie di articoli per la Gazzetta del Popolo: un di essi ha titolo « Il figlio del Caos » e descrive lo stato in cui si trova — ad Agrigento — la casa natale di Luigi Pirandello, della quale le finestre non hanno nemmeno i vetri. « ... Dalla strada nazionale si giunge a caso poiché nessuna indicazione è stata apposta, ma si indovina che la piccola strada bitumata a sinistra è quella buona. Oltre il cancello è la casa. Una casa rustica, di pietra, ad un piano, con la scala esterna senza ringhiera. « Noi volevamo vederla. Pensavamo di trovarla or dinata, con i mobili a posto, il letto natale, le antiche cose familiari, i vecchi tappeti, i grandi armadi, le piccole miniature, i ritratti nelle cornici, il padre, la madre, Pirandello bambino. Non sapevamo di trovare una fabbrica rustica, il vuoto, il volo delle rondini attraverso i finestroni cavi senza vetri, come orbite senza occhi. Salimmo la scala, varcammo l’uscio, ci trovammo in uno stanzone semibuio e una rondine ci sbattè le ali in faccia irriguardosa- mente. Squallore. Il pavimento era costituito da assi di legno sconnesse gettate come per il passaggio delle camole dei manovali, i muri erano scrostati e umidi e, dove cera, l’intonaco era intriso di sai- nitro e scurito dalle filtrazioni. La vernice degli infissi era disseccata e mancavano porte e finestre, tal che da quello che fu il vestibolo si intravedeva l’attiguo granaio e alzando gli occhi si vedevano soltanto i travi e le tegole del tetto. Sugli architravi delle due porte del vestibolo cerano due piccoli dipinti a fresco, rettangolari, un po’ sbiaditi, di settanta centimetri per quaranta, come misurammo ad occhio. La contadina ci disse di sapere per certo che si trattava di due dipinti di Pirandello ragazzo. « Nell’altra stanza d’angolo, quella che guardava il mare, ci aspettava la sorpresa. L’unico arredamento era una consolle di noce, sul ripiano marmoreo della quale spiccava l’urna d’olivo, grande, rustica, di sgradevole forma. E accanto, appiccicato alla parete annerita dall’umidità, un manifesto verdognolo, co me quelli che annunciano una liquidazione o il rin vio di uno spettacolo, con la riproduzione, senza er rori di stampa, della poesia II ritorno ». « ... due piccole pigne, vuote e secche, sono state po sate, con intenzioni ornative, sul marmo della con solle funeraria e da lontano possono essere scambiate per due spregevoli portacenere ». «...Il comune d’Agrigento avrebbe fatto meglio a prendere in custodia l’urna collocandola in un posto decente, in uno dei tanti magazzini di cui i muni cipi abbondano. O ancor meglio avrebbero fatto a disperdere nel vento queste ceneri, rispettando la volontà di Pirandello, o se le avessero sepolte sul promontorio, sotto il pino ». T H E E L D E R S T A T E S M A N ■ L’ANZIANO STATISTA PER LA TERZA VOLTA, T. S. ELIOT, IL MAGGIOR POETA VI VENTE DEI PAESI DI LINO UA INGLESE, SCRIVE SU ORDINA- ZIONE UN’OPERA DESTINATA AL FESTIVAL D’EDIMBURGO Q DA GIGI LUNARI, INVIATO Nelle fotografie sotto: Paul Rogers e Anna Massey, protagonisti del la nuova commedia di T. S. Eliot L’anziano sta tista. Accanto: gli stessi, durante la recita, nei ruoli rispettivamente di padre e figlia. THOMAS STEARNS ELIOT Il Festival di Edimbur go è entrato nel secondo decennio della sua esi stenza. Un bel volume edito a cura del comita to direttivo offre uno sguardo panoramico di quanto è stato fatto nei primi dieci anni, e a noi non resta che sottolinea re la perfetta organizza zione e l’eccezionale li vello artistico di questa annuale manifestazione che non ha ormai eguali al mondo, e che la se rietà e la capacità degli scozzesi ha reso famosa nel breve volgere di un decennio. Anche l’undi cesima edizione (inizia tasi il 24 agosto e con clusasi dopo tre settima.- ne) è stata all’altezza delle precedenti, e pro prio per ciò che riguarda il teatro l’interesse che ha suscitato è stato mag- giore che per qualsiasi altra delle sezioni in cui il Festival si articola: il New Watergate Theatre Club vi ha recitato Long day’s journey ìnto night di O’Neill, conosciutissima in Italia per l’interpretazione di Renzo Ricci, e l’Old Vie ha presentato sull’« apron stage » dell’As- sembly Hall la Dodicesima notte e Maria Stuar da di Schiller. Infine, al Lyceum Theatre, Eliot ha presentato in prima mondiale la sua ultima fatica di autore drammatico, tre atti dal titolo The elder statesman (L ’anziano statista). Con quel prudente ritardo con cui tutte le opere straniere arrivano in Inghilterra (1), Long day’s journey into night è giunta ora anche in Scozia, ottimamente diretta da José Quintero e molto ben recitata da Anthony Quayle e Gwen Ffrangcon - Davies, nei due ruoli principali. Quanto all’Old Vie, ha portato ad Edimburgo quella Dodicesima notte che è stata senza dub bio il suo miglior successo di pubblico durante la scorsa stagione, facendovi seguire Maria Stuarda di Schiller, in una nuova traduzione di Stephen Spender. Con Maria Stuarda l’Old Vie ha presentato quello che dovrebbe essere uno dei pilastri della prossima stagione londinese. La tragedia non è nuova all’Old Vie ed è stata presentata sta volta in una nuova versione di Stephen Spender, (1) Come da noi (N.d.R.). Nella fotografia in alto: una scena della commedia di T. S. Eliot, L’anziano statista, apposi tamente scritta per il Festival di Edimburgo, dove è stata in fatti rappresentata. L’attore Paul Rogers, protagonista, si è truccato — col consenso del l’autore — in modo da rassomi gliare inequivocabilmente all’at tuale primo ministro inglese. condotta senza eccessivi scrupoli di fedeltà. I tagli sono stati nu merosissimi e abbondanti, il che da un punto di vista rigidamente estetico potrà anche essere ripro vevole, ma da un punto di vista più pratico è assolutamente ne cessario per rendere accessibile e sopportabile questa bella — ma pesante — tragedia, vecchia or mai di centocinquantott’anni. Ben diretta da Peter Wood, che ha saputo sfruttare a dovere le pos sibilità del palcoscenico dell’As- sembly Hall, degradante verso il centro della sala e circondato da tre lati dal pubblico, Maria Stuar da è stata recitata da Irene Worth, che ha saputo dare al personaggio dell’infelice regina di Scozia una forza espressiva non comune; Catherine Lacey non le è stata da meno nella parte di Elisabetta I, e il drammatico contrasto tra i due caratteri così diversi per tanti aspetti è stato sempre ottimamente reso. Ma l’avvenimento di gran lunga più importante di quest’undice- sima edizione del Festival di Edimburgo è stato fuor di dub bio la rappresentazione in prima mondiale di The elder statesman, che Eliot ha scritto dietro invito del comitato organizzatore. E’ la terza volta che Eliot, il mag gior poeta vivente dei Paesi di lingua inglese, scrive su ordina zione un’opera destinata al Fe stival di Edimburgo: nel 1949 vi presentò The cocktail party e nel 1954 fu la volta di The confiden- tial cler\. (Tra parentesi, vai la pena di ricordare che anche Thornton Wilder venne per due volte invitato dal comitato orga nizzatore a scrivere un’opera tea trale per il Festival; e rispettiva mente tre e quattro anni or sono presentò A life in thè sun e The matchmaher. Anche di que ste prove di fiducia vive il teatro). Tornando ad Eliot, il grande poeta americano di nascita ed inglese d’elezione non giunse al teatro che relativamente tardi; ma fin dal 1920 se ne era attiva mente occupato come critico e come saggista in uno scritto inti tolato The possibility of a poetic drama, in cui s’opponeva al rea lismo equivoco di tanta parte del la produzione di allora, e rivendi cava la necessità di una forma drammatica in cui il linguaggio assumesse forma poetica. Nel 1928, nel Dialogue of dramatic poetry, Eliot scriveva che la ne cessità del verso stava nel carat tere universale di ciò che l’au tore intende esprimere nella sua opera : « Se vogliamo esprimere l’eterno e l’universale, noi tendia mo ad esprimerci in versi ». Que st’affermazione può essere molto discutibile, e in effetti a me pare sia vera solo per ciò che riguarda Eliot stesso; ma appunto per que sto essa è indispensabile per com prendere il carattere del suo tea tro. « L ’eterno e l’universale » rap presentano di questo teatro la preoccupazione fondamentale; per cui l’interesse del poeta non è mai limitato alla creazione di caratteri umani nel senso in cui quest’espressione è intesa nel vo cabolario estetico tradizionale, ma nella creazione di caratteri che possano assurgere ad un signifi cato più vasto, non circoscritto in precisi limiti né di spazio né di tempo, e che quindi spesso si rifanno ai « tipi drammatici fon damentali » — per così chiamarli — quali ci sono stati tramandati dalla tragedia greca. Anche in questa sua ultima fa tica Eliot ha dispiegato molte delle caratteristiche del suo tea tro. The elder statesman è la storia di un anziano uomo poli tico, di nome Lord Claverton, che dopo una carriera densa di suc cessi che gli ha dato fama di va lentissimo statista se ritirato, am malato e ormai stanco, dalla vita politica attiva. Costretto a passare lunghe ore in poltrona e le gior nate in un ozio cui non era abi tuato, Lord Claverton ha ora mo do di ripensare alla sua vita, di ripercorrerla con occhio critico e con piena sincerità verso se stesso, e non può evitare di contrapporre ai successi e alla fama che la pub blica opinione gli ha tributato la coscienza di un proprio intimo e profondo fallimento. Nei mo menti di sincerità con se stesso, via via più frequenti man mano che sente avvicinarsi la fine, la sua carriera e i suoi successi e la fama di cui gode egli li sente do vuti non tanto al proprio reale valore, quanto alla propria abili tà nel mascherare, con una sicu rezza tutta superficiale ed este riore, l’intima pochezza dell’esser suo, e — talvolta — anche alla scarsa ortodossia della sua con dotta. Lord Claverton vive con una figlia che nutre per lui una ammirazione e un’ adorazione sconfinate; ma appunto messo di fronte a questo sentimento egli sente ancora di più il contrasto tra ciò che egli è e ciò che egli appare, e s’acuisce ancora di più il senso di colpa che lo tormenta. Il pover’uomo è stanco; stanco di sostenere la parte che con tanto successo ha recitato per tutta la vita, stanco di mascherare con una apparenza di forza quella che è l’intima debolezza, la fra gilità, il bisogno degli altri che egli sente in sé. Forse vorrebbe gettare la maschera, scendere dal piedestallo, mostrarsi per ciò che è e per ciò che è sempre stato, ma lo trattiene —- da un lato — il sen so ancor vivo dell’antico orgoglio; dall’altro, il timore di perdere quell’amore della figlia che gli è tanto necessario. La crisi scoppia quando giungo no a trovarlo due antiche cono scenze: un compagno di colle gio che era stato in prigione per falso e che poi era emigrato nel Sud-America, dove aveva fatto fortuna approfittando e parteci pando della corruzione che re gnava nel Paese che l’aveva ospi tato; e una signora di mezz’età, vedova, di cui egli era stato il pri mo amante e che aveva anch’essa avuto un tangibile e valutabile successo sia grazie alla sua pro fessione d’attrice, sia grazie ad un certo numero di profittevoli matrimoni. In questi due esseri, balzati improvvisamente alla lu ce dalle tenebre della dimentican za, egli rivede il suo passato; essi gli ricordano due occasioni di be ne, di cui la sua codardia o il suo egoismo non gli fecero approfit tare; il rimorso e il senso del fal limento s’acuiscono in lui, e si acuisce la coscienza dell’illusorie- tà e della vacuità della propria posizione agli occhi della figlia che tanto rappresenta per lui. L ’orgoglio ormai non conta più; egli sente di dover confessare