\ ONITANA - BILORA JTE CITTADINO VENETO GIORNI FELICI l L_-- INCONTRO CON ROGER BLIN 1 QUADliKNl DEL TEATRO STJ\BILE DELLA Cr11.A' DI TOR!i'!U RUZANTE l L' ANCO- NITANA - BILORA l RUZANTE CITTADINO VENETO BECKETT FELICI l l l GIORNI INCONTRO CON ROGER BLIN Edizioni ,:d Teatlo Stabile di Torino - 1965 Questo terzo quaderno è dedicato agli ultimi due rpettacoli allestiti dal Teatro Stabile di Torino nella stagione 1964-1965: L'Anconitana e Bilora del Ruzante e Giorni Felici di Samuel Beckett. Per il nostro Teatm il regi.rta de Bosio nella stagione 1961 aveva già allestito un primo spettacolo ruzantiano: La Moscheta. Esso non fu solo uno dei maggiori successi dello Stabile, ma anche uno degli spettacoli piu importanti che si siano visti in Italia durante il dopoguerra. La Moscheta, oltre che in Italia, venne pt·esmtata con larghissimi consensi di pubblico e di critica nell'America Latina, al Festival delle Nazioni di Parigi e al V Ciclo del teatro latino di Barcellona. Ora, presentando il nuovo spettacolo ruzantiano, Gianf1•anco de Bosio cosi si è espresso: «Negli ultimi decenni l'opera di Brecht, da un lato, e di Beckett dall'altro (per ricordare soltanto due degli autori piu tipici della nostra epoca), ha introdotto nel mondo della cultura e del teat1·o in gene1•e, come d'altra parte tra il pubblico, una sensibilità completamente nuova, facendo avverti1·e l'urgenza di problemi e di temi nettamente e dichiaratamente svincolati dalla tradiziom; di conseguenza oggi esistono condizioni che consentono di accostare un autore cinquecentesco quale è Ruzante con una disposizione di spirito particolarmente felice in vista di una lettttra in grado di cogliere i valori tipici dello scrittore. Ruzante - prosegue de Bosio - è un tiJJ,tare che pe1• secoli la cultura letterarict e teatrale ha pressoché ign01'ato e ciò perché essa non possedeva i mezzi per intendedo nella sua violenta originalità. l mai valori pitt gen;tini hanno costituito unct netta contl'addizione delle forme e dei gusti tradizionali. Una comprensione che concern-e il linguaggio: crudo, aspro e violento; il modo di l' guardare all'uomo: un modo dichiaratamente anti-barocco e anti-romantico; la capacità di accostarsi con assoluta immediatezza e quindi senza il diaframma di pitt o meno comode ideali.zzazioni alla realtà nei suoi aspetti pitJ completi e materiali; l'acquisizione del semo e della crttdeltà come dato effettu.ale eli primaria importanza ... ». Il Teatro Stabile di Torino non ttctsconde ltt stta predilezione per il Ruzante, il cui teatro, come ancMa dice de Bosio, costituisce anche « una premessa importante per uno spettacolo modernamente concepito, audace nella .rtru!tura e capace di in.rtazt1·are un rapporto esplicito con la platea mediante mezzi d'espressione prettamente teat1'ali », e quindi « una possibilità di teatro puro ». Per queste 1·agioni lo Stabile di Torino recandosi in tournée in hancia dal 27 marzo al 16 ap1·ile ha 1·itenuto oppMtuno presentm'e lo spettacolo ruzantiano. l testi dedicati in questo quaderno a Rztzante sono dovuti a giovani studiosi (uno dei quali giovanissimo, all'indomani della laurea), tutti legati in vario modo alla cultu.ra tmiversitaria e ai suoi metodi, e di formazione affine: il che non impedisce che il loro discorso a piu voci, !ungi dal fani monologo, si m-ticoli su piani diversi e complementari, disponendosi stt posizioni scalate e mosse da sensibili differenze i?zterne. La Scheda introduttiva e la Nota sui testi dello spettacolo di Lttdovico Z orzi forniscono al lettore gli indispensabili elementi di informazione, il saggio di Mario Prosperi è un capitolo informativo della sua monografia sul Ruzante (ancora inedita, nata in origine come dissertazione di laurea) ed imposta in termini di perspicuità tmo dei qttesiti piu originali sollevati dalla nttova filologia, quello dei rapporti del Ruzante azttore con la società politicct del suo tempo, Completa la sezione del quaderno dedicata al Ruzante una nota di bibliografict analitica, accuratamente aggiornata al 1964. A Samuel Beckett è riservata la seconda pcHte del quaderno, Essa si apre con un ampio saggio critico firmato da zm giovane studioso torinese. Segue una difJttsa conversa- zione, registrata al magnetofono, con il regista Roger Blin, il quale ha guidato la signora Laura Adani nella difficile interpretazione di Giorni Felici. E' opportuno ricordare che Roger Blin può a buon diritto parlare non solo come regista dello spettacolo, ma anche come amico di Beckett, e con l'autorità che gli deriva dall'essere uno degli uomini di primo piano del piu coraggioso teatro francese degli ultimi an m. L'accostamento tra Ruzante e Beckett non deve essere considerato un fatto puramente occasionale suggerito soltanto dalla contemporaneità degli spettacoli. Esso è stato dal Teatro meditatamente predisposto in sede di composizione del repertorio. Riteniamo infatti che per quanto indubbiamente diversissimi fra di loro, i due scrittori abbiano tm dato in comune: l'aver portato sino in fondo, sino all'essenzialità, con una sorta di disperato coraggio, la loro osservazione sulla condizione umana. Cosi. questi due poeti tragici, capaci di provocare, sia pure in toni diversi il 1·iso, si rispondono, in qualche modo, a distanza di secoli. Angelo Beo leo detto Ruza nte Il recupero del patrimonio ruzantiano al repertorio scenico ed editoriale del nostro tempo è di data recente. Si sa tuttavia che la fortuna del Ruzante culminò nella seconda metà del xvr secolo. Dopo l'ap_plauso dei contemporanei, che celebrarono il suo duplice genio di autore e di attore paragonandolo, secondo la parafrasi retorica dell'epoca, a un Plauto e a un Roscio redivivi e decretandogli clamoroso successo mondano a Padova, a Venezia e a Ferrara, egli ebbe in sorte, postuma, la fama letteraria. Nei settant'anni che corrono tra il 1548, quando fu pubblicata per la prima volta una sua commedia, e il 1617, in cui apparve l'ultima edizione collettiva, le ristampe delle sue opere si succedettero con frequenza, raggiungendo in qualche caso il numero di otto edizioni consecutive. Famosissimo e nominatissimo sono gli attributi che precedono costantemente il suo nome sugli antichi frontespizi. Poi, nei secoli successivi, la fama rapidamente decadde, la notorietà si ridusse a cognizione d1 pochi eruditi: i compilatori dei grandi repertori settecenteschi della nostra letteratura (con l'eccezione del Mazzuchelli) gli dedicarono appena qualche riga, quasi di sfuggita. Le cause di un oblio · tanto repentino si sono volute variamente spiegare, sia con la decadenza della Commedia dell'Arte, i cui attori attinsero alle commedie del Ruzante come a una durevole fonte di ispirazione e contribuirono non poco a tramandarne la memoria; sia con l'influsso della cosiddetta questione della lingua, che diminuf grandemente l'interesse dei ceti colti verso la letteratura dialettale. Gli stessi motivi hanno certamente influito sul ritardo con il quale gli studiosi moderni si sono accostati all'opera del Ruzante e ai problemi di storia letteraria e teatrale ad essa congiunti. Basti pensare che a tutt'oggi manca una edizione critica completa, alla quale il Lo- 11 lO ,, vHrini attese per molti anni della sua lunga vita, senza riuscire a condurla a termine; e che soltanto in questi ultimi anni si sono pubblicati per la prima volta alcuni testi trascritti ortofonicamente, secondo moderni criteri di grafia. Il paradosso - cioè lo stato iniziale degli studi rvzantiani , fermi allo studio filologico dei testi, ad onta dell a elaborazione di un buon numero di presupposti eruditi e del susseguirsi di una aggiornata saggistica critica - è però riscontrabile anche in altri autori italiani che, senza avere le difficoltà lessicali del Ruzante, versano press'a poco nelle medesime condizioni. Non fa meraviglia che la moderna « riscoperta » del Ruzante si debba alla spregiudicata intelligenza di due letterati francesi, Maurice Sand, figlio della scrittrice George, che per primo ne delineò la figura e l'opera in una voce del suo repertorio di Masques et bouffons, e, in epoca più vicina a noi, Alfred Mortier, autore di una monografia in due volumi, la quale, malgrado l'invecchiamento e comprensibili inesattezze e lacune, rappresenta una fonte ancor oggi preziosa per la conoscenza del Ruzante e testimonia di uno sforzo intellettuale non comune. Il merito della ricostruzione della biografia del nostro autore spetta però ad Emilio Lovarini, il quale, in una serie di articoli sparsi in riviste e volumi miscellanei, oggi non facilmente accessibili, ha raccolto e sottoposto a un paziente lavoro di integrazione notizie di provenienza archivistica, che ci consentono di ricomporre un ritratto abbastanza completo. Ma già nel suo secolo il Ruzante è ricordato piu volte dal veneziano Marino Sanuto nei celebri Diarii, da Bernardino Scardeone e Sperone Speroni padovani, da Anton Francesco Doni e Benedetto V archi fuori dei confini della Repubblica; gli eruditi settecenteschi Girolamo Tiraboschi e Giovanni Maria Mazzuchelli registrano pure altri interessanti dati che lo riguardano. Sappiamo cosi che Angelo Beolco, noto in seguito con il nome d'arte di Ruzante, nacque intorno alla fine del secolo xv o al principio del XVI da un messer Giovan Francesco, « dottore in arti e medicina » e per qualche tempo rettore dell'Università degli Artisti (cioè della Facoltà di medicina e farmacia dello Studio padovano), discendente da una famiglia di mercanti milanesi trasferitasi nel Veneto intorno alla metà secolo precedente e arricchitasi con la mercatura e con l'acquisto di terre. Figlio naturale, rimase tra i cinque fratelli un po' ~ disparte; alla fortunosa carriera politica, che trasse l~ carcere Ludovico e costrinse all'esilio Pietro Beolco negh anni che seguirono la guerra di Cambrai, Angelo prefer1 forse il tranquillo raccoglimento delle cure campagnole; e già in questa scelta è da ricercare ~ ~rimo rapport~ con il mondo contadino, approfond1tos1 quando egh ebbe dalla confidenza di Alvise Cornaro l'incarico di amministratore fondiario, che già svolgeva per i possessi dei fratelli. La maggior parte delle estati il B~ol~o la ~assav~ nelle ville del Cornaro a Este e a Luvtghano sul Colh Euganei, a Codevigo nel territorio di Piove di Sac~o , a Loreo nel Polesine, in quotidiano contatto con la vtta dei campi. Gli inverni li trascorreva a Padova, nel palazzo del Cornaro in « contrà del Santo ». La casa del grande signore, quale ce la descrive il Vasari che ne parla nella vita del Falconetto, era la tipica piccola corte del Rinascimento· forse appena piu provinciale di quella dei principi ferra~esi, mantovani e urbi~ati.' pe~ i li~iti di un privato, che pure sapeva eguagliarli net gustl ~ nei modi di vita. Vi passava la cerchia della cultura umversitaria raccolta intorno allo Studio, dominata dall'aristotelismo riformatore del Pomponazzi e dal platonismo petrarcheggiante del Bembo, e illumin.at~ dal rapido passaggio di Erasmo; vi s.i J?ovevano a:u,stl, letterati, scienziati, e dame e cavahen della nobtl~a padovana e veneziana: un mondo vario e compostto, che conciliava l'umanesimo un po' astratto di quella cultura con le realistiche istanze della politica e degli affari, cui sembrava proporre personale modello lo spirito equi- 12 t' librato e sereno