) r ~ . I QUADERNI DEL TEATRO STABILE DELLA CITTA' DI TORINO N. 9 IL BAROCCO SPAGNOLO l IL SECOLO DI CALDERON l ATTUALITA' DE LA DEVOZIONE ALLA CROCE l LO SPETTACOLO l DOCUMENTI EDIZIONI DEL TEATRO STABILE DI TORINO - 1967 come fecondo terreno d'esperienze, dando modo di lavorare su strutture teatrali che presuppongono la compieta rottura con la verosimiglianza psicologica ed una geniale accettazione dell'irrc;zionale, vale a dire su strutture sostanzialmente diverse da quelle che abbiamo ereditato dal teatro borghese del tardo Ottocento. Proprio per quest'ultima ragione abbiamo pensato che uno dei giovani autori italiani, che più attivamente combattono contro le strutture del vecchio teatro, dovesse collaborare con noi nella riproposta del teatro di Calder6n. Ciò spiega perchè ne abbiamo affidato la traduzione a Roberto Lerici, del quale lo scorso anno il nosLro Teatro ha rappresentato Il piano regolatore, dopo at/er ospitato lo spettacolo, sempre di Lerici, allestito da Carlo Quartucci, Libere stanze. Tengo a precisare che la traduzione è in versi- versi modernissimi, ma versi - in quanto Lerici ed io ci siamo trovati perfettamente d'accordo nel ritenere che il tipo di tensione che concretizza il dramma calderoniano esige un linguaggio scandito metricamente e tale da costituire un preciso e vincolante mQdulo di interpretazione. Così alla provocazione !ematica si aggiunge quella formale. Oggi c'è, nel rapporto arte-società, una tensione che si esprime in forme di protesta, di violenza, di crudeltà, intesa come bisturi liberatorio, e direi che all'interno del mondo e dello stile calderoniani vi sia, in proposito, materia di scontro piuttosto incandescente. Ruzante è provocatorio non tanto per alcune caratteristiche del suo linguaggio, bensì perchè la realtà cinquecentesca è ancora tutta viva, perchè sul palcoscenico i contadini ruzantiani si scatenano nei loro sentimenti, nella loro sensualità, nella loro miseria e nella loro profondissima umanità ed il pubblico è costretto a riconoscere che qualcosa di quei sentimenti, di quella sensuaiità, di quella miseria e anche di quella umanità è ancora in lui dissimulata o assopita. La violenza di Calder6n è, a modo suo, dello stesso tipo. Proprio per il rapporto quindi che è in grado di stabilire col pubblico, La devozione alla Croce ci è ap- parsa opera attualissima e penso che, al di là delle motivazioni specifiche, questa attualità sia ciò che nel nostro secolo hanno cercato nella Devozione uomznz come Meyerhold e Camus ai quali se ne debbono due famose edizioni. GIANFRANCO DE Bosro Questo quaderno riunisce alcuni studi calderoniani, sia informativi che critici, scelti tra quelli che hanno contribuito ad orientare il lavoro preparatorio dello spettacolo. Ci è sembrato utile dedicare anche qualche pagina all'illustrazione dei criteri seguiti nell'allestimento della Devozione. Purtoppo per ragioni di tempo, non abbiamo potuto includere nel quaderno due scritti che consideriamo essenziali rispetto allo spettacolo : l) il testo d i una tavola rotonda promossa al fine di meglio precisare, in fase di elaborazione registica della rappresentazione, le finalità culturali della scelta dell'opera di Calderon e del rapporto stabilito con essa dal Teatro; a questa tavola rotonda registrata la mattina del 7 settembre 1967 hanno preso parte il regista Gianfranco de Bosio, Roberto Lerici, la professoressa Miledda d'Arrigo Bona, del Magistero di Torino, il dott. Cesare Acutis e il dott. Gian Renzo Morteo, responsabile delle attività culturali del Teatro Stabile; 2) le note esplicative di Roberto Lerici sull'adattamento e la traduzione de La devozione alla Croce. Pubblicheremo i due scritti in questione in appendice al nostro prossimo quaderno. Il barocco spagnolo * Mi accingo ad affrontare un tema arduo, un tema sottile, nel quale non potrò arrivare, sia pure nella più ottimistica delle ipotesi, che ad un richiamo di prudenza nell'usare la voce: barocco. Tuttavia già i pensatori del Settecento dissero che la vera scienza altro non è, in fondo, se non un perfezionamento nell'uso delle parole della lingua nostra, così che, se giungerò a porre in guardia contro il cattivo uso di questo vocabolo, barocco, ed a mostrare come, al contrario, esso possa venir adoperato con certa correttezza, mi parrà di aver servito la scienza e, in modo particolare, la scienza filologica. Perchè, in effetti, il termine barocco fu, dapprima, una parola vaga e senza significato preciso fino a che, verso il 1915, uno storico dell'arte, uno svizzero, il Wolfflin, le diede, arbitrariamente e deliberatamente, un significato nuovo ed esatto. Immediatamente, accoliti troppo entusiasti, avvolsero questo senso, alla Woolfflin, della parola barocco di un piccolo alone di gloria magica, mentre, al medesimo tempo, contro di esso si scagliavano gli avversari. Dopo vent'anni di esitazioni, la parola ha ormai assunto un valore tecnico ('"') Dal « Boletin del Instituto de Investigaciones Hist6ricas » (Buenos Aires), vol. XXVIII (1943-4) pp. 12-30. Questo fondamentale studio sul barocco spagnuolo è apparso in Italia nel volume diciannovesimo delle « Pubblicazioni della Facoltà di Magistero» dell'Università di Torino: LEo SPITZER, Cinque saggi di ispanistica, presentazione e contributo bibliografico a cura di Giovanni Maria Bertini, con la collaborazione di Roberto Radicati di Marmorito, Torino 1962, pp. 109-127. Il Teatro Stabile rivolge il più vivo ringraziamento al Professar G. M. Bertini per l'autorizzazione ad inserire nel presente quaderno lo scritto del Professar Spitzer. 10 ed è accettata nelle discussioni letterarie ed artistiche; ma possiede un significato che non è nè molto esatto nè molto vago e deve perciò adoperarsi con circospezione. Questo, in fin dei conti, è quel che accade a tante parole astratte di una qualsiasi lingua; per esempio, alla parola evoluzione. Dapprima esse attraversano un periodo in cui sono adoperate in forma vaga, sopravviene poi uno sforzo di pensiero con il quale si tenta di conferire loro un significato fisso e conciso, infondendo loro una nuova vis magica. Questo sforzo non arriva però mai a trionfar completamente e il risultato che ne deriva è un termine tecnico abbastanza chiaro, che viene utilizzato per denominare un fenomeno limitato e per poter continuare a correre dietro a nuovi idoli verbali, che, a loro volta, non tarderanno molto a perdere lo splendore della novità. Sembra infatti che l'arricchimento del lessico corrente proceda parallelo all'impoverimento del contenuto originale delle parole. Una specie di desengaiio pesa sopra qualsiasi tentativo di conoscenza umana. La parola barocco fu, dapprima, nel Seicento, una parola francese che significava « bizarre, fantasque », strano, fantastico. Non se ne conosce l'origine. Si riferisce alla perla barocca, alla perla irregolare, cioè, l'espressione nota fin dal Cinquecento e di provenienza indubbiamente iberica, oppure al nome di uno dei sillogismi scolastici, che con tanta frequenza caddero in disuso nel Seicento? Quel che è certo è che quando in francese si diceva arte o stile barocco, lo si faceva per denigrare quest'arte o questo stile: questo peggiorativo non si applicava ad un'arte o ad uno stile storicamente determinato. Tale era la situazione fin verso la metà del Settecento, quando, secondo quel che ci è detto da un critico d'arte tedesco, il Nicolai, i francesi chiamavano l'arte che era allora di moda: rocaille, grotesque, arabesque, à la chinoise o di gusto barocco. Nell'Ottocento, la parola fu applicata in maniera definitiva all'architettura dei maestri italiani del Seicento, quali il Borromini, per opposizione a ciò che era invece 11 classico. Era tuttavia implicito nella parola un tono peggiorativo, poiché l'arte barocca del Seicento sembrava soltanto una deformazione dell'ideale classico, ideale che, secondo l'opinione del tempo, riproduceva la misura e l'euritmia greca. Il Wèilfflin, a Monaco, nel 1915, nei suoi Concetti fondamentali di storia dell'arte, tolse alla parola barocco, applicata ancora all'arte del Seicento, il tono peggiorativo, dimostrando che l'arte barocca non aveva una facoltà creatrice inferiore a quella delle altre arti, bensì un'intenzione artistica diversa, un'altra Kunstwollen. Per mezzo di una serie di parallelismi nei quali descriveva, contrapponendole, l'arte classica e l'arte barocca, egli giunse a definire queste due maniere, secondo lui, equivalenti. Se la pittura classica di un Raffaello è lineare, disegnata, la pittura barocca di un Rembrandt è colorata, pittorica. Se in una Venere del Tiziano, il pittore concede uguale attenzione a tutte le membra del corpo, la figura della Venere barocca di Velazquez sarà invece tutta subordinata ad un « accento » e come unificata. Questo stesso « accento » unificatore si osserva in altri quadri, nella profondità dello sfondo della composizione, profondità verso la quale pare si sentano attratte tutte le figure. L'arte barocca evita la simmetria assoluta e dà, attraverso l'asimmetria, un'apparenza di movimento alle composizioni di gruppi. Per Wolfllin la sequenza Rinascimento-Barocco è un'evoluzione necessaria ed irreversibile. Sempre, e non solo nel Seicento, dopo un'arte classica, segue un'arte barocca; alla pittura delineata, tien dietro la pittura pittorica e Wi:ilfflin, al posto dell'antico giudizio critico, classico: misura, barocco: esagerazione, formula l'affermazione di uno sviluppo storico necessario. Altri critici ed altri storici vennero ampliando le idee del Wolfflin, col seguire tre orientamenti principali, già indicati nell'opera del maestro. Era evidente, ad esempio, che quell'« accento», che tendeva ad imporsi sopra tutti i particolari, ovverosia l'unificazione propria della pittura o dell'architettura ba- 12 rocca, corrispondeva all'accento unifìcatore introdotto nella vita dell'epoca, in generale, dal Concilio di Trento, (conclusosi nel 1563) che, di fronte alla Riforma, tendeva a riorganizzare il cattolicesimo, ricorrendo a una Controriforma autoritaria, accentuando fortemente i principi che la Chiesa voleva imporre nuovamente. Così il sentimento della vita di quel momento storico si esprimeva attraverso un'arte che ad essa esattamente si adeguava. D'altro lato, lo storico della letteratura tedesca, Oskar Walzel, servendosi dell'idea, così cara ai romantici, secondo la quale l'arte di un'epoca deve proiettare una luce nuova sopra un'altra arte dello stesso periodo ( wechselseitige Erhellung der Kunste), volle applicare le categorie di Wolfflin alla poesia dell'epoca barocca. E così si cercò di provare con maggiore o minor esito, e particolarmente nei riguardi delle opere drammatiche, perchè queste sembrano possedere un'architettura così come la possiede una chiesa, che la tragedia di Shakespeare è barocca, e quella francese, classica, nel senso wolffliniano di questi due termini. Persino le poesie liriche possono essere o strutturate, classiche o pittoriche, barocche. Il terzo orientamento nato dal Wolfflin consistette nello scoprire, in altre epoche storiche, sequenze omologhe alla sequenza dello sviluppo artistico nel Cinque e Seicento. In particolare, lo storico dell'arte Worringer scoprl gli antecedenti dell'arte barocca, così piena di movimento, in quella gotica medievale e vide nei romantici e negli espressionisti del dopoguerra i successori degli artisti barocchi . Attraverso i secoli « l'uomo gotico » - espressione creata dal Worringer - dava la mano all'uomo barocco, all'homo romanticus, all'homo expressionisticus, ecc. ecc. Viste insieme, la storia dell'arte e quella della letteratura, apparivano sospinte da grandi flussi e riflussi: un classicismo, e poi un barocco, un altro classicismo e dietro ad esso un altro barocco, e così di seguito. Questo è anche il punto di vista di Eugenio d'Ors, che scopre un barocco porto- rrhese del Quattrocento nello stile chiamato manuellno 1 . In questo modo le parole « classico » e « barocco » perdettero il loro significato limitato che le riferiva ad epoche precise e divennero espressioni di un orientamento relativo: si parlò di un barocco del Trecento italiano e perfino di un barocco greco, tutto questo con grave danno di una chiara delimitazione dei fenomeni artistici particolari. Il breve schizzo di questi tentativi, da me tracciato, serve a mostrare la nascita di un mito, il mito dell'« uomo barocco », tanto glorificato adesso così come era stata prima vilipesa l'arte indicata con lo stesso nome. Wolfflin, nella sua teoria, era partito da tratti di stile suscettibili d'osservazione ed evidenti allo sguardo di una persona « per la quale esiste il mondo estraneo ». Aveva immaginato le sue categorie estraendole dall'osservazione visiva, al fne di dare alla storia dell'arte una maggiore obbiettività liberandola dal « sentimental approach ». Volle dare all'arte un qualcosa di simile ad una grammatica storica, considerando l'arte come un che di sovrapersonale, al di sopra degli artisti singoli. Ma in quel momento l'anima tedesca si impossessa delle sue categorie grafiche e da essa estrae il mito dell'uomo barocco. Ho parlato dell'anima tedesca perchè essa possiede una necessità innata di prender sul serio non soltanto la storia, e ciò fino al punto di credere che ogni sviluppo storico di fatto, veramente accaduto, sia necessario davanti a Dio (il che raggiunse il grottesco quando i tedeschi accettarono il fatto Hitler), ma anche di prendere con la massima serietà le categorie formulate dagli storici, intenti al loro compito di spiegare un nuovo processo storico. E dimenticano così quella caratteristica di costruzione e di approssimazione umana propria di queste categorie e divinizzano o esaltano fino all'apoteosi quelle che per altri popoli si ridurrebbero a semplici etichette. Non è puro caso che parole l Da Manuel I che fu re del Portogallo dal 1495 al 1521. 