tut to ciò che gli preme dentro, a costo di perdere quell’ammirazio ne e quell’aifetto della figlia, che egli peraltro vede rivolti ad un essere che possiede solo la sua ap parenza esteriore, ma che in real tà non esiste se non nell’immagi nazione degli altri. Nei terz’atto, Lord Claverton apre finalmente alla figlia il pro prio passato; sceso dal piedestallo, gettata la maschera, il vecchio statista si rivela per quello che è: un uomo, un povero uomo stan co, la cui vita ha conosciuto la de bolezze umane, e che ne sente ora il peso e il rimorso. Un uomo che non è mai stato tanto se stesso quanto nel momento in cui se ormai spogliato della veste in cui viveva agli occhi del mondo. E dopo la confessione egli s’accor ge di non aver perduto la figlia; forse non è più l’infatuazione di prima ciò che essa prova per lui, ma un affetto più vero ed umano, che si dirige proprio a lui in ciò che è, non in ciò che sembra. Quell’affetto più caldo che gli es seri umani riserbano alle persone cui si sentono necessari. Il vec chio statista, liberato, muore. Get tata la maschera, liberatosi delle apparenze, egli era ormai ben po ca cosa; ma « annullandosi — conclude il poeta — è divenuto ■se stesso». The elder statesman è un’opera di grande valore. La linearità, la apparente semplicità della trama si animano di sorprendenti effet ti drammatici e dinamici. Basta vedere con quale sapienza sono dosati e condotti gli interventi di quelle due ombre del passato che sorgono a turbare la coscienza di Lord Claverton, per comprende re quale suprema padronanza tec nica, quale rigoroso senso dram matico, e quale abilità nello svi luppo del racconto siano dispie gati in questo dramma. Ricordo d’aver letto non so dove un aned doto, in cui si narrava che duran te una rappresentazione londine se di The confidential cler\ una spettatrice aveva definito il terzo atto « quasi come un giallo ». Per semplicistico e sbrigativo che pos sa essere, il giudizio calca a pen nello; e non disdegno dal servir mene per dare un’idea del carat tere di suspense che domina il terz’atto anche di questo Elder statesman, tanto . avvincente è il processo attraverso il quale il vec chio statista si prepara e si deter mina alla confessione e alla libe razione finale. La critica ha defi nito questo lavoro come il più umano tra i drammi di Elliot; ma taluni — forse prevenuti dal la personalità dell’autore e dalle sue opere precedenti — si sono dati alla ricerca di quell’univer sale, di quel modello tipico cui ricondurre la figura di Lord Cla verton, ravvisandolo — se abbia mo ben capito — nell’Edipo a Colono. Che cosa vi sia di vero in questa parentela, non saprem mo proprio; a noi è parso che la figura di Lord Claverton abbia un tal vigore umano, una tal for za vitale, una tal credibilità e con sequenza da rendere superflua ogni ricerca di chiarificazione al di fuori di essa. Che Eliot abbia potuto ispirarsi al caso di Edipo a Colono per dare un’interpreta zione moderna dell’uomo che at traverso la mortificazione e la espiazione si purifica e ritrova la pace, è possibile e non stenterem mo a crederlo. Ma a noi sembra che stavolta il problema etico uni versale passi in secondo piano e resti, per così dire, solo implicato nella vicenda; e che l’interesse dell’autore si rivolga soprattutto a quei caratteri che la sua imma ginazione ha saputo creare, va gheggiandone e narrandone i ca si e gli affetti senz’altra preoccu pazione che quella per la loro umanità. Paul Rogers, che ha dato vita alla figura di Lord Claverton, ha fat to il suo ingresso in scena truc cato in un modo da risultare mol to somigliante all’attuale primo ministro inglese; ed Eliot, inter rogato in proposito, avrebbe ri sposto che la somiglianza non è casuale. Ed allora ecco che una domanda sorge spontanea: Edi po a Colono, o Harold Macmil lan? Da che cosa fu principal mente ispirato, stavolta, Eliot? Da un problema universale ed eterno, o non forse — anzitutto — da questa figura d’uomo poli tico che certo è troppo presto per giudicare, ma che ha dovuto as sumersi un ruolo ed un’eredità forse troppo gravosa per le sue forze? Per nostro conto non ci dispiace poter pensare che ancor oggi vi siano uomini capaci di guardare un loro contemporaneo con occhi di Poeta, interessandosi non a ciò che egli appare, né alla funzione che riveste, né a ciò che fa o dice dal piedistallo in cui la società lo ha posto, ma sofferman dosi ad immaginare quale sarà mai Fintimo suo essere, quali i suoi più segreti pensieri, quali i suoi bisogni, le sue paure, le sue sofferenze e le sue debolezze. Op pure —- come in questo caso — aspettarlo al varco della sua car riera, immaginarlo in solitudine, immaginarlo deporre la masche ra e ritornare uomo con se stesso e con gli altri. Se Federico Della Valle nella Torino dell’ultimo Cinquecento poteva scrivere una tragedia su Maria Stuarda dopo pochi mesi dalla sua morte, e se il Manzoni poteva dimenticare l’imperatore dei francesi per dedicare il suo affetto di poeta ad un suo simile prigioniero in una lontana isola nei tropici, perché non deve es ser possibile ad un autore del giorno d’oggi immaginare quale sia l’essenza umana di un suo contemporaneo, che pure non gli appare che attraverso le dichiara zioni ufficiali e i titoli dei gior nali ? Questo è il messaggio che ci vie ne da The elder statesman: tro vasse molti orecchi pronti a rac coglierlo, potremmo bene spera re per l’avvenire dell’Uomo. Paul Rogers, già noto al pubbli co del Festival per un magnifico Macbeth d’alcuni anni or sono, ha dato vita al non facile perso naggio di Lord Claverton, sotto lineando con bravura il travaglio morale che lo tormentava, e por tandolo attraverso la difficile evo luzione che da una certa rigida asprezza all’inizio lo volge alla confessione e alla liberazione nel terz’atto. Nei panni della figlia, Anna Massey s’è confermata tra le più promettenti attrici della nuova generazione. William Squire ed Eileen Peel hanno egregiamente dato vita al le parti delle nuove Eumenidi, e Richard Gale, Alee Me Cowen ed altri hanno ben figurato in al cuni ruoli minori. The elder statesman sarà reci tata certamente, prima o dopo, anche in Italia, ma è sperabile che la strada indicata da questo dramma venga seguita da qual che commediografo nostrano. Chissà che portandole sulla sce na, mostrandocele uomini e non più eccellenze, certe figure poli tiche che tanto infestano le pri me pagine dei nostri quotidiani non acquistino una fisionomia più degna di simpatia e di com- prensione. Gigi Lunari Edimburgo, settembre 1958. G E N O V A IN F E D E L E ® Al Convegno annuale dell’Idi — se ne parla in altra parte di questo numero di « Dramma » — il problema dei Piccoli Teatri è affiorato più volte, e sempre in un clima passa bilmente tempestoso e su acque non adatte alla facile e tranquilla navigazione. Per bocca dello stesso Paolo Grassi (e la dichiarazione è di non lieve importanza), due Teatri Stabili hanno potuto salda mente imporsi: quello di Milano (il suo) e quello di Genova. Ora non diciamo che la città di Colombo debba dedicare un giorno di festa all’affermazione del «suo» teatro, ma che al «suo» teatro i cittadini genovesi possano guardare con un certo amore e con una aperta simpatia questo sì, potrebb’essere simpatico e anche giusto. Naturalmente qualcuno penserà: «Che cosa c’è di genovese auten tico nel Piccolo Teatro della Superba? Semmai, i genovesi, possono andare superbi solo di Covi... ». Giusto. E allora come lo mettiamo l’affare delle squadre di calcio? Per carità, non tocchiamo questo tasto, e passiamo piuttosto ad un tema molto più realistico e pertinente: quello delle palanche. Nella Giunta Comunale di Genova ci dev’essere qualcuno che la faccenda delle sovvenzioni al « Piccolo » la digerisce male. Ha torto. Noi non sappiamo assolutamente chi sia o chi siano i detrattori del « Piccolo », ma vorremmo che costui o costoro fossero stati « genovesi all’estero » e precisamente in Sud America — per aver provato quello che hanno potuto provare i nostri concittadini di San Paolo, di Monte video, di Rio, di Santos, di Buenos Aires, di La Piata, cioè delle grandi citta dove le recite del nostro « Piccolo » sollevavano mareg giate di applausi e di entusiasmo e di profonda irresistibile com mozione. Se Gilberto Govi nelle sue due tournées sudamericane (ormai lon tane nel tempo) ottenne un fenomenale successo personale, ora, con il giro dello « Stabile » di Genova, all’attenzione di quel pubblico (d’ot timo gusto) e di quella critica (non facile d’accontentamento) si sono imposti valori artistici e organizzativi tali da sollecitare un continuo richiamo ai confronti con le maggiori e più significative formazioni spettacolari straniere, francesi in modo particolare, e possiamo garan tire come dal gioco dei paragoni il « Piccolo » di Genova sia uscito più che onorevolmente. Merito delle palanche dei genovesi, spese bene. La lunga sequenza delle vedute panoramiche di Genova e delle due riviere, che una sera ha occupato la trasmissione della Televisione Belgrano, è stata il compendio delle « feste » dedicate al gruppo dei « genovesi » che stava ottenendo un successo entusiastico in uno dei maggiori teatri della capitale argentina. E la voce di uno speaker di eccezione di Tele Belgrano, l attore italiano Luigi Mottura, ha ricordato ai milioni di telespettatori l'importanza di Genova, le bellezze di Genova, il carattere dei genovesi, e le conquiste di Genova nel campo del teatro, cioè della cultura, dello spirito... All’epoca della preparazione della tournée in Sud America, corse voce che la Giunta genovese stava per negare i soldi per raggranellare il capitale necessario al compi mento del viaggio, e che si giun se a un punto in cui o si sareb be dovuto rinunciare a tutto, o mettere ogni cosa nelle mani di un capitalista privato. E pensare che la tournée si è chiusa in bel lezza anche sotto l’aspetto ammi nistrativo! Il « cartellone » dello « Stabile » genovese portava questi spetta coli: Anfitrione, Misura per mi sura di Shakespeare, La locan- diera di Goldoni, I demoni di Fabbri, da Dostojevshjj, Il dia volo Peter di Salvato Cappelli, e La conchiglia all’orecchio di Va lentino Bompiani. Forse l’opera che maggiormente ha interessato è stato il dramma di Cappelli; quella che ha sollecitato l’atten zione di un pubblico eletto e di una critica sottile è apparsa La conchiglia all’orecchio di Bom piani e quella verso la quale, an che per la qualità dello spettacolo stesso, si è manifestato l’inquie tante carosello dei « posseduti » è la dostofev spiana I dèmoni. Tre attori hanno destato meravi glia per i loro temperamenti, per le qualità di preparazione e la somma di sensibilità: Enrico Ma ria Salerno, Valeria Valeri, Tino Buazzelli. Si sono scritti giudizi entusiastici per questi tre giova nissimi. E di Margherita Bagni, che per la sesta volta faceva « contatto » con i pubblici sud- americani, si è ancora una volta sottolineata la personalità viva ed estrosa, e si è ricordata la grande discendenza (lassù, il ri cordo di Ermete Zacconi è man tenuto intatto: una reliquia). Ora il « Piccolo » genovese sta mutando la pelle: ne sono usciti il Salerno, la Valeri, il Buazzelli. Il direttore dello « Stabile », Ivo Chiesa, si è messo all’opera come un sinistrato che ha avuto la casa scardinata dall’alluvione. Ma tut to questo era preventivato: la pelle nuova è segno di vita che continua, di linfa che fluisce. Enrico Bussano S O C R A T E IM M A G IN A R IO Al Teatro Sant'Erasmo di Milano, l'8 settembre 1958, la Compagnia diretta da Fau sto Tommei ha rappresentato la commedia « Socrate immaginario » ricavata da Riccardo Bacchelli, dalla