4 3 ° ANISTC) - N . 3 6 0 -3 7 0 - GfXTJGfNO/Ii T IG LIO 1067 Sped. in abb. post. 4° Gruppo L IR E 600 T L M ENSILE DI COMMEDIE DI GRANDE D R A M INTERESSE DIRETTO DA LUCIO R ID E N T I M A T in o B u a z z e lli e 1, 11 e 21 g iu g n o e 1 d e ll'A p e r o l, d e lla m is u ra . l’ a p e ritiv o p o c o a lc o lic o , i g io v a n is s im i nel c a ro s e llo T V (12 e 22 m a g g io , lu g lio ) o ffe rto d a lla S .p .A . F .lli B a rb ie ri, p ro d u ttric e il se n s o l’ a p e ritiv o di c h i ha A P E R O L B a r b ie r i - P a d o v a E S T A T E T E A T R A L E V E R O N E S E (GESTIONE DELL’ ENTE AUTONOMO SPETTACOLI LIRICI) T E A T R DALL'8 LUGLIO ALL' 8 AGOSTO 196,7 M O O R A N O 19° F E S T IV A L S H A K E S P E A R IA N O IL M E R C A N T E D I V E N E Z I A 8-9-10-11-12-29-30-31 luglio - 5-6-7-8 agosto C O M E V I P I A C E 15-16-17-26-27 luglio - 2-3 agosto NELL’ALLESTIMENTO DEL TEATRO STABILE DI TORINO M I S U R A P E R M I S U R A 19-20-21-22-23 luglio NELL’ALLESTIMENTO DEL CENTRO TEATRALE ITALIANO Interpreti principali (per ordine alfabetico) ANNA BRANDIMARTE - SERGIO FANTONI - VALENTINA FORTUNATO - GIANNI GALAVOTTI - MASSIMO GIROTTI ADRIANA INNOCENTI - GLAUCO MAURI - VALERIA MORICONI - GIULIO OPPI - CORRADO PANI - NINO PAVESE GIANNI SANTUCCIO - MARIO SCACCIA - Registi: FRANCO ENRIQUEZ - LUCA RONCONI - Scene e costumi su boz zetti di: EMANUELE LUZZATI - FERDINANDO SCARFIOTTI Serata inaugurale (sabato 8 luglio): Poltronissime L. 5.000 - Poltrone L. 2.500 - Gradinata L. 400 Serate successive: Poltronissime L. 3.000 - Poltrone L. 1.800 - Gradinata L. 400 (Enal-Acll: gradinata 300) PREZZI A E R 45a STAGIONE LIRICA — 15 LUGLIO - 15 AGOSTO 1967 O R N N D V E A I A L A F O R Z A D E L D E S T I N O di Giuseppe Verdi A N D R E A C H E N IE R di Umberto Giordano C A V A L L E R I A R U S T I C A N A di Pietro Mascagni NELL’ ESECUZIONE DEL CORPO DI BALLO DELL'OPERA DI KIEV S E R A T E D I B A L L E T T I Interpreti principali (per ordine alfabetico) RENATO CAPECCHI - PIERO CAPPUCCILLI - GIANFRANCO CECCHELE - ANSELMO COLZANI - FIORENZA COSSOTTO LEYLA GENCER - GlANGIACOMO GUELFI - FLAVIANO LABÒ - ADRIANA LAZZARINI - ORIANNA SANTUNIONE IVO VINCO - AMEDEO ZAMBON - Direttori: FRANCO CAPUANA - OLIVIERO DE FABRITIIS - Maestro del coro- GIULIO BERTOLA - Registi: ENRICO COLOSIMO - HERBERT GRAF - NATHANIEL MERRILL - Scene su bozzetti di- NICOLA BENOIS - ATTILIO COLONNELLO - ORLANDO DI COLLALTO - Scenografo realizzatore: ARTURO BENASSI C A LE N D A R IO DEGLI S P E T T A C O LI LUGLIO 15 Sabato 16 Domenica 19 Mercoledì 20 Giovedì 22 Sabato 23 Domenica 27 Giovedì 29 Sabato 30 Domenica AGOSTO 1 Martedì La Forza del Destino Cavalleria Rusticana e Ballo Cavalleria Rusticana e Ballo La Forza del Destino Cavalleria Rusticana e Ballo La Forza del Destino Cavalleria Rusticana e Ballo Andrea Chénier La Forza del Destino Cavalleria Rusticana e Ballo Andrea Chénier La Forza del Destino Serata di Balletti Cavalleria Rusticana e Ballo La Forza del Destino Andrea Chénier Serata di Balletti La Forza del Destino Cavalleria Rusticana e Ballo Andrea Chénier Serata di Balletti Cavalleria Rusticana e Ballo Andrea Chénier 15 'uglio): Poltronissime L 10.000 - Poltrone L. 6.000 - Poltroncine L. 3.500 - Prima Gradi- Serata inaugurale Altre serate d’opera: Poltronissime L 7 000 - Poltrone L. 4.500 - Poltroncine L. 3.000 - Prima Gradinata L. 2.000 (Enal- _ , Acli L. 1.600) - Seconda Gradinata L. 1.000 (Enal-Acli L. 750) Serate di balletti: Poltronissime L. 5.000 - Poltrone L. 3.000 - Poltroncine L. 2.000 - Prima Gradinata L. 1.000 (Enal-Acli L 800) ' INFORMAZIONI E PRENOTAZIONI: ENTE SPETTACOLI LIRICI ARENA, Piazza Bra, 28 - Tel 23.520 - 28.151 - 22.265 nata U 2.000 (Enal-Acli: L. 1.600) - Seconda Gradinata L. 1.000 (Enal-Acll L. 750) 2 Mercoledì 3 Giovedì 4 Venerdì 5 Sabato 6 Domenica 8 Martedì 9 Mercoledì 10 Giovedì 11 Venerdì 12 Sabato 13 Domenica 14 Lunedì 15 Martedì Seconda Gradinata L. 500 (Enal-Acli L. 400) P R E ZJZ I . . . . . . k ' . V i s i t a t e L u c c a e l a s u a P r o v i n c i a nel periodo estivo importanti manifestazioni a Lucca dall’Il giugno al 30 settembre - Mostra di sete e costumi lucchesi; dal 18 giugno all’8 ottobre - Prima esposizione Internazionale delle Mura Urbane; 28 giugno - 30 settembre - Mostra del Batoni, pittore lucchese (1708-1787); 30 giugno - 31 luglio - Terzo salone Internazionale dei Comics; 13 settembre - Tradizionale luminaria di S. Croce, antichissima e suggestiva manifestazione in onore del Volto Santo e caratteristica illuminazione della città; 1-30 settembre - Tradizionali festeggiamenti del settembre Lucchese (manifesta zioni liriche, sportive, culturali, folkloristiche); a V iareggio 16 luglio - Quarto Trofeo Elica d’oro - Raid motonautico Viareggio-Bastia- Viareggio; luglio - Premio Letterario Viareggio - XXXVIII edizione; agosto - XLV Torneo Internazionale di Tennis; a B a g n i d i Lucca 8-15 agosto - Settimana del disco; a M a rin a d i P ie tra s a n ta nell’agosto - XV Premio letterario G. Carducci e I Premio Nazionale L. Russo per gli studi storico-critici di letteratura italiana; a P o rte d e i M a rm i giugno-agosto - Convegno Nazionale di Didattica del Disegno e Mostra-Con corso internazionale di pittura e disegno infantile; agosto - Premio internazionale « Forte dei Marmi » - VI edizione del premio che viene conferito annualmente ad uno studioso straniero distintosi particolar mente in studi di carattere storico, artistico, letterario, filosofico di argomento italiano; a R ip a d i V e rs ilia 13 agosto - VI edizione del Gioco della Torre, manifestazione notturna storico- folkloristica. , Nei mesi di luglio, agosto e settembre a Forte dei Marmi, Viareggio e Torre del Lago Puccini, regate veliche nazionali organizzate dalla Compagnia della Vela di Forte dei Marmi e dal Vela Club di Viareggio. Nei mesi estivi concerti di musiche da camera nelle ville monumentali della Lue eh e sia. Per informazioni: Ente Provinciale per il Turismo Lucca - Tel. 46.915 Ufficio Informazioni E. P. T. Viareggio - Tel. 46.382 ANNO 43 - NUOVA SERIE - N. 369-370 D I L MENSILE DI COMMEDIE DI GRANDE INTERESSE DIRETTO DA LUCIO RIDENTI M A R A M GIUGNO-LUGLIO 1967 DIREZIONE-AMMINISTRAZIONE-PUBBLICITA’ : ILTE (Industria Libr.ria Ti pografica Editrice) Torino, corso Bramante, 20 - Telefono 693-351 - Un fascicola costa L. 500 - Abbonamenti: Un anno L. 4600; semestre: L. 2400; trimestre: L. 1300 - Cento Corrente Postale 2/56 intestato a ILTE. Abbonamenti per l’Estero, con la spesa di raccomandazione postale di ogni fascicolo, obbliga toria: per un anno L. 6500; per un semestre L. 3300; per un trimestre L. 1700. Taccuino: INTERMEZZO * Commedie: IL VIAGGIO DEL SIGNOR FERRICHON, quattro atti di Eugène Labiche -*• SI DEVE DIRE?, tre atti di Eugine Labiche ir Articoli e scritti vari (nell’ordine di pubblicazione): LUIGI PIRANDELLO, DARIO NICCODEMI, JEAN DUTOURD, MARCEL LE DUC, LUCIO RIDENTI, COSTANZA ANDREUCCI, CARLO MARIA PENSA, GIULIO BUCCIOLINI, CARLO TRABUCCO, UGO RONFANI, CARLO MARIA FRANZERO, GIANFRANCO MENNINI, ANTONIO ILLIANO, ENRICO BASSANO ^ Copertina: ritratto di Paolo Stoppa eseguito dal pittore Mario Donizetti Disegni di Suzanne Runacher, Beardsley ~Ar Fotograjìe: Howard Atlee, Marchiori, Szilvassy, Photo Pie, Lipnitzki, Ciminaghi, Greti Geiger, Hausmann, Coruzzi, Invernizzi, Archivio seti. Oggi, Archivio fotografico ILTE. I n f e r m e r ò Per quanto il non amabile saputello, cronista di un quotidiano di Milano, biascichi che noi si appartenga ad un mondo superato “ anche se affettuosamente suggestivo nei suoi aspetti provinciali” — dice —, continuiamo a credere esattamente il contrario. Se non altro perché da 43 anni parliamo un linguaggio teatrale che hanno prima capito i nonni, poi i padri ed adesso i figli. Più aggiornati di così non si potrebbe essere. La nostra esperienza ci permette di poter essere anche lungimiranti — ed il caso del quale parleremo lo dimostrerà —, il nostro disinteresse (la passione è ovvio) hanno sempre dato al lettore quell’affidamento che evidentemente desiderava. E se qualcuno ritiene che noi “ difendiamo ” soltanto la retorica di un vecchio modo di fare teatro, fuori della cultura e della vita (non offende noi, ma i nostri collaboratori), non ce ne preoccuperemo troppo. Titolo d’onore, riteniamo, il non aver mai appartenuto in quasi mezzo secolo ad alcun clan ideologico; non aver mai difeso qualcuno o qualcosa per interessi personali; denunciato continuamente l’intrallazzo degli arrampicatori che badano alla carriera, se pure, quanto ai soldi ed alla macchina subito. Ed ottenere dallo Stato, dai Comuni e dai vari altri Enti, più prebende possibili. Il resto — pensano — se lo sbrighino pure gli ingenui, che saremmo poi noi; d’altronde lietissimi di essere considerati tali. Dunque, caro lettore, abbiamo scritto un taccuino alcun tempo fa (sì, giovanotto cronista di cui sopra, i taccuini sono sempre scritti da Ridenti) che incominciava così: “ Senza troppo rumore con l’aria modesta di una pratica di normale amministrazione, si è riformata dopo una Stagione di assenza, la Compagnia dei Quattro, Enriquez-Moriconi-Mauri-Luzzati, che — ricomposto il gruppo — si sono accordati col Teatro Stabile di Torino, entrando così a far parte, uniti e compatti, di questo organismo. Lo Stabile avrà in tal modo due registi fissi ” (venne poi la precisazione dello Stabile come l’Enriquez fosse soltanto regista asso ciato). Il significato di tale precisazione non sfugge, ma lasciamo perdere, che tanto i due registi fissi o associati si sono già separati. Come era facile predire allora, e come infatti scrivemmo. Sono bastati due anni. Ma la scissione è avvenuta clamorosa, come tutti i fatti teatrali; una accesa e lunga pole mica durata sui giornali per qualche settimana. Un vero intermezzo. De Bosio ha dichiarato che intende condurre dal prossimo autunno lo Stabile affidatogli dalla DC per altri due anni (perché a dire sì o no sono sempre i politici, in quanto consiglieri del Comune) con un programma di modifiche e di strutture interne e l’applicazione dei nuovi metodi di regia e di formazione dell’attore ” . Questo significa che avrà accanto alcuni teorici con i quali svolgerà il suo programma, che non cambierà naturalmente di una linea di quanto ha in mente di fare. E sia. Sappiano però i nostri concittadini contribuenti che quei teorici — due o tre _ non vengono a sostenere Do Bosio per amore del teatro, ma saranno regolarmente pagati. Così la regia di gruppo costerà moltiplicata per tre o quattro. Essendo lo Stabile un teatro a servizio pubblico, di tutto comodo e largamente sovvenzio nato, si penserebbe che lo spettatore non dovrebbe fare da cavia alle nuove esperienze (strut ture interne; applicazione di nuovi metodi di regia; formazione dell’attore), ma trovare al momento che il sipario si alza la conseguente maturazione di tali intendimenti. Invece, la prossima Stagione lo spettatore dovrà assistere a spettacoli che comportano quei metodi, ecc., e se i risultati ci saranno o no (il teatro è anche piacere oltre che passione; non strazio o sconclusionamonti) dovrà concluderlo sulla propria pelle. Errore. Non bisogna dimenticare che la provenienza dello spettatore è ancora e sempre borghese in quanto borghese è la società in cui viviamo, e che Castrarsi cocciutamente è illogico e fastidioso. Lo strato migliore è borghese-intellettuale, ma questo non concede: abbozza; subisce tace c cambia strada. Lo spettatore nuovo come generazione — che è quello sul quale i vari De Bosio intendono lavorare — non sfugge ugualmente alla dimensione di rapporto con la società. Per ciò che si intende,- ed è, il teatro di ricerca, esso può contare su qualche centinaio di persone diver samente evolute, ma di generazioni, ne occorrono due o tre. Solo ora gli avanguardisti spe rimentali del 1915 sono diventati universali. La strada di quegli artisti — registi come autori — e le loro peripezie possono essere di efficace insegnamento. Sia chiaro che noi non neghiamo, ma ci atteniamo alle regole, da quei matusa che siamo. Signor De Bosio, la città di Torino vuole un teatro con amore, che sia cultura ma anche piacere e gioia: gli spettacoli degli altri Stabili fanno da esempio. È vero che gli spettatori dello Stabile di Torino li hanno" poi in dono, ma desidererebbero averli di diritto. 2 8 G I U G N 0 1 8 6 7 N a s c i t a d i L u i g i P i r a n d e l l o Crediamo di essere stati i primi, in questo anno 1967, centenario della nascita di Luigi Piran dello, a ricordare il « Maestro », come era abitudine chiamarlo tutti noi al tempo suo operoso e battagliero, dedicandogli un fascicolo speciale della nostra rivista, nel dicembre scorso. Quel numero ha avuto ed ha ancora — in quanto continuamente richiesto — larga risonanza in tutta Europa, per Veccezionalità dei testi pubblicati, alcuni dei quali, col concorso di Marta Abba, apparivano per la prima volta. Ma ancor prima di questo Omaggio ci siamo preparati alla odierna commemorazione, propo nendo quel riconoscimento universale che può solo venire in questi casi (come fu per Eleonora Duse, ed ancora per nostra iniziativa) dalla emissione di un francobollo con Vimmagine del- VArtista. Quel nostro intento trovò rapida comprensione nel Ministro per le Poste e le Telecomunicazioni, Giovanni Spagnoili. I l francobollo uscirà il 28 giugno. Ed a co minciare da questa data avranno inizio anche le manifestazioni coordinate dal « Comitato nazionale per le celebrazioni del primo centenario della nascita di Pirandello » presieduto dal- VOn. Mario Sceiba e composto da studiosi, uomini di teatro, rappresentanti della Città di Agrigento e della Regione siciliana. Daremo ad ogni manifestazione il giusto rilievo, nel nome e nel ricordo di uno degli Uomini che abbiamo amato di più, per la fortuna che ha avuto la nostra vita di averlo conosciuto per molti anni familiarmente, in una comunanza di spirito e di affetto che ora ci commuove leggendo le parole che riportiamo e che trascriviamo da una lettera del maggio scorso, ricevuta da Cesare Vico Lodovici che fu tra i più intimi e vicino al Maestro: « Abbiamo conosciuto, mio carissimo Lucio, amato ammirato venerato il nostro Pirandello. La sua corona di gloria fiorisce ogni primavera più chiara e ricca. C'è gusto ad essere stati amici di un Immortale. Pirandello è ormai affiancato a Molière, ad Aristofane, a Plauto. È un classico fermo e illimitato. Se n’è andato lasciandoci ricchi del suo lascito. M i fa ancora piacere oggi di aver sfondato una poltrona del Teatro Valle saltando e gridando forte contro coloro che dal loggione, alla prima dei Sei personaggi tiravano sulla scena soldini e castagne secche. Uno, dal loggione, ironicamente gridò: “ Quel signore che l’ha capita ce la potrebbe spiegare? ” ed io subito di rimando ancora più forte: “ Subito, aspettatemi fuori (Quello del loggione era il padre di mia moglie che conobbi ventanni dopo). Che serata, caro. Mio padre che era venuto per la prima si arricciava i baffi soddisfatto a vedere il su' figliolo così battagliero. Mio padre aveva assistito il giorno avanti alla lettura del copione che Pirandello ci fece a casa sua: c'era Labroca, Maselli, Stefano suo figlio e pochi altri intimi, che bruciavano d'entusiasmo. Poi quando ritornò il silenzio, Pirandello domandò a mio padre che era rimasto muto: “ Lei non dice niente? Mio padre si passò un momento i baffi apuani, come diceva Pea, e poi, con gli occhi che gli brillavano, disse così preciso: “ Dico che lei io lo manderei in prigione ” e Pirandello rise. “ Ma sì, non si è accorto di aver messo una bomba sotto il teatro italiano e che tutti, via, debbono ricominciare da capo?” ». Lo scritto che segue — lo riteniamo uno dei più importanti del Maestro — è una vera e propria lezione di esegèsi, cioè commento e spiegazione insieme, sulla creazione e natura della sua opera Sei personaggi in cerca d’autore. Ugualmente Pirandello dà alcuni chiarimenti a qualche critico drammatico del tempo. La prima rappresentazione dei Sei personaggi è del 10 maggio 1921, al Teatro Valle di Roma (Compagnia Niccodemi con Vera Vergani e Luigi Almirante); lo scritto, del 1924. C O M E E P E R C H É H O S C R I T T O I « S E I P E R S O N A G G I I N C E R C A D ’ A U T O R E » DI ^ / / _ / ♦ Ho scritto i Sei personaggi in cerca d'autore per liberarmi da un incubo. Come ho ripetuto sovente, a servizio della mia arte è da tanti anni (ma come fosse da ieri) una servetta svel tissima, e non per tanto nuova sempre del mestiere, un po’ dispettosa e beffarda, che si chiama Fantasia. Se ha il gusto di vestir di nero, nessuno vorrà negare che non sia spesso anche bizzarra. E nessuno creda, per carità, ch’essa voglia far sempre e tutto sul serio e a un modo solo. Ecco che si ficca una mano in tasca; ne cava un berrettino a sonagli; se lo caccia in capo, rosso come una cresta, e scappa via. Oggi qua; domani là. E si diverte a portarmi in casa, perché io ne tragga novelle e romanzi e commedie, la gente più scontenta del mondo: uomini donne ragazzi avvolti in casi strani e complicati, da cui non trovan più modo a uscire; contrariati nei loro disegni; frodati nelle loro speranze; e coi quali insomma è spesso veramente una gran pena trattare. Orbene, questa mia servetta Fantasia ebbe, parecchi anni fa, la cattiva ispirazione o il malaugurato capriccio di condurmi in casa tutta una famiglia, non saprei dir dove ne come ripescata, ma da cui, a suo credere, avrei potuto cavare il soggetto per un magnifico romanzo. Mi trovai davanti un uomo sulla cinquantina, in giacca nera e calzoni chiari, dall aria aggrot tata e dagli occhi scontrosi per mortificazione; una povera donna in gramaglie vedovili, che aveva per mano una bimbetta di quattr’anni da un lato e un ragazzo di poco più di dieci dall’altro; una giovinetta ardita e procace, vestita anch’essa di nero ma con uno sfarzo equivoco e sfrontato, tutta un fremito di gaio sdegno mordente contro quel vecchio morti ficato e contro il giovane sui vent’anni che si teneva discosto e chiuso in sé, come se avesse in dispetto tu tti quanti. Insomma quei sei personaggi come ora si vedono apparire sul palcoscenico, al principio della commedia. E or l’uno or l’altro, ma anche spesso l’uno sopraffacendo l’altro, prendevano a narrarmi i loro tristi casi, a gridarmi ciascuno le proprie ragioni, ad avventarmi in faccia le loro scomposte passioni, press a poco come fanno nella commedia al malcapitato Capocomico. Quale autore potrà mai dire come e perché un personaggio gli sia nato nella fantasia? Il mistero della creazione artistica e il mistero stesso della nascita naturale. Può una donna, amando, desiderare di diventar madre; ma il desiderio da solo, per intenso che sia, non può bastare. Un bel giorno ella si troverà a esser madre, senza un preciso avver timento di quando sia stato. Cosi un artista, vivendo, accoglie in se tanti germi della vita, e non può mai dire come e perché, a un certo momento, uno di questi germi vitali gli si inserisca nella fantasia per divenire anch’esso una creatura viva in un piano di vita superiore alla volubile esistenza quotidiana. Posso soltanto dire che, senza sapere d’averli punto creati, li trovai vivi davanti, vivi da poterli toccare, vivi da poterne udire perfino il respiro, quei sei personaggi che ora si vedono sulla scena. E attendevano, lì presenti, ciascuno col suo tormento segreto e tu tti uniti dalla nascita e dal viluppo delle vicende reciproche, ch’io li facessi entrare nel mondo dell arte, componendo delle loro persone, delle loro passioni e dei loro casi un romanzo, un dramma o almeno una novella. Nati vivi, volevano vivere. Ora bisogna sapere che a me non è mai bastato rappresentare una figura d’uomo o di donna, per quanto speciale e caratteristica, per il solo gusto di rappresentarla; narrare una parti colare vicenda, gaia o triste, per il solo gusto di narrarla; descrivere un personaggio per il solo gusto di descriverlo. Ci sono certi scrittori (e non pochi) che hanno questo gusto, e, paghi, non cercano altro. Sono scrittori di natura più propriamente storica. Ma ve ne sono altri, che, oltre questo gusto, sentono un più profondo bisogno spirituale, per cui non ammetton figure, vicende, paesaggi che non s’imbevano, per così dire, d’un particolar senso della vita e non acquistino con esso un valore universale. Sono scrittori di natura più propriamente filosofica. Io ho la disgrazia d’appartenere a quest’ultimi. Odio l’arte simbolica, in cui la rappresentazione perde ogni movimento spontaneo per diventar macchina, allegoria: sforzo vano e malinteso, perché il solo fatto di dar senso alle gorico ad una rappresentazione dà a veder chiaramente che già si tien questa in conto di favola che non ha per sé stessa alcuna verità né fantastica né effettiva, e che è fatta per la dimostrazione di una qualunque verità morale. Quel bisogno spirituale di cui io parlo non si può appagare, se non qualche volta e per un fine di superiore ironia (com’è per esem pio nell’Ariosto) di un tal simbolismo allegorico. Questo parte da un concetto, è anzi un concetto che si fa, o cerca di farsi, immagine; quello cerca invece nell’immagine, che deve restar viva e libera di sé in tutta la sua espressione, un senso che gli dia valore. Ora, per quanto cercassi, io non riuscivo a scoprir questo senso in quei sei personaggi. E stimavo perciò che non mettesse conto farli vivere. Pensavo fra me: « Ho già afflitto tanto i miei lettori con centinaia e centinaia di novelle, perché dovrei affliggerli ancora con la narrazione dei tristi casi di questi sei disgraziati ? ». E, così pensando, li allontanavo da me. 0 piuttosto, facevo di tutto per allontanarli. Ma non si dà vita invano a un personaggio. Creature del mio spirito, quei sei, già vivevano d’una vita ch’era la loro propria e non più mia, d’una vita che non era più in mio potere negar loro. Tanto è vero che, persistendo io nella mia volontà di scacciarli dal mio spirito, essi, quasi già del tutto distaccati da ogni sostegno narrativo, personaggi d’un romanzo usciti per pro digio dalle pagine del libro che li conteneva, seguitavano a vivere per conto loro; coglievano certi momenti della mia giornata per riaffacciarsi a me nella solitudine del mio studio, e or l ’uno or l’altro, ora due insieme, venivano a tentarmi, a propormi questa o quella scena da rappresentare o da descrivere, gli effetti che se ne sarebbero potuti cavare, il nuovo interesse che avrebbe potuto destare una certa insolita situazione, e via dicendo. Per un momento io mi lasciavo vincere; e bastava ogni volta questo mio condiscendere, questo lasciarmi prendere per un po’, perché essi ne traessero un nuovo profitto di vita, un accrescimento d’evidenza, e anche, perciò, d’efficacia persuasiva su me. E così a mano a mano diveniva per me tanto più difficile il tornare a liberarmi da loro, quanto a loro più facile il tornare a tentarmi. Ne ebbi a un certo punto, come ho detto, una vera e propria ossessione. Finché, tu tt’a un tratto, non mi balenò il modo d’uscirne. — 0 perché — mi dissi — non rappresento questo novissimo caso d’un autore che si rifiuta di far vivere alcuni suoi personaggi, nati vivi nella sua fantasia, e il caso di questi personaggi che, avendo ormai infusa in loro la vita, non si rassegnano a restare esclusi dal mondo del l’arte? Essi si sono già staccati da me; vivon per conto loro; hanno acquistato voce e movi- mento; sono dunque già divenuti di per se stessi, in questa lotta che han dovuto sostenere con me per la loro vita, personaggi drammatici, personaggi che posson da soli muoversi e parlare; vedono già se stessi come tali; hanno imparato a difendersi da me; sapranno ancora difendersi dagli altri. E allora, ecco, lasciamoli andare dove son soliti d’andare i personaggi drammatici per aver vita; su un palcoscenico. E stiamo a vedere che cosa ne avverrà. Così ho fatto. Ed è avvenuto naturalmente quel che doveva avvenire: un misto di tragico e di comico, di fantastico e di realistico, in una situazione umoristica affatto nuova e quanto mai complessa: un dramma che da sé, per mezzo dei suoi personaggi, spiranti parlanti semoventi, che lo portano e lo soffrono in loro stessi, vuole ad ogni costo trovare il modo d’esser rappresentato; e la commedia del vano tentativo di questa realizzazione scenica improvvisa. Dapprima, la sorpresa di quei poveri attori d’una Compagnia drammatica che stan provando, di giorno, una commedia su un palcoscenico sgombro di quinte e di scene; sorpresa e incredulità, nel vedersi apparire davanti quei sei personaggi che s’annunziano per tali in cerca d’un autore; poi, subito dopo, per quell’improvviso mancare della Madre velata di nero, il loro istintivo interessamento al dramma che intravedono in lei e negli altri componenti quella strana famiglia, dramma oscuro, ambiguo, che viene ad abbattersi così impensatamente su quel palcoscenico vuoto e impreparato a riceverlo; e man mano il crescere di questo interessamento al prorompere delle passioni contrastanti ora nel Padre, ora nella Figliastra, ora nel Figlio, ora in quella povera Madre; passioni che cercano, com’ho detto, di soppraffarsi a vicenda, con una tragica furia dilaniatrice. Ed ecco che quel senso universale cercato invano dapprima in quei sei personaggi, ora essi, andati da sé in palcoscenico, riescono a trovarlo in sé nella concitazione della lotta disperata che ciascuno fa contro l’altro e tu tti contro il Capocomico e gli attori che non li comprendono. Senza volerlo, senza saperlo, nella ressa dell’animo esagitato, ciascun d’essi, per difendersi dalle accuse dell’altro, esprime come sua viva passione il suo tormento, quelli che per anni sono stati i travagli del mio spirito: l’inganno della comprensione reciproca fondato irri mediabilmente sulla vuota astrazione delle parole; la molteplice personalità d’ognuno secondo tutte le possibilità d’essere che si trovano in ciascuno di noi; e infine il tragico conflitto immanente tra la vita che di continuo si muove e cambia e la forma che la fissa, immutabile. Due soprattutto fra quei sei personaggi, il Padre e la Figliastra, parlano di questa atroce inderogabile fissità della loro forma, nella quale l’uno e l’altra vedono espresse per sempre immutabilmente, la loro essenzialità, che per l’uno significa castigo e per l’altra vendetta; e la difendono contro le smorfie fittizie e la incosciente volubilità degli attori e cercano d’imporla al volgare Capocomico che vorrebbe alterarla e accomodarla alle così dette esi genze del teatro. Non tu tti e sei i personaggi stanno in apparenza sullo stesso piano di formazione, ma non perché vi siano fra essi figure di primo o di secondo piano, cioè « protagonisti » e « macchiet te » — che allora sarebbe elementare prospettiva, necessaria ad ogni architettura scenica o narrativa — e non perché non siano tutti, per quello che servono, compiutamente formati. Sono, tu tti e sei, allo stesso punto di realizzazione artistica, e tu tti e sei, sullo stesso piano di realtà, che è il fantastico della commedia. Se non che il Padre, la Figliastra e anche il Figlio sono realizzati come spirito; come natura è la Madre; come « presenze » il Giovinetto che guarda e compie un gesto, e la Bambina, assolutamente inerte. Questo fatto crea fra essi una prospettiva di nuovo genere. Inconsciamente avevo avuto l’impressione che mi biso gnasse farli apparire alcuni più realizzati (artisticamente), altri meno, altri appena appena raffigurati come elementi d’un fatto da narrare o da rappresentare: i più vivi, i più compiu tamente creati, il Padre e la Figliastra, che vengono naturalmente più avanti e guidano e si trascinano appresso il peso quasi morto degli altri: uno, il Figlio, riluttante; l’altro, la Madre, come una vittima rassegnata, tra quelle due creaturine che quasi non hanno alcuna consistenza se non appena nella loro apparenza e che han bisogno d’esser condotte per mano. E infatti! Infatti dovevano proprio apparire ciascuno in quello stadio di creazione raggiunto nella fantasia dell’autore al momento che questi li volle scacciare da sé. Se ora ci rifletto, l’avere intuito questa necessità, l’aver trovato, inconsciamente, il modo di risolverla con una prospettiva, e il modo con cui ho ottenuto questa, mi sembrano mira coli. Il fatto è che la commedia fu veramente concepita in un’illuminazione spontanea della fantasia, quando, per prodigio, tu tti gli elementi dello spirito si rispondono e lavorano in un divino accordo. Nessun cervello umano, lavorandoci a freddo, per quanto ci si fosse travagliato, sarebbe mai riuscito a penetrare ed a poter soddisfare tutte le necessità della sua forma. Perciò le ragioni che io dirò per chiarirne i valori non siano intese come inten zioni da me preconcette quando mi accinsi alla sua creazione e di cui ora mi assuma la di fesa, ma solo come scoperte che io stesso, poi, a mente riposata, ho potuto fare. 10 ho voluto rappresentare sei personaggi che cercano un autore. Il dramma non riesce a rappresentarsi appunto perché manca l ’autore che essi cercano; e si rappresenta invece la commedia di questo loro vano tentativo, con tutto quello che essa ha di tragico per il fatto che questi sei personaggi sono stati rifiutati. Ma si può rappresentare un personaggio, rifiutandolo? Evidentemente, per rappresentarlo, bisogna invece accoglierlo nella fantasia e quindi esprimerlo. E io difatti ho accolto e realizzato quei sei personaggi: li ho però accolti e realizzati come rifiutati e in cerca d’altro autore. Bisogna ora intendere che cosa ho rifiutato in essi: non essi stessi, evidentemente; bensì 11 loro dramma, che, senza dubbio, interessava loro sopra tutto, ma non interessava affatto me, per le ragioni già accennate. E che cos’è il proprio dramma, per un personaggio? Ogni fantasma, ogni creatura d’arte, per essere, deve avere il suo dramma, cioè un dramma di cui esso sia personaggio e per cui è personaggio. Il dramma è la ragion d’essere del personaggio; è la sua funzione vitale: necessaria per esistere. Io, di quei sei, ho accolto dunque l’essere, rifiutando la ragion d’essere; ho preso l ’organismo affidando ad esso invece della funzione sua propria, un’altra funzione più complessa e in cui quella propria entrava appena come dato di fatto. Situazione terribile e disperata spe cialmente per i due — il Padre e la Figliastra — che più degli altri tengono a vivere e più degli altri han coscienza d’essere personaggi, cioè assolutamente bisognosi d’un dramma e perciò del proprio, che è il solo che essi possono immaginare a se stessi e che intanto vedono rifiutato; situazione « impossibile », da cui sentono di dovere uscire a qualunque costo, per questione di vita o di morte. È ben vero che io, di ragion d’essere, di funzione, gliene ho data un’altra, cioè appunto quella situazione « impossibile »: il dramma dell’essere in cerca d’autore, rifiutati: ma che questa sia una ragion d’essere, che sia diventata, per essi che già avevano una vita propria, la vera funzione necessaria e sufficiente per esistere, neanche possono sospettare. Se qualcuno glielo dicesse, non lo crederebbero; perché non è possibile credere che l’unica ragione della nostra vita sia tutta in un tormento che ci appare ingiusto e inesplicabile. Non so immaginare, perciò, con che fondamento mi fu mosso l’appunto che il personaggio del Padre non era quello che avrebbe dovuto essere, perché usciva dalla sua qualità e posizione di personaggio invadendo, a volte, e facendo sua l’attività dell’autore. Io che intendo chi non mi intende, capisco che l’appunto viene dal fatto che quel personaggio esprime come proprio un travaglio di spirito che è riconosciuto essere il mio. Il che è ben naturale e non significa assolutamente nulla. A parte la considerazione che quel travaglio di spirito nel personaggio del Padre deriva, ed è sofferto e vissuto, da cause e per ragioni che non hanno nulla a che vedere col dramma della mia esperienza personale, considerazione che da sola toglierebbe ogni consistenza alla critica, voglio chiarire che una cosa è il travaglio immanente del mio spirito, travaglio che io posso legittimamente — purché gli torni orga nico — riflettere in un personaggio; altra cosa è l’attività del mio spirito svolta nella realiz zazione di questo lavoro, l’attività cioè che riesce a formare il dramma di quei sei personaggi in cerca d’autore. Se il Padre fosse partecipe di questa attività, se concorresse a formare il dramma dell’essere senza autore di quei personaggi, allora sì, e soltanto allora, sarebbe giustificato il dire che esso sia a volte l’autore stesso, e perciò non sia quello che dovrebbe essere. Ma il Padre, questo suo essere « personaggio in cerca d’autore », lo soffre e non lo crea, lo soffre come una fatalità inesplicabile e come una situazione a cui cerca con tutte le forze di ribellarsi e di rimediare: proprio dunque « personaggio in cerca d’autore » e niente di più anche se esprime come suo il travaglio del mio spirito. Se esso fosse parte cipe dell’attività dell’autore, si spiegherebbe perfettamente quella fatalità; si vedrebbe cioè accolto, sia pure come personaggio rifiutato, ma pur sempre accolto nella matrice fantastica d’un poeta e non avrebbe più ragione di patire quella disperazione di non tro vare chi affermi e componga la sua vita di personaggio: voglio dire che accetterebbe assai di buon grado la ragion d’essere che gli dà l ’autore e senza rimpianti butterebbe alle ortiche la sua propria, mandando al diavolo quel Capocomico e quegli attori a cui, come a unico scampo, è invece ricorso. C’è un personaggio, quello della Madre, a cui invece non importa affatto aver vita, consi derato l’aver vita come fine a se stesso. Non ha il minimo dubbio, lei, di non essere già viva; né le è mai passato per la mente di domandarsi come e perché, in che modo, lo sia. Non ha, insomma, coscienza d’esser personaggio: in quanto non è mai, neanche per un mo mento, distaccata dalla sua « parte ». Non sa d’avere una « parte ». Questo le torna perfettamente organico. Infatti la sua parte di Madre non comporta per se stessa, nella sua « naturalità », movimenti spirituali; ed ella non vive come spirito: vive in una continuità di sentimento che non ha mai soluzioni, e perciò non può acquistare coscienza della sua vita, che è quanto dire del suo esser personaggio. Ma, con tutto ciò, anch’ella cerca, a modo suo e per suoi fini, un autore: a un certo punto sembra contenta d’essere stata condotta davanti al Capocomico. Forse perché anche ella spera di over vita da costui? No: perché spera che il Capocomico le faccia rappresentare una scena col Figlio, nella quale metterebbe tanto della sua propria vita: ma è una scena che non esiste, che non ha mai, né potrebbe, aver luogo. Tanto eff’è incosciente del suo esser personaggio, cioè della vita che può avere, fissata e determinata tutta attimo per attimo, in ogni gesto e in ogni parola. Ella si presenta