14 quali Rinascimento, Romanticismo, Rococò, Biedermeier (quest'ultima circola solo in Germania) 2 in questa nazione si sian trasformate in entità oggettive, alla cui definizione si dedica a volte molto più spazio di quanto non si conceda all'analisi di fatti concreti. Da questo punto di vista, la Germania si trova al polo opposto dello spirito anglosassone che diffida per principio di qualsiasi termine di orientamento. Lo storico olandese Huizinga ha dichiarato che i tedeschi, da soli, hanno contribuito con un maggior numero di spiegazioni di fronte a tutti gli altri popoli a chiarire il concetto di Rinascimento, da Burckhardt fino a Burdach. E ciò è naturale perchè soltanto i tedeschi vedono, con gli occhi dell'anima, il Rinascimento come allegoria. Il Wolfflin stesso, che era persona di eccezionale purezza ed austerità di spirito, si spaventava un po' di questa marea di adesioni che gli veniva tributata dal pubblico tedesco. E il mio amico Vossler mi diceva che Wolfflin aveva accettato un invito di un'università straniera unicamente « per sfuggire ai suoi allievi tedeschi ». Tuttavia credo che l'aver accettato entusiasticamente la riabilitazione wolffliniana dell'arte barocca riveli qualcosa di più profondo delle necessità filosofico-mitiche dell'anima tedesca. Si tratta, forse, senza che Wolfflin stesso se ne desse conto, di un cambiamento spirituale che si verificò in Germania, così come nel resto d'Europa, dopo la prima guerra mondiale: i valori religiosi, tanto disprezzati, riacquistarono la loro posizione preminente. Si ebbe in Francia, così come in Germania, un rinnovamento cattolico. In Scandinavia, in Svizzera, in Inghilterra, anche in Germania, un rinnovamento protestante. Ed un'eco cordialissima trovarono ovunque l'arte e la letteratura del Seicento cattolico, perchè 2 Stile particolare che s'impone in Germania tra il 1815 e il 1843 e riflette un gusto sobrio, modesto e pratico (da « bieder » troppo buono e Meier un cognome tedesco molto comune). ' 15 imbevute di sentimento religioso. Madler, per esempio, scoprì che tutta una letteratura cattolica e barocca dell.a Germania meridionale era stata seppellita sotto un Silenzio corrucciato da parte della critica protestante e deista del Settecento. Fu la Spagna a trarre vantaggio particolare da questa riabilitazione del catt?licesimo post-tridentino in Europa. La leyenda negra, mventata dacrli enciclopedisti francesi del Settecento svanì, anche gr;zie alla coincidenza - se coincidenza ci è dato chiamarla - per la quale nel momento stesso in cui l'Europa si sorprendeva in atto d'ascoltare attentamente tutto ciò che era spagnolo, la Spagna vantava scrittori, quali Unamuno ed Ortega y Gasset, eh~ ~apeva~o formulare un messaggio spagnolo comprensibile agh europei e patrocinavano il ritorno ad .una t~adizione mu~ti secolare libera, tuttavia dalla reazwne cieca. Al segwto di storici dell'arte, quale Meir Grafe, che scopri Il Greco e Weisbach che studia l'arte della Controriforma, t~tti i miei colleghi romanisti, venuti fuori, per. lo più da ambienti protestanti di spirito sobrio, moralista ed astratto, si dedicano a studiare, verso il 1924, la letteratura spagnola. Karl Vossler nella sua «Lettera spagnola a Hugo von Hofmannsthal » studia il Siglo de Oro; Ernst Robert Curtius, nella rivista cattolica Hochland, la generazione del 98. Si studiava cioè ugualmente la tradizione letteraria spagnola ed il suo rinascimento contemporaneo, Don Chisciotte ed Unamuno. Di colpo, questi studi, non più viziati da pregiudizi e ~a paraocchi, si erano anzi fatti più penetranti della sto?a della letteratura del Siglo de Oro, scritta da un cattolico a tendenza apologetica quale Ludwig Pfandl (1929). Se prima nell'arte e nella poesia spagnola non si vedeva che oscurantismo, fanatismo, esagerazione, contorsione e volgarità, viene ora invece compresa quella profonda fede cattolica che è insita in questo violento dinamismo. Si spiega così che un austriaco come me~ cresci?to. accanto all'architettura barocca della Karlskirche di Vtenna, formato sugli studi del teatro spagnolo di G~illpar zer e delle imitazioni di Hofmannsthal, non abbta sen- 16 tito mai come problema che il cattolicesimo mediterraneo (spagnolo o italiano) abbia trovato l'espressione del trascendentale nella sensualità stessa. I protestanti si compiacciono di vedere nel fatto divino un qualcosa che radicalmente trascende questo mondo, ed il centro del protestantesimo, insomma, d'accordo con il suo biblicismo dell'Antico Testamento, poggia sul Dio ebraico astratto, che si manifesta solo in forma spirituale ed in rare occasioni, attraverso il tuono, attraverso il roveto ardente, a Mosè, al quale affida le tavole della Legge. Il cattolicesimo mediterraneo comprese sempre la parte della carne nel mistero dell'Incarnazione di Cristo. Non è soltanto la ragione a postulare il divino, ma è anche la carne dell'uomo stesso. Il gran mistero per l'intelletuale (e così lo comprese l'intellettuale francese Barrès quando scoprì di nuovo Toledo) non consisteva nel fatto che al di sopra del proprio intelletto limitato esista una ragione divina universale bensì che questo intelletto umano sia legato ad una carne umana, opaca e spessa; e questo sarebbe fonte di disperazione se la divinità non avesse compenetrato di sè la carne, ossia se la divinità stessa non si fosse fatta carne. Mi permetto di intercalare qui alcuni ricordi personali, e quelli che mi accingo a citare mi paiono assai significativi per la nostra epoca. André Gide ha descritto nelle sue opere letterarie, angoscie analoghe, e cioè quelle dell'intellettuale privato delle sue « nourritures terrestres ». Quando ero ragazzo e nella Sinagoga ascoltavo il rabbino dalla barba veneranda che predicava la missione spirituale di Israele, sentivo che si trattava di un qualcosa di troppo astratto. Perchè, pensavo io, non ci parlava invece delle illusioni e dei peccati della sensualità, che, per l'uomo di spirito, debbono essere i grandi banchi di prova? Accettavo, sì, la missione spirituale dell'uomo, ma mi pareva che il problema della carne fosse messo in disparte con eccessiva facilità. E, d'altra parte, qu«ndo ormai professore di un'Università protestante tedesca, assistevo nel 1928 alle processioni quasi pagane della Settimana Santa di Siviglia, quando la cat- 17 tedrale si rovescia sulla strada, quando le confraternite religiose portano nei « pasos » le Vergini sovrumane vestite di broccato, cariche di gioie, Maddalene dai capelli veri, Cristi che mostrano nella carne l'abbiezione del martirio, mi sentivo sconvolto fin nel profondo dell'anima come da un orrore mistico e carnale insieme; li, a due passi da me, mi si rivelava il degradarsi dello Spirito nella carne. La divinità, è vero, non si lasciava udire tra le nubi auguste dell'Horeb di Palestina, ma si lasciava vedere qui, ora, hic et nunc, nella Siviglia del 1928, fra il tumulto chiassoso dei venditori ambulanti di dolci e di palloni 3 ; e le saetas dedicate alla Vergine proclamavano da un balcone la vicinanza del divino all'umano; la bellezza sensuale poteva insomma porsi al servizio del divino cattolico che aveva compreso la carne. Io sapevo che alcune di quelle immagini intagliate che sfilavano davanti a me in un cielo di ceri, risalivano al Seicento o che nel loro stile si avvertiva per lo meno una traccia popolarizzata di quell'arte che non era rimasta confinata nei musei. Poi nei musei della stessa Siviglia, vidi quel Cristo di Murillo che stacca un braccio dalla croce e quasi accarezza la testa di San Francesco inginocchiato; e quel Beato Susone di Zurbaràn, dallo sguardo mistico, che, con uno stiletto, si lacera la carne a destra del petto per trionfare del demonio chiuso nell'ampolla che il santo sostiene con la mano sinistra. Vidi a Granada la testa di San Giovanni Battista in rilievo in cui la decomposizione della morte è dipinta e modellata con colori così raggianti e con movimento così vitale da ricordarmi la Charogne di Baudelaire; e quel repositorio, con gli ornamenti d'argento e di specchi, che ci dà l'impressione di una toilette di précieuse, mentre in realtà ognuno dei cassettini è riservato a reliquie di santi, di ossa e di resti umani. 3 Il passo meriterebbe una messa a punto, che non ci è consentita. 18 Compresi allora quanto sia astratto l'insegnamento giudeo-protestante e quanta profondità filosofica palpiti nella carnalità religiosa del cattolicesimo mediterraneo, che non ci fa mai dimenticare quel: « Son di carne, son di carne! » gridato da un bimbo spagnolo davanti al conte Kayserling, quel cattolicesimo spagnolo che mescola il divino ai godimenti ed alle debolezze della carne. Paganesimo, sì, può essere, ma paganesimo cristianizzato, che estrae spiritualità dalla carne voluttuosa, che mette al servizio di Dio la carne stessa: la Spagna ha dato veramente carne alla seconda persona della Trinità, al verbum caro factum. E siamo così giunti al centro del problema del barocco spagnolo. Quanto ci sembrano lontane adesso le categorie pittoriche ed architettoniche di Wolfflin, grammatica astratta eli un'arte già concepita quale astrazione! Il fenomeno umano, concreto, primordiale, del barocco spagnolo è la coscienza di quanto è carnale fusa con la coscienza di quanto è eterno. Se il Rinascimento italiano destò lo sguardo dell'uomo occidentale, assopito o atterrito dal trascendentalismo medievale e lo posò sulla bellezza sensuale della natura e dell'uomo, sulla Gioconda, su Venere, su Pan, il barocco spagnolo, anch'esso aperto ai « miracoli del mondo», non dimenticò mai quanto fosse caduca questa bellezza, e quanto vicino il trascendentale alle feste della carne. Per il barocco spagnolo non vi è che un passo brevissimo dal rosa al nero, dalla carne alla morte. Nel barocco l'eterno si mescola con quanto vi è di più effimero: il festino della vita non si svolge senza che vi si sieda da commensale il memento mori ed il memento mori, entra in scena con tutti gli orpelli del fasto secolare. Il fatto spirituale appare sempre incarnato e la carne chiama sempre lo spirito. I due principi di questa fìlosofìa dualista si mantennero sempre separati, chiamandosi a vicenda. La polarità non si risolve mai in un'unione integrata: il rosa, anche se contiguo al nero, non è il nero. Il barocco s:_:>agnolo non conoscerà nè la subordinazione dello spirito alla carne, come 19 nello stile rococò di Watteau e di Fragonard, nè la subordinazione della carne allo spirito, come in un Rembrandt e in tanti altri artisti protestanti. E non conoscerà neppure la dissoluzione dei due principi in uno spiritualismo panteista, alla maniera dei maestri italiani del Rinascimento, quali Tiziano, Leonardo e Raffaello. Il dualismo rimane sempre, presente: perchè il tema barocco per eccellenza è il desengaiio, il sogno opposto alla vita, la maschera opposta alla verità. la grandezza temporale opposta alla caducità. Questo dualismo si trova nelle due ispirazioni di Murillo, l'unità realista e l'unità idealista; nelle due ispirazioni di Velazquez che ci mostrano ora il fasto della grandezza terrena, ora le mutilazioni della carne, nei buffoni, nei nani, nel Cristo; ed a volte, la carne delicata, che sembra quasi fondersi, del re coperto dalla regal pompa risplendente. Si osserva soprattutto nel realismo « fetido» di Valdés, che dipinge la caducità del corpo umano oppresso dai pomposi vestimenti di vescovo o di sovrano: sic transit gloria mundi. La bellezza dei corpi ed i drappeggi del Greco sono impregnati di gialli, di toni lividi, del verde della morte estatica e della natura minacciosa del giorno del giudizio universale. La delicata Vergine di Zurbaran, soffusa di rosa, ricopre col suo manto fastoso monaci corpulenti e barbuti. Lo spirito ed il fìsico non si fondono. Quel chiaroscuro dal quale emergono i corpi scarniti, ma brillanti, degli eremiti di Ribera non lascian adito a dubitare dell'irreducibilità dei due elementi in lotta, corpo e spirito. Proprio come se la luce abbacinante del sole di Spagna esigesse a mo' di complemento il nero della chiesa e l'oscurità dell'interno. Non v'è dubbio che questi quadri posseggono un « accento », così come sosteneva Wolfflin. É l'insegnamento spirituale che evoca l'aldilà; e tuttavia quest'accento si pone al di sopra della polarità dualista, sempre mantenuta. Tiziano poteva concedersi tutto al godimento di seguire con pazienza i deliZlOSl particolari fìsici delle sue Veneri. Velazquez, abi- 20 tuato com'era a ·dare un senso finale alle sue opere, doveva riunire tutti i particolari distinti in un fascio, persino in un sol quadro cosl come accade nella sua Venere, nella quale non appare alcun senso trascendentale. Nell'arte barocca trionfa lo spirito, ma l'artista invita noi, noi spettatori, a compiere lo stesso sforzo già da lui sostenuto. Questo è il dinamismo interiore comunicatoci dall'arte barocca; è compito nostro far muovere dai corpi accatastati il principio interiore, così come il Sigismondo di Calder6n doveva imparare a separare la realtà dal sogno. Nel citare La Vita è sogno, volgiamo già lo sguardo alla letteratura barocca spagnola. Chi mai ha descritto con maggior splendore di Calder6n la situazione di questo principe del mondo, le attrattive del potere materiale e dell'amore, e poi la terribile caduta di quel superbo e il suo comprendere la frenesì del sogno mondano, di los sueiios sueiios son? Chi meglio di Lope de Vega ha saputo maneggiare i fuochi d'artificio, i miraggi di specchio, le squisitezze della bellezza e della ricchezza, dello spirito e della poesia, nella sua cosiddetta autobiografia, La Dorotea, per farci poi sfociare nella cupa predica di Todo deleite es dolor? Mi ricordo di aver letto una volta ad Istanbul, con i miei allievi, le quartine preliminari all'atto terzo del Barlaan e Giosafatte di Lope de Vega, là dove si enumerano tutte le bellezze di una natura esotica, alberi, palme, ruscelli ecc. L'enumerazione culmina in un concetto circa i ruscelletti che riflettono il cielo. « Aunque en el no nacéis ... pasais por el paraiso, pues entre santos nacéis ». I miei allievi turchi, tutte signorine, sentivano assai profondamente la poesia, ma si rammaricavano che il poeta spagnolo non si fosse arrestato al penultimo verso. E questo perchè non comprendevano il fenomeno barocco della polarità: natura, santi, uomo, santo. E Gongora che moltiplica nelle sue descrizioni pompose le bellezze fisiche ed i tratti ingegnosi e verbali, si chiude poi in una soledad sonora in un mondo che non è certamente religioso, ma tuttavia au- 21 stero così come lo fu il monast1c1smo dell'artista. Cervantes, per quanto sia artista classico, muove il suo eroe fantastico attraverso un mondo immaginario, per farlo poi morire da buon cristiano, dopo essersi reso conto della vanità dei sogni libreschi. Ed infine dei due maestri più barocchi della prosa spagnola, Gracian e Quevedo, uno, Gracian, ci porta ad abbeverarci a tutte le fonti della bellezza, della gioventù e del potere mondano, per somministrarci poi l'amara coppa del desengaiio, erigendo davanti a noi la facciata ardita del palazzo per distruggerlo poi implacabilmente: « ... sobre él (el delgado bilo de una fragil vida) fabrican los hombres grandes casas y grandes qu1meras, levantan torres de viento y fundan todas sus esperanza s... estrihan sobre una no cuerda, sino muy loca confianza, de una hebra de seda. Menos sobre un cabella. Aun es menos, sobre un bilo de arafia. Aun es algo, sobre el de la vida, que aun es menos ». E l'altro, Quevedo, che tortura il suo p/caro Busc6n, collocandolo tra due poli, che io in uno studio chiamai (con termini che vennero applicati all'eroe barocco tedesco del secolo XVII, al « Simplicissimus ») W eltsucht e W eltflucht, ricerca del mondo e fuga dal mondo dell'eroe. L'autore stesso (pur non abbandonandosi a declamazioni sfiduciate, come l'altro barocco, Mateo Aleman, nel suo Guzman de Alfarache), sente, così come il suo eroe, questa polarità, di modo che nella descrizione dei trionfi apparenti del picaro s'insinua sempre un'ironia macabra, perfino negli epiteti, quali principe de la vida buscona, rabi de las rufianes, frasi in cui le parole come buscona e rufianes non s'intonano con lo schema panegirico generalmente dedicato ai principi ed ai saggi gloriosi. Come spiegarsi questo barocco spagnolo? Perchè proprio questo popolo sentì in quel momento particolare della sua storia la necessità interiore di mettere in opposizione quei due poli, sueiio e vida, mantenendoli separati? In primo luogo, questo fenomeno spagnolo non è soltanto spagnolo. Come ha dimostrato Hatz- 22 feld, il Seicento, direttamente o non direttamente influenzato dallo spirito spagnolo, e particolarmente nei paesi cattolici, diede vita a una tendenza parallela. I Rubens, i Bernini, i Barocci, gli architetti delle chiese della Baviera, dipingono, nello stesso modo ciò che è divino, impossessandosi di ciò che è sensuale; e ho già citato il Simplicissimus tedesco, derivato dall'arte picaresca spagnola. Perfìno nei paesi fondamentalmente protestanti, penetra il desengafto. Amleto, alcuni dei sonetti di Shakespeare, le poesie di Donne, di cui una frase, Per chi suona la campana, è diventata popolare grazie a Hemingway, io li leggo quali prodotti barocchi spagnoli. Ma è evidente che nessun altro popolo come quello spagnolo ha saputo mantenere con altrettanta costanza ed energia la polarità fra il sensuale ed il divino. Era invalsa l'abitudine, fuori di Spagna, di dire che la Spagna non aveva avuto un vero Rinascimento. Un professore tedesco, il « malevolo signor Klemperer », come lo chiama Américo Castro, parla continuamente di quel paese senza Rinascimento che, secondo lui, è la Spagna. I fatti provano, al contrario, che il Rinascimento, così come lo conosciamo in Italia, esistette ugualmente in !spagna. Esempi di questo fenomeno sono il Lazarillo, Garcilaso, la Epistola a Fabio, Luis de Le6n. Castro e Bataillon han dimostrato che in !spagna si trattaron tutti i temi del Rinascimento, perfino l'erasmismo, e che Cervantes, il principe del Parnaso spagnolo, non era quell'« ingegno laico » 4 che si riteneva. Ma se i temi del Rinascimento penetrarono tutti in Spagna, bisogna dire che questo paese conferi loro un carattere particolare. La formula di Vossler è forse quella che meglio si adatta alla realtà: « La Spagna ha conosciuto il Rinascimento, ma gli ha detto di no». É chiaro che si riferisce al Rinascimento puro, italiano e pagano, innamorato della bellezza sensuale. La Spagna ha conosciuto il Rinascimento, gli ha detto: no, e 1 Nel senso di profano alla cultura specifica. ad esso ha opposto un medievalismo cnstlano radicale, così che mentre in Francia non esistono