riduzione per la scena di prosa deiropera buffa sette centesca dell'abate Galiani e del Lorenzi. Regìa di Franco Enriquez. Il «Socrate immaginario » è del 1775; Anton Giulio Bragaglia, negli anni passati, ne ha data una pittoresca e non dimenticata rappresentazione, alla quale prese parte Tecla Scarano, attrice dialettale rinomata. a Machiavelli scrisse, a un certo termine della sua vita, La mandra gola. Aveva trattato dell’arte della guerra, aveva configurato la per sona del principe, mandava lettere vere o immaginarie a potentati. Eppure il teatro (fu un’occasione) lo chiamò e da lui ebbe la piu grande commedia italiana. In altro secolo e in altro luogo, 1 abate Ferdinando Galiani, ambasciatore di Napoli a Parigi, dissertatore di dazi, di dogane, archeologo fantasioso, napoletano vezzeggiato dagli Illuministi, fu trascinato dal librettista Lorenzi a partecipare alla stesura de II Socrate immaginario che doveva servire^ per la musica di Paisiello. L ’opera fu suonata, recitata e cantata. E’ caduta l’abitudine di eseguirla in musica e in questi ultimi tempi è stata considerata come testo di prosa a sé stante; e non sono ancora finite le dispute sulla parte che nella stesura di essa ebbe il Galiani e su quella che ebbe il Lorenzi. E’ merito della critica contemporanea, e di qualche spregiudicato, aver cercato di attribuire alla letteratura teatrale tutta la librettistica del teatro in musica e fra quella scegliere. Le storie dei generi lette rari e quelle che, dopo l’avvento crociano, li superano per più ampia visione, arrivate alla letteratura teatrale del Settecento considerano solamente i fatti canonici : la tragedia, la « commedia dell arte », la antinomia Gozzi-Goldoni, il Metastasio e figure e cose minori. E’ dal Settecento che data l’alienazione del teatro « parlato » a favore dell’opera in musica, alienazione che però si valeva di testi scritti sui quali costruire l’orditura sonora. Il rapporto parola-musica e rapporto insoluto dal tempo della Grecia (quanti sanno che le tra gedie di Eschilo erano cantate e che Eschilo era piu grande come musicista che come «librettista»?); ma viene continuamente nel corso dei tempi a riprodursi. La parola teatrale del Settecento per virtù barocca è giunta a stremarsi, a vibrare, tanto d’aver bisogno di aloni, soccorsi musicali. Sul costrutto si e sovrapposto il vocalizzo, sulla quartina è venuta a riprodursi l’arietta. Una situazione aveva bisogno di una introduzione di piccola orchestra. E’ stato qui che il teatro ha defezionato davanti alla musica dando luogo all’opera, al melodramma che fanno storia a se e lasciano per quasi due secoli sguernite le scene di prosa. Si può affermare e ripetere che, alla luce di recenti teorie estetiche, alla letteratura teatrale dev’essere restituita, per un riesame ed una collocazione, tutta la librettistica. Se ne avran sorprese. Noi ci siamo presto scostati dal genere, dopo aver fatto conoscenza col Francesco Maria Piave e col Cammarano. La prepotenza della musica di Verdi era tale che gli acuti non bisognavano di sillabe, però chi risalga al primo Ottocento o all’ultimo Settecento troverà meraviglie a non finire. Libretti come: Crispino e la comare, Il campanello, Lo frate ’nnammurato — e potremo continuare a citare — possono essere assunti come esemplari di un teatro comico che noi, in quei tempi, non avevamo. Wagner è poi sopraggiunto e ha compiutamente risolto e codificato per sé l’accordo delle due arti. Ma appartiene già a un’età lontana da noi che ci ritroviamo alle prese col dissidio; e non riguarda l’epoca che vide Ferdinando Ga- liani, lui, uno scientista, accedere ad una strampaleria scenica. Si 'sa cos’è 11 Socrate immaginario-. un’idea fissa che visita il buon Tammaro che non si sente più uomo della sua città, vivente fra la minuta gente, ma si invasa di Socrate e ogni accadimento con figura come quelli che accom pagnarono la vita del sommo filosofo; e i conoscenti che gli van per casa e lo visitano con Platone ed altri illustri ateniesi. Su questa stravaganza, che reg ge l’assurdo della commedia, si inserisce la trama, allora con sueta, dell’assecondare l’inganno per sposare la figlia dell’alluci nato. Nella prefazione è lo stes so Galiani che porta in causa il Don Chisciotte. E’ però una dipendenza relativa che acquisi sce proprie ragioni e pittoresca mente si ambienta fra i luoghi e i tipi del sud di allora. Il punto focale dell’opera (sul quale solo si fosse insistito ci si trovava alle soglie di una grande invenzione) è quando, per farlo rinsavire, i familiari inducono il nuovo So crate a bere la cicuta ed egli, che non sa che è una pozione di son nifero, pensa di trangugiare un veleno per percorrere in fondo la via della grandezza. Il disincanto avviene per un repen tino perdere di memoria del personaggio, per il ritorno alla realtà, ed è mutazione così de stra che può far sembrare quasi non tanto impegnativa la favola o l’illusione. A veder meglio, però, può sorgere il sospetto di trovarsi di fronte a un perso naggio a più dimensioni; il quale entra ed esce dalla realtà con immaginosa inscienza. Riccardo Bacchelli deve aver obbedito nella riduzione del la voro al proposito di restituirlo, nel filone della nostra grande tradizione, alla scena di prosa. E il risultato è stato quanto mai probante. fino La regìa di Franco Enriquez è stata agile ed attenta. Impegnata l’interpretazione di Fausto Tom- mei. C’è da sottolineare la reci tazione succosa, estrosissima, di Franco Sportelli e quella ani mata del Giacobini. Una nota di merito alla De Pasquali. Molti applausi. Vittorio Vecchi Il nostro critico da Milano, Vittorio Vecchi, non ha potuto continuare, per questo fascicolo, il suo servizio perché indisposto. Lo ha momenta neamente sostituito Pier Benedetto B ertoli. Ai Teatro Sant'Eiasmo di Miiano, ii 30 settembre 1958, la Compagnia diretta da Fausto Tommei ha rappresentato la commedia in 3 atti di Renato Lelli: « Come il verde dei nostri abeti ». Re gìa di Franco Enriquez. ® Angelica e i suoi occhi bellis simi non sono ormai che un ri cordo per il marito Lorenzo duca d’Ascoli, incarcerato da oltre vent’annì appunto per aver cau sato, a suo tempo, la morte della adorata consorte. Eutanasia, na turalmente. Eutanasia, in seguito ad accordi preventivi intercorsi tra il duca e la moglie incura bilmente malata: così almeno, all’epoca del processo, il duca giurò ai giudici. Ma con scarso successo. Uxoricidio, risposero fermamente i giudici nel dispo sitivo della sentenza. Mentre, dunque, ormai dimenti cato, il duca va consumando in carcere gli ultimi dei suoi venti cinque anni di pena, in una villa presso il mare di Sirolo la di lui figlia, Clarissa, maritata a un marchese di Volterra, si trova alle prese con tre figli scape strati, con un marito svagato e disutile, e soprattutto con i conti di casa che vanno disastrosa mente. Constatato che la figlia primogenita Mabel ama con generoso accanimento, e in parte polemicamente, uno scultore po vero; preso atto che il secondo- genito Lamberto passa i suoi dì scroccando le ultime sigarette e i superstiti centesimi al citato scultore povero; e considerato il poco nobile comportamento dei conti della spesa, i quali non tor- nano mai, la marchesa Clarissa, per sanare il bilancio, decide di dare Valtra figlia, Diana, in mo glie a certo Filippo Ruffo-Ca- valcanti, non bello e presso la cinquantina, ma, in compenso, principe e ricco. La storia è a questo punto quan do si alza il sipario, tanto che nelle prime scene della commedia assistiamo al girovagare per casa di Diana avvolta in candide ve sti di sposa. Gli avvenimenti prendono una svolta improvvisa e inaspettata verso il 15’ del primo atto, quan do — tutti i Volterra si sono ri tirati un momento nelle proprie camere — compare inatteso il vecchio duca d’Ascoli al quale il carcere ha aperto anticipatamente le porte in seguito ad un’amni stìa. Compare il duca e, prima cosa che fa, va al pianoforte e attacca un Chopin, credo. Po tenza evocatrice della musica! Dalla porta irrompe Angelica, rievocante fantasma che, in una serie di scene, farà sapere al pub blico quanto grande sia stato l’amore suo per Lorenzo e di Lo renzo per lei e come di eutana sia sì sia trattato a suo tempo e non di uxoricidio. La più sec cata, a vedersi ricomparire il duca in casa, è la figlia Clarissa e poi, via via, gradatamente, tutti gli altri. Ma chi prende la cosa addirittura malissimo è la prin cipessa Ruffo - Cavalcanti che, sfruttando il pretesto della ri comparsa dell’ex condannato, manda a monte l’imminente ma trimonio dì suo figlio Filippo con Diana. Clarissa e famiglia si avventano contro il duca così inopportunamente ritornato alla vita civile e, per vendicarsi, gli fan sapere dell’esistenza in solaio di certe lettere dalle quali risulta che la defunta e amata Angelica corrispondeva, almeno epistolar mente, con Francesco Pisante, amico di famiglia. Finiti chissà dove i Volterra con il loro matrimonio mancato, il terzo atto è tutto per il duca, la Centa, per Francesco e per Angelica riapparente. La gelosia ritardata del duca sfuma, ché l’equivoco si chiarisce: tra Francesco e An gelica intercorsero solo rapporti platonici. Il dramma di Renato Lelli si ispira a temi e a modi roman zeschi, quasi melodrammatici ; la storia del duca d’Ascoli, di An gelica, dell’eutanasia e del Pisan te è altro dramma da quello dei nobili nipoti del duca incapaci di metter freno in qualche modo alla propria decadenza. D i qui sbandamenti e inaspettati scarti, che rendono alquanto disordina to il procedere del racconto. Gli attori, assai bravi, hanno dato omogeneità di clima alla tensio ne drammatica che anima le due storie. Marisa Mantovani, bella e lirica Angelica, Carlo Ninchi, sobrio e incisivo duca d’Ascoli. E Fausto Tommei, un Francesco Pisante bonario e crepuscolare. Ma ricorderemo la Crotti, il Ceriani e la vivace An dreina Carli, il cui personaggio, Clarissa, dagli occhi verdi come i nostri abeti, ha contribuito effi cacemente ad assegnare un titolo alla commedia. i*. b. b. Al Teatro Nuovo di Milano, il 1° otto bre 1958, la Compagnia diretta da Ce sco Baseggio ha rappresentato la com media in tre atti di Carlo Lodovici: « Gente alla finestra ». Regìa dell'autore. ® E’ la storia di Gigi, un mo desto muratore, semplice, altrui sta, dotato del buon senso pro prio della povera gente. Ma un bel giorno, a mettere a prova questo suo buon senso, gli acca de uno di quei fatti per mezzo dei quali la vita sa porre in im barazzo e ridicolizzare qualsiasi buon senso. Si tratta di una com media scritta per divertire e vi riesce perfettamente. Spesso il dia logo è gustoso; sempre autentico. Cesco Baseggio, bravissimo; la Vazzoler, chiassosa e simpatica; ottimi Carlo Micheluzzi, la Se- glin, la Ariani e Lina Franchetti. Il pubblico si è divertito e ha ap plaudito molto, anche a scena aperta P U L C I N E L L À Ì m C E R C A D E L L A S U A F O R T U N A P E R N A P O L I Il Piccolo Teatro di Milano ha iniziato, il 2 ottobre 1958, la sua dodicesima Stagione Teatrale, rappresentando — con la regìa di Eduardo De Filippo — una commedia di Pasquale Altavilla Pulcinella in cerca della sua fortuna per Napoli nel libero adattamento dello stesso Eduardo. Poiché una commedia del genere può essere esaminata, in sede critica, nel quadro generale del teatro napoletano, come, ad esempio, la recente opera antologica di Giulio Trevisani in due volumi Teatro Napoletano, preferiamo sostituire il sommario racconto dell’argomento con le € notizie» storicamente valide sull’Autore, sul suo tempo e sulla commedia, aggiungendo che il successo di Pulcinella in cerca di fortuna per Napoli è stato, al Piccolo