con gli altri personaggi sul palcoscenico, ma senza capire quello che essi le fanno fare. Evidentemente immagina che la smania di aver vita da cui sono assaliti il marito e la figlia e per cui anch’ella si ritrova su un palcoscenico, altro non sia che una delle solite incomprensibili stramberie di quell’uomo tormentato e tormentatore, e — orribile, orribile! — una nuova, equivoca levata di testa di quella sua povera ragazza traviata. È del tutto passiva. I casi della sua vita e il valore che questi hanno assunto agli occhi di lei, il suo carattere stesso, sono tutte cose che si dicono dagli altri e che ella solo una volta contraddice, perché l’istinto materno insorge e si ribella in lei, per chiarire che non volle affatto abbando nare né il figlio né il marito; perché il figlio le fu tolto e il marito la costrinse all’abbandono. Ma rettifica dati di fatto: non sa e non si spiega nessuna cosa. È, insomma, natura. Una natura fissata in una figura di Madre. Questo personaggio mi ha dato una soddisfazione di nuovo genere, che non va taciuta. Quasi tu tti i miei critici, invece di definirlo, al solito, « disumano » — che sembra sia il peculiare e incorreggibile carattere di tutte indistintamente le mie creature :— hanno avuto la bontà di notare, « con vero compiacimento », che finalmente dalla mia fantasia era uscita una figura umanissima. La lode me la spiego in questo modo: che, essendo la mia povera Madre tutta legata al suo atteggiamento naturale di Madre, senza possibilità di liberi mo vimenti spirituali, cioè quasi un ciocco di carne compiutamente viva in tutte le sue funzioni di procreare, allattare, curare e amare la sua prole senza punto bisogno perciò di fare agire il cervello, essa realizzi in sé il vero e perfetto « tipo umano ». Certo è così, perché nulla pare che sia più superfluo dello spirito, in un organismo umano. Ma i critici, pur con quella lode, si sono voluti sbrigare della Madre senza curarsi di pene trare il nucleo di valori poetici che il personaggio, nella commedia, sta a significare. Uma nissima figura, sì, perché priva di spirito, cioè incosciente d’essere quello che è o incurante di spiegarselo. Ma il fatto di ignorare d’esser personaggio non le toglie già d’esserlo. Ecco il suo dramma, nella mia commedia. E l’espressione più viva di esso balza in quel suo grido al Capocomico che le faceva considerare come tutto fosse già avvenuto e perciò non potesse più esser motivo di nuovo pianto: — No, avviene ora, avviene sempre! Il mio strazio non è finto, signore! Io sono viva e presente, sempre, in ogni momento del mio strazio, che si rinnova vivo e presente. —■ Ed ella questo sente senza coscienza e perciò come cosa ine splicabile: ma lo sente con tanta terribilità che non pensa neanche che possa essere cosa da spiegare a se stessa o agli altri. Lo sente e basta. Lo sente come dolore, e questo dolore, immediato, grida. Così in lei si riflette la fissità della sua vita in una forma, che, in altro modo, tormenta il Padre e la Figliastra. Questi, spirito; ella, natura: lo spirito vi si ribella o, come può, cerca di profittarne; la natura, se non sia aizzata dagli stimoli del senso, ne piange. Il conflitto immanente tra la vita e la forma è condizione inesorabile non solo nell’ordine spirituale, anche in quello naturale. La vita che s’è fissata, per essere, nella nostra forma cor porale, a poco a poco uccide la sua forma. Il pianto di questa natura fissata è l’irreparabile, continuo invecchiare del nostro corpo. Il pianto della Madre è allo stesso modo passivo e perpetuo. Mostrato attraverso tre facce, invalorato in tre drammi diversi e contempo ranei, queU’immanente conflitto trova così nella commedia la sua più compiuta espressione. E di più, la Madre dichiara anche il particolare valore della forma artistica: forma che non rapprende e non uccide la sua vita, e che la vita non consuma; in quel suo grido al Capo mico. Se il Padre e la Figliastra riattaccassero centomila volte di seguito la loro scena, sempre, al punto fissato, all’attimo in cui la vita dell’opera d’arte dev’essere espressa con quel suo grido, sempre esso ritornerebbe inalterato e inalterabile nella sua forma, ma non come una ripetizione meccanica, non come un ritorno obbligato da necessità esteriori, ma bensì, ogni volta, vivo e come nuovo, nato improvviso così per sempre: imbalsamato vivo nella sua forma immarcescibile. Così, sempre, ad apertura di libro, troveremo Fran cesca viva confessare a Dante il suo dolce peccato; e se centomila volte di seguito rilegge remo quel passo, centomila volte di seguito Francesca ridirà le sue parole, non mai ripeten dole meccanicamente, ma dicendole ogni volta per la prima volta con sì viva e improvvisa passione che Dante ogni volta ne tramortirà. Tutto ciò che vive, per il fatto che vive, ha forma, e per ciò stesso deve morire: tranne l’opera d’arte, che appunto vive, per sempre, in quanto è forma. La nascita d’una creatura della fantasia umana, nascita che è il passo per la soglia tra il nulla e l’eternità, può avvenire anche improvvisa, avendo per gestazione una necessità. In un dramma immaginato serve un personaggio che faccia o dica una certa cosa neces saria: ecco quel personaggio è nato, ed è quello, preciso che doveva essere. Così nasce Ma- dama Pace fra i sei personaggi, e pare un miracolo, anzi, un trucco su quel palcoscenico rappresentato realisticamente. Ma non è un trucco. La nascita è reale, il nuovo personaggio è vivo non perché fosse già vivo, ma perché felicemente nato, come appunto comporta la sua natura di personaggio, per così dire, « obbligato ». È avvenuta perciò una spezza tura, un improvviso mutamento del piano di realtà della scena, perché un personaggio può nascere a quel modo soltanto nella fantasia del poeta, non certo sulle tavole d’un palco- scenico. Senza che nessuno se ne sia accorto, ho cambiato di colpo la scena: la ho riaccolta in quel momento nella mia fantasia pur non togliendola di sotto gli occhi agli spettatori: ho cioè mostrato ad essi, in luogo del palcoscenico, la mia fantasia in atto di creare, sotto specie di quel palcoscenico stesso. Il mutarsi improvviso e incontrollabile di una apparenza da un piano di realtà a un altro è un miracolo della specie di quelli compiuti dal Santo che fa muovere la sua statua, che in quel momento non è più certamente né di legno né di pietra; ma non un miracolo arbitrario. Quel palcoscenico, anche perché accoglie la realtà fantastica dei sei personaggi, non esiste di per se stesso come dato fisso e immutabile, come nulla in questa commedia esiste di posto e di preconcetto: tutto vi si fa, tutto vi si muove, tutto vi è tentativo improvviso. Anche il piano di realtà del luogo in cui si muta e si rimuta questa informe vita che anela alla sua forma, arriva così a spostarsi, organicamente. Quando io concepii di far nascere lì per lì Madama Pace su quel palcoscenico, sentii che potevo farlo e lo feci: se avessi avvertito che questa nascita mi scardinava e mi riformava, silen ziosamente e quasi inavvertitamente, in un attimo, il piano di realtà della scena, non lo avrei fatto di sicuro, aggelato dalla sua apparente illogicità. E avrei commesso una malaugurata mortificazione della bellezza della mia opera, da cui mi salvò il fervore del mio spirito: perché, contro una bugiarda apparenza logica, quella fantastica nascita è sostenuta da una vera necessità in misteriosa organica correlazione con tutta la vita dell’opera. Che qualcuno ora mi dica che essa non ha tutto il valore che potrebbe avere perché la sua espressione non è composta ma caotica, perché pecca di romanticismo, mi fa sorridere. Capisco perché questa osservazione mi sia stata fatta. Perché nel mio lavoro la rappresen tazione del dramma in cui sono involti i sei personaggi appare tumultuosa e non procede mai ordinata: non c’è sviluppo logico, non c’è concatenazione negli avvenimenti. È veris simo. Neanche a cercarlo col lumicino avrei potuto trovare un modo più disordinato, più strambo, più arbitrario e complicato, cioè più romantico, di rappresentare « il dramma in cui sono involti i sei personaggi ». È verissimo, ma io non ho affatto rappresentato quel dramma: ne ho rappresentato un altro — e non starò a ripetere quale! — in cui, fra le altre belle cose che ognuno secondo i suoi gusti ci può ritrovare, c’è proprio una discreta satira dei procedimenti romantici: in quei miei personaggi così tu tti incaloriti a sopraffarsi nelle parti che ognun d’essi ha in un certo dramma mentre io li presento come personaggi di un’altra commedia che essi non sanno e non sospettano, così che quella loro esagitazione passionale, propria dei procedimenti romantici, è umoristicamente posta, campata sul vuoto. E il dramma dei personaggi, rappresentato non come si sarebbe organato nella mia fantasia se vi fosse stato accolto, ma così, come dramma rifiutato, non poteva consistere nel mio lavoro se non come « situazione », e in qualche sviluppo, e non poteva venir fuori se non per accenni, tumultuosamente e disordinatamente, in iscorci violenti, in modo caotico: di continuo interrotto, sviato, contraddetto, e anche, da uno dei suoi personaggi negato e, da due altri, neanche vissuto. C’è un personaggio infatti — quello che « nega » il dramma che lo fa personaggio, il Figlio — che tutto il suo rilievo e il suo valore trae dall’essere personaggio non della « commedia da fare » — che come tale quasi non appare — ma della rappresentazione da me fatta di essa. È insomma il solo che viva soltanto come « personaggio in cerca d’autore »; tanto che l’au tore che egli cerca non è un autore drammatico. Anche questo non poteva essere altrimenti tanto l’atteggiamento del personaggio è organico nella mia concezione quanto e logico che nella situazione determini maggior confusione e disordine e un altro motivo di contrasto romantico. Ma appunto questo caos, organico e naturale, io dovevo rappresentare; e rappresentare un caos non significa affatto rappresentare caoticamente, cioè romanticamente. E che la mia rappresentazione sia tu tt’altro che confusa, ma anzi assai chiara, semplice e ordinata, lo dimostra l’evidenza con cui, agli occhi di tu tti i pubblici del mondo, risultano 1 intreccio, i caratteri, i piani fantastici e realistici, drammatici e comici del lavoro, e come, per chi ha occhi più penetranti, vengono fuori i valori insoliti in esso racchiusi. Grande e la confu sione delle lingue fra gli uomini, se critiche così fatte pur trovano le parole per esprimersi. Tanto grande questa confusione quanto perfetta l’intima legge d’ordine che, in tutto obbe dita, fa classica e tipica la mia opera e vieta ogni parola alla sua catastrofe: quando, dinanzi a tutti ormai compresi che per artificio non si crea vita e che il dramma dei sei personaggi, mancando l’autore che lo invalori nello spirito, non si potrà rappresentare, per 1 istigazione di uno che volgarmente è ansioso di conoscere come si svolse il fatto, questo fatto, ricordato dal Figlio nella successione materiale dei suoi momenti, privo di qualunque senso e perciò senza neanche bisogno della voce umana, ma con la sua stessa voce materiale, per la sola ragione che era avvenuto, avviene: s’abbatte bruto, inutile, con la detonazione d un arma meccanica sulla scena, infrangendo e disperdendo lo sterile tentativo dei personaggi e degli attori, apparentemente non assistito dal poeta, il quale intanto, a loro insaputa, quasi guardando da lontano per tutto il tempo di quel loro tentativo, ha atteso a creare con esso Luigi Pirandello e di esso la sua opera. P i r a n d e l l o a l l e p r o v e Legge male, ma con irresistibile efficacia. Non c’è valore d’intonazioni nella sua voce, né chiaroscuri, né pause, né studiate ricerche d’effetto, né quello che si potrebbe chiamare « l’arte del respiro » che serve a distaccare le frasi con sapienti dosature di silenzio, che le arieggia, le isola, dando loro tutto il significato intellettuale e musicale che devono avere. Ma che irruenza nel leggere; che vertigine; che travolgente tumulto di parole, di suoni, di urli. Non si resiste. Senza mai alzare gli occhi dal copione, con le mani fortemente aggrap pate alla tavola come per impedirle di scappare terrorizzata da tanto fragore, con gli occhi scintillanti d’un’ebbrezza veramente sovrumana, con degli strani fulminei corrugamenti della fronte ardente, grondante di sudore, con degli energici pugni sulla pagina come per ribadire certe parole, per farle entrare nella mente di chi ascolta come si picchia sul chiodo per farlo penetrare nel legno duro, Luigi Pirandello pare che legga più per sé che per gli altri; lo si sente solo con la passione dei suoi personaggi, con la loro volontà che domina la sua. Legge d’un fiato tutto un atto e quando rialza il viso fiammeggiante d’intelligenza, sorri dente del suo buon sorriso e guarda con gli occhi ridivenuti miti, sembra meravigliato di vedere dinanzi a sé un semicerchio di persone attonite, disfatte come lui, che l’hanno ascol tato senza respirare. La lettura alla Compagnia de i Sei personaggi in cerca d'autore fu memorabile. L ’ammira- zione incominciò quando finì la comprensione. E questa finì subito. Era impossibile seguire quell’impeto e non lo si poteva seguire che fisicamente. Eravamo tu tti travolti nel torrente, ansimanti, immobili. L ’entusiasmo tra gli attori scoppiò unanime, irresistibile, convinto, e profondo. Ma nessuno aveva capito niente. Eravamo sbalorditi, nel caos. La luce si fece, a poco, a poco, alle prove innumerevoli. Gli attori deferenti, attenti e silenziosi, raccolti nel religioso rispetto che a tu tti ispira l’in- comprensibile, si lasciano condurre per i tormentati meandri di quella poderosa e aggrovi- vigliata concezione piena di abbaglianti fosforescenze cerebrali, di scatti, di ripiegamenti, di curiosi espedienti scenici e di risorse geniali; d’un’atmosfera suggestiva come quella d’un vizio. Gli strati di nebbia si diradano lentamente e i primi bagliori appaiono, risplendono, si spen gono, si riaccendono, rimangono. Una chiarezza è conquistata. Tutti respirano contenti e soddisfatti come per dire « questa non ci sfugge più ». Ma i comici sono un po’ sperduti. Non riescono a farsi un’opinione di quel che dicono. E questo non può essere. Un comico senza opinione sul lavoro che recita è come una lampada spenta o una barca senza remi o un mo tore senza magnete. In palcoscenico bisogna sempre avere un’opinione, buona o cattiva non importa, ma averla. E i giorni passano e il mistero rimane opaco e non si svela. Fin dalla prima prova la modesta sedia vicina alla cuffia del suggeritore diventa per Piran dello una poltrona di platea. Dirige. Sa mirabilmente e chiaramente spiegare anche le cose più oscure. Anzi, più sono oscure e più chiaramente le spiega. Sa calarsi a fondo nel torbido di certe anormalità psicologiche e renderle evidenti. Sa chiedere e sa ottenere; ma un curioso sdoppiamento avviene nella sua persona. C’è in essa l’autore che guida ed insegna e c’è lo spettatore che guarda e che gode. Per tu tti le linee della commedia sono ancora confuse, imprecise, informi; ma lui le vede subito chiare e inconfondibili. Tutti sono nell’abbozzo mentre lui è nel quadro compiuto; la commedia è già viva sul palcoscenico. E vedere come la segue, come la respira, e come le parla è uno spettacolo imperioso d’umano interesse. Lo sforzo mnemonico è visibilmente prodigioso; ripete le parole del suo testo senza mancarne una o, piuttosto, le sue labbra le disegnano tutte in un ardente silenzio. Il suo viso è d’una mobilità incredibile. Fa pensare a una folla di visi in azione. Ripete, rifà le contrazioni visuali degli attori. I suoi occhi vanno da un interprete all’altro; prendono e danno, semi nano e raccolgono, sorridono, fremono, approvano. Ogni muscolo è in movimento; la bocca percorrendo la gamma di tutte le sue possibilità espressive diviene innumerevole; il mento trema convulso; i nervi tesi fino allo spasimo; il viso è pieno di lampi che si susseguono ful minei in una varietà infinita; le infuocate pareti del cranio sono come trasparenti e sembra di vedere il lavorio miracoloso di quel cervello, di quel motore frenetico che manda scintille e gemiti nello sforzo sovrumano. La scena monta, s’allarga s’inasprisce si accanisce, urla fra due, tre, quattro personaggi e Pirandello è due, tre, quattro personaggi. Segue il crescendo moltiplicando le risorse della sua espressione, lo accentua col gesto, lo accelera col movimento tormentoso di tutta la persona. La parola acre la mormora con inaudita violenza, con un abbassare del mento sul petto e uno scricchiolar di mascelle come quello della belva che azzanna a volo la carne del suo bramato pasto. Muto è più efficace di tutti. In lui, seduto, c’è più movimento che in tutti. La scena è lui. La riassume, la riassorbe e la ributta fuori da tu tti i pori del suo viso, come le bocche spalancate in certe rocce delle coste della sua Sicilia — i mostri omerici — risucchiano il mare con una potente incalcolabile aspirazione per poi rigettarlo in pulvischio con la violenza del tifone. Ma ad un tratto tutta quella forza umana infrenabile cade come colpita a morte. Il corpo rimane inerte, le braccia penzoloni, il viso àtono, gli occhi spenti. È un segno di disapprovazione. Interrompo la prova. Pirandello si alza, cerca, spiega, rettifica. Incerto ed esitante in principio, si accalora subito, ridiventa subito efficace. Prende di petto l’attore in difetto e spiega; spiega con un torrente di parole. Le sue mani, con le dita aggruppate all’estremità sembrano due pigne all’insù agitate da un vento di tempesta. — Non è colpa tua — dice affettuoso e cordiale all’attore. — È colpa del suggeritore. Tutto è colpa del suggeritore. Ce l’ha a morte col suggeritore. È il suo acerrimo inconciliabile nemico. — Finché ci sarà il suggeritore — dice — non ci potrà essere né verità né naturalezza nella recitazione. Bisogna sopprimerlo, sopprimerlo. — E con un largo gesto della mano sembra che gli tagli la testa. — Il suggeritore è la rovina del teatro. Si accalora. Gli attori gli sono attorno, stupefatti, allibiti dallo sconvolgimento rivoluzio nario di tutte le loro convinzioni che tendono invariabilmente a un buon suggeritore. — Quando io dirigerò, gli attori dovranno studiare e imparare a memoria le loro parti. Tacita ma effimera ribellione degli attori. — Dovranno studiare accanitamente, in casa loro, soli, nel silenzio e nella meditazione. Gli attori credono di sognare. — E quando verranno sul palcoscenico non dovranno essere più gli attori, ma i personaggi stessi della commedia o del dramma che dovranno recitare. Lo sgomento degli attori, benché muto, diviene evidente. — Così avranno in se stessi una realtà non relativa, ma assoluta, non la falsa verità del palcoscenico, ma quella positiva e inconfutabile della vita. Ora non è possibile. L ’attore si specchia nel suggeritore e, per forza, deve sentirsi grottesco nei confronti del personaggio che deve rappresentare. Non può essere personaggio; rimane attore, attore che dice con più o meno intelligenza, con più o meno talento o genio, ma macchinalmente, le parole che il suggeritore gli spedisce di contrabbando dalla sua cabina senza fili, ma non senza voce, perché il pubblico sente quasi sempre la sua voce o, se non la sente, la indovina, il che è ugualmente disastroso per lo spettacolo. Gli attori sentono mancarsi a poco a poco. — E il suggeritore non si contenta di suggerire le parole, ma ha delle inflessioni sue, delle smorfie sue particolari, suggestionanti per l’attore poco sicuro; il suggeritore recita nella sua tana. Bisogna vederlo in azione. È come un enurgumeno imprigionato che si agita, che stringe i pugni per dar maggior forza alla parola, che atteggia le mani ai lati della bocca per farne un più sordo e udibile megafono, che, insomma, dirige lo spettacolo a seconda dei suoi nervi, del suo stato d’animo e del suo umore. E Pirandello, pittoresco, d’una facondia colorita e inesauribile spiega e giustifica le conce zioni teoriche della scena. In verità io credo che sbagliano coloro che credono a un Pirandello che preme e macera spietatamente il suo cervello per trarne ad ogni costo delle cose « differenti »; per sconvol gere le leggi del peso e della resistenza nell’architettura scenica, per scombussolare i valori etici ed estetici del teatro. Anche parlando il grande scrittore parla in un altro modo, vede sente, vuole in un altro modo. Udendolo si pensa a un vivo e animato compendio generale di tutte le eccezioni contro tutte le regole. Dario Niccodemi (Tempo passato — Ed. Treves 1929) La Francia, pur così ricca di autori comici, consi dera Labiche il successore di Molière. Lo ritiene un classico e lo onora come tale: la « Comédie Française » riprende regolarmente le commedie di questo autore, così come ritorna alla ribalta Mo lière, per legittimo diritto. Recentemente è stato rimesso in scena « Le voyage de M. Perrichon », commedia che il lettore troverà in questo fascicolo appositamente tradotta. D’altronde non esiste in Italia una traduzione delle opere di Labiche, per quanto possibile, dato il loro numero eccezionale,' ma almeno, le migliori e le più note potrebbero formare un volume. Oltre le rappresentazioni ad ogni Stagione, in Fran cia si pubblica ora un « Labiche completo » per l’iniziativa intelligente e generosa, quanto neces saria, del « Club de l’honnête homme » diretto da Luce Fieschi. L’edizione comprende, oltre le 57 com medie finora conosciute, 102 altre commedie pub blicate in fascicoli introvabili, due inedite, un ro manzo ( « La clef des champs » ), il discorso pronun ciato da Labiche entrando all’Accademia di Francia, ed un « Journal de voyage en Italie », interamente inedito. Ognuno degli otto volumi avrà un presen tatore diverso: Marcel Achard, André Roussin, René Clair, Eugène Ionesco, Pauline Carton, Jean Dutourd, ecc. Jean Dutourd, romanziere, saggista, critico dramma tico, ha scritto la presentazione e per l’amabile sua cortesia, della quale siamo grati, pubblichiamo nelle pagine seguenti un riassunto del suo ampio saggio, che abbiamo intitolato per sua stessa affer mazione « Leggendo Labiche si ride da soli ». Eugène Labiche (puntasecca di Marcellin Desboutin). Nella piccola foto, Labiche entra alFAccademia, in una caricatura del tempo. Tutti i documenti riferentisi a Labiche li abbiamo avuti dalla Comédie Française, per l’amabile cortesia degli attuali Amministratori che hanno permesso ai nostri incaricati di fotografarli nel loro archivio. Ringraziamo con gratitudine. Eugène-Marin Labiche nacque a Parigi durante i « Cento giorni», il 6 maggio 1815, quindici giorni prima di Wat&rloo, e questo fece scrivere a Jean Giraudoux « aprì alla Francia la mo narchia e portò fortuna alla borghesia». Nato da faitiiglia benestante, fisicamente dotato per gustare le gioie della vita, alto, robusto, di eccellente salute, incominciò a scrivere giovanissimo —- ancora studente — perché questo « lo distraeva » ; infatti la sua prima collaborazione fu per i giornali umoristici. Appassionato di teatro se ne invischiò talmente da farne scopo essenziale della sua vita. Uomo quanto mai equilibrato ed accorto amministratore del proprio denaro, sposò a ventis&i anni, godendo di laute rendite. Celebre a 33 anni, non si preoccupò di stabilizzare la sua gloria nascente, ma di consolidare sempre più il suo patrimonio. Nel 1853, cinque anni dopo il suo primo grande successo, acquistò a Souvigny il castello del luogo, una proprietà di 900 ettari. Ne fece una grande casa borghese del XIX secolo. Condusse una vita di piacere soddisfatto, mangiando con appetito cibi prelibati ed affermando che « la gaieté est dans Vesto mac». Anche i suoi personaggi sono sempre ben nutriti, così come lo furono i suoi spettatori. Eugène Labiche morì a Parigi, il 22 gennaio 1888: settantatré anni; non molti, ma aveva sempre mangiato molto bene. Nelle quattro fotografie, dall’alto in basso a sinistra, e la prima in alto a destra, le scene di André Levasseur dei rispettivi atti di II viaggio del Signor Perriclion alla Comédie Française, nell’attuale ripresa. Questa com media è (con Un cappello di paglia di Firenze e La Cagnotte) tra le più conosciute in Italia delle opere di Labiche. Negli ultimi anni dell’Ottocento e fino alla morte di Ermete Novelli « grandissimo Perrichon », se- condo Simoni, i maggiori interpreti delle commedie in dicate furono Bellotti-Bon, Paladini, Morelli, Maggi, Pie- triboni, Marchetti, Talli, Giovannini. Tuttavia la com media non è stata mai pubblicata, ed i capocomici di allora si servivano di copioni propri, non troppo fedeli, ma zeppi di soggetti personali. Fummo noi stessi, nel 1915, a preparare una traduzione-adattamento della Ca- gnotte per Ermete Novelli e la Compagnia Ferrerò. L e g g e n d o L a b i c h e s i r i d e d a s o l i La gloria più grande per uno scrittore non è quella d’andare ad appassire come una vecchia farfalla scolorita fra le pagine del Petit Larousse, né avere una biografia pittoresca che faccia sognare generazioni di liceali, ma è entrare nel costume, incor porarsi alla natura, divenire un elemento di folclore. Pochissimi, anche fra i più grandi, arrivano a tanto. Probabilmente perché manca loro una certa gentilezza, una certa bonomia, una specie di bontà paterna, doti senza le quali non si accede a quell’onore supremo che consiste nel « far parte del paesaggio ». Labiche fa parte del paesaggio francese. Egli ha il suo posto fra noi come la Tour Eiffel, il Petit Trianon, il parco Montsou- ris. Non c’è francese che non abbia sen tito parlare di lui. Lo si scopre a dieci anni nella biblioteca verde, a ottani’anni lo si legge ancora. Una gloria come questa non è mai usurpata. In effetti, che resta del teatro francese del secolo X IX ? Due autori: Musset e lui. I l piccolo clarinetto di Labiche suonava più a tono dell’ampio contrabbasso del « pere Hugo ». Ricordo perfettamente le letture della mia infanzia: voglio dire i grandi autori, quelli che contano per sempre: erano Dumas, Assoleant (Te Capitarne Corcoran), natu ralmente la contessa di Ségur, Léon Cahun ("La Bannière bleue), Jack London, Chris tophe, Labiche. Non ho più riletto da trent’anni I tre moschettieri, mentre ogni sei mesi rileggo due o tre commedie di Labiche. Ogni volta sono sicuro che ri troverò esattamente ciò che ci vuole per sentirsi felici: allegrezza in tutte le righe, uno studio serio dell’uomo, pa role che fanno scoppiare dal ridere. Leg gendo Labiche, si ride da soli. I l primo a fare quest’esperienza di soli taria letizia fu Emile Augier. Labiche l ’aveva invitato nel suo castello di Launoy, in Sologne. « Un giorno — scrive Augier — si sposava la figlia di un castaido del mio ospite e Labiche, per non lasciarmi solo, voleva condurmi con sé alle nozze, ma io preferii starmene a casa. Passai così la giornata nella biblioteca, e non ho me moria di giornata più divertente di quella: c’era là tutto il repertorio di Labiche. Non avevo mai letto quelle commedie che tanto mi avevano divertito sulle scene; imma ginavo, come m olti altri, ch’esse necessi tassero dell’abilità degli interpreti, e lo stesso autore d’altra parte per la modestia con la quale parlava della sua opera, mi aveva avvalorata quell’opinione. E mi sba gliavo, come m i sbagliavo! proprio come si sbagliavano l ’autore e tu tti coloro che sono di quell’idea ». I l teatro di Labiche guadagna il cento per cento alla lettura: il lato burlesco entra nell’ombra e viene in piena luce il lato comico. Labiche è la lanterna magica del secolo diciannovesimo. I suoi personaggi — che 10 sappia — non sono stati recensiti come quelli di Balzac, ma a lume di naso ne conto più di mille. Tutto un mondo. Qua rantanni della società francese. Si va da Luigi Filippo alla I I I Repubblica. Senza averne l ’aria, senza darsi pensiero di costruire un’opera, discretamente, la vorando molto, Labiche è succeduto a Balzac. La società ch’egli dipinge è in un certo senso la continuazione de La Co- médie Humaine; di quella stessa società Labiche ha proseguito la descrizione e ne ha mostrato l ’evoluzione e le metamorfosi. Tesoro inestimabile. 11 borghese del 1860 non è più quello del 1830. Non ha più il vigore prunitivo, l ’imbecillità feconda dei Vhellion, dei Thuillier, dei Baudoyer. Fenomeno curio so: nell’insipidire, i suoi tra tti si sono evi- denziati, e cioè, egli s’è rattratto come una caricatura. Ma gli resta la cosa essenziale: il suo linguaggio, che non s’è smosso quasi in nulla, che è ancora pieno di idiotismi, d’espressioni alla moda, di scimunitaggini. Labiche che aveva un orecchio straordina riamente fine ha colto tutto questo, e ciò costituisce uno dei pregi più interessanti del suo teatro. Ecco della gente che parla il nostro stesso idioma, senza dubbio, ma in una maniera del tutto diversa, con delle tradizioni a noi ormai sconosciute, allusioni che tanto più ci paiono facete in quanto le compren diamo un po’ a tentoni, esclamazioni al lora d’uso corrente ma oggi insolite, rid i colaggini raddoppiate da giri di frasi fuori moda. La vita di Labiche ha qualcosa di riuscito e di affascinante. Questo buon giovane che amava ridere, che aveva buona salute, mangiava bene e forte, ma lavorava come un bue, aveva formato per così dire un « atelier » di teatro del quale era il mae stro, tutto come i grandi p itto ri d’altri tempi. Sembra sia stato sempre felice. E ’ difficile concepire ch’egli aveva avuto vent’anni nel 1835, l ’epoca più calda del romanticismo, dei capelli lunghi, dei sen tim enti eccessivi, della rinascita poetica francese. Che faceva a quel tempo? Non brutte elegie, ma critica drammatica ne La Revue du Théâtre. I suoi articoli sono veramente faceti, piccanti, molto spiri tuali, del tutto p rivi di carità. Immagino volentieri le critiche di Lucien de Rubempré scritte da quella penna. La loro interessante per ragioni diverse. Erima di tutto perché si constata una volta di più che non è affatto male cominciare col criticare gli altri prima di mettersi a praticare personalmente l ’arte e che l ’esempio di ciò che non va fatto è lettura è sempre eccellente per un futuro creatore. In secondo luogo, vediamo un Labiche gio vane, sagace, gioiosamente feroce, che non è abituale. Infine, come sempre quando un uomo di talento fa della critica, subito si mostrano in lu i il moralista e l ’osserva tore. Per conto mio resto in grande ammi razione del fatto che Labiche a vent’anni non imitava nessuno e già aveva il suo spirito beffardo. M i piace un altro episodio della sua vita: l ’ambizione ch’egli ebbe nel 1848 di diven tare deputato. La politica è una grande tentazione per gli uomini di lettere, so prattutto nei momenti di crisi, quando i politici di professione crollano. Questo noi lo abbiamo visto in Francia anche nel 1958. Non c’è da dubitare che Labiche sia stato vivamente attratto dalle stesse ragio ni, sebbene la sua battaglia elettorale fu ben fiacca e gli innumerevoli compromessi materiali che la politica richiede lo aves sero ben presto scoraggiato. Ma io penso che c’era un altro motivo che lo spingeva a questo tentativo: il de siderio più o meno cosciente d’osservare un mondo ch’egli non conosceva e gente che consuetamente egli non aveva occa sione d’avvicinare, il bisogno d’occuparsi direttamente dell’umanità. Ne è conse guita una serie di commedie dove si ve dono operai, rivoluzionari, socialisti. Ma Labiche non si lascia impressionare dalle convulsioni storiche. Chi ha fatto la rivoluzione del 1848? Lo stesso popolo e gli stessi piccoli borghesi che, nel 1847, fornivano modelli allo scrittore di vaudevilles. I l popolo e i piccoli borghesi posti in una situazione storica conservano il loro ridicolo, aggravato dalla grandiosità dell’epoca. Grazie al che Labiche ha scrit l ’Homme to un capolavoro: Rue de tutto i grandi Armé, n. 8 bis, che è un quadro delle rivoluzioni viste nelle loro meschine in giustizie, nelle tante sciocchezze, perché l ’animale sociale prospera nel disordine con la stessa naturalezza con la quale, poco prima, prosperava nella tradizione e nei valori stabiliti. I l secolo X IX è stato il secolo della stu pidità e della descrizione della stupidità. Quando ammiriamo imbecilli francesi, Frudhomme, Bouvard e Pécu- chet, M. Perrichon fino a M. Fenouillard, ci si dimentica che costoro sono stati gio vani e che hanno partecipato a delle rivo luzioni, poiché il secolo decimonono è stato anche il secolo delle rivoluzioni. Labiche ce li mostra nei loro rapporti fug- gevoli con la storia, ed è evidente eh’essi restano fedeli a se stessi. E il bello è che il nostro autore non fa neppure della polemica. Egli si lim ita a riprodurre tranquillamente la realtà par tendo da quel luminoso principio che i personaggi di una commedia non possono che restare personaggi di commedia anche in circostanze epiche. Da qui, un quadro imparziale, dunque molto più vero di quelli che dipingono, o avrebbero dipinto, scrittori interessati. E non lo si può accusare d’essere pessi mista per sistema. In altre commedie, come ad esempio A bas la farri ili e! ci si rende conto ch’egli sapeva comprendere ed amare il popolo. Però quest’uomo privo di pregiudizi non considerava affatto sacro il popolo, tro vando in esso lo stesso numero di imbe c illi che fra i borghesi. Perché mai una classe sociale ne potrebbe essere miraco losamente risparmiata? Sembra che solo a trent’otto anni, La- biche assumesse la sua fisionomia defini tiva. Fu a quell’età che acquistò una bella il cieco individualismo, da egoismo veramente organico, costitui scono l ’unica pittura in profondo d’una società che conosciamo molto male perché era discreta e preferiva alla fama i beni tangibili. A poco a poco questa classe ha modellato la nazione, le ha dato un viso nuovo, ha sostituito alle aspirazioni di grandezza, di gloria, di bellezza artistica dell’antica Francia il gusto del benessere, il conforto, la prudenza vigliacca, la comoda bruttezza. Ecco quello che Labiche, unico della sua specie, ha saputo vedere e soprattutto ha saputo mostrare da grande autore comico, senza accusare, senza appesantirsi con tesi noiose, senza consegnarsi a oziose consi derazioni moralistiche. Egli dipinge il qua dro, e il quadro è completo e parla in ma niera terribile, appunto perché è completo. Questo giovane allegro e modesto ha scritto un teatro crudele e implacabile le cui condanne senza appello vengono pronunciate sempre in mezzo agli scrosci dt risa delle platee. Jean iiutouni (Traduzione di Costanza Andreucci) tenuta a Loir-et-Cher, dove passò una gran parte della sua vita. Aveva un ca stello, quattro masserie, seicento ettari di terra e trecento di foreste. Fu sindaco del comune di Souvigny e, al tempo dell’in vasione prussiana, nel 1870, si comportò con coraggio, difendendo i suoi ammini strati contro requisizioni ed esazioni. Con tutto ciò sempre lavorando, producendo cinque o sei commedie all’anno, alcune