scrittori più diversi di un Villon e di un Ronsard e in Italia di un Dante e di un Ariosto, in !spagna la via mena direttamente da Berceo - T odos somos rom eros que camino andamos: Cuanto aqui vzvzmos en age110 moramos attraverso le Coplas di Jorge Manrique, fino alla Vida es suefto. In Francia si ebbe una frattura tra il Rinascimento e il Medio Evo, frattura che appare più visibile nella storia del teatro. La rappresentazione dei misteri venne proibita nel 1548 e la Pléyade si affaccia alla storia della poesia nel 1549. Da due popoli diversi nascono due arti diverse. In !spagna gli Autos Sacramentales continuano a vivere per tutto il Siglo de Oro ed anche molto più in là. Un medievalismo persistente ed un Rinascimento appena arrivato si uniscono per generare una creatura ibrida, composta di W eltsucht e W eltflucht, dai bei sogni rinascimentali e da desengafto medievale, da illusioni di sensi e da macabre disillusioni. E nella commedia spagnola le spade e gli abiti sontuosi possono sempre sparire, lasciando via libera alla « disciplina » e all'abito monastico. La polarità del barocco è come il conflitto di due epoche successive trasportato nell'anima nazionale spagnola su un piano di contemporaneità. Non possiamo concepire l'arte barocca senza il trascendentalismo medievale e neppure senza la vita sensuale del Rinascimento, senza danza macabra e senza baccanali. Cosl la Spagna seppe rivivere uno degli aspetti fondamentali del Cristianesimo: l'incarnazione del divino e la rinuncia alla carne di questo personaggio divino. Bisogna dire che perfìno i tratti stilistici che tendiamo a considerare cosl caratteristici di Gongora, di Quevedo, ed io direi perfino di Lope, il concettismo ed il culteranesimo, sono in fondo tratti di stile medievale. Se brillano con maggior splendore nel Siglo de Oro è grazie alle bellezze sensuali che il Rinascimento vi aveva aggiunto, saturandole di antichi schemi .. Dei due tratti stilistici il più importante è il concett1smo. 24 Ebbene, questo giocare con i concetti è uno dei piaceri che si impongono all'anima cristiana, a cui è ben noto come la realtà di questo mondo sia impregnata di un'altra realtà così che il « gioco di parole » altro non è se non un gioco che il trascendente si permette con il mondo di quaggiù, poichè l'unico a conoscer il vero senso delle parole è Dio. Nei Padri della Chiesa, infatti, ed in particolare in Tertulliano ed in Sant'Agostino, i giochi di parole abbondano, ed anche Sant'Isidoro, Alcuino, Raimondo Lullo e Dante ne fecero uso. Pariment.i il culteranesimo che adopra parole poco comuni, poggia sulla fede riposta nel latino quale rivelatore di verità eterne. Non voglio, naturalmente, non riconoscere che la pienezza di vita che i poeti barocchi han posto nell'uso di questi artifici sia un elemento nuovo. Risponde appieno all'elemento rinascimentale che si sovrappone a quello medievale. Lo spirito francese visse un'avventura opposta. Con la Pléyade, con Rabelais, la Francia conobbe il Rinascimento di tipo sensuale, ma non arrivò a conoscere il vero barocco. Non sentì il dramma della carne, così come lo sentì la Spagna, ed il Rinascimento subito divenne una questione di morale e di scienza, fondandosi sulla ragione. (Perfino Rabelais è più ragionatore di quanto comunemente non si creda). In nome della ra~ione Malherbe e Boileau metton da parte Ronsard; m nome della ragione Descartes uccide il Medio Evo. Tutto il barocco di cui fu capace la Francia del Seicento è definito dal pathos di Corneille, lo spagnolizzante, che nella sua Illusion comique, trasforma in commedia ragionevole un tema barocco, il preziosismo con i suoi raffinamenti di linguaggio mondani ed affatto metafisici, e con le sue ambizioni di società squisita e, per ultimo, quel gruppo che fu chiamato dei Grotteschi, timido gruppo in cui figurano Saint Amand e Théophile de Viau. Il classicismo del 1660 fece fronte soltanto a queste tre correnti barocche, già molto mitigate e forbite. Non voglio dire con questo che la Francia del Seicento non abbia reso il suo tributo allo spirito ba- 25 rocco. Che altro sono Pasca!, Racine e Bossuet se non smascheratori crudeli della tragedia della debole carne? Coloro che si divertono ad immaginare come sarebbe stato il tale o il talaltro grande scrittore di un paese, se fosse vissuto in un paese diverso, potranno immaginare che in Ispagna Pasca! sarebb~ stato un Quevedo, Racine un Calder6n e Bossuet un Gracian. Ma questi francesi del Seicento hanno svolto i loro temi in una forma che pareva loro assai conforme alla ragione, anche se forse non lo era poi tanto: il famoso « roseau pensant » è un concetto alla Gracian o alla Gongora. Ma quel che più conta è quel che essi pensavano: il classicismo francese va visto soltanto in chiave di ragione. Bernini, in quella Parigi classica, fu un fiasco. Il gusto francese in materia d'arte, molto imbevuto di giansenismo si chiamava Poussin, Pujot, Le Notre, più che la facciata del palazzo i giardini di Versailles. Il classicismo francese è un movimento rivoluzionario, gallicano, contro tutto ciò che è tridentino, difensore della ragione sovrana, e che s'instaura precisamente nello stesso momento in cui in Europa trionfava il barocco spagnolo. É uno sbaglio giudicare il barocco spagnolo partendo dal classicismo francese, con gli occhi del classicismo francese. Questo era norma generale prima di Wolfflin e Benedetto Croce che ancora oggi definisce il barocco quale l'arte che vuole « stupire » a tutti i costi, non si rende forse conto di come con queste si riveli in lui il classicista francese. Per valutare equamente la decisione volontaria della Francia, sarebbe anzi più giusto giudicare il suo classicismo partendo dal barocco spagnolo. Già sappiamo che due secoli dovevano trascorrere prima che il genio francese, che aveva rotto tutti i legami con il Medio Evo, permettesse al suo romanticismo, d'altronde abbastanza istrionico, di introdurre di nuovo nella letteratura temi spagnoli e medievali. Nel periodo preromantico fu necessario che gli accorti e saccenti predicatori della campagna inglese moralisti e borghesi somministrassero all'Europa il tema della poesia sepolcrale, quando 26 in realtà il tema della notte e dei cimiteri proveniva in linea retta dalle danze macabre e dai pasos della morte del Medio Evo ed era stato trattato con una forza barocca incomparabilmente superiore durante il periodo barocco spagnolo ed inglese (Who is the beggar, who is the king?). Le cave dei Cappuccini di Palermo, con gli scheletri vestiti alla maniera di Valdés Leal, testimonio, in piedi da secoli, di povertà, per il turista moderno sono resti dell'epoca barocca dalla quale i poeti preromantici e romantici di paesi radicalmente divorziati dallo spirito medievale non potevano più trarre ispirazione. Arriviamo cosl, adesso, a circoscrivere questo termine tecnico cristallizzato: barocco. Esso sta a signifìcare un fatto di civiltà culturale, che raggiunge l'apogeo nel Seicento, in !spagna, ma che s'irradiò in tutta l'Europa prima che il classicismo francese gli opponesse un argine. Consistette nell'estrarre da due idee, una medievale, l'altra rinascimentale, una terza idea che ci mostra la polarità fra i sensi ed il nulla, la bellezza e la morte, ciò che è temporale e ciò che è eterno. Nell'anima spagnola contemporanea questa polarità si è mantenuta con una tensione che non giunge mai ad integrarsi, nè nella religione popolare nè nelle opere dei poeti e dei saggisti, nè nel « sentimento tragico della vita » di Unamuno, di quell'Unamuno, innamorato del concettismo etimologico barocco e patristico, e neppure nella poesia metafisica dei miei amici Guillén e Salinas. Forse « l'uomo barocco» non esiste; quel che esiste invece è un atteggiamento barocco che è un atteggiamento fondamentalmente cristiano: «Tener como si no se tuviera ». Atteggiamento ancor più comprensibile oggi, in questa epoca, quanto mai straziata, in cui viviamo. La civiltà moderna, innamorata del progresso materiale, offre analogie sorprendenti con la Spagna del Seicento, in cui i poeti e i predicatori insistevano sulla vanità delle ricchezze temporali giunte dalle Indie, mentre i barocchi spagnoli non esitavano ad adoperare le attrattive della bellezza fisica e materiale per dar maggior lustro al divino. Un poeta moderno dall'anima cristiana, un « apocalittico » quale è T.S. Eliot, ad esempio, sente la tensione tragica di un passato cristiano perduto e di un presente intollerabile. Per lui, ciò che è moderno e ciò che è medievale non staranno ph\ su un piano di contemporaneità, cosl come avveniva nei barocchi spagnoli, ma si escluderanno a vicenda. Alla sua probità di poeta non rimarrà altra risorsa che il rappresentare l'irreducibilità di ciò che fu e di ciò che è. Nasce di qui il suo stile barocco di sdoppiamento (una conversazione insipida da secolo XX interrotta dagli accenti di organo di un cristianesimo penitente) da qui il suo anelare alla morte nel seno di questa ;erra desolata. Quel che ci piace in T.S. Eliot, in Hemingway, è questo loro dominio forte sulla realtà fisica moderna, questo « ver a lo vivo », a paragone del quale qualunque classicismo o romanticismo ci sembra pallido. E, d'altra parte, la coscienza che esista, oltre la vita, un'altra cosa, la Morte: e, più di ogni altra cosa, la morte è un fatto reale, e Dio lo sa. Ormai, di fronte al sogno della vita, non possiamo più trovar rifugio in una fede indefettibile, cosl come era dato a Calder6n e a Donne. In mancanza di meglio, con una rettitudine che vuole « make the best of it », ci afferriamo a questo stato di tensione polare insoluta, e senza nascondercela, riconosciamo l'inevitabile tensione. E comprendiamo cosl il barocco spagnolo che non barò mai nel giocare coi due termini del problema suo centrale. LEO SPITZER (Traduzione di A. Levi Bianchini) La Spagna di Calderon Le edizioni L'Arche h,mno pubbl ic"to nell" bella e tltilissima « Collection les g1'andes dt·amatm•ges » (volume n. 18) un'ampia ed intelligente monogt·a{w di Micheli11e Saut•age intitolata Calderon dramarurge (Parigi, 1959). D.1 q~test'opera, rigo1'Dsa ed agile ad un tempo, t·icaviamo le pag.jne nelle q11ali quadro dell'epoca calderonùma. Ci auguriamo im;ogli il lettore a cercm·e quell'informazione esattriente che solo ICi lettut·a del libro della interezza può dare. l'autrice traccia il c!Je questo saggio stot·ico·critica più Saut•age nella sua La edad de oro, alla lettera: l'età d'oro. Parole di sogno. Se è vero che l'età d'oro (come vuole uno dei nostri miti più potenti) è l'era dell'umanità pienamente felice e riconciliata con se stessa, noi abbiamo sognato ques'età d'oro della Spagna, come abbiamo sognato tutte le altre fino ad oggi. Giacchè essa reca la contraddizione piantata in cuore come un coltello. Esulta e pensa solo alla sofferenza, trionfa ed i colori del suo universo sono i tremendi bianchi e neri di Ribera. Si dice anche il Secolo d'oro, già con maggior realismo e prudenza. Ma qual è l'oro di questo secolo? Qual è il secolo di quest'oro? L'oro? Lo sa persino uno scolaro. É l'oro della ctÙtura. L'oro delle armi, pure. E quello dei galeoni. La Spagna del tempo, il primo Stato d'Europa per i possedimenti del continente e d'oltremare ( « quando la Spagna si muove, le terra trema » ), è anche la guida del pensiero d'Europa, la guida della sua letteratura. I grandi nomi del teatro elisabettiano hanno avuto, di gran lunga un minor valore d'esportazione. La Francia (per non parlare che di lei) aveva da molto tempo divorato, digerito, assimilato e ripreso in adattamenti (da Thomas Corneille a Collot d'Herbois) tutto il teatro di Cal- 30 der6n, e ancora non capiva niente di Shakespeare, di quelle «rare perle in un enorme letamaio », come dirà Voltaire con fìne discernimento. É un fatto innegabile; il genio spagnolo non ha posto problemi al genio francese. Quanto all'oro delle Indie, come avrebbe potuto la superba non inorgoglirsi davanti allo spettacolo delle navi che lo scaricavano a Siviglia insieme con l'argento a barre e a casse, al punto di non saper più dove deporlo? Lope de Vega ne era completamente abbagliato. Filippo II non aveva certo difficoltà a far comprare dai suoi mercanti in tutta Europa i quadri d'autore senza badare al prezzo. Ne possedeva più di tremila, dicono orgogliosamente gli Spagnoli, mentre i re di Francia suoi contemporanei riuscivano a malapena a raccogliere a Fontainebleau quarantasette tele, parecchie delle quali di seconda qualità ... Ma come? Il nostro scolaro non sa forse che all'occhio spassionato di un Inglese del tempo quella stessa Spagna appariva «una fontana d'orgoglio in una valle di miseria »? Miseria di una prodigiosa accozzaglia di mendicanti che costituisce un fatto sociologico ed artistico senza equivalenti altrove. Miseria di una miriade di hidalgos quasi più numerosi delle pulci, intoccabili nelle loro prerogative chimeriche e ridotti, come il Mendo dell'Alcade di Zalamea, a nettarsi ostentamente i denti dopo i pasti per far credere di aver mangiato. Vuote le casse pubbliche: due bancarotte nella sola seconda metà del XVI" secolo, il fastoso Filippo che sospende il pagamento degli interessi del suo prestito - dove finisce dunque l'inesauribile oro delle Americhe? E al principio del XVIIo secolo vi sono, pare, più doppie e pistole spagnole in Francia che non in Spagna, così almeno afferma Enrico IV, re di Francia. In una delle sue commedie Lope de Vega si esalta sulle industrie e sui commerci di Siviglia, « un universo in piccolo ». Ma i viaggiatori stranieri e le Cortes non fan che parlare di Industrie in abbandono, di commerci rovir1ati, di regioni spopolate. O forse non parlano della stessa epoca? Il secolo di quest'oro qual è? 31 Gli storici delle civiltà sono persone abili. Non vanno per il sottile nei loro calcoli dei periodi, per aver quanto più oro è possibile. Datare la preponderanza spacrnola dal 1559 al 1660 significa veramente non andare per il sottile se si pensa che Filippo III è morto nel 1621: con q~esto re debole, debole per essere il fi.glio del troppo potente padre Filippo II , la grande 1dea imperiale di Carlo V è solo più l'ombra di ~n sogno. Il patriottismo spagnolo, più permaloso, prefer~sce. ~pes so concludere il secolo d'oro con la morte dt F1ltppo II; il secolo d'oro allora il XVI 0 • Ma né Velasquez, né il Cervantes del Chisciotte, né Calder6n gli appartengono più.Dunque, b.1sogna dec1.ders1:. gl.1 on. del ~eco lo .d' oro non brillano tutti contemporaneamente. Puo dars1 persino che lo sviluppo culturale vada di pari passo con il declino economico e politico. É triste, ma piuttosto comune nella storia, dopo tutto. La Siviglia prospera magnificata da Lope de Vega, è quella di Carlo V, quando Lope non era ancora venuto al mondo. I tre regni (quelli di Filippo III, Filippo IV e Carlo II), sotto i quali si è svolta la lunga vita di J?on .Pedro Calder6n de la Barca hanno visto consumars1, dt male in pegcrio la decade~a della monarchia che fu la prima d'Europa: A quel tempo, e per uomini di quella fatta, è una cosa che conta, una ferita che non bastano a sanare il mecenatismo dei re e dei grandi, il favore illimitato prodigato agli artisti, e le raffinatezze della c~ltura con le quali oggi ci si consola di non essere . pm un grande popolo. Filippo IV, il re-poeta,. farà dt Caldeton l'orcranizzatore delle feste drammattche alla Corte. Se nece~sario affinché possa compiere meglio l'incarico, lo dispen~erà dal servizio militare, nel periodo in cui perde la Catalogna insorta, dopo .aver P.erd~to la Valtellina, prima di abbandonare altn lembi d1 quel che fu un crrande impero. Il drammaturgo non volle approfittare "'di questa dispensa. Terminò f~et~olosa mente la commedia per compiacere al suo pnnc1pe, .e raggiunse al più presto l'esercito che combatteva la n- 32 volta catalana. Da qualche anno egli aveva diritto al prestigioso mantello bianco con la croce rossa dell'ordine militare di San Giacomo della Spada, il cui ufficio di gran maestro era stato riunito da Carlo V nel 1523 alla corona di Spagna. Chevalerie oblige. In realtà, la contraddizione è ben più profonda di un semplice divario nel tempo. Lo stesso Filippo II, il colosso, non mostra forse l'argilla su cui è fondata la grandezza che impaurisce l'Europa? Nonostante la