Teatro, per la natura stessa dell’opera e per il modo come è stato allestito, vivissimo ed in taluni momenti addirittura clamoroso. Né avrebbe potuto essere altrimenti, cono scendo l’opera e la rara perizia di Eduardo nel riesumarla rammodernandola, vivificandola, approfondendo taluni significati e mondandola dalle scorie inevitabili del tempo e del modo di recitare, quasi a braccia, di quel tempo, per un pubblico particolarissimo, quale furono gli spettatori del San Carlino. Né l’interpretazione è stata da meno, valendosi il De Filippo di attori in massima parte ricchi dell’esperienza napoletana, come Enzo Petito e Pupella Maggio, Salvatore Cafiero e Achille Millo (Pulcinella), Franco Sportelli, Gennaro Palumbo, ecc. L’autore — Alto, buono, simpatico, bravo : uomo di fede, anche reli giosa, sincera; lavoratore tranquillo, paziente, scrupoloso, infaticabile; au tore di circa cento commedie, moltissime delle quali non pubblicate, attore coscienzioso e lontano dalle quotidiane malignità di palcoscenico; Pasquale Altavilla, il ricostruibile film della sua vita, propone una imma gine del « San Carlino » (il famosissimo teatro in Piazza del Castello 1738-1884) antitradizionale, antifolcloristica, sbianche poco suggestiva. E, per questo, più autentica e vera. Nato a Napoli nel 1806, figlio d’un impiegato postale, Pasquale Altavilla viene avviato alla carriera di scrivano. Che abbandona assai presto : per seguire la vocazione d’attore. Comincia a recitare « farse a soggetto » in uno dei tanti tuguri trasformati in teatrini che pullulano in Piazza Ca stello e finalmente, a ventinove anni compiuti, viene accolto nell’Univer sità della risata : è scritturato al « San Carlino » da Silvio Maria Luzi col ruolo di « carattere sciocco ». Debutta a fianco del Pulcinella Salvatore Petito e, nello stesso anno (1835), scrive e fa rappresentare la sua prima commedia : Na trastola de na barraccara abbascio a lu Mercato (L’im broglio di una venditrice di roba vecchia al Mercato). Tre anni prima Filippo Cammarano (1764-1842, terzogenito di Vincenzo e appartenente ad una schiatta di « artisti » che, siciliana di origine, fiori all’ombra del Vesuvio) aveva smesso di recitare. Ma continuava a scri vere tentando ancora, a suo modo, di contrapporre alle improvvisazioni spesso volgari dei comici sancarliniani una commedia di « caratteri ». Ispirandosi, prima —• manipolando, poi — a testi goldoniani. Pasquale Altavilla, come autore, fu il continuatore delle intenzioni del Cammarano che realizzò certo più compiutamente. Il suo teatro può defi nirsi una sorta di teatro-cronaca, le sue commedie quasi tutte di « attua lità » ispirate, almeno nell’avvio, a fatti ed avvenimenti del giorno (la inaugurazione di una ferrovia, quella di un negozio, il successo d’un artista lirico, di una taverna alla moda, ecc.) opportunamente deformati, cioè teatralizzati. In realtà i suoi lavori, aggancio attualistico a parte, suggeriscono perso- naggi compiuti, vicende realisticamente inquadrate, un ambiente, popo lare o borghese, già definito. E in essi appaiono molti « caratteri » che serviranno da matrici a varii commediografi nostrani, dopo di lui. Come attore, Pasquale Altavilla lavorò al « San Carlino » per circa qua rantanni: con l’avvento di Antonio Petito rimase in compagnia con il ruolo di « promiscuo » (Pasquale Passagiale) cantando anche, accompa gnandosi con la chitarra, stornelli amaramente umoristici. Nel 1863, con la Compagnia del San Carlino, fu a Roma, al Teatro Valle, festeggiatissimo dalla corte borbonica qui rifugiata. I l suo tempo — In un mondo teatrale napolitanamente ancora infioc chettato dai pregi e dai difetti dell’improvvisa, governato amministrati vamente dai Luzi (impresari per generazioni) ma retto dispoticamente dallo scaltrito mestiere di Pasquale de Angelis (il « buffo barilotto »), Raffaele Di Napoli (il « guappo napoletano »), Gerardo Cosenza, oltreché dalla superlativa bravura dei Petito, Salvatore o Davide, e, infine, dalla alchimia teatrale dell’insuperabile Antonio Petito, Pasquale Altavilla rap presenta l’altra faccia della medaglia : il « comico » dalla vita privata senza bizzarrie, ordinata, tranquilla, snodantesi tra le « prove », le lezioni di canto o di chitarra ch’egli impartisce per arrotondare la paga, le ore della notte fonda o dell’alba in cui, stropicciando la penna d’oca sui quin terni, Don Pasquale scrive le sue commedie. Le commedie di Altavilla colgono e fissano, in una sorta di valida galleria teatrale, le abitudini della gente dei suoi tempi, i loro problemi quoti diani, la loro gioia di vivere, come possono, le ore più liete. L’usuraio, il pezzente arricchitosi disonestamente, il popolano generoso e ciarliero, il poveraccio costretto a cambiare cento mestieri in un anno pur di sbar care il lunario, la servetta non solo civetta e intrigante ma interessata ed avida, questi ed altri son tutti « ruoli » che circolano frequentemente nelle commedie del Nostro. Che, nel loro insieme, appaiono una illustrazione teatrale alla De Bour- card degli usi e costumi napoletani del tempo. Molte le commedie di Altavilla dove non appare Pulcinella o dove questi ha un ruolo secondario. In verità l’autore di Don Ciccillo alla Fanfara anticipò la riforma di Antonio Petito presentando un Pulcinella non più servo sciocco, crasso, volgare ma lavoratore onesto e volonteroso, carattere già e non più maschera. II successo che arrise come autore e come attore Altavilla lo meritò certo; se non perché fu vero artista (il Di Giacomo nella sua Cronaca del Tea tro San Carlino esprimerà su di lui un giudizio non troppo positivo che, da allora, molti hanno comodamente ripetuto) per la sua serietà e capacità di « artigiano del teatro », un « maestro » ricco di sensibilità oltre che di « mestiere », capace, certo, di realizzare un « capo d’opera ». Dal 1849 al 1861 Altavilla pubblica buona parte del suo teatro in cinque volumi, ognuno di dodici commedie. La commedia — La commedia Pulcinella che bà truvanno la furtuna sofà pe’ Napule (La Secutata de li Don Nicola) non risulta, con questo titolo, stampata tra il teatro di Altavilla, né nelle edizioni pubblicate tra il ’49 e il ’61 né tra le altre, edite successivamente, tra il ’61 e il ’67. Venne comunque rappresentata sempre con molto successo e ripresa dai comici napoletani continuamente sino all’edizione del 1926 presentata in tre atti da Salvatore De Muto al Teatro di Napoli. Bragaglia cita, tra le pulcinellate a stampa (Pulcinella, Casini, 1953) la commedia in questione come edita, senza libreria e mancante di data (?). Alla trama di Pulcinella che bà truvanno ecc. si ispirano Gerolamo Gau diosi ne A’ cascettella ’e zi’ Gennaro e Vicenzino Scarpetta ne A’ fortuna ’e Feliciello. MIRACOLO ALLA TV: TATIANA PAVLOVA HA RECITATO “ NISRRÀ: EFROS” Poiché io scrivo su una rivista mensile ed il collega Sam Car- cano su un quotidiano, mi scusi Famico se affermo a distanza che avrei voluto poter dire subito, immediatamente, come a lui è stato consentito, ciò che egli ha scritto in «La Notte» l’indoma ni della rappresentazione televi siva di Mirra Efros interprete mirabile Tatiana Pavlova. Ecco le sue, ed ora mie parole: « Bisognerà dire a questi giova notti che vengono su con l’idea che il teatro sia tutto da rifare, che ci vadano piano. Quella lon tana sera del 1929 in cui la Pav lova fu per la prima volta Mirra Efros, essi andarono a letto alle nove in punto, con la carnicina bianca e il bacetto della mamma, ma al Teatro Valle di Roma ci fu una splendida “ prima ” . Gia como Lwow ed Eligio Possenti quel testo di Gordin l’avevano sapientemente inteso e levigato, ma avrebbero esitato a giurare che si trattasse proprio di un ca polavoro. Il miracolo l’aveva fat to lei, quella giovane attrice, così ricca d’umanità e di talento da scavalcare senza un graffio la bar riera degli anni e delle genera zioni. Nuova e modernai, si era trasformata in una perfetta non na del secolo innanzi. Dopo qua si trentanni s’è confermata la prova; e non davanti a poche centinaia di poltrone sapienti, quante ne contiene un teatro, ma per un pubblico elementare e reattivo, non disposto alle riserve, alle mezzetinte, ai giudizi cauti e condizionati, com’è quello del la TV. E in mancanza di applau si e di chiamate per misurare in tempo e in numeri il successo del la Pavlova, annoteremo il fatto che nella maggior parte dei bar non s’è poi ascoltato il telegior nale. La commozione era così forte, che non ha sopportato di essere distratta nemmeno dalle ultime notizie. Diciamolo apertamente: gli spet tacoli della TV paiono spesso ap puntati con gli spilli. Qualche volta, nonostante il nome e la bravura degli interpreti, e la de strezza del regista, non riescono a nascondere il filo bianco della imbastitura, ma una Mirra Efros con sì grande e mirabile inter prete ci compensa da ogni pas sata delusione ». Ecco, per Tatiana Pavlova, ab biamo letto, ed è il meno che si possa scrivere per ringraziarla della gioia che ci ha dato. Ag giungeremo che il regista Clau dio Fino ha saputo cogliere con estrema chiarezza quello spirito di antica famiglia ebraica, quel sapore di rito, quel duro senso di un vivere patriarcale che sono appunto del teatro jiddish il più vigoroso sostrato. Fino ha diret to lo spettacolo con cura; ha sa puto vederne gli addentellati let terari, richiamandosi con gusto alla rievocazione precisa di un ambiente e di un’epoca. Tra gli altri interpreti, bravissima Elvira Betrone — squisita, eccellente at trice, nell’umanissima parte di Màchis, — ed a posto con grande dignità, come sempre, Aldo Sil vani. Nei limiti di una presta zione corretta, Nando Gazzolo, Orazio Orlando, Gastone Ciapi- ni, Milly Vitale e Giusi Raspani Dandolo. Nel mese, avanti Mirra Efros, ab biamo avuto un’altra eccellente trasmissione : due buonissimi spet tacoli, in così breve tempo, costi tuiscono una media piuttosto ele vata, un indice di qualità che non va sottovalutato. Mario Landi, come Claudio Fino, ha acquista to, oltre ad una scioltezza di lin guaggio, un proprio stile di rac conto e una essenzialità narra tiva. Così, ne L’ereditiera (*) di Ruth e August Goetz, Landi ha messo in risalto, con annotazioni di gusto e sottolineature intelli genti, proprio lo « spirito » del racconto di Henry James da cui il testo fu tratto. La chiusa vita di provincia, la quieta e grigia esistenza di Caterina, umiliata dall’incomprensione paterna, tro vano proprio nelle immagini il giusto equilibrio, il tono letterario di un dramma al suo nascere. Così il racconto acquista, nella analisi del personaggio, la pro fondità propria della pagina scrit ta, va oltre al teatro in una sin tesi di indubbia efficacia. All’edizione scenica che Renzo Ricci presentò anni fa, con suc cesso, nei teatri italiani, Mario Landi ha aggiunto una più viva rappresentazione realistica; ha scavato nel bel personaggio in terpretato con molto vigore e acu ta sensibilità da Èva Magni e ne ha tratto ogni sfumatura ac costandosi a lei in primi piani di valore espressivo. Così il dram ma di questa ragazza sfiorita, umiliata ed offesa nel sentimento più alto, trova in tutte le sue sfumature una piena giustifica zione espressiva. Come il film omonimo diretto anni or sono da William Wyler, anche lo spet tacolo televisivo tende al ritratto introspettivo, crea attorno alla fi gura della donna un ambiente appena accennato e sviluppa, so prattutto, un’analisi di carattere. E’ il dramma di un amore che si accende improvviso e che si ina ridisce alla fine, quasi con rabbia. Ottima l’interpretazione di Èva Magni, s’è detto; convincente (1) Pubblicata in « Il Dramma », n. 123- 124, del 1° gennaio 1951. quella di Giorgio