brillantissime, altre meno, ma tutte col suo spirito affascinante, la sua acutezza d’osservazione, la sua finezza, la sua fa cezia. Era celeberrimo, ma, beninteso, non lo si prese affatto sul serio dal momento che faceva ridere: questa qualità non è mai stata ben vista in Francia. Infine egli si preoccupava più di lavorare che non farsi valere, e per la sua estrema mode stia rimaneva sempre un po’ stupito quando qualcuno s’accorgeva ch’egli era un grand’uomo. Nel 1880 fu eletto acca demico, cosa che a lu i fece molto piacere, ma irritò moltissimo gli altri, compreso M. Brunetière, che è oggi del tutto di menticato. Qualche volta capita che i buffoni pren dano la loro rivincita e vadano ad assi dersi in mezzo ad uomini seri, che in fondo sono molto meno seri di loro. Nella letteratura francese del diciannove simo secolo Labiche occupa un posto unico. Egli è il solo di tu tti gli autori di quell’epoca ad aver ritratto la classe so ciale che effettivamente dirigeva il paese. I piccoli borghesi di Labiche, nei loro minuscoli appartamenti, anziani commer cianti, fu tu ri funzionari esclusivamente in tenti ad arrotondare le loro rendite e a far bella figura davanti alla gente, animati Autografo di Labiche a Thierry, ammi nistratore della Comédie Française, il W 7 settembre 1860, per la prima al Teatro r Gymnase di Voyage de Ai. Perrichon. lim iti, pregi, manìe, novecentismo, futurismo, ecc.) ed a fa vore dell’ordine cui appartiene. Rifacendoci ad una osservazione di Cor rado Ravolini, « per quanto non gli somi gli affatto, confrontare Labiche col nostro Goldoni, può aiutare a chiarire la per sonalità del francese, tenendo conto trat tarsi di un uomo di teatro, mentre il no stro veneziano era un poeta ». I l loro punto di contatto è lo spirito di osserva zione, in quanto il tema preferito è la borghesia. La commedia che in questo fascicolo si legge, I l viaggio del Signor Perrichon, è l ’esempio più probante. « N ell’uno come nell’altro, la borghesia mostra per trasparenza il proprio decoro, come irreligiosità, rivelando quell’etica un poco approssima tiva e reticente, che sempre racchiude il germe di una minima riserva mentale, di una possibile transazione. Una volta salve le forme dell’onestà e della decenza, tutto sembra a posto in entrambi. E li acco muna quel brìo di soluzioni sceniche, che tien luogo a delle vere soluzioni interiori: che non le sostituisce, ma ce le fa volen tieri dimenticare. In entrambi il “ lieto fine ” è una necessità istruttiva, una pre messa contenuta fin dall’inizio nella logica e nella partitura ». Esempio lampante II viaggio del Signor Perrichon come Un cappello di pa glia di Firenze, ritenuto il suo capola voro, e sulla scìa del quale proseguirono i continuatori Hennequin, Weber, Quin- son, Mirande, ecc. Non si è citato Feydeau (1862-1921) che esordì nel 1887, col preciso compito di far ridere quella stessa borghesia di Labiche, ma senza moralità, divertirla cioè come essa dimostrava di amare, a gola spiegata, senza soffermarsi sulle ragioni del suo ridere. Feydeau era invece un formidabile costruttore di mec canismi di precisione, che sapeva portare alla perfezione le formule proprie del vaudeville, con le sue coincidenze, i qui prò quo, gli imbrogli. La sua regola era Caricatura di Labiche accademico, nel 1880. La dicitura diceva « Labiche, de la Cagnotte Française », e poiché la « cagnotte » è quella ciotoletta o piattino per mettervi la posta di gioco, trasferita l’immagine alla Nazione francese, la mordace ironia è evidente. L a b i c h e c la s s ic o Centinaia di autori della seconda metà del secolo X IX sono caduti nell’oblio, ma Labiche lo si recita ancora e non si è mai cessato di recitarlo. Per la letteratura drammatica francese, Labiche è un clas sico e la « Comédie » lo ripresenta e rap presenta con la regolarità conferita ai pro p ri autori elencati sotto questa etichetta. Se i personaggi delle commedie di Labiche hanno perduto la loro realtà sociale, pur rimanendo intatti, vuol dire che non erano nati come piccole rotelle di un ingranag gio meccanico costruito secondo la ricetta adatta a muovere il riso, ma creati con una loro verità umana, così fortemente dosata, da ritrovarla intatta dopo più di un secolo. Si tratta di una prova di capa cità superiore al semplice tea trale; lo dimostra e giustifica la continua apparizione di questo « classico » -— nei lim iti dello stesso classicismo — in oppo sizione alle altre scuole ( romanticismo, talento di creare due personaggi che avevano il solo interesse di sfuggirsi: trovarsi faccia a faccia generava la sorpresa e scatenava gli avvenimenti. Formidabile maestrìa, ma inventore di ingranaggi. Tuttavia i perso naggi di Feydeau, perduto ogni carattere umano — dopo essere vissuti in un uni verso speciale, p rivi del libero arbitrio — non diventano del tutto marionette nelle mani di un dimiurgo, perché resta l ’osser vatore dell’uomo. Feydeau ci ha mostrato deformato lo spettacolo del mondo reale, divertendosi a sovrapporne uno fittizio; Labiche ha nascosto nel fondo della sua ricca buffoneria il tratto della sua osser vazione acuta. L ’opera sua è opera di uno scrittore dotato di originalità e quindi di un suo « tono », che ha ancora la forza di resistere. I l tratto di II viaggio del Signor Perrichon — dice Simoni — èia riconoscenza; dimo strare che alla lunga, dover essere grato a qualcuno, pesa. Ci fa più piacere godere quella degli altri che tributare ad altri la nostra. Ad un uomo di teatro tale condi zione — forma inconfessata di egoismo — procura felicissime opportunità, tra con trasti comici o amari. Labiche ha scelto i prim i, seguendo la sua ridente fantasia. Nella gara tra due giovani innamorati del la signorina Ferrichon, chi si propina il favore del signor Perrichon padre, non è quello che gli rende spontaneamente dei servizi, ma quello che con furberia se li fa rendere. « Su questo tema la commedia gioca, rinnovandosi sempre con vivace in gegnosità, ed immettendo nell’azione, qua si a capofitto, personaggi che sono spinti avanti dalla veemenza stessa della loro im becillità, caratterizzati da certe espressioni verbali, che tornano sempre come rito r nelli, nel loro discorso, in qualunque mo mento o stato d’animo si trovino, sicché c’è un burlesco contrasto tra la fissità delle loro parole e le travolgenti vicende che li portano via. Sono i personaggi che Labi- che preferisce, strettissimi parenti di quel- li descritti da Paul De Rock, borghesi, grassi, torpiti, ottusi o sufficienti ». Un anno fa — nel fascicolo di aprile — abbiamo pubblicato II più felice dei tre in tre atti, e l ’atto unico 29 gradi all’om bra, stimolati dalla rappresentazione al Théâtre Mathurins di Parigi, con le scene ed i costumi di Pierre Simonini, un ita liano — ne abbiamo molto parlato — cui si deve non in poca parte la rinascita della scenografia francese attuale. Questa volta è la Comédie Française a darci lo spunto di pubblicare II viaggio del Signor Per richon. E naturalmente abbiamo riletto il testo, che ci è sembrato eccezionalmente valido, a 107 anni dalla prima rappresen tazione. Bisogna proprio rileggerla questa commedia per averne esatta convinzione. E non è la sola ragione, questa, di ripro porre Labiche, ma perché abbiamo osser vato come nel gran mare dell’editoria tea trale, cui non sfugge nulla, proprio nulla, anche l ’inutile, non esiste in Italia una raccolta delle opere di Labiche, come non esiste quella del teatro di Feydeau. E visto che citiamo dei nomi per tradu zioni necessarie, suggeriamo anche Henry Becque. Marcel te Bue Due famosi attori - Georges Berr e Coquelin Cadet (Per- richon) - alla Comédie nel 1906. Caricatura di Losques. c o m m e d ia i n q u a t t r o a t t i d i COLLABORATORE EDOUARD MARTIN ~ TRADUZIONE DI MARCEL LE DUC ~ PRIMA RAPPRESENTAZIONE A PARIGI, AL TEATRO DU GYMNASE EL 10 SETTEMBRE 1860 ~ RIPRESA ATTUALE ALLA COMEDIE FRANÇAISE P e rs o n a g g i PERRICHON IL MAGGIORE MATHIEU MAJORIN ARMAND DESROCHES DANIEL SAVARY GIUSEPPE, cameriere del maggiore GIOVANNI, cameriere di Perrichon Interpreti della prima rappresentazione Geoffroy - Coquelin - Cadet - Derval - Laugier - Blaisot - Dieudonné - Landrol - Berr - Leménil - Croué - Francisque - M.me Mélanie - M.lle Albrecht - Blondel - Amédée - Louis. LA SIGNORA PERRICHON ENRICHETTA, sua figlia L'ALBERGATORE LA GUIDA IMPIEGATO DELLE FERROVIE Facchini, viaggiatori, una giomalaia. Interpreti dell*attuale ripresa Seigner - Eyser - Chamarat - Feydeau - Piat - Maury - Pralon - Eymond - Sissia - Marco-Béhar - Bé- toumé - Zehnacker - M.mes Gaudeau - Nòelle - Fromet - Regia di Jacques Charon. Scene e costumi di André Levasseur. A tto primo co Una stazione ferroviaria, a Parigi. L’atrio dei biglietti. In fondo, si accede alle sale d'aspetto. In fondo, a destra, sportello dei biglietti. In fondo, a sinistra, panche. A destra, un chiosco che vende panini imbottiti, cestini da viaggio, ecc. A sinistra, il chiosco dei giornali. Majorin (che sta passeggiando su e giù, con evi dente impazienza) — Quel Perrichon che non arriva mai ! È già un’ora che lo aspetto. Eppure le mie informazioni sono esatte. È proprio oggi che Per richon parte per la Svizzera con sua moglie e sua figlia... (Con amarezza) Un fabbricante di carrozze che si offre il lusso di passare le vacanze sulle montagne svizzere. Un fabbricante di carrozze che ha quarantamila franchi di rendita. Un fabbricante di carrozze che ha una carrozza personale. Che brutta epoca. Mentre io guadagno 2400 franchi all’anno... io, che sono un impiegato laborioso, intel ligente, distinto, abilissimo, sempre primo ad arri vare in ufficio, sempre curvo sul suo lavoro- oggi mi sono fatto dare un breve permesso con la scusa che dovevo accompagnare mia sorella dal dottore. Bisogna assolutamente ch’io parli con Per richon prima della sua partenza... Voglio pregarlo di anticiparmi tre mesi di stipendio... Seicento franchi... Seicento miserabili franchi. Lo vedo già prendere delle arie da protettore e darsi dell’im portanza. Un fabbricante di carrozze... Che spetta colo scoraggiante... Sì, ma intanto non arriva... Si EUGENE LABICHE direbbe proprio che quel mascalzone lo faccia appo sta... (Si rivolge ad un facchino che traversa la scena, seguito da un viaggiatore) Scusate... a che ora parte il treno per Lione? I l Facchino (seccatissimo) — Domandate all’impie gato. (Esce a sinistra). Majorin —• Grazie... villano!... (Si rivolge all'impie gato che è dietro lo sportello dei biglietti) Scusate... a che ora parte il diretto per Lione? Impiegato (seccatissimo) — Non mi riguarda... Guar date la tabella... (Indica una tabella affissa fuori dell’atrio). Majorin — Grazie... (Tra sé) Sono cortesi non c’è che dire. Ma io sono fisionomista, e se per caso costui capiterà un giorno nel mio ufficio, sta fresco... Vediamo un po’ questa tabella... (Esce a sinistra). Perrichon (entra da destra, con la moglie e la figlia) — Di qua... E non lasciamoci... altrimenti, poi, non ci ritroveremo più. Dove sono i bagagli? (Guarda a destra, nell’atrio) Benissimo... e gli om brelli... Chi è che ha gli ombrelli? Enrichetta — Io, papà. Perrichon — E le coperte?... e i mantelli? La signora Perrichon — Eccoli. Perrichon — E il mio panama? È restato certa mente nella carrozza... (Si accinge ad uscire, ma poi si ferma) Ah! no... l’ho in mano... Accidenti. La signora Perrichon — La colpa è tua!... ci fai fare tutto in fretta... ci agiti... non mi piace viag giare così. Perrichon — Le partenze sono sempre un po’ labo riose. Ma una volta a posto, vedrai... Rimanete qui... io vado a prendere i biglietti. (Dà il suo cappello ad Enrichetta) Tieni il mio panama... (Allo spor tello) Tre prime classi per Lione. L’Impiegato (seccatissimo) — Lo sportello non è ancora aperto... fra un quarto d’ora. Perrichon (all’impiegato) — Scusate ma è la prima volta che viaggio... (Tornando vicino alla moglie) Siamo in anticipo. La signora Perrichon — Te lo dicevo io. Quando penso che non ci hai nemmeno lasciato il tempo di far colazione ! Perrichon — È sempre meglio essere in anticipo... si ha tempo di guardare un po’ la stazione. (Ad Enrichetta) Ebbene, figlia mia, sei contenta? Eccoci partiti in vacanze... vacanze in montagna... ancora qualche minuto e poi, rapidi come la freccia di Guglielmo Teli, noi ci lanceremo verso le Alpi! (Alla moglie) Hai preso il binoccolo? La signora Perrichon — Ma sì... Enrichetta (a suo padre) — Non per rimproverarti, papà, ma sono almeno due anni che ci avevi pro messo queste vacanze in montagna. Perrichon — Mia cara figlia, lo sai bene come sono andate le cose... Ho dovuto, prima di tutto, vendere la mia azienda. Uscire dal commercio non è così facile; del resto ho dovuto, prima, lasciarti finire i tuoi studi. Adesso, potrò completare la tua istruzione facendo brillare, davanti ai tuoi occhi, lo spettacolo della natura. Là, davanti alle nevi immacolate... La signora Perrichon — Ma di' un po’... deve conti nuare per un pezzo questa storia? Perrichon — Quale storia? La signora Perrichon — Da quando sei nella sta zione stai facendo delle frasi letterarie... Perrichon — Io non sto facendo delle frasi lette rarie... sto allargando le idee di nostra figlia... sto elevando il suo animo... (Tira fuori di tasca un grosso taccuino) Tieni, Enrichetta, ecco un taccuino che ho comperato apposta per te. Enrichetta — E che cosa ne debbo fare? Perrichon — Da un lato, scriverai le spese e, dal l’altro, le tue impressioni. Enrichetta — Quali impressioni? Perrichon — Le nostre impressioni di viaggio: tu scriverai e io detterò. La signora Perrichon — Ti metti anche a fare lo scrittore, adesso? Perrichon — Non si tratta di mettersi a fare lo scrittore... ma mi sembra che un gentiluomo agiato ha tutto il diritto di formulare dei pensieri e di raccoglierli in un taccuino! La signora Perrichon — Forse ci divertiremo... Perrichon — Sei sempre di cattivo umore quando non prendi il tuo caffè. Un Facchino (spingendo un carrettino su cui si trovano dei bagagli) — Ecco i bagagli... Debbo farli registrare? Perrichon — Certo... ma prima desidero contarli... quando imo sa esattamente quanti bagagli ha... è un’altra cosa... Uno... due... tre... quattro... cinque- sei... mia moglie fa sette... mia figlia otto... io nove... Siamo in nove. I l Facchino — Benissimo... nove valigie... Perrichon (correndo verso il fondo) — Spicciamoci ! I l Facchino — Non è da quella parte... qui... (Indica la sinistra). Perrichon — Benissimo... (Alla moglie e alla figlia) Voi aspettatemi qui... Per carità non perdiamoci! (Esce di corsa, seguendo il facchino). Enrichetta — Povero papà, quante preoccupazioni per questo viaggio! La signora Perrichon — Non sa più quello che dice. Daniele (entra seguito da un facchino che porta una valigia) — Non so ancora dove vado. (Vede Enrichetta) È lei! Non mi sono sbagliato. (Saluta Enrichetta che restituisce il saluto). La signora Perrichon (a sua figlia) — Chi è quel signore? Enrichetta — È un giovanotto che mi ha fatto ballare la settimana scorsa al ballo del Municipio... La signora Perrichon (vivacemente) — Un balle rino?!... (Saluta Daniele). Daniele — Signora... signorina... benedico il caso... le signore partono? La signora Perrichon — Sì..., signore... partiamo... Daniele — Le signore vanno certamente a Mar siglia? La signora Perrichon — No, signore... Daniele — A Nizza, allora? La signora Perrichon — Nemmeno... Daniele — Chiedo scusa... credevo... in ogni modo, se i miei servizi possono essere utili... L’attuale rappresentazione di 11 viaggio del Signor Perrichon alla Comédie Fran çaise, con la riproduzione fedele - scene e costumi - della prima rappresentazione del 1860. Disegno del costume del perso naggio « Majorin ». A sinistra, i due disegni di costumi sono per i personaggi di Madame Perrichon e sua figlia. Nelle due grandi fotografie, sopra e sotto, scene ed interpreti della attuale ripresa della commedia alla Comédie Française. Questa commedia fu recitata alla « Comédie » nel 1906, soltanto diciotto anni dopo la morte di Labiche. Ripresa nel 1912, nel 1946, ed attualmente. Complessivamente ha avuto alla « Comédie » fino ad oggi 450 rappresentazioni, più di altra commedia di Labiche recitata in quel teatro. A ruota di questo successo sta II cappello di paglia di Firenze con 144 rappresenta zioni. Nella foto piccola a sinistra in basso, Labiche nel 1860 all’epoca della prima del Perrichon. Il ritratto è della Famiglia Labiche. I l Facchino (a Daniele) — Giovanotto, per i bagagli è bene che vi spicciate! Daniele — È giusto... andiamo... (Tra sé) Però, prima di prendere il biglietto, avrei voluto sapere dove vanno... (saluta) Signora... signorina... (Tra sé) La cosa importante ormai la so: partono. (Esce a sinistra). La signora Perrichon — Simpatico quel giovanotto. Armando (entra con una valigia) — Portate la mia valigia al registro bagagli... vengo subito... (Scorge Enrichetta) Lei!... (Si salutano) Non mi sono sba gliato... La signora Perrichon — Chi è quel signore? Enrichetta — È un altro giovanotto che mi ha fatto ballare la settimana scorsa al ballo del Municipio. La signora Perrichon — Ma tutti i tuoi ballerini si sono dati appuntamento qui... Non importa... È un ballerino... (Saluta) Signore... Armando — Signora... signorina... benedico il caso... le signore partono? La signora Perrichon — Sì, signore... partiamo... Armando — Le signore vanno certamente a Mar siglia? La signora Perrichon — No, signore... Armando — A Nizza, allora? La signora Perrichon (tra sé) — Chiede le stesse cose di quell’altro... (A voce alta) Nemmeno, si gnore... Armando — Chiedo scusa... credevo... in ogni modo, se i miei servizi possono essere utili... La signora Perrichon — Si vede che sono dello stesso Municipio: hanno un formulario. Armando (tra sé) — Ne so quanto prima... Vado a far registrare la mia valigia e torno (Saluta) Signora... signorina... La signora Perrichon — Simpatico quel giovanotto! Ma che cosa fa tuo padre? Io ho un appetito che non reggo più... Majorin (entrando da sinistra) — Mi sono sba gliato... il treno non parte che fra un’ora. Enrichetta — Il signor Majorin ! Majorin (tra sé) — Eccoli! La signora Perrichon — Come mai non siete al vostro ufficio? Majorin — Ho chiesto un permesso signora... non volevo lasciarvi partire senza salutarvi. La signora Perrichon — È per questo che siete venuto fin qui? Molto gentile... Majorin — Ma non vedo il signor Perrichon! Enrichetta — Papà si sta occupando dei bagagli. Perrichon (entra di corsa) — Prima di tutto... i biglietti ! Majorin — Ah! eccolo... buongiorno, caro. Perrichon (frettolosamente) — Ah ! sei tu... molto gentile di essere venuto... ma ti chiedo scusa... devo prendere i biglietti. (Lo lascia) Non vogliono registrare i miei bagagli senza il biglietto. La signora Perrichon — E io che non ho neppure fatto colazione. Perrichon — Sedetevi... (Indica il fondo a sinistra). Ci sono delle panche fatte apposta per questo... Inutile restare lì, in piedi, come due sentinelle. La signora Perrichon — Ma se sei proprio tu che IL VIAGGIO DEL SIGNOR PERRICHON ci hai detto di aspettare... Smettila... stai diven tando insopportabile. Perrichon — Andiamo, Carolina... sii buona... La signora Perrichon — E quanto alle tue vacanze in montagna, io ne ho già abbastanza. Perrichon — Lo so perché sei in collera... perché non hai preso il tuo caffè... Va’ a sederti. La signora Perrichon — Sì, ma spicciati! (Va a sedersi con Enrichetta). Majorin (tra sé) — Ma che coppia ideale! Perrichon (a Majorm) —• È sempre così finché non ha preso il suo caffè. Mio caro Majorin, sei stato veramente molto gentile a scomodarti per venire fin qui a portarci i tuoi saluti. Majorin — Sai... volevo parlarti di una cosa. Perrichon (distratto) — E i miei bagagli che sono restati là su di un tavolo... Non sono tranquillo... Mio caro Majorin, sei stato davvero molto gentile a venire qui... (Tra sé) Forse è meglio che vada a vedere dove sono andati a finire ! Majorin — Avrei un piccolo favore da chiederti. Perrichon — A me? Majorin — Ho cambiato casa in questi giorni... ho avuto delle spese... se tu potessi farmi il favore di anticiparmi tre mesi di stipendio... seicento franchi. Perrichon — Come? qui? Majorin — Tu sai che ti ho sempre restituito con la massima puntualità tutti i soldi che mi hai prestato. Perrichon — Ma non si tratta di questo. Majorin — No, sono io che desidero ricordartelo... Incasso i dividendi delle mie azioni sui piroscafi l’otto del mese prossimo... Ho dodici azioni della Compagnia di navigazione... Se tu non hai fiducia in me, posso darti i titoli in pegno. Perrichon — Andiamo... non dire sciocchezze. Majorin (irritato) — Grazie! Perrichon — Ma anche tu perché vieni a doman darmi un prestito proprio mentre sto per partire? Io ho preso con me il denaro necessario: nien- t’altro... Majorin — Va bene... se non puoi, non parliamone più... Mi rivolgerò a degli usurai che vorranno il cinque per cento. È molto, ma non morirò per questo. Perrichon (tirando fuori il portafogli) — Andiamo non andare in collera. Eccoli i tuoi seicento franchi, ma non dir niente a mia moglie. Majorin — Lo so... È così avara! Perrichon — Come sarebbe a dire... avara? Majorin — Volevo dire che è una donna molto ordi nata. Perrichon — Ce ne vuole dell’ordine in una fami glia, mio caro... ce ne vuole e molto. Majorin (con un tono secco) — Allora, ti devo seicento franchi... Arrivederci... (Tra sé) Quante storie per seicento franchi... Pidocchioso... E va a passare le vacanze in Svizzera... Un volgarissimo fabbricante di carrozze... (Esce). Perrichon — Se ne va senza dirmi nemmeno grazie ! Ma in fondo mi vuol bene... (Si accorge che lo spor tello dei biglietti è finalmente aperto). Ah! danno EUGENE LABICHE i biglietti! (Si precipita verso lo sportello, dando gomitate alle persone che aspettano in fila). Un viaggiatore — Un po’ meno fretta, signore... L’Impiegato (a Perrichon) — Aspettate il vostro turno. Perrichon — E i miei bagagli e mia moglie?... (Fa la fila, dietro agli altri viaggiatori). I l Maggiore — Hai capito quello che devi fare? Giuseppe — Sì, signor Maggiore. I l Maggiore — Se ti domanda dove sono andato, quando ritornerò... tu risponderai che non ne sai nulla. Non voglio mai più sentir parlare di quella donna. Giuseppe — Sì, signor Maggiore. I l Maggiore — Anzi, dirai ad Anita che tutto è finito... definitivamente finito... E per sempre... Giuseppe — Sì, signor Maggiore. Perrichon — Ho i biglietti... Presto! occupiamoci dei bagagli... Ah! che fatica andare in vacanza. (Esce di corsa). I l Maggiore — Hai capito bene? Giuseppe — Sì signor Maggiore... ma, con tutto il rispetto che debbo al signor Maggiore, mi per metterò di osservare che questa partenza è perfetta mente inutile. I l Maggiore — Perchè inutile? Giuseppe — Perché appena tornato dal suo viaggio il signor Maggiore riaprirà le porte della sua casa alla signorina Anita. I l Maggiore — Ma cosa dici? Giuseppe — Dico che sarebbe meglio non abbando nare affatto la signorina Anita. Le rappacificazioni costano sempre molto care al signor Maggiore. I l Maggiore — Tu pensi a quello che è accaduto le altre volte? Ma questa volta non è la stessa cosa... questa volta la cosa è seria. Anita si è resa indegna del mio affetto e di tutta la bontà che avevo per lei. Giuseppe — Si può dire senz’altro che la signorina Anita vi rovina a grande velocità, signor Maggiore. Anche stamattina è venuto un usciere... e gli uscieri sono come i vermi... quando cominciano a infilarsi in qualche posto. I l Maggiore — Al mio ritorno, aggiusterò tutto. Addio! Giuseppe — Signor Maggiore, buon viaggio. I l Maggiore (si avvicina allo sportello dei biglietti e poi ritorna presso Giuseppe) — Scrivimi a Gine vra, fermo posta... Mi darai notizie della tua salute. Giuseppe (lusingato) — Il signor Maggiore è troppo buono... I l Maggiore — E mi dirai anche se Anita ha provato un vivo dispiacere quando ha saputo della mia partenza... mi dirai se ha pianto... quanto ha pianto... Giuseppe — Ma signor Maggiore, dal momento che lei rifarà la pace con la signorina Anita... I l Maggiore — Non le perdonerò mai. Giuseppe — Così sarà l’ottava volta che non le perdonerà mai. Mi dispiace vedere una brava per sona come lei, signor Maggiore, perseguitato conti nuamente dai creditori... Si parla, certo, alla Ca mera di abolire la prigione per debiti, ma finora la legge non è ancora stata approvata e, se non si paga ima cambiale, si va dentro. E lei vuol farsi mettere in prigione? E poi per chi?... per chi? I l Maggiore — Andiamo... dammi la valigia... E scri vimi a Ginevra... Stasera subito o, al massimo, domattina. Giuseppe — Buon viaggio, signor Maggiore... Sarà di ritorno tra otto giorni? (Esce. Il Maggiore va a prendere il suo biglietto e entra nella sala d’aspetto). La signora Perrichon (alzandosi, con sua figlia) — Sono stanca di essere seduta! Perrichon (entra di corsa) — Finalmente ho finito... I nostri bagagli sono stati registrati. Ci siamo! La signora Perrichon — Meno male! II Facchino (spingendo it suo carretto vuoto, a Per richon) — Signore, non dimenticate il facchino, per favore... Perrichon — Ah! sì... (Rivolgendosi a sua moglie e a sua figlia) Che cosa bisogna dargli, secondo voi? Cinquanta centesimi, bastano?... La signora Perrichon — Settantacinque... Enrichetta — Un franco! Perrichon — Un franco mi sembra enorme... Co munque, siamo in vacanza, vada per il franco. (Dà la moneta) Ecco... tenete le Facchino — Grazie, signore... (Esce). La signora Perrichon — Allora, andiamo in cerca del nostro treno? Perrichon — Un momento... Enrichetta, prendi il taccuino e scrivi. La signora Perrichon — Così presto? Perrichon (dettando) — Spese... carrozza: due fran chi— treno : centosettantadue franchi e cinque cen tesimi... facchino: un franco... Enrichetta — Fatto! Perrichon — Aspetta... impressioni... La signora Perrichon — Ma sei insopportabile! Perrichon (dettando) — Addio, Francia... regina delle nazioni... (Smette bruscamente di dettare) Dov’è il mio panama? Certamente, l’ho lasciato neH'ufficio bagagli! (Si accinge ad uscire). La signora Perrichon — Ma no, eccolo. Lo hai dato a me. Perrichon — Ah, è vero. (Detta) Addio, Francia... regina delle nazioni... (Si sente una campana e si vedono alcuni viaggiatori frettolosi traversare la scena). Perrichon — Entriamo... Finiremo più tardi. (L’im piegato lo ferma all’entrata per controllare i bi glietti. Perrichon agitatissimo, interroga con gli occhi sua moglie ed Enrichetta, ma poi trova i biglietti nella sua tasca. Tutti entrano nella sala d’aspetto). Daniele (che torna verso la ribalta dopo aver preso il suo biglietto, è urtato da Armando che si dirige verso lo sportello per prendere il suo). Armando — Potreste stare più attento. Daniele — Potrei dire lo stesso a voi; anzi, lo dico. Armando — E dillo, Daniele, visto che sei Daniele. Daniele — Tu, Armando? Armando — Parti? Daniele — Fra pochi minuti. E tu? Armando — Anch’io. Daniele — Benissimo... Faremo il viaggio insieme... Ho dei sigari eccellenti che mi sono arrivati diret tamente dall’Avana. E dove vai? Armando — Ti confesserò che non ne so ancora nulla. Daniele — Strano ! Nemmeno io so dove debbo an dare... Per il momento, ho preso un biglietto fino a Lione. Poi vedrò... Armando —• Anch'io ho preso un biglietto fino a Lione. Ti dirò la verità : seguo una signorina molto graziosa. Daniele — Anch’io. Armando — La figlia di un fabbricante di carrozze. Daniele — Perrichon? Armando — Proprio. Daniele — Allora è la stessa signorina... siamo a posto. Armando — Ma io sono innamorato, mio Daniele. Daniele — E io l’amo, caro Armando. Armando — Ma io la voglio sposare! Daniele — Ed io voglio domandare la sua mano... Più o meno è la stessa cosa. Armando —• Certo... ma d’altra parte, non possiamo mica sposarla in due. Daniele — In Francia è proibito. Appena una cosa è piacevole, ecco, subito proibito. Armando — E allora? Daniele — Semplicissimo... Dal momento che stia mo per salire sullo stesso treno della ragazza, continuiamo pure il nostro viaggio. Cerchiamo di piacere, di farci voler bene, lavoriamoci, ognuno1 per conto nostro, la felicità. Vedremo a chi tocca. Armando (ridendo) — Insomma, proponi una specie di torneo? Daniele — Diciamo una lotta leale, amichevole... Se il vincitore sarai tu, io mi inchinerò davanti alla volontà del destino; se invece il fortunato sarò io, tu devi promettermi, fin d’ora, che non mi serberai rancore. Armando — D’accordo. Accettato ! Daniele — La mano... prima dell’inizio della bat taglia? Armando — Con la stessa affettuosa amicizia con cui ce la daremo dopo! (Si danno la mano). Perrichon (entra di corsa, parlando con qualcuno che si trova fra le quinte e che non vediamo) — Ti dico che c’è tempo. Daniele — Nostro suocero ! Perrichon (all’impiegai a del chiosco dei giornali) — Signora, vorrei un libro per mia moglie e mia figlia... un libro dove non si parli né di avventure galanti, né di denaro, né di politica, né di matri moni, né di morte. Daniele (tra sé) — Ce ne uno solo: «Robinson Crusoe ». La giornalaia — Ho quello che fa per voi... (Gli dà un volume). Perrichon (legge il titolo del volume) — « Le rive del Rodano »... due franchi... (Paga) Ma mi garan tite che non ci sono stupidaggini o porcherie qua dentro? (Si ode la campana) È ora... Andiamo! (Esce di corsa). IL VIAGGIO DEL SIGNOR PERRICHON Armando — Lo seguiamo? Daniele — Per forza... Però vorrei sapere dove andremo a finire ! (Altri viaggiatori si dirigono verso la sala d’aspetto. Sipario). A tto secondo Il salone centrale di soggiorno in un albergo di Montanvert, nella regione del Mare di Ghiaccio, in prossimità della frontiera svizzera. In fondo, a destra, porta d’ingresso. A sinistra, una finestra da cui si vedono montagne coperte di neve. A sinistra, una porta e un caminetto. A destra, un tavolo, sul quale è posato il Libro d'Oro dei viaggiatori, e una porta. Daniele e Armando (sono seduti ad un tavolo e stanno terminando di pranzare). L’Albergatore — I signori desiderano altro? Daniele t— Il caffè... fra cinque minuti. Armando — Fate pranzare la guida... Quando avrà finito, partiremo per il Mare di Ghiaccio. L’Albergatore (alla guida) — Venite! (Esce, seguito dalla guida, passando per la porta che si trova a destra). Armando — Ebbene, mio caro Daniele, soddisfatto? Daniele — Direi di sì. Le operazioni sono già iniziate. I primi attacchi sono stati fatti. Armando — Prima di tutto, ci siamo introdotti nello stesso scompartimento dove viaggiava la famiglia Perrichon, ed abbiamo bombardato tutta la famiglia con premure e cortesie. Tu hai prestato il tuo giornale al signor Perrichon che ha letto qualche riga e si è addormentato. Il signor Per richon, per ricambiare la tua gentilezza, ti ha prestato un libro: « Le rive del Rodano »... un libro illustrato. Daniele — E tu, dopo Digione, e per oltre un’ora, hai tenuta ferma con la mano una tendina che aveva il meccanismo guasto. Devi esserti orribil mente stancato. Armando — Sì, ma la mamma... la nostra futura suocera... mi ha riempito di cioccolatini. Daniele — Goloso... ti sei fatto nutrire a sbafo! Armando — A Lione, siamo scesi nello stesso al bergo. Daniele — E il signor Perrichon, nel rivederci, ha esclamato : « Ma guarda che fortunata combina zione! ». Armando — A Ginevra, stesso incontro imprevisto... Daniele — A Chamonix, stessa situazione e il signor Perrichon che esclama dappertutto : « Ma guarda che fortunata combinazione ! ». Armando — Ieri hai saputo che la famiglia si di spone ad andare in escursione al Mare di Ghiaccio. E sei venuto a cercarmi, all'alba, in camera mia. Gesto da vero gentiluomo... gesto leale... Daniele — Non lo abbiamo forse stabilito nel nostro programma d’azione? Lotta leale... Vuoi un po’ di frittata? Armando — Grazie... Però caro, debbo avvertirti... lealmente... che da Chàlons a Lione, la signorina Perrichon mi ha guardato tre volte. EUGENE LABICHE Daniele — E a me quattro! Armando — La cosa è grave! Daniele — Sarà ancora più grave quando non ci guarderà più. Io credo che, in questo momento, ci preferisca tutti e due... ma la indecisione di preferenza può durare molto tempo. Per fortuna, possiamo permetterci tutti e due di perdere tempo. Armando — Già... spiegami un po’ come hai fatto a partire da Parigi, senza data fìssa di ritornò, tu, amministratore di una Compagnia di navigazione? Daniele — « I Rimorchiatori sulla Senna », capi tale sociale: due milioni... Molto semplice. Mi sono chiesto un piccolo periodo di vacanze e non ho esi tato a rispondermi di sì. Ho degli impiegati eccel lenti... I piroscafi marciano da soli... Basta che 10 sia di ritorno, a Parigi, il giorno otto del mese prossimo, per il pagamento dei dividendi... E tu allora?... un banchiere? mi sembra che rimani un po’ troppo lontano dalla tua banca. Armando — La mia banca non mi occupa molto tem po... Ho messo i miei capitali ma riservandomi una piena libertà personale. Non debbo trovarmi a Parigi che il giorno otto del mese prossimo per la distri buzione dei dividendi agli azionisti. Daniele — Fino al giorno otto, allora, guerra ad oltranza ! Armando — Ad oltranza, sì... ma sempre da ottimi amici... Ti dirò francamente che, ad un dato mo mento, mi è venuta l’idea di cederti amichevol mente il posto. Ma purtroppo sono seriamente inna morato di Enrichetta. Daniele — Strano... la stessa idea di rinuncia era venuta anche a me. Volevo fare lo stesso sacrifìcio... A Chàlons, mi sono detto : me ne vado... Poi ho guardato Enrichetta e non ho più avuto il corag gio di andar via. È così graziosa! Armando — Graziosissima! Daniele — Dolce! Armando — E così bionda! Daniele — E non ce ne sono quasi più delle bionde a quel modo e con degli occhi così. Armando — Degli occhi come piacciono a me e a te ! Daniele — Lo capisci, adesso, perché sono rimasto? Armando — Se lo capisco!... Daniele — Meno male... Sono proprio felice di avere te come avversario ; è un piacere avere un nemico così. (Gli stringe la mano) Caro Armando... Armando Mio caro Daniele, come sei buono! E 11 signor Perrichon che non arriva. Non avrà mica cambiato itinerario? Forse faremmo meglio ad andargli incontro. Daniele — Certo è un uomo molto capriccioso. Avant’ieri, ci ha fatto andare fino a Ferney, dove ci ripromettevamo di incontrarlo... Armando — E invece aveva cambiato idea ed era andato a Losanna. Daniele —■ È curioso viaggiare così, senza itinerario preciso. (Armando si alza) Dove vai? Armando — Non resisto più... Ho voglia di andare incontro alle signore... Daniele — E il caffè? Armando — Pazienza!... Ne farò a meno. (Esce in fretta, dal fondo). Daniele — Che bravo ragazzo! Pieno di cuore, di fuoco... Ma è un irrequieto... Che idea... andar via senza prendere il caffè ! (Chiama) Padrone ! L'Albergatore (appare) — Signore. Daniele — Il caffè. (L'albergatore esce. Daniele accende un sigaro) Ieri ho cercato di far fumare uno di questi sigari al mio futuro suocero. Il colpo non è riuscito. L’Albergatore (porta il caffè) — Ecco