sua potenza, di cui la Spagna si inebria ancor oggi, vi è in lui qualcosa di quei « re smisurati » che, nella mitica storia della Cina, sono lo strumento funesto della caduta degli imperi. I re smisurati della Cina costruiscono qualche torre folle ... Filippo II, sposo della cattolica Maria Tudor, si intestardisce a rimontare il corso degli avvenimenti ristabilendo con la violenza il cattolicesimo in Inghilterra. Fragilità delle torri: Maria Tudor muore nel 1558, dopo quattro anni di regno. E Filippo vedovo richiede inutilmente il matrimonio con Elisabetta - questi due contemporanei non appartengono alla stessa epoca. Vien voglia di ridere, della nostra distanza, di quell'incredibile delicatezza, perché la distanza e l'umorismo sono un po' la stessa cosa. Non riuscito l'affare, occorre contentarsi di braccare volgarmente i Mori in !spagna, anche se la Spagna ne patirà mortalmente. Calder6n, sotto il regno del nipote,metterà in scena uno degli episodi più sanguinosi della faccenda, nella brutta commedia L'assedio dell' Alpujarra o Amare dopo la morte. Lo farà dall'angolo visuale dei Mori, benché zelante cattolico e obbedientissimo servitore di Sua Maestà. Parlare a questo proposito di « senso cavalleresco » non spiegherebbe gran che, e camufferebbe lo spirito dell'epoca camuffando la contraddizione. Del resto non si braccano soltanto i Mori. Si sta aprendo un periodo di pieno impiego spagnolo per l'Inquisizione. Nell'anno di grazia 1623, Lope de Vega non disdegnerà di prendervi una parte tanto attiva da spingere lo zelo, sembra, fino a veder bruciare coi propri occhi un certo Benito Ferrer. Obbligo professiona- 33 le, d'accordo: faceva parte dei « Familiari » dell'Inquisizione, vale a dire dei denunciatori patetici. Bisogna ammettere che fatti di questo genere danno qualche parvenza di fondamento a quella che gli Spagnoli malcontenti chiamano la «Leggenda Nera». Nel 1659, il francese Bertaut, Signore di Fréauville, che non ha nulla del rivoluzionario, nota con tranquilla indignazione, nel suo Journal de voyage, gli strani compiti dei Familiari e la strana impunità personale che essi garantiscono. Vi sono due modi di comportarsi davanti alla contraddizione. O trasformare il mondo per risolverla. Oppure squalificare questo mondo a vantaggio di un altro, dell'altro, il che rende la contraddizione sopportabile giustificandola una volta per tutte. Alla fine del XVIo secolo, un quarto degli adulti superstiti della Spagna, dove la popolazione non ha cessato di diminuire da alcuni lustri, è gente di Chiesa. Un'anima eletta che non abbia la vocazione delle armi (che comincia a perdersi), quale strada potrebbe sciegliere se non quella religiosa? Osservate piuttosto il numero dei preti-autori e degli autori-preti, a cominciare dal monaco Tirso de Molina per finire con Lope de Vega e Calder6n, che si fecero entrambi ordinare in piena gloria secolare si, anche qual grande amoroso, quel « mujeriego » di Lope. Probabilmente capita che si entri negli ordini, come si dice fece Gongora, il celebre manipolatore dello stile, semplicemente per non morire di fame. Ma questo caso superficiale non deve trarci in equivoco sulla profondità del fenomeno. Sul mondo di quaggiù il credente, l'uomo di fede Calder6n apre come Giobbe gli occhi della speranza e della desolazione - ma la speranza è per altrove, e la desolazione è per qui. Ombra, finzione, sogno, illusione (così parla il Principe Sigismondo nel La vita è sogno), il mondo di quaggiìt non è veramente reale. Come nutrirebbe la fame delle anime di buona razza? Nella poesia delle Lacrime sparse da un'anima pentita, il dolore giunge fin quasi a di- 35 34 sputare con l'Eterno su ciò che Gli appartiene, di là dell'idea di peccato: Ma se essere o non essere dipendesse dal mio volere, e avanti di farne esperienza potesse esser pesato, o meglio previsto, come soavemente nel Nulla dormirebbe in oziosa pace colui cui la nascita impone di non respirar senza gemere! Giacché se, d'aver creato l'uomo, quel che vi costò io soppeso, quanto non costerà a me, Signore, la fatica d'esser nato! La strofa seguente riprende, con l'idea del peccato, quella della responsabilità umana nel male del mondo: era tempo. Tempo di cessare il lamento sulla china della quasi eretica modernità. Il secolo d'oro è, soprattutto, il gran secolo del teatro spagnolo. Ciò non si spiega con l'abbondam:a o la qualità dei geni e delle opere. Il fenomeno letteralmente essenziale, a teatro, è il pubblico, senza il quale l'arte drammatica cessa d'essere se stessa e diventa altra cosa; si sarebbe addirittura tentati di spiegare inversamente le opere mediante il pubblico, se non fosse altrettanto artificioso; entrambi formano un unico fenomeno. Nella Spagna del tempo, e soprattutto nella Spagna di Filippo IV, il re, i grandi, il popolo sono affamati di rappresentazioni, di Funci6n, come la Bisanzio di Giustiniano di corse di carri. É una frenesia, una passione che ha qualcosa della tossicomania (come il gusto bizzarro delle donne eleganti per la terra da masticare). Ne Il grande teatro del Mondo, Calder6n fa dire ad uno dei suoi personaggi: «Da sempre, quel che più rallegra e ricrea, è lo spettacolo di teatro degno d'essere applaudito ». Si fa teatro dappertutto, in pubblico e in privato, a palazzo, in città, sul sagrato delle chiese e perfino nel- l'interno dei conventi. Un bonario regolamento del 1608 si limita a prescrivere per questi ultimi la rappresentazione di « commedie di devozione » esclusivamente. Si è cominciato col teatro ambulante; le scene portatili consentono di dar spettacolo fin nelle più sperdute campagne, e d'altra parte l'auto sacramenta!, commedia religiosa di circostanza, non ammetterà mai altro dispositivo. Ma le grandi città hanno avuto presto i loro teatri fissi, le corrales, spazi scoperti delimitati su tre lati dalle case comuni e sistemati ad hoc. Dal 1580, Madrid ne conta due celebri, siti ognuno nella strada di cui ripetono il nome: il Teatro del Principe ( anticamente della Pacheca ), e il Teatro della Croce, il preferito di Filippo IV, che ad un certo momento ebbe per amante un'attrice della sua compagnia, Maria Calder6n. detta « la Calderona». Queste sale danno rappresentazioni quotidiane, cosa che stupisce gli stranieri, e sempre esaurite; salvo il Mercoledì delle Ceneri e il Lunedì di Pasqua, riposo d'obbligo, e durante i lutti eli corte. Capita anche che la compagnia vada a dar spettacolo in casa di qualche privato di qualità. Si fa teatro, infatti, su qualunque pretesto, e la rappresentazione scenica festeggia qualsiasi ricorrenza. Privato o collettivo, patrizio o popolano, profano o religioso, l'avvenimento felice fornisce l'occasiont:. per comandare ai poeti in voga qualcuna di quelle opere, diverse per genere e per qualità, che vanno dalla farsa alla « grande commedia ». La domanda determina l'offerta: circostanza da tener presente. Essa è prodigiosa, e provoca l'incredibile fecondità d'un Lope (il quale si vanta d'aver imbastito una commedia in ventiquattr'ore) o di un Calder6n. L'abbondanza della dom;nda tuttavia non arricchisce molto i drammaturghi, le cui opere sono quotate a prezzi che ci paiono alquanto bassi. Nel 1640, una commedia di Calder6n (fabbricante molto stimato) si paga quattrocento reali, cento un atto unico, ed il reale vale soltanto trentaquattro maravedini, ossia la moneta spicciola dei poveri; nella stessa epoca, la minima ammenda per infrazioni al regolamento 36 sui teatri costa duemila maravedini. Si arricchisc~no di più gli attori, se sono famosi: nel 1632, l'attrice Maria de Cordoba, detta Amarilli, della quale Calder6n fa l'elogio nella Dama fantasma, guadagna ottocento reali, e tutte le spese di viaggio pagate, per due rappresentazioni a Daganzo e quattro il giorno del Corpus Domini, giacchè l'auto sacramenta! è quello che rende di più. Ma la domanda teatrale arricchisce ancor più i direttori di compagnia, gli « autori» nel vocabolario del tempo, i cui guadagni si esprimono in ducati (undici reali). La scena è un elemento essenziale nell'economia spagnola del secolo d'oro. Bisogna dunque fare teatro con tutto, l'attualità e la storia, le Scritture, l'agiografia, la mitologia, la filosofia e la teologia, le gesta dei principi e quelle dei villani. A parte le cose della fede, l'audacia beneficia dell'immunità teatrale. Vi sono sorprendenti annotazioni di costume nelle opere del prete Lope, il quale - a detta del puritano arcivescovo di Siviglia - aveva introdotto con le sue mille commedie più peccati nel mondo che non mille demoni. E Calder6n, sempre così sinceramente rispettoso del Potere, Calder6n che non ha nulla di satirico, trova naturale di far rappresentare sulle scene la vanità del potere, gli orrori della repressione, la miseria senza sbocco dei contadini, la cinica brutalità dei militari. Ciò che rallegra e ricrea di più, è lo spettacolo di teatro. L'interdizione di Filippo II concernente la commedia, abrogata in seguito dal medesimo sovrano, non ha pesato molto sul destino del teatro spagnolo. Di tanto in tanto, qualche spirito severo rivolge al sovrano un avvertimento sui pericoli spirituali rappresentati dal teatro così com'è. Si chiudono le sale, si assoggettano ad autorizzazione preventiva le rappresentazioni presso i privati. Nel 1646, il Consiglio di Castiglia reclama una riforma, e con essa « l'interdizione di quasi tutte le commedie che sono state rappresentate finora, in particolare i libri di Lope de Vega, che tanto hanno danneggiato i costumi ». Ma tutto ciò non dura . Nel 1648, lo stesso 37 Consiglio tronca il dibattito, rifacendosi all'autorità di San Tommaso: « Il Dottore angelico dichiara mal nati, duri, incolti e rozzi coloro che si oppongono a questo genere raffinato e onesto di divertimento ». Parole pesate dai teologi del Portogallo, consultati in materia dall'Arciduca Alberto, governatore di quel regno al tempo del re Don Filippo II nostro signore (che sta nei Cieli), nell'epoca in cui aveva proibito le commedie. Esse furono sufficienti, insieme con molte altre ragioni, perchè il medesimo Principe che le aveva interdette le riammettesse ». Fra le « altre ragioni », vi è la quota sugli incassi prelevata dagli ospedali. Le conclusioni del Consiglio Reale sono quanto mai interessanti: la commedia è buona in quanto è, alla fìn fine, « lo specchio della vita umana». Un teatro di questo genere non corrisponde ad un bisogno specificatamente estetico; l'idea del teatro come arte sarebbe qui un anacronismo. Se le pie processioni del Corpus Domini tendono a diventare rappresentazioni, al punto che si instaura l'abitudine di recitare dopo gli autos le jacaras, commediole buffe, ciò accade perchè lo spettacolo teatrale è qui innanzi tutto spettacolo, dove opera la sintesi fra celebrazione rituale e divertimento . Tutto avviene come se il secolo riuscisse a sopportare il mondo soltanto trasferendolo sulla scena. Tra la « festa » fabbricata per il piacere del sovrano e l'atto sacramentale la cui rappresentazione è quasi liturgica, non corre la distanza che a tutta prima si potrebbe supporre. Chiave (o « passe-partout ») che spiega, in modo particolare, l'opera teatrale di Calder6n; per raccapezzarvisi, occorre interrogare l'epoca sulla Festa . Sarebbe peraltro un errore dedurne che un teatro, le cui condizioni sceniche stanno in questi termini, debba essere valutato senza alcun riferimento a valori propriamente estetici. Oggi è piuttosto di moda cancellare in un drammaturgo (tanto più se è un classico) ciò che appartiene allo scrittore - stile, poesia, satira, ogni intento o qualità della scrittura - per metterne in risalto soltanto l'abilità nel lavorare per le scene. Reazione contro una certa pedan- 38 teria universitaria, di cui fa fino elencare i « granchi}>. E non v'è dubbio che niente batte la pedanteria universitaria, salvo la pedanteria anti-universitaria. Voler comprendere a questo modo, significa condannarsi a non comprendere nulla del teatro del secolo d'oro -- e non solo di esso. Questo teatro non risponde ad un bisogno specificatamente estetico, ma il valore d'arte gli si aggiunge per soprammercato, senza essere perseguitato (come avviene nè oiù nè meno nelle cattedrali e nelle pitture rupes~ri, che per noi sdno opere d'arte, come tutti sanno). E la sua perfezione artistica si verifica in modo particolare al livello della lingua che esso parla, o piuttosto che esso è. Questa lingua drammatica è il frutto di una elaborazione metodica, ora di evoluzione ora di rivoluzione, sin dalle origini del teatro castigliano che ci è pervenuto, vale a dire grosso modo sin dal xn secolo. Lingua esclusivamente poetica: la commedia in prosa non è ancora giunta, e non vi giungerà che raramente, ad ottenere diritto di cittadinanza. Le forme poetiche utilizzate dalla drammaturgia seguono regole complicate, combinando il ritmo metrico (numero delle sillabe o dei piedi) col ritmo strofico (allacciamento dei versi tra loro). E soprattutto sono numerose; una delle caratteristiche del genere chiamato commedia, sta appunto nella molteplicità delle forme poetiche che vi si incontrano. La scelta di questa o quella forma è inseparabile dall'andamento drammatico, giacchè teatro e poesia nell'opera non possono essere separati; in proposito si è espresso Lope de Vega. teorico oltrechè praticante, nella sua Nuova arte di fare commedie. Grazie (e non nonostante) la sua forma poetica, questo teatro è un teatro popolare. L'opera ad uso dei letterati o delle persone di gusto non esiste. Il mangime scenico offerto all'appetito del Principe è il medesimo offerto ai più umili sudditi. Le commedie raffinate di Calder6n (si è parlato, per esse, d'intellettualismo) si rivolgono allo stesso pubblico di quelle da lui composte nei generi 39 minori richiesti dall'organizzazione materiale della rappresentazione, o dal trionfo di un Cosme Pérez, detto Juan Rana, negli intermezzi in cui recita la parte di gracioso. Questo pubblico accede immediatamente all'azione concettuale dell'auto come alla fantasticheria vis~va e pseudo-mitologica del Fetonte, figlio del Sole. E un pubblico estremamente composito. Nel recinto delle corrales vi sono preti e laici, nobili e gente dappoco. e i palchetti eleganti costano il prezzo proibitivo di diciassette reali e mezzo, poca moneta spicciola è sufficiente per accedere alla platea ed assistere allo spettacolo in piedi. Bertaut annota nel suo Journal: «Vi sono dei luoghi o sale, che a Madrid chiamano corra!es. sempre pieni di tutti i mercanti e di tutti gli artigiani, che lasciano le loro botteghe per andarsene là con cappa, spada e pugnale, e che si chiamano tutti Cabal!em nerfino i calzolai ». ' Il regno degli istrioni, si diceva a quel tempo. Più ancora il regno del pubblico. Bertaut continua: «E sono essi a decidere se la Commedia è bella o no, e, siccome fischiano o applaudono e stanno da una parte e dall'altra in fila, oltre che fare una specie di salve, li chiamano Masqueteros, di modo che la buona sorte degli autori dipende da loro. Mi hanno raccontato che uno di questi autori andò a trovare uno di quei Masqueteros, e gli offrl cento reali perchè fosse favorevole alla sua commedia, ma egli rispose fieramente che si sarebbe visto se era bella o no; ed essa fu fischiata ». Questo pubblico-re naturalmente ha i suoi autori favoriti, le cui opere apprezza più di tutte le altre. Calder6n è di costoro, fino a diventare il fornitore ufficiale delle autorità comunali in autos sacramentales. Ma i più amati tremano al pensiero di non piacere a tale spettatore turbolento, il cui gusto è legge. Nei Tre castighi in uno solo, dello stesso Calder6n, un iì.glio leva la mano sul padre (putativo, ma il pubblico ancora non lo sa): i fischi sibilano fra il pubblico indignato. E le nostre rappresentazioni piì1 tempestose danno appena un'idea del pandemonio cui quel pubblico si abbandona se la 40 commedia non lo interessa, senza riguardo per i malcapitati attori che non ne possono nulla, e la cui recitazione è alla mercè di una folla che in parte si è intrufolata all'ingresso da « portoghese » - perchè questo è un esercizio talmente alla moda che l'autore-attore Agustin de Rojas ci ha composto sopra un prologo. L'appello all'indulgenza che conclude ritualmente le commedie del tempo, va preso alla lettera. MrcHELINE