Albertazzi, nel le vesti del seduttore, incantato dal miraggio di una ricca siste mazione « borghese » alle spalle dell’ereditiera; efficace la carat terizzazione di Mercedes Brigno- ne — una zia premurosa ed in genua —. Ma sopra tutti è Ricci, nella difficile parte del padre, at tore sempre a posto, sempre equi librato, sempre vivo e moderno, nonostante l’enfasi, a volte, del personaggio. Buone le scene e i costumi, ma senza un particolare carattere. ® Degli altri spettacoli, ricorde remo il divertente giallo-rosa Ro meo Bar di Guglielmo Giannini, messo in scena da Anton Giulio Majano, Chirurgia estetica di Vin cenzo Tieri e I fiordalisi d’oro, entrambi diretti da Guglielmo Morandi. Quest’ultimo spettaco lo, allestito con una certa cura del particolare, riporta alla ribal ta del video un’opera minore di Gioacchino Forzano: c’è una cer ta suggestione dovuta alle scene e ai costumi della Francia dei giacobini e dei sanculotti; una rete fitta di intrighi e di insidie che 'si scioglierà, alla fine, in una storia convenzionale, alla quale Mila Vannucci, Giancarlo Sbra gia e Olinto Cristina prestano una certa autenticità di recita zione. Unico testo originale, scritto ap posta per la televisione, è stato l’atto unico L’idtima faccia della medusa di Paolo Levi, diretto da Luigi di Gianni con scarso im pegno. D’altronde anche il testo inzeppato di trovate da fanta scienza (un marziano atterra in un paesino e sconvolge resisten za tranquilla di una giovane ra gazza) e di considerazioni pseu do-filosofiche sulla felicità e sulla vita, non era certo il più indicato per una prova impegnata. Anche per la televisione, s’è già scritto, il problema è sempre un proble ma, in primo luogo, letterario e solo da un buon testo può nasce re uno spettacolo buono. Edoardo Brano < O “ Ì z d < > d < 5 I - 2 - I — < □ li) Q Ì » " d 2 2 " OL O ____ I □ o l i a. °- < - i 2 < n\ - W S 3 0 - o . g Sopra: Gigi Reder, Pupella Maggio, Enzo Donzelli: sotto: Elena Tilena, Franco Spor telli, Achille Millo. H La riproduzione a colori è un quadro di Luigi Surdi, estroso pittore napoletano, che ha dipinto molti « San Carlino »: ambiente, cioè, e scene di quel glorioso teatro. (Collezione Lucio Ridenti). z i 3 = $ £ r - a ^ u- “ j « < < 3 CO I - 1 < ^ I “ ili © - i r ò - i ^ S é s < o 5 nÌ C5 ^ UJ < ^ ° S 2 Z © “ < g; j < 5 ¡ ¡ ¡ K g Z => © “ 0 © o 3 « < b J 9 P Q. Z ^ Enzo Petito e Ugo d’Alessio. Nella foto accanto; Franco Sportelli e Achille Millo. TATIANA PAVLOVA IN “ MIRRA EFROS” TELEVISIVA Una delle maggiori e certamente la più originale nostra attrice, dopo le sue varie regìe tele visive, nelle quali si e sempre riscontrata la presenza della sua eccezionale personalità, è comparsa sugli schermi TV, il 19 settembre 1958, interpretando in modo mirabile una delle eroine piu interessanti del suo repertorio. La commedia fu recitata al Valle di Roma, nel 1922 tradotta da Giacomo Lwow e Eligio Possenti. Per molti anni costituì uno dei più significativi successi dell attrice. Presentandola alla TV, ella ha dato una esemplare lezione ai giovani dimostrando da quella maestra che è come bisogna intendere e come si recita davanti alle telecamere. La maggior parte degli attori TV, improvvisati o no, io ignorano. I quattro atti di Giacomo Gordin «Mirra Efros.. sono stati adattati in due tempi da Claudio Fino e Pier Benedetto Bartoli. Hanno preso parte allo spettacolo, oltre la Pavlova, Elvira Betrone, Silvani, Gazzolo, Oppi, Verdiani, Giusi Dandolo, Milly Vitale, Minello, Ciapini, Collino, Marchiò e molti altri. Ha diretto Fino, tenendo sempre conto della presenza di una Tatiana Pavlova. (Nelle foto, due scene della teletrasmissione, con la Pavlova, Elvira Betrone, Aldo Silvani Giusi Dandolo). ^ I l a G L O R I O S O ^ ^ : - L’interesse suscitato dalia riapertura stagionale del Piccolo Teatro di Milano con la farsa celebre di Pasquale Altavilla, liberamente adattata da Eduardo De Filippo, “ Pulcinella in cerca deila sua fortuna, per Napoli” ha riportato il ricordo del Teatro San Carlino di Napoli (il famosissimo teatro in Piazza del Castello 1738-1884). In quel teatro l’autore delia commedia recitata ora al “ Piccolo ” di Milano — Pasquale Altavilla — fu attore e com Heliógrafo. Altavilla nacque nel 1806 da un impiegato postale e, prima scrivano, divenne in seguito attore per passione. Altavilla, come autore, fu il continuatore delle intenzioni del Cammarano, che realizzò più compiutamente. Recitò al “ San Carlino” per qnarant’anmi. Questa la storia del “ San Carlino” . La storia più recente del glorioso Teatro San Carlino si ricollega a quegli anni in cui Napoli, riavutasi dalla scossa politica del trapasso dinastico, andava a poco a poco prendendo coscienza della sua nuova funzione di città italiana. Erano anni importanti : Francesco De Sanctis illumi nava la vecchia università borbonica di nuova luce liberale, insegnando ai suoi discepoli quelle « Lezioni di storia della Letteratura Italiana » che rimangono un monumento insigne della cultura nazionale; Bertrando Spaventa, rivendicando il grande pensiero di Hegel, dava sviluppo ad una filosofia italiana, inserita nel grande filone europeo; uomini politici come Silvio Spa venta e Stanislao Mancini riprendevano da Napoli la lezione unitaria di Cavour, per un’affer mazione dell’idea dello stato decisamente laica e progressista. Eppure Napoli, per quanto in via di trasformazione, a quanti viaggiatori l’andavano visitando in quegli anni, come Ales sandro Dumas, appariva ancora ricca di memorie e di sopravvivenze borboniche. In Piazza Castello il cantastorie andava declamando ancora le sue storie di Orlando e di Rinaldo; ancora erano visibili nel bailamme di quel centro tradizionale e bagatellisli e ciarlatani, e venditori d’ogni genere di merce e cantimpanchi. Poco discosto, alla Dogana del Sale le Guardie di finanza avevano ancora l’aria degli antichi gabellieri e le Guardie di città dal « kepi » con la mappa, il numero alle mostrine e le lunghe daghe al fianco conservavano il portamento delle Guardie nazionali. Eppure sul molo attraccavano navi già italiane; e il movimento portuale pareva avesse nuova e più intensa vita di traffici; s’iniziava il duello Genova-Napoli; ma l’antica capitale, ancora ricca dei suoi cantieri di Pietrarsa, riusciva ad averla vinta sulla « città superba », con i suoi « Ansaldo » in pieno sviluppo. A l centro della zona tradizionalmente viva e fiorente di Napoli, anche il Teatro San Carlino pareva risorto a nuova vita. Attraverso l’ingresso angoloso e disadorno del teatrino, trasudante storia e giocondità, passavano i nuovi grandi del tempo, per chiedere ai lumi ad olio di quella piccola ribalta una luce di festevolezza e di civiltà tutta partenopea. La sala settecentesca, che aveva visto nei suoi palchetti i re e i ministri e le belle dame dell’età borbonica, continuava ad essere un ritrovo elegante che, ogni sera, eccezionalmente, si animava, per la presenza in un palchetto di proscenio di un personaggio illustre. Applausi a non finire per Antonio Petito, al sommo della sua gloria di scrittore e di attore; specie da quando, dopo il 1872, era morto il suo vecchio antagonista Pasquale Altavilla, cadendo dalle scale di casa sua, mentre dava un « ingresso di favore » ad un vicino « sbafatore ». Il grande « Pulcinella » era solo: e tuttavia andava allevando nel suo seno il nuovo idolo delle platee sancarliane, Eduardo Scarpetta: colui che alcuni anni più tardi avrebbe soppiantata la « maschera » delVAcerrano, imponendo al pubblico la « sua » maschera di Sciosciammocca. Una sera del marzo 1874 una elegantissima dama, vestita di nero, apparve prima dell’inizio della recita nel palchetto di proscenio del « San Carlino ». Gli occhialetti si appuntarono su di lei e un mormorio di meraviglia e di ammirazione si diffuse tra gli spettatori, galvanizzati, quella sera, da un duplice spettacolo. La dama era la Contessa di Mirafiori, la moglie di Vittorio Emanuele I I ; la quale era accorsa al « San Carlino » per assistere alla commedia del Guarini Madama quatte solde; e non s’era vista mai una signora d’alto lignaggio ridere così francamente in una sala di pubblico spettacolo. Quattro giorni dopo, nel pomeriggio, mentre Scarpetta schiacciava un sonnellino, fu destato ad un tratto da una violenta scampanellata. La madre, Emilia Rendine, corse ad aprire Vuscio di casa, tremante e spaventata. Era Placido, il vecchio servo di Luzi, impresario del « San Carlino », che si precipitò nella stanzetta del giovane attore, gridandogli: — Don Edua’... Don Edua’... scennitee... scennite priesto... E’ venuto ’o re! E vo’ senti’ recita’ a vuie! L’impresario ha ditto ca avit’a scennere subbeto! Scarpetta si vestì a precipizio e corse al teatro, dove rappresentò la farsa Felice guaglione de n’anno: farsa che Antonio Petito aveva scritta espressamente per lui, per il suo gioco comico irresistibile, scatenandosi addosso, per questo, le ire e i rancori degli altri comici della Com pagnia, specie gli anziani come il Di Napoli e il De Angelis. Alla scena in cui « Felice », finto neonato ed avvolto tra le fasce, riceve da «Pulcinella», padre della sua innamorata, una cucchiaiata di pappa sul viso e salta dalla culla spaventato, Vittorio Emanuele I I proruppe in una tale irrefrenabile risata, che il pubblico, invece di applaudire Eduardo Scarpetta, si mise ad applaudire Sua Maestà. lì quale, a sua volta, applaudiva all’indirizzo sia del palco- scenico che della platea. I l re divenne un assiduo del teatro, ed il Luzi si vide costretto ad addobbare con un certo lusso i palchi di prima fila, dal numero uno al numero tre. Appena entrato nel suo fedele numero uno, al Luzi che lo riceveva con i dovuti inchini, « Sua Maestà » chiedeva, ogni volta: — C’è Scarpetta? E bastava che « Sciosciammocca » si presentasse in palcoscenico perchè il re si mettesse subito in allegria. Era evidente che, pur apprezzando nel suo giusto valore l’arte del grande Petito, egli preferisse quel giovanotto dall’aria furbesca, vestito a scacchetti, col tubino basso, gli occhi ammiccanti perpetuamente le gonnelle, la frangettina ricurva e tonda sulla fronte da « ingenuo ». Questa predilezione del re divenne in città argomento del giorno. Tutti impararono a memoria il sonetto che « Sciosciammocca » dedicò al sovrano. In ogni casa del medio ceto napoletano si raccontava che Scarpetta era stato chiamato a Palazzo Reale dove, ricevuto dal Cavalier Paolino, funzionario di corte, gli era stata consegnata una busta con dentro, nientemeno, cinquecento lire! Per circa tre mesi Vittorio Emanuele non mancò mai al « San Carlino » e quando partì da Napoli lasciò come gratificazione ad ogni artista della Compagnia una somma corrispondente alla paga di un mese. Solo ad Antonio Petito e ad Eduardo Scarpetta, oltre alla gratifica, donò un orologio con catena d’oro ed una ricca « bottoniera per camicia ». Per dare anzi a « Sciosciammocca » maggior prova del suo compiacimento, affidò a lui l’incarico di distri buire i doni ai comici; doni che ripetette nei due anni ’75 e ’76. Pochi mesi dopo, la sera del 26 marzo del 1876, Antonio Petito improvvisamente morì, mentre la tela cadeva sul terzo atto de La dama bianca del Marnili. Si vide il grande « Pulcinella» accasciato sopra una seggiola, mentre il pubblico lo reclamava a gran voce. Gli occhi chiusi, il volto bianco, cadaverico, libero dalla maschera nera, rialzata sulla fronte. — Vulimmo a Totonno! Vulimmo a Totonno! E « Totonno » apparve l’ultima volta, già spirito; il corpo immobile, nel candido camiciotto pulcinellesco, tra i suoi compagni di scena. Apparve su un povero giaciglio; e il pubblico urlò di dolore e di raccapriccio