il caffè, si gnore. Daniele (si siede dietro la tavola, davanti al cami netto, e stende una gamba sulla sedia che Armando ha lasciato vuota) — Avvicinate quella sedia... Be nissimo. (Ha indicato un’altra sedia e vi stende l’altra gamba) Grazie!... Povero Armando! A que st'ora, sta correndo sulla strada maestra... In pieno sole... E io mi stendo e faccio il pascià... Chi arri verà primo di noi due?... C'è la favola famosa della lepre e della tartaruga... L’Albergatore (presentando un registro) — Se il signore vuol scrivere qualcosa nel nostro Libro d’Oro dei viaggiatori... Daniele — Non scrivo mai dopo i pasti... Del resto, scrivo pochissimo anche prima dei pasti... In ogni modo, leggiamo un po’ i pensieri delicati dei visi tatori del vostro albergo... (Sfoglia il libro e legge) « Non mi sono mai soffiato il naso ad una simile altezza ». Firmato : un viaggiatore raffreddatissimo. (Continua a sfogliare) Oh! che bella calligrafia! (Legge) « Com'è bello ammirare le meraviglie della natura insieme alla propria moglie e alla propria nipote ». Firmato : Malaquais, possidente... Mi sono sempre chiesto perché, poi, i francesi, che nella loro patria sono così spiritosi, appena viaggiano, diventano così stupidi! (Si odono grida e tumulti al di fuori). L’Albergatore — Ah, cosa succede? Daniele — Ma che cosa è accaduto? Perrichon (entra, sostenuto dalla moglie e dalla guida). Armando — Presto! Dell’acqua, del sale, dell’aceto! Daniele — Ma che cosa è accaduto? Enrichetta — Mio padre... ha corso il rischio di ammazzarsi. Daniele — Possibile? Perrichon (seduto) — Moglie mia... figlia mia.. Ah ! mi sento meglio. Enrichetta (porgendogli un bicchiere d’acqua zuc cherata) — Prendi... bevi... ti farà bene. Perrichon (beve) — Grazie... Che capitombolo ! La signora Perrichon — La colpa è tua. Cosa ti è saltato in mente di montare a cavallo... tu... padre di famiglia?... E, come se non bastasse, con degli speroni. Perrichon — Gli speroni non c’entrano. Era il cavallo che era ombroso. La signora Perrichon — L’avrai spronato un po’ troppo forte, senza volerlo, e il cavallo si è impen nato. Enrichetta — Se non c’era il signor Armando, che stava venendoci incontro, mio padre sarebbe scom parso nel precipizio. La signora Perrichon — C’era già nel precipizio... Lo vedevo rotolare come una palla. Noi ci siamo messe a gridare... Enrichetta — Allora il signor Armando si è lan ciato ! La signora Perrichon — Con un coraggio, un san gue freddo... Signore, voi siete il nostro salvatore... Perché, senza di voi, mio marito... il mio povero marito... (Scoppia in lacrime). Armando — Ormai il pericolo è passato... calmatevi ! La signora Perrichon — No... (Continua a piangere) Sento che mi fa bene. (Al marito) Così imparerai a mettere gli speroni. (Singhiozzando ancora più ru morosamente) No, tu non vuoi bene alla tua fami glia... Enrichetta (ad Armando) — Permettete che io aggiunga i miei ringraziamenti personali a quelli di mia madre... Conserverò, per tutta la vita, il ricordo di questa giornata... Armando — Ah ! signorina ! Perrichon — E, adesso, tocca a me, signor Ar mando... No, autorizzatemi a chiamarvi semplice- mente Armando... Armando — Con piacere! Perrichon — Armando, datemi la mano... Io non so fare delle belle frasi... Ma finché il mio cuore avrà un battito, voi troverete sempre un posto per voi nel cuore riconoscente di Perrichon. (Gli stringe la mano) Non posso dirvi di più. La signora Perrichon — Grazie, signor Armando ! Enrichetta — Grazie, signor Armando ! Armando — Signorina Enrichetta! Daniele (tra sé) — Comincio a credere che il mio caffè sia stato un gravissimo errore di tattica. La signora Perrichon (all’albergatore) — Fate ripor tare il cavallo... Noi ritorneremo in carrozza. Perrichon (alzandosi) — Ti assicuro, cara, che so andare a cavallo abbastanza bene per permettermi di fare il viaggio di ritorno... (Grida) Ahi! Tutti — Cosa succede? Perrichon — Niente... i reni. Riportate indietro il cavallo ! La signora Perrichon — Vieni a riposarti un poco... Arrivederci, signor Armando. Enrichetta — Arrivederci, signor Armando! Perrichon (stringendo energicamente la mano di Armando) — A fra poco, Armando... (Lancia un altro grido) Ahi!.. (Esce a sinistra, seguito dalla moglie e dalla figlia). Armando — Che cosa ne pensi di tutto ciò, mio caro Daniele? Daniele — Penso che sei un uomo fortunato. Salvi il padre, lo strappi alla morte, ti butti in un pre cipizio... tutto ciò non era, né nel nostro programma, né nelle mie previsioni. Armando — Il caso... il semplice caso. Daniele — Sì, ma intanto il padre ti chiama Ar mando, la madre piange e la figlia ti regala delle frasi di ringraziamento. È evidente che sono bat tuto, irrimediabilmente battuto, e che non mi resta più che cederti il posto. Armando — Andiamo... vorrai scherzare?... Daniele — Scherzo così poco che stasera stessa riparto per Parigi. IL VIAGGIO DEL SIGNOR PERRICHON Armando — Tomi a Parigi? Daniele — Dove ritroverai un amico che, in questo momento, ti augura ancora una volta buona for tuna. Armando — Parti davvero? Grazie. Daniele — Ecco un vero, un autentico grido del cuore ! Armando — Ti chiedo scusa e lo ritiro subito. Dopo il sacrificio che tu hai acconsentito in mio favore... Daniele — Io?... Intendiamoci bene... io non ho fatto nessun sacrificio. Mi ritiro semplicemente perché credo di non aver più nessuna probabilità di vincere. Ma se, in questo stesso momento, si presentasse, mettiamo il caso, una nuova possi bilità di successo, anche una piccolissima possibi lità, ebbene, non partirei più e resterei qui a lot tare. Armando — Ah! Daniele — Ti dirò anzi una cosa piuttosto strana. Da quando Enrichetta mi è praticamente sfuggita, ho l’impressione di esserne ancora più innamorato di prima. Armando — Ti capisco benissimo. È anzi proprio per questo che non ti chiederò il piccolo favore che mi ero proposto di domandarti. Daniele — Che cosa? Armando — No... niente. Daniele — Parla... te ne prego. Armando — Avevo pensato che, dal momento che te ne vai, avresti potuto benissimo parlare con il signor Perrichon, accennargli alla mia situazione, alle mie speranze... Daniele — Diamine! Armando — Io, ormai, non posso più farlo perso nalmente... Avrei l’aria di esigere una ricompensa al servizio che gli ho reso. Daniele — Insomma, se ho ben capito, tu mi preghi di fare la domanda di matrimonio per conto tuo? Ciò che mi chiedi è abbastanza originale. Armando — Rifiuti? Daniele — Ma no, Armando, accetto! Armando — Amico mio! Daniele — Confessa che, come rivale, non sono troppo terribile... Un rivale in amore che fa la richiesta per conto del suo avversario! (Voce di Perrichon nel corridoio) Ecco tuo suocero ! Va’ a fumare un sigaro e torna. Armando — Non so davvero come ringraziarti. Daniele — Sta’ tranquillo... toccherò soprattutto la corda della riconoscenza. (Armando esce dal fondo). Perrichon (parlando a qualcuno, che non si vede) — Certo che mi ha salvato la vita! Certamente, sono ancora vivo grazie a lui! Ma finché avrà un battito il cuore di Perrichon... gliel’ho detto. Daniele — Ebbene, signor Perrichon, vi sentite un po’ meglio? Perrichon — Mi sento di nuovo in forma... Ho bevuto un po' di rhum e fra un quarto d’ora, conto tornare a passeggio sul Mare di Ghiaccio. Il vostro amico è andato via? Daniele — È uscito in questo momento. Perrichon - È un bravo giovanotto... mia moglie e mia figlia ne sono entusiaste. EUGENE LABICHE Daniele — Lo saranno ancora di più quando lo conosceranno meglio. È un cuor d’oro. E poi, servi zievole, devoto e di una grande modestia. Perrichon — Tutte qualità molto rare. Daniele — Ed è anche banchiere. Perrichon — Ah ! Daniele — Azionista principale della Banca Tur- neps, Desroches & C... Mi pare che basti... E sia detto tra di noi, è abbastanza lusinghiero farsi salvare la vita da un banchiere. Perché, insomma, vi ha salvato... la vostra vita ormai la dovete a lui... se non ci fosse stato lui... Perrichon — Certo... mi ha salvato... Quello che ha fatto è stato molto generoso. La mia riconoscenza per lui finirà con la mia vita... La mia ricono scenza durerà finché il cuore di Perrichon conti nuerà a battere. Ma intendiamoci bene, il servizio che mi ha reso non è in realtà così importante come vogliono farlo credere mia moglie e mia figlia ! Daniele (stupito) — Ah? Perrichon — Mia moglie e mia figlia si sono mon tate un po’ la testa. Sapete le donne... Daniele — Resta il fatto che, quando Armando vi ha fermato, voi stavate precipitando. Perrichon — Sì, è vero... precipitavo. Ma con una presenza di spirito meravigliosa, stupefacente... Avevo già notato un piccolo abete al quale mi sarei vigorosamente aggrappato... Anzi, mi ci ero già aggrappato quando il vostro amico è sopraggiunto. Daniele (tra sé) — Tra non molto, mi dirà che si è salvato da solo. Perrichon — Intendiamoci, gli sono grato lo stesso delle sue buone intenzioni. Desidero rivederlo... rinnovargli i miei ringraziamenti... quest’inverno lo inviterò a casa mia. Daniele (tra sé) — Una tazzina di tè. Perrichon — Mi hanno detto che non è la prima volta che succede, a quello stesso punto, quello che è capitato a me. È un settore pericoloso... L’alber gatore mi ha raccontato che, l’anno scorso, un russo... un principe... eccellente cavalcatore... per ché quello che dice mia moglie non è vero... gli speroni non c’entrano per niente... ebbene il prin cipe russo è andato a finire nello stesso preci pizio... Daniele — Davvero? Perrichon — Sì e la guida lo ha tirato su... Dun que, vedete che non è poi la fine del mondo tirar su qualcuno da quel precipizio... Il principe russo ha dato cento franchi alla guida, come ringrazia mento. Daniele — Come mancia non c’è male. Perrichon — È la somma esatta che, a mio parere, vale quel servizio... Daniele — Avete ragione... Non un soldo di più... (Tra sé) Io non parto più! Perrichon (scrutando fra le quinte) — E questa guida che non viene... Ma cosa fa? Daniele — Le signore sono pronte? Perrichon — No, non verranno... capite? Ma conto su di voi... nemmeno una parola a mia moglie... mi impedirebbe di uscire di nuovo. Daniele — E Armando? Perrichon — Se vuole essere dei nostri, non rifiu terò certamente la compagnia del banchiere Des roches. Daniele (tra sé) — Lo chiama già « banchiere Desroches »... Fra due giorni dirà che lo trova odioso. L’Albergatore (entrando da destra) — Signore... Perrichon — E dov'è questa guida? L’Albergatore — Vi aspetta alla porta... ecco le scarpe ferrate. Perrichon — Sì, mi hanno detto che c’è pericolo di scivolare. E siccome non voglio avere obblighi con nessuno... L’Albergatore (presentando il libro d’oro dei viag giatori) — Se il signore vuol scrivere qualcosa nel mio Libro d’Oro... Perrichon — Certo, con piacere... ma non voglio scrivere una cosa banale, ordinaria... mi occor rerebbe un pensiero... un bel pensiero pieno di signi ficato. (Restituisce il registro) Ci penserò su mentre infilo gli scarponi ferrati... (A Daniele) Vi raggiungo fra un minuto. (Esce a destra, seguito dall’alber gatore). Daniele (solo)— Quel fabbricante di carrozze è un capolavoro di ingratitudine. Un’ingrato, come non se ne fanno più... Armando (entrando dal fondo) — Ebbene? Daniele (tra sé) — Povero ragazzo! Armando — L’hai visto? Daniele — Sì. Armando — Gli hai parlato? Hai fatto la richiesta per me? Daniele — No... non l’ho fatta. Armando — E perché? Daniele —- Caro Armando, noi ci siamo promessi una franchezza reciproca totale. Ebbene io non parto più e continuo la battaglia. Armando (stupito) — E si possono conoscere le ra gioni che hanno provocato questo sensazionale cam biamento di programma? Daniele — Una sola ragione, ma formidabile... Credo di avere molte probabilità di vincere. Armando — Tu? Daniele — Io... Certo ho preso una strada diversa dalla tua, ma in fondo credo di poter arrivare più presto allo scopo. Armando — Va bene... dopo tutto è tuo diritto. Daniele — Ma intendiamoci... La battaglia conti nuerà ad essere leale ed amichevole. Almeno da parte mia... Armando — Anche da parte mia. Daniele — Mi sembra un po’ freddo il tuo con senso. Armando — E te ne chiedo scusa. (Gli tende la mano) Daniele, ti prometto la stessa lealtà. Daniele — Ne ero certo! Perrichon — Sono pronto... ho messo le scarpe fer rate... Ah! signor Armando! Armando — Come vi sentite dopo tante emozioni? Perrichon — Benissimo... Anzi non parliamone più di quel piccolo incidente... dimenticato... Daniele (tra sé) — Dimenticato ?... Va ancora più in fretta di quanto immaginavo. Perrichon — Partiamo per il Mare di Ghiaccio... Venite con noi? Armando — Veramente sono un po’ stanco e vorrei chiedervi il permesso di rimanere qui. Perrichon (premurosamente) — Volentieri, non fate complimenti. (All’albergatore che entra) Ah ! datemi pure il Libro d’Oro dei viaggiatori... (Si siede a destra e scrive). Daniele (tra sé) — Deve aver trovato il suo pen siero profondo! Perrichon (terminando di scrivere) — Ecco fatto... (Legge con enfasi) « Come è piccolo' l’uomo quando 10 si guarda dall’alto del Mare di Ghiaccio ». Daniele — Magnifico... pieno di significato ! Armando (tra sé) — Che adulatore! Perrichon (modestamente) — Debbo riconoscere che non è un pensiero banale. E non tutti sono in grado di formularlo e di scriverlo... Daniele (tra sé) — Perché poi scrive ghiaccio con una sola « c »? Perrichon (all’albergatore) — State attento... L’in chiostro non è ancora asciutto. L’Albergatore — La guida sta già aspettando... Ha portato i bastoni. Perrichon — Allora... via! Daniele — Andiamo ! (Daniele e Perrichon escono, seguiti dall’albergatore). Armando — Che strano cambiamento quello di Daniele ! La signora Perrichon e sua figlia sono di là... usciranno certamente fra poco... voglio vederle, voglio parlare con loro... (Si siede vicino al caminetto e prende un giornale). Le aspetterò. L’Albergatore (parlando a qualcuno) — Da questa parte, signore. 11 Maggiore (entrando) — Non mi trattengo che un minuto. Riparto subito per il Mare di Ghiaccio. (Si siede davanti al tavolo sul quale è rimasto aperto il Libro d’Oro dei viaggiatori, quello sul quale Perrichon ha scritto il suo pensiero) Fatemi portare un punch al rhum. L’Albergatore (uscendo a destra) — Subito, signore. I l Maggiore (scorgendo il Libro d'Oro) — Ah! il Libro d’Oro dei viaggiatori... Vediamo un po’... (Legge) « Come è piccolo l’uomo quando lo si guarda dall’alto del Mare di Ghiaccio. Firmato Perrichon... ». E « ghiaccio » con una « c » sola... Dev’essere un ghiaccio meno freddo degli altri. Questo signore merita una lezioncina di ortografia. L’Albergatore (portando il punch) — Ecco, signore. (Posa il punch sul tavolo a sinistra). I l Maggiore (pur continuando a scrivere sul Libro d'Oro) — Dite un po’... L’Albergatore — Signore... I l Maggiore — Fra le persone arrivate qui, questa mattina, non avete per caso un viaggiatore che si chiama Desroches... Armando Desroches... Armando — Armando Desroches?... Ma sono io, si gnore. I l Maggiore (alzandosi) — Voi, signore?... vi chiedo scusa... (All'albergatore) Lasciateci, ve ne prego... E IL VIAGGIO DEL SIGNOR PERRICHON proprio al signor Desroches della Banca Tumeps, Desroches & C. che ho l’onore di parlare? Armando — Sì, signore. I l Maggiore — Il mio nome è Mathieu... Maggiore Mathieu. (Si siede a sinistra e beve il punch). Armando — Felicissimo di conoscervi ma non credo di avervi mai incontrato, signor Maggiore. I l Maggiore — Può darsi... Ma il fatto è che voi mi state perseguitando, a mezzo di usciere, per una cambialetta che ho avuto l’imprudenza di mettere in circolazione. Armando — Una cambialetta? I l Maggiore — Sì... Ed in attesa che il Parlamento approvi la legge che sopprime il diritto di far impri gionare i debitori, avete anche ottenuto il diritto di procedere contro di me. Armando — Ciò che voi dite è possibilissimo, signor Maggiore, ma io non c’entro, è la banca che agisce, è la macchina burocratica della banca che funziona. Praticamente io sono estraneo. I l Maggiore — Infatti, non ho nessun sentimento di rancore verso di voi... nè verso la vostra banca... Solamente ci tenevo a farvi sapere che non sono affatto scappato da Parigi per sfuggire alla vostra carta bollata. Armando — Non ne dubito. I l Maggiore — Al contrario... considero la vostra carta bollata come provvidenziale... Sarò di ritorno a Parigi fra una quindicina di giorni... Probabil mente prima... Io ve lo farò sapere con esattezza e vi sarò grato se subito dopo il mio arrivo a Parigi, mi farete imprigionare per quel debituccio che non ho pagato... E mi permetto di chiedervi di essere imprigionato al più presto possibile... Armando — Volete scherzare, signor Maggiore? I l Maggiore — Non scherzo affatto... Vi chiedo quei giorni di carcere come un amichevole favore. Armando — Vi confesso che non riesco a capire. I l Maggiore (alzandosi contemporaneamente ad Armando) — Sono io stesso molto imbarazzato per spiegarvi con chiarezza quanto mi accade. Scusate... una domanda... Siete celibe? Armando — Sì, signor Maggiore. I l Maggiore — Allora posso farvi ima confessione... Ho la disgrazia di essere innamorato... pazzamente innamorato. Armando — Voi? I l Maggiore — Alla mia età è una cosa un po’ ridi cola, non è vero? Armando — No, non dico questo... I l Maggiore — No, parlate pure con franchezza... preferisco... Mi sono innamorato d’una piccola peco rella smarrita... chiamiamola così... che ho incon trato una sera di carnevale al Bai Tabarin... Si chiama Anita... Armando — Anita... Ne conosco una... I l Maggiore — È lei certamente. Ha un’abilità straordinaria, tutta sua, per attaccar discorso con la gente ! Quando l’ho conosciuta, mi son detto : Mi divertirò due o tre giorni con lei... Sono tre anni che Anita comanda nella mia vita. Mi tra disce, mi rovina e si burla di me... Passo la vita a comperarle dei mobili nuovi... Il giorno dopo, li EUGENE LABICHE vende... Poi, ritorna da me, singhiozzando, per dirmi che non ha più mobili. Ho deciso di lasciarla, sono partito da Parigi, ho messo non so quanti chilometri fra me e lei, ed eccomi qui... Ma non sono affatto sicuro di resistere... Non è impossibile ch’io torni questa sera stessa a Parigi... Anita è più forte della mia volontà... Ah! l’amore a cin- quant’anni... è un po’ come un reumatismo. Non c’è nulla che riesca a guarirlo. Armando (ridendo) — Signor Maggiore, non avevo affatto bisogno di questa lunga confessione per dare ordine di interrompere qualsiasi azione contro le vostre cambiali non pagate. Scrivo oggi stesso a Parigi dicendo di non fare più nulla. I l Maggiore (con vivacità) — Ma niente affatto... Non scrivete niente... Io desidero essere messo in prigione. È il solo mezzo che mi resta per cercare di guarire. Voglio servirmene... Armando — Tuttavia... I l Maggiore — Permettete... la legge è la legge... Armando — Allora, signor Maggiore, se proprio ci tenete... I l Maggiore — Ve ne prego... ve ne supplico... E una specie di grande favore che vi chiedo... Appena sarò di ritorno a Parigi, vi avvertirò e voi farete le pratiche necessarie per il mio internamento. Sono sempre in casa fino alle dieci del mattino. (Saluta) Signore, sono felicissimo di aver fatto la vostra conoscenza. Armando — Il piacere è tutto mio, Maggiore. (Si salutano. Il Maggiore esce dal fondo). Armando — Finalmente se n'è andato. Bisogna rico noscere che non succede tutti i giorni di incontrare qualcuno che ci prega di mandarlo in prigione. (Scorge la signora Perrichon che entra dalla sini stra) Ah! signora Perrichon. La signora Perrichon — Ancora qui e tutto solo? Credevo che foste uscito insieme ai vostri amici per accompagnarli nell’escursione. Armando — Ho già fatto quell’escursione l’anno scorso. Ecco perché ho chiesto al signor Perrichon il permesso di rimanere qui e l’autorizzazione di mettermi a vostra disposizione. La signora Perrichon — Ah! signore... (Tra sé) E veramente un gentiluomo! (A voce alta) Vi piace molto la Svizzera? Armando — Bisogna pur passare le vacanze in qual che posto. La signora Perrichon — A me piace, ma non vorrei abitare sempre qui... ci sono troppi precipizi, troppe montagne... Io sono nata in pianura sulle rive della Loira. Armando — Capisco, c’è differenza... La signora Perrichon — Sono di Orléans. Armando (tra sé) — La mia banca deve avere un rappresentante ad Orléans. Forse potrebbe essermi utile. (A voce alta) Non conoscete, ad Orléans, il signor Pingley? La signora Perrichon — Pingley... ma certo... è mio cugino. Lo conoscete? Armando — Lo conosco benissimo... (Tra sé) Mai visto ! La signora Perrichon — È una gentilissima persona. Armando — Ah! per questo sì... La signora Perrichon — Peccato che sia afflitto da un’infermità così sgradevole. Armando — Certo... un vero peccato! La signora Perrichon — Così sordo ad appena qua- rantasette anni! Armando (tra sé) — Ah!... non sapevo che il nostro rappresentante fosse così sordo. Forse è per questo che non risponde mai alle lettere. La signora Perrichon — Com’è strana la vita! Ed è proprio un amico di mio cugino Pingley che salva la vita a mio marito. Ci sono davvero, nei nostri destini, delle coincidenze straordinarie. Armando — Spesso noi ci divertiamo ad attribuire al caso, al destino, delle peripezie di cui il caso e il destino non ne sanno assolutamente nulla. La signora Perrichon — Sì, ma d’altra parte noi attribuiamo... (Tra sé) Non ho capito niente di quello che ha voluto dire... Armando — Per esempio, signora, il nostro incontro sul treno nello stesso scompartimento, poi il nostro incontro a Lione, a Ginevra, a Chamonix, qui... voi naturalmente credete che tutto questo sia dovuto al caso? La signora Perrichon — In viaggio ci si incontra, ci si ritrova... Armando — Certamente... ma ci si ritrova e ci si incontra soprattutto quando ci si cerca. La signora Perrichon — Come sarebbe a dire? Armando — Sì, signora, non posso permettermi di lasciarvi credere più a lungo alla faccenda del caso, del destino... Ho il dovere di dirvi la verità, tutta la verità... Debbo dirla a voi e debbo dirla alla signorina vostra figlia. La signora Perrichon — Mia figlia? Armando — Signora, spero che mi perdonerete... Il giorno in cui ho veduto vostra figlia mi sono sentito sconvolto, cambiato, colpito... incantato.,, quel giorno stesso ho saputo che partivate per la Svizzera... E sono partito anch’io! La signora Perrichon — Ma allora ci state pedi nando? Armando — Non pedinando : seguendo passo a passo... Perdonatemi... sono innamorato! La signora Perrichon — Signore! Armando — Oh! rassicuratevi... un amore rispet toso... amo vostra figlia con tutto il rispetto, con tutta la discrezione che bisogna avere per una signorina di cui si spera fare la propria moglie. La signora Perrichon (sorpresa e smarrita) — Una richiesta di matrimonio? E mio marito che non c’è!... Certo, signore... Sono felicissima... no, sono lusingata perché... le vostre maniere di gentiluomo... la vostra educazione... Pingley, il cugino sordo... il servizio che ci avete reso... ma mio marito è uscito... è andato ancora una volta sul Mare di Ghiaccio... ma appena sarà tornato... Enrichetta (entra rapidamente) — Mamma... (Si ferma) Ah! stavi parlando con il signore... La signora Perrichon (turbata) — Parlavamo, cioè... veramente parlavamo del cugino Pingley... Il signor Armando conosce Pingley... non è vero? Armando — Certo... conosco il signor Pingley... Enrichetta — Come sono felice che lo conosciate ! La signora Perrichon (ad Enrichetta) — Ma come sei pettinata? ma che vestito?... Enrichetta (stupita) — Cosa c’è? (Si sentono grida e rumori provenienti dal di fuori). La signora Perrichon e Enrichetta — Un’altra scia gura? Armando — Cosa gridano? Daniele (entra, sostenuto a braccia dall'albergatore e dalla guida) Perrichon (molto commosso) — Presto! dell’acqua... dei sali... dell’aceto! (Fa sedere Daniele). Tutti — Ma che cosa è accaduto? Perrichon — Spaventevole! (Si interrompe) Fatelo bere... fategli respirare i sali... strofinategli le tem pie con l'aceto! Daniele — Grazie... mi sento meglio. Armando — Ma insomma, dite... Daniele — Senza il meraviglioso coraggio del signor Perrichon... Perrichon (vivacemente) — No, non parlate, po treste stancarvi... (Raccontando) È stato orribile... Eravamo sul Mare di Ghiaccio... Il Monte Bianco ci guardava, tranquillo e maestoso, dall’alto delle sue nevi eterne... La signora Perrichon — E allora? Enrichetta — Papà... Perrichon — Un momento, diamine, avete così fretta?... Già da cinque minuti noi stavamo cammi nando pensierosi lungo un sentiero scosceso, un piccolo sentiero a forma di serpente, fra due cre pacci... Intorno il ghiaccio immenso... Io marciavo per primo in testa... La signora Perrichon — Che imprudenza! Perrichon — Ad un tratto, sento dietro a me un rumore... si sarebbe detto un rumore di valanga... Mi volto... Il signor Daniele era scomparso in uno di quegli abissi senza fondo che fanno fremere soltanto a guardarli... La signora Perrichon (impaziente) — E allora? Perrichon — Allora, non ascoltando nessun’altra voce alPinfuori di quella del mio coraggio, io... padre di famiglia... mi sono lanciato... La signora Perrichon e Enrichetta — Cielo! Perrichon — Mi sono lanciato sull’orlo del preci pizio... ho teso al signor Daniele il mio bastone ferrato... Il signor Daniele si è aggrappato al ba stone e, dopo una lotta, breve, ma titanica, sono riuscito a strappare il signor Daniele dall’abisso, dal vortice... E l’ho ricondotto di fronte al sole, padre della vita e di noi tutti! (Si asciuga la fronte con il fazzoletto). Enrichetta — Oh ! papà... La signora Perrichon — Caro... Perrichon (abbracciando la moglie e la figlia) — Sì, mie care, modestamente credo di avere scritto una pagina abbastanza gloriosa negli annali del l’alpinismo ! Armando (a Daniele) — Come ti senti? Daniele (a voce bassa) — Benissimo. Non stare in pensiero... (Si alza) Signor Perrichon, con il IL VIAGGIO DEL SIGNOR PERRICHON vostro gesto coraggioso voi avete restituito un figlio a sua madre... Perrichon (maestosamente) — Questo è vero! Daniele — Un fratello alla sua adorata sorella ! Perrichon — E un uomo alla società. Daniele — Le parole sono impotenti a riconoscere il valore di un tale servigio umano e sociale... Perrichon — Questo è vero! Daniele — Ma ciò che conta, nella vita, è il cuore... soltanto il cuore! Perrichon — Signor Daniele... permettetemi di chia marvi semplicemente Daniele... Daniele — Ma certo... con piacere... (Tra sé) Ad ognuno il suo turno! Perrichon — Daniele, amico mio... figlio mio... Qua la vostra mano. (Gli prende la mano) Io debbo a voi le più dolci, le più lusinghiere emozioni della mia vita. Senza di me, voi non sareste, in questo momento, che un blocco informe e ripugnante di carne morta, stritolata, sepolta sotto i ghiacciai eterni... Voi mi dovete tutto... tutto. E questo, ve 10 giuro, non lo dimenticherò mai... Daniele — Nemmeno io lo dimenticherò... ve lo giuro. Perrichon (ad Armando, asciugandosi gli occhi) — Ah! giovanotto... voi non potrete mai sapere la gioia immensa che si prova salvando il proprio simile... Enrichetta — Ma papà, il signore la conosce benis simo, questa gioia, perché poco fa... Perrichon (ricordandosi bruscamente) — Ah! sì... è vero! Padrone... portatemi ancora una volta il Libro d’Oro dei viaggiatori. La signora Perrichon — Cosa vuoi fare? Perrichon —• Prima di lasciare questi luoghi, desi dero consacrare qualche riga allo storico avveni mento di cui sono stato l’eroe principale. L’Albergatore (portando il Libro d’Oro) — Ecco, signore... Perrichon — Grazie... Eh?... ma chi è che ha scritto questo? Tutti — Che cosa? Perrichon (leggendo) — « Mi permetto di fare osser vare al signor Perrichon che la parola ghiaccio si scrive con due ” c ”. Solo a questa condizione 11 ghiaccio è veramente freddo. Con una ” c ” sola, invece, il ghiaccio diventa tiepido. Firmato: il Maggiore ». Tutti — Davvero? Enrichetta (sottovoce a suo padre) — Papà, il Mag giore ha ragione... ci vogliono due « c ». Perrichon — Lo sapevo, cara... È stata una svista... Ma gli risponderò io per le rime a questo signore che ha la pretesa di insegnarmi l’ortografia (Prende la penna e scrive) « Il Maggiore è uno screanzato! Firmato : Perrichon ». La guida (entrando) — La carrozza è pronta! Perrichon — Andiamo! spicciamoci! (A Daniele ed ad Armando) Signori, se volete c’è un posto per voi. (Armando e Daniele si inchinano). La signora Perrichon (chiamando suo marito) — EUGENE LABICHE Vuoi aiutarmi a mettere il mantello? (Sottovoce) Sai, mi hanno chiesto la mano di Enrichetta. Perrichon — Strano! L’hanno chiesta anche a me. La signora Perrichon — È stato il signor Armando. Perrichon — A me, l'ha chiesta Daniele... il mio amico Daniele... La signora Perrichon — A me sembra che l’altro... Perrichon — Ne parleremo più tardi. Enrichetta (alla finestra) — Piove a dirotto ! Perrichon — È noioso! (All'albergatore). Quanti posti ci sono nella carrozza? L’Albergatore — Quattro nell’interno e uno a cas setta, vicino al cocchiere. Perrichon — Per l’appunto siamo in cinque. Armando — Non avete nessun bisogno di preoccu parvi per me. Perrichon — Daniele verrà dentro alla carrozza con noi... Enrichetta (sottovoce, a suo padre) — E il signor Armando? Perrichon — Non ci sono che quattro posti dentro alla carrozza. Hai sentito? Il signor Armando andrà a cassetta. Enrichetta — Con una pioggia simile? La signora Perrichon — Un uomo che ti ha sal vato la vita... Perrichon — Ebbene... gli presterò il mio imper meabile. Andiamo. Daniele (tra sé) — Armando ha salvato la vita a Perrichon... Ma io sono stato molto più abile... Ho obbligato Perrichon a salvare la mia! A tto ters;o ™ Un salotto in casa di Perrichon, a Parigi. Cami netto in fondo. Porta d’ingresso, nell’angolo, a sini stra. Camera d’angolo, a destra. Sala da pranzo a sinistra. In mezzo, tavolino ricoperto, e con accanto un divano. Giovanni (solo, sta cercando di spolverare, guarda l’orologio) — Un quarto a mezzogiorno... Il signor Perrichon ha annunciato il suo ritorno dalle va canze. Torna con sua moglie e con sua figlia. Mi ha scritto ieri: vediamo se ho capito esattamente quanto mi dice. (Estrae la lettera e la scorre a voce bassa, ma comprensibile). « Grenoble. 