SAUVAGE Vita e fortuna di Pedro Calderon de la Barca Pedro Calder6n della Barca nacque a Madrid il l 7 gennaio 1600 da una famiglia appartenente ~lla piccola nobiltà . Il 14 febbraio dello stesso anno venne battezt:ato nella Chiesa di S. Martino. Nel 1609 entrò come allievo nel Collegio Imperiale di Madrid tenuto dai Gesuiti e quindi dal 1615 :1l 1620 fu studente presso l'Università di Salamanca, dove seguì i corsi di teologia nell'intento di poter diventare titolare di una cappellania appartenente alla sua famiglia. Durante gli anni di studio, probabilmente nel 1613 compose la prima opera di cui ci resti memoria, Il carro del cielo. Molto attivo, prima dei 20 anni scrisse alcune opere teatrali, traendo lo spunto soorattutto dalla beatificazione di S. Isidoro e dalla canot~hzazione di S. Teresa, S. Ignazio e S. Francesco Saverio. Rientrato a Madrid, abbandonò ogni progetto di cappellania e si diede alle lettere ottenendo nel 1622 il 3• premio ad un concorso letterario istituito in onore di S. Isidoro. In quella occasione venne pubblicamente complimentato da Lope de Vega il quale si felicitò con lui per aver ottenuto « in anni verdi lauri che il tempo accorda di solito soltanto ai capelli canuti». Accrebbe intanto il suo interesse al teatro e nel 1625 abbracciò la carriera militare, la quale tuttavia non gli impedì, nel corso dei dieci anni in cui prestò servizio in Lombardia e nelle Fiandre, di portare a termine numerosissime opere. Nel 1629 fu coinvolto in uno scandalo: suo fratello Diego essendo stato pugnalato a tradimento dall'attore Pedro de Villegas, il quale dopo il delitto cercò rifugio nel convento delle Trinitarie, Calder6n con gli amici fecero irruzione nel chiostro per arrestare il colpevole. Dal pulpito il predicatore gongorista Hortensio 42 de Paravicino tuonò contro il sacrilegio. Calder6n rispose indirettamente a queste critiche inserendo nel Principe costante alcune allusioni ironiche alla moda di predicare in modo tronfio e rettorico, e venne imprigionato. Non fu questo il solo caso in cui lo scrittore si trovò in contrasto con gente del mondo del teatro. A questo proposito si ricorda un clamoroso scontro avvenuto con un altro attore nel 1640 nel corso delle prove di uno spettacolo. Dopo i soggiorni in Italia e nelle Fiandre, nel 1635 fu richiamato a Madrid dal re Filippo IV. Nello stesso anno presentò due delle sue opere più famose: La vita è sogno e Il mago dei prodigi. Nel 1636 conquistò il favore della corte con gli intermezzi Las tres mayores prodigios e ottenne la nomina a cavaliere dell'Ordine di Santiago. Sempre del 1636 è la comparsa del primo volume delle sue commedie; quella del secondo, a cura di Don Josè Calder6n, è del 1637. Nel 1640 combattè contro i catalani e nel 1641 fu inviato in missione militare a Madrid. Si congedò nel 1642 e nel 1645 gli venne accordata una pensione mensile di trenta corone d'oro, il cui pagamento però non avvenne sempre puntualmente, sl da provocare le vivaci lagnanze del poeta. È probabile che sia entrato per qualche anno al servizio del Duca d'Alba e che proprio durante tale periodo gli sia nato un figlio naturale di nome Pedro Josè: non si hanno notizie sulla madre. Ad ogni modo nel 1649 fu richiamato a Madrid dal re. Nel 1651 si fece ordinare sacerdote e, non avendo ottenuto l'incarico ecclesiastico desiderato a Toledo, dichiarò che per vendetta non avrebbe più scritto per il teatro. Fu rabbonito nel 1658 con la nomina a Cappellano dei Reyes Nuovos a Toledo. Nel1663 entrò nella Congregazione di S. Pietro, di cui diventerà il Superiore nel 1666, e fu nominato Elemosiniere onorario di Filippo IV. Nel 1664 uscl il 3o volume delle sue commedie, a cura di Domingo Garda Morràs. Intanto nel 1662 era incappato in una piccola disavventura, cioè nella proibizione del suo auto sugli Ordini militari; l'opera, corretta, potè essere rappresentata solo nel 1671. Nel 1672 apparve il 4o volu- 43 me d~lle commedie, a cura di Joseph Fernandez de ~uen~1a, e nel 1677 il Y, a cura di Antonio La Caballena. Smo alla vigilia della morte continuò a scrivere alacremente. Calder6n !"llorl a Mad~id il 25 maggio 1881 al sommo della glona, come testimonia una lettera che un anno prima gli aveva scritto il Duca di Veracrua per pregarlo di stendere un elenco delle sue opere. Il dram~atu~go. fu inumato nella Chiesa di S. Salvador, dove nposo smo al 1840, quando i suoi resti vennero traslati nel cimitero. di S. Nicola,. D~l 1869 le spoglie del poeta sono state sistemate nell antico convento di S. Francisco trasformato in Pantheon. . ~on~ attribuite a Calder6n 120 opere drammtaiche suddivise In commedie di costume, di cappa e spada, storiche_ o filosofiche, religiose. A tale produzione deve essere ag~n;nta quella di 8~ a~tos,. cioè atti unici a soggetto religwso rappresentati di sohto all'aperto su carri sontuosamente parati, in occasione di ricorrenze collegate col calendario liturgico. Esisto?~ autori. c.he, per loro natura, sono segni di contraddlZlone. Dividono la critica suscitano calorosi entusiasmi o sdegnose avversioni, l~di deliranti o condanne implicabili. Pedro Calder6n della Barca è uno di q~es~i. autori. Basta scorrere la critica, i repertori di gmdizi per avere un'idea dello scontro d'opinioni al cent;o del quale si tr?va il ~ra~de scrittore spagnolo ?el ?OO. Per quanto nguarda 1 gmdizi moderni italiani e utile la lettura del volumetto di Carmelo Samonà: « Ca~der~n nella critica italiana », edito dall'editore Feltnnelli nella collana di studi filolocrici moderni dell'Università di Pisa. b . Sin d~lle prime pagine del libro del Samonà ci si Imbatte m giudizi furenti: ad esempio quelli pronunciati dal Carducci, il quale negli autos sacramentales annusa « leppo di bruciaticcio ». In quei pii componi- 44 menti il poeta italiano ode « un suono ottuso e sordo » « come di ferri acuti che si affondano con moto regolare e monotono in tante masse carnose», sicchè, pensando alla Spagna cattolica di cui Calderon fu espressione, egli esclama: « poveri giudei di Castiglia! nobili mori di Granata! generosi e improvvidi Incas! ». Lo stesso Carducci non esita ad ironizzare beffardamente su quei romantici (Schlegl, Tieck, Novalis, Werner) che, rinnecrando «la confessione di Martin Lutero », osarono in~eggiare al drammaturgo spagnolo. Sebbene il linguaggio sia più castigato e le argomentazioni diversamente atteggiate, non si può dire che neppure in Benedetto Croce si ravvisi molta simpatia per il Calderon. Sarebbe tuttavia un grave errore ritenere che lo scontro critico abbia, come talora le apparenze potrebbero far ritenere, un fondamento confessionale: favori religiosi, avversioni laiche. A ben guardare, infatti, la spiegazione del contrasto si trova essenzialmente nel diverso concetto dell'arte professato dai critici che si accostano a Calder6n. In sostanza, in primissimo luogo, si tratta di una differenza di mentalità e di credo estetico. Da un lato critici razionalisti, naturalisti, talora classicheggianti, talora positivisticamente progressivi, dall'altro critici sensibili all'irrazionale, alla costruzione fantastica, ai giuochi spericolati della materializzazione dell'astratto e dell'astrattizzazione del concreto. Ciò spiega, come osserva lo Spitzer, l'interesse che per il drammaturgo spagnolo ha avuto la cultura moderna, dal romanticismo all'espressionismo, nelle sue manifestazioni di accensione più violenta. Non intendiamo qui avventurarci in una analisi dei rapporti della critica con Calder6n; vogliamo semplicemente rilevare come, a dispetto di talune avversioni irriducibili, lo scrittore spagnolo abbia potuto appassionare taluni degli spiriti più moderni e culturalmente impegnati del nostro secolo e come l'incontro con le sue opere, lungi dall'aver rappresentato un tuffo nel passato, sia stato sempre una eccitante esperienza di rinnovamento e di revisione culturale. 45 1 l Se non fosse così, difficilmente ci potremmo spiegare la fortuna di Calderon nel nostro secolo ed in particolare la fortuna presso alcuni dei teatranti più avanzati e più coraggiosi nello sperimentare. Prescindendo dalla Germania che è il paese, come rileva Micheline Sauvage, dove « Calderon resta più vivo come drammaturgo », basterà ricordare l'interesse che per lo scrittore hanno dimostrato in Francia prima Dullin, poi Vilar e più recentemente ancora Planchon, cioè tre uomini impegnati in un teatro popolare antidemagogico. Non è neppure privo di significato che il Piccolo di Milano nella sua prima stagione (1947) abbia allestito con la regia di Giorgio Strehler Il mago dei prodigi di Caldeton. Ed è forse ancora più significativo che durante la guerra civile spagnola, il primo spettacolo del Teatro de Arte y Propaganda diretto da Maria Teresa Leòn comprendesse un intermezzo dello stesso Calderon. Giova ricordare che Maria Teresa Leòn è moglie di Rafael Alberti e che lo stesso Alberti non nasconde d'aver subito una certa influenza calderoniana. Ad ogni modo due, tra i personaggi che nel nostro secolo hanno rivolto la loro attenzione a Calderon ed in particolare alla Devozione alla Croce, ci sembrano indicare in modo esemplare, sebbene in diversa forma il senso che oggi può avere proporre al pubblico un'o~ pera del drammaturgo spagnolo. Alludiamo a Vsevolod Emilievic Meyerhold e Albert Camus. É sufficiente sfogliare il volume « La rivoluzione teatrale » 1 per rilevare con quale insistenza Meyerhold pensasse all'opera .cal?eroniana. Già nel 1908, progettando un repertono tn certo modo ideale, egli cita esplicitamente Shakespeare, Calderon e Molière, osservando che il realismo di questi autori « pur senza evitare il costume, lo 1 . V. E. Meyerhold La Rivoluzione teatrale, a cura di Giovanni Crmo; traduzioni di G. Crino e Irina Malyscev, Liliana Piersanti; Roma, 1962. 46 supera, perché cerca soltanto il simbolo, l'essenza mistica delle cose. É questo « superamento » che interessa Meyerhold. Il regista accenna ripetutamente parlando della recitazione moderna dell'attore e vi ritorna sopra nel '28 parlando della costruzione drammaturgica dello spettacolo: «Nel vecchio teatro l'elemento statico veniva rafforzato anche dalla divisione in atti. Ma prima ancora nel teatro di Shakespeare e in quello spagnolo (Calderon, Lope de Vega, Tirso da Molina), aveva corso una divisione in quadri e in episodi che si succedevano rapidamente. L'azione si sviluppava su numerosi piani. Anche noi miriamo a questo. La divisione in episodi permette di costruire un'opera in maniera più ingegnosa, di meglio rivelare l'essenza del personaggio, di evitare allo spettatore ogni senso di fatica ». Nel 1933, parlando dell'« Ideologia e tecnica del teatro », il regista russo espone chiaramente la sua concezione tipicamente moderna e funzionale dello dice ma spettacolo. «Non solamente l'attore ancor più chi organizza lo spettacolo deve comprendere con la massima chiarezza i compiti che lo spettacolo si propone. In ogni opera che viene messa in scena esiste una determinata tendenza. Soprattutto sbagliano a questo riguardo i drammaturghi occidentali: « Che cosa ci può essere di buono - essi dicono - in un'arte tendenziosa? Che cosa ci può essere di buono in un'arte di agitazione? Questa non è arte». Essi dimenticano che non esiste una sola opera, scritta dai migliori drammaturghi inglesi, francesi o giapponesi, che non sia tendenziosa. Se consideriamo un'opera tra le migliori che siano mai state scritte, inevitabilmente troveremo che contiene un'idea profonda diventando così tendenziosa. Quest'opera fa infatti appello a tutti i mezzi dell'arte teatrale per contagiare lo spettatore con questa idea, per « lavorarlo ». Dopo di che soggiunge: « Prendiamo ad esempio Calderon. Egli ha delle opere di contenuto filosofico ed altre di contenuto religioso. 47 In ciascuna, sia nelle prime che nelle seconde, vive una grande idea che si propone di mobiliare lo spettat?re, affinché, dopo aver assistito allo spettacolo, egli s1 senta preso dall'idea in questione e ne diventi fautore ». «L'adorazione della C1'0ce 2 • Quest'opera fu messa in scena due volte. Il primo allestimento, nel Bascennyi teatr (teatro della torre) presso V. Ivanov è stato descritto da E. Znosko-Borovski nel n. 8, 1910 di Apollon_. ~ella rappresentazione di Terioki, i prindpi gener?h nmasero immutati; ma si distingueva l'aspetto estenote dello spettacolo: gli scenari e la mise en scène. Anche qui tutto era semplificato al massimo; in sostanza non vi erano scenari. Si cercava soltanto di creare un. ambiente che aiutasse la recitazione degli attori e in cm potesse esprimersi nel mialior modo lo spirito di Calderon. "' « La scena rappresentava una grande tenda bianca. Attraverso il telo posteriore, tagliato in sottili strisce verticali, entravano ed uscivano di scena gli attori. Que~to telo bianco, su cui erano disegnate una serie di c~oc1 ?lu, er~ il limite simbolico che divideva il luogo d1 azwne di quest'opera, a ispirazione cattolica. dal mondo esterno (ostile). Sul t elo superiore della tenda nei triangoli che ne formavano i lati, erano disecrnat~ delle stelle. Ai lati della scena si trovavano alti "lampioni bianchi. Dietro di essi, coperte da una carta opaca, splendevano delle lampade, ma i lampioni stavano là soltanto come simboli, mentre la scena era illuminata (la ribalta mancava) dall'alto e dai lati. Non avveniva alcun cambiamento di scena. Soltanto nella seconda jornada, per mostrare che l'azione si svolgeva in un monastero, due adolescenti, al suono monotono di una campana proveniente dalle quinte, portavano in scena un grande paravento bianco a tre ante, su cui era di2 Titolo adottato, in luogo de La Devozione alla Croce, dai traduttori ira!iani del gi à citato libro di Meyerhold. 48 pinta una fila severa di santi cattolici. In generale, la severità, la tetraggine e la semplicità dell'atmosfera si ottenevano con l'uso del colore bianco; sulla tenda e sui pavimenti erano tracciati in blu solo i contorni delle figure (molto semplici e austere). Lo spettatore doveva vedere chiaramente che gli scenari non avevano qui la minima importanza: era importante soltanto l'interpretazione degli attori L'ambiente costituiva solo la pagina su cui il testo era scritto. Tutto ciò che era collegato all'ambiente era chiaramente convenzionale. « Gli interpreti non erano legati agli alberi: non vi erano alberi sulla scena. Gli attori si appoggiavano soltanto ai due pali che limitavano in primo piano il palcoscenico e che appartenevano all'edificio del teatro. Le corde poste sulle loro mani non potevano legarli, perchè erano appena appoggiate su di esse. Il contadino Gill, allorchè doveva nascondersi tra i cespugli, si drappeggiava addosso un lembo del sipario. Alla fine della rappresentazione, Eusebio, ferito a morte, nel passare correndo sulla scena, si vedeva "la strada sbarrata dalla Croce". Così accadeva letteralmente. Nel momento in cui Eusebio stava per cadere, una croce di legno bruno era portata fuori e posta dinanzi a lui da un adolescente vestito di nero ». Niente meglio di questa paginetta può darci un'idea della possibilità di « nuovo teatro » offerta da Calderon. Nel 1953 Albert Camus ha tradotto La devozione alla Croce e quindi, nel giugno dello stesso anno, essendosi ammalato il regista Marcel Herrand, curò personalmente la regia dello spettacolo presentato al Festival di Angers. Ci sembra interessante citare integralmente la piccola prefazione premessa da Camus a questa sua versione calderoniana. «La devozione alla Croce, più volte tradotta non ha atteso questa nuova versione per essere conosciuta dal lettore francese. Tuttavia Marcel Herrand, sedotto da questo stravagante capolavoro, ha deciso di darne tre rappresentazioni, quest'anno, in occasione del festival d'arte drammatica che egli organizza nel cortile del 49 castello d'Angers. A tal fine egli desiderava un testo che, pur sforzandosi di rimanere fedele alla lettera e al tono dell'originale, fosse al contempo dicibile e recitabile agevolmente. Scritta dietro sua richiesta, la presente traduzione, benchè non riesca a soddisfare completamente a tale esigenza, si industria a farlo. Non si tratta di una riduzione, in quanto tutto il dialogo di Calder6n è conservato. L'obiettivo è soprattutto quello di fornire un testo per lo spettacolo, scritto per attori. In altre parole la