al vederlo; mentre dalla platea, dai palchi, era un protendere di mani, era un gettar fiori, era un disperato impossibile coro di richiamo impossibile alla vita: ■— Vulimmo a Totonno! Vulimmo a Totonno! L ’impresario Luzi, terreo, singhiozzava in un canto. Lo si udì ad un tratto esclamare, con voce profetica: — Nun è muorto n’artista! E’ muorto nu teatro! Quasi come se la morte di Antonio Petito fosse stato un triste presagio, le condizioni politiche del tempo si fecero difficili. Cadeva l’Italia; era morto Antonio Petito: il primo degli artisti napoletani di Napoli italiana. I l « San Carlino » attraversò anch’esso un periodo di crisi, fino a che nell’80 Scarpetta prese possesso del teatro con una Compagnia tutta sua ed un suo repertorio. Ritornarono i tempi d’oro. Attraverso il suo ingresso abbellito e rinnovato, i nuovi grandi del nuovo clima politico ricominciarono ad entrare nella sala tutta nuova e sfolgorante. Si vide Francesco Crispi dai baffoni spioventi, leonino ed aggressivo, fiero e garibaldino, affacciarsi da un palchetto di seconda fila ed incitare il pubblico all’applauso col gesto solenne del comandante che incita i soldati all’attacco del nemico. Si vide Giovanni Bovio, appoggiato al parapetto di un palchetto di proscenio, sorridere ai lazzi di « Sciosciammocca » con l’espres sione beata di un fanciullo, dimentico del suo feroce ateismo e della sua belluina filosofia « giacobina ». Nella sua fantasia nasceva, di fronte al prodigio dell’attore Scarpetta, l’imma gine del «filo che la sua arte aggiungeva alla trama della vita ». E si vide infine un certo Don Angelo De Nicola, ben noto fra gli « habitués » del « San Carlino » come «’Ngiulillo ». ’Ngiulillo De Nicola, di posizione economica alquanto modesta, cercava ogni sera di entrare in teatro con la così detta « scoppola », cioè da « portoghese ». E non si contentava di entrarci solo: portava per mano un figliolo a lui particolarmente caro: un ragazzino dagli occhietti cerulei, dalla fisionomia espressiva ed intelligente. Questo fanciullo si chiamava Enrico, studiava già con molto amore e l’unico suo svago era quello di andare al « San Carlino » dove i « lazzi » di « Don Felice » lo divertivano immensamente. I De Nicola padre e figlio si avvicinavano lentamente al teatro poco prima che lo spettacolo avesse inizio. ’Ngiulillo era solito portare un bastoncino di bambù, e con questo egli batteva a mo’ di celia sulle spalle di Don Giulio Staffelli amministratore della Compagnia per richiamarne l’attenzione. — Don Giu’, sto cu Erricuccio. Ddoje scoppole, jammo, ja ’! E dalla risposta di Don Giulio dipendeva forse la felicità del piccolo Enrico che, trepidante, attendeva. Ma Don Giulio non si negava mai. Carezzava il fanciullo, i cui occhi esprimevano la gioia di un prossimo divertimento da assaporare, e gridava, rivolto alla maschera: — Ddoje entrate! Enrico De Nicola fu l’ultimo « spettatore » del « San Carlino », che fu abbattuto con decreto del 28 marzo 1884, in una nuvola di polvere, di ricordi, di storia. Tutti piansero su quelle rovine; e forse anche « Erricuccio », colui che doveva diventare, molti anni più tardi, il primo Vittorio villani Presidente della prima Repubblica Italiana. L A N A P O L I A M A R A D I E D U A R D O D E F I L I P P O Ancora giovane, Federico Frascani è un critico drammatico della nostra generazione, vogliamo dire della generazione alla quale appartenne Achille Vesce, mai abbastanza compianto, e alla quale appartiene chi scrive. Una leva di recensori che, salvo l’aggiornamento successivo, fu educata da maestri integri ed insigni come Saverio Procida e Riccardo Forster, per i quali cultura e galanto- mismo ebbero sempre lo stesso elevato livello. In seguito, la critica drammatica napoletana salutò con affetto Mario Stefaniìe, lirico di notorietà nazionale, critico letterario di solida e diffusa repu tazione, e Roberto Minervini, studioso di teatro acuto e preparato, i cui articoli si leggevano da anni su riviste e giornali della penisola. Vittorio Viviani, cresciuto alla tradizione desanctisiana, dà leal mente il suo contributo dal settore di sinistra; e così Paolo Ricci che si formò alla scuola critica di Antonio Gramsci. I più giovani sono, è noto, Baldo Fiorentino e Sergio Lori, il primo scrittore ele gante e giornalista affermato; il secondo esegeta coscienzioso e cronista diligentissimo. Questo il mondo-ambiente nel quale è venuto su Federico Frascani. Il breve censimento non ci sembra nè superfluo nè inopportuno; crediamo anzi che s’imponga nell’inflazione giornalistica che a Napoli aumenta sempre più c nella confusione dei valori morali e intellettuali che lentamente, ed anche traumaticamente, s’è andata creando. Vero è che chi scrive ed un eminente suo collega sono stati definiti or non è molto «incompetenti» in una lettera diretta ad autorità non bene informate, ed alla quale si è voluto dare larga diffusione verbale da chi l’aveva estesa e dai suoi agenti. Incom petenti? Ma sì! Qui non si brama altr’esca che prendere illuminate lezioni di cultura drammatica e di storia del teatro. Il saggio di Federico Frascani La Napoli amara di Eduardo De Filippo (Parenti editore) è scritto appunto col giusto senso dell’onestà e della cautela che distinguono l’autore, il quale interruppe la sua funzione militante di critico teatrale — restando peraltro un provetto giornalista — con la fine delle pubblicazioni di un quotidiano che a Napoli ha lasciato sovratutto un chiaro ricordo di serietà: Il Giornale Diciamo subito che il libro di Frascani presenta un vivo interesse, benché Eduardo De Filippo, giunto alla sua celebrata maturità, attenda ancora l’esegesi generale, dettagliata, de bitamente corredata di riferimenti, di confrónti, di dati, di punti fermi che riguardino non soltanto il commediografo, ma anche l’attore e la sua sbalorditiva tecnica di palcoscenico, la sua graduale o meno graduale evoluzione, l’interpretazione delle opere di altri autori che egli ebbe a recitare all’inizio della sua magnifica carriera. A tale giudizio critico definitivo potranno validamente con tribuire un capitolo della Storia dei Teatro Napoletano di Vittorio Viviani, di prossima pubblicazione; 10 stesso saggio dei Frascani; un saggio di Emilio Barbetti su l i ponte ( notevolissimo per una sua particolare presa di posizione ) ; pareri dotti e sereni di Eiigio Possenti e di Lucio Ridenti; giudizi estrosi e brillanti, ma fermi, di Ferdinando Palmieri, e tutto ciò che si è scritto o si scriverà sul fe nomeno De Filippo. Bisogna però riconoscere che Federico Frascani si è limitato — e i lim iti della sua indagine sono esplicitamente dichiarati nel titolo del volume — alla visione che ha di Napoli 11 famoso attore e commediografo napoletano. Come si vede, l’indagine critica conclusiva sul teatro di Eduardo De Filippo richiederà una riflessione congrua, meglio adeguata alla sensibile delicatezza dell’oggetto, tanto più che oggi il giudizio etico, più che estetico, su quel teatro, comincia ad estendersi dal De Filippo alla città di Napoli. È appunto su quel giudizio che noi per ora esprimiamo il nostro, lasciandoci guidare soltanto dalla consapevo lezza che abbiamo dell’anima napoletana. Chi ci fa l’onore di seguire le cronache del Teatro Dram matico da noi compilate da otto anni sul Roma (giornale popolare che è una grande scuola), da più di dieci anni su II Dramma., e, prima ancora, da Radio-Napoli, sul Corriere di Napoli, su II Paese, su giornali e riviste che ormai non ricordiamo più; i giovani die hanno seguito i nostri corsi di Storia del Teatro nelle classi di Scenografia nell’Accademia di Belle Arti di Napoli, tu tti conoscono, osiamo sperare, il vigile senso di responsabilità che ci governa quando scriviamo o giudichiamo ciò che si scrive su questo paese che ci vide nascere e ci vedrà morire. In tale stato d’animo, inossidabile, noi prendiamo a discorrere di Eduardo De Filippo e della nostra città. A noi non sembra che ci sia tanto da parlare di una Napoli amara di Eduardo De Filippo quanto di un amaro Eduardo De Filippo di Napoli. Esistono, sì, od esistevano, una Napoli lirica di Salvatore Di Giacomo; una Napoli realistica, picaresca, sociale di Raffaele Viviani; una Napoli violentemente argotica di Ferdinando Russo; una Napoli tra romantica e naturalistica di Matilde Serao; una Napoli cupa, incisa su rame, di Libero Bovio; una Napoli ad acquarello, aperta al maestrale, di Ernesto Murolo; una Napoli crepuscolare di Rocco Galdieri; ima Napoli di Ugo Ricci, il solo poeta dialettale espresso in lingua; una Napoli perduta nell’azzurro dei maestri della Scuola di Posillipo; una Napoli anòmala (naso a sella e fronte olimpica) di Vincenzo Migliare. Fuse, amalgamate, stemperate insieme, quelle versioni di Napoli dònno ancora un quadro abbastanza fedele, tutto luci ed ombre, di questo angolo di mondo all’incrocio dei venti, di questo piccolo universo umbratile, cangiante, indecifrabile per la più parte di coloro die lo mirano affascinati e perplessi. Eduardo De Filippo (e ciò precisando formuliamo un elogio per la personalità del commediografo) guarda le eccezioni di Napoli; ritrae caratteri ebe, per essere eccezionali, non sono universalmente napoletani. E li guarda e li ritrae attraverso il suo proprio carattere reattivo, a fondo pessimistico, amaro, appunto, sul quale incide il bagaglio delle esperienze opprimenti e dolorose ebe pesano sull’animo di qualsiasi uomo vicino ai sessantanni, e che vanno dalle memorie personali, intime, non scevre di asperrimi rancori, a turbamenti profondi, a reazioni incomposte, a risoluzioni allarmate, improvvise, prive di raziocinio rigoroso e senza il soccorso preventivo di una lunga o meno lunga meditazione. Non è questo, certo, il carattere di Eduardo De Filippo, che anzi ha connotati amabili e sereni, ma De Filippo, teatrante consumato, è uomo troppo «sui generis» per vedere Napoli a grandi gironi, a grandi cornici, a grandi sfere. Napoli non è così facile da definire e meno ancora da captare sul piano drammatico, specie nel quadro della consanguineità. I fratelli? Ce ne sono, certo, che si odiano a morte, ma una coppia su centomila. Esistono invece a decine di migliaia uomini e donne votati al celibato o al pulzellaggio, che hanno sulle spalle, senza lamentarsene, grossi carichi di ascendenti e di collaterali. La famiglia? Ci sarà stata e ci sarà ancora oggi una Famiglia Cardinal traslata di peso dalla torbida invenzione di Halévy ad una inenarrabile realtà napoletana. Ma è una su un milione. Ci sono invece, a migliaia, minuscoli «barmen» che campano l’intera famiglia con le regalie che guadagnano portando in giro gli «espressi» da mane a sera, sgusciando fra le automobili, ridendo a gola spiegata o con una faccina triste, sulla quale si leggono ambasce di uomini di quarantanni. Sono i ragazzi che hanno colpito per primi Roger Peyrefitte, il quale lo ha narrato come una grande scoperta nel volume Du Vèsuve à PEtna. Dopo il conflitto mondiale, nella tremenda promiscuità dell’invasione, il disonore non ha raggiunto i primi e gli ultimi piani dov’è poveramente alloggiata una piccola borghesia di impiegati, di avvocatucci, di custodi di museo, di piccoli comici che «fanno la provincia» soltanto la dome nica e le altre feste comandate. Comunque, primo piano o «basso», l’ambiente di Napoli milionaria è eccezionale; la moglie di Gennaro Esposito, la donna malfida e crudele, è un personaggio contin gente, isolato, del tempo di guerra. Improbabile, qui da noi, un marito che torni dal campo di con centramento e sia accolto in casa a quel modo, con quel freddo cinismo da prostituta professionista. Si ha un bel dire: «Ha