5 luglio... Arriveremo mercoledì 7 a mezzogiorno. Giovanni pulirà l’appartamento e farà mettere le tendine ». (Parlato) Fatto... Fatto così così... ma fatto. (Legge) « Giovanni dirà alla cuoca Margherita di prepa rarci un buon pranzo. Del bollito... ma un pezzo che non sia troppo grasso. Poi, siccome è molto tempo che non mangiamo pesce, prenderà delle triglie, fresche, mi raccomando. Se le triglie fossero troppo care, sostituirle con una bistecca di manzo ai ferri ». (Parlato) Il signor Perrichon può arrivare tranquillamente. Tutto è pronto. Ecco i suoi gior nali, la sua posta, i biglietti da visita delle persone che son venute a cercarlo durante la sua assenza. Stamattina, alle sette, è venuto un signore che non conosco... Mi ha detto semplicemente di rife rire che c’è stato il Maggiore. Deve ritornare, del resto. Ha detto che ripasserà. (Si sente il cam panello). Eccoli, arrivati, riconosco la maniera di scampanellare del signor Perrichon. Perrichon — Giovanni, siamo noi ! Giovanni — Signore... signora... signorina... (Prende le valigie e le cappelliere). Perrichon — Come è dolce tornare alla propria casa, rivedere i propri mobili, sedersi sul proprio divano! (Si siede). La signora Perrichon — Avremmo dovuto essere di ritorno già da otto giorni. Perrichon — Non potevamo passare per Grenoble senza salutare i Dupont... Hanno voluto trattenerci... l'amicizia ha i suoi doveri... Giovanni, è arrivato niente per me durante la mia assenza? Giovanni — Sì, signore... tutto è lì sul tavolo. in Perrichon (prende diversi biglietti da visita un vassoio) — Quante visite! (Legge) Armando Des- roches... Enrichetta (coti gioia) — Ah! Perrichon (sempre leggendo) — Damele Savary... Che bravo giovanotto. Armando Desroches... Bisogna riconoscere che è simpaticissimo, Armando Des roches. Giovanni — Questi signori sono venuti tutti i giorni per sapere se il signore era tornato. La signora Perrichon — Dovresti restituire la visita. Perrichon — Certamente... Oggi stesso andrò a far visita a quel caro Daniele. Enrichetta — E il signor Armando? Perrichon — Andrò a vedere anche lui... ma un altro giorno... dopo... Enrichetta (a Giovanni) — Aiutatemi a portare le cappelliere... Giovanni — Sì, signorina. (Guarda Perrichon) Trovo che il signore è un po’ ingrassato. Si vede che ha fatto buon viaggio. Perrichon — Magnifico, caro Giovanni, magnifico... E, poi, tu non lo sai ancora... ma ho salvato un uomo... un uomo che stava per morire... che senza di me sarebbe morto. Giovanni (incredulo) — Il signore scherza sempre. (Esce con Enrichetta dalla destra). Perrichon — Scherzare? Ma è ben stupido ! La signora Perrichon — Adesso che siamo ritornati, spero ti deciderai a fare la tua scelta... Non pos siamo rimandare ancora la decisione... E, poi, quei due giovani aspettano la nostra risposta. Due aspi ranti alla mano di nostra figlia, nella nostra casa, sono un po’ troppi. Perrichon — Ma mia cara, io sono sempre della stessa opinione... Io preferisco Daniele. La signora Perrichon — Ma perché? Perrichon — Non so... lo trovo più... lo trovo me glio... insomma, quel giovanotto mi piace. La signora Perrichon — Ma l’altro ti ha salvato la vita!... Perrichon — Mi ha salvato la vita... mi ha sal vato la vita... sempre lo stesso ritornello. La signora Perrichon — Che cosa puoi rimprove rare al signor Armando? Ottima famiglia, ricco... Perrichon — Ma io non gli rimprovero nulla- io non ce l'ho affatto con lui. La signora Perrichon — Ci mancherebbe altro... ci mancherebbe che tu gli tenessi il broncio. Perrichon — Però ha un'aria presuntuosa che non mi va. La signora Perrichon — Presuntuoso... lui! Perrichon — Sì, un’aria di protezione... come se si degnasse di parlarmi... Ha sempre l’aria di vo lermi ricordare il piccolo favore che mi ha reso. La signora Perrichon — Ma se non te ne parla mai ! Perrichon — Apertamente, no... Ma ha sempre l’aria di dirmi : « Eh, se non ci fossi stato io... A quest’ora... ». E credimi, a lungo andare è noioso... Mentre l’altro, Daniele... La signora Perrichon — L’altro ti ripete continua- mente : « Eh ! se non eravate voi... A quest’ora... ». E questo lusinga la tua vanità. Ecco perché lo preferisci. Perrichon — Vanitoso io? Forse ne avrei un poco diritto. L'uomo che ha rischiato la sua vita per salvare il proprio simile ha il diritto di essere fiero di se stesso... Ma io preferisco rimanere chiuso nel mio modestissimo silenzio... che è il segno caratteristico del vero, dell’autentico coraggio. La signora Perrichon — Tutto questo non impedisce che il signor Armando... Perrichon — Enrichetta non vuol bene... non può voler bene al signor Armando. La signora Perrichon — Che ne sai tu? Perrichon — Sono suo padre. Non può sfuggirmi. Lo suppongo. La signora Perrichon — Interrogala... e noi sceglie remo quello che lei preferisce. Perrichon — Sì, ma tu non devi influenzarla. La signora Perrichon — Eccola. (A sua figlia che entra) Enrichetta... mia cara Enrichetta... tuo padre ed io abbiamo bisogno di parlarti molto seriamente. Enrichetta — Davvero? lusingata per l’attenzione. La signora Perrichon — Eccoti ormai in età di prendere marito... Due giovani si sono presentati per chiederci la tua mano... Tutti e due sono degni della nostra stima... Ma noi non vogliamo in nessun modo contrariare la tua volontà, ed abbiamo deciso di lasciarti piena libertà di scelta. Perrichon — Libertà piena e totale. La signora Perrichon — Uno di questi giovani è il signor Armando Desroches. Enrichetta — Ah ! Perrichon (alla moglie) — Non influenzare... La signora Perrichon — L’altro è il signor Daniele Savary... Perrichon — Un giovane distinto, spiritoso, piace vole e che, non te lo nascondo, gode di tutte le mie simpatie. La signora Perrichon — Ma sei tu che cerchi di influenzarla ! Perrichon — Influenzarla io?... Io mi limito a IL VIAGGIO DEL SIGNOR PERRICHON constatare un fatto... Enrichetta, adesso sai di che si tratta e scegli. Enrichetta — Ve ne prego, non mettetemi così nell’imbarazzo... io sono pronta ad accettare quello che voi stessi sceglierete. Perrichon — Ma nient’affatto... sceglierai tu stessa. La signora Perrichon — Parla, Enrichetta... Enrichetta — Ebbene, dal momento che debbo proprio scegliere uno dei due, scelgo il signor Armando. La signora Perrichon — Lo sapevo... Perrichon — Armando?... E perché non scegli Da niele? Enrichetta — Il signor Armando ti ha salvato la vita, papà. Perrichon — Ancora questa storia? Sai che, a lungo andare, questa storia diventa noiosa... La signora Perrichon — Come vedi, non c’è da esitare. Perrichon — Permetti, cara... un padre non può abdicare ai suoi doveri... ci penserò su... prenderò le mie informazioni. La signora Perrichon (sottovoce al marito) — Sei in cattiva fede! Perrichon — Carolina... Giovanni (parla a qualcuno) — Entrate... sono arri vati poco fa... Perrichon — Guarda chi si vede ! Quel caro Ma- jorin ! Majorin (salutando) — Signora... signorina... ho saputo che ritornavate oggi... mi sono fatto dare un piccolo permesso con la scusa che dovevo accom pagnare mia sorella dal dottore... Perrichon — Caro... caro Majorin... Sempre gentile... Ceni con noi?... Abbiamo delle magnifiche triglie... Majorin — Se non sono troppo indiscreto... Giovanni —■ Mi permetto di far osservare al signore che non ci sono triglie.... Ci sono delle bistecche di manzo. Perrichon — Ah... Allora caro Majorin sarà per un’altra volta. Majorin (tra sé) — M’invita... poi sopprime l’invito. Se crede che io ci tenga a cenare con lui ! (Si apparta con Perrichon mentre la signora Perrichon ed Enrichetta si siedono sul divano) Ero venuto per parlarti di quei seicento franchi che mi hai prestato il giorno della tua partenza. Perrichon — Bravo... me li hai riportati? Majorin — No, incasso solo domani i miei dividendi della Compagnia di Navigazione... e a mezzogiorno... a mezzogiorno in punto... Perrichon — Non c’è nessuna premura. Majorin — C’è per me la premura... Desidero sde bitarmi... Perrichon — Ah! ti ho portato un piccolo ricordo... Majorin (sedendosi al tavolino) — Un ricordo? Gen tile. Perrichon (sedendosi) — Passando per Ginevra ho comperato tre orologi : uno per Giovanni il came riere, imo per Margherita la cuoca e uno per te. Ma il tuo suona ! eh? EUGENE LABICHE Majorin (tra sé) — Mi mette dopo i domestici! (Ad alta voce) Ah, grazie... Perrichon — Non ancora. Prima di arrivare alla dogana francese, li avevo nascosti nella mia cra vatta. Majorin — Perché? Perrichon — Ma per non pagare la dogana. Il doganiere mi domanda: Niente di dazio? Rispondo naturalmente di no... Poi faccio un piccolo movi mento e in quello stesso momento il tuo orologio si mette a suonare... din... din... din... Majorin — Ebbene? Perrichon — Scoperto. Sequestrato tutto. Avessi visto, una scenata disgustosa... Ho dato del mascal zone al doganiere, lui ha risposto che avrei avuto presto sue notizie... Mi dispiace molto di aver avuto questo incidente... Era molto bello il tuo orologio... Majorin — Ti ringrazio lo stesso... (Tra sé) Ava- raccio... guarda che figure alla dogana per pochi soldi. Incredibile. Giovanni (annunciando) — Il signor Armando Des- roches! Enrichetta (smettendo il suo lavoro di ricamo) — Ah! La signora Perrichon (alzandosi e andando incontro ad Armando) — Siate il benvenuto, signore... Aspet tavamo la vostra visita... Armando (salutando) — Signora... Signor Perrichon... Perrichon — Molto lieto... molto lieto... (Tra sé) Ha sempre quella sua boria protettrice... La signora Perrichon (al marito) — Presentalo a Majorin. Perrichon — Certamente... Majorin... ti presento il signor Armando Desroches... un compagno di viaggio... Enrichetta (con vivacità) — Ha salvato la vita a papà. Perrichon (tra sé) — Ancora? Ma non riuscirò mai a liberarmene di questa storia? Majorin — Ma come?... Sei stato in pericolo? Perrichon — No... una cosa da nulla. Armando — Ma certo... una cosa da nulla, non è proprio il caso di parlarne. Giovanni (annunciando) — Il signor Daniele Savary. Perrichon (entusiasticamente) — Ali eccolo il no stro caro amico Daniele... (Si precipita incontro a Daniele). Daniele (salutando) — Signore... Buongiorno, Ar mando. Perrichon (prendendo Daniele per mano) — Venite... voglio presentarvi al mio amico Majorin... Majorin, ti presento uno dei miei migliori... dei miei più cari amici... Il signor Daniele Savary... Majorin — Savary... della Compagnia di Naviga zione? Daniele (salutando) — Per servirvi... Perrichon — Senza di me, il signor Savary non sarebbe in grado, domattina, di pagarti i tuoi divi dendi. Majorin — Perché? Non capisco... tu il giornale) — Leggi Perrichon — Perché?... (Con fatuità) Semplice- mente perché gli ho salvato la vita, mio caro... Majorin — Tu?... Ma avete passato le vacanze a salvarvi la vita? Perrichon (raccontando) — Eravamo sul Mare di Ghiaccio... Il Monte Bianco ci guardava tranquillo e maestoso dall’alto delle sue nevi eterne... Daniele (tra sé) — Secondo racconto... Perrichon — Già da cinque minuti noi stavamo camminando pensierosi... Enrichetta (che ha aperto un giornale) — Papà, ti hanno messo nel giornale... Perrichon — Si parla di me anche nel giornale? Enrichetta (porgendo stesso... Tutti (avvicinandosi) — Leggete... Perrichon (leggendo) — « Riceviamo da Chamonix: Un avvenimento che avrebbe potuto avere le più deplorevoli conseguenze è stato registrato nella zona del Mare di Ghiaccio... Il signor Daniele S., appartenente alla migliore società parigina, nel corso di una escursione è scomparso improvvisa mente in uno dei numerosi crepacci della mon tagna. Uno dei testimoni di questa orribile scena, il signor Perrichon di Parigi - ci si consenta di nominarlo - noto commerciante e padre di fami glia, ubbidendo soltanto alla voce generosa del suo coraggio, e rischiando la propria vita si è lanciato nell’abisso... ». (Parlato) È vero! (Leggendo) « E dopo numerosi sforzi il signor Perrichon - ci si permetta di nominarlo ancora... ». (Parlato) Ma sì lo permetto... (Leggendo) « Il signor Perrichon è riuscito a trarre in salvo il suo compagno. Un così ammirevole ardimento non è stato superato che dalla modestia del signor Perrichon che ha voluto sfuggire ostinatamente alle congratulazioni di una folla commossa e riconoscente. I cuori gene rosi di tutti i paesi ci saranno grati di aver segna lato un così nobile gesto ». Tutti — Bellissimo! Daniele (tra sé) — Mi è costato tre franchi la linea... tariffa della pubblicità. Perrichon (rilegge lentamente l’ultima frase) — « I cuori generosi di tutti i paesi ci saranno grati di aver segnalato un così nobile gesto... ». (A Daniele, molto commosso) Amico mio... figlio mio!... Abbrac ciatemi ! (Si abbracciano). Daniele (tra sé) — Decisamente sono stato molto abile ! Perrichon (indicando il giornale) — Certo, io non sono un rivoluzionario ma debbo riconoscere che la stampa, la libera stampa, ha il suo lato buono. (Mette il giornale in tasca e dice tra sé) Bisognerà comperarne cento copie. La signora Perrichon (al marito) — Senti, si po trebbe segnalare allo stesso giornale il coraggioso gesto del signor Armando... Enrichetta — Così la cronaca della Montagna di Ghiaccio sarebbe completa. Perrichon (irritato) — È inutile e, poi, non posso obbligare il giornale ad occuparsi continuamente di me. Giovanni (entra con un foglio di carta in mano) — Signore, il portinaio mi incarica di consegnare al signore questa citazione a mezzo di usciere. La signora Perrichon — Una citazione? Perrichon — Non è il caso di aver paura... Io non debbo nulla a nessuno... Anzi sono gli altri che debbono a me... Majorin (tra sé) — Un sasso nelle mie finestre?! Perrichon (esaminando il foglio) — Questa è una citazione che mi invita a comparire dinanzi al tribunale per oltraggio grave verso un agente della forza pubblica nell’esercizio delle sue funzioni. Tutti — Ma è gravissimo! Perrichon (leggendo) — Visto il processo verbale indirizzato a questi uffici dai servizi di Dogana e firmato Machut, sergente finanziere... Armando — Ma insomma di che cosa si tratta? Perrichon — Una sciocchezza... Un finanziere mi ha sequestrato tre orologi... tre piccoli orologi- io l’ho chiamato « mascalzone ». Credo di averlo chiamato anche « rifiuto umano » ma non ricordo bene... Majorin — Ma sai che tutto ciò è abbastanza grave? Perrichon (inquieto) — Credi grave? Majorin — Non so se mi spiego... ingiurie qualifi cate contro un agente della forza pubblica nell’eser cizio delle sue funzioni... Ma scherzi? Perrichon e La signora Perrichon — E allora? Majorin — Da quindici giorni a tre mesi di pri gione ! Tutti — Prigione! Perrichon — In prigione... io...? Dopo cinquant’anni di vita onorata, pura, senza la più piccola macchia... io debbo andarmi a sedere sul banco degli accu sati in un’aula di tribunale? No... mai e poi mai ! Majorin (tra sé) — Gli sta bene... imparerà a fare del contrabbando aggravato da insulti. Perrichon — Amici miei... il mio avvenire è in franto ! La signora Perrichon — Andiamo, calmati! Enriciietta — Papà... Daniele — Coraggio! Armando — Aspettate... credo che mi sia possibile togliervi d’imbarazzo ! Tutti — Voi? Perrichon — Voi, Armando?... mio caro ottimo amico... Armando (a Perrichon) — Sono legato, da un’ami cizia abbastanza intima, con un altissimo funzio nario dell’Amministrazione delle Dogane... Vado su bito a trovarlo... Forse potrà convincere il doga niere a ritirare la sua denuncia! Majorin — Non credo che il doganiere ritirerà il suo rapporto! Armando — Perché? Gli si spiega che si tratta di un momento di vivacità... Perrichon — Che rimpiango... Armando — Datemi la citazione... Io, invece, spero di riuscire... Non vi fate cattivo sangue signor Per richon ! IL VIAGGIO DEL SIGNOR PERRICHON Perrichon (commosso, prendendo la mano di Ar mando) — Ah! caro Daniele! (Si accorge dell’er rore) No, Armando... caro Armando... Permettetemi di abbracciarvi! (Lo abbraccia). Enriciietta (tra sé) — Sono contenta! (Va con la madre verso il fondo). Armando (sottovoce, a Daniele) — Spero di avere la mia rivincita! Daniele — Te lo auguro... Ma tu difendi Perrichon come se fossi il suo cane di guardia! Majorin (ad Armando) — Esco con voi ! Perrichon (a Majorin) — Te ne vai? Majorin — Sì... (Con fierezza) Ceno da amici... (Esce con Armando). La signora Perrichon (avvicinandosi al marito e sottovoce) — Ebbene che cosa ne dici adesso del signor Armando? Perrichon — Armando è un angelo... È il migliore giovane ch'io abbia conosciuto! La signora Perrichon — E allora perché esiti ad accordargli la mano di nostra figlia? Perrichon — Non esito più... Gliela accordo. La signora Perrichon — Finalmente una buona deci sione... Non ti resta più che dire la verità al signor Daniele. Perrichon — Povero ragazzo ! Credi proprio che gli debba dire?... La signora Perrichon — Certo... Non vorrai mica aspettare il giorno in cui manderemo gli inviti di nozze? Perrichon — Certo no! La signora Perrichon — Ti lascio con lui... Co raggio! (Ad alta voce) Vieni, Enrichetta? (Salu tando Daniele) Signore... (Esce a destra, seguita da Enrichetta). Daniele (tra sé, avvicinandosi a Perrichon) — E evidente che le mie azioni stanno andando un po' giù! Se potessi... (Va a sedersi sul divano). Perrichon (tra sé) — Che bravo giovane! Mi fa pena dovergli dire una cosa simile!... Ma è neces sario! (Ad alta voce) Mio caro Daniele... mio caro amico Daniele... Ho una notizia piuttosto dolorosa da comunicarvi... Daniele (tra sé) — Ci siamo! (Si siedono sul di vano). Perrichon — Voi mi avete fatto l’onore di chie dermi la mano di mia figlia... Io non ero affatto contrario a questo progetto... ma le circostanze... gli avvenimenti... il vostro amico Armando mi ha reso dei servigi tali... Daniele — Capisco! Perrichon — Si ha un bel dire, ma Armando mi ha salvato la vita! Daniele — E allora... il piccolo abete al quale vi siete così coraggiosamente aggrappato?... c’è anche quello ! Perrichon — Certo... il piccolo abete... ma era pic colo... avrebbe potuto spezzarsi... e poi non mi ci ero ancora aggrappato quando Armando... Daniele — Capisco... EUGENE LABICHE Perrichon — Ma non si tratta soltanto di questo... In questo stesso momento, quel bravo Armando sta correndo, a destra e a sinistra, per farmi uscire di prigione... E così, oltre alla vita, io gli dovrò anche l'onore! Daniele — Signor Perrichon... i sentimenti che vi fanno agire, in questo momento, sono troppo nobili... e io non ho il diritto né di oppormi né di discu terli... Perrichon — Davvero?... non mi serberete rancore? Daniele — Per tutta la mia vita, io mi ricorderò di una cosa soltanto : del vostro coraggio... di quello che avete così coraggiosamente fatto per me! Perrichon (strìngendogli la mano) — Ah, Daniele! (Tra sé) In fondo, gli voglio un gran bene a questo giovane ! Daniele — Perciò prima di partire... (Si alza). Perrichon — Partire? Daniele — Prima di lasciarvi... Perrichon (alzandosi) — Come?... mi lasciate?... perché? Daniele — Non posso continuare delle visite che finirebbero per essere compromettenti per la signo rina vostra figlia... e che sarebbero per me molto... molto... dolorose. Perrichon — Mi dispiace... Siete il solo uomo che 10 ho salvato... Daniele — Sì, ma il vostro ricordo non mi abban donerà mai... Anzi ho un’idea che, spero, troverà 11 vostro consenso... Vorrei far eternare sulla tela, così come rimarrà eterna nel mio cuore, la scena eroica del Mare di Ghiaccio. Perrichon — Un quadro? Mi volete mettere in un quadro? Daniele — Mi sono già rivolto ad imo dei nostri pittori più illustri... uno di quelli che lavorano soltanto per la posterità. Perrichon — La posterità! Ah, caro Daniele! (Tra sé) In fondo gli voglio' un gran bene a questo giovane ! Daniele — Desidero soprattutto che ci sia la somi glianza... Perrichon — Certo... anch’io esigo una somiglianza perfetta. Daniele — Per questo, saranno necessarie cinque o sei pose... Spero che me le accorderete. Perrichon — Ma certo, caro Daniele... Anche quin dici, venti, trenta, se occorre... non mi annoierò, credetemi, dal momento che poseremo insieme. Daniele (con vivacità) — Ah, no... io no. Io non ci sono. Il pittore ed io abbiamo concepito il dipinto sul cui sfondo si vedrà soltanto il monte Bianco... Perrichon — E io? Daniele — Il Monte Bianco e voi... Perrichon — Benissimo... io e il Monte Bianco... Tranquillo e maestoso con le sue nevi eterne. E voi dove sarete? Daniele — Nell’abisso... nel fondo dell’abisso... si vedranno soltanto le mie mani rattrappite e sup plicanti... Perrichon — Che magnifico quadro! Daniele — Lo esporremo all’Esposizione e sul cata logo scriveremo... Perrichon — No, niente pubblicità... detesto la pub blicità... Pubblicheremo semplicemente quel piccolo modesto articolo che ha pubblicato il giornale : « Ci scrivono da Chamonix... ». Daniele — È troppo poco... troppo breve... Perrichon — Magari si può aggiustarlo un poco (Con affetto) Ah, Daniele mio, caro Daniele... amico mio... figlio mio... Daniele — Addio signor Perrichon... Noi probabil mente non ci vedremo mai più ! Perrichon — No, impossibile... È impossibile... Dopo tutto non c’è ancora nulla di veramente definitivo. Daniele — Ma... Perrichon — Vi prego di restare. Proprio vi prego; 10 desidero. Daniele (tra sé) — Le mie azioni si stanno rial zando ! Giovanni (annunciando) — Il maggiore Mathieu! Perrichon — Cosa dici? (Stupore). 11 Maggiore (entrando) — Scusate, signori, ma forse disturbo... Perrichon — Non disturbate affatto... I l Maggiore (a Daniele) — È forse al signor Per richon che ho l’onore di parlare? Perrichon — Sono io, signore. I l Maggiore — Signore, vi sto cercando disperata- mente da quindici giorni. Ci sono molti Perrichon a Parigi... Ne ho già visitati una dozzina... voi siete il n. 13... Io sono ima persona molto paziente e molto tenace. Perrichon (invitandolo a sedersi) — Avete forse qualcosa da comunicarmi? (Si siede sul divano. Da niele va verso il fondo). I l Maggiore (sedendosi) — Non lo so ancora con esattezza... Permettetemi prima di rivolgervi una domanda... Eravate voi il Perrichon che, un mese fa, si trovava in vacanze sul Mare di Ghiaccio ? Perrichon — Io stesso, signore, e credo di avere il diritto di essere fiero di quelle vacanze. I l Maggiore — Allora siete voi che avete scritto sul Libro d’Oro dei viaggiatori : « Il Maggiore è uno screanzato ». Siete voi? Perrichon — Come? allora voi siete... Felicissimo di fare la vostra conoscenza... (Si salutano recipro camente). Daniele (tra sé, avvicinandosi) — Diamine... l’oriz zonte si fa buio! I l Maggiore — Signore, io non sono né permaloso né spaccone, né nevrastenico... Ma non mi piace lasciar circolare nei Libri d’Oro degli alberghi simili apprezzamenti vicino al mio cognome... Perrichon — Ma siete stato voi a cominciare... voi avete scritto per primo una annotazione vivace... I l Maggiore — Io mi sono limitato a constatare che la parola « ghiaccio » esige due « c »... Consultate il vostro dizionario. Perrichon — Signore, nessuno vi ha mai dato l’in carico ufficiale di correggere quelli che voi preten dete essere i miei errori di ortografia... Di che cosa vi occupate?... (Si alzano) I miei errori di ortografia non vi riguardano. I l Maggiore — Non ho nessunissima voglia di darvi una lezione ma vengo semplicemente a domandarvi una spiegazione... una piccola spiegazione. Perrichon (tra sé) — Mathieu... Dev’essere un falso maggiore ! I l Maggiore — Delle due, una : o voi persistete... Perrichon — Io non ho affatto bisogno di tutti questi discorsi... Voi credete probabilmente di inti midirmi, signore... Voi non lo sapete ma io ho fornito, nella vita, molte prove di coraggio... I l Maggiore — Benissimo, me ne compiaccio e lo credo, ma ritornando ai fatti: ritirate o no? Perrichon — Non ho niente da ritirare. I l Maggiore — Attento ! Daniele — Signor Perrichon ! Perrichon — Non ritiro niente. (Tra sé) Non ha nemmeno i baffi. Dev’essere un falso maggiore ! I l Maggiore — Allora, signor Perrichon, avrò l’onore di aspettarvi, domani, a mezzogiorno, con i miei testimoni, nel bosco di Malmaison... Daniele — Maggiore... una parola, ve ne prego ! I l Maggiore — Vi aspetteremo vicino alla casa del guardiano. Daniele — Maggiore... I l Maggiore — Chiedo scusa... Ma ho un appunta mento urgente con il mio tappezziere... Devo sce gliere delle stoffe e dei mobili... A domani, a mez zogiorno preciso... (Salutando) Signori... ho l’onore... (Esce). Perrichon (stralunato) — Ma devo battermi per una « c »? Daniele (a Perrichon) — Siete un po’ troppo rigido in queste cose, caro Perrichon. Soprattutto con un maggiore... Perrichon — È certamente un falso maggiore... Avete mai visto un vero maggiore dell’esercito che si diverte ad andare a spulciare gli errori di orto grafia nei Libri d'Oro degli alberghi svizzeri?... Andiamo ! Daniele — Non importa... Bisogna chiedere... infor marsi... prima... (Suona il campanello che si trova sul caminetto) Bisogna sapere con chi abbiamo a che fare. Giovanni (entra) — Signore... Perrichon (a Giovanni) — Perché hai lasciato en trare quel signore che è uscito da qui poco fa? Giovanni — Signore, era già venuto anche questa mattina... Avevo dimenticato di consegnarvi il suo biglietto da visita. Daniele — E dov’è questo biglietto da visita? Perrichon — Dammelo. (Legge) « Mathieu, mag giore a riposo del già Undicesimo Granatieri ». Daniele — Granatiere! Perrichon — Accidenti ! Giovanni — Allora? Perrichon — Niente... Puoi andare. (Giovanni esce). Daniele — Bisogna riconoscere che la situazione è delicata. IL VIAGGIO DEL SIGNOR PERRICHON Perrichon — Che cosa volete? Certo, sono stato un po’ vivace... Un uomo così educato... L’ho preso per un notaio. Daniele — Bisognerà fare qualcosa. Perrichon — Bisognerebbe trovare un mezzo. (Lan cia un grido) Ah! Daniele — Trovato? Perrichon — No, non c’è niente da fare... L'ho insultato... mi batterò con lui... Addio! Daniele — Dove andate? Perrichon — Vado a mettere un po’ d’ordine nelle mie cose... capite... Daniele — Tuttavia... Perrichon (solenne) — Caro Daniele... di una cosa potete comunque essere certo. Quando suonerà l’ora fatale del pericolo, voi non scorgerete in me nessun segno di debolezza ! (Esce a destra). Daniele (rimasto solo, riflette per una decisione ed agisce parlando per suo conto) — Ma è impos sibile... Non si può permettere che il signor Per richon si batta a duello con un granatiere!... Per ché, in fondo, ha dell’amor proprio, il mio futuro suocero... Lo conosco... subirà la situazione fino all’ultimo... D’altra parte, il Maggiore... E tutto questo per un banalissimo errore di ortografia!... Se ne fanno dei peggiori e nessuno ci fa caso. Vediamo un po’ che cosa si può fare... Avvertire la polizia? Nessuno saprà che sono stato io... D’altra parte, ormai non ci sono altri mezzi... (Prende un foglio di carta e il calamaio, sul tavolo che si trova vicino alla porta d’ingresso, e si siede al tavolino centrale per scrivere) Al Commissario di Polizia... (Scrivendo) « Signor Commissario... ho l’onore di... (Parlando e scrivendo nello stesso tempo) Dovre ste mandare una ronda di quattro uomini all’ora che vi ho indicata... Dovranno aver l’aria di essere capitati lì per caso. E l’onore di tutti sarà salvo ! ». (Piega la lettera, chiude la busta e rimette a posto il calamaio) Adesso, bisogna farla recapitare d’ur genza... Giovanni deve essere di là... (Esce chia mando) Giovanni ! (Scompare fieli’anticamera). Perrichon (entra, tenendo in mano una lettera che legge) — « Signor Commissario, credo mio preciso dovere avvertire l’autorità che due insensati hanno l’intenzione di incrociare le loro spade domani a mezzogiorno meno un quarto... ». (Parlato) Metto un quarto d’ora prima... così saranno esatti... A volte basta un piccolo ritardo... (Ricomincia a leggere) « ...A mezzogiorno meno un quarto nel bosco di Mal maison... L’appuntamento è fissato in prossimità della casa del guardiano. Credo sia preciso dovere della vostra alta autorità quello di tutelare la vita dei cittadini. Uno dei duellanti è un ex-commer ciante, padre di famiglia, fedele alle nostre istitu zioni ed usufruisce di una larga e simpatica noto rietà nel nostro quartiere. Vogliate gradire, signor Commissario eccetera eccetera ». Se quel maggiore, più o meno falso, crede di farmi paura, si sbaglia di grosso ! E adesso... l’indirizzo ! (Scrive) « Urgentis simo... Comunicazione importante... ». Così arriverà prima... Giovanni! Giovanni! EUGENE LABICHE Daniele (entra dal fondo, con una lettera in mano) — Impossibile trovare il cameriere. (Scorge Per- richon) Oh! (Nasconde la sua lettera). Perrichon — Daniele! (Anche Perrichon nasconde la sua lettera). Daniele — Ebbene, signor Perrichon? Perrichon — Come vedete... sono calmo... sono calmissimo... come un pezzo di marmo. (Scorge sua moglie e sua figlia) Mia moglie... zitto! La signora Perrichon (a suo marito) — Caro... il professore' di piano di Enrichetta ci ha mandato dei biglietti d’invito per il suo concerto di domani a mezzogiorno. Perrichon — A mezzogiorno? Enrichetta — Sì, un concerto di beneficenza... Ci accompagni? Perrichon — Impossibile... domani ho molte cose da fare. La signora Perrichon — Ma se non fai mai niente ! Perrichon — Domani, ho un affare molto impor tante... domanda a Daniele. Daniele — Molto importante! La signora Perrichon — Come mai sei così pensie roso ?... (A suo marito) Ti vedo preoccupato... come se tu avessi paura di qualche cosa... Perrichon — Io paura?... Ah! Ah! mi vedranno sul terreno... Daniele — Ahi! La signora Perrichon — Sul terreno? Perrichon (tra sé) — Accidenti! Me scappata! Enrichetta (avvicinandosi affettuosamente al padre) — Papà, tu ti batti. Un duello. Si vede. Si capisce. Perrichon — Ebbene sì, figlia mia... Non volevo dirtelo, ma mi è sfuggito... Tuo padre si batte in duello. La signora Perrichon — Ma con chi? Perrichon — Con un maggiore dell’Undicesimo Reg gimento Granatieri. La signora Perrichon e Enrichetta (spaventate) — Mio Dio! Perrichon — Domani a mezzogiorno, nel bosco di Malmaison... Appuntamento davanti alla casa del guardiano... La signora Perrichon (al marito) — Ma sei pazzo... tu sei un borghese e vuoi batterti con un vecchio militare? Ma è gente che vive di sciabole. Perrichon — Mia cara, io disapprovo il duello- ma ci sono, nella vita, delle circostanze in cui è doveroso tutelare il proprio onore... anche a rischio della vita stessa. (Tra sé e indicando la lettera) Dove si sarà cacciato Giovanni? La signora Perrichon (tra sé) — No, è impossibile... non lo permetterò... (Si avvicina al tavolo che è nel fondo e scrive) Signor Commissario... Giovanni (entra) — Il signore è servito... Perrichon (avvicinandosi a Giovanni e sottovoce) — Questa lettera al suo indirizzo... è molto urgente (Si allontana). Daniele (sottovoce a Giovanni) — Questa lettera da recapitare subito... è molto urgente. (Si allontana). La signora Perrichon (sottovoce, a Giovanni cui si è avvicinata) — Giovanni, dovreste portare subito questa lettera... è molto urgente! Perrichon — Andiamo a tavola! Enrichetta (tra sé) — Voglio avvertire subito il signor Armando! (Esce a destra). La signora Perrichon (a Giovanni, prima di uscire) — Ssst! (Cenno di silenzio). Daniele (stessa cosa) — Ssst! Perrichon (stessa cosa) — Ssst! (Escono tutti e tre). Giovanni (solo) — C’è un mistero ! (Legge gli indi rizzi delle lettere) Signor Commissario di Polizia- Signor Commissario di Polizia... Signor Commis sario di Polizia... (Stupito e con gioia) Tutte allo stesso posto. Ma che brava gente. Lo fanno per non farmi troppo camminare! A tto quarto oo Un giardino. Panchine, sedie, tavola rustica. A destra, un padiglione. Daniele (entrando dal fondo a sinistra) — Le dieci. L’appuntamento è per mezzogiorno. (S’avvicina alla porta del padiglione e fa un cenno) Pss... pss... Perrichon (mettendo fuori la testa dalla porta del padiglione) — Ah, siete voi? Non fate chiasso... Vengo subito... un minuto... (Rientra nel padiglione). Daniele (solo) — Povero Perrichon! Ha dovuto passare una notte orribile... Per fortuna, il duello non ci sarà... Perrichon (uscendo dal padiglione con un vasto mantello) — Eccomi— vi aspettavo. Daniele — Come vi sentite? Perrichon — Calmo... impassibile! Daniele — Ho portato le spade : sono nella vettura. Perrichon (schiudendo il mantello) — Le ho qui. Daniele — Due paia?! Perrichon — Una spada può rompersi— e io non voglio, poi, trovarmi nell'imbarazzo per poter conti nuare lo scontro. Daniele (tra sé) — Decisamente è un leone. (Ad atta voce) La carrozza c’è se volete. Perrichon — Un momento... che ora è? Daniele — Le dieci. Perrichon — Non voglio arrivare prima di mezzo giorno... (Tra sé) Bisogna essere lì quando arriverà la polizia. Daniele — Giustissimo! L’importante è arrivare con puntualità (Tra sé) Bisogna esser lì quando arriverà la polizia. Perrichon — Arrivare in anticipo mi sembra una spacconata.., arrivare in ritardo è segno di esita zione. D’altronde, io aspetto Majorin... gli ho scritto ieri sera un biglietto urgente. Daniele — È già qui, eccolo. Majorin — Ho ricevuto il tuo biglietto. Ho chiesto un permesso... Ho detto che dovevo accompagnare mia sorella dal dottore. Che cosa succede? Perrichon — Mio caro Majorin, mi batto a duello fra due ore. Majorin — Tu?... Ma vuoi scherzare?... E con chi? Perrichon (apre il mantello e lascia intravvedere le due spade) — Mi batto con queste. Majorin — Spade? Perrichon — E conto su di te come mio padrino. {Daniele risale verso il fondo della scena). Majorin — Scusami tanto, caro Perrichon, ma è impossibile ! Perrichon — Perché? Majorin — Bisogna che tomi in ufficio... finirebbero col licenziarmi. Perrichon — Dal momento che hai chiesto regolare permesso... Majorin — L’ho avuto per accompagnare mia so rella dal dottore e non per andare a fare da pa drino in un duello. Fanno dei processi ai padrini, 10 sai? Perrichon — Caro Majorin, credo di non esagerare dicendo che ti ho reso spesso dei servigi. Non hai 11 diritto di rifiutarmi un po' di assistenza in una circostanza così importante. Majorin {tra sé) — Mi rimprovera i seicento fran chi... Perrichon — Certo, se tu hai paura di compromet terti, se non ti senti il coraggio... Majorin — Non ho affatto paura... {Con amarezza) D’altra parte, sono ormai legato al tuo destino dalla gratitudine! Daniele {tra sé) — Anche lui ce l’ha con la grati tudine ! Majorin — Non ti chiedo che una cosa... Vorrei essere di ritorno alle due. Debbo andare ad incas sare i dividendi della Compagnia di Navigazione. Così potrò restituirti immediatamente quello che mi hai prestato e allora saremo pari! Daniele — Credo che sia ormai ora di andare. (A Perrichon) Se volete dire addio alla signora Per richon e alla signorina... Perrichon — No, desidero evitare questa scena penosa... non farebbero che piangere e gridare... si aggrapperebbero disperatamente alla mia giacca per impedirmi di uscire... Andiamo. {Si sente cantic chiare) Mia figlia! Enrichetta {entra cantando, allegrissima, con un innaffiatoio in mano) — Tra la la la... Tra lala lala... {Parlato) Ah! sei tu papalino... Perrichon — Sì... come vedi... noi ce ne andiamo... con questi due signori... è necessario... (L'abbraccia con emozione) Addio... forse... la vita... Enrichetta {tranquillamente) — Addio papà... (Tra sé) Non c’è nulla da temere. La mamma ha avver tito il Commissario di polizia e io ho avvertito il signor Armando... {Va ad innaffiare i fiori). Majorin (tra sé) — Quella ragazza è di un cinismo... Ma gli sta bene a Perrichon. La signora Perrichon (entra con dei fiori in mano e si rivolge a suo marito) — Senti, caro, vorrei tagliare qualche dalia... IL VIAGGIO DEL SIGNOR PERRICHON Perrichon — Proprio oggi? La signora Perrichon — Vorrei un po' di fiori per i miei vasi. Perrichon — Proprio oggi?... Prendi tutti i fiori che vuoi... in un momento simile, non posso rifiutarti nulla... Me ne vado, Carolina. La signora Perrichon {tranquillamente) — Ah, vai laggiù? Perrichon — Sì, vado laggiù... con questi due amici... La signora Perrichon — Cerca di essere di ritorno per l’ora di pranzo! Perrichon e Majorin — Cosa? Perrichon {tra sé) — Quella tranquillità... quell’indif ferenza... Forse mia moglie non mi vuol bene... Majorin {tra sé) — La moglie è ancora più cinica e indifferente della figlia. Gli sta bene a Perrichon ! Daniele — È l’ora, se volete essere a mezzogiorno al vostro appuntamento. Perrichon — Voglio essere puntuale. La signora Perrichon — Se vuoi essere puntuale, non c’è più tempo da perdere. Enrichetta — Spicciati papà... Perrichon — Sì... Majorin — Sono esse stesse che lo spingono al macello... Che famiglia! Ma gli sta bene a Per richon ! Perrichon — Andiamo... Carolina, figlia mia, addio. (Si dirigono verso il fondo della scena). Armando (compare dal fondo) — Rimanete, signor Perrichon... Il duello non si farà. Tutti — Come? Enrichetta (tra sé) — Il signor Armando? Ero sicura che sarebbe intervenuto. La signora Perrichon — Ma spiegateci... Armando — Semplicissimo... Il maggiore Mathieu non aveva pagato una cambiale che scadeva presso la mia banca... L'ho fatto mettere in prigione per debiti. Tutti — In prigione? Daniele (tra sé) — Si dà veramente da fare il mio rivale! Armando — Era ima cosa stabilita già da un mese, tra il Maggiore e me. E non potevo trovare occa sione migliore per fargli cosa gradita, visto che lo desiderava tanto. (A Perrichon) Nello stesso tempo ho pensato di togliere voi dall’imbarazzo. La signora Perrichon (ad Armando) — Signor Ar mando, la nostra riconoscenza! Enrichetta (sottovoce) — Siete il nostro salvatore. Perrichon (tra sé) — Questa storia mi guasta tutto... Avevo combinato le cose così bene. A mezzogiorno meno un quarto arrivava il Commissario e ci arre stava. Finito con onore. La signora Perrichon (a suo marito) — Ringrazia dunque il signore... Perrichon — Quale signore? La signora Perrichon — Ma... il signor Armando, ha pur fatto qualche cosa di utile per te, mi pare. Perrichon — Ah, sì... (Ad Armando, freddamente) Signore, vi ringrazio... EUGENE LABICHE Majorin (tra sé) — Si direbbe che i ringraziamenti gli fanno male ad uscir dalla gola. (A Daniele) Credete che la Cassa della Compagnia sia aperta?... Vorrei andare ad incassare i miei dividendi. Daniele — È certamente aperta. Ho una carrozza e vi accompagnerò. Signor Perrichon, ci rivedremo... Non dimenticate che avete ima risposta da darmi. La signora Perrichon (sottovoce, ad Armando) — Restate... Mio marito ha promesso di pronunciarsi oggi stesso. Il momento è favorevole. Fate la vostra domanda. Armando — Credete proprio che... Enrichetta (sottovoce) — Coraggio, signor Ar mando ! Armando — Voi mi incoraggiate; quale fortuna. Majorin — Addio, Perrichon. Daniele (salutando) — Signora... signorina... (Enri chetta e la signora Perrichon escono a destra. Majorin e Daniele dal fondo, a sinistra). Perrichon (tra sé) — Sono molto seccato... sono molto seccato... Ho passato quasi tutta la notte a scrivere ai miei amici che mi battevo in duello... Finirò col diventare ridicolo... Armando (sottovoce, tra sé) — Dev’essere molto ben disposto... Proviamo... (Ad alta voce) Mio caro signor Perrichon... Perrichon (freddamente) — Signore... Armando — Sono felicissimo di avere in parte con tribuito alla soluzione di questa sgradevole storia. Perrichon (tra sé) — Ha sempre la sua piccola aria da protettore! (Ad alta voce) Personalmente, signore, io deploro che mi abbiate privato dell’im- menso piacere di dare, a quel falso professore di grammatica, la lezione che si meritava Armando — Come? voi non sapete che il vostro avversario... Perrichon — È un ex maggiore dei Granatieri... E con questo? Io stimo l’Esercito ma sono uno di quelli che sanno guardare in faccia i pericoli. (Passa fieramente davanti ad Armando). Giovanni (entra annunciando) — Il maggiore Ma- thieu. Perrichon (a Giovanni) — Ma siete sicuro