del capo di casa, allora nella piene!.7.a della maturità. In questo ambiente aristocratico, e tuttavia aperto alla comprensione dell'humus contadina fermentante nel tessuto sociale delle città (la patavinitas liviana anticipa la nozione di pavanità?), il giovane Beolco maturò la sua formazione artistica, favorita dal rapporto con spiriti a lui congeniali; come Giovan Maria Falconetto, l'architetto della bella Loggia eretta in un angolo ombroso e appartato del giardino circondante le case del Cornaro, nella quale il Ruzante allestiva la rappresentazione delle sue commedie e dei suoi « dialoghi »; e costruttore, pure per le commedie dell'amico, del primo teatro moderno coperto, in una villa di caccia del Cornaro a Fosson di Loreo: oggi scomparso, ma che sicuramente precorse e preparò l'Olimpico del Palladio. E fu presso l'ospitale amico e signore che il Ruzante venne a morte quando già toccava l'apice della sua fama, il 17 marzo 1542. In quei giorni l'Accademia padovana degli Infiammati doveva porre in scena, sempre in casa del Cornaro, la tragedia Canace dello Speroni, nel corso di una grande festa con musiche, danze in costume e un magnifico convito: presidenti designati erano Alvise Cornaro, Alessandro Piccolomini e Angelo Beolco. Quest'ultimo, regista generale della festa, avrebbe anche dovuto prendere parte alla rappresentazione, sostenendo per la prima volta un ruolo tragico. La sua morte sopraggiunse a troncare i preparativi, e a segnare il destino della lugubre tragedia dello Speroni, che dopo varie peripezie non venne mai rappresentata. Il Ruzante fu sepolto di fronte alla casa paterna nella chiesetta di San Daniele presso il Pra' della Valle, dove ancor oggi si legge una iscrizione tombale, che ricordiamo perché è l'unico documento dal quale si apprende che il Ruzante mori ancora giovane, in età di quarant'anni. A parte quelle per lungo tempo attribuitegli, come la Rodiana (che apparve in tutte le edizioni sotto il suo nome, pur essendo vivacemente rivendicata dal Calmo), le opere del Ruzante giunte fino a noi sono le seguenti : la Pastoral, in versi, inedita fino a una quindicina d'anni fa, quando fu pubblicata dal Lovarini; la Betìa, pure in versi, stampata dal Lovarini in una versione mutila dei primi due atti, e della quale esiste una redazione integra ancora inedita in un manoscritto del Museo Correr; la Moschete, la Fiorina, l'Anconitana, la Vaccària e la Piovana, commedie in prosa di varia :fisionomia, ma rispettanti la partizione canonica in cinque atti; i Due dialoghi in lingua rustica e il Dialogo !acetissimo, piu noti con i titoli moderni di Reduce, Bilora e Ménego; un gruppo di operette minori, comprendente due Oralioni, un Rasonamento, uno Sprolico (cioè una sorta di prologo passe-par-tout), una Littera all'amico Alvarotto e alcune composizioni in versi, che lo scrivente ha avuto la ventura di rintracciare in un codice della Marciana pochi anni fa. Molto, dunque, se confrontato al quasi nulla salvatosi dei suoi contemporanei e predecessori; anche rispetto a una produzione che fu senza dubbio assai piu feconda, come lasciano supporre espliciti accenni di altri autori ad opere perdute e tutta una serie di induzioni che è possibile ricavare dall'esame delle opere giunte :fino a noi. Questo frammentismo è una delle cause della prima difficoltà che si incontra nello studio del teatro ruzantiano, l'impossibilità di stabilire una precisa successione cronologica delle varie commedie. Questa è d'altronde di molta importanza, perché ad essa risale il difetto comune a gran parte della critica sul Ruzante, di aver voluto distinguere nel suo svolgimento artistico la successione di due momenti distinti ed opposti: il periodo giovanile e il piu maturo, il primo di ispirazione istintiva e originale, il secondo, che avrebbe inizio intorno al 1530, di elaborazione riflessa, in cui l'arte del Padovano scadrebbe verso forme di imitazione classica: un passaggio, in altri termini, dal poeta « istintivo e per cosi dire selvatico » (R. Viola) al letterato scolastico e l 14 15 ~tccademizzante. Perfino il Croce, tendenzialmente àvverso a un tale genere di schemi, finl per accogliere una distinzione tanto artificios> sono evidentemente ricalcati, non altrettanto si può dire dello sviluppo drammati.co, assente nel testo erasmiano. Al pacifismo moralistico e classicheggiante dell 'originale, Ruzante sostituisce l'esperienza 37 di concezione, ma il contadino Ruzante attinge l'impertinenza contro l'infatuazione eroica del tempo da tali precedenti. E da essi deriva quel senso intimo, familiare , « dialettale », di chi è costretto a guardarsi in casa dopo aver sognato l'Impero : miseria, carestia, ingiustlZla amministrativa, sovrappopolazione della terra; disordinato inurbarsi dei diseredati. Questo sguardo preoccupato e sincero (ma non del tutto disinteressato) all'interno, genera un patriottismo affettivo, senza retorica: San Marco non è piu una macchina di espansione e di potenza, ma un mite garante dell'ordine e della conservazione : Se sem boni marchischi, almanco arom pase, abondançia sempre, con raso n '. È il San Marco di Ruzante al principio del Parlamento : <• Oh, oh, Marco, Marco ! A' son pur chialò a la segura », e piu sopra : « A' me refarè pure. A' galderè pure la me Gnua, che gh'è vegnù a stare. Cancaro ai campi, a la guera, ai soldè ». Eco di versi anonimi riferiti alla stessa guerra e alla stessa situazione del « Nòstos », del ritorno : T ornerem ai casamenti a' porem pur somenare orzo, spetta e d'i fromenti, far del vin e anche arare e porom pur lavorare sora i monti e sora i pian . 2 Gi è partù qui slançeman • Il patriottismo di Ruzante è dunque di questo genere: San Marco sia uno scudo, non piu una spada. E complessa di un fatto storico circostanziato e pre~i so. Pertanto il rapporto intelletbuale con Erasmo non è piu determinante, mi sembra, del rapporto sentimentale e politico con i sonetti pavani. 1 Antichi testi di letteratura pavana, pubblicati da E. Lovarini, Bologna, Romagnoli D all' Acqua, 1894, p. 59· 2 A ntichi testi, cit., p. 07. 38 dietro lo scudo, la rinuncia a tl!1a politica italianà genera la rinuncia alla lingua italiana illustre: il fiorentino diventa « fiorentinesco », e cioè una lingua straniera né pili né meno del « tosco » ' ; e parlare in fiorentino è parlare « moscheto », cioè affettato, stucchevole, e « per gramègo », cioè sforzato, secondo regole e senza spontaneità. Parlare toscano è per Ruzante una ostentazione di snob, come i « pulitani da Robin » ( « napoletani », perché cosi erano chiamati con disprezzo, dai settentrionali, tutti gli italiani al di sotto del Po'; « da Robin » forse perché la Corte di Urbino era il massimo centro del parlar moschetto). Questi « sletràn » sono per l'appunto quegli « altieri che vuò stare sempre de sora de tuti », cui accenna Ruzante nella Prima Oratione. Lo sforzo di unificazione linguistica, guidato dal Bembo, e che darà pure i suoi frutti, viene dal Ruzante interpretato come sforzo inutile, sterile, basato sulla pura ambizione e alterigia di letterati che non vogliono arrendersi ai fatti: cioè l'ineluttabile disunione d'Italia. Lasciando il pubblico dei lettori al suo destino, essi creano una lingua per loro, una koinè di corte, una « grammatica »: e Ruzante intuisce che questo è un movimento inverso a quello dell'arte, anche se serve alla conservazione della cultura. Umiltà e naturalezza sono le sue convinzioni, e fin dal principio si unisce alla schiera di quei « novelli inzegni, non cupidi in altiera phama salire ». Ruzante rinuncia all'altezza e durevolezza della fama per toccare H vivo del risultato artistico, che altrimenti gli sfugge; e raggiungere la comunicazione immediata con il pubblico, che per un autore teatrale è elemento fondamentale di una scelta. 1 Cfr. il Prologo della Fiorina: « Mo i volea ben ch'a· muassc lengua, e che ve parlasse in lengua toesca e fiorentinesca ... a' no sè ben dire ». 2 Cfr. La Moscheta, a. II, se. IV: " Io mi sono dela T alia, pulitan ». 39 Anche il pubblico di Ruzante non è altro da quello delle composizioni pavane a lui preceden:i, ciò che conferma l'identificazione di esse nel Proemto II della Pastoral. Dice un mariazo (il primo nell'ordine pubblicato dal Lovarini, vv. 311-320): Dove è sti zusi e cavalieri e anche i gran missieri e questa scolaragia, e' diga, quigi che bagia 1 da sera a le speziarie? • Metivi tuti agualie in una stregia e fe-me d'orecia, e starò ascoltare. Dal terzo mariazo, nell'ordine, versi 1-6: Signori e citadini e vu altri, cagariegi, a' semo tuti fregi, nassù d'Adamo e di Eva; a' sè che 'l non v'agri eva ch'a' vegnum qui da vu. Da un «Frammento di ma_riazo », vv. 9-11: Zintiluomeni e mercanti, stè frimi e costanti, che ve vuò far grignare. La composizione del pubblico è .chiara: nobili,. alta borghesia, studenti. Del Ruzante dtce lo Sperom nel Dialogo dell'Usura (è l'Us~ra ~atta d:a che parla a R':zante): «Tu fai commedte dt amon e nozze contadinesche onde ne ridano i gran signori ». In' relazione a un pubblico di studenti, e alla tradizione goliardica, troviamo nel Ruzante, proprio nella 1 Gli studemi medesimi che s1 riunivano a chiacchierare di sera nelle spezierie. 41 40 Pastoral, il racconto del medico Mastro Francesco al pastore Arpino (scena XIII, vv. 88 sgg.): ' A' ve vò di': a'm record mi, student in merdesina ch'a vivi una fantina ' ch'era tug el me amor. In ottanta versi segue la storia del suo corteggiamento .. Dopo av~r fatto serenate, aver tentato approcci nel buw, tutto nuscendo inutile, ha finalmente scoperto che l'~nica vi_a e:a il denaro. All'amore sannazariano dei paston arcad1, s1 oppone l'esperienza goliardica e bor~~1ese. Un misto di ~inismo e di moralismo, non senza I,mdulger:za del prattcone per l'infatuazione arcadica, e l.?stent~zt_on~ p~dantesca di Aristotele. Tematica goliarcttca. cm s1 nfensce anche Callimaco - studente e falso medtco - nella Mandragola '. Anche nella Moscheta, quando Ruzante, travestito da studente, con la « gonela » fa la corte alla propria moglie per ?rovarne la fedeltà e le offre (anche qui) del denaro posstamo vedere un riferimento ai lazzi dell'ambient~ 2 s~udente_sc? - Strana invece, nel Ruzante, la mancanza d~ quals1~s1 ~ccenno alla letteratura maccheronica di ori~~ne_ gohardtco-clericale, tipicamente padovana, ~he per ~ 1rnverenza contro la poetica umanistica ha certo motivi m_ comune co_n il filone ?ialettale cui Ruzante si lega l"v'!17h~l~ Odas1, d~tto « Ttfi » (che di questi maccheroruCl, e il_padre) v1ene espressamente chiamato in causa dali ano?1mo Co~trasto del matrimonio de Tuogno e de la ~amz~. Proprw nella conclusione, avendo deciso di lasctare 1l suo amante ed essere fedele, dice la Tamia (vv. 199 sgg.): 1 Ve~: Un alleg;o convito di studenti a Padova uel CinqueEptstola (pubblicata, con note, da E. Lovarini) Padova, 1 889. Mos;heta, atto II, se. III; «A' l'he vestio con no so che drap1, che l parerà un scolaro». cent~. Of:. --==--- --- - E mi al vostro piasere vogio essere, mario, onesta al viver mio, come buona serore, e lassare el me amaore che tanto m'è insorio (venuto a noia), quel che tanto è stò ardio in farme gran promesse. Ma Tifis bene intese a scriverlo per mato in quel suo bel tratato de la Macaronea. E fa 'l primo in nomea de chi parlasse il vero, perché lui porta il vero (vetro) 1 per pietre preçiose • Ma la beffa maccheronica contro l'artificialità della letteratura umanistica resta prigioniera dell'oggetto con· tro cui è rivolta, e non suona quasi se non riferita ad esso. Diventa a sua volta una convenzione umanistica, o, peggio, clericale, con lo scetticis~~ a?archico e individualista che è tipico di queste postztom. Il filone pavan? ha molta piu autosufficienza nell'agone culturale, e tl Ruzante riuscirà a dargli l'autonomia dell'espressione poetica. L'esclusione della maccheronea può essere dunque per lui un fatto voluto. 