da passà ’a nuttata!». Il personaggio lo ha trovato, il suo autore, e resta lì. La rapacità della sorella di Bene mio e core mio? Attendibilissima come eccezione. Ma volesse l’On nipotente, e Napoli, dolce o amara che sia, fosse animata nella sua generalità da un serio principio edonistico a tipo economico! Il dramma di Napoli e del Mezzogiorno sarebbe sciolto da secoli. Così come sono concepiti, i personaggi di Eduardo De Filippo potranno anche scavalcare i lim iti loro imposti in base ad un criterio di erigine, ma non riflettono a nostro avviso la psicologia reale ed obiettiva della città. Le figure tipicamente napoletane di De Filippo superano di poco, in ordine di tempo, l’animuccia di uomo che fu protagonista di Natale in casa Cvpiello, quando i De Filippo recitavano insieme, ed erano tre. Noi non intendiamo fare (e recentemente ne abbiamo dato la prova nel recensire un noto film) di quel conformismo campanilistico che impone di dire: «Qui tutto è bello e tutto è perfetto». Noi non vogliamo intraprendere l’eterna, dannosa, stolida «difesa di Napoli» quale la intendono i rètori e la gente che non sa quel che si dice. Anzi. Eduardo De Filippo fa conoscere l’arte scenica napoletana in molti paesi stranieri, e, con Nino Taranto, ne rinnova la conoscenza in tutta Italia. Noi stessi abbiamo portato il linguaggio delle sue più recenti commedie a conforto della nostra ferma idea, da noi enunciata ed attuata da anni, circa la moderna efficacia espressiva napoletana che parla formalmente in lingua, e nella quale il dialogo di De Filippo è superato soltanto dallo stile della narrativa di Giuseppe Marotta. Qui si guardano le cose da un angolo visuale strettamente critico, e per la critica l’Arte Drammatica è sovrana. L’amico e collega Frascani non si adonterà della discussioncella. Le cose importanti si discutono, e, pregevoli che siano, non si accettano come oro colato, ciò che si fa qui a Napoli col «soffietto» di cui tanto si abusa. Del resto, la limpida prosa del Frascani, il suo impegno filosofico, il suo scru polo nelle ricerche stringate e precise son tutte cose che meritano una lode ampia e convinta. Gliene diamo atto sinceramente, nella certezza che egli continuerà ad offrirci saggi probanti dei suoi studi e della sua opera di eccellente divulgatore delle più interessanti discipline teatrali. Ernesto Crassi C . G . V I O L A fa col Improvvisa e tragica ci è giun ta la notizia della morte, a Fo gliano, il 3 ottobre 1958, di Giu lio Cesare Viola: questa era, all’anagrafe, l’esatta versione del suo nome, mentre egli firmava « Cesare - Giulio » invertendo i nomi, diceva, per non soppor tare il peso di una romanità im periale che gli avevano confe rito, nascendo. Autore dramma tico fra i più rappresentativi della prima metà del nostro se colo, scrittore, poeta, umanista, era nato a Taranto il 26 no vembre 1886, città prediletta che aveva sempre amato, magnifi candone storia, carattere e co stume — insieme alla vicenda stessa della sua nobile fami glia — nel romanzo apparso po che settimane titolo « Pater ». La sua ultima com media « Festival della Famiglia Gurgià » è stata rappresentata alla fine della scorsa Stagione Teatrale. Viola ha scritto nella sua lunga carriera, incomincia ta con un atto unico nel 1911, una trentina di commedie, al cuni romanzi, un volume di poe sia e centinaia di articoli sparsi in quotidiani e riviste. Esempio di dignità professionale, di spec chiata rettitudine. Era Presi dente del Sindacato Nazionale Autori Drammatici e membro della Commissione consultiva per il teatro. L’improvvisa morte di Viola, ol tre ad essere un grave lutto per il Teatro italiano, ci ha profon damente addolorati per i rap porti di fraternità che ci lega vano fin dai banchi di scuola. La nostra Rivista commemorerà degnamente l’illustre artista nel prossimo fascicolo. O N O R A N Z E A L L A D U S E In Campidoglio. Il 3 ottobre 1958, per i cento anni dalla nascita di Eleo nora Du6e — nel quadro delle cele brazioni nazionali, delle quali, da alcuni mesi, in ogni fascicolo diamo notizia — l’on. Ariosto, Sottosegreta rio di Stato alla Presidenza del Con siglio dei Ministri, ha tenuto, nella Sala della Protomoteca, la celebra zione ufficiale. L’oratore è stato pre sentato, a nome del Sindaco, dall’ono revole Lupinacci. Erano presenti, ol tre il Presidente della Camera e molti deputati, gli alti funzionari della Di rezione generale dello Spettacolo ed i rappresentanti delle varie associa zioni, sindacali, giornalistiche, scrit tori, ecc. Partendo dalla leggenda che accom pagna il ricordo dell’attrice, l’onore vole Ariosto ha tracciato in rapide immagini una analisi psicologica e biografica della Duse, rilevando la difficoltà dell’argomento che si con trappone in mole alla solennità della ricorrenza. Questo « perché la Duse non fu soltanto una immensa attrice — egli ha detto — ma fu una donna di genio, connaturata alla società di cui faceva parte e della quale rac colse, talvolta anticipò, talvolta con cluse, le crisi che la travagliavano ». Rievocati alcuni fatti che caratteriz zarono il miracoloso affermarsi della sua arte, il Sottosegretario allo Spet tacolo ha ricordato l’incontro fra la Duse e la Bernhardt, « incontro che accese in Eleonora una volontaria emulazione che si sarebbe tentati di definire temeraria se non apparisse prodigiosa ». Attraverso altre strade infatti la Duse, per mezzo del suo prodigioso istinto, della sua volontà di capire, dell’ansia di superamento che l’animava, raggiunse livelli inter pretativi che presto la imposero non soltanto in Italia ma nel mondo intero. Parlando del repertorio che la gran de attrice si scelse, l’oratore ha ag giunto : « Era il repertorio della sua verità: che a un certo momento senti il bisogno di atteggiarsi in uno stile ben riconoscibile e alla fine, con il grande approdo ai drammi di Ibsen, diventò verità universale ». Concludendo il Sottosegretario ha detto: «La nave che riportò a Napoli la sua bara, calata davanti a una moltitudine commossa, non era diver sa dal carrozzone dei vecchi Duse sul quale per poco non aveva veduto la luce. Quella nave restituiva una emigrante che era nata girovaga ». Alla Camera. Alla Camera dei De putati, il centenario della nascita di Eleonora Duse è stato invece com memorato dall’on. Targetti il quale, dopo aver osservato che « un fatto tanto importante non può passare inosservato al Parlamento, sensibile a tutti gli aspetti più significativi della vita nazionale », ha auspicato nuove provvidenze a favore del Teatro che la Duse onorò. Per il Governo si è associato alla commemorazione il Sottosegretario on. Gatto, che ha voluto ricordare l’« eccelsa ambasciatrice di italianità all’estero », mentre il Vice Presidente on. Bucciarelli Ducei ha pronunciato parole di circostanza a nome dell’in tera Assemblea. A Vigevano. Le manifestazioni in dette dalla Pro-Vigevano e dal loca le Rotary Club si sono svolte nei giorni 3 e 4 ottobre. Era stato for mato un Comitato d’Onore, ed altro Comitato organizzatore, alla cui pra ticità ha dato la sua opera, con la Pro-Vigevano e il Rotary, il rag. Pie ro Piazza, Sindaco e Presidente. Al Teatro Cagnoni è stato conse gnato al Sindaco di Asolo, dove Eleo nora Duse è sepolta, copia dell’atto di nascita dell’illustre attrice; ha te nuto, allo stesso teatro, l’orazione uffi ciale il prof. Mario Apollonio; sono stati proiettati (in selezione) il film Cenere (il solo interpretato dalla Duse all’epoca del muto) ed un do cumentario Ricordo della Duse. Emma Gramática, Sarah Ferrati e Tino Carraro hanno partecipato alla manifestazione con personali dizioni. Sulla facciata del « Cannone d’oro », l’albergo dove nacque la Duse, dove già esiste una lapide-ricordo, è stata pesta una corona. La rassegna commemorativa al Tea tro Quirino di Roma. Per iniziati va del Teatro Club, Gerardo Guer rieri ha preparato un testo, con l’in tenzione di ricostruire la biografia della Duse, attraverso le notizie, le cronache del suo tempo, le testimo nianze e le lettere di lei. Luchino Visconti ha curato la regia di queste intenzioni ed ha ideato un apparato scenico che della Duse, in grandi e belle fotografie, riproduceva le mu- tevoli sembianze, sia nella sua vita privata, come nelle famose interpres tazioni. Praticamente, la commemo razione — invero difficile —- è con sistita nella lettura della narrazione- conferenza di Guerrieri, i cui brani erano stati suddivisi tra gli attori Edmonda Aldini, Lia Angeleri, Lilla Brignone, Tullio Carminati, Giorgio De Lullo, Rossella Falk, Cesare Fan- toni, Vittorio Gassman, Emma Gra mática, Lina Morelli, Romolo Valli. Luise Reinar e Robert Brown, per quel tanto di snobismo sempre pre sente nelle manifestazioni di questo Club, hanno recitato in inglese la scena finale di Casa di Bambola di Ibsen. Il pubblico si è mostrato irrequieto; gli attori — certo turbati dall’avve nimento — eccessivamente riservati. Infinita commozione per Emma Gra mática che ha recitato da quella grande attrice che è un brano della Città morta, e vivo turbamento di Tullio Carminati nel leggere l’ultima lettera indirizzatagli dalla Duse. Car minati fu, con Benassi, l’attore pre diletto degli ultimi anni della «di vina ». Interrogazione al Senato per il mancato francobollo deila Duse Il 23 settembre 1953, durante la 23“ Seduta al Senato della Repubblica, il senatore Jaurès Busoni ha rivolto la seguente interrogazione: Al Presidente del Consiglio dei Mini stri ed al Ministro delle Poste e del le Telecomunicazioni, per chiedere se non ritengano doveroso provvedere a che in occasione del centenario del la nascita, che cade il 3 ottobre 1958, della grande attrice Eleonora Duse la quale, raggiungendo meritata fama universale, tanto lustro ha recato al l’Italia, fra le altre onoranze non si creda di inclwlere l’emissione di un francobollo commemorativo. Seppur è vero che, secondo le disposizioni di regolamento — ma non di leg ge — in atto, l’emissione dei fran cobolli commemorativi è annualmen te limitata ed ogni richiesta deve es sere proposta nell’anno precedente, e nel 1957 nessuno si è ricordato di chiederla per Eleonora Duse, forse ritenendo probabile una diretta de cisione ministeriale, sembra tuttavia che si possa ugualmente provvedere in via straordinaria dato appunto che non osta nessuna disposizione di legge (240). Busoni. Questa interrogazione è stata provo cata, come iì lettore abituale già sa, dalla proposta fatta su questa Rivi sta, il mese di aprile scorso, solleci tando per primi alla Nazione il ri cordo del centenario dalla nascita della Duse. E proponemmo, per pri ma cosa, un francobollo che potesse ricordare a tutto il mondo l’illustre attrice. Ci rivolgemmo aU’allora Mi nistro delle Poste, on. Mattarella, il quale ci rispose che le emissioni per il 1958 erano già state definite e che bisognava dirlo nel 1957. Dobbiamo pertanto ricordare che da questa Ri vista la proposta è stata fatta fin dal 1955, quando la Francia emise il bel lissimo francobollo di Sarah Bern hard!, appunto nel centenario dalla nascita. E noi domandammo se era impossibile seguire l’esempio per Eleonora Duse, il cui centenario dal la nascita sarebbe scaduto il 3 otto bre 1958. Come s’è visto, il centenario è giun to, le manifestazioni sono in atto, ma per il francobollo non è stato possi bile. D’altronde l’Inghilterra ha un francobollo con l’effigie di Shake speare, la Francia l’ha con Molière, ma l’Italia non possiede quello di Goldoni. Tuttavia le serie di franco bolli italiani con strane vignette escono a getto continuo. UN BUSTO D I GABRIELE D ’ANNUNZIO AD ARCACHON Al « deserto arborato » come D’An nella, Ferro. Il busto collocato poco nunzio