Giovanni? Giovanni — Certissimo, signore. (Resta in scena). Armando — Lui? Perrichon — Ma non mi avevate detto che era in prigione? I l Maggiore (entrando) — Ero effettivamente in prigione, ma ne sono uscito. (Scorgendo Armando) Ah, signor Armando, ho saldato in questo momento la cambiale e ho rimborsato anche le spese e gli interessi. Armando — Molto bene, signor Maggiore... Spero comunque che non mi serberete rancore. Sembra vate così desideroso di andare in prigione... I l Maggiore — Volevo un po’ di solitudine... Ma non mi piace la solitudine proprio nei giorni in cui devo battermi a duello. (A Perrichon) Sono desolato, signore, di avervi fatto aspettare. Sono ai vostri ordini! Giovanni (tra sé) — Povero signor Perrichon! Perrichon — Spero, signore, che avrete già com preso che io sono completamente estraneo all’inci dente che si è prodotto. Armando — Esattissimo... Il signor Perrichon mi esprimeva, giusto pochi secondi fa, il suo ramma rico di non essersi potuto incontrare con voi sul terreno. I l Maggiore (a Perrichon) — Ho sempre pensato, signore, che avevo a che fare con un avversario perfettamente leale. Perrichon (con boria) — Grazie, signore. Giovanni (tra sé) — Non avrei mai creduto che il signor Perrichon fosse così coraggioso. I l Maggiore — I miei padrini aspettano dinanzi alla porta. Andiamo. Perrichon — Andiamo. I l Maggiore (tirando fuori l’orologio) — È mezzo giorno. Perrichon (tra sé) — Già mezzogiorno? I l Maggiore — Non arriveremo sul posto prima delle due! Perrichon (tra sé) — Bella notizia; il Commissario avrà già fatto colazione e sarà anche andato a dormire. Armando — Cosa avete? Perrichon — Ho... ho cari signori... che io ho sempre pensato che non si può negare una certa nobiltà d’animo a colui che riconosce i suoi torti. I l Maggiore e Giovanni (stupiti) — Cosa? Armando — Cosa dice? Perrichon — Giovanni lasciaci soli... Armando — Anch’io se permettete, mi ritiro... I l Maggiore — Un momento... io desidero che tutto ciò si svolga davanti a testimoni. Armando — Ma... I l Maggiore — Vi prego di restare... (Armando e Giovanni restano). Perrichon — Maggiore... voi siete un nobile mili tare... ed io voglio bene ai militari... Riconosco che ho avuto dei torti verso di voi... E vi prego! di credere che... (Tra sé) Mi secca davanti al carne riere... (Ad alta voce) Vi prego di credere che non era affatto nelle mie intenzioni... (Fa cenno a Giovanni di uscire ma Giovanni ha l’aria di non aver capito il significato di quel cenno) Non era affatto nelle mie intenzioni... (Trà sé) Quel came riere, lo licenzio stasera stessa. (Ad alta voce) Non era affatto nelle mie intenzioni offendere un mag giore dei Granatieri che onoro e che stimo... Giovanni (tra sé) — Accidenti che marcia indietro. I l Maggiore — Insomma, signore, mi fate delle scuse? Armando — Un vivo rammarico... tutt’al più. Perrichon — Non precipitate le cose... Lasciate par lare il Maggiore. I l Maggiore — Insomma, si tratta di un semplice rammarico o di scuse vere e proprie? Perrichon (esitante) — Un po’ di tutte e due le cose... metà e metà... I l Maggiore — Signore, voi avete scritto chiaro e tondo sul Libro d’Oro dell’albergo di Montanvert... Il Maggiore è un... Perrichon (con vivacità) — Ritiro la parola... già ritirata... I l Maggiore — È ritirata qui... ma non laggiù sul Libro d’Oro... Quella parola è sempre là, in mezzo ad una pagina aperta... ima pagina che tutti i viag giatori possono leggere. Perrichon — Ah! certo... a meno che io non tomi laggiù per cancellarla. I l Maggiore — Non osavo chiedervi tanto ma dal momento che vi proponete voi stesso di andare laggiù... Perrichon — Io? I l Maggiore — Ebbene accetto ! Perrichon — Un momento... I l Maggiore — Non vi chiedo - badate - di par tire oggi stesso. Posso aspettare benissimo fino a domani. Perrichon e Armando — Domani? I l Maggiore — Domani... Partirete col primo treno e andrete a cancellare voi stesso, di vostra spon tanea volontà, le due perfide righe di commento nei miei riguardi... quelle due righe che erano sfuggite alla vostra foga di improvvisatore... E io ve ne sarò grato. Perrichon — Così... volete che io ritorni in Sviz zera? I l Maggiore — Mi permetto di ricordarvi che il Montanvert è in Savoia e che la Savoia è in Francia. Giovanni — La Savoia è molto meno lontana ! Perrichon {dà un’occhiata furente a Giovanni). I l Maggiore (ironico) —■ Non mi resta più che rendere omaggio allo spirito conciliante del signor Perrichon. Perrichon — Effettivamente, non mi piacciono gli spargimenti di sangue. I l Maggiore (sempre più ironico) — Io mi dichiaro completamente soddisfatto. {Ad Armando) Signor Desroches, ho ancora qualche cambialetta in circo lazione... Ve ne prego, se qualcuna di queste cam- bialette capita nelle vostre mani, mi raccomando... Signori, ho l’onore di salutarvi. Perrichon {salutando) — Maggiore... {Il Maggiore esce). Giovanni {a Perrichon, con tristezza) — Ebbene, signore... ecco la vostra faccenda ormai regolata. Perrichon {scattando) — Bravo, tu... ti dò ima bella notizia... Va a fare la tua valigia immediatamente e vattene! Giovanni — Io?... {Stupito) Ma si può sapere che cosa ho fatto? {Esce). Perrichon {tra sé) — Non c’è che dire... ho finito col fare delle scuse... delle scuse, io... un uomo di cui si vedrà il ritratto all’Esposizione?... Di chi è la colpa? Del signor Armando... sempre lui! Armando {che si trova nel fondo della scena, tra sé) —- Poveretto... è avvilito, ed io non so che cosa dirgli... Perrichon {tra sé) — Ma è sempre lì... Non se ne IL VIAGGIO DEL SIGNOR PERRICHON andrà dunque mai dalla mia casa! Avrà ancora qualche servigio da rendermi... Sono belli... i suoi servigi... Armando — Signor Perrichon... Perrichon — Signore... Armando — Ieri, nel lasciarvi sono andato da un amico... l’alto funzionario del ministero delle finanze di cui vi avevo parlato... Gli ho esposto il vostro caso... Perrichon {freddamente) — Troppo gentile... Armando — Tutto aggiustato... non sarà dato nes sun seguito al rapporto. Quindi, per voi, niente processo. Perrichon — Ah! Armando —• Però dovrete scrivere al sergente finan ziere due parole di rammarico. Perrichon {scattando furiosamente) — Bravo- bene... delle scuse... ancora delle scuse... Ma si può sapere, una buona volta, di che cosa vi mi schiate, voi? Armando — Ma... Perrichon — Volete, sì o no, perdere la cattiva abi tudine di infilarvi in tutte le faccende della mia vita? Armando — Come? Perrichon — Sì, voi... sempre voi.... dappertutto... Chi vi ha pregato di fare arrestare il Maggiore? Senza il vostro intervento, noi ci saremmo trovati tutti in perfetto orario, laggiù, a mezzogiorno. Armando — Potevate benissimo andarci alle due, se la cosa vi faceva piacere! Perrichon — Alle due non è più la stessa cosa. Armando — Perché? Perrichon — E mi domandate perché? Perché... no. Non saprete mai perché... {Con collera) Signore, ne ho abbastanza dei vostri servigi... Basta con le cortesie... D’ora in poi, ve ne prego, ve ne supplico, se mi vedete cadere in un baratro, lasciatemi nel baratro. Preferisco dare cento franchi di mancia alla guida, capito?... Perché - è bene che lo sap piate - il servigio che mi avete reso nella mon tagna vale cento franchi, si paga cento franchi... Non c’è, quindi, da far tanto l’orgoglioso per aver reso un servizio da cento franchi. Quindi, vi prego formalmente di non divertirvi più a cambiare le ore dei miei duelli e di lasciarmi andare in prigione per ingiurie ad un finanziere, se la cosa mi fa piacere. Armando — Ma signor Perrichon... Perrichon — Non mi piacciono le persone che si infilano per forza nella mia vita e che mi impon gono ogni momento la loro volontà... Voi invadete addirittura la mia vita. Armando — Permettete... Perrichon — No, signore, io non sono uno di quelli che si lasciano dominare facilmente... Ne ho abba stanza e dei vostri servigi e delle vostre cortesie, capito, sì o no? {Esce dal padiglione). Armando {solo) — Io non ci capisco più nulla... Ma che cosa è successo? EUGENE LABICHE Enrichetta (entra dal fondo) — Ah, signor Armando! Armando — Signorina Enrichetta! Enrichetta — Avete parlato col babbo? Armando — Sì, signorina. Ed ho avuto la prova della sua completa antipatia per me. Enrichetta — Cosa dite? È impossibile. Armando — Mi odia talmente che mi ha perfino rimproverato di averlo salvato a Montanvert... Ad un certo momento, ho perfino creduto che volesse darmi cento franchi di mancia! Enrichetta — Cento franchi. Questo poi... Armando — Sostiene che il prezzo è quello. Enrichetta — Ma è orribile... è ingratitudine. Armando — Ho capito benissimo che la mia pre senza lo irritava, lo feriva... Signorina, non posso più fare altro, purtroppo, che dirvi addio! Enrichetta (con vivacità) — Ma niente affatto... Dovete rimanere. Armando — Sarebbe inutile... Vostro padre accor derà certamente la vostra mano a Daniele. Enrichetta — Il signor Daniele?... Ma sono io che non lo voglio... Armando (con gioia) — Ah! Enrichetta (come se volesse rettificare) — È mia madre che non lo vuole... mia madre non condi vide l’opinione di mio padre... mia madre vi è rico noscente e vi vuol bene... Anche poco fa mi diceva : « Il signor Armando è un gentiluomo, una persona di cuore e gli darei qualunque cosa, anche una cosa che mi fosse estremamente cara ». Armando — E che cosa può avere vostra madre di più caro al mondo se non... voi? Enrichetta (ingenuamente) — Lo credo! Armando — Signorina, vi ringrazio... Enrichetta — È mia madre che dovete ringraziare, non me. Armando — E voi, signorina?... posso sperare che avrete per me la stessa benevolenza di vostra madre? Enrichetta (imbarazzata) — Io... signore? Armando — Parlate, ve ne supplico... Enrichetta (abbassando gli occhi) — Signore, una figlia bene educata pensa sempre quello che pensa sua madre. (Esce in fretta). Armando (solo) — Enrichetta mi vuol bene... me lo ha detto... o quasi. Come sono felice! Daniele (entrando) — Buongiorno Armando. Armando — Sei tu?... (Tra sé) Povero ragazzo. Daniele — E l’ora delle meditazioni : il signor Per- richon sta meditando in severo raccoglimento... Fra dieci minuti, conosceremo la sua decisione... Mio povero Armando. Armando — Cosa vuoi dire? Daniele — Nel corso della battaglia, che stiamo combattendo, abbiamo commesso un errore dopo l’altro. Armando — Io? Daniele — Armando, ti voglio bene, lo sai... E vorrei darti un consiglio che ti servirà per un’altra volta... Tu hai un difetto gravissimo... Armando (ridendo) — Ah, e quale? Daniele — Credimi... forse ho vissuto più di te e in un mondo più progredito, più astuto... Prima di mettere un uomo in condizione di esserti grato, assicurati bene che quest’uomo non sia un imbe cille. Armando — Perché? Daniele — Perché un imbecille è incapace di sop portare a lungo quel peso massacrante che si chia ma la riconoscenza... Anzi, ci sono perfino degli uomini di spirito che non sopportano questo peso... Armando (ridendo) — Andiamo... sviluppa pure il tuo paradosso. Daniele — Un esempio... il signor Perrichon. Perrichon (mostrando la sua testa alla porta del padiglione) — Parlano di me. Daniele — Mi permetterai, caro Armando, di non mettere il signor Perrichon nella categoria degli uomini superiori. (Perrichon scompare) Ebbene, il signor Perrichon prova per te una profonda anti patia. Armando — Temo purtroppo che tu abbia ragione. Daniele — Eppure, tu gli hai salvato la vita. Tu credi ingenuamente che questo ricordo sia per lui il ricordo di un gesto di coraggio e di abnegazione? Niente affatto... Il tuo gesto generoso gli ricorda tre cose. Primo: che non sa andare a cavallo... Secondo: che ha avuto torto a mettere degli spe roni nonostante l’avvertimento che gli aveva dato sua moglie... Terzo: che ha fatto in pubblico un capitombolo ridicolo... Armando — Hai probabilmente ragione ma... Daniele — E come se tutto questo non bastasse, ti sei persino preso la premura di dimostrargli, come due e due fanno quattro, che lo consideri un uomo di pochissimo coraggio, impedendogli un duello che... credi a me... non si sarebbe mai fatto lo stesso. Armando — Come? Daniele — Avevo già preso le mie precauzioni... Anch’io, qualche volta, so rendere dei servigi. Armando — Lo vedi? Daniele — Sì, ma io li rendo di nascosto... mi maschero. Quando penetro nella miseria morale di un altro, io ci penetro in pantofole e a luce spenta... Come se penetrassi in ima polveriera. Quindi, con clusione... Armando — Non bisogna mettere nessuno in condi zione di esserci grato. Daniele — Questo forse no... Ma bisogna operare in silenzio e scegliere bene la propria vittima. Con clusione è che il signor Perrichon, in questione, ti detesta. La tua presenza lo umilia... si sente sem pre in obbligo verso di te e questo lo secca... si sente in stato di inferiorità. Insomma ti odia... Armando — È un ingrato, insomma! Daniele — L’ingratitudine è, forse, una forma spe ciale dell’orgoglio... L’ingratitudine, forse, non è altro che l’indipendenza del cuore, ha detto un filosofo. Ora il signor Perrichon è il fabbricante di carrozze più indipendente di tutta la carrozzeria francese. Io l'ho capito subito, l’ho fiutato. Ecco perché ho seguito una tattica completamente di versa dalla tua. Armando — Quale? Daniele — Mi sono lasciato scivolare apposta in un piccolo crepaccio... oh! un crepaccio da poco, un crepaccio da niente... Armando — Apposta? Daniele — Ma non capisci? Dare ad un fabbricante di carrozze l’occasione di salvare qualcuno e, que sto, senza nessun pericolo personale, è stato un vero colpo maestro! Da quel giorno, io sono la gioia, il trionfo, il ricordo sensazionale del signor Perri- chon... Appena mi vede, il suo volto si illumina, il suo cuore si dilata e credo che gli spuntino, non so dove, perfino delle penne di pavone. Lo tengo stretto, in pugno, come la vanità tiene stretto l’uomo... Appena si raffredda un poco, io lo rianimo, gli ridò fede in se stesso... facendo stampare le sue gesta nel giornale a tre franchi la riga. Armando — Ah! sei stato tu? Daniele — Certo... e, tra qualche giorno, faccio dipingere Perrichon all’olio e a tu per tu con il Monte Bianco. Ho chiesto al pittore di fare un pic colissimo Monte Bianco e un grandissimo signor Perrichón. Insomma, caro Armando, ricordati bene questa terribile verità... Gli uomini non ci sono devoti in ragione dei servizi che noi gli rendiamo, ma in ragione dei servigi che loro hanno reso a noi. Armando — Gli uomini... può anche darsi. Ma le donne? Daniele — Sai, le donne... Armando — Le donne comprendono meglio la rico noscenza e sanno conservare nel loro cuore il ricordo del bene ricevuto. Daniele — Capperi!... che bella frase! Armando — E per fortuna, la signora Perrichon non condivide i sentimenti di suo marito. Daniele — La signora è, forse, dalla tua parte... Ma io ho dalla mia l’orgoglio del padre. Dall’alto delle nevi del Monte Bianco, il crepaccio mi pro tegge... Perrichon (con aria estremamente grave, entra accompagnato da sua moglie e da sua figlia) — Si gnori, sono molto felice di trovarvi qui, tutti e due insieme. Voi mi avete fatto l’onore, tutti e due, di domandare la mano di mia figlia Enrichetta... Adesso, vi farò conoscere la mia decisione. Armando (tra sé) — Ecco il momento... Perrichon (a Daniele, sorridendo) — Signor Da niele... caro amico. Armando (tra sé) — Sono perduto. Perrichon — Io ho già fatto molto per voi... Voglio fare qualcosa di più... Voglio darvi... Daniele (esultante) — Ah! signore... Perrichon — Voglio darvi un consiglio... (Fredda mente) Parlate un po’ meno ad alta voce quando siete vicino ad una porta. IL VIAGGIO DEL SIGNOR PERRICHON Daniele — Come? Perrichon — Vi ringrazio della lezione... Signor Armando, voi siete forse meno furbo del vostro amico... siete meno calcolatore e, per questo, mi piacete di più. Vi dò mia figlia... Armando — Ah, signore! Perrichon — Vi faccio notare che non cerco affatto di sdebitarmi verso di voi. Resto lo stesso pieno di gratitudine per quanto avete fatto... (Guardando Daniele) Perché solo gli imbecilli sono incapaci di sopportare a lungo quel peso massacrante che si chiama riconoscenza. (Si dirige a destra. La signora Perrichon fa passare sua figlia a fianco di Armando che offre il braccio ad Enrichetta). Daniele (tra sé) — Bei risultati. Armando (tra sé) — Povero Daniele. Daniele (ad Armando) — Sono definitivamente bat tuto. Diamoci la mano da buoni amici. Armando — Volentieri. Daniele (a Perrichon) — Signor Perrichon non lo sapevo che vi piace ascoltare dietro le porte. Perrichon — Non mi piace; mi ha favorito il caso, e poiché sono un buon padre... (Lo prende sotto braccio) Ditemi la verità... sul serio, vi ci siete gettato apposta? Daniele — Naturalmente. Ma non lo dirò a nessuno. Perrichon — Grazie... (Gli stringe la mano con calore). Majorin — Caro Perrichon, ho incassato i miei divi dendi alle tre... e ho preso una carrozza per fare più presto a restituirti i seicento franchi. Eccoli. Perrichon — Ma non c’era nessuna premura. Majorin — C’era premura per me... Adesso, siamo pari ed a posto. (A Daniele) Sono venuto con la vostra carrozza... Dovreste andar giù a pagare il vetturino... Perrichon — Armando, domani a sera resteremo in casa, se volete darci il piacere, molto piacere, di venire a prendere una tazza di caffè. Armando (a Perrichon, sottovoce) — Domani non potete essere in casa... Avete dimenticato ciò che avete promesso al Maggiore? (Torna vicino ad Enri chetta). Perrichon — È vero! (Ad alta voce) Carolina... Enri chetta... Ripartiamo domattina per il Monte Bianco. Enrichetta (stupita) — Cosa? La signora Perrichon — Ma se siamo appena tor nati? Perché vuoi ripartire? Perrichon — E me lo chiedi? voglio rivedere il posto preciso dove il nostro caro Armando mi ha salvato. È un viaggio di riconoscenza... e il mio piacere sarà questa volta maggiore dell’altra volta... (Con intenzione) Ecco, proprio «maggiore»! Copyright 1967 by Marcel Le Due L a “ c r u d e l e s e r i e t à ” d i L a b i c h e Questa commedia è una delle meno cono sciute di Labiche. I l suo titolo originale è Doit-on le dire?, letteralmente: Si deve dire? Titolo, certo, un po’ scialbo. La commedia fu scritta da Labiche in col laborazione con un certo Duru. E ’ un col laboratore il cui nome non ritroveremo più accanto a quello di Labiche, che — come è risaputo — ne ha avuti molti. E ’ un collaboratore che Labiche ha utilizzato solamente in questo caso. Doit-on le dire? fu rappresentata, per la prima volta, al teatro del Palais-Royal di Parigi il 20 d i cembre 1872. Questa data, a rifletterci bene, spiega, da sola, con le sue cifre, perché questi tre atti, così vivi ancora og gi, così zampillanti d’ironia, tanto che li avrebbe benissimo potuti firmare Georges Feydeau quarant’anni dopo, hanno avuto un destino piuttosto oscuro, breve e tea tralmente sterile. Diremo le ragioni. Ma la prima è capitale. Doit-on-le dire?, dopo un modesto numero di rappresentazioni, lasciò il manifesto del Palais-Royal e da allora la commedia non è stata mai più rappresentata in Trancia. A ll’estero si seppe che il lavoro aveva avuto un mode sto successo e nessuno si sobbarcò la fatica di tradurlo, nell’incertezza di poterlo poi collocare presso qualche capocomico. In Italia non è mai stato rappresentato. Que sta è la prima traduzione. Senza quelle lontane rappresentazioni dell’inverno del 1872, la commedia sarebbe quasi inedita. Abbiamo detto che la data (1872) spiega tutto: iniziava per la Trancia un ben d if ficile dopoguerra; un dopoguerra penoso, quello del conflitto franco-prussiano, con cluso con la disfatta tragica di Sedan, culminato nell’assedio di Parigi e negli or- rori insanguinati della Comune, sfociato nella solenne proclamazione del Reich te desco, davanti all’elmo a chiodo di Bis marck e agli specchi della Galleria di Versailles. Nel 1872, certo, era tornata la pace sui boulevards parigini, tracciati dall’urbanesimo del barone Haussmann. Era tornata la pace nei teatri di Parigi e nei cuori della gente. La vita continua sempre, dice una regola filosofica della storia. E ’ vero, la vita continuava, infatti, ma il clima psicologico della terza Repub blica ( una Repubblica proclamata grazie ad un solo voto di maggioranza) non era più quello del Secondo Impero. Cerano dei m orti da piangere e dei m utilati da assistere. Due belle provincie francesi, la Alsazia e la Lorena, avevano dovuto stac carsi — chissà per quanto? — dalla pa tria, dal suo corpo, se non dal suo cuore. Cerano dei ricordi di ogni genere da di menticare. Le guerre sono, per la lettera tura, per il teatro, per le preferenze artì stiche, per i gusti collettivi, per i costumi, degli spartiacque implacabili. Lo abbiamo visto, purtroppo, già parecchie volte, nel corso di questo secolo. DunqUe, se la vita continua, il suo cammino però non è più lo stesso. E ci si ritrova, a guerra finita, immersi in un mondo nuovo, dove le ve rità, tutte le verità, da quelle più solenni a quelle più spicciole, sono diventate di verse. I parigini che avevano adorato, applau dito, idolatrato, tu tti i testi di Labiche, anche ì meno scintillanti, durante i lunghi anni di prosperità del Secondo Impero, risero poco e male dopo Sedan. Doit-on le dire? non ebbe che un successo breve e degli applausi reticenti. Labiche sentì che il pubblico cominciava a staccarsi dal la sua allegria. In fa tti, Labiche scriverà ancora, nel 1875, I m ilioni di Gladiator. Poi qualcosa con Emile Augier ( I l Premio M artin) e con Ernesto Legouvé ( La cicala dalle formiche). Poi, nel 1876, diventerà accademico di Francia, si lascerà coprire di onori ufficiali e non scriverà più nulla. Doit-on le dire? segna il momento preciso in cui Labiche comincia a sentirsi in disac cordo con il suo pubblico. Perché tale distacco? La risposta più efficace è l ’ama rezza ironica che sfiora questi tre atti. Giunto alla sua maturità psicologica, in pieno possesso di tutte le astuzie del suo mestiere, di tutte le risorse della sua osser vazione, Labiche sente il bisogno di im porre alla sua comicità, un tono più ele vato e più implacabile. Labiche vuole d i ventare il critico ( severo, ma divertente) dei suoi contemporanei. E non soltanto un congegno per divertire i loggioni o per facilitare la digestione degli spettatori in prima fila. La gente, invece, voleva ridere, stare allegra, dimenticare. Come se gli avvenimenti di color nero — la disfatta, le provincie perdute, i topi a duecento franchi l ’uno comperati durante l ’assedio di Parigi — non fossero mai esistiti. A voler sottilizzare poi, da gente di teatro, c’è una seconda ragione, minore, nascosta, quasi segreta, ma che al tempo della na scita di questa commedia e fino al termine della seconda guerra mondiale, quando nuovi orizzonti si sono aperti sulla scena d i prosa, aveva molta importanza. Si deve dire? è una commedia che non offre parti im portanti di donna, e quindi priva delle attrattive del teatro tradizionale, ed ancor più del teatro di divertimento per un pub blico essenzialmente borghese. I l perso naggio di Fianca — alla valutazione dei « ruoli », allora ancora in uso — è una seconda donna ed anche meno; quello di Lucia, una infima parte di generica inge nua. Senza « prima donna », dunque, la commedia avrebbe potuto interessare l ’in terprete maschile, principale, caratterista 0 promiscuo, per la parte del Marchese di Pappagnanos. Ma il teatro di quel tempo offriva a questi ruoli ben altre « parti » e di ben diversa consistenza. Comunque, dopo sì lungo tempo, valeva la pena di far conoscere questa commedia che possiede, crediamo, meglio ancora di altre dello stesso Labiche, quella « cru dele serietà » della quale l ’autore ha impa stato m olti dei suoi moltissimi personag gi, e che consiste nel non far apparire mai 1 personaggi stessi in funzione comica, ma far si che il loro comportamento « si ri fletta in uno specchio deformante che li coglie nella loro particolare verità ». Lo spettatore ride nel vedere rappresentata sul palcoscenico una verità alla quale ha certo sovente pensato, ma senza averla mai materializzata e quindi rimasta vaga nel suo subcosciente. Che questa gli si riveli di colpo, non soltanto lo lusinga per averla già prima e lungamente nutrita, ma perfino convinto di aver col suo acume preceduto l ’autore, osservatore profes sionale. Alcuni decenni dopo Labiche, Giorgio Feydeau aveva individuata e fatta sua questa chiave; altrim enti non avrebbe mai potuto scrivere quel capolavoro che è La dame de chez M axim ’s. I Weber, gli Hennequin, ecc. seguirono a ruota con chiave quasi simile; via via, nel tempo, m olti altri m inori si servirono di chiavi false, deformando il genere ed ucciden dolo con la scurrilità. Naturalmente occorre che il « meccani smo » sia perfetto quanto e più dei per sonaggi, perché se questi ultim i non deb bono mai essere superflui né avere una battuta di troppo, l ’ingranaggio si deve articolare senza il minimo inciampo, così come la situazione favolistica non deve arruffarsi mai ma stare nei term ini stret tamente indispensabili. Doit-on le dire? è un modello del genere. Valeva la pena Marcel Duc di farla conoscere. COMMEDIA IN TRE A T T I D I P rim i interpreti GIL-PERES BRASSEUR HYACINTHE PRISTON CALVIN PELLERIN GIULIA BARON LINDA DENAIN MAILLARD RHEAL FERDINAND COLLABORATORE DI LABICHE ALFRED DURU — TRADUZIONE DI MARCEL LE DUC RAPPRESENTATA AL TEATRO DEL PALAIS-ROYAL IL 20 DICEMBRE 1872 NON È MAI STATA RECITATA IN ITALIA — PRIMA TRADUZIONE E PUBBLICAZIONE MUSEROLLE MARCHESE DI PAPPAGNANOS GARGARET ALBERTO FRAGIL DUPAILLON LE BARROIS, notaio BIANCA LUCIA GIULIETTA, cameriera BATTISTA, domestico GIOVANNI, domestico DOMENICO, commesso Personaggi: ■ Il primo atto ha luogo a Parigi, in casa del Marchese. Il secondo a Bondy, in casa di Gargaret. Il terzo a Parigi, nell’ufficio di Gargaret. A tto prim o ~ Pìccolo salotto in casa del Marchese. In fondo, una porta. Porte a destra e a sinistra. A sinistra, un caminetto. A destra, un tavolo con il neces sario per scrivere. A destra e a sinistra della porta del fondo, due mensole con vasi di fiori. AU’alzarsi del sipario, Bianca sta parlando, rivolta verso la quinta di sinistra, a qualcuno che non vediamo. Bianca (a qualcuno fra le quinte) — Sì, caro... vesti tevi e tornate subito qui per la firma del contratto nuziale... (Ridiscende verso il proscenio) Credevo che non se ne andasse più! (Bussa ad una porta che si trova a destra) Signor Dupaillon! Dupaillon (appare) — È andato via quello scoc ciatore? Bianca — Sì, è andato via... ma voi finirete col compromettermi... se il Marchese vi avesse sco perto... Sapete bene quanto è geloso. Dupaillon — Avevo un pretesto per giustificare la mia presenza... Dopo il piccolo incendio che c’è stato qui ieri, era naturale che fossi venuto a prendere vostre notizie. (Con aria sospettosa) Ma è strano!... avevo creduto di riconoscere la voce... l’ignobile voce del signor Crapote... Bianca — Voi lo vedete sempre dappertutto... ne sareste per caso un po’ geloso...? Dupaillon — Ne avrei un po’ il diritto... Io sono più vecchio di lui... sono superiore a lui come grado... io sono Cancelliere della Legazione del Parazuela e lui non è che vice-cancelliere... Ciono nostante, il signor Marchese ha trovato opportuno di dargli una decorazione, mentre a me, questa decorazione, non l’ha ancora data. Io non capisco quali servizi eccezionali può aver reso al Para zuela l’ignobile signor Crapote! Bianca — Siete un grande ingrato!... Sappiate, signor Dupaillon, che io amo far cosa gradita alle persone che mi dimostrano la loro simpatia... E non è del tutto impossibile che, oggi stesso, il Marchese renda giustizia ai vostri meriti... Dupaillon — Davvero... Ho sempre detto che voi siete la più adorabile donna dell’Europa occiden tale! (Le bacia la mano). Bianca — E adesso, andate... guai se vi trovassero qui ! Dupaillon — Obbedisco. Eppure avrei ancora tante e tante cose da dirvi... Ma vi scriverò e, del resto, ci rivedremo al municipio. Bianca — Sì, andate, andate... (Dupaillon esce dalla porta del fondo) Finalmente!... Lucia (entra da una porta che si trova a destra) — Buongiorno, zia. Bianca — Come ti sei fatta bella!... Ebbene, ci riesci, sì o no, ad abituarti un poco al signor Gargaret, il tuo fidanzato? Lucia (sospirando) — No... non mi ci abituo... È il signor Alberto che avrei voluto sposare ! Bianca — Ancora il signor Alberto!... non si sa nemmeno chi sia... Lucia — È il nipote della signorina Bodin, la mia insegnante di collegio. Ogni quindici giorni si organizzavano al collegio delle piccole serate- musica e pasticcini... Il signor Alberto non ne sal tava mai una... Bianca — Questo prova soltanto che, al signor Alberto, piacevano i pasticcini... Non era un inna morato, ma un goloso... Ed è in seguito a quei pasticcini che si è creduto autorizzato di scrivere a tuo zio e di chiedergli la tua mano? Lucia — Dal momento che mi ama... Bianca — Tuo zio ha rifiutato di riceverlo e ha fatto benissimo... Un piccolo ispettore di una altret tanto piccola Compagnia di assicurazioni, senza posizione sicura, senza un soldo, mentre Gargaret... un avvenire meraviglioso... candele steariche ed affini... fabbrica e vendita all’ingrosso... È lui che ha inventato le celebri candele dell’« Aurora Bo reale ». Lucia — Ma il matrimonio non è un affare com merciale. Bianca — Sarebbe meglio che lo fosse... Ma se proprio ci tieni all'amore, ti dirò che Gargaret è tutt’altro che un insensibile. Ricordati quello che disse a tuo zio, in un giorno di grande scon forto : « Marchese, se vostra nipote mi dice di no, 10 salgo in cima alla torre di Nostra Signora di Parigi e mi precipito nel vuoto... ». Lucia — È solamente per questo che ho accon sentito. Bianca — Ed hai fatto bene... (Tra sè) Questi truc chi sono già vecchi, ma le ragazze ci cascano sempre ! 