1 Cfr. Macaronea, vv. 357-60. C'è una precisa interferenza di allusioni alla stessa persona (o stesso personaggio) tra dialettali e maccheronici: Tifi è chiamato a suffragare il giudizio su costui, che fu «il primo in nomea de chi parlasse il vero», mentre il gioco di parole ( « perché lui porta il vero/ .Per pietre p~eçios~ »~ è noto evidentemente al pubblico quanto 1l personaggw cm st riferisce. L'allusione documenta che anche fra maccheronici e dialettali il pubblico è lo stesso, che certi temi e certi personaggi sono familiari a questo pubblico, e che la polemica antiumanistica svolta in tandem dalle due tendenze trova estesi consensi. 43 42 l' Anche in questo sarei propenso a vedere quel carattere di Ruzante, preoccupato di non alienarsi dalla visione della realtà e dal sentimento della storia. La « alienazione » cosf ampiamente rappresentata nel suo personaggio, che si al1.9ntana « dall'ordine proporzionato dei rapporti reali», cadendo per questo appunto ne~ comico, sembra esserci indicata, con occhio clinico di drammaturgo, come sintomo principale della decadenza, della « corruttela », come elice il Machiavelli. Nell'intento eli mostrarci il Ruzante « in moto regressivo », invece, cioè nell'atteggiamento di chiudersi in sé stesso (in altre parole con astio di reazionario), il Baratto ci presenta l'argomento di un suo «orgoglio di padovano », che lo opporrebbe, velatamente ma cordialmente, a Venezia. Dice il Baratto che « una velata ostilità contro Venezia ... egli non la esprime ancora nella Pastoral e nella Betìa perché tanto Ruzante che l'Alvarotto' appartengono' a famiglie sospette (gli zii del primo e il nonno ~ il padre del secondo erano stati imprigionati): è sign~ ficativo che nel II Proemio della Pastoral Ruzante attnbuisca alle " barbariche natione " la guerra che si abbatte su Padova, tacendo la ribellione a Venezia della nobiltà. Poi, nei Dialoghi, Venezia appare in cattiva luce (la sconfitta della Ghiaradadda, i bravi, il vecchio usuraio): e nell'Anconitana l'elogio di Padova è un'allusiva " provocazione " antiveneziana. E si ricordi che il protettore di Ruzante, Alvise Cornaro, apparteneva ad una famiglia esclusa dalle magistrature: Alvise poté solo riavere il titolo di patrizio » 2 • Certo, nell'insieme, questi argomenti sono suggestivi, ma meritano di essere visti singolarmente. La « ribel- 1 Marco Aurelio Alvarotto, giovane nobile padovano, che nelle commedie di Ruzante interpretava la parte fiss:1 di Menato. 2 M. Baratto, art. cit., n. 1 a p. II9. lione a Venezia della nobiltà » è cosa che forse il Baratto esaaera nella sua entità. Dice il Paruta, nel Proemio alla « St~ria Veneziana »: « Fu infelicemente dalla Repubblica combattuto sopra le r~ve del fi_ume Ad_da, e da poi questo cattivo successo d1 battaglia, quasi che la Repubblica da certo colpo fatale fusse percossa, con. una presta disperazione di tutte le cose, hb~r~te dal gmramento le nobilissime città del suo dom11110, volse che a' nemici elle potessero arrendersi ». Senza ribellione, pacificamente, passò Padova agli . imperia~i, co~ ras~e anato consenso della stessa Venezia. Leggiamo Il Gmc~iardini (Storia d'Italia, VIII, 7): «della q~ale abiezione d'animo (per cui fu deliberata la cess10ne dell'Impero di terraferma) fu anc~e nel Senato allegata questa ragione, che se volontanamente cedevat;~ ali? Imperio per fuggire i presenti pericoli, che co_n pm faCIlità, ritornando mai la prospera fortuna, lo ncupererebbeno; perché i popoli, licenziati spontaneamen;e ~a loro, non sarebbeno cosf renitenti a tornare sotto l antiCo dominio come sarebbeno se se ne fussino partiti con aperta ribellione. Dalle quali ragioni mo_ssi, dimenti~ata la generosità viniziana e lo splendore di tanto glor10sa Repubblica, contenti di ri~e~ersi solame~te le acq'-;le salse commesseno aali ufE.e1ah che erano 111 Padova, 111 Ver;na e nelle altreb terre destinate a Massimiliano, che !asciatele in dominio dei popoli se ne partissino ». Di ribellione generale della nobiltà non s_i r_:>arla. Vi furono certo degli zelanti, come Leonardo Tnss111?, fuoruscito vicentino, che ricevette Padova in nom~ d1 ~as similiano· e per restare in Padova stessa, nell ambiente dei Beol~o , sappiamo del nonno dell'Alvarotto, che fu tra i primi padovani a d~rs~ all:I~peratore ~el _1509, e che fu rinchiuso con altn nbelh 111 una speCie d1 ga~ bia o campo di concentramento in Terra Nova; ed il celebre giurista Anton Francesco Dottori, l'intimo arnie~ dei Beolco ed esecutore testamentario del padre d~ Angelo, che nel giugno del 150~ a_n_dò a !re~to ~on altn deputati per sollecitare da Massimiltano l111v1o d1 truppe 44 l' 45 a Padova '. Entrambi ebbero la casa devastata al ritorno dei Veneziani; ma furono pochi episodi isolati. In generale il ritorno non fu piu drammatico dell'abbandono, « non avendo ricevuto danno se non le case degli ebrei e alcune case di Padovani che si erano scoperti prima nemici del nome viniziano » 2 • Non è episodio tale da coinvolgere il destino di Ruzante e dei suoi amici. Molti furono presi - è anche vero - come sospetti, e tra essi è il celebre letterato Sperone Speroni e suo padre, il medico di Leone X, nonché due zii di Ruzante, Gian Jacopo e Melchiorre, ma tutti furono rilasciati entro il 1512 e sottoposti solo a periodici interrogatori, sempre piu rari. Quanto ai fratelli di Ruzante, che furono: Pietro in esilio sul ferrarese, e Ludovico in carcere a Venezia, non ci è nota la causa delle condanne; ma ne abbiamo notizia dal 1535, e non sono perciò da riferire ai fatti del 1509 (quando fra l'altro i fratelli di Ruzante erano bambini). I ribelli veri e propri furono se mai altre persone: i « rebiegi » che sempre, nei sonetti pavani, sono abbinati alle lodi di San Marco e alle imprecazioni contro l'Imperatore. Ad esempio, in un sonetto scritto in occasione della Lega di Blois (1513), i villani si rallegrano delle nuove prospettive di pace: dato da Ruzante nella Betia 1 proprio in antitesi alle patriottiche lodi del « segnor » Bartolomeo d'Alviano, secondo lo schema dei sonetti (almeno in apparenza). T AMIA (parlando dell'Inferno in cui Naie finge di essere stato): Mo del segnar Bortolamio che n'è? NALE El segnar Bortolamio, missier Iesun Dio l'ha fato andar in çielo, là su, e questo perché, com he intendù, per la so fe' e lealtè, ben chè i diavoli sempre è stè con paura ben grande, che el no vegnisse in le so bande a metergi a romore. Gi aveva un tremore che i no savea un' se cazare. TAMIA A Sonzin Benzon che ghe fagi fare? NALE A' sarem fora pur de tanti osiegi (le aquile imperiali) senza di aver paura de' rebiegi 3• Sono, costoro, figure di briganti, noti al popolo per nome, che profittarono evidentemente della guerra e del ritiro dei presidi veneziani per compiere vendette e usurpazioni. Come quel tale Soncin Benzon, che aveva militato sotto le insegne francesi contro Venezia e che fu impiccato a Padova come ribelle nel giugno 1510, ricor- 1 E. Lovarini, Ruzzante a Venezia, in "Archivio Veneto>>, a. LXXIII, (1943), s. V, pp. 147-167. J ' F. Guicciardini, Storia d'Italia, VIli, 9· Antuhi testi, cit., p. 72. l Mo l'è de soto de nu. El sta piezo de nu. E questo perché, a te dirè, el fo' apicò in su con un pè, e l'anema insì dal culo via; e perché de ivelò la giera insìa, com la rivà ivelò, l'ave de fato amorbò tuta quel paese, e, com i diavoli questo intese, e per no se amorbare, i'l fè cazare de soto de nu assè. Betia, atto V, vv. 870 sgg. 46 1' Lo scherno verso tipi come il Benzone doveva trovare un assenso cos1 incondizionato nel pubblico, che il Ruzante sembra approfittarne istrionicamente come di un motivo di facile popolarità. A proposito dell'Alviano invece dobbiamo dire che l'elogio può essere solo apparente. Ci mette in guardia un giudizio parallelo del Ruzante stesso, nel Parlamento, non certo lusinghiero'. Anche nel citato passo della Betìa, dunque, la paura dei diavoli potrebbe essere, anziché il segno dell'eroe, che fa tremare l'Inferno, una allusione maliziosa alla precarietà della sua beatificazione, motivata, « com he intendù », dalla sua « fe' e lealtè », « benché i diavoli » stavano sempre con la paura « che 'l no vegnisse in le so bande ». Il « benché », seguito a quella « fe' e lealté » per sentito dire, può significare l'incertezza della sorte dell'Alviano; mentre i diavoli temono di subire quello che hanno subito i suoi stessi soldati (non nemici) per colpa sua. La stessa Tamìa che domanda: « Mo del segnor Bortolamio che n'è? » si augura probabilmente che stia all'Inferno. Io lascerei la questione come sta, perché in ogni caso è difficile dire la p~rta.ta polemica di questa battuta. Ruzante cerca forse d1 gmd1care. obbiettivamente in una questione che doveva essere d1bat- 1 La scoperta si deve a Ludovico Zorzi [c~r. l'articol.o Rassegna di studi teatrali (In margine a due antologte venete), m « Lettere italiane», XIII (r96r), n. 3, nota a p. 34r]. Nel Parlamento, dove le stampe danno: « Mo el segnar Tènore, che giera SI braoso a Truogia, se tràsselo mo in te l'aqua, per m.uzare? E SI veev~ quigi altri che se anegava ... E corse a Pava a 1mbusarse, an? », 1 manoscritti danno una notevole variante: « Mo el segnar Bortolarnio, che giera SI braoso a Vicenza, se tràsselo mo in l'aqua, per muzare? E SI ve(e)va, che gi altri se anegava ... E corse a ~avG a imbusarse, an? ». L'allusione alla fuga vergognosa dell'Alviano, sconfitto alla Motta, attraverso il fiume Rorone, in cui molti soldati annegarono, fu probabilmente (cfr. Zorzi) tagliata dalla c:n: sura politica (la «licenza dei Superiori'' attestata dai frontespizi delle antiche edizioni), e sostituita dalla variante innocua di Antemore. 