traduzione cerca di far rivivere uno spettacolo, di ritrovare il movimento di quella che fu all'origine una commedia recitata dinanzi ad un pubblico popolare, in sostanza una sorta di melodramma religioso, a metà strada tra i misteri e il dramma romantico. Sono stato aiutato nel mio compito dall'audacia di pensiero e di linguaggio del più grande genio drammatico che la Spagna abbia prodotto. La grazia che trasfigura il peggiore dei criminali, la salvezza scaturita dallo stesso eccesso del male, sono per noi, credenti o miscredenti, temi familiari. Ma, ben tre secoli prima di Bernanos, Calder6n proclamò, e illustrò in modo provocante, nella Devozione, quel "Tutto è grazia" che tenta di rispondere nella coscienza moderna al "Niente è giusto" dei miscredenti. In tale occasione mi considererei soddisfatto se questa nuova traduzione potesse far risaltare la giovinezza e l'attualità del teatro spagnuolo ». Queste righe di Camus, apparentemente distaccate e formali, racchiudono alcune delle più appassionate testimonianze di ammirazione che siano state tributate a Calder6n. La cosa non deve stupire in quanto sarebbe inesatto ritenere che la traduzione della Devozione sia stata per Camus semplicemente una sorta di « peso » affrontato per compiacere un amico. Non fu un incontro casuale. Già nel 1937, dando vita nella nativa Algeria ad una giovane compagnia denominata « Théatre de l'équipe )> (il teatro è sempre stato una delle passioni di fondo di Camus e come egli ha detto tale passione, 51 50 1 con la letteratura, era « au centre de ma vie» ' ), po· neva Calder6n tra gli autori del suo cartellone ideale. Tale scelta acquista un preciso senso se non si dimentica quale concezione del teatro Camus avesse sin da quegli anni giovanili. « Il teatro - scriveva nel programma del "Théatre de l'équipe " - è un'arte di carne che affida a corpi vibranti il compito di tradurre i suoi messaggi, un'arte al contempo grossolana e sottile, un accordo eccezionale di movimenti, di voci e di luci. È però anche la più convenzionale delle arti, fatta della complicità di attori e di spettatori i quali concot· rono a formare, con scambievole e tacita intesa, la stessa illusione. È cosl che, da un lato, il teatro serve naturalmente i grandi sentimenti semplici e ardenti attorno ai quali ruota il destino dell'uomo (e quelli soltanto): amore, desiderio, ambizione, religione. Men· tre d'altro lato soddisfa al bisogno di costruzione che è naturale nell'artista. Questo contrasto fa il teatro, lo mette in grado di servire la vita e di commuovere gli uomini». Sono parole giovanili nelle quali però si avverte quella drammatica e costruttiva concezione della vita e dell'arte proprie di Camus. Molti anni dopo, nel 1955, dopo aver già portato in scena La Devozione alla Croce , in un elenco di testi con i quali avrebbe desiderato misurarsi, ritroviamo due capolavori calderoniani: Il mago dei prodigi e La vita è sogno. Calder6n figura anche tra gli autori di cui Camus caldeggiò l'inclusione nelle prestigiose edizioni della « Pléiade ». Questa costanza di interessi spiega 3 Gli scritti di Camus sul teatro sono numerosi e sempre acuti. Lo scrittore ha sempre sentito il teatro in modo molto concreto, anche se ad un raffinato livello intellettuale. A provare la natura di tale rapporto è sufficiente una frase realistica come la seguente: «Un autore, se non lavora con gli attori, sul palcoscenico, ha poche possibilità di trovare quel testo in azione, che esprime direttamente il personaggio nel momento stesso in cui trascina l'attore ». come possa essere riscontrabile nel teatro di Camus ed in particolare nell'Etat de siège una reminiscenza dei tipici procedimenti tecnici dell'auto calderoniano. Gusto della realtà e della trasfigurazione della realtà, contrasto esasperato di sentimenti elementari, coscienza di un libero giuoco scenico, costante consapevolezza di una funzione del teatro all'interno di una collettività, occasione per superare il grigio tran tran del teatro borghese, piacere del giuoco, del meraviglioso e anche, perchè no, dell'incantesimo, sono alcuni degli elementi che uomini come Meyerhold e Camus hanno riscontrato nel teatro di Calder6n. Questi stessi elementi sono gli spunti sui quali si fondano il loro interesse e la loro riproposta del grande scrittore secentesco spagnuolo. Questi elmenti ci sembrano ancora sostanzialmente validi, anche perchè ci sembra che in opere come la Devozione sia possibile vedere schematizzati e ingigantiti in una allucinante evidenza alcuni tratti inconfondibili e fondamentali dell'animo mediterraneo. In queste note potremmo aggiungere il nome di Grotowski, che recentemente ha presentato anche in Italia il suo spettacolo legato al nome di Calder6n Principe costante. Si tratta indubbiamente di una riprova di interesse del teatro più moderno nei confronti del drammaturgo. Tuttavia, nel caso specifico la riprova ci sembra mediata ed indiretta (non per questo meno valida, anche se di validità diversa), in quanto il Principe costante presentato da Grotowski passa attraverso una tradizione tipicamente polacca di rielaborazione del tema. Per questo motivo ci limitiamo in questa sede a dedicare un solo accenno all'esperienza calderoniana del Teatro Laboratorio di Wroclaw. Calder6n non è uno degli autori più rappresentati nel nostro secolo; tuttavia si può constatare che le rappresentazioni calderoniane sono in realtà molto più frequenti 52 di quanto a tutta prima non si possa ritenere, soprattutto allargando il campo di osservazione dalla scena nazionale a quella europea. Riteniamo pertanto interessante fornire un rapido panorama delle principali interpretazioni avvenute negli cltimi decenni. In Francia la Vita è sogno è, come è facile immaginare, l'opera di Calder6n che ritorna più frequentemente nei cartelloni. Charles Dullin la mise in scena nel settembre del 1921 al teatro Atelier e la riprese nel giugno del 1922, su invito di Copeau, al Vieux-Colombier. L'attore riprese ancora una volta il capolavoro calderoniano nel 1945 al teatro Sarah Bernhardt ed in tale occasione assunse il ruolo di Basilio, cedendo a A.M. Julien quello del principe Sigismondo che egli stesso aveva interpretato nelle precedenti edizioni. L'opera era talmente cara a Dullin che nel 1958 A.M. Julien, volendo rendere omaggio al grande attore, la riallestl, in spettacolo all'aperto, a Digione, nel quadro delle « Nuits de Bourgogne », affidando a Daniel Ivernel il personaggio di Sigismondo, a Jean Marchat quello del re Basilio, a Françoise Spira quello di Rosaura e a Miche! Galabru quello di Clarin. È da ricordare l'edizione de La vita è sogno allestita nel corso della stagione 1951-52 al Théatre de la Comédie di Lione da Roger Planchon. L'opera è stata inclusa anche nel cartellone della stagione 1963-64 della Comédie de Bourges diretta da Gabriel Monnet. Pure a Dullin si deve, nella stagione 1935-36 dell'Atelier, un allestimento del Medico del suo onore. L'Alcade di Zalamea è stato presentato dalla Comédie de L'Est nel 1955 a Parigi nella sala del teatro Hébertot con la regia di Daniel Leveugle e le scene di Abd-el-Kader Farrah. La stessa opera fu trasmessa nel novembre del 19.52 dalla Radio francese. Anche Roger Planchon nella stagione 1954-55 presentò a Lione L'Alcade calderoniano. L'Alca~!e di Zalamea fu inserito da Te:m Vilar nel cartellone del Festival di Avignone del Ì961. Lo stesso Vilar 53 curò la regia dello spettacolo che ottenne un successo festosissimo, sicchè l'allestimento fu ripreso nel corso dell'inverno successivo nella normale stagione del T.N.P. Interpreti principali di questa famosa edizione furono lo stesso Jean Vilar, Christiane Minazzoli, Geneviève Rrunet, Michel Galabru. Dell'edizione de La devozione alla Croce tradotta da Camus per il Festival d'Art Dramatique d'Angers, giugno 1953, abbiamo già detto. Aggiungiamo tuttavia che in tale occasione Maria Casarès fu Giulia, Serge Reggiani Eusebio, Jean Marchat Curzio, Jean Vinci I.isandro. La traduzione di Camus fu ripresa nell'estate del 1961 da George Vitaly che presentò la Devo:zione nel corso delle « Nuits de Bourgogne »: con l'Alcade diretto da Vilar, questa Devozione costituì uno dei più grossi successi dell'estate teatrale francese 1961. Meno frequenti le rappresentazioni delle commedie calderoniane di intrigo: tra le più recenti ricordiamo quella di Casa a due porte (ribattezzata Mantilles et Mystères) curata da Léon Ruth nel 1958 e presentata al Théatre Montpensier di Versailles, quindi ripresa nel novembre dello stesso anno al Théatre Michel di Parigi con la regia di Emile Dars . Segnaliamo ancora un'edizione de La giustizia del Re ricavata da Jean Bovey da un testo calderoniano e allestita nel 196 3 da J acques Mauclair. Come abbiamo già detto, la Germania è il paese dove Calder6n continua a suscitare i più assidui interessi. Si tratta di un'eredità che risale all'epoca romantica. A questo proposito basterà ricordare che nei primi decenni del secolo scorso Calder6n figurava nei repertori dei teatri di Weimar, Colonia, Diisseldorf, con opere come Il principe costante e La figlia dell'aria; celebre è rimasto l'allestimento curato nel 1836 da Charles Immemrmann del Mago dei prodigi. Tra gli allestimenti dell'ultimo ventennio ricorderemo quello, molto ammirato, de Il più grande sortilegio curato da uno dei registi calderoniani più zelanti della sce- 54 na tedesca: Heinrich Kock, il quale ha al suo attivo anche una celebre edizione de La vita è sogno. Di quest'ultima opera, considerata il capolavoro del drammaturgo spagnolo, le rappresentazioni tedesche sono innumerevoli. Oltre a quella già citata, ne ricorderemo soltanto tre: una presentata dal Kammerspiel di Monaco nel marzo 1950 in occasione del 350° anniversario della morte dell'autore, regista Peter Liihr, protagonisti Andreas Wolf e Agnes Fink e le due realizzate rispettivamente nel marzo 1952, e nel dicembre 1957 utilizzando la traduzione di Max Kommerell. La prima allestita allo Schauspielhaus di Diisseldorf restò famosa per la distribuzione di primissimo ordine (Horst Caspars, Antje Weisgeber, Rudolf Therkatz) e per l'audace mescolanza di realismo e di stilizzazione sia nella scenografìa che nella recitazione. La seconda, meno spregiudicata, è dovuta allo Schauspielhaus di Bochum, regista Harold Benesh, scene (stilizzatissime, con una punta di espressionismo) di Ma x Fritzsche, protagonisti Rolf Boysen e Claus Clausen. Tra le commedie di intrigo rappresentate in Germania ricordiamo in particolare La dama fantasma (o folletto, come tradussero alcuni autori), ribattezzata Dame Kobold. Molta fortuna (più che nella stessa Spagna) hanno in Germania gli autos, tra i quali in particolare Il gran teatro del mondo compare con notevole frequenza nei repertori. Non è il caso di parlare della Spagna dove ovviamente Calder6n è di casa e dove le sue opere ritornano con frequenza sia nei cartelloni dei teatri professionistici, sia in quelli (specializzati di solito in autos) dei teatri universitari. Per quanto riguarda l'Italia, abbiamo già ricordato l'edizione del Mago dei prodigi curata da Srehler al Piccolo nel 1947. Aggiungiamo, trattandosi di una regia giovanile di Gianfranco De Bosio, lo stesso regista dell'attuale Devozione alla Croce, l'allestimento dell'autosacramental La 55 Devozione alla Messa effettuato dalla Compagnia del Teatro Universitario di Padova nel giugno del 1949. Questo spettacolo fu presentato nella Chiesa di S. Salvatore al Monte a Firenze in occasione di una Conferenza internazionale del Teatro Giovanile organizzata dall'Azione Cattolica. Aiuto regista e istruttore dei mimi era Jacques Lecoq, scenografo Mischa Scandella, autore dei costumi M. Goldschmiedt, delle maschere Amleto Sartori, consulente musicale il maestro Ermanno Colarocco Interpreti (riproduciamo i nomi nell'ordine in cui figurano nel programma dell'epoca): Giocondo Cassini, Giuliana Pinori, Livia Dudan, Tina Gullo, Giancarlo Gonfiantini, Carlo Mazzone, Lieta Carraresi, Ennio Amadio, Aldo Businaro, Giuseppe Zampiron, Nora Fabbri, Agostino Contarello, Mario Scaccia, Rolf Tasna. Ricordiamo ancora l'edizione de La Devozione alla Croce curata da Franco Enriques per il Teatro Sant'Erasmo di Milano ( 10 gennaio 1958) e presentata nella traduzione Rebora; tra gli interpreti: Raoul Grassilli, la Menichetti, G.M. Volonté, Diana Torieri, Camillo Milli; scene di Gianmaria Pediconi. In questo dopoguerra Calder6n è ritornato in Italia con una certa frequenza nei programmi della RAI. Concluderemo perciò questa nota con l'elenco delle opere calderoniane trasmesse dalla radio italiana. La contesa matrimoniale del corpo e dell'anima, traduzione di M. Pucci, adattamento G. Guarda, regia di Alberto Casella interpreti: Roberto Villa, Giorgio Piamonti, Renato Caminetti, Elena da Venezia, Enrico Maria Salerno, Gemma Griarotti, Enzo Giovanpietro, Giotto Tempestini, Gino Pestelli, Giovanna Galletti, Rita Savagnone, Dario Dolci. L'opera è andata in onda il 2 novembre 1951 (Terzo Programma). La vita è sogno, traduzione di G. Pacuvio, regista Corrado Pavolini; interpreti: Giovanna Galletti, Giorgio Piamonti, Carlo D'Angelo, Fernando Farese, Franco Luzzi, Raoul Grassilli, Mila Vannucci. L'opera è andata in onda il 12 novembre 1954 ed è stata ritrasmessa nell'a- 56 prile e nel luglio del 1958 e nell'aprile del 1963 (Terzo Programma). La morte, traduzione di F. Tentori, regia di Nino Meloni; interpreti: Italo Carelli, Italo Pirani, Silvio Noto, Renato Turi, Deddy Savagnone, Franco Pucci, Carlo Cecchi, Renato Izzo, Franco Latini, Tatiana Farnese, Gilberto Mazzi, Nora Pangrazy, Gisella Sofìo. L'opera è stata messa in onda il 22 dicembre 1954 ed è stata ritrasmessa il26 dicembre 1954, il15 settembre 1955 ed il 29 agosto 1958 (Terzo Programma). L'Alcade di Zalamea, traduzione e adattamento di Giulio Pacuvio, regia di Giulio Pacuvio; interpreti: Nino Marchesini, Camillo Filotto, Renato De Carmine, Renato Navarrini, Edda Valente, Carlo Ninchi, Alessandro Sperlì, Carlo Delmi, Anna Menichetti, Maria Teresa Lauri, Mario Righetti, Mario Licalsi, Antonio Coccia, Gianni Spataro. L'opera è stata messa in onda il17 marzo 1959 (Programma Nazionale) ed è stata ritrasmessa il 22 dicembre 1959 (Programma Nazionale), il 16 marzo 1961 (Secondo Programma), il 22 giugno 1963 e il 17 agosto 1965 (Programma Nazionale). Il grande teatro del mondo, riduzione e versione di Luciano Folgore, regia di Pietro Masserano Taricco; interpreti: Salvo Randone, Angelo Calabrese, Ubaldo Lay, Nella Bonora, Edda Soligo, Gemma Griarotti, Tino Carraro, Edoardo Toniolo, Renato Cominetti, Loretta Lamoglie, Fernando Solieri. L'opera è stata messa in onda il 15 agosto 1963 ed è stata ritrasmessa il 26 dicembre 1963 e 1'8 dicembre 1965 (Terzo Programma). CRM. Commedia famosa de la DEVOZIONE ALLA CROCE N elle pagine che seguono abbiamo 1·iunito tre inte1·essanti e diversamente angolati contributi critici sulla Devozione alla Croce (o Devozione della Croce, come taltmi studiosi p1·e/e1·iscono scrivere). Ci è sembrato indispensabile, e non soltanto utile, accostare voci diverse in quauto il testo calde1'017Ìano, essendo frutto di tma wltm·a eli antica e complessa tradizione, difficilmente è riconducibile, senza pericolose limitazioni, ad tm'unica chia11e inte1·pretati1,a. Il fascino e l'interesse dell'opera consistono anche nella varietà delle reazioni che essa prat•oca. Il primo contributo è dovttto al pro/. Fede1·ico Doglio, docente eli Storia del teat1·o f;resso il lviagiste1·o di Roma e membro del Consiglio di direzi011e del nostro Teat1·o; il secondo al p1·of. Cm·melo Samonti, docente di lingua e letteratu1·a spagnole presso l'Università di Roma e autore, tra l'alt1·o, dello studio « Caldero1~ nella critica italiana», al quale ttbbiamo già fatto cenno nelle pagine precedenti. Il terzo infine, dell'inglese W. ]. Entwistle, ci è parso denso di interesse, al di là delle discussioni che ha suscitato tra gli studiosi spagnoli, in quanto tent> V!S!OIIC dello spettacolo, « Il linguaggio del teatro è fo11icovisuJk, e al tempo stesso temporale-spaziale »: ha detto splendtdamente Damasco Alonso, in testa ad uno studio sulla stru ttura drammaturgica del teatro di Calderon , Ciò significa che dobb1amo tenere presenti , dinanzi a questa « Devoztone alla Croce » come a tutte le altre opere di Caldero n e potremmo dire, dinanzi a tutte le opet-c dram maturgJChe in genere , gli element1 fonico-v1suali. c quelli temporali-spaziali in primo luogo, In questa anali si ci muta ancora Damaso A lonso. a llor-chè individua nella struttura drammalurgJCa caldero111111a una serie di correlazioni e di parallelisml- ogn1 currelazwnc-paralklismo, a du<-: membri, a tre, a qual tro, a cinque, ed oltre membn costituendo un umco, IJallllll:tln d:dk ;dire, LhL Lt i>IL'Ccdntll > '- lde ogni membro della correlazione, e con la dtstanza che separa c1ascuno cl1 questi punll sD> non c un;J sccntlgrlessi ,tgntfìcatl del d1spo~I[Jvo scenico '< Mana Antonietta Gambaro Bibliografia calderoniana Il Teatro Stabile 1·ingrazia vivamente il pro/. Carmelo Samonà per l'autorizzazio11e co1zceJJagli di 1·iprod1trre la Jeguente bibliografia tratta dal 110! ume « Calderon nella critica italiana ». (:;, j_, ·~ v (_ Questa bibliografia comprende, in due sezioni distinte - testi e letteratura critica - ogni sorta di contributo su Calderon che ho potuto consultare durante il mio lavoro, limitatamente alla critica italiana e a un periodo di anni che si fa partire convenzionalmente (ma non senza una certa intenzione storica) da un articolo di Giosuè Carducci apparso nel 1869. Ho creduto opportuno includere nella seconda sezione anche le voci dedicate a Calderon nelle principali enciclopedie. Ho omesso invece i relativi paragrafi e capitoli dei manuali e delle storie letterarie, le notizie di messe in scena e spettacoli calderoniani cui non corrispondeva la pubblicazione di un volume, di un estratto della versione italiana, infine le riduzioni e gli adattamenti nei quali il modello originale non era più che un pretesto o un tenue riferimento. A) Testi, traduzioni, antologie: l. Eco e Narciso, frammento di traduzione a cura di M.M.T. per le nozze Palatini-Brusoni, Belluno, Tip. Tissi, 1881. 