11 domestico (annuncia) — Il signor Gargaret. Lucia — Non voglio assolutamente vederlo. (Sale verso il fondo decisa ad andarsene e si trova dirimpetto al signor Gargaret che entra). Gargaret (salutando) — Signorina... Cara zia... (A Lucia, come se recitasse una lezione) Finalmente è prossimo questo istante così desiderato, l’istante in cui... (Offre un mazzo di fiori che Lucia rifiuta). Lucia (salutando) — Scusate... debbo finire di pre pararmi... (Esce). Gargaret (offrendo a Bianca il mazzo di fiori) — EUGÈNE LABICHE Dal momento che non li vuole... Si direbbe che Lucia mi sfugga, mi eviti... Bianca — È un po’ emozionata... Capirete, una fan ciulla... Gargaret — Conosciamo tutti questo genere di emo zioni... Io stesso, la prima volta che ho baciata una donna, mi sembrava che il mio cuore dovesse scoppiare... mi sembrava di bussare davanti alla porta di un dentista. Che sofferenza, la prima gioia!... (Cambiando tono) Ma sapete che il mio testimonio rischia di non arrivare in tempo? Bianca — Da dove viene? Gargaret — Dalle Ardenne... (Si sentono dei vio lenti colpi di tosse fra le quinte). Bianca — Ah! questa tosse: è il Marchese... La rico noscerei tra qualunque altra tosse. Gargaret — È una tosse che non si dimentica facil mente... I l Marchese (entra dal fondo continuando a tossire) — Gargaret, buenas dias... Mi querido Gargaret... Gargaret — Mi dispiace per il vostro raffreddore... Bianca — Dovreste parlare con il medico, mio caro. I l Marchese — Il medico es un asinos... un imbro- gliones... Mi cura come se avessi l’asma... ansima- ziones... (Collerico) Ansimaziones... io?... Es imo stuzzicadientes... un volgare stuzzicadientes che hai inghiottito quattro agnos fa... E entrato nella mia faringes e non si è mosso più... Quando al tiempo s’imbruscas, lo stuzzicadientes se muove e mi fa tossire. Gargaret (ammirando le numerose decorazioni del Marchese) — Queste decorazioni vi stanno benis simo. I l Marchese — Queste decoraziones mi sono state offerto dal Gobierno del Parazuela la mia tierra natal... (Tossisce). Bianca — Non sforzatevi a parlare... I l Marchese — Io chiero hablar... Ho reso al Go bierno del Parazuela dei grandi servizios... di ogni genere... serviziettos e serviziones.... Gargaret — Quali serviziones? I l Marchese — Sotto l’ottantasettesimos grado de lonchitudines ovest, io hai descubiertos una minas... una miniera de guanos... Immediatamientes, il Go bierno del Parazuela me nominò Grande Almirante de todos los Mar... ammiraglio... commodoros... con el titolo de Marquis Fuentés y Gonzales de Pappa- guanos... Gargaret — Come? ...solo per questo? I l Marchese — Como « solo »? Disgraciados, ma tu non sabe lo que es el guanos? Gargaret — Sì che lo so... I l Marchese — Allora, habla... parla... Gargaret — Il guano è... (Si interrompe). Ma ci sono delle signore... Bianca — Grazie, signor Gargaret, di questa vostra delicatezza. I l Marchese — No importa de las señoras... habla... parla!... Gargaret (imbarazzato) — Ecco... il guano è, diciamo così, la maniera con la quale gli uccelli del Sud America concludono le loro digestioni... I l Marchese — No bueno... Ecco... si el generai Cambronne fosse nato nel Parazuela, invece di dire quello che ha detto, a los Inglesos, avrebbe detto: « Guanos ! ». Gargaret — Certo, la polvere di guano è eccellente per l’agricoltura... I l Marchese — Perciò no es suficientes de descubrir una minas... bisogna anche far lo sfruttamientos... (Tossisce). Bianca — Caro amico, ve l’ho detto... dovreste par lare un po’ meno... I l Marchese — Non sarà mai un volgares stuzzica dientes a proibire de hablar al marquis Fuentés y Gonzales y Pappaguanos... Io hai presentado al mi Gobierno un progettos per lo sfruttamientos de la mina... El progettos fu accettato e mi hanno pro clamado ambassador... Gargaret — Si fa carriera molto presto col guano... I l Marchese — Come ringraziamentos, il Gobierno del Parazuela me diede el diritto de accordar deco raziones ai nobili corazon che danno incremientos a la industria del guano. Gargaret — Delle decorazioni?... Ma ce ne sono molte al Parazuela? I l Marchese — Quaranta dos... senza contare quella del Condor Azul... il Condor blù che io solo ay el diritto de conferir. Gargaret — Insomma, caro zio, per avere il Condor blu bisogna passare dalle vostre mani. I l Marchese — Costa cinquanta francos... Gargaret — Ci penserò su... Giulietta (entra dal fondo) — Hanno portato un telegramma per il signor Gargaret. Gargaret — Vado subito... Dev’essere il mio primo testimonio... (Tra se) Cinquanta franchi per un Condor blu... mi sembra un po’ caro! (Esce dal fondo). I l Marchese — Sono venuti quelli della assicura- ziones per vedere los guastos de las flammas... del incendios...? Bianca — Non ancora. I l Marchese — Sono già tres agnos que yo pago venti francos a la Sociedad de Assicuraziones... La Sociedad può bene darme cinqueciento francos de dannos. Bianca — Con i vostri sigari avana voi finirete col far bruciare tutta la casa. Per fortuna, ieri, tutti hanno lavorato con zelo per arginare le fiamme. I l Marchese — Si... e specialmiente el segnor Du- paillon, el mio primo cancellieros... ha lavorato come un vero soldad del fuego... come un vero pom- pieros... Bianca (con un tono volutamente indifferente) — Avreste potuto ringraziarlo con una piccola decora zione... « Il pappagallo nero » per esempio... o « La Croce d’oro di San Pepito ». I l Marchese — La Cruz de San Pepito?... Todo es muy fácil per voi señora... Ciertos, la Cruz de San Pepito frutta cinquanta francos al mio Gobierno e dieci francos a me... A proposito... mi fate ricordare, senza volerlo, che el segnor Crapote el vice cancel lieros si è presa la Cruz el mese scorso e non mi ha ancora dato... como se dice... la granas... i diña ros... le palancas... Crapote es un furfantes! Bianca — Il signor Dupaillon, invece, è una persona molto seria. E poi vi vuole molto bene! I l Marchese — Yo lo se... Bianca — Non più tardi di ieri, in un salotto, c’era un signore senza capelli che si è permesso di dire: « L’Ammiraglio Fuentés de Pappaguanos è un am miraglio da barchette di noleggio ». I l Marchese (furibondo) — Qui es esto gringos... chi es el puercos che ha dito questo?... Consideratelo súbitos come un muerto! Bianca — Il signor Dupaillon ha già fatto le vostre vendette. È saltato al collo di quello screanzato e gli ha detto: « Sappiate che il numero esatto delle navi da guerra affondate daH’ammiraglio di Pappa guanos è molto più grande del numero di capelli che ancora vi rimangono sulla testa ». I l Marchese — Dupaillon ha detto cosí?... Es un grande y admirable amigo... Es un caballero audaz y generoso. Al municipio, esta mañana, gli riservo una grande sorpresa... Bianca — Vi prego di constatare che io non cerco affatto di influenzarvi. I l Marchese — Lo so... ninguno può influenzare la volontà dell’almirante de Pappaguanos... Yo soy... un hombre de fierro... de fierro e de fuego... Bianca — Che siate un uomo de fuego, lo so dagli incendi che provocate con i vostri sigari. I l Marchese (tenero) — Bianca... alma querida... estella del mio corazón... esta mañana non mi avete dato nemmeno un beso... Bianca (al Marchese che tenta di baciarla) — No... lasciatemi. Da ieri puzzate... (Reazione) ... Voglio dire... avete odor di bruciato... odore di incendio. I l Marchese (con impeto) — L’incendio?... El fuego? Ma è nel vostro corazon che vorrei accendere il fuego... E voi siete fria... fredda... porqué?... por qué? (Tossisce). Un domestico (annunciando) — Il notaio Le Barrois. Bianca — Lo aspettavamo! Le Barrois (entra dal fondo) — Signora... Ammira glio... (Si danno la mano). Lucia (entra dal fondo vestita di bianco) — Eccomi, zia... Vi piaccio? Bianca — Sei deliziosa!... Fortunato davvero il tuo futuro sposo! I l Marchese — Allora se puede cominciar sen z’ai tros... Le Barrois — Trattandosi di un contratto nuziale, la presenza del futuro sposo mi sembra indispensa bile. I l Marchese — Firmerà despues... quando verrà... (Gargaret entra). Tutti — Ah, eccolo! Gargaret — Vi chiedo scusa... un telegramma mi ha imposto questo ritardo. Uno dei miei testimoni non potrà essere qui prima di un’ora. I l Marchese — Non se puede aspettar... non es possible... Gargaret — Non è colpa sua... Ecco il suo tele gramma... (Legge) « Colonna bestiame sbarrata strada... Ritardo di un’ora... ». I l Marchese — Las vaccas sulla strada?... Ma che mestiere fa questo vostro padrinos? SI DEVE DIRE? Gargaret — È un uomo del gran mondo... Ma ha avuto dei dispiaceri matrimoniali e, da qualche tempo, vive ritirato in una foresta. I l Marchese (irritato) — Puede restarci nella sua savanas... Gargaret — Oh, no... non rinuncerebbe ad assistere al mio matrimonio nemmeno per tutto l’oro del mondo. Io gli ho reso uno di quei servigi... I l Marchese — Quale servigios? Gargaret — Mi è impossibile dirlo. I l Marchese (al notaio) — Allora, vamos, si o no?... Caramba, siete troppo liento! (Il notaio ha già preso posto al tavolo). Le Barrois — Io non aspetto che voi, caro Ammi raglio... Prendete posto, prego... (Tutti siedono) Allora, posso cominciare?... (Legge) Davanti a noi, Francesco Le Barrois, notaio, assistito dal suo scri vano... I l Marchese — Scusamos... ma quanto durerà vue- stra palabras... discorso? Le Barrois — Oh, una ventina di minuti al mas simo. I l Marchese — Muy bien... (Tira fuori l'orologio) Mezzogiorno meno vienti... a mezzogiorno in pun- tos... rompete las rigas... Vamos! Le Barrois — Davanti a noi, Francesco Le Barrois, notaio, assistito dal suo scrivano, sono comparsi Carlo Gargaret, fabbricante di candele steariche ed affini... Giulietta (entrando dal fondo) — Signore, c’è una persona... I l Marchese — Non soy in casa... tiengo che tra- bajar... Giulietta — Viene per l’assicurazione... I l Marchese (alzandosi subito) — Es muy differien- tes... Que vienga esto caballero... (Al notaio) Per- messos... es un affar de pochi segundis... Alberto (entra dal fondo; ha sotto il braccio una borsa di cuoio) — Signore... Lucia (tra sé, con vivacità) — Il signor Alberto... Alberto (al Marchese) — La Compagnia mi ha inca ricato di constatare i danni che avete subito nel vostro incendio, ma se disturbo... I l Marchese — No me fastidias per nados... Vamos semplicemiente a firmar el contratto nuzial de mi nipotinas... Esto es el novio... el marido... Alberto (guardando Gargaret) — Ah!... Ci sono molti infortuni quest’anno... L’annata è scalognatis sima... Gargaret (tra sé e spostandosi verso sinistra) — Perché mi parla di infortuni? Alberto (sottovoce a Lucia) — Ho voluto rivedervi ancora una volta... Lucia (sottovoce) — Zitto... ci osservano. Alberto (sottovoce) — Non avete nulla da temere... io non vi conosco. Bianca (indicando una porta) — Da questa parte... entrate, ve ne prego. Alberto — Con piacere. (Passando vicino a Gar garet) Ma che annata scalognata! Un infortunio dopo l’altro! (Esce, seguito da Giulietta). Gargaret (tra sé) — Perchè poi continua a parlarmi di infortuni? EUGÈNE LABICHE Bianca (tra sé) — Simpatico quel giovanotto! I l Marchese — Vamos... adelante... continuiamos... (Tutti riprendono posto). Le Barrois (leggendo) — Davanti a noi, Francesco Le Barrois, notaio... I l Marchese — Como... corno es?... ricomincia- mientos de todos? Bianca — Si possono almeno saltare i nomi... Li conosciamo... Gargaret — Già... Veniamo piuttosto al lato con trattuale vero e proprio. Mi sembra il più impor tante. Le Barrois — La prassi non è strettamente regola mentare, ma dal momento che lo volete... (Legge) I congiunti recano... il futuro sposo, una fabbrica di candele steariche ed affini, valutata, compreso il brevetto, 60.000 franchi... I l Marchese — Ma corno... avete fatto brevettare las candelas? Gargaret — Naturalmente... I l Marchese — Ma se non si accendono mas... mai ! Gargaret — Precisamente per questo le ho brevet tate... quelle che si accendono non hanno bisogno di brevetto. Le Barrois (leggendo) — Più una villa di soggiorno, sita nel territorio di Bondy, e valutata 15.000 fran chi... Più effetti diversi : un orologio d'oro di fab bricazione svizzera... Gargaret (interrompendo) — Con suoneria automa tica... è importantissimo. Gè Barrois — Farò una postilla. Gargaret — In queste cose è meglio essere precisi. 10 non inganno la famiglia. Le Barrois (leggendo) — Diciamo allora: un oro logio d’oro di fabbricazione svizzera, con suoneria automatica... Gargaret (interrompendo) — E carica a chiave... (Tira fuori l’orologio e lo carica) Aggiungete « ca rica a chiave ». Io non inganno la famiglia. Le Barrois — Va bene... farò un’altra postilla. 11 Marchese (tra sé) — Noiosissimos con suo cipol- las. Le Barrois (leggendo) — Più un quadro rappre sentante « Paolo e Francesca » al bagno. Un vec chio e fedele servitore guarda Francesca con una espressione commovente. I l Marchese — Caramba... ma està es la storias de Francescas da Riminis! Gargaret (sottovoce) — Il notaio adora le storie d’amore. Le Barrois (continua sempre più intenerito) — L’espressione del vecchio e fedele servitore è così commovente, che si intuiscono, senz’altro, le terri bili sventure che colpiranno, in seguito, i due aman ti appassionati... I l Marchese — Vamos... vamos... Non abbiamo più che un quarto d’oras. Le Barrois (continuando ma più in fretta) — Più un secondo quadro, in ottimo stato, rappresentante « Il ratto delle Sabine ». I l Marchese (al notaio) — Vamos... Vamos... Le Barrois (leggendo) — Il Ratto delle Sabine, pa- gina di storia immortale, dove la brutalità si unisce alla più bassa lussuria... I l Marchese — Ma este una enciclopedia, esto notarios... Alberto e Giulietta. Portano un grande cesto nel quale si trovano numerosi oggetti semibruciati. Alberto (al Marchese) — Se lo permettete, po tremmo fare qui la nostra piccola perizia. I l Marchese (alzandosi) — Ma cierto... es una guappa ideas! Le Barrois — Scusate... e il contratto nuziale? I l Marchese — Potete continuar... Eravamos al Rattos de las Sabinas... Gargaret (alzandosi) — Si possono fare le due cose nello stesso tempo. (Il Marchese e Gargaret si sono avvicinati al cesto e prendono diversi oggetti, suc cessivamente, dal cesto stesso). Le Barrois (tra sé) — È incredibile! (Legge nervo samente) Il futuro sposo reca inoltre nel patri monio comune... Gargaret (scegliendo nel cesto) — Un berretto da notte in lana... Le Barrois (leggendo) — Un orologio a pendolo rappresentante una madre... Gargaret — Una coperta di lana... Le Barrois (ripete) — Una coperta di lana... curva sulla culla del suo piccino (Tutti ridono. Il notaio smette di leggere e ripone le sue carte nella borsa di cuoio) No... sono trentacinque anni, che esercito la professione di notaio, ma non ho mai letto un contratto nuziale in condizioni così catastrofiche. Gargaret — Continuate pure... tanto noi non ascol tiamo. Alberto — L’inventario mi sembra ultimato... Non c'è più che da fissare i prezzi di perizia. (A Bianca) Signora, indicatemi voi stessa... i prezzi presunti delle cose bruciate. Se necessario, rettificherò! Lucia (a Bianca) — Dal momento che non avete bisogno di me, vado a terminare la mia toeletta. Bianca (sottovoce al Marchese) — Domanderò dei prezzi alti... almeno il doppio. I l Marchese (sottovoce) — Prezzo doble... es poco... bisogna domandar mas... di più... Gargaret (sottovoce) — Almeno il triplo... queste compagnie di assicurazioni riducono sempre le ci fre. (Gargaret presenta, ad uno ad uno, gli oggetti da sottoporre a perizia. Alberto, in piedi, scrive i prezzi su di un taccuino). Uno specchio di Venezia... Bianca (ad Alberto) — Cosa ne dite di 42 franchi?... Alberto — Se volete dire di più... La Compagnia d’Assicurazione « La Diffidente » non bada a un fran co di più o di meno. Le Barrois (si avvicina e dice ad Alberto) — Ah, il signore è della Compagnia « La Diffidente »? Alberto — Sì, signore... (Scrive) Specchio di Vene zia: cinquanta franchi. Le Barrois (tra sé) — Che strano perito... Aumenta i prezzi... invece di diminuirli. Gargaret (mostra un pezzo di legno bruciacchiato) — E questo che diavolo è? I l Marchese (prende il pezzo di legno e lo esamina attentamente, dopo aver infilata la caramella) — Yo no so... cosa puede essere. Ah yo lo se... es un frammiento de la tabla de noche... del como dinos... Bianca — È tutto quello che resta del comodino da notte. Alberto •— Capisco... (Scrive) Un comodino da notte con tutti i suoi accessori... I l Marchese — In madero de las islas... legno delle i solas. Alberto — Quanto mettiamo? Bianca — Non saprei... Dite voi, signor Le Barrois, nella vostra qualità di notaio... Le Barrois (prendendo il pezzo di legno e dopo un attento esame) — Non so..., dodici franchi mi sembra pagato bene. Tutti — Dodici franchi ! I l Marchese — Ne quiero novantas... Alberto — Facciamo cento, tanto per fare cifra tonda. I l Marchese — Bueno... muy bueno... cifra tondas. Le Barrois — Ma scusate... Bianca — Ma a voi che cosa ve ne importa? Le Barrois — Diamine! Sono uno dei principali azionisti della Compagnia « La Diffidente ». Alberto — Accidenti! I l Marchese (a Le Barrois che si accinge ad andar sene) _ Porché non riprendete la lettura del con tratto nuziale... Continuate, señor notaio, vamos... (Lo obbliga a sedersi. Tra sé) Un azionistas... mu chas gracias! Lucia (entra dal fondo) — Caro zio, le carrozze sono pronte. I l Marchese — Bisogna andar dal señor Alcade, hombre ! Le Barrois — E il contratto nuziale? I l Marchese — No es tiempo... vamos... adelante... Bianca — Firmiamo e partiamo. I l Marchese — E poi vuestro contratto no es diver tientes... (Firma e dà la penna a Lucia) Firma, querida ! Lucia (tra sé e guardando Alberto) — Povero Al berto ! Alberto (tra sé) — Più nessuna speranza... Hanno firmato... Per fortuna, il marito è abbastanza sim patico. Cercherò immediatamente di farmene un amico. Gargaret (prendendo la penna) — Tocca a me! Tocca a me! (A Lucia) Non mi sono mai sentito così commosso dopo il giorno in cui ho comperato la mia fabbrica di candele steariche. Lucia (sottovoce a Gargaret) — Potete ringraziare le torri di Nostra Signora di Parigi. Gargaret (stupito) — Volentieri... (Tra sé) Perché, poi, le torri di Nostra Signora di Parigi? (Firma). I l Marchese — Muy bien... Gargaret... date vuestra manos a mi señora... Gargaret (offre il braccio a Bianca) — Cara zia... (Si accorge di avere i guanti sporchi) Mi sono spor cato i guanti... colpa di quello stupido comodino. Per fortuna, sono un uomo prudente e ne ho sem pre un paio di ricambio. I l Marchese — Vamos... Vamos... Es tiempo... Gargaret — Scendete... vi raggiungo subito... (Tutti escono dal fondo eccetto Gargaret, Alberto esce a SI DEVE DIRE? sinistra. Giulietta porta via il cesto dove si trovano gli oggetti bruciati). Gargaret (tra sé, togliendosi i guanti) — Quel mar chese è insopportabile... non è un marchese: è un pacco di dinamite. Ma mia moglie è talmente gra ziosa! Ma perché poi mi ha parlato delle torri di Nostra Signora di Parigi... Glielo domanderò sta sera... così avrò un ottimo argomento di conversa zione... Perché il primo giorno è così... non si sa che cosa dire. Muserolle (dalle quinte) — Nel salotto... benissimo! Gargaret — La voce di Muserolle, il mio testimo nio... Finalmente è arrivato! Muserolle (compare dal fondo; ha in mano una valigia che depone dopo essere entrato) — Eccoti finalmente, caro amico. Gargaret — Capiti proprio a proposito... aiutami ad abbottonare i guanti. Muserolle — Volentieri... Ma di’ un po’... la tua portinaia è magnifica... un po’ grassottella, ma io adoro le donne un po’ grassottelle. Gargaret — Hai ragione, ma spicciati... Ci aspettano al municipio. Muserolle — Al municipio? Ma io non posso an dare al municipio vestito così... Gargaret — Non ti preoccupare... Prenderò un altro testimonio... Dopo la cerimonia, porterò mia moglie in campagna... un vero nido fra il verde... Muserolle — A Monaco, sulla Costa Azzurra? Gargaret — No, nella foresta di Bondy... ho un pic colo villino da quelle parti, vicino ai serbatoi del l’acqua. L’ho pagato pochi soldi... Tu verrai con noi. Muserolle — Grazie. Gargaret (allontanandosi) — Vestiti... Mio caro Mu serolle... ero certo che saresti venuto. Muserolle — Dopo quello che tu hai fatto per me?... Ma sarei venuto anche se avessi dovuto cam minare con la testa alPingiù. Gargaret — A fra poco... vestiti... (Esce dal fondo). Muserolle (solo) — Ah, sì, che servizio mi ha reso!... Mia moglie mi tradiva... molto... senza freni... Io non sospettavo di niente... ero felice, tranquillo, pieno di fiducia... Tutti sapevano la cosa e nessuno osava parlarmene. Ebbene, uno solo, un solo amico, ha avuto il coraggio di dirmi tutto, di spalancarmi gli occhi... Gargaret... Lui non ha avuto paura, no, non ha avuto paura di infrangere la mia felicità... Caro amico... E che cosa prodigiosa il caso, la fatalità!... Gargaret non conosceva mia moglie, non l’aveva mai veduta... Un giorno, si trova in un gabi netto particolare con una ragazza che era com messa in un negozio della via di Provenza... Ad un tratto nel gabinetto particolare, vicino al suo sente un rumore di baci... L’uomo è curioso per istinto, per natura... Gargaret avvicina l’orecchio al tra mezzo di separazione. E sente una voce maschile che dice distintamente : « Dal momento che tuo marito, quello stupido di Muserolle — sono io — va in campagna domattina, trovati a mezzogiorno, al museo, davanti al Naufragio della Medusa : ecco il dito della fatalità ! Gargaret pianta la sua amica, paga il conto e viene a raccontarmi quanto è acca- EUGÈNE LABICHE duto... Ero seduto nella mia poltrona, con la papa lina in testa e in procinto di leggere il mio gior nale. Alla prima parola, gli rispondo : « Ma sei pazzo? Mia moglie è una donna fragile, magra, che stenta a respirare, tanto è delicata... È impossibile ». Ma Gargaret è un uomo energico, tenace... insiste... La sua insistenza finisce per scuotermi e il giorno dopo, a mezzogiorno preciso, entro nel salone qua drato del Museo... Mi ero vestito di nero, per essere più corretto e ho voltato gli occhi verso il Naufragio della Medusa. E che cosa vedo? Mia moglie che faceva la svenevole davanti a quel quadro meravi glioso e con chi?... Questo è il lato comico della cosa... Con il mio notaio, con Polidoro Frágil, lo stesso notaio che aveva provveduto e redigere il mio contratto nuziale. I due amanti mi volgevano le spalle. Avevano i gomiti appoggiati alla piccola ringhiera che si trovava davanti al quadro. Due soluzioni mi si presentavano. Fare un rapporto particolareggiato all’Albo professionale dei Notai. Oppure, soluzione più sanguinaria, appioppare a Frágil un calcio solenne, in quella stessa parte del corpo che mi stava presentando... Scelsi la seconda soluzione... Pan!... Polidoro Frágil lancia un urlo, mia moglie sviene e i guardiani mi cacciano via dal Museo... Ecco la giustizia delle società moderne. Tomo a casa per aspettare la colpevole... sempre vestito di nero come un giudice. (Ride) Mia moglie non tornò... non è mai più tornata... Buon viag gio... La domestica me ne raccontò delle belle sul conto di mia moglie... Mi spiegò il metodo che i due amanti avevano inventato per scriversi... Il notaio aveva un bastone animato che si svitava in alto... Era lì che metteva i suoi messaggi d’amore. E quando voleva farne recapitare uno a mia moglie, mi diceva : « Muserolle, ho paura che piova... prestami un ombrello... ti lascio il mio ba stone ». E se ne andava. Poi, mia moglie prendeva il biglietto e infilava la risposta. Il giorno dopo, mi diceva : « Muserolle, ci sono delle nuvole. Va’ a riprendere l’ombrello dal notaio Frágil e riportagli il suo bastone ». (Con veemenza) E io ci andavo e, senza saperlo, ero il loro postino amoroso... Allora, fui preso da un immenso disgusto degli uomini, della vita, dei notai... Lasciai Parigi e non diedi il mio nuovo indirizzo che al mio caro amico Gar garet... Comperai una grande foresta nelle Ardenne. Quando si possiede una foresta, bisogna segare gli alberi. Misi su una segheria. E vivo là da dieci anni, come un selvaggio, fra i boscaioli e i carbonai... Disgraziatamente non ci sono, né boscaiole, né car bonaie, e a lungo andare... dico sempre di non pensarci ma ci penso... Gli uomini non sono di legno, nemmeno quelli che possiedono delle foreste... Giulietta (entra dalla destra) — Signore... la camera del signore è pronta. Muserolle — Grazie. (La guarda) Non c’è male... è abbastanza grassottella. (Si avvicina e la carezza) Sei un po’ grassottella... ma io adoro le donne un po’ grassottelle. Giulietta (si svincola e ride) — Smettetela... alla vostra età, voi pensate ancora a queste cose? Muserolle — Sono dieci anni che ci penso! Giulietta — La vostra camera è in fondo, a destra. Muserolle — Ci vado... (Prima di entrare fra le quinte e con voce mielosa) Mi porterete un po' d’acqua calda... me la porterete personalmente... (Tra sé) È un po’ grassottella, ma io adoro le donne un po’ grassottelle. (Esce). Giulietta — Tò! Ha dimenticato la valigia. Alberto (entra dal fondo a sinistra) — Potete rimet tere in ordine... Ho finito. Giulietta — Va bene, signore. (Esce con la valigia di Muserolle). Alberto — Nessuno!... Presto un biglietto per Lucia... Gli sposi partono per Bondy... (Si siede al tavolo e scrive) Bisogna che vi parli almeno per l'ultima volta. Sarò domani stesso a Bondy. La vita non è più, per me, che un continuo pretesto per piangere. Fatemi invitare a pranzo. A domani. (Piega il bi glietto) E adesso, adoperiamo il grande trucco che mi è stato lasciato in eredità da mio zio Fragil, il notaio... È anzi l'unica cosa che mi ha lasciato in eredità. (Svita il bastone e vi introduce il bi glietto) Lucia conosce il trucco... era il nostro metodo per corrispondere quando lei era ancora in collegio. Adesso, nel porta-ombrelli. (Mette il suo bastone nel porta-ombrelli. Si sente rumore di passi) Fatto! (Nello stesso istante entra il Marchese, che dà il braccio a Bianca. Sono seguiti da Gargaret che dà il braccio a Lucia. Dupaillon chiude il pic colo corteo). I l Marchese — Fatto... Non se puede plus dire de no... Gargaret (a Lucia) — Vedrai, cara, che saremo tanto... tanto felici. (L’abbraccia). Lucia (abbassando gli occhi) — Ve ne prego, si gnore, smettetela... Alberto (tra sé) — Che mascalzone! I l Marchese — E1 ceremonial es stado muy com- movientes... Dopo el « sì » fatai, yo hai domandado la parola all’Alcade... per dare al mio cancellieros una decorassion... Bianca (a Dupaillon) — Ringraziatelo. I l Marchese (a Dupaillon che si è avvicinato) — Vusted me deve dar cinquanta francos... Es la tariffas. Dupaillon (frugando nelle tasche) — Cinquanta franchi?... Ho dimenticato il portafoglio. I l Marchese (irritato) — Non hanno mai el porta- foglios. Gargaret (ammirando la decorazione di Dupaillon) — È molto bella... si direbbe una fetta di frittata. (Risale verso il fondo insieme al Marchese). Alberto (sottovoce, a Lucia) — Un biglietto... nel bastone! (Si allontana in fretta). Dupaillon (sottovoce, a Bianca) — Un biglietto... nel bastone! I l Marchese — E adessos, vamos... io chiero de restar solo con Gargaret, mi nipotes... Gargaret (tra sé) — Deve volere i conti della dote. I l Marchese (agli uomini) — Troverete del vino de Madeira... del Malaga e del vino de Mosquitos. Lucia (a Bianca) — Vado a cambiarmi prima della partenza. Bianca — Ti accompagno. (Bianca e Lucia escono a destra. Alberto e Dupaillon se ne vanno a sini stra). I l Marchese (con solennità) — Sernos soli, mi que rido Gargaret... Como Gargaret. Gargaret — Non era urgente... potevate darmela un altro giorno. I l Marchese — Dar che cosa? Gargaret — La dote. I l Marchese — Non se tratta de esta bagatellas... La dote es nel cassettos... es la señora che has la chiaves... (Cambia tono) Yo espero que vusted es contiento de esta felicidad. Gargaret — Certo... Ciò che mi piace, soprattutto, in questo matrimonio, è la famiglia... ci tenevo tanto ad avere una famiglia. I l Marchese — Amigo, mi grande y admirado amigo, yo non hai detto tutta la veritas... mia nipote no es mia nipotes... Gargaret — Come?... Mia moglie... I l Marchese — La fadalidad... non se puede niente, ne la vita, contro la fadalidad... Mia nipote es mia figlias... Gargaret (seccato) — Avreste potuto dirmelo prima ! I l Marchese — No, avreste rifiutato di sposarla... conosco los hombres... Gargaret —• Spero almeno che la madre sia stata una donna che ha sempre vissuto nell’onore... mal grado la sua colpa... I l Marchese — No... eras una donna muy terribile... senza vergüenza... era una ballerinas sulla cordas de argientos che cambiava amantes, come las camisa. Gargaret — Avreste potuto dirmelo prima... I l Marchese — Io la è conoscido in Americas... E subito inamorados... con todo el corazón... Un dias, la muchacha aveva traversar el Niagara sulla cor das d’argientos... La muchachas me propose de prender posto nella carriolas che doveva spingere adelante... Caprichos de linda muchachas... Accettai el caprichos. Un pueblo immenso guardava l’impresa audaz de la muchacha... Nel centro de los tragittos, la muchachas se fermò e me disse : « Marquis de Pappaguanos, yo te chiero... tu es el mi amor... vuoi sposarme si o no? ». Confesso che esta demanda de matrimonio, fatta in circostancias così estraor- dinarias, me obbligò a esitar. Allora la muchacha me disse: « Se tu rifiuti de me sposar, io lascio andar la carriolas nelle cascadas del Niagara... ». Dovetti accettar immediatamientes... Gargaret (con vivacità) — E l'avete sposata? I l Marchese — No, nemmeno per suegno... Arrivato a terras, diedi dieci colpi de frustas alla mucha chas... un muchachito es nato despues... quel mucha chito era Lucia, vostra señora... Gargaret — Potevate dirmele prima tutte queste belle cose! I l Marchese — Prima o dopo, non has importancia... l’amor es l’amor... Ma yo soy un hombre de onore... soy el marquis de Pappaguanos e avevo dir a usted toda la veritas... Gargaret, hai ancor ima cosa da domandartes. Gargaret — Quale? SI DEVE DIRE? I l Marchese — Quando saremo soli... habla pure in libertad e chiamami papà... Gargaret — Come volete... (Si guarda intorno) Siamo soli... Addio, papà... I l Marchese — Adios, figlio querido... muchacho del mi corazon. (Lo abbraccia con molta commo zione). Gargaret (solo e asciugandosi le guance) — Acci denti, mi ha letteralmente inzuppato con la sua commozione. Non importa... certo è piuttosto noioso avere ima suocera che ha traversato il Niagara su una carriola... Muserolle (entra; ha cambiato vestito) — Eccomi pronto. Ebbene, tutto fatto? Ammogliato? Gargaret — Per fortuna, sì... Muserolle — È un grande momento della vita, non è vero? Tutti ti hanno fatto dei regali, certamente... E io, lo sai che cosa di ho portato? Gargaret — Ma come, caro? Hai voluto incomo darti? Muserolle — Io non ti porto nulla... 0 per meglio dire, sì... Ti porto la verità... Gargaret — Quale verità? Muserolle — Mia moglie mi tradiva e tu me l’hai detto... Quando tua moglie ti tradirà, io te lo dirò. Gargaret — Ma... permetti... Muserolle — Io ho un solo desiderio, una sola ambizione... voglio potermi sdebitare verso di te... è il mio sogno. Gargaret — Il tuo sogno? Ma non potresti sognare qualcosa d’altro, qualcosa di più divertente... Che diamine! Ci sono ancora delle donne oneste, sai? Certo, una minoranza, ma io mi illudo di poter iscrivere mia moglie in questa minoranza. Muserolle — Andiamo, Gargaret, ragioniamo un po’ come si deve, come due veri uomini. Tua moglie è, sì o no, giovane e graziosa. Gargaret — Sì. Muserolle — Tu, invece, non sei più giovane e francamente... non mi interrompere... non sei mai stato molto bello... Gargaret — Sono per lo meno bello quanto te... Muserolle — E, infatti, io ho avuto il mio conto e tu avrai il tuo... Gargaret — Ma... Muserolle — Andiamo, Gargaret, non mi togliere quest’ultima illusione... Gargaret — Ma se tu vedessi mia moglie!? un candore immacolato... un volto che esala la più pura onestà... Muserolle — Anche mia moglie esalava la più pura onestà... ma si trattava di piccole esalazioni... No, vedi, bisogna avere il coraggio di guardare in faccia l’awenire... Non dico che ti accadrà subito, domani stesso, ma col tempo, sì; come è successo a me... Gargaret — Ci mancherebbe altro. Muserolle — Per esserti vicino nel momento fatale, mi sono accordato tre mesi di vacanze. Credi che basteranno? Gargaret — Senti... ti prego formalmente di smet terla... EUGÈNE LABICHE Muserolle — Io mi installo nella tua casa, guardo, osservo, scruto, spio, sorveglio... e non appena il cataclisma si verifica, te lo dico... Tu mi abbracci e siamo pari. Gargaret — Ma è un’idea fissa. (Scorge Lucia che sta entrando) Ecco mia moglie! Voglio presen tartela... Lucia (in abito da viaggio) — Scusate... credevo che lo zio fosse qui. Gargaret — Cara Lucia... era qui poco fa... Permet timi di presentare il signor Muserolle, un amico... un caro amico... Muserolle — Un fratello! Lucia (salutando) — Fortunatissima... Signore... (Si allontana). Gargaret (sottovoce a Muserolle) — Come la trovi? Muserolle — Ha l’occhio ardente... forse troppo ardente... Gargaret (tra sé) — Mi sta annoiando davvero! Alberto (entra dal fondo) — Chiedo scusa... credo di aver lasciato qui il mio cappello... Gargaret (guarda intorno) — Un cappello?... Eccone uno... (Va a prenderlo sul tavolo che si trova in fondo alla sala). Alberto (sottovoce a Lucia) — Non dimenticate il biglietto nel bastone. Muserolle (che ha osservato la scena, tra sé) — Guarda, guarda... si direbbe che si sono parlati a bassa voce! Gargaret (tornando con il cappello) — Eccolo... Alberto (salutando) —- Grazie... Signore... Signori... Gargaret — Ma non avevate anche un bastone? Alberto e Lucia — Ah! Muserolle (tra sé) — Hanno sussultato! Alberto (imbarazzato) — Un bastone? Sì... Mi tro verete forse indiscreto, ma temo che venga a piovere... Muserolle (stupito tra sé) — Cosa? Alberto — Potreste per cortesia, prestarmi un ombrello? Lucia — Ma certo... (A Gargaret) Caro amico, pre state, dunque, un ombrello al signor Fragil... Gargaret — Certo ! (Va a prendere un ombrello nel porta-ombrelli). Muserolle — Fragil! (avvicinandosi) Sareste per caso parente del notaio Polidoro Fragil? Alberto (inchinandosi) — Mio zio, signore... Muserolle — Benissimo... (Tra sé) Tutto si spiega... un trucco di famiglia! Alberto (a Gargaret che gli da un ombrello) — Grazie... Signora... Signori... Muserolle (stringendo la mano a Gargaret) — Mio caro, io spero di potermi sdebitare prestissimo con te... il mio sogno sta per realizzarsi. Gargaret — Che cosa? Non capisco... Muserolle — Non è necessario... io vigilo. (Il Mar chese entra seguito da domestici che portano vali gie e scatoloni). I l Marchese — Vamos... vamos... tutto nella caroz- zas.... (I domestici escono). Gargaret (al Marchese) — Vi presento il mio primo testimonio che è arrivato poco fa... Muserolle (salutando) — Marchese... I l Marchese — Cinquanta dos minutos de ritardos... es vergognarla... es vergogna. Muserolle — Che caratteraccio! (Tra sé). Lucia — Addio zietto! (Si getta nelle braccia del Marchese). I l Marchese — Sì, querida.. es necessarios... es los costumes... se usa così da per todos... Magnana, verrò a Bondy a vederti... Coraggio... Alto el cora- zon... (L’abbraccia) Gargaret... Gargaret (avvicinandosi) — Marchese... I l Marchese — Discrezione e abilidad, mi racco- rnandos... (Lo abbraccia). Gargaret (asciugandosi la gota) — Mi ha inzuppato un’altra volta con la sua commozione. I l Marchese — Vamos... vamos... adelante... (Fa pas sare tutti davanti a sé ed esce per ultimo. Solo Giulietta è rimasta sulla scena). Giulietta (sola dopo l’uscita del Marchese) — Deci samente, non c’è niente di più drammatico, di più commovente, della partenza di una sposa dalla casa paterna. Muserolle (rientra) — Subito... (Parla a qualcuno fra le quinte) Torno subito! Ho dimenticato ima cosa... (Al pubblico) Il bastone del giovanotto... (Si avvicina al porta-ombrelli) Ma quale sarà il vero bastone della colpa? Prendiamoli tutti. (Li prende tutti). Giulietta — Ma, signore... cosa fate? Non sono vostri quei bastoni ! (Cerca di prendere i bastoni, tirando da una punta). Muserolle — Lasciatemi questi bastoni... È que stione di vita o di morte! Giulietta — No! (Continuano a tirare, ognuno dalla propria parte). Muserolle — Aspetta, ho un mezzo... (L’abbraccia). Giulietta (abbandonando i bastoni) — Mi avete preso a tradimento! Muserolle — È grassottella... A me piacciono molto le donne un po’ grassottelle ma ora non ho tempo... ritorno. (Esce, urlando) Vengo!... Eccomi!... A tto secondo A Bondy, in casa di Gargaret. Piccolo salotto. Mobilio rustico. Porte laterali. Porte in fondo. A sinistra, un caminetto. In un angolo del caminetto, tre bastoni. In fondo, una porta a vetri, chiusa. Il teatro è al buio. cv> All’alzarsi del sipario, Lucia, in vestaglia da notte, entra con precauzione dalla porta a sinistra. Ha in mano una scatola di fiammiferi. Accende un fiammifero e si avvicina ad una candela che accende. Lucia guarda i bastoni e cerca di rico noscere quello di Alberto. Lo trova, lo svita (è, come abbiamo detto, un bastone animato) e prende il biglietto che è racchiuso nel bastone. Si sente rumore di passi che si avvicinano. Lucia spegne la candela ed esce dalla porta di fondo, senza dir nulla, in putita di piedi. ™ Appena uscita Lucia, Muserolle entra dalla porta a destra, con precauzione. È ancora in veste da SI DEVE DIRE? camera. Accende un fiammifero e, con esso, la candela che Lucia ha spento poco prima. Poi, si avvicina ai bastoni. Ce ne sono tre. Il primo non si svita. Il secondo è una canna da pesca. Il terzo contiene un biglietto. Muserolle posa i tre bastoni sul caminetto. Si ode rumore di passi. Muserolle esce dalla porta, a destra. Appena fuori entra Gar- garet da sinistra. Indossa la veste da camera sul l’abito, posa la giacca alla spalliera di una sedia. Ha la testa avvolta in una sciarpa. Accende la can dela e la tiene in mano senza accorgersene pur continuando a parlare. Gargaret — Non capisco che diamine possa essere accaduto!... Perché, poco fa, quando mi sono sve gliato, non ho più trovato mia moglie nella mia camera?... Certamente, si è sentita poco bene!... Capisco... l’emozione... Povera cara!... E poi quello che mi ha detto il marchese non riesco a dimenti- ticarlo... Avere, come suocera, una donna che ha traversato il Niagara sul filo d’argento e con una carriola... No, francamente, una suocera così, non me l'aspettavo. (Guarda il pendolo e si accorge che segna le undici) Accidenti, sono le undici o le ventidue? ! che razza di modo di fare gli orologi. Sarà bene capire qualche cosa perché il marchese deve venire a colazione da noi..., veramente la cola zione è un gentile formale, in quanto viene qui a portare la dote. (Suona un campanello e dopo qualche istante entra il domestico e lo trova con la candela in mano). I l Domestico — Il signore ha suonato? Si sente male? Vuole dare a me la candela? (Gliela prende, la spegne e la posa). Gargaret — Mi sento benissimo e mi pare sia giorno alto: perché non aprite le finestre? tra poco si va a tavola... I l Domestico — Il signore mi aveva proibito di entrare prima di essere chiamato. (Apre le finestre. Luce diurna). Gargaret — È vero... Ditemi, Battista, non avete visto mia moglie? I l Domestico — No, signore. Gargaret — Povera figliuola! I l Domestico — Sono arrivati i genitori della si gnora. Gargaret — Sono già qui?... Datemi la mia giacca. (Gliela porge e Gargaret l'indossa. Rumore). Infatti, ecco i miei suoceri. (Bianca e il Marchese entrano). Bianca — Eccoci qua... Buongiorno, Gargaret... Gargaret — Cara zia! I l Marchese (commosso e abbracciando Gargaret) — Gargaret, mi querido... mi muchacho querido! Gargaret (tra sé e asciugandosi la guancia) •— Ma che brutta abitudine... ogni volta che mi abbraccia, mi annaffia le guance! (Il domestico esce). I l Marchese (indicando Dupaillon) — Hai prendido la libertas di portare, con mi, il mio primero Cancel- lieros... Gargaret (a Dupaillon) — Signore, farete probabil mente un pranzo piuttosto mediocre, ma avrete almeno la gioia di aver pranzato in campagna. Dupaillon — Ne sarò lietissimo. Bianca (a Gargaret, indicando la sciarpa che avvolge ancora la testa di Gargaret) Scusate, ma avete forse l’intenzione di mettervi a tavola con quell’af fare sulla testa? Gargaret (stupito) — Che cosa?... Ah! scusate... credevo di essermelo già tolto. I l Marchese — Ma dove es mia nipotes? Gargaret — Povera figliola! I l Marchese — Cosas?... Es capitatos desastros? Gargaret — No, sta terminando la sua toeletta. Bianca (guardandosi intorno) — Carina la vostra casa! Gargaret — Non c’è male. E da questa finestra, c'è un panorama meraviglioso! (Il Marchese segue Gargaret fino alla finestra). I l Marchese — Cosas es là in fondos?... Un lagos... sembra esattamientes un lagos... Gargaret — No, è un semplice serbatoio. I l Marchese (a Dupaillon) — Como, segnor Du paillon... Un lagos, siembra un lagos della Scozias... Admirable... Gargaret (rettifica) — Abbastanza bello... (Il Mar chese e Gargaret scompaiono, per un istante, fra le quinte). Dupaillon (riavvicinandosi alla ribalta, a Bianca) — Avete trovato il mio biglietto? Bianca — No, il bastone è scomparso. Dupaillon — Accidenti ! (Vede i bastoni che si tro vano sul caminetto) Ma è lì... il mio bastone! Bianca — E come fa ad essere lì? Dupaillon (prende il bastone e lo svita) — Mistero... Ma chi può averlo portato fin qui?... (Guarda nell'in terno del bastone) Nulla... non c’è nulla... Il mio biglietto è scomparso ! Bianca — Strano! I l Domestico (entra dal fondo) — Il signor Notaio e la signora aspettano i signori nella sala da pranzo. I l Marchese (che frattanto è rientrato insieme a Gargaret) — Ah! sì... me soy scuerdato de dirve che hai invitados il notaios. Gargaret — Benissimo vi raggiungo... Bianca (tra sé) — Ma chi può aver preso il biglietto? (Bianca e Dupaillon escono). Gargaret (tra sé) — Strano! Il marchese non mi ha parlato affatto della dote. (Ad alta voce) Ebbene, marchese, avete poi ritrovato la vostra chiave? I l Marchese — Quale chiave?... No compriendo... Gargaret — La chiave della vostra cassaforte. I l Marchese — Eccola... Està es la chiave. Gargaret — Allora quando vi farà comodo... I l Marchese — No compriendo... Gargaret — La dote... dal momento che avete tro vato la chiave. I l Marchese — Io hai la chiave ma no hai lo scrignos... es restado in ciudad... Gargaret — Benissimo... I l Marchese (accingendosi ad andarsene) — Venite, Gargaret ! Gargaret — Voglio prima aprire una bottiglia che ho riservato apposta per voi... I l Marchese — Allora vamos... e priestos... (Esce). Gargaret (solo) — È ima vecchia bottiglia che ho trovato nella casa quando ho comperato questa EUGÈNE LABICHE villa. Non so, però, se ci sia dentro dell'olio o del rhum. (Prende la bottiglia in un armadietto) Ma dove è andato a ficcarsi Muserolle? Stamattina, non l’ho ancora veduto. Alberto (entra dal fondo e parla tra sé) — Eccomi qui... ho trovato un pretesto... Non è un eccellente pretesto ma spero che funzionerà lo stesso. Gargaret (posando la bottiglia su di un tavolino) — Ah!... il giovanotto dell’assicurazione. Alberto (tra sé) — Il marito! {Ad alta voce) Scu sate, signore, avete veduto il marchese? Gargaret — Sì. Alberto — Lo sto cercando da questa mattina... Ieri, quando ha firmato il resoconto del sopralluogo, ha dimenticato una seconda firma... {Tra sé) È una scusa molto misera ma spero basterà. {Tira fuori un foglio di carta). Gargaret — Date a me... perché, se volete prendere il treno per tornare a Parigi, non avete che pochi minuti. {Prende il foglio). Alberto — No, ho tutta la giornata a mia dispo sizione. Lucia {entrando, a Gargaret) — Caro, tutti vi stanno cercando... {Vede Alberto e trasale) Ah ! Alberto {tra sé) — Non gli dà ancora del tu... C’è speranza ! Gargaret {a Lucia) — Debbo far firmare questo foglio al marchese. {Ad Alberto) Mia moglie vi terrà compagnia... {Sottovoce, a Lucia) Sorveglialo bene. {Tra sé, uscendo) Io non lo conosco affatto quell’assicuratore, ma mi sembra piuttosto antipa tico ed invadente! {Esce). Alberto — Mia cara Lucia, vi avevo promesso di venire e, fedele alla mia promessa, eccomi qui. Lucia — Signor Alberto, vi prego di andarvene... Bisogna che ve ne andiate... Non ho più il diritto di ascoltarvi come facevo una volta... Adesso sono maritata. Alberto — Lo so, purtroppo, ma è atroce! Quando penso che quell’uomo antipatico, insignificante, con la fronte bassa come i cretini, con quei piedi vol gari, con quelle mani da salumiere, ha il diritto di chiamarvi: mia cara, mio tesoro, mia piccola stella blu, amore mio... Lucia —■ Ed ha ancora degli altri diritti... Alberto — Ancora?!... Ah, già. Lucia — Tuttavia, il signor Gargaret mio marito, non mi ha ancora detto stella blu, né chiamato amore mio... Alberto — Come? Non vi ha ancora chiamata: mia piccola stella blu e amore mio? Lucia — No è stato rispettoso e molto riservato. Alberto {tra sé) — Ma davvero?... Ma guarda un po’! Rispettoso, da principio, posso anche ammet terlo. Ma dopo? Lucia — Quando, dopo?... Il signor Gargaret non ha mai cessato di essere rispettosissimo. Alberto — Ma davvero?... Ma guarda ! Il signor Gar garet è un uomo onesto. Lucia — Sì e sarebbe ingiusto ingannarlo. Alberto — Ingiusto, poi... Lucia — Signor Alberto, se voi ci tenete a conser- vare la mia stima, dovete promettermi di rinun ciare al vostro amore per me. Alberto — Ah ! questo poi... Lucia — È necessario... assolutamente necessario. Alberto {simulando la rassegnazione) — Basta... troverò il coraggio di rinunciare al mio amore... capisco che continuare ad amarvi sarebbe un de litto ! Lucia — Sì... ima colpa. Alberto — E anche se veniste a pregarmi, a suppli carmi, io vi risponderei : No, signora, il vostro amore è il più bel sogno della mia vita, ma è un sogno impossibile. Lucia {dandogli la mano) — Grazie, Alberto! Alberto — Ma... anche se rinunciamo all’amore... l’amicizia rimane lo stesso, non è vero? Lucia — Certo! Alberto — L’amicizia fra un uomo e tuia donna, l’amicizia sincera, disinteressata... non c’è niente al mondo di più bello, di più puro. Lucia — Certo! Alberto — La casta amicizia copre i due cuori con le sue ali di velluto azzurro. Un amico può strin gervi la mano... {Le stringe la mano) può tuf fare i suoi sguardi nei vostri occhi bellissimi... può posare sulla vostra fronte un bacio sincero, devoto, il bacio dell’amicizia... {La bacia sulla fronte) Può... Lucia — Signor Alberto ! {Indietreggia). Alberto — Perché, secondo voi, un amico, un vero amico, non ha il diritto di baciare? Lucia — No, non è corretto. Alberto — Voi escludete che possa essere corretto il bacio di un amico? Lucia perché formulate dei pensieri così cattivi? Lucia — Ma io... Alberto — Mi avete profondamente addolorato, cara Lucia... Voi non capite l’amicizia, la vera amicizia... io, sì, la capisco... Gargaret {entra con un foglio in mano) — Eccomi... scusate il ritardo. Ma non si trovava più il cala maio ! {A Lucia) Mia cara Lucia, vi aspettano di là. Lucia — Vado subito. {Saluta Alberto) Signore... Alberto — Signora... {Tra sé) Avrebbe almeno do vuto farmi invitare a pranzo! Come posso fare per rimanere? Gargaret — Ecco il documento con la firma che desideravate. Alberto {prendendolo) — Ma non c’era premura... Sapete che la vostra casa è davvero molto bella? Gargaret — Sì, è abbastanza, niente di più. {Tra sé) Ma non se ne va mai questo scocciatore? Alberto — È mobiliata con molto gusto. Che pec cato se dovesse bruciare così, in un colpo. Gargaret — Bruciare? perché dovrebbe bruciare? Alberto — Naturalmente, voi siete assicurato contro gli incendi. Gargaret — Io? no... Alberto — No?... Non siete assicurato contro gli incendi? {Diventa subito professionale) Ah! signore, che errore, che imperdonabile, che pericolosissimo errore... Ma non avete mai pensato alle conseguenze, alle terribili conseguenze di un incendio? Gargaret — Vi confesso che non ci ho mai pensato. Alberto — Male... malissimo... Basta un attimo... cioè basta un fiammifero... Non potete contare sul l'intervento immediato dei pompieri... siete un po’ troppo lontano dalla città... E allora, tutto brucia, ar de, si consuma, in un attimo... E non basta ancora... Gargaret — Come non basta ancora? Alberto — No... voi bruciate anche la casa dei vostri vicini... È immancabile! Rovinate vostra moglie, i vostri figli... pensate al suicidio... non avete altro scampo che la fuga all’estero o la morte. E tutto questo perché? Per avere evitato di pagare una piccola somma, ima somma ridicola e insignificante ad una compagnia di assicurazione... Che errore, che imperdonabile, che pericolosissimo errore! (Cambia tono e prende il cappello in segno di commiato) Signore, ho l’onore di salutarvi... (Sta per andarsene). Gargaret (trattenendolo) — Signore, voi non ve ne andrete... Alberto — Non capisco... Gargaret — Voi non ve ne andrete prima che io abbia stipulato una polizza di assicurazione contro gli incendi. Alberto — Come volete. Gargaret — L’immobile... La cas,a... (Tutta la scena è recitata a ritmo rapido, ansioso). Alberto — Si paga un tanto al metro quadrato... Gargaret — Lo misureremo. E i mobili? Alberto — Faremo l’inventario. Gargaret (sempre rapido e ansioso) — Facciamolo subito ! Alberto — Facciamolo dopo pranzo. Gargaret — Non ho più fame... Muserolle (entrando, a Gargaret) — Ah ! dimmi un po’... Gargaret (scorgendo Muserolle che è entrato) — Ah! sei tu?... Spicciati... Sono già a tavola. Muserolle — Lo so che sono in ritardo ma mi stavo proprio occupando di te. Gargaret — Io sto terminando un affare con il si gnore. (Indica Alberto). Muserolle (vedendo Alberto) — Ah!... (Tra sé) Quello dell’ombrello. Non perde tempo, il mascal zone!... (Sottovoce a Gargaret) Diffida di tutto e di tutti. Sono già sulla pista. Gargaret — Una pista?.., quale pista? Muserolle — Te la dirò più tardi. Mandami tuo zio. Gargaret — Il marchese?... Ma sta mangiando. Muserolle — Ho assolutamente bisogno di par largli. Gargaret — Benissimo. (Ad Alberto) Intanto potete cominciare l’inventario... Entrate in quella stanza... Vi raggiungo subito... (Alberto esce) Ah! dimen ticavo la mia bottiglia... Vorrei sapere esattamente se è dell’olio o del rhum... Se avessi almeno un cavatappi... Muserolle — Eccone uno... (Gli dà un coltello a molti usi). Gargaret — Bellissimo, questo coltello... Serve a tutto. (Lo guarda) C’è una lama, una forbice, una lima... un vero assieme di attrezzi da fabbro. (Stura la bottiglia e restituisce il coltello). SI DEVE DIRE? Muserolle — Sono coltelli molto comodi quando si vive in campagna. Gargaret (fiutando la bottiglia aperta) — È rhum... (Beve alla bottiglia e fa una smorfia) No, è olio... Servirà per l’insalata... (Preso dal disgusto) No, servirà per la lampada... Ti mando subito il mar chese... (Esce). Muserolle (solo) — Fortuna pura e semplice o intuito geniale?... In ogni modo, ecco il biglietto che ho trovato nel bastone animato del giovane Alberto Frágil... Un appuntamento per il giorno stesso delle nozze... Fa le cose in fretta, la sposina!... Prima di avvertire Gargaret è bene avvertire il marchese, nella sua qualità di capofamiglia. Bi sogna salvare le apparenze e le forme. Quanto a me, ho già preso le mie decisioni. (Il Marchese entra, seccatissimo. Ha un tovagliolo annodato al collo). Ah! eccolo! I l Marchese (masticando ancora) — Usted chiere de mi parlar señor?... Muserolle — Sì, ho bisogno di parlarvi di una cosa molto grave e molto delicata. I l Marchese — Veramientes... pranzando... habe rnos una tortillas... fritadas, como dite voialtri... e la tortillas, la fritadas se gusta bolliente. Muserolle — Quando saprete di che si tratta, vedrete che la cosa non può subire ritardi, nem meno per colpa di una frittata. I l Marchese — Allora vamos, señor... addante... Muserolle — Si tratta di un problema... Tizio sposa Caia e Caia se la intende con Sempronio... Bisogna dire, sì o no, la cosa a Tizio? I l Marchese — Cosa vuol dire esto rebus? Muserolle — Ripeto... È semplicissimo: Tizio ha sposato Caia e Caia se la intende con Sempronio... Bisogna dirlo a Tizio? I l Marchese — Usted es un gran burlador... Usted se burlas del marches, dell’almirante de Pappa- guanos... Es por una stupididas de esto calibro che usted me obbliga a lassar la mi tortillas bollientes? Muserolle — Ma... I l Marchese — Io sto a gustar la tortillas... una tortillas de cinco uevos e usted viene a proporme dei problemas de matemáticas... Muserolle — Scusate... mi sono spiegato male... I l Marchese — Matemáticas es financia... Financia es specialidad del primero Conseilleros... (Chiama) Señor Dupaillon, cornos qui un momientos ! Muserolle — Forse avete ragione... meglio un parere di più. Dupaillon (entra dal fondo, con un tovagliolo anno dato al collo) — Cosa c'è? (Ha la bocca piena). Cosa succede? I l Marchese — Il señor Muserolle pretiende che si trattas de una questione muy delicadas. Tizio, Caia e Sempronio fano l’amore insieme, todos 10 tre... Muserolle — No, marchese, permettete... 11 Marchese — Es prudi ente de dire a Tizio la verdad? Dupaillon — Tizio... Caia... Sempronio... Muserolle — Semplifico... Zeta sposa X... Questo X EUGÈNE LABICHE se la intende con Y... Bisogna dire a Zeta che X e Y se la intendono? Dupaillon — X... Y... Z... Ma allora è dell’algebra superiore... Qui ci vuole il notaio... Soltanto lui se ne intende... Il signor Le Barrois è considerato quasi uno scienziato. I l Marchese — Muy bien... Chiamiamos el notaios... Dupaillon (si rivolge verso le quinte) — Signor Le Barrois, volete avere la bontà di venire un mo mento qui? Muserolle — Forse avete ragione... meglio un parere di più. Le Barrois (entra, ha un tovagliolo annodato al collo e parta con la bocca piena) — Avete bisogno di me, commodoro? I l Marchese — Sì, mi grande e admirable amigo... Aqui es un problemas de algebras... Le Barrois — Algebra? mentre si mangia? Ma è difficile... Muserolle — No, molto semplice... Le Barrois — Difficile, dicevo, supporre una fac cenda simile. Dupaillon — Ecco il problema. Muserolle — Z ha sposato X. Questo X, se la intende con Y. Bisogna dirlo a Z?... I l Marchese — Capito? X, Y e Z todos insieme. (Fa un cenno significativo) Compreso? Es prudien- tes ablar la verdad a Z? Dupaillon — X ha sposato Y, tuttavia la Y se la intende con Z. Bisogna dirlo a X? (Le rispettive battute, Muserolle, Dupaillon e il Marchese, deb bono dirle chiarissime, ma rapide e quasi insieme). I l Marchese (a Le Barrois) — Cosa ne piensa usted? Le Barrois — Si tratta evidentemente di algebra... Bisogna trovare la formula... l’equazione... Se avessi una lavagna, del gesso, il mio segretario che è uscito quest’anno dall’università, e due o tre ore di tempo disponibile... I l Marchese — Usted bisognos di due o tre oras de tiempo... Io vay a finir la tortillas. Fredda. Muserolle — Un momento... Non si tratta soltanto di algebra: si tratta di un problema sociale del massimo interesse... Sediamoci. (Tutti si siedono). Dupaillon (sottovoce, al Marchese) — Ma è insop portabile con questi suoi problemi! I l Marchese (sottovoce, a Dupaillon) — Es un demientes... Muserolle — Signori... io ho un amico, un uomo onorevole, che è vilmente ingannato da sua mo glie... Non più tardi di stamane ho trovato un biglietto indirizzato a sua moglie e nascosto in un bastone animato. Dupaillon (tra sé e spaventatissimo) —- Accidenti! Sono rovinato! Muserolle — Adesso la questione è semplice e chiara. Dobbiamo dirlo a Z? Dupaillon — Ma è pazzo! Muserolle — Chi domanda la parola? I l Marchese (si alza) — Està storiellas no me interiessas... Io chiero de finir la mia tortillas. La fritadas tiene gusto se es bollientes... Muserolle (costringe il Marchese e sedersi) — No, voi uscite un po' troppo dal problema, caro ammi raglio. Dupaillon (alzandosi) — Signori, tutto ciò è sempli cemente disgustoso! Muserolle — Cosa? Dupaillon — Volete andare ad informare il ma rito?... (In collera) Ma tutto ciò è ripugnante e ignobile... La vita privata di ogni individuo è ima cosa sacra... Nessuno ha il diritto di andare a turbare la felicità di chi è soddisfatto del suo de stino... Sua moglie lo inganna, dite voi... E con questo?... È una cosa che non ci riguarda affatto... Ognuno deve impicciarsi dei fatti suoi... Lo ripeto: tutto ciò è disgustoso, è ignobile! I l Marchese — Dupaillon has detto la verdad... Dir la cosas al maridos es una aczion da puercos... Es del guanos moral... Le Barrois — È evidente che non bisogna dirlo. Muserolle — Chiedo la parola, signori... Nessuno può, meglio di me, parlare di questo problema... 10 sono il più indicato di voi tutti per esprimere 11 mio parere in materia... Io sono stato ingannato... vilmente ingannato... abbondantemente ingannato... da mia moglie... I l Marchese — Que vantador! que borias! Muserolle — Ma ho avuto l’immensa fortuna di essere stato avvertito... Un amico mi ha messo al corrente della mia sventura. I l Marchese — Ancora in tiempos o troppo tardi?... Después?... Muserolle — No, dopo che la cosa era accaduta... molto accaduta... (Tutti ridono) Voi ridete, ma io vi convincerò lo stesso. (Indica il Marchese) Ecco un uomo onorevole, intelligente, spiritoso... sto fa cendo una semplice ipotesi... ecco un uomo che gode la stima di tutti... I l Marchese — Es verdad... Muserolle — Ad un dato momento, sua moglie fa un passo sbagliato... I l Marchese — Mi señora?... Ah! señor... Muserolle — Una semplice ipotesi... ammissibile, come tutte le ipotesi... I l Marchese — Finalmente, señor... Muserolle — Ebbene, quest’uomo eminente, questo spirito superiore, diventa subito un personaggio ridi colo. Perché le corna sono ridicole. I l Marchese — Es verdad... El mundo proclamas... Es un cornudos... un beccos... Muserolle — Ammettiamo, adesso, che un amico intimo venga a scoprire tutto. Che cosa succede se l’amico mette quest’uomo al corrente della cat tiva condotta di sua moglie? I l Marchese — Basta dare quattros schiaffos a la muher... Pan! Pan! Muserolle — Questo va bene, se il marito è un essere nervoso... Ma se, invece, è un essere digni toso, forte, che cosa fa? mette alla porta la sua indegna compagna... Così ho fatto io, signori... E allora la scena cambia. (Indica il Marchese) E allora l’uomo ridicolo, l'uomo vilipeso, quello che con le sue coma faceva ridere tutta la città, diventa una persona seria... Lo si compiange, lo si nomina consigliere municipale, lo si invita spesso a pranzo... Quell’uomo è un essere giusto, calmo, sereno, che ha saputo sedersi tranquillamente sulle rovine della sua vita coniugale... I l Marchese — Muy bien... Està muy bien... Le Barrois — Io, invece, trovo la cosa compieta- mente assurda. Muserolle — La parola al signor Le Barrois. Le Barrois (si alza) — Ecco... Io sono invitato in città... a pranzo... in città... Muserolle (sorpreso) — Oggi a mezzogiorno? Le Barrois — No, è una semplice ipotesi... Sono invitato a pranzo in città. Al mattino, la padrona di casa ha fatto una bella crema alla cioccolata in mio onore, ma nella crema è caduto uno1 scara faggio... I l Marchese — Es una cosa tristissimas... La cuca racha nella cioccolattas... Le Barrois — Un invitato, un amico della famiglia, vede la cucaracha. (Corregge) Lo scarafaggio... Lo scopre nel suo piatto... Credete, davvero, che debba andare a dire al marito : « Bada che c’è uno sca rafaggio nella tua cioccolata ? ». No... l’invitato ha l’abitudine al gran mondo. Che cosa fa? Prende 10 scarafaggio e lo nasconde accortamente nel taschino del gilé. Qual è la conseguenza della sua correttezza? Tutti mangiano allegramente la cioc colata, si fanno delle congratulazioni alla padrona di casa, si fanno delle congratulazioni al marito, si fanno delle congratulazioni alla cuoca. Tutti sono felici e di buon umore. Solo l’invitato fa fìnta di mangiare la cioccolata. 11 Marchese — Es verdad... No se deve dir nada... està es la mia opiniones, Muserolle — Mio caro ammiraglio, constato che voi cambiate parere ogni momento. I l Marchese — Es la mia coscienzas che chiere cambiar... Lo que es la coscienzia?... Es il diritto de cambiar... Dupaillon — C’è però la questione dei figli. Muserolle — Naturalmente... ed è la più delicata. I l Marchese — Io chiero un bicchier de vino bianco... Hai setes... Muserolle — Signori... c’era mia volta un gallo che covava le sue uova... I l Marchese — Los gallos non covan le uovas... Muserolle — Si tratta di una semplice ipotesi... Un sedicente amico di casa infila, nel nido, un uovo di anitra. Nascono così undici pulcini e un’anitra. Il gallo alleva quel frutto di provenienza sospetta, come alleva i suoi pulcini, lo nutre con il suo latte... I l Marchese — Los gallos no haben lattes... Muserolle — Si tratta di una semplice ipotesi. Lo sapete, sì o no, che cos’è una ipotesi? I l Marchese — No! Muserolle — È ima cosa che si suppone. Dunque... I l Marchese — Vamos... es certamiente las tor- tillas... io chiero un bicchierito de vino bianco. Muserolle — Andiamo avanti... Il gallo nutre l’ani tra, la mette in collegio, la fa studiare... E quando il gallo muore, l'anitra, che conosce bene il codice, chiede la sua parte di eredità, a danno dei poveri SI DEVE DIRE? pulcini legittimi. Io vi domando, signori, tutto ciò è morale, è ammissibile? I l Marchese — Es verdad... Bisogna dire tuttos... esta es la mia opiniones. Le Barrois e Dupaillon — Ma no! Muserolle e II Marchese — Ma sì ! I l Marchese — Vuestra discussion social non es mucho interessante por mi. Poi, quando se chiere discuter ima questione social, es necessario bere un bichierito... Senza los bichieritos, la questione social non es possible! Le Barrois — È giusto... il vino è alla base del problema sociale. I l Marchese (a Muserolle) — Per risolvere los pro blemas, io farò venir aquí una persona de mucho tattos e de mucho buon sensos... (A Le Barrois e a Dupaillon) Venite, señores... (Tra sé) Esto Muse- rolles es noiosissimos ! (Escono tutti e tre dalla porta di fondo) Finalmente, es possible magnar las tortillas ! Muserolle (solo) t— Ma chi può essere questa persona di grande tatto e di grande buonsenso? Del resto, se non sarà del mio parere, non importa... 10 ho giurato di dire tutta la verità a Gargaret. E la dirò. Bianca (entra con un mazzo di fiori in mano) — Il signor marchese mi ha detto che desideravate par larmi... Muserolle — Una donna?... È un po' grassottella ma a me piacciono le donne un po’ grassottelle... (Si avvicina a Bianca) Vi ha detto la verità, si gnora... il parere di una bella donna... (Lancia un urlo) Mia moglie! Bianca (stupefatta, riconoscendolo) — Mio marito ! Muserolle (con collera) — Voi che eravate così magra quando ci siamo lasciati!... Si vede che la cattiva condotta fa bene alla salute! Bianca — Basta guardarvi per credere esattamente 11 contrario. Muserolle — Ve ne prego, signora! Bianca — Ve ne prego, signore! I l Marchese — Allora... vamos d’accordos... Muserolle e Bianca — Perfettamente d'accordo. I l Marchese (a Muserolle e presentando Bianca) — 10 hay el grande onor de presentar a Usted mia señora... Muserolle (stupefatto) — Come dite? 11 Marchese — E1 sol de mia casa... (A Bianca) Como, querida!... el café diventa frío... Bianca (tra sé) — Questo incontro proprio non ci voleva! {Esce con il Marchese). Muserolle (solo) — Sua moglie!... io sono ancora vivo e lui la chiama sua moglie! Questo è un po’ troppo! Mi precipito al Commissariato di polizia. (Si abbottona come se volesse uscire. Poi, si ferma a riflettere) No, mi obbligherebbero a riprenderla in casa... Un momento! (Appare Gargaret, che ha in mano l’estremità di un nastro metrico. L’altra estremità del metro è tenuta da Alberto che rimane così fra le quinte). Gargaret (misura) — Sette metri e venti centi- metri. Voce di Alberto (lontana) — Tirate, tirate più forte ! EUGÈNE LABICHE Gargaret — Ecco... (A Muserolle) Ho deciso di assi curarmi contro gli incendi. E allora, questa tua famosa pista?... L’hai trovata? Naturalmente, non hai trovato nulla... Lo sapevo che non avresti tro vato nulla... mia moglie è una donna onesta. Muserolle (distratto) — Donne oneste non esistono. Si è rimaritata... Gargaret — Mia moglie si è rimaritata? Muserolle — Ma lasciami stare con tua moglie. Gargaret — Ma come?... mi abbandoni, dopo il ser vizio, dopo l'immenso servizio, che ti ho reso? Muserolle — Capisco la tua legittima impazienza, Gargaret, ma dopo il guaio che mi è capitato sulla testa... Ma mi occuperò ancora di te, non appena mi sarà possibile. (Gli dà un biglietto) Per comin ciare, tieni questo... È tutto quello che momenta neamente posso fare per te. Certo, speravo di me glio; di molto meglio... Ma è un primo passo... Il resto verrà... Gargaret — Cos’è questo biglietto? Muserolle — Un messaggio d’amore indirizzato... Gargaret — A mia moglie?... e il giorno stesso delle nozze?... (Rotola in fretta il metro) Voglio leggerlo subito ! Voce di Alberto — Andiamo, cosa fate? Gargaret (esitando) — Un momento... (Si lascia trascinare dal nastro metrico che Alberto tira a sé) Lo leggerò di là... (Esce trascinato dal nastro). Muserolle — Certo... io non sono di quelli che abbandonano gli amici... Ma diavolo !... quando si ritrova la propria moglie maritata ad un altro ché faccia tosta... e che spalle... si è deliziosamente ingrassata... E diventata appetitosa... Non è certa mente per me che sarebbe diventata grassottella.... Era così orribilmente magra, quando viveva con me... era la mia disperazione... Dupaillon (entra misteriosamente e si avvicina in fretta) — È proprio voi che sto cercando, signore... Muserolle — Cercate me? Dupaillon — Sì, signore, voi... Ho commesso l’im prudenza di insinuare un biglietto in un bastone animato. Muserolle — Ah! siete voi! Dupaillon — Io sono innamorato della marchesa ! Muserolle — Siete innamorato della marchesa e venite a raccontarlo proprio a me? Dupaillon — A voi, che cosa può importare?... La conoscete da qualche minuto appena... Muserolle — Da qualche minuto appena? Dupaillon — Voglio dire: voi non siete suo marito. Quindi la cosa non vi interessa. Muserolle — Sì... no... Dupaillon — Perciò vi dico una cosa... Se pronun ciate una sola parola, ima sola che possa compro mettere la reputazione della marchesa Bianca... Muserolle — Vi proibisco di chiamarla « Bianca » con quella familiarità... Dupaillon — Come volete... chiamiamola soltanto marchesa. Muserolle — Preferisco. Dupaillon — Se dite una sola parola, due palle nello stomaco non ve le toglie nessuno. E vi avverto che io non scherzo. Capito? Muserolle — D’accordo... (Tra sé) In fondo, faccio un buon affare. Dal momento che Bianca ha spo sato il marchese, tocca al marchese pensare a queste cose. Io non ho il diritto di battermi in duello per una moglie che ha preferito diventare la moglie di un altro... E io che ho dato quel biglietto a Gargaret! Dupaillon — Allora che cosa avete deciso? Muserolle — Continuo ad essere della mia opi nione... Bisogna dirlo... ma non lo dirò. Dupaillon (ringraziando) — Grazie, signore. Muserolle — Sono un uomo di mondo. Dupaillon — Allora mi promettete il segreto, il massimo segreto? Muserolle — Il massimo segreto... Adesso trovo che la cosa è divertente! (Ride) Quel povero mar chese! E dire che è una così brava persona! Dupaillon (ridendo) — Questo è vero! Muserolle — Una bella testa, calva... tutta già pronta per la semina... I l Marchese (entra dalla porta di fondo) — Que allegrias!... Io soy mucho contientos... de vedere vuestra allegrias... Muserolle — Grande allegria !... I l Marchese — Cosa es arrivado de mucho allegros? Muserolle — Niente... sono certo che la cosa non vi divertirebbe. I l Marchese — Habla... habla amigos... Dupaillon — Stavamo redigendo una specie di sciarada. I l Marchese — Habla habla... mi soy mucho fuerte... in sciarada. Muserolle — Ecco... Il mio primiero è una lettera dell'alfabeto. Dupaillon ( tra sé) — Il b. I l Marchese — Vamos... habla... Muserolle — Il secondo è una esclamazione. Dupaillon (tra sé) — Ecco... becco... I l Marchese — Habla el todos... Muserolle — Il tutto... domandate al signor Du paillon... è il più adatto di tutti per dirvelo. (Tra sé) Bisogna che io vada a tranquillizzare Gargaret. (Ad alta voce, al Marchese) Non lo indovinerete mai, vedrete! (Esce). I l Marchese — Vamos veder... Habla Dupaillon... 10 que es el todos... il tutto? Dupaillon (tra sé) — Mi lascia qui con una scia rada sulle braccia. Il tutto è il suo contrario : umi do (Esce). 11 Marchese (solo) — Es darò corno el sol... La lettera es « S »... l'exclamaziones es « ecco ». Il todos es « secco », il contrario de umidos, de bagna- dos... Io soy fuertissimo in enigmisticas... Ma chiero veder Bianca por hablar de cosas mucho impor- tantes... Bianca (entra dalla destra) — Ah! siete voi, mio caro? I l Marchese (fa sedere Bianca sul divano) — Sì, my querida... Nuestra nipotinas es contienta, fe lice... L’amor es la cosa mas delicia du mundo... Ora che nuestra nipotinas es maridada, mi viene unas ideas ! Bianca - Quale idea? I l Marchese — Nos dueos necessita regolarisar nue- stro amor... Yo soy sposo de factos, ma non de dirittos... Bianca — Zitto, ammiraglio... Guai se vi sentissero ! I l Marchese — Yo soy convinto che el cielo no has benedettos nostra uniones porqué non es una uniones legai, legittimas. Bianca — Non credo affatto che questo possa avere un'influenza qualsiasi. I l Marchese — Bianca, my querida... Porqué està esitaciones che dura da tanti agnos?... undici agnos?... Es undici agnos fa, che io te ho incon trada, o enoantadora... là... a Mosquitos... la capitai del Parazuela... Tu eri venutas a Mosquito por dar leziones de pianofuertes a un duros, alla oras... Bianca — Dopo aver studiato al Conservatorio, le sventure, che avevano colpito la mia famiglia, mi avevano costretta a guadagnare la mia vita al l’estero, dando delle modeste lezioni di piano. I l Marchese — Io se... Fu alloras che colpitos da tua beltada, io te he domandado de danne delle leziones de pianofuertes... a due duros alla oras. Bianca — Non dimenticherò mai che siete stato così generoso con me! I l Marchese — Dolce recuerdos... Nuestras manos se incontravan sur el avorio immacolatos de las tastieras... Nuestras piedos se incontravan sur el pedal del silencio... Tua boccas ridevas... Poi tu gridavis siempre... Bianca — Ricordo... avevate dei grossi stivali che mi facevano male! I l Marchese — Que oras plenas de poesias, oras de incanto, de suegnos... Tu me dito stare ancora segnoritas... Bianca — Sì... I l Marchese — Che el tuo corazon liberos... che tua manos liberas... Tu corazon es mio, después, e por siempre... ma tua manos? Io chiero tua manos, Bianca... Bianca — Un giorno, forse... Non c’è fretta... (Tra sé). E Muserolle, dove lo metto? I l Marchese — Siempre rimandar a più tardes... Bianca, me viene el suspectos... Qualche volta, pienso che fuerse tu hai dado ad un altros el tuo corazon... E allora diviento furibondos... (Tos sisce) No es nientes... el stuzzicadientes... Bianca — Ammiraglio, non dite così... mi spezzate il cuore! I vostri sospetti mi fanno male, tanto male!... I l Marchese — Bianca, te chiero perdono... Le mias son bestemmias e yo soy el assassino del tuo co razon... (Tossisce ancora più violentemente) Bianca tu es mia sposa. Bianca (imbarazzata) — Ci penso spesso... lo vorrei tanto... ma ci vuole il consenso della mia famiglia. I l Marchese — Vamos, Bianca, non es verdad... Bianca — In Francia, non è come al Parazuela, caro ammiraglio... Al Parazuela, secondo quanto mi avete detto, ci si sposa senza cerimonie, sotto un palmizio. E tutto è fatto. I l Marchese — Al Parazuela, el matrimonio es ancora plus semplices... Se marida anche senza il SI DEVE DIRE? palmizios... Ma io soy stanco de esta vida irregu lares... Io essere tuo sposo querido... Te do tiempos fino a domani... Bianca, piensa a mi felicidad! (Si accinge ad uscire). Bianca — Ammiraglio... I l Marchese — Fino a domani... e alla mañana... Bianca — Ammiraglio... ascoltate ! (Il Marchese, senza rispondere, esce dal fondo, maestosamente). Bianca (sola) — Fino a domani mattina... E l’altro?... 10 lo credevo perduto, scomparso per sempre, morto!... E, invece, mi ritorna davanti agli occhi, più aspro e più ostile che mai! Mi domanderà certamente delle spiegazioni, tanto più che il mar chese mi ha presentato a tutti come sua moglie. (Si appoggia ad un mobile, a sinistra). Muserolle (entra dalla sinistra e dice tra sé) — Ho rassicurato provvisoriamente Gargaret. Ma tor nerò all’assalto. Bianca (vedendo Muserolle) — Lui! Muserolle (vedendo Bianca) — Lei! (Sorride) Com portiamoci come si sarebbe comportato un re... il Re Sole per esempio! (Ad alta voce) Signora mar chesa, io benedico questa occasione propizia che mi consente di dirvi tutta la mia ammirazione! (Tra sé) È diventata magnifica. Bianca — Signore, io non so che cosa pensate in questo momento di me... Muserolle — Penso che godete ottima salute e che... (Con galanteria) Siete molto attraente così. Bianca — Il marchese poco fa vi ha dato una notizia. Muserolle — Sì, una notizia che mi ha riempito di gioia. Bianca (stupita) — Davvero? Muserolle — Preferisco... La cosa non mi interessa assolutamente più. Bianca — Come non vi interessa più? Muserolle — Tocca al marchese passare i guai e assumere le responsabilità, dal momento che por tate il suo nome. Io non c’entro più. Bianca — Mi pare che prendete la cosa con molta disinvoltura ; troppo allegramente, forse, per un gentiluomo. Muserolle — Anzi, se debbo essere del tutto sincero, vi dirò che, guardandovi attentamente, mi sono sentito invaso da un vivo desiderio... Bianca — Cosa? Muserolle — Non so come spiegarvelo... Sapete, ci sono dei libri che si leggono quando si è giovani... Poi, non si leggono più... Giunti all’età matura, ci si dice : perché non rileggere quei libri ancora una volta?... Bianca — Vi prego di tacere immediatamente! Muserolle — Come? Avete già capito? Bianca — Perché, credete che in questo tempo sia diventata stupida? Muserolle — Bianca, io vi trovo bellissima... Non vi pare che sarebbe molto bello rileggere, insieme, 11 libro della nostra giovinezza? Vi piace sempre lo sciampagna? Bianca — Come? Vorreste ricominciare la vostra vita con me? Muserolle — Nemmeno per sogno! EUGÈNE LABICHE Bianca — Ma allora... con chi credete di parlare? Uscite, signore! Muserolle — Ah! no... non bisogna mica recitarmi la commedia della gran dama offesa... Io sono Muserolle... forse, lo avete dimenticato... Quello del « Naufragio della Medusa »... Bianca — Riconoscerete almeno come il vostro modo di esprimervi sia volgare e banale? Muserolle — Spero non avrete dimenticato che siamo due vecchie conoscenze! (Gli prende la mano) In fondo, potrei avvalermi dei miei titoli... (iGuarda la mano di Bianca) Come? Avete ancora l’anello che vi avevo regalato io? Bianca — Sì, l’ho conservato... Vi dispiace? Muserolle — No, ma perché portarlo? Bianca — Perché? Muserolle — C’è inciso il mio nome, su quell’anello. Ed è perfettamente inutile costringere quell’anello ad assistere a tutte le... fragilità della vostra nuova vita! Bianca