47 tuta. I cronisti (dr. Zorzi, art. cit.) attribuiscono la sconfitta della Motta (1513) alla facilità con cui si sbandarono i reparti costituiti dai « paesani », che « credendo la battaglia guadagnata, accorsero per predare sopra i vinti, e si mischiarono fra i soldati vincitori ». Ci dovette essere invece chi, prendendo le difese dei contadini (che furono trattati del resto come gli eroi della guerra) gettò la colpa sul comandante. Ruzante da una parte giustifica i contadini sul piano umano (nulla togliendo al quadro storico della loro viltà), dall'altra tempera il cattivo giudizio sull'Alviano, mandandolo in cielo, sia pure con la maliziosa riserva. Se l'incapacità militare è dall'una e dall'altra parte (contadini e comandante) si può pensare a una condanna del valore veneziano e interpretarla come rancore di nemico, ma sarebbe come dire che Plauto è antiromano, perché ha scritto il Miles gloriosus. Lo scherzo sul valore militare del proprio paese ha il sapore di un'acre soddisfazione, nel bisogno di dire una verità che angoscia e infastidisce. Piu tardi la Repubblica si guarderà con gli occhi del Paruta, e la censura politica taglierà gli accenti piu acri dell'opera del Ruzante. Ma al tempo del Parlamento certe verità dette sulla scena dovevano essere un sollievo per tu~ti, e soprattutto per i Veneziani. Lo conferma il fatto che nonostante che fìn dal 1508 fossero proibite da apposito decreto, in tutta la Repubblica, le commedie in dialetto, Ruzante lo troviamo sempre ospite gradito e atteso nelle piu aristocratiche case veneziane. E all'indignazione moralistica per la licenza del. linguaggio - condivisa dallo stesso Sanuto che Cl ha trasmesso i resoconti si accompagnava la piu viva e impellente curiosità. Dopo che il 5 maggio 1523, una commedia di Ruzante (forse la Betìa), recitata davanti al Doge stesso per le nozze di suo nipote sier Antonio Grimani, veniva giudicata « cossa molto discoreta da far davanti la Signoria », troviamo, due anni dopo, che per una prova (si badi) di una nuova commedia di Ruzante, non fu possibile tenere adunanza 49 48 né 11' in Pregli'd"1, ne' d al· D"Jecl,· tanti furono oli assenti a u:1o e. a . alt~o. consesso. Vi andarono, olt~e li alti maglstratJ. d! cm Il Sanuto fa il nome moltissimi gnobT 1 seb?ene pwvesse; sicché « per tempo la sala fo piena ~· Cosi, tra e, il successo ' Ruzante fu 111 . auae » . · lo·1 scandalo s a segu1re l 'anuto, fino al 7 febbraio 1526 l'ul · 1 1 . , quanbd o' tlma _vo ta o trovtamo invitato a una festa ill P er Venezta; Lovarini insinua il sospetto che per co~1 dtre, del Ruzante sia in relazione con un mct en~el venfì~atosi i? gue~la occasione. La festa era in ~more . e. Patn_a~ca d! Aqmleia ed erano presenti, oltre l 1~sstml yatnzl_ v~neziani, anche gli ambasciatori di rno t1 paesl stramen. Narra il Sanuto: «Durò q t festa hore 12. E~ è da saper: al pasto fo molte viv~~d: tra l~ qu~l alcum p~stell~, in una man ussivano schirati [sco_tat~oh] fuora, m l altra confeti picoli in l' 1t o~eh, l'altra un gallo tutto spenachiato 're pen: :~ tal~ta . a cresta; qual andò per tavola spandendo gotti e ~~glstere [brocche]. Et erano li oratori francesi yuah non fo _ben fatto tal cassa; et per la terra fo assà lo:morato dt ques~o » .. Lo scherzo del gallo era un'alusw~e. alla batt~gha dt Pa':ia, avvenuta l'anno prima, m llcm. 1 Francesi erano statl battuti dagli imperiali (il ga o francese contro l'aquila imperiale). Ai Veneziani la_ , scon~tta francese aveva fa:to gran dispiacere, e in pm ~ssl erano da poco alleati con il Duca di Milano, con Il Papa e ~on la_ Francia stessa contro l'Imperatore. Il colore ant_tveneztano oltre che antifrancese dello scher~o era ch!aro e fa pensare ai nobilotti pavani « sospetti 1:1a e pura supposizione. Al pasto partecipav~no . egh spagnoli, anzi uno di loro era venuto a d!vet~lO con s,er Aug':lstin N~ni di sier Polo, gettandogli una rocca d acqua m facoa e ricevendone un ta lio sulla ~tonte. Lo scherzo del gallo poteva essere una ;rovocaztone spagnola contro la recente alleanza di Venezia ~~~~a I~ . .J' t d. 1 Cfr. Lovarini, Ruzzante a Venezia, cit. l'esci~ con la Francia, assai piu verosimilmente (anche per lo stile smargiasso) di una ostentazione di sentimenti ahibellini da parte dei padovani presenti. Che poi essi ~bbiano riso dello scherzo in mezzo all'imbarazzo generale è oura fantasia del Lovarini, e comunque non giustifìche~ebbe l'improvviso tramonto di un autore celebre. Io credo invece che Venezia, essendo uscita dal momento piu grave della crisi, specie per le nuove alleanze e il grande incremento di attività industriali che sopperirono alla decadenza dei commerci, non era piu disposta ad abbandonarsi al pessimismo denigratorio di Ruzante, che pure aveva assaporato con gusto nel momento dell'umiliazione. Il Ruzante stesso, avvertendo l'esaurirsi del suo successo scandalistico, fu portato a sviluppare in modo positivo gli elementi della sua arte, giungendo nella Moscheta a tale compiutezza di struttura ed equilibrio di toni, da concepire l'ambizione di una definitiva sistemazione formale - secondo l'estetica umanistica nelle strutture della commedia classica '. È il momento in cui, perdendo il favore mondano di Venezia (e certa civetteria libertaria di cui si compiaceva) il Ruzante trovò oli accenti piu seri e universali della sua poesia. In tutt~ la sua parabola il rapporto con Venezia mi sembra dunque determinante. Ma ammettiamo che, come amico dell' Alvarotto e del Falconetto (che non faceva mistero dei suoi sentimenti fìloimperiali), Ruzante fosse incline all'Impero (e bisognerebbe dimenticare molti passi antitedeschi, specie sui Lanzichenecchi nella Seconda Oratione); un autore può benissimo non trovarsi all'unisono con la politica e con la mentalità della sua patria (e in questo senso tutta la vita di Ruzante è una provocazione), ma è diverso dire che Ruzante non si senta partecipe dello 1 Forse la recita ferrarese della Moscheta (1528), ove ebbe per scenografo l'Ariosto, fu l'occ::tsione in cui decise di affrontare Plauto . 50 Stato Veneto, né si senta legato al pubblico veneziano, al quale invece mira di proposito, mettendosi con esso in legame creativo. Della necessaria autonomia dell'autore, in discorsi di questo genere, si finisce per perdere coscienza. Proprio nell'Anconitana ci mostra il Ruzante la sua libertà da qualsiasi ipoteca non teatrale e l'intimo senso del suo lavoro. Dice il Tempo, che fa il Prologo, agli spettatori: «Lasciate ogni altro pensiero, poi che un nuovo caso amoroso siete per udire; che vi prometo, mentre che a li piacevoli ragionamenti, che a succedere hanno, darete udienzia, ancora che la prontezza de l'ore non possi ritenere, nondimeno farò che né per voi, né per conto del viver vostro volerano, ma per il rimanente del mondo si; e a la fine pervenuti, piu da me guadagnato che perduto averete. E acciò di questo prendiate certa fidanza, io, in uno di questi canti lasciato ogni mio costume, mi ponerò a sedere fìno a la fine ». E resta muto in scena per tutta la rappresentazione, a simboleggiare la cessazione dei vari e discordanti pensieri degli individui nell'unisono dell'atmosfera teatrale, nella « certa fidanza » con cui essi, come pubblico, si abbandonano al linguaggio dell'autore: e l'autore da parte sua garantisce, proprio all'aprirsi di questa parentesi astorica, di questa sospensione, che « alla fìne pervenuti », ci avranno piu guadagnato che perduto. Mediante la « certa fidanza » prende quota e autonomia il fatto teatrale, come del resto ogni fatto artistico, e nel procurarsi quel misterioso privilegio è tutto il devoto studio dell'artista. Ora soltanto posizioni universali hanno potere di sospendere il tempo nell'animo degli spettatori, e chi condonasse con stridule posizioni di parte distruggerebbe fede ed atmosfera con la irrimediabile inuzione del Tempo: neutrale si, ma sempre vigilante là in un canto della scena. Se dunque c'è nell'elogio di Padova (Anconitana, atto V, scena IV), come dice il Baratto, « un'allusiva provocazione antiveneziana », è questa una cosa che non doveva suonare come una 51 ingiusta ripicca provinciale, né innervosire il pubblico della capitale. « Provocazione », o magari « denuncia » sono atteggiamenti di un teatro tribunizio, con cui Ruzante nulla ha a che fare. Se i protagonisti dell'Anconitana, comprati da un mercante veneziano a certi Turchi, e a lui legati in attesa di riscatto, trovano a Padova la fìne delle loro avversità, per la munificenza dei signori di Padova, questo può si contenere l'esaltazione delle antiche virtu di una aristocrazia locale, e il biasimo di una borghesia veneziana di speculatori e usurai (rappresentata per giunta in sier Tomao, « già sensale stato », ed ora in Padova per « mutar agi ere »); ma bisogna ricordare che tra i « cortesi, magnifici e liberali gentiluomini» di Padova, come dice Tancredi, sono probabilmente compresi certi veneziani residenti, come appunto Alvise Cornaro. E i veneziani visti di mal occhio da Ruzante (come anche ser Andronico, l'usuraio del Bilora) non appartengono certo a questa categoria, ma a quella dei « cagariegi, can, lusulari, magnasangue de poeriti », cui, siano padovani o veneziani, va l'odio di Ruzante nella Prima Oratione; e cioè una categoria invisa al patriziato e al popolo, e dileggiata quindi tradizional1 mente sulle scene • Resta la frase « allusiva» di Tancredi, rivolto a Padova o ve ha ritrovato la libertà (Anconitana, atto V, scena IV): «e piuttosto di ogni tuo lieto e pacifico stato si dogliano li mali vicini tuoi, che tu ad alcuno porti invidia ». Potrebbero essere i Veneziani questi vicini invidiosi del pacifico stato di Padova, specie se corre l'anno 1523 (in cui Ludovico Zorzi e Nino Borsellino propongono di datare l'Anconitana) ", quando i 1 Il bello è che il Ruzante come affittuario di terreni e usuraio partecipa di questa categoria. Ne riparleremo a proposito del Dialogo dell'Usura dello Speroni. 2 A. Beolco (Ruzante), Anconitana, testo, traduzione, note e glossari a cura di L. Zorzi, Padova 1953, pp. 183-192. E Nino 52 'l Ve:1eziani si battevano infelicemente con i Turchi in C?nente. An~he nel Prologo c'è un accenno alla minacCia contro. C~pro e _non è certo sottolineata con dolore. Padova, c:tta studiosa, tradizionalista, di grande ricc~ezza. agr:cola, nel pericolare dell'Impero marittimo di venezia: Sl poneva fiduciosamente come simbolo e modello di :-rna. trasformazione della Repubblica in forte Stato terntonale. Moltissimi veneziani condividevano del resto que_sto indirizzo. Specialmente coloro che, come i Co~naro, 111 Padova erano profondamente radicati, quanto a_ ricchezza e a potere. Non c'è minimamente l'idea di rmnegare la sovranità venezian~ . Dice il Ruzante, nella Przma. Ora!z~ne al cardinale Marco Cm·naro: «A' dighe mo m1 _ch_a no ~~n sletràn, com gi è igi, che si' da le Vegniest~, vemztan d'i buoni e d'i maore. Mo chi cancaro no l sa, che ca' Cornaro è la maor ca' del mon~o? »; e piu sotto: « Mo se no foesse ca' Cornaro, c?e e, n_desso parona del Pavan, com a' stass6n nu? Che a gh ~on speranza ch'a' n'agiè [aiutate]. Basta, ch'a' si' de ca Cornaro e de la tera che è parona del Pavan e de Pava » (cioè Venezia). Siamo cosi giunti a parlare di Alvise Cornaro il protettor:: _e amico di Ruzante, « che apparteneva' ad una famigha esclusa dalle magistrature». In una lett~ra del 2 ~prile 1542 allo Speroni, egli afferma di aver r~otte~mto d riconosci~e~t~ della nobiltà: « acquistai pot lo uso della nobdta m la patria mia e gli miei Il quale_ dalli miei avi era stato perduto, né mi vals~ eh~ esst _fossero stati gran senatori e principi ». Già pm~a ~gh. aveva fatto un tentativo, presentando ai Dieci Savt ?t Rt~lto, nell'agosto del 1514, una denuncia dei propn_ bem,_ con questa motivazione: « Anchora che io non sta. o~hgato_, ma perché, se otegno quel che desidero, videhcet di provare la nobiltà mia, son per venire ?i 53 ad habitat in questa terra » (Venezia) . Invece, dal fa tto che rimase ad abitare a Padova, risulta che quel tentativo fallf: nel 1518 egli fu sciolto dalla decima, « per non star (a Venezia) et habitat, et haver habitato da 1 anni 24 et ultra continuamente in Padoa » • A Padova Alvise si era stabilito, dopo avere perduto gli aviti beni paterni, per godere quelli materni , di largo reddito, sia in città, sia in campagna, « dispersi », come egli stesso disse, « in diversi et in diversi lochi ». La perdita del titolo attribuita da Alvise ai suoi avi è cosa di cui non si conoscono le cause, né pare fosse cosa recente. Di certo egli ne soffri : scrive il Cessi che « divenne agricoltore, coltivando nel suo animo la segreta speranza, mai dimessa, di riacquistare un giorno o l'altro tutti i diritti di patrizio, che a lui competevano » e che « questa profonda amarezza, checché si dica, non è mai placata nei suoi gesti e nelle sue parole ». D'accordo sull'amarezza, ma bisogna specificare che non fu causa di chiudersi e d'isolarsi, per lui. Nessun temperamento fu meno ipocondriaco del suo. Serenità, ottimismo e sincero desiderio di giovare alla patria lo animarono per tutta la vita. Quando, nel 154i , con i suoi lavori di bonifica, incorse in un processo, perché certi argini, in località di Fogolano, furono considerati dal Magistrato delle Acque in danno della laguna (impedivano il dilatare delle acque salse), Alvise Cornaro, con la sua difesa, sostenendo la necessità di mettere nuove terre a cultura, riallacciò i contatti con la vita pubblica; riuscendo infine a far istituire dal Senato un « Magistrato dei beni inculti » per i la-vori di bonifica, che operava sotto la sua protezione, per risolvere « il grande 1 Borsellino, La datazione dell'Anconitana, in « Giornale Storico della Letteratura Italiana », CXXXIX (1962), pp. 246-2 5. 