definì il Moulleau di Arca- lontano dall’ingresso della villa che chon, mezzo secolo fa, quando andò D’Annunzio abitò ed oggi rifatta, è a rifugiarsi dopo la catastrofe finan opera dello scultore Nicola d’Artino, ziaria della Capponcina, hanno inau che di Gabriele fu amico. Un busto, gurato, il 6 ottobre 1958, un busto dunque, che D’Annunzio conobbe in al grande Poeta. D’Annunzio abitò vita, che gli piacque e che ora è stato quel luogo, in più riprese, dal 1910 donato da Roma ad Arcachon, dal in poi, dichiarandosi « esiliato » -— l’Italia alla Francia. Il dono alla città benché in volontario esilio — ma il è stato consegnato da Eugenio CoseL significato di tale allontanamento era schi, Segretario Generale del Comi a quel tempo, come è risaputo, pole tato internazionale per l’unità e l’uni mico. Da Arcachon, D’Annunzio ri versalità della cultura, che ha anche tornò nel 1915 per pronunciare a tenuto il discorso ufficiale. Dopo di Quarto il discorso dell’intervento pre lui, l’Accademico di Francia Robert ludente la nostra entrata in guerra. Kemp — il maggior critico dramma Quel periodo fu classificato, nella tico — ha esaltato l’opera di D’An vita del Poeta, come il « periodo mi nunzio ed ha ricordato la sua ami stico », per le opere che in esso fiori cizia col Poeta. L’addetto culturale, rono: Martirio di San Sebastiano, prof. Borlandi, ha infine tenuto un Contemplazione della Morte, Pisa- discorso in perfetto francese. G R ID A R IO S Nel fascicolo di settembre abbia mo pubblicato il bilancio dell’atti vità delle Compagnie di prosa nella Stagione Teatrale 1957-58. Non ave vamo alcun dato sui Teatri Stabili. Ora è stato comunicato che, nella medesima Stagione, hanno agito nove Teatri Stabili e regionali che hanno realizzato un incasso lordo comples sivo di 181 milioni 420.554 lire. Detti Teatri hanno effettuato 1215 rap presentazioni di cui 690 italiane e 525 straniere con una percentuale del 56,8 per cento di recite italiane. I lavori rappresentati sono stati 49 di cui 29 italiani e 20 stranieri. Le no vità italiane sono state nove. 83 Dopo la commedia di Altavilla Pulcinella in cerca della sua for tuna per Napoli, il Piccolo Teatro di Milano metterà in scena Come na sce un soggetto cinematografico di Cesare Zavattini e I panni neri di Mario Soldati; la ripresa de L’opera da due soldi di Bertolt Brecht; la messa in scena di Platonov di Anton Cechov, mai rappresentato in Italia, e di Mercadet l’affarista di Balzac. La direzione degli spettacoli è affidata, oltre che a Eduardo De Filippo, a Giorgio Strehler e a Virginio Pue- cher. Primo attore è stato confermato Tino Carraro; in Platonov reciterà Sarah Ferrati. Parteciperanno inoltre agli spettacoli Tino Buazzelli, Enzo Tarascio, Ottavio Fanfani, Andrea Matteuzzi, Armano Alzelmo, Gian franco Mauri, Giancarlo Dettori, Raoul Consonni, Gabriella Giacobbe, Relda Ridoni, Delia Bartolucci, Giu lia Lazzarini, Marina Ronfigli, Giusi Dandolo, Achille Millo, Milly Mar cello Moretti, Checco Bissone. Intanto il Piccolo Teatro di Mila- no ha pubblicato un magnifico vo lume (1947-58 Piccolo Teatro di Mi lano - Nicola Moneta, editore) le cui parole di presentazione dicono chiaramente lo scopo che i compila tori si sono prefissi : « Questo volume — è scritto — seguendo di spettacolo in spettacolo le grandi linee diret trici lungo le quali si è mosso il lavoro del Piccolo Teatro, intende appunto offrire una larga documen tazione dalla quale sia possibile rico noscere la nostra traccia, una testi monianza che permetta allo storico futuro di rilevare da fonte diretta il contributo del Piccolo Teatro alla vita del teatro italiano e, ci sia con cesso di dirlo, alla scena mondiale, nei primi undici anni della sua at tività ». E’ un libro vivo e prezioso, un libro che ci fa onore — fa onore cioè a tutto il teatro italiano — che narra soprattutto, attraverso le immagini, la storia di questo teatro milanese, ovunque noto ed apprezzato, dalla « prima riunione della Compagnia », 2 maggio 1947, fino ad oggi. Volume in grande formato, ben rile gato, meglio stampato, di circa tre cento pagine, con centinaia di fotogra fie ed un indice analitico con i nomi di tutte le persone (attori, registi, tec nici, autori, personale) e di tutte le opere recitate. Opera anche di consul tazione, dunque, per quanto riguarda il materiale iconografico, rintraccia bile immediatamente. EB II Teatro Stabile di Torino, diretto da Gianfranco de Bosio, inizierà il 29 ottobre la nuova Stagione Tea trale, nella consueta sala Gobetti di via Rossini. Il cartellone include cinque titoli, di cui tre di autore ita liano. Nell’ordine di programmazione le commedie sono queste: Comica finale, spettacolo in due tempi di Dario Fo (novità assoluta); Gli amo ri di Platonov, di Anton Cechov (prima rappresentazione in Italia); La Giustizia, di Giuseppe Dessi (no vità assoluta) ; Il ballo dei ladri, di Jean Anouilh (novità per Torino); Nascita di Salomé, di Cesare Meano (ripresa in onore e commemorazione dell’illustre autore scomparso). La Compagnia si avvarrà stabilmen te degli attori Gina Sammarco, Ce sare Polacco, Giulio Oppi, Attilio Ortolani, Gastone Bartolucci, Vincen zo de Toma, Alessandro Esposito, Giovanni Bosso, Carlo Montagna, Pie tro Buttarelli, Carla Parmeggiani, Lucetta Prono, Giovanni Mannocchi. Si aggiungeranno con partecipazioni straordinarie in Comica finale Dario Fo e Franca Rame; in Gli amori di Platonov Laura Adani, Ernesto Ca- lindri, Gianni Santuccio, Luisa Rossi; in La Giustizia Paola Borboni e Gian ni Santuccio. Parteciperanno a II bal lo dei ladri Luisa Rossi e il com plesso strumentale della Roman New Orleans Jazz Band ed infine, per Na scita di Salomé Ernesto Calindri e Hélène Remy. Le regìe saranno affidate a Giacomo Colli, Gianiranco de Bosio, Dario Fo. Scene e costumi di Dario Fo, Eu genio Guglielminetti, Enrico Pauluc- ci, Mischa Scandella. Le musiche di Fiorenzo Carpi e Sergio Liberovici. E Enzo Ferrieri, direttore e regista stabile del Teatro del Convegno di Milano, ha definito il programma per la quarta Stagione Teatrale. Saranno rappresentate, come di consueto sol tanto opere nuove, con prevalenza di autori italiani. Di Vitaliano Brancati si rappresen terà Il viaggiatore dello sleeping n. 7 era forse Dio? Quest’opera è stata pubblicata per la prima volta dalla rivista « Il Convegno » nel 1932. Se guirà L’intellettuale a letto di Enrico Mainardi, novità assoluta che rievoca costumi e moralità di una certa gio ventù contemporanea. Di Alberto Bertolini, commediografo e critico del « Gazzettino di Venezia », si rap presenterà Notturni, novità assoluta in tre atti. Infine, Guido Piovene sta riducendo per il teatro il suo ro manzo Lettere di una novizia. Degli autori stranieri, tutti di primo piano, il Convegno rappresenterà Uomini e topi di J. Steinbeck che, contrariamente a quanto di solito si ritiene, non è ridotto dal romanzo, ma è un’opera per sé stante, creata dall’autore nella sua forma dramma tica; il Maestro di Santiago di FI. de Montherlant, nella nuova versione di Don Pisoni, e due opere cosidette di avanguardia, La lezione di Jonesco e L’Escuriale di M. de Ghelderode. Sa rà rappresentata anche un’opera clas sica, La morte di Socrate di Platone, interpretata dall’attore Aldo Silvani. Gli attori del Convegno sono: Mar cello Berlini, Carla Bizzarri, Maria Crosignani, Ruggero De Daninos, Raf faele Giangrande, Itala Martini, Sara Morante, Silvia Monelli, Augusto Ma- etrantoni, Germana Paolieri, Mario Rovati, Ugo Salvadori, Augusto San- guinotti, Aldo Silvani, Ferruccio So- leri, Luigi Vannucchi, Nora Villi. Inizierà il 22 ottobre prossimo, con Uomini e topi di J. Steinbeck, regìa di Enzo Ferrieri. P e r la Casa d i R iposo d e g li A rtis ti D ra m m a tic i (vedi fascicolo precedente)........................................ L. 557.810 . Primo elenco del ventesimo milione Somma rimasta dal pareggio del diciannovesimo milione Per una Camera della Casa di Riposo al nome di Elena Possenti: BUGIO POSSENTI................................. L. 100.000 LORENZO RUGGÌ ......................................... 50.000 GIUSEPPE POSSENTI.............................» 20.000 LUCIO RIDENTI ................................................. » 10.000 RENATO PERUGIA.................................. » 10.000 ITALIA E REMIGIO PAONE................... » 10.000 » 10.000 . PIERO E TULLIA DELLA GIUSTA . 10.000 ÈVA MAGNI E RENZO R IC C I.............. » 10.000 TEATRO NUOVO DI MILANO . . . . . » TEATRO DI VIA MANZONI, MILANO . 10.000 TEATRO ODEON DI M ILA N O .............. » 10.000 5.000 GIUSEPPE DUSE MARGA BIANCHI.................................. » 5.000 CARLA SAVlOTTI..................................» 5.000 E. B........................................................... » 5.000 .............................................>• . . . . . L. 270.000 » 270.000 COOPERATIVA ATTORI TEATRO ITALIANO (C.A.T.I.) fondata nel 1950 e messa ora in liquidazione: residuo capitale sociale a benefìcio della Casa di Riposo. (Elenco dei soci oblatori: Albertini Edda, Allegrini Pino, Almieri Celeste, Annicelli Corrado, Baghetti Luigi, Ba- ghetti Mimosa, Bagni Margherita, Barbagli Mauro, Besozzi Nino, Bonora Nella, Bortolotti Ciro, Bottini Anna Maria, Braccini Lola, Bruchi Valentino, Campa Pio, Capodaglio Wanda, Carraro Tino, Carloni Alberto, Cei Pina, Conforti Gustavo, Cervi Gino, Cristina Olinto, Cristina Augusta, Cristofari Renato, Crast Antonio, De Angelis Gualtiero, Dolimi Giovanni, Dominici Franca, Fabbri Maria, Fantoni Cesare, Ferrari Mario, Gazzolo Lauro, Giangrande Raf faele, Gizzi Loris, Gizzi Pierina, Ghedratti Giovanni, Lay Bussa Aldo, Locchi Pino, Marchetti Nino, Mastrantoni Augusto, Maver Tina, Millo Achille, Morelli Rina, Morozzi Renato, Negri Renata, Orlandini Lia, Orlova Berutti Paola, Ortolani Attilio, Pacetti Giaia, Pavese Nino, Perbellini Dina, Piemontese Amelia, Polacco Cesare, Pucci Mario, Rocca Terracini Laura, Romano Carlo, Sabbatini Gino, Saccenti Maria, Saviotti Antonio, Scandurra Franco, Serra Mauro, Silvani Aldo, Siletti Mario, Soligo Edda, Stoppa Paolo, Tettoni Wanda, Toniolo Edoardo, Torrieri Diana, Vaschetti Ada, Verna Gaetano).............................. » B. L. BANDONE, in ricordo di Vittorio Calvino . . ARMANDO ROSSI, per la <■ Piccola Ribalta » di Torino . 340.000 10 000 5.000 Totale L. 1.182.810 Chiuso il 20° milione, riportiamo la maggior somma di L. 182.810 al prossimo fascicolo come primo elenco del 21° milione. LUCIO RIDENTI: Direttore responsabile - Proprietà artistica e letteraria riservata alla Editrice e stampatrice ILTE - Industria Libraria Tipografica Editrice - Torino - corso Bramante, 20 / manoscritti, le fotografie ed i disegni non richiesti, non si restituiscono per nessuna ragione » . » . . T s a m i a ■ s a l o n e m e r c a t o i n t e r n a z i o n a l e d e l l ’ a b b i g l i a m e n t o W / Z * Z / f ó r i INFO RM AZIONI: SEGRETERIA GENERALE CORSO M. D ’AZEGLIO, 15 - TORINO TELEFONO 60.977 - 60.978 - 683.432 - 683.442 - TELEG RAM M I: SAMIATO ORGANIZZAZIONE COORDINATA CON IL “ MERCATO INTERNAZIONALE DEL TESSILE PER L'ABBIGLIAMENTO ” - MITAM - MILANO QUESTO VOLUME SARÀ Iti VENDITA A FINE OTTOBRE COSTA 1400 LIRE PRENOTATELO s/'t/a.i/o c-&$emez- GLI ALTKI VOLUMI SONO L’ATTORE, a cura di Lucio Ridenti (( ESSENZA DEL FILM, a cura di F. di Giammatteo (esaurito) IL TEATRO D’AMERICA, di Gigi Cane ■ So nonli trovate (lai Vostro libraio, richiedeteli direttamente alla ILTE - Corso Bramante 20 - Torino

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Il dramma : rivista mensile di commedie di grande successo. - Torino : Grandi firme, 1925-1992.

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