2-3. Il pozzo di S. Patrizio - A ingiuria segreta, segreta vendetta, Biblioteca Universale, n. 37, Milano, Sanzogno, 1883, pp. 95. 4. El mayor monstruo las celos, Intr. e vers. di G. Lo PRESTI, Venezia 19 , pp. 31. 5. La vita è sogno, Intr. e vers. a cura di G. MARONE, Napoli, Editrice Italiana, 1920, pp. 176. [Rist., Milano, Bompiani, 1949]. 6-9. Drammi, Intr., prologhi e vers. a cura di A. MoNTEVERDI, Firenze, Battistelli, 1920-21, in 2 voli. (l vol.: La vita è un sogno, Il Mago prodigioso, 1920, pp. 372; II vol.: Il Principe costante, La devozione alla Croce, 1921, pp. 328). [Rist. da La vita è un sogno, in Tutto il teatro di tutti i tempi, a cura di C. PAVOLINI, Roma, Casini, 1953, pp. 615-650]. ', 84 10. L'alcade di Zalamea, Intr. e vcrs. a cura di G. PRAMPOLINI, Milano, Alpes, 1926, pp. 122. 11. La vita è un sogno, Intr. e vers. a cura di G. BoTTONI, Milano, C. Signorelli, 1927, pp. 77. 12. La vida es sueiio, Intr., testo e commento a cura di A. GASPARETTI, Roma, Ist. C. Colombo, 1928, pp. I-LVIII, 1-269. [Rist., Torino, Soc. Ed. Int., 1955]. 13. El Alcade de Zalamea, Intr., testo e commento a cura di E. TALIENTO, «Collezione Classici Stranieri» diretta da B. Savona, Milano, Ed. Dante Alighieri, 1930, pp. 145. [Rist., id. 1933]. 14-15. Il principe costante e La vita è un sogno, Intr., vers. e note a cura di C. BERRA, Torino, UTET, 1931, pp. 163. [Rist., id. 1944]. 16. El magico prodigioso, Intr., testo e commento a cura di A. R. FERRARIN, Milano, Ed . Sco!. Mondadori, 1932, pp . 149. 17. L'alcade di Zalamea, Vers., riduz. e adatt. tecnico a cura di P. MELANI, in « Scenario», 1938, n. 10, pp. 541-556. 18. Il gran teatro del mondo, Vers. e regia di L. POLVARA, Milano, Theatrica, 1938, pp . 101. 19-20. Teatro spagnolo, raccolta di drammi e commedie a cura di E. VITTORlì'li, Milano, Bompiani, 1941 (di Calder6n: L'alcade di Zalamea [trad. di S. SoLMI], pp. 354-417; Il mago dei prodigi [trad. di C. Bo], pp. 418-476). [Rist., id. 1944]. 21. La vita è un sogno, Dramma in 3 atti e 7 quadri a cura di C. PAVOLINI, in «Dramma», I serie, vol. II, Torino, SET, 1943. 22. La vita è un sogno (da Calder6n de la Barca). Tre atti e quattro quadri. Libera trad. e riduz. di G. F. MALIPIERO, Milano, Suvini-Zerboni, 1944, pp. 29. 23. Antologia calderoniana, Intr., testi e note a cura di F. MEREGALLI (Amplissima scelta di passi da più di trenta opere calderoniane fra commedie, drammi, autos ed entremeses, con una appendice di giudizi su Calder6n da parte dei suoi contemporanei), Milano, Marzorati, 1947, pp. I-XV, 1-203. 24. La vida es sueiio (dramma e auto sacramentai), Intr. e testo a cura di G. BERTINI, Torino, Gheroni, 1949, pp. 196. 25-32. Teatro, Scelta e vers. a cura di F. CARLESI (La vita è un sogno, La devozione alla Croce, Il mago prodigioso, Il principe costante, L'Alcade di Zalamea, Tutto è ef- 85 fetta d'immaginazione, La mia d~m~ avanti .tutto~ Lo scisma d'Inghilterra), con un saggw mtrodutt!vo di M. CASELLA Firenze Sansoni, 1949, pp. XIII-XL, 1-648. Ree.: M . BE;TINI, in «Quaderni Ibero-americani», marzo 1951, pp. 62-63 . Un auto sacramenta[ di C. de la B. nella chiesa di S. Salvatore al Monte di Firenze (La devoci6n de la misa), luglio 1949 (Scritti di S. D'Amico, G. Bucci~ lini A. Fiocco, Pierantoni, B. Schacherl, L. Bonelli, A. 'zaiotti raccolti a cura di Gianfranco de Bosio. Prefazione dÌ D. Valeri), Padova, Teatro dell'Università, 1949, pp. 31. La devozione alla Croce, dramma in 3 atti nella versione italiana a cura di P. GRosso, Roma, GIELLE, Tip. Arte Grafica Romana, 1957, pp. 44 . Teatro spag1zolo del secolo d'oro, con una presentazione di A. MoNTEVERDI, Torino, ERI, 1957, pp. XL-568, con 69 tavole. (Di Calder6n: La vita è sogno [trad. di G. PAcuvm], Il gran teatro del mondo [trad. di L. FoLGORE], La morte [ trad. di F. TENTORI] ). Il teatro « chico » spagnolo, scelta, intr. e CO!Jllll<:nto a cura di C. VIAN, Milano, Varese, !st. Ed. C1salpmo, 1957, pp. 191. (Di Calder6n: La plazuela de Santa Cruz). Il principe costante, «Collezione I Maestri», Modena, Ed. San Paolo, 1957. La vita è sogno, nota, intr. e vers. di A. GASPARETTI, « Bibl. Univ. Rizzoli », Milano, 1957, pp. 100. La devozione della Croce, vers. di C. REBORA (compagnia di S. Erasmo di Milano, regia di F. Enriquez), in «Sipario», 1958, p. 27. Teatro (La vita è un sogno, Il principe costante? Il mago prodigioso, La dama folletto), trad. a cura di C. BERRA e E. CALDERA, Torino U.T.E.T., 1958. Farse spagnole del secolo d'oro, Intr. e vers. di C. VrAN, Milano, Ediz. per il Club del libro, 1959, pp. 495. (Di Calder6n: Farsa della Rabbia [Entremés de la Rabia], Messer Cataplasma [Don Pegote], La sfid~ dz Gian Rana [El desafio de Juan Rana], La zza [La tza]). c: 33. 34. 35-37. 38. 39. 40. 41. 42-45. 46-49. B) Critica 50. G. CARDUCCI, Dopo una rappresentazione della _commedia «La vida es sueiio » di P. C., in « L'Indipendente», Bologna, 23 agosto 1~69. . . . . [Rist. più volte: tra l'altro, 111 Conversazwm cntzche, Napoli, Libreria Economica, ed. 1908, pp. 43-56]. 86 87 51. A. GRAF, La vita è un sogno, in Studi drammatici, Torino, 1878, pp. 1-10. 52. [G. NAVONE], Nel centenario di Pietro Calder6n de la Barca. La vita è sogno (con un saggio di trad. del III atto de La vida es suefio, a cura di G. N.), pp. 8 sgg. [s. a.]. 53. A. LISONI, Gli imitatori del teatro spagnolo in Italia, in «Nuova Rassegna», II, 1894, pp. 18 sgg. 54. F. MARTINI, Nel secondo centenario di C. de la B., in Al teatro, Firenze, Bemporad, 1895, pp. 101-112. 55. A. LISONI, Un famoso commediografo dimenticato: G. A. Cicognini, Parma, Ferrari e Pellegrini, 1896, pp. 33. 56. A. FARINELLI, Guillaume de Humboldt et l'Espagne, avec une appendice sur Goethe et l'Espagne, in «Revue Hispanique », go vol., Paris, 1898 [2a ed. ampl. e corr., in «Letterature moderne», r vol., Torino, Bocca, 1923]. 57. E. GaRRA, Una romanza spagnuola nella poesia popolare e nel teatro: l'« Alarcos », di F. Schlegel e « Il dramma religioso di C. de la B. », in Fra drammi e poemi, Milano, 1900, pp. 364 sgg. Ree.: R. RENIER, in « Giornale storico della Letteratura italiana», XXXI, 1900, pp. 409 sgg. 58. E. CARRARA, Studio sull'ispano veneto di Carlo Gozzi, Cagliari, Tip. Valdés, 1901 (su C.: pp. 33-47). 59. A. 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GuERRIERI CROCETTI, Intorno a Calder6n, in « Rivista abruzzese», XXXIII, Teramo, 1918, p. 140. 78. G. PAPINI, Pietro Calder6n, in Testimonianze, Milano, St. Ed. Lomb., 1918. [Rist.: Firenze, Vallecchi, 1924, poi in Ritratti stranieri, Firenze, 1932, pp. 63 sgg.]. 88 89 79. G. R. CERIELLO, « Comedias de Santos » a Napoli del '600 (con documenti inediti), in « Bulletin Hispanique », XXII, apr.-giugno, 1920, pp. 77-100. 80. G. MANACORDA, Studi e saggi (Calder6n - Cervantes), Firenze, Le Monnier, 1922, pp. 247-253 (art. pubbl. in « Il Piccolo della sera », Trieste, genn. 1921 ). 81. A. CANTELLA, C. de la B. in Italia nel secolo XVII, Roma, Ausonia, 1923, pp. 113. 82. L. ToNELLI, La vita è tm sogno, in Alla ricerca della personalità, Milano, Modernissima, 1923, pp. 329-334. 83. A. CASTELLANI, Chuatzg Tse, Amleto e Calder6n, in « Marzocco », XXX, 1925, pp. 1-2. 84. A. FARINELLI, Variazioni in « quintillas », sui titoli dei drammi calderoniani, in Homenaie o/recido a Menéndez Pilal, Madrid, 1925, vol. II, pp. 533-543. 85. A. FARINELLI, Ancora di Humboldt e la Spagna, m «Colombo», III, 1926. 86. M. PoRENA, Cristina di Svezia in una commedia di C. de la B., in «Colombo», V, 1927. 87. A. FARINELLI, Goethe Aufjiibnmgen spanischer Dramen in Weimar, in « Italien », nov. 1929, genn., febbr., marzo 1930. 88. S. BATTAGLIA, Calder6n de la Barca, voce dell'Enciclopedia Italiana, vol. VIII, 1930, pp. 385-389. 89. A. FARINELLI, Wagner e Calder6n, in «Nuova Antologia», 1934, CCLXXXIII, I, pp. 193-212. [Rist. in Attraverso la poesia e la vita, Bologna, Zanichelli, 1935, pp. 273-304]. 90. A. FARINELLI, Pirandello y Calder6n, in «La Nacion », Buenos Aires, 21 febbraio 1937. [Rist. in Poesia y critica, Madrid, 1954]. 91. C. BERRA, Calder6n de la Barca, voce del Dizionario Enciclopedico UTET, Torino, 1937-40. 92. K. 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BERTINI, La vida e; s~eiio. ~e ~· de !a B., C dell~ Fac. di Magistero dell'Università di Roma, Prsa, .~r breria Gogliardica, 1955, pp. 165 (a .cura e con. ~n mtraduzione di G. Mancini, Studi di G. Mancrm, I. Pepe, R. Froldi, C. Samonà). 110. G. MANCINI, Note sull'interpretazione di Calder6n nel Seicento, in Calder6n in Italia, ecc., cit. pp. 27-44. 111. I. PEPE, Motivi calderoniani nella letteratura settecentesca in Calder6n in Italia, ecc., cit., pp. 45-61. 112. R. FROLDI, Giudizi di romantici italiani su Calder6n, in Calder6n in Italia, ecc., cit. pp. 63-84. 113. C. SAMONÀ, Calder6n nella critica italiana del Novecento in Calder6n in Italia, ecc., cit. pp. 85-165. 114. F. p{ccoLO, Calder6n de la Barca, voce del Dizionario Enciclopedico Treccani, vol. II, 1955, p. 624. 115. G. C. Rossi, Calder6n nella critica spagnola del '700, in « Filologia romanza», II, 1955, PP·. 20-76. 116-140. Dizionario delle opere e dei personaggt, Mrlano, Bompiani, 1955-1957, vol. I-IX. Voci dedicate a Calder6n: 90 M. CASELLA, La vita è un sogno (VII, 833-34); C. CoRDIÈ, La devozione della Croce (Il, 613); A. R. FERRARIN, Casa con due porte è difficile da custodire (Il, 147), Convito del Re Baldassare (II, 147), La donna fantasma (II, 830), Il finto astrologo (III, 450), Il grande teatro del mondo (III, 699), Il mago dei prodigi (III, 501), Il medico del proprio onore (IV, 604), Il nastro e il fiore (V, 13), Non c'è cosa come il tacere (V, 74), Il podestà di Zalamea (V, 572), Il Principe costante (V, 796), Il purgatorio di San Patrizio (V, 887), La ragazza di Gomez Arias (VI, 86); N. GONZALEs-Rurz, Sacre rappresentazioni (VI, 410411); L. Grusso, Cipriano (VIII, 176); O. MACRÌ, I due amanti del cielo (II, 863); G. MARONE, Sigismondo (VIII, 776-777); F. MEREGALLI, La figlia dell'aria (III, 395), Il maggior mostro, la gelosia (IV, 498), Il pittore del proprio disonore (V, 558), Lo scisma d'Inghilterra (VI, 581 ), Segreta offesa, segreta vendetta (VI, 634); R. RrcHARD, Guardati dall'acqua cheta (III, 715). 141. E. MaRENO BA:Ez, Calder6n de la Barca, voce del Dizionario biografico degli autori, Milano, Bompiani, vol. I, 1956, p. 381. 142. L. Grusso, Calder6n. Gli « autos sacramenta/es» e il secondo Faust, conversazione letta il 28-1-1952 alla RAI, ed. in Autoritratto spagnolo, Torino, ERI, 1959, pp. 80-96. Documenti 93 LINEE PROGRAMMATICHE DELLO «STABILE DI TORINO» PER LA STAGIONE 1967-68 Il primo teatro stabile italiano, cioè il Piccolo Teatro di Milano, ba festeggiato nei mesi scorsi il suo ventennio di vita. Si può quindi affermare che gli Stabili, a lmeno come modello di istituzione culturale e di organizzazione teatrale, hanno tutti vent'anni . B fatale che in un simile lasso di tempo le situazioni si evolvano ed i problemi si trasformino. In effetti, il quadro generale della vita italiana non è iù oggi quello di vent'anni fa. In particolare, per quanto riguarda teatro, si può dire che anche, e forse soprattutto, per l'azione svolta proprio dagli Stabili, i termini della questione sono molto cambiati. Vent'anni fa c'era un vuoto da colmare, c'erano strutture da rinnovare c'era un'esigenza di trasformazione a livello innanzitutto di mentalità per adeguare lo spettacolo drammatico ad una situazione culturale e sociale profondamente diversa da quella che il teatro aveva lasciato alle sue spalle al momento dello scoppio della guerra. Oggi strutture esistono, anche se non solide ed ampie quanto si potrebbe desiderare (talune regioni italiane sono ancora totalmente prive di una efficiente organizzazione teatrale); il teatro privato, grazie anche allo stimolo ed all'esempio fornito dagli Stabili, si è ristrutturato e riorganizzato; la coscienza generale è ricca di fermenti, tanto che - e questo è il fenomeno più interessante degli ultimi anni - si è formata, benchè non ancora in grado di fruttificare positivamente, una diffusa esigenza di ricerca e di sperimentazione, non di rado pro~rio in alternativa con le finalità che gli innovatori di venti anni fa SI proponevano. Di fronte ad una simile evoluzione della situazione, un Teatro Stabile cosciente della propria funzione e del pericolo sempre latente di una progressiva museificazione, non può non porsi il problema di un riesame delle proprie strutture, delle proprie finalità e dei propri metodi di lavoro. Questo riesame è ciò che ha fatto lo Stabile di Torino nei mesi scorsi. Al termine di un travaglio, di cui una eco spesso deformata e sfocata è gitmta sino al grande pubblico attraverso la stampa quotidiana e periodica, esso si ripresenta ai torinesi fedele al proprio passato e nuovo allo stesso tempo. Innanzi tutto, al fine di meglio adeguare le proprie strutture dirigenziali ai più articolati compiti imposti dalla nuova situazione, lo Stabile ha provveduto ad aì!argare la propria direzione, affiancando il Direttore Gianfranco de Bosio, e il Direttore Organizza tivo Nuccio Messina, con un Consiglio di Direzione formato da Giuseppe Barto!ucci, Federico Doglio e Gian Renzo Morteo. A queste tre persone sono stati affidati specifici compiti rispettivamente nel settore della ricerca drammaturgica, in quello letterario ed in quello della attività culturale. Le mansioni affidate ai componenti il Consiglio di Direzione stanno ad indicare che per lo Stabile di Torino l 'avvenire del teatro è da ricercare in un più stretto ed attivo rapporto con il mondo letterario, in particolare italiano; in un perfezionamento ed arricchimento dei mezzi espressivi propri dello spettacolo drammatico; ed infine in un più largo e sistematico inserimento del teatro nel contesto culturale e quindi sociale. Il Teatro ba poi ritenuto opportuno caratterizzare, almeno a livello teorico, la propria attività in due settori: l) Servizio pubblico; 2) Ricerca. Il primo di questi settori coincide con quella che tradizionalmente da venti anni in qua costituisce la principale attività degli Stabili; il secondo rappresenta una apertura ed un riconoscimento di interesse nei confronti del nuovo e di un necessario costante aggiornamento dialettico. In pratica, i due settori di attività non procede- fi 95 94 ranno quasi mai distinti; anzi, nella maggior parte dei casi, essi si presenteranno fusi in un rapporto di fecondo interscambJO. Per quanto concerne i rapporti col pubblico, pur confermando come è ovvio gli impegni nei confronti di tutto il pubblico e riaffermando in tale ambito uno specifico interesse per il pubblico dei lavoratori lo Stabile si propone quest'anno di compiere uno sforzo particolaré in direzione dei giovani, in quanto ritiene che sia culturalmente e socialmente indispensabile legare al teatro le nuove generazioni, cercando di interpretarne i problemi, la mentalità e le esigenze. In tale spirito è stato anche previsto un apposito ciclo di spettacoli per giovani e, sempre in tale spirito, il Teatro intende intensificare i rapporti con il mondo della scuola. Tra le iniziative più interessanti, rubricabili sotto l'insegna giovani », si annuncia un « incontro con il teatro universitario , . Al proprio interno il Teatro sta intanto elaborando un metodo di lavoro, sia per costituire una base di esperienze c di materiali per la scuola destinata ad attori e tecnici che lo Stabile ha in preparazione e che in forme ridotte comincerà già a funzionare nei prossimi mesi a titolo sperimentale, sia per favorire, all'interno degli spettacoli stessi, una collaborazione ed una partecipazione degli attori alle tecniche e alle forme più aggiornate del teatro contemporaneo, mediante l'applicazione di un lavoro di gruppo alla direzione di questi stessi spettacoli, al fine di raggiungere un risultato il più ampio e complesso possibile scenicamente. Tra gli obiettivi a più lunga scadenza lo Stabile torinese si prefigge quello di diventare, ad integrazione della propria funzione di ricerca, un teatro di repertorio, cioè un teatro che capitalizzando nel tempo i risultati migliori del proprio lavoro ne assicura al pubblico la fruizione oltre i limiti delle programmazioni stagionali, sì da porre i presupposti per una autentica cultura teatrale di base (è difficile parlare di cultura teatrale quando tra le esperienze dei padri e quelle dei figli non vi sono elementi in comune), condizione indispensabile per procedere a • rivoluzioni , artistiche non gratuite. Per quanto concerne i rapporti con la Città, lo Stabile se ne propone l'ampliamento e la massima articolazione, partecipando a tutte le iniziative torinesi che direttamente od indirettamente possano interessarlo e moltiplicando le proprie attività culturali e tutti quei • servizi » collaterali utili per il pubblico. In particolare è in questo momento in preparazione, sotto il patrocinio dell'Assessorato all'Urbanistica del Comune, un convegno di studio sul problema delle sale di spettacolo torinesi. È indispensabile infatti che i rapporti con la Città abbiano luoghi idonei per realizzarsi. Concludendo diremo che allo scopo di indicare in modo anche vistoso lo spirito di rinnovamento che anima lo Stabile torinese, la Direzione e gli Uffici si sono impegnati in un'opera di svecchiamento della facciata del Teatro, a cominciare, con la collaborazione del nostro grafico, dali 'impostazione pubblicitaria, che sarà quest'anno più aggressiva e più spregiudicata . Su piano nazionale, lo Stabile di Torino, al di là delle affermazioni che cercherà con tournées e rapporti di ogni genere, sarà attivo nel quadro di una collaborazione con gli altri Stabili allo scopo di rilanciare i teatri a gestione pubblica, non in opposizione con Je iniziative private (di tipo tradizionale o no, professionistiche o sperimentali), bensì nella convinzione che i teatri a gestione pubblica costituiscono ormai l'indispensabile struttura di base dell'organizzazione teatrale italiana, ivi compresa quella privata. <( Torino, 12 settembre 1967 RIFLESSIONI E NOTE SULLE AUDIZIONI DELLA STAGIONE 1967-68 a ettra dell'ufficio drammaturgico Nei giorni 21 e 22 di agosto si sono svolte nella sede di Via Ros. i Je audizioni per la corrente stagiOne 1?67-1968, sotto la presrdenza ~':[ direttore artistico Gian~ran~o De Bosw: componen~r della CO)D· missione Giuseppe Bartoluccr, Gwvanna Bruno, Ennco D A!fiato, Marta Egri. 1 candidati avevano in precedenza fatto . normale r!chiesta <;>p pure erano stati invitati appositamente. La d1rezwne art1St1ca. del Teatro ha infatti quest'anno ritenuto opportuno non soltanto d1 soddrsfare le richiese di coloro che avevano esphc1tamente nch1esto. per lettera d' essere presenti e quindi di partec1pare alle. audrz_wm ma anche di invitare tutti i diplomati dell'anno delle pnnc1pah sc,uo!e drammatiche italiane di Roma,_ d1 M1Jano e d1_ !'!tre c1ttà, pm 1 componenti delle compagn1e umvers1tane m att1v1tà. La stessa direzione artistica infatti si proponeva con queste audizioni sia di colmare l'orgamco . della_ compagma per la corrente sta ione, sia di repenre elementi. gwv_am appena usc1tr dalle scuole, al ~uplice scopo di affiancare agh a ltn mterpret1 della compa~ma un certo numero di attori . delle nuove. generaz1or_u, e d1 cost1tu1re con uesti ultim1 un poss1blle nucleo d1 lavoro d1 !aboratouo. nel c~rso ~ell'anno, in vista soprattutto dell'apertura della scuola, d1 pross1ma attuazione e ora in fase di elaborazwne e d! stud1o. A, tale. s~opo !a Commissione aveva s_te~o un progranu:na dr aud1ZJOlll . art1cotato m due fasi, da svolgersr m una stessa _gwrnata, con ':'n mt':'resse nOJ:! soltanto per la d1z10ne ma anche per il canto e per 1! movunento der candidati. L'articolazione pertantC? del l?rogran_1ma. vanata d~ jJropos1to e possibilmente aperta a parecclue mclmaz.wm de1 candrdatr, '!' modC? che la stessa audi7ione, nella sua .brev1ta,. acg_u1.stasse ~n t1tolo ~lt indagine non superficiale e non umvoco, Sl d1spregava m due fasr: I FASE a) Recitazione di due brani in versi scelti dal candidato fra seguenti, uno per ogm gruppo: I gruppo PETRARCA(« Erano i capei d'oro e l'aura sparsi», dal « Canzonier~ •). TAsso («A l'ombra d'un bel faggio Silvia e Fi!li ... fino a « Ed ogni cosa/tentato ho per placarla fuor che la morte .. », da « Aminta », atto l). FoscoLO ( « A Zacinto »). . . PASCOLI («La tessitrice», da « J cantl dr Castelvecchio»). MONTALE («Dora Markus », da «Le occasioni l>). II gruppo DANTE ( « Inferno "· canto XXVI, das verso 85 alla fine) . SHAKESPEARE (Sonetto 71, trad . Ungarett1) . AlFIERI ( « Bruto secondo», atto I, prima battuta di Cesare). MANZONI («Il cinque maggio») . BRECIIT («Ai posteri », trad. Fortini). b) Recitazione di un monologo: u01nini SHAKESPEARE ( « Come vi piace», atto II, scena I~ ~e prime due battute di « Primo signore ... salvo le battute detlrp.terlocutore). CECHOV (• Il giardino dei ciliegi», atto II, Trophimov, da « Tutta la Russia è il nostro giardino ... », alla fine). 97 96 donne CECHOV (« Il gabbiano», atto III , scena I, battute di Mascia). SHAKESPEARE («Come vi piace », epilogo di Rosalinda). c) Recitazione di una scena: uonzini GoLDOKI (" Il bu~iar do », atto II , scena XII, parte di Lelio). donne GoLDONI (• Il ventaglio •, atto II, scena XIII, dialogo di Giannina e Crespino). d) Lettura di un brano di racconto umoristico scelto dal candidato (durata massima quattro minuti). II FASE a) Una canzone a scelta del candidato. b) Prove di movimento con esercizi obbligati. I candidati potendo scegliere l'una o l'altra giornata, si sono pre· sentati in numero di 20 la prima giornata, e in numero d1 32 la seconda giornata. Sono stati ascoltati, in seconda istanza, e in coda agli altri , anche coloro che non avevano potuto preparare, p er ragioni. di lavoro o per ragioni di tempo, l'intiero programma. Nella p nma gtOr· nata sono stati ammessi alla seconda fase sei elementi, e nella second a giornata otto elementi. Infine la direzione artistica ha fermato la sua attenzione su un certo numero di candidati per una loro possibile ammissione alla compagnia, ed altri per una loro utilizzaz10ne nel corso della stagione, secondo le eventuali necessità . La commissione nel ringraziare tutti coloro che hanno partecipato alle audizioni ritiene. c;>Pportuno di fi ssare alctmi p~t i venuti fuori da queste stesse audiZIOnt, come matenale d1 ~sserva!10ne <; . d1 studio. Senza voler in alcun modo finora, con questi punti, stabthre giudizi di valore singoli, riferentisi a questo o a quel candtdato: I) Per quanto si riferisce alla prima fase i candidati più giovani hanno rivelato o la naturale presenza della scuola da C'!l sono usciti o una particolare timidezza se non alle volte spavaldena, nell'affrontare personalmente la recitazione del monologo e del_la scena, senza tuttavia u scire da un 'impostazione leggennente scolastica o comunque da tma non approfondita ricerca personale. E. probabile peraltro che le stesse scuole in genere non sian.o totalmeJ?.te in ~ado oge:i di elargire un insegnaJ.nento che accompagni ad una rmpostaz1one generale una specifica ricerca individuale, per cui risulta estremamente difficile ad una commissione dover giudicare in pochi minuti le specifiche qualità di un attore al di là della sua derivazione inevit abilmente di scuola, pur restando ferma l'osservazione, quasi preliminare ad ogni discorso in proposito , di una maggiore personalizzazione e di una più aperta disponibilità dell'attore, soprattutto come atteggiamento e come stesura di se stesso. II) E. anche da rilevare la scarsa fiducia che l'attore giovane oaai ha nei confronti del verso, di cui o sorvola le difficoltà senza c~pire assolutamente il senso, oppure l'appiattisce su uno stimolo di comunicazione a base di verosimiglianza. L'impossibilità in genere di rendere Montale dipende non ta nto dalla struttura del verso quanto dalla lontanan-:a del SU<• siJmificato embl!.!tnatico, e l'impossibilità ili rendere bene Bre=ht dipende non tanto dalla significazione dei versi stessi quanto dal ~ a nresunzione della loro facilità discorsiva (per non parlare dell'immobilità senza tradizione del verso classico, pwprio per mancanza di assuefazione e per povertà di frequenza). III) E. chiaro che un giudizio sul monologo o sulla scena non può che essere approssimativo: come tentativo di ass imil azione da parte della commissione di un atteggiamento, di un ges to, di una presenza che facciano riscontrare un momento di verità c di incisività nel magma del materiale presentato dal candidato in quei pochi minuti che si dà una versione di Goldoni, Alfieri, Shakespeare ecc. Q~ bisogna annotare una maggiore spigliatezza e una scioltezza pm trasparente, con gli inevitabili .moduli e. ~chemi, ed . anche però la presenza di un certo numero d1 elementi. 10 grado d1 sorre~gere un discorso con sè o un dialogo con gh altn fuon della semplice emotività o della ancora piti semplice comprensione di un testo . Naturalmente l'approccio al personaggio o alla scena è abbastanza superficiale e non naturale in P!lrticolare perchè .I'alli~vo non ha grande dimestichezza con gli auton presentati; e qu10di Il. gestc;> e la. pa~ol~ . Soprattutto il gesto in costoro, non combacia quasi mai con 1l s>gm: ficato che gli si deve consegnare, mentre la parola una .:erta via di comunicazione riesce pur a trovarla, anche se basata pm sul Sigmficato ·c he sull'espressività. IV) Ciò che invece ha impressionato sfavorevoli_llente la. CO!flmissione è la particolare mancanza di allenamento fis>co c~e 11 glDvane attore presenta e la scarsissima conoscenza che <;gh ha del proprio corpo . Non c'è bisogno di . _ricordare come non Sl tratti . S?ltanto qui di avere una presenza pm o meno bella,. una aggress1v1tà espressiva o una t1mid1tà al tempo stesso, alternativamente, quanto di recepire una consapevolezza d1 quel che al fisico, al corpo propn~ un attore può richiedere e di quel <:he questo fisico, questo corpo gh può dare. Tale. mancanza di dimestichezza e peraltro d>. allen'!mento, come ncerca d1 studio, comporta una povertà .assoluta d1 movimento, per inibizione psicologica talvolta e però oggetti~ame'!te pe~· non conoscenza reale di sè, oltre che per unl:l sval.utaz10ne tmphc>ta e certamente coltivata anche a scuola con .' dom del _gesto e le _responsabilità nel corso dell'azione scenica 10tendendo 11 gesto qm 10 una nozione di movimento nel suo insieme. . . Tale ritrosia e recalcitrantezza pertanto vanno contro ogn~ possibilità di ampliamento di esperienza dell'attore, quale ogg1 v>en.e richiesta per un oggettivo amplia~ento dei mezzi suoi at.t~a_verso tecmche nuove in un momento in cUI appunto la responsabthta della corporeità neito spettacolo moderno è ripr<;>posta con tutta la sua estensione estetica e con tutte le sue 1mphcaz10m d1 lavoro e d1 con?scenza che ciò comporta, al di là di una annotaz10ne come questa ''! margine ad un'audizione di stagione. In _effetti colo_ro che sono stati ammessi alla seconda fase, e la valutaz10ne non e stata affatto d1 merito quanto di possibilità appunto di utilizzare anche . parallelamente le possibilità fisiche del candidato in--:ista. di. determ10a~1 _spettacoli della stagione, oltre che la sua, quahta. d1. diZione e d1. mter: pretazione, sempr<; nei limiti .sirw e.me, del resto di normale stud10 ps1cotecmco con apphcaz10m gmnastlche appro~riate e con esercizi specifici per l 'adeguamento del corpo agli oggetti. V) Tralasciando di annotare q!le.i ~as.i di innoc_ent~. impreparazione dovuta a mancanza assoluta d1 tstmtl, e per d1 pm viziata da esercitazioni dilettantesche, o quegli altri casi di impigrimento di se stessi, per stagioni passate senza particolare sfoggio, e s~nza specifico esercizio con in più l'aggravante d1 una non nconosctuta rmpossibilità a 'continuare il mestiere , c'è da dire che tra coloro che hanno passato la prima fase, la commission~ riti.en.e . di aver r!scontrato alcune specifiche qualità e alcUf!l partu;:olan 1stmt1 teatrali,. l~ une e gli altri appartenenti ad atton che smora non Sl sono d1stmt1 o che sono appena usci~i di scu~la, e però tutti . appartenenti ad una generazione tra i venll. e venti.ci_nque a,nm, con. 1 quah sarebb~ nat'!rale un discorso unJtano di diZione d1 corporeità, d1 canto, d1 movimento, al di là di un assaggio così 'esterno e così improvvisato , e ciò 98 a testimonianza di un'esigenza che sotterraneamente è sentita anche da costoro, e pertanto coltivata, e portata sul piano del lavoro guotidiano, dovrebbe far suscitare in costoro un mteresse più speclfìco e scientificamente esatto al lavoro dell'attore di oggi, o meglio di domani, e quindi espandersi in un secondo tempo, se non subito in misura parziale anche all'interno di una normale compagnia, determinando un effettivo e sicuro rinnovamento sia della mentalità che della preparazione di un attore in Italia. Ma allora inizia un discorso sulla mentalità dell'attore: se continuare a lavorare in disparte, senza immediato successo o utilizzazione, oppure avere fiducia immediata e un po' incosciente nell'utilizzazione di sè. Ma è questo un discorso che va al di là di una semplice riflessione su un'audizione, per allargarsi all'atteggiamento dell'attore non soltanto verso se stesso, verso cioè i suoi mezzi fisici e interpretativi, ma anche verso la società di fronte alla quale è destinato ad esprimersi e con la quale sta per iniziare un rapporto non soltanto di comunicazione asettica, astratta. Indice 5 Premessa di Gianfranco de Bosio 9 Il barocco spagnolo di Leo Spitzer 29 La Spagna di Calder6n di Micheline Sauvage 41 Vita e fortuna di Pedro Calder6n de la Barca di g.r. m. 57 Commedia famosa de la Devozione alla Croce 59 Validità di una proposta di Federico Doglio 64 Una inimitabile lezione di stile di Carmelo Samonà 68 La « Devozione » nella cultura spagnola di W.]. Entwisle 81 Commedia famosa de la Devozione alla Croce: distribuzione 83 Bibliografia calderoniana 91 Documenti 93 Linee programmatiche della Stabile di Torino per la stagione 1967-1968 95 Riflessioni e note sulle audizioni della stagione 1967-68 a cura dell'Ufficio drammaturgico Fuori testo: Per una lettura fonico-visiva della « Devozione alla Croce » a cura dell'Ufficio drammaturgico, con la collaborazione di Gianfranco de Bosio, Roberto Lerici, Maria Antonietta Gambara e Giuseppe Bartolucci Finito di stampare i11 Torino il 29 settembre 1967 per conto del Teatro Stabile della Città di Torino preHo la Tipografia Teatrale e Commerciale - Via Ariosto 3

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Tipologia

Collocazione/Localizzazione

I quaderni del Teatro Stabile della città di Torino. - Torino : Teatro Stabile di Torino, 1964-1975.

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