5 Vedi Roben o Cessi, A lvise Cornaro e la bonifica veneziana li el secolo XVI, in " Atti della R. Accademia N azionale dei Lincei », classe di Scien ze morali, serie VI, vol. XII, fase. 3-4, Seduta del 19 april e 1936. 54 1 R. Cessi, loc "Vittorio lazzarini) Beni caJ'J'ttresz e jJroprietarJ l'eJZ-e:,Ìililj, m cc Studi in onor{' di Gino Luzzatlu ),, 'l:fdano 1949, Yol. 2 pp. sc; 1 Pubblic~to ci t JP 59 58 c~rlo della lana a Venezia vol. Storia dell'economia ;, pp. 'ìB sgg. IICJ di dcìl'ftalw, nel \01 60 tutta a suo favore. Vi si specchia da una parte la timidezza e la rusticità dell'esordiente in campo letterario (di una letteratura idolatrata e sofisticata), dall'altra la familiarità reale e vissuta con il mondo della campagna e dei contadini. MARIO PROSPERI l' L'Anconitana - Bilora Il 24 aprile 1965 il Teat?'o Stabile di To?'ino ba rappresentato al Teatro Carignano L'Anconitana e Bilora di Angelo Beolco detto Ruzante. Le due commedie (il testo è stato curato da Lttdovico Zorzi) sono state realizzate da Gianfranco de Bosio con scene e costttmi di Emanuele Luzzati e coreografia di Marta Egri. ElabMazioni musicali su motivi originali del '500 di Roberto Goitre, aiuto-regista Giovanna Bruno. Gli interpreti : Annabella Andreoli Carlo Bagno Alvise Battain Marina Bonfigli Attilio Cucari Clara Droetto Alessandro Esposito Paolo Graziosi Anna Mazzamauro Leda Negroni Danida Ossola Alfredo Piano MaDio Piave Gualtiero Rizzi Renzo Ross.i Mariella Zanetti. Lo spettacolo composto dall'Anconitana e dal Bilora di Angelo Beolco detto il Ruzante (1499?-1542) si ricollega alla messinscena della Moscheta, prodotta dal Teatro Stabile di Torino nell'autunno del 1960. La rappresentazione, a breve distanza di tempo, di due altre pièces del medesimo autore si iscrive in un metodico piano di lavoro, mediante il quale lo Stabile torinese persegue un attento riesame critico-filologico dell'opera di uno dei principali rappresentanti del teatro italiano del Rinascimento. L'Anconitana e il Bilora segnano due momenti esemplari della produzione drammatica ruzantiana. La prima, 62 63 una commedia in cinque atti, svolge in toni farseschi e caricaturali una trama di azione e di gesto, di invenzione di eventi e di reazione e di scontro di linguaggi, tipica del teatro cinquecentesco; il secondo, quel che oggi diremmo un atto unico, registra nella forma aperta del « dialogo » l'ascolto dei piu spontanei e primordiali istinti della natura umana, volgendosi a un approfondimento psicologico delle situazioni e dei tipi, che spesso assume accenti di dolorosa serietà. Entrambi gli aspetti, il farsesco e il serio, costituiscono i due momenti dialettici della fantasia ilaro-tragica del Beolco; e dalla loro sintesi nascono le opere maggiori e piu tipiche, quali la Moscbeta, il Bilora e il Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo. Uno spettacolo che presentasse le due componenti unite per contrasto era, dopo la Moscbeta, la tappa necessaria per proseguire la restituzione critica della complessa personalità del Ruzante. Il dittico formato dall'Anconitana e dal Bilora risponde a questo scopo con chiarezza didascalica. Nell'Anconitana, accanto alla tensione e al progresso degli avvenimenti, ha fondamentale importanza l'invenzione linguistica, in funzione polemica nei confronti della società contemporanea, sia per quanto concerne la definizione dei rapporti tra le classi, sia per ciò che si riferisce alla sfera piu propriamente letteraria: mirando cioè alla tradizione di decoro e di ornamento del petrarchismo, agli spunti plautini e terenziani filtrati nella narrativa boccaccesca, alla cultura toscaneggiante, alla letteratura colta in genere. Vi si determina cosi lo scontro continuo di forme linguistiche artificiali e dotte (è di quegli anni l'apparizione delle Prose della volgar lingua del Bembo, pubblicate a Venezia nel 1525) e di forme spontanee e popolari, dialettali e volgari, che definiscono i diversi gruppi e le categorie sociali dei personaggi, in un movimento parallelo a quello delle avventure che costituiscono la trama. L'argomento della commedia offre uno degli esempi piu significativi nel teatro italiano cinquecentesco della L_ fusione di azione e di invenzione linguistica, alla quale si acce1:nava. Da u? ~ato abbiamo il nucleo principale della vicenda, costltmto dall'avventura di tre giovani gentiluomini (uno di essi è in realtà una fanciulla trave~tita in_ abit? masc?ile), i quali, caduti in prigionia de1 corsan e nscattatl da un mercante veneziano, giungono a Padova con il proposito di mettersi al servizio di qualche gentildonna per trarne la somma necessaria a risarcire il mercante; avventura sulla quale si innesta l~ comparsa di una ricca vedova anconitana (donde il titolo della commedia), che, innarnoratasi in Ancona di uno dei tre - la fanciulla travestita, che essa crede uomo - , la insegue per soddisfare la sua passione, fino a che un provvidenziale riconoscimento - la fanciulla si scopre sorella della vedova - non sopraggiunge a sciogliere quel groviglio di clicbés convenzionali e di maliziose varianti dei giuochi dell'amore e del caso, travestimenti, sostituzioni, peripezie di prigionieri, amori impossibili, agnizione risolutrice. Dall'altro lato, in contrappunto ai toni sostenuti e seriosi della vicenda delle dame e dei cavalieri, si svolge quella che dovrebbe essere la parte secondaria o complementare dell'intreccio e che viene invece ad assumervi peso e rilievo prepond~rante, la farsa tra villanesca e buffonesca del vecchio veneziano Sier Tomao, preso dai vezzi della cortigiana Doralice, e del suo servitore Ruzante, innamorato della serva di costei, la contadina Bessa: farsa che, intrecciandosi e sovrapponendosi alla novella galante e sospirosa dei nobili prigionieri e della gentildonna innamorata, si fa ~retesto per ~ continuo movimento dei linguaggi e il hbero corso d1 quelle intenzioni di polemica culturale e morale, che sono la scoperta, cosciente e viva, del Beolco, e il fondamento della sua originalità di scrittore di teatro _risJ?etto a quasi tutta l'altra commedia cinquecentesca 1tahana, nella quale gli elementi dell'intreccio dell'Anconitana si possono riconoscere piu o meno simili. In realtà, l'importanza di questa commedia nella stona del nostro teatro si manifesta nel suo rapporto con 64 ciò che sarebbe diventata, cinquant'anni piu tardi, la Commedia dell'Arte. Si tratta di un rapporto conclusivo e anticipatore ad un tempo: conclusivo, in quanto sintesi degli elementi novellistici e farseschi presenti nelle esperienze dei giullari, dei cantimpanca, dei goliardi, di buffoni da osteria e da crocicchio, di tutto ciò che è possibile riferire al capitolo, ancora confuso e mal noto, del teatro di piazza; e anticipatore, in quanto restituzione di quella sparsa materia entro la forma oraanica 0 della commedia, la stessa che sarebbe stata assunta come intelaiatura passe-partout per i soggetti tradizionali del repertorio dell'Arte. Ora, pur essendo una palese forzatura considerare l'Anconitana come una dlretta anticipazione dei modi scenici che diverranno generali con il sopravvento di questo teatro, certo non si può fare a meno di giudicarla in funzione di un suggestivo prototipo. Il disegno assimetrico degli atti, la mescolanza di lingua e di dialetti, la incompleta aggettivazione scenica, di cui è traccia in alcune didascalie frammesse al testo, non fanno che aumentare il senso di un interesse puntato quasi esclusivamente sul dialogo. Ma anche la costruzione dei personaggi risente di questo avviarsi al tecnicismo dell'Arte, che l'abilità dell'attore Beolco e dei suoi compagni doveva continuamente sollecitare. Un accentuato schematismo incide qui sulla verosimiglianza psicologica di situazioni e sentimenti, e preannuncia la caratterizzazione delle cosiddette « parti fìsse », che costituiranno il meccanismo proprio della commedia improvvisa. Degli otto o nove tipi fondamentali sono già chiaramente riconoscibili il primo e il secondo amoroso, la prima e la seconda donna, il vecchio, la cortigiana, la servetta e almeno un evidentissimo << zanni »: vale a dire tutte quattro le « parti serie » e quattro delle cinque « parti comiche » tradizionali. Due di queste meritano particolare attenzione, e sono naturalmente i personaggi di Sier Tomao e di Ruzante, specie nei lunghi duetti del secondo e del quarto atto. Vi è già individuata e condotta a un grado di singolare compiutezza 65 una coppia di protomaschere tra le piu celebri del teatro italiano: nella laida vecchiezza dell'uno si intravvede il primitivo Pantalone, che ha come modello il borghese veneziano arricchito, avaro, femminiere, pieno di vizi e di acciacchi, mentre nella vivacità mobile e furbesca sensuale, sboccata e beffarda dell'altro sono altrettanti caratteri del tipo originario dell'Arlecchino, il servo scaltro, l'arditore della macchina teatrale, o piuttosto il personaggio di raccordo e di connessione di tutta la comn~edia. Ruzante non tradisce nemmeno qui la consuetudme che vuole lo « zanni » di origine contadina, immette anzi con disinvoltura la sua ispirazione villanesca nell'organismo già predisposto dalla tradizione· solo p ili tar~i l'umorismo del suo personaggio, qui c~si schietto e J:§IOCOndo, si arricchirà di una consapevolezza meditata ed amara. ~l Bifora, infatti, segna il punto piu alto dell'arte ruzantlana .. Comp?sto in un momento che tutto lascia pensare assm pross1mo alla Moscheta (1528), il breve « dialogo » ne riprende la tematica grave e grottesca, tesa stavolta a _un esito tragico, e tutta imperniata sul rapporto tra 11 mondo povero e angusto del contadino e q~~ll~\ a lui ?st!le proprio perché aperto a svariate poss1bil1ta matenah, del borghese cittadino. Tale rapporto, come nel Parlamento, come nella Moscheta, si rivela precario o addirittura impossibile. Il contadino Bilora se ne viene a Venezia a ripigliarsi la moalie che è andata . o a conv1vere con un vecchio gentiluomo; costui sicuro della propria impunità sociale, non gliela vuole ;endere, e anche la ragazza si mostra incerta tra le busse e la vig~ria ~essuale del marito e gli_ agi e l'impotenza bavosa dell anz1ano amante; e allora Bllora lo aspetta sulla via, e appena quello esce di casa gli si precipita addosso e lo ammazza a coltellate; poi grida sul corpo esanime atroci sarcasmi. « Dialoghi » chiamò il Ruzante queste composizioni, sia per il numero esiguo degli interlocutori, sia per la brevità della loro durata; è probabile che esse fossero concepite sullo schema congiunto del contrasto 66 villanesco e del dialogo di stampo umamsj;.lco, rimesso allora in onore da Erasmo. Qui l'essenzialità scabra delle battute, l'assoluta funzionalità dei monologhi (nei quali il Beolco sembra rinunciare a quella punta di compiacimento oratorio, tipica del gusto cinquecentesco, che traspare in altre commedie e nelle Orationi), e ancora una volta l'efficace contrapposizione tra il dialetto veneziano usato dalle classi colte e l'aspra parlata delle plebi rustiche (il pavano, ossia l'antico dialetto padovano), contribuiscono, accanto alla perfetta individuazione psicologica dei personaggi, a fare di questa operetta il capolavoro del suo teatro. Ricorderemo, a chiusura di queste note e per una cronaca già entrata a far parte della storia dello spettacolo, che l'Anconitana e il Bilora furono entrambi posti in scena a Parigi, nella elegante traduzione di Alfred Mortier, da due maestri della regìa francese: la prima da Jacques Copeau al Vieux Colombier nel 1924 e il secondo da Charles Dullin al Théàtre de l'Atelier nel 1929. L. Z. Bibliografia ruzantiana Dal volume di Mario Baratto, Tre srudi di teatro (Ruzante Aretino - Goldoni) Venezia, 1964, pp. 229-230, riproduciamo la accurata nota bibliografica che co,-reda, aggiom andolo , lo studio sul R11zante . Per Ruzante, sono significative, nei campi più vari e pur nella diversità dei risultati, la continuità e la progressione dell 'impegno critico . Tra le imprese teatrali piu stimolanti, va citata innanzi rutto, tanto per il rigore filologico e per la qualità dell'esecuzione quanto per le risonanze internazionali, La Moscheta del Teatro Stabile di Torino, messa in scena da Gianfranco de Bosio. In occasione dello spettacolo presentato nel 1961 a Parigi, al "Théatre cles Nations ll - per il quale rimando al.la mia recensione in '' Thèatre populaire n, 1961, n. 43, pp. 81-89 - , il Teatro Stabile eli Torino ha pubblicato, in un lodevole sforzo di penetrazione culturale, una ricca plaquette (A. BEoLco dit RuzANTE, La Moscheta .. ., Torino, 1961), che contiene il testo originale a cura di L. Zorzi, la traduzione di A. Mortier, una prefazione di P. Renucci, e saggi di L. Zorzi, G. de Bosio e G. R. Morteo. Un risultato di tale spettacolo è anche la nuova traduzione pubblicata da L'Arche nel « Répertoire pour un théatre populaire ll : A. BEoLco dit RuzANTE, La Moscheta, texte français de M. Arnaud, Paris, 1962. Va pure ricordata, in un terreno veneto dove la tradizione teatrale aperta da Cesco Baseggio e dal Teatro dell'Università di Padova sembrava dispersa, la rappresentazione de La Piovana del Teatro Universitario «Ca' Fosca-ri n di Venezia, con la regia di Giovanni Poli, al Festival di Venezia del 1963 (per la quale si veda, nella « Collana ll dello stesso Teatro, Piovana ... , trascrizion~ dall'originale e riduzione di G. Poli, Venezia, 1963). Per quanto riguarda i testi, oltre ai passi postillati ne Il fiore della lirica veneziana, a cura di M. Dazzi, Venezia, 1956, vol. I (pp. 197-213), non pochi sono stati pubblicati nel volume Il Ruzzaute-Angelo Beolco, traduzione e testo eli G. A. Cibotto .. ., Milano 1958, e La Moscheta anche nel Teatro Veneto, a cura di G. A. Cibotto, Parma, 1960 (pp. 279-349); ma si vedano, per le due antologie, i rilievi irrefutabili di L. ZoRZ1, Rassegna di studi teatrali (In margine a due antologie venete ) , in «Lettere Italiane ll , a. XIII (1 961), n. 3· pp. 335-363, le cui proposte critiche oltrepas- l l 68 69 sano l'ambito di una semplice recensione. Corredati di Introduzione e note sono i testi riprodotti con larghezza in Commedie del Cinquecento, a cura di A. Borlenghi, Milano, 1959, vol. li, pp. 555-775 e pp. 99I-I 67; si può aggiungere il Bi/ora, testo e traduzione a cura di G. Barbarisi, in appendice al corso, litografato, di E. BoNORA, Novelle e Commedie del Cinquecento, Torino, 1960. Ma il vero, infaticabile editore di Ruzante resta L. Zorzi, il quale, continuando e approfondendo il lavoro iniziato con l'editore Randi di Padova, consacra al teatro di Ruzante, con apporti inediti e filologici rilevanti, buona parte del secondo volume del Teatro veneto del Rinascimento, in corso di stampa presso l'editore Neri Pozza di Venezia. Segnalo, intanto, RuzANTE, La Moscheta, testo e traduzione a cura di L. Z., Torino, 1963 (con una perspicua Scheda per Ruza!lte a pp. II5-131). Sul terreno critico, non si rilevano opere complessive, come è naturale in anni di paziente revisione dei vecchi giudizi, correlativa a ricerche graduali su tutti gli aspetti della personalità di Ruzante. Strumento tuttora utilissimo, oltre che doveroso omaggio a un antesignano di tali ricerche, sarà il volume di E. LovARINI, Studi sul Ruzza11te (e altri scritti di varia erudizione), a cura di G. Falena, annunciato dall'Editrice Antenore di Padova (e uscito nel marzo 1965). Per la bibliografia, ricordo L. ZoRZI, Saggio di bibliog1•a/ia mzcmtia11a, in «Bollettino del Museo Civico di Padova», a. XLIV (1955), pp. 165-r88 (uscito in realtà nel 1956). Tra le indagini erudite e biografiche posteriori vanno segnalati G. Frocco, La casa di Alvise Camara, in Miscellanea in onore di Roberto Cessi, Roma, 1958, vol. II. pp. 69-77; e E. MENEGAZZO, Ricerche i11tomo alla vita e all'ambiente del Ruzante e di Alvise Cornaro, Estr. da «Italia Medioevale e Umanistica », a. VI (1963), pp. 40: importanti perché permettono di situare in modo piu concreto l'opera di Ruzante, di chiarirne i legami di gruppo e gli intenti (si vedano, per esempio, le ipotesi puntuali affacciate dal Menegazzo a pp. 27-32; e G. Fiocco ha pronto per la stampa un articolo su La lezione di Alvise Camara). Sull'ambiente dell'Università eli Padova, indispensabile, ora, B. NARDI, Saggi sull'aristotelismo padovano dal secolo XIV al secolo Xl'I, Firenze, 1958. Interessanti prospettive di collocazione 'ociologica e culturale dell'opera di Ruzante apre F. BANDI]'.;!, L'« Alfabeto dei villani» e la letteratura rustica/e veneta, ancora inedito, e segnalato, come « conferenza ''• nel « ~otiziario di San Giorgio», l'. 21 (r961-6z), pp. 17-18. Per la cronologia delle opere di Ruzante, la «questione » de L'Anconitana, già dibattuta dallo Zorzi e dal GrJbher, è stata risollevata, con ricchezza di argomentazioni, da N. BoRsELLINo La dataziOne dell'« Anconitana», in «Giornale storico della lett: ttal. »~ v. CXXXIX (1962), pp. 146-255. Per il problema delle « fontt » plautme, cfr. F. VITALI, La Piovano del Ruzante e la Rudens di P!auto, in «Bollettino del Museo Civico di Padova » a. XLV (1956), pp. 143-182. Un aspetto interessante e in part~ nuovo della cultura e dell'attività di Ruzante è messo in luce da L. ZoRZr, Canzoni inedite del Ruzante, in « Atti dell'Istituto VeJ,Jeto d! ?cienze, Lettere ed Arti, t. CXIX (1960-61), pp. 25-7 4. Per l anahs~ hngutsttca e stilisttca, cfr. i preziosi contributi di G. Vidossi, 1n « Gw~n. stor. dell~ lett. it. », v. CXXXI (1964), pp. 442-447; pertmentr osservazwru 1111 sono state mosse da M. Dazzi in una recenswne al mio studio in « ~etterature Moderne», a. VIÌr ( 195 8), n. r, pp. 98-1oo; Si vedano, Infine, i cenni di M. MILAN!, L'educaziOne letterana e l'« oratoria» dd Ruzzante, in Miscellanea di stud1 offerta a Armando Balduino e Bianca Bianchi per le loro nozze, Padova, 1962, pp. 51-54. Importanti le osservazioni su Ruzante contenute in saggi di piu vasto respiro: quelli, per esempw, dt C. Dr~NISOTTI, Per una storia della lingua italiana, in '' Romance Phtlology "• v. XVI (1962), n. r, pp. 41-)8 (cfr. le PJ;>· 45-46);. dt ~· SEcRE,. Polem1ca linguistica ed espressionismo d1alettale, 111 Lwgua, stzl.e e società, Milano, 1963, pp. 383-412 (cfr. le PP· 395-396), per rl quale nmando anche alla recensione dt P. V. Mengaldo in « B:lfa&"o.r », a. XVIII (1963), n. 5, pp. 617_ 619, e dt E.. BATTISTI, Lant~rmasczmeuto, Milano, 1962 (cfr. il raffronto t~a Il. Reduce - cosi lo designa il Battisti - di Ruzante e t Mrlttana dt Erasmo a pp. 305-308, e passim). Per un profilo c~itico di carattere piu generale, si vedano, oltre che le osservazroni di D. VALER!, Caratteri e valori del teatro comico, in La Civiltà Veneziana del Rinascimento, Firenze I??8 (le pp. r6-21), l'agile sintesi, tracciata sulla base del volum~ gta ~ubbhcato, dr C. GRABHER, Ruzzante, in Orientamenti cultura~t-Le';ter~tura italiana-I. minori, Milano, 1961, vol. II, pp. II57u8~, e l ottima «voce» di N. BoRSELLINo, Ruzzante, in Enciclopedza dello Spettacolo, vol. VIII, 1961, coli. 1342-1349. Desidero, tnfine, segnalare una tesi di laurea, dattiloscritta, di M. PRosPERI Rttzante (discussa all'UniYersità di Roma col Prof. N. Sapegn~ 1;el 1963), fondata sul propo~ito nuovo e stimolante di valutare l opera dt Ruzante nel con~esto sociale, politico e ideologico in cui essa sr dtspone, e alla cut lettura devo anche la correzione d i qual·che svista. Mi auguro che essa venga presto rielaboratJ e pubblicata. MARIO BAR1\ TTO Il teatro di Samuel Beckett Il teatro di Beckett comincia con Aspettando Godot. La scena è una strada di campagna, con un albero: un luogo ' che non somiglia a nulla '. Aspettando il signor Godot bisogna trascinare avanti la vita pazientemente, giorno dopo giorno, per non correre il rischio di mancare all'appuntamento. G-odot, infatti, ha promesso (dove, quando?) di venire. Nell'attesa bisogna soddisfare le esigenze del corpo, liberarsi delle scarpe quando fanno male i piedi, mangiare quando si ha fame: se c'è, una carota, altrimenti una rapa. Ma quando Godot sarà arrivato i due straccioni in bombetta potranno mangiare ' abbastanza bene' e dormire nel fieno; il tormento della Samuel Beckett è nato a Foxrock, vicino a Dublino, nel 1906 da genitori di religione protestante. Ha studiato prima alla Portora Royal School di Ulster, poi al Trinity College di Dubl·i no, inglese, francese e italiano. La sua carriera scolastica è stata brillante; il titolo di Bachelor of Arts gli è stato conferito nel 1927, quello di Master of Arts nel 1931. Da segnalare in questo periodo il primo viaggio in Francia del 1926, quello in Italia del 1927 c i due anni di soggiorno a Parigi come lettore di inglese all'Ecole Normale Supérieure. Tornato a Dublino ottiene un posto di assistente universitario, che però abbandona dopo soli quattro mesi rinunciando definitivamente alla carriera universitaria. 'Non amavo l'insegnamento, non potevo abituarmi a quel lavoro', si legge in una intervista concessa al New York Times. Del 1929 è il suo saggio Dante... Bmno. Vico ... ]oyce pubblicato in Our Exagmination round his Factificatlon for /;;camination of Worlc in Progress; del 1931 quello su Proust. È cominciata intanto la sua collaborazione (novelle, poesie) alla rivista Transition. Nel 1934 compare la raccolta di racconti More Pric,zs than Kicks; nel 1935 il volume di poesie Echo's Bones and Other Precipitates. Dopo due anni (1933-35) passati a Londra Beckett si trasferisce, all'inizio del '37, a Parigi. 'Non mi piaceva vivere in Irlanda. Sapete, la teocrazia, la censura, questo 72 ' carne che cade ' ' sarà forse finito. Quanto alla felicità, non si sa se arriverà insieme a Godot, come mostra la risposta del ragazzo da lui inviato ogni sera per rinviare all'indomani l'appuntamento: VLADIMIRO: Non ti senti infelice? (Il ragazzo esita). Ivli hai sentito? RAGAZZO: Non lo so, signore. Poi vengono, se cosi si può dire, le esigenze dello spirito: parlare, sforzarsi di raccontare qualche storia: quella dell'inglese al bordello o quella di Cristo e !adroni. Ogni tanto un frammento di ricordo Ti ricordi quel giorno che mi sono gettato nella Durance? ESTRAGONE: VLADTMIRO: Facevamo la vendemmia. E tu m'hai ripescato ... I m1e1 vestiti sono asciugati al sole. ESTRAGONE: affiora da un passato troppo lontano. Arriva Pozzo col suo servo (sarebbe meglio dire schiavo) Lucky al guin- genere di cose Nel 1936 sor.o venuto a Parigi e ho abiLato in albergo per un po' di tempo, poi ho deciso di stabilirmici a vivere'. Le sue condizioni economiche non sono certo floride a quest'epoca, benché una piccola rendita annua !asciatagli in eredità dal padre gli sia di considerevole aiuto. Nel 1938 appare .'v!urphy, suo primo romanzo. Durante la guerra si associa, a guanto pare, a un gruppo di resistenti francesi ed è infine costretto a fuggire da Parigi. Nascosto nelle campagne del Vaucluse et Isère scrive Watt, che sarà pubblicato solo nel 1953. Dopo la guerra comincia a scrivere in francese: tra il 1946 e il 1950 nascono Molloy, Malo11e meurt, L'hmomable, i Textes pour rien e E11 atte11dant Godot. Coi gennaio 1953, data della prima di Godot, cominciano per Beckett gli anni della notorietà. Ha tuttavia mantenuto il suo carattere schi\'o che lo fa rifuggire da ogni forma, sia pur minima, di pubblicità. I Si veda il componimento 'Echo's bones ', tradotto in Samuel Beckett, Poesie in inglese, Torino 1964. l Jl r 73 zaglio ed è scambiato per Godot. Lucky pensa e balla. Poco dopo la loro partenza cade la notte. Il giorno dopo (ma potrebbe anche essere passato un mese, un anno) tutto si ripete allo stesso modo; solamente Pozzo, ora cieco, ba perso tutta la sua orgogliosa baldanza ed è diventato un relitto umano. Godot non è arrivato. Quando, nel gennaio 19 53, i critici si trovarono di fronte a questo testo di autore sconosciuto si resero conto che era impossibile riassumerlo, raccontarlo ai lettori di quotidiani e riviste che attendevano un giudizio. Nacque cosi l'osservazione, esatta anche se ormai diventata luogo comune, che in Aspettando Godot non succede niente. I primi equivoci cominciarono (naturalmente si allude a coloro cui va, se non altro, il merito di aver cercato di interpretare un'opera di cui avevano intuito il valore, mentre molti la condannavano senza possibilità di appello) quando si volle trovare una chiave che risolvesse tutti i passi oscuri di una commedia che sembrava un'allegoria. Prima di tutto ci si chiese: cosa vuol dire Godot, chi è Godot? La radice del nome, God, in inglese vuol dire Dio: ecco il suggerimento per un'interpretazione a sfondo religioso. L'attesa allom è attesa di Dio, della salvezza, l'albero è simbolo dclla croce, della speranza (e si cita la didascalia dell'inizio del second'atto che dice: 'l'albero è coperto di foglie'), il misterioso ragazzo che fa da messaggero a Godot è un angelo. C'è, addirittura, chi è andato oltre affermando che ciò che attendono Vladimiro ed Estragone giunge realmente; sono loro che, ciechi di fronte alla verità, non vedono che l'albero, la croce, si è trasformato in fonte di vita e restano morti. Non c'è dubbio che Beckett, molto sottilmente, induce a sospettare che Godot sia Dio, giocando sul valore semantico del titolo come è sua abitudine: il gusto per il pun, gioco di parole ambivalente, oltre ad essere consueto negli scrittori di lingua ingle_§e è culturalmente riconducibile ai rapporti intercorsi tra Beckett e Joyce. Godot, secondo la descrizione del ragazzo, ha la barba 74 75 bianca; quando Vladimiro lo viene a sapere esclama ' Misericordia! ' quasi si accorgesse solo allora di una possibile identità dell'indefinibile personaggio. Se ci sono istanti in cui affiorano aneliti religiosi Ma non puoi mica andare in giro scalzo. Gesti l'ha fatto. VLADIMIRO: Gesti! Cosa vai a tirar fuori! Non vorrai mica paragonarti a lui, per caso? ESTRAGONE: Mi sono paragonato a lui tutta la vita. VLADIMIRO: Ma laggiti dove stava lui faceva caldo! C'era bel tempo! ESTRAGONE: Si. E si sbrigavano a metterti in croce. VLADIMIRO: ESTRAGONE: non bisogna dimenticate che si tratta di una religiosità fantastica, ricreata sul piano del sogno, del mito, e di cui, in un mondo in disfacimento fisico e psichico, non restano che brandelli. · Quando poi si faccia attenzione a un passo come questo VLADIMIRO: Non ti picchia? RAGAZZO: Nossignore, me non mi picchia. VLADIMIRO: E chi è che picchia? RAGAZZO: Picchia mio fratello, signore. che è un'elaborazione sul tema biblico di Abele e Caino, si vede benissimo che l'atteggiamento dello scrittore verso i motivi religiosi è ambiguo, misto di ironia irrispettosa e di timpianto per qualche cosa di mai raggiunto o perduto. Dunque, l'attesa può anche e parzialmente configurarsi come attesa della redenzione che viene dall'alto, ma può allo stesso tempo essere attesa di un ordine sociale piti giusto che impedisca ai Pozzo di legare i Lucky ad una corda, di frustarli, di prenderli a calci. O può essere attesa della morte, di quella morte che cercano Vladimiro ed Estragone quando goffamente tentano di impiccarsi. E, soluzione superficiale per solu- zio ne superficiale, chi abbia seguito l'evolversi dell'arte di Beckett sarebbe certo piti propenso a . questa soluzione. O ancora ciò che Didi e Gogò inseguono è il loro io, la loro personalità che si sta dissolvendo, la loro mente che da un giorno all'altro potrebbe diventare come quella di Lucky. O piuttosto la liberazione non verrebbe dalla disintegrazione dell'individualità, dall'annichilamento totale? Si ricordi, a questo proposito, il desiderio espresso dalla signora Rooney in Tutti quelli 1he cadono: 'Potessi spiaccicarmi sulla strada come un grumo di marmellata, un grosso grumo colato dal suo vaso, e non muovermi piti '. L'ultima ipotesi non è affatto insostenibile se si pensa che i due clochards hanno alle spalle un passato di tentativi falliti, in cui il pensiero, la ragione si sono dimostrati impotenti VLADIMIRO: Un pochino dobbiamo aver pensato. ESTRAGONE: Proprio all'inizio. In realtà in Aspettando Godot tutti questi temi sono presenti e la soluzione definitiva è la somma di tutte le soluzioni possibili. Né paia l'affermazione ambigua perché l'accento deve essere spostato, l'attenzione rivolta non tanto a ' Godot ' quanto a quell' ' aspettando '. Il senso dell'opera è proprio li: la condizione umana è l'attesa in quanto tale, assurda perché il suo oggetto, ciò che si attende, non è ancora stato definito. La costante della situazione è il nostro essere qui, il nostro essere nel mondo (l'heideggeriano dasein), che per Didi e Gogò si traduce nell'essere-sulla-scena, costantemente presenti senza possibilità di fuga. La luce bianca dei riflettori è aggettivazione della luce immutabile del tempo, la fredda luce fissa del tempo, l'allucinante luminescenza al neon che, sempre accesa nella mente dei personaggi di Beckett, li costringe alla coscienza di se stessi, della propria non signifìcanza. Unico sollievo, talvolta, il buio, il sonno. ESTRAGONE: Ma non verrà mai la notte? E il gioco è sempre lo stesso, la partita sempre perduta: «la stessa vecchia fine di una partita perduta». 77 76 Secondo una definizione di Beckett stesso contenuta nel sa~~io su Proust, ' la tragedia non ha atti~enza colla gius~lZla umana. La tragedia è il racconto di una espiaz~one, ma non la miserabile espiazione per la violazione d1 u_n. accordo locale, ~ottoscritto dai bricconi per gli stup1d1. La figura trag1ca rappresenta l'espiazione del peccato originale, dell'originale ed eterno peccato suo e di tutti i suoi soci malorum, il peccato di essere nati. Pues el delito mayor l del hombre es haber nacido '. Parole che illuminano tutta la produzione di Beckett, ma che, per contro, proprio alla luce dei concreti risultati artistici raggiunti vanno lette e meditate, per non essere scambiate per un generico pessimismo, vecchio e logoro quanto il mondo. La zona d'indagine che Beckett si è scelta, per rappresentarla, è nuova, non ancora esplorata. Se nel nostro secolo molti cieli sono crollati non si era ancora messa in forse radicalmente la funzio~alità della struttura psicofisica dell'uomo. In fondo il concetto di uomo come sintesi di anima e di corpo, qualunque cosa si intenda per anima e per corpo, aveva resistito. L'uo_mo, CO!_"lcepito come animale pensante, sembrava funzwnare. E pur vero che i segni premonitori della crisi non mancavano: l'interesse per il rapporto tra arte e malattia, tra arte e follia, l'uomo insetto della Metamorfosi kafkiana, l'attribuzione di funzioni poetiche all'auton~atis~o psichico, tanto per fare alcuni esempi. Ma a bllanc1are questi sintomi di un crollo in atto c'era l'umanesimo esistenzialista, l'uomo in rivolta che esprimeva una protesta lucidissima, a livello intellettuale. Caligola, il freddo e determinato Oreste de Le mosche, il violento e disperato Goetz de Il diavolo e il buon Dio sfidavano l'assurdo con l'ultima arma disponibile, la ragione. Quale voce oggi, nel campo dell'arte, ha tanto vigore da costituire un'alternativa a quella di Beckett? Quale modello d'uomo si contrappone ai relitti beckettiani che paiono reduci da gravi malattie, scampati a mala pena a trapanazioni del cervello e lobotomie, usciti da ospedali dove hanno imparato come muore la carne? Exeo in uno spasmo stanco del rosso sputo della mia cara dalla Clinica Privata Portobello ' Beckett, come nessun altro oggi, sente i limiti della corporeità, ... e la faccia si disfa timidamente ... sudando come un Giuda stanco di morire stanco dei poliziotti i piedi in marmellata traspirando profusamente 2 il cuore in marmellata denuncia (ed è questo il suo modo di. invitare a cercare una nuova valida idea di uomo, o a ntrovarne una perduta) la fr~ttura tra spirito e corpo, con ins~sten~a di un predicatore medioevale o se~centesco che, r~cord1 al su, Hudson Uni- 84 86 87 (nel senso, almeno, che ha una trama) Murphy all'atmosfera di vuoto spinto de L'Innomable e di Comment c'est. I personaggi del teatro se, da un lato, sono presentati in condizioni fisiche sempre piu precarie che li inchiodano a una progressiva immobilità, dall'altro sono osservati, con processo inverso, prima in una situazione limite, poi in momenti antecedenti del loro sviluppo, che ci fanno parzialmente intuire le cause che hanno determinato tale situazione. Godot e Il gioco è alla fine sono un quadro della situazione limite, dopo la distruzione della ragione e degli affetti umani. Ma c:ruando e perché ha avuto luogo la distruzione? Beckett n percorre ~l cam: mino a ritroso, mostrandoci lo svuotamento di certi valori. L'amore, ad esempio, che, lungi dall'essere evangelicamente praticato verso tutta l'umanità, è negato anche al livello del rapporto individuale. .. . di nuovo atterrito 1 di non amare . Fallito l'amore tra padre e figlio (Finale di partita), ridotto al baluginio di un attimo l'amore passione (Krapp ), soffocato dalla banalità quello coniugale (Cenert, Giorni felici). Trattando questi temi lo scrittore introduce conti?ui riferimenti alla vita quotidiana che danno una particolare complessità al tessuto dei testi. Ceneri rappresenta forse il grado piu alto di fusione tra rea:tà .e tras~gura zione fantastica: si veda a questo proposito 1l magistrale finale che scivola insensibilmente dal particolare all'universaÌe dal dato concreto al significato simbolico, da quel ' Domani l'idraulico alle nove, J?Oi niente ' a quel ' Tutto il giorno e tutta la notte mente. Neppure un rumore'. La protagonista di Giorni ieli ci (edizione inglese, 1961; edizione francese, 1963) si direbbe appartenere 1 Cfr. Cascando, 1n Poesie 111 i11glese, cit. a una piena tutto, è mai fase di evoluzione ancora precedente, non avendo coscienza della sua condizione. Nella vita, dopo le pare ci siano ancora dei giorni felici. E poi si vista una figura di Beckett, ad esclusione di B in Atto senza parole II, svegliarsi alacremente, accettare il nuovo giorno, definirlo 'divino'? Winnie si è abituata alla luce violenta che la investe, al tempo enorme. 'L'abitudine è una grande sordina', si legge in Godot. Finché non ci sia ' nessun dolore, o quasi', ci si può ingegnare a vivere, rassegnarsi: ' Mondo senza fine. Amen'. L'esistenza banale offre dei riempitivi: le cose. Appena sveglia Winnie si mette in relazione coi suoi oggetti, il tubetto del dentifricio, lo spazzolino, lo specchietto, il parasole, la rivoltella, il flacone dello sciroppo, il rossetto. Parlando accenna al ' povero Willie ', tenta di ricordare qualche verso, formula qualche pensiero, ma il suo discorso, nonostante queste inserzioni, ha per soggetto l'armamentario di cianfrusaglie sopra elencate. Si tratta di caso evidente di alienazione, non nel senso corrente ora di moda ma nel senso strettamente etimologico di Entfremdung: essere-agito-da un oggetto invece di agire su di esso. Lasciando da parte la terminologia filosofica e restando al testo: ' Suoni. Come piccole ... lacerazioni, piccoli strappi. Sono le cose, Willie '. Le cose sono un rifugio momentaneo, una distrazione, la maglia rotta attraverso cui ci si illude di sfuggire alla rete dell'io, alla rete dell'essere che ci tiene prigionieri. Naturalmente il sollievo si paga caro, gli oggetti assumono proporzioni disumane, entrano a far parte di noi e non possiamo piu liberarcene: ' Le cose hanno una loro vita. Guarda il mio specchio, non ha bisogno di me. Il campanello. Taglia come un coltello. Uno scalpello. Non lo si può ignorare '. Le citazioni dimostrano come il tono di Beckett sia abbastanza esplicativo. In Ceneri era molto piu difficile cogliere, alla prima lettura o al primo ascolto, il senso delle invocazioni di Henry che chiede gli sia concesso qualche rumore gridando ' Zoccoli! Sassi! '. 89 8k zione di Ceneri" WINNIE: Cosa? WILLIE: Uova" Cosa? \VINNIE: WlLLIE" 90 RENATO OLl V A 1 Delle !}JffOJ"C, Le citazioni trc;duzioni. Ad allestife il Beckett, poru Lct Jcerw, realiZZ?tt?Z da dello JVIathiar. le~ Laura Adani. il marito, W illie, del n Ad allestire Giorni cl! irlandese. Pensiamo ruisca un motivo di L'intervista che 97 scoperto Beckett autore teatrale. Infatti, lei ha messo in scena per primo Aspettando Godot nel 1953. Vuol ditci com'è avvenuto il suo incontro con l'o pera di Beckett e con lo stesso Beckett? R. Nel 1949 dirigevo a Parigi un piccolo teatro della « rive gauche », la Gaité-Montparnasse. Proprio in quel periodo, avevo messo in scena La sonata degli spettri di Strindberg. Come direttore di teatro e come regista, ricevevo molti copioni di sconosciuti. Un giorno qualcuno mi portò Aspettando Godot. Lo lessi e, sebbene alla prima lettura non abbia probabilmente capito tutto, rimasi molto impressionato. Alcuni miei collaboratori erano forniti di denaro (io non ne avevo); ho proposto loro di mettere in scena la commedia, non ne hanno voluto sapere. Ho fatto il giro dei teatri di Parigi, nessuno ha voluto darmi retta; allora, visto che lo spettacolo richiedeva pochi interpreti, decisi di allestirlo con un gruppo di amici, anche se esistevano poche speranze di trovare un teatro disposto ad ospitarci. Ho riunito alcuni colleghi e abbiamo cominciato le prove. Nello stesso periodo mi venne l'idea di chiedere l'aiuto all'opera prima, che è un'iniziativa statale istituita allo scopo di aiutare il teatro, nuovo o non nuovo, ma comunque bisognoso di appoggio. Feci domanda per concorrere all'assegnazione dell'« aiuto», ma naturalmente la commissione incaricata di esaminare la pièce la lasciò dormire sotto montagne di altri copioni. Cosi finii per rivolgermi ad uno dei membri della commissione, che conoscevo meglio degli altri, lo scrittore Georges Neveux. Questi lesse Aspettando Godot in una notte e il mattino dopo mi inviò un espresso dicendomi che l'opera era ammirevole e che si sarebbe battuto per attenermi la sovvenzione. Ha mantenuto la promessa. Non so. se gli altri membri della commissione abbiano letto o no la commedia, ad ogni modo Neveux picchiò i pugni sul tavolo, dicendo : « Questo testo deve essere rappresentato ». Fu cosi che ricevetti circa 500.000 franchi del tempo. D. I n pratica lei ha dovuto aspettare quattro anni per riuscire a rappresentare Aspettando Godot. R. Certamente, perché, come le ho detto, nessuno voleva saperne ed io, prima di ricevere la sovvenzione, non avevo un soldo per allestirla. Ottenuto l'aiuto governat~vo,. andai da Jean-Marie Serreau che a quell'epoca aveva Il piccolo teatro di Babylone e gli proposi di ospitarci; impiegò un anno prima di prendere una decisione, poi, siccome anche lui era in difficoltà, pensò che 500.000 franchi potevano essergli utili. Cosi abbiamo messo in scena Aspettando Godot, dicendoci che, date le condizioni quasi disperate del teatro di Babylone (il quale, nonostante alcuni buoni spettacoli al suo attivo, dal punto di vista finanziario era sull'orlo del fallimento), se dovevamo morire tanto valeva morire in bellezza. Il nostro spettacolo andò in scena il 3 gennaio 19 53. D . Lei mi ha detto che nel 1949 qualcuno le portò Aspettando Godot. Evidentemente questo è un tratto di modestia da parte sua. A me infatti risulta che lei ebbe tra le mani due opere dello « sconosciuto » Beckett: Aspettando Godot e Eleutheria, e che fu lei a scegliere fra le due; da questa scelta deriva almeno in qualche misura la storia di una larga parte del teatro degli ultimi quindici anni. Che cosa può dirci dell'opera esclusa? R. Sf, effettivamente mi sono stati consegnati due testi. Eleutheria era la prima opera teatrale di Beckett, ed egli in seguito non ha piu voluto fosse rappresentata. Forse l'aveva desiderato nel '48, in seguito però no. Non fu una scelta difficile. Aspettando Godot mi è sembrato immediatamente un capolavoro, pur senza afferrarne la vera ricchezza. D'altronde Eleutheria aveva dodici personaggi, il che complicava le cose. Lo stesso Beckett vi teneva molto meno. Per parte mia ritengo che quella commedia sarebbe stata sufficiente a far conoscere Beckett come autore drammatico; in essa tut- 98 D. Lei scienza al teatro? cbe Beckett a novità del suo teatro/ arrivato D. Al li! i l'aveva D. Non mi è maz Beckett sul scritti di costituisca D. assieme testa? L'elemento clownesco c'era dichiarazioni bo mai incontrato il maz scritto sono state le reazioni del d ella critica? 100 D. attorno al suo nome ... D. colo Che cosa tono D. ì ato non vuole cbe si Lei o messo Penso fatto K di non aver mai recinon la interessasse. l'incontro con Beckett rostituisca un nella sua carriera. stato un incontro senso fa D. per R. se stesso, Non c'è chiasso 102 Adesso iiìì il teatro di Bed:etl D. dc Sl è appunto opere mcc essivc. c'è verame1zte tutto della traiettoria Bec!eett. stava di 104 D. solto nouveau nulla sulla l'esistenzialismo in cui umana avessero mito di la senso del ritmo di Beckett Mi sono il D. se ena che mettere in nuovi D. e l'in- !eresse » costruisce spesso che 106 D. Un'ultima doma11da: secondo lei Beckett rappresenta un episodio, un fenomeno isolato, per quanto importantissimo, nel quadro del teatro contemporaneo, o costituisce invece una possibilità per andare pitl lontano? R. È difficile rispondere. So che si augura di non avere discepoli, alcuni però esistono, purtroppo privi del suo talento e del suo ingegno. Ciò che posso dire è che certi testi, soprattutto teatrali, sono diventati inascoltabili dopo Beckett. Ciò soprattutto a causa della lingua, della sobrietà della lingua e di una sorta di forza e di violenza che si trova nella stringatezza di Beckett. Di conseguenza testi che potevano sembrarci apprezzabili, adesso ci appaiono al confronto deliranti di letteratura, di imprecisione e di falsità. Credo che Beckett sia un grande rivoluzionario della forma dialogata. Ciò che ha da dire è molto personale, ma tocca molte persone. È un'apertura verso qualche cosa d'altro? Non ne so nulla. Evidentemente si può amare un teatro diverso, io stesso, pur avendo grande ammirazione e amicizia per Beckett e benché, tra gli autori che ho rappresentato, lo consideri certamente il migliore, amo anche altri autori, come Genet e lo stesso Brecht. Non dirò quindi che Beckett sia l'unico. Penso però che dopo di lui sarà inevitabile un rigore di stile sconosciuto prima. Posso anche dire che secondo me nessuno aveva saputo mescolare come lui derisione, umorismo e comico col tragico. Di solito eravamo di fronte ad un accostamento di scene comiche e di scene tragiche: in Beckett no, la mescolanza non è tra scena e scena, non è neppure nella stessa frase: è addirittura nella stessa parola. Le sue parole sono tragiche e comiche al medesimo tempo. Mai si era andati cosi in là. Credo che Beckett abbia reso impossibile per parecchio tempo un certo tipo di teatro, cosi come Picasso ha reso impossibile certa pittura. Intervista a cura di GIAN RENZO MORTEO Indice 5 Pre/azione 9 Angelo Beolco detto Ruzante di Ludovico Zorzi 33 Ruzante cittadino venero di Mario Pro.rpe1·i 61 L'Anconitana - Bilora 67 Bibliografia ruzantiana di Jì1ario Baratto 71 Il teatro di Samuel Beckett di Re11ato Olim 93 Giorni Felici 95 Incontro con Roger Blin di Gian Renzo Morteo ENTE AUTO"'O~'IO SPETTt1COLI LIRICI 21-24-28 luglio; l-5 agosto di Vir:cenzo Bellini di Giorgìo Bizet Jl di Giuseppe Verdi interpreti Maestri principali concertatori (in ordine e direttori ai{obctico) d'orchestro Scene su bozze! ti d1 Serote di balletti roell'osec_uz.!one dello J500 3000 p, INf'ORMAZIOhll E PRENOTAZIOI'-11: 9 'el 23.520 Verona P i o v: e i fa Capretto Fi11ito di .rtampare ii! ,j,J Turilnbrmaz1ioni: Deleg>azioni Ente N.azionale ltali1ano smo (E.N.I.T.) di Bruxell•es, P·arigi e Nizza - Agenzie Viaggio. particolari: Ente P:rov. per il l:ur·ismo Torino. per conto pre.r.10 la del To1·i;1o .)'tt~bile Teatntle il 26 1Jiti1'Z'J della Co!lll!IC1'CÌCde 1905 di Ario.rto 3

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I quaderni del Teatro Stabile della città di Torino. - Torino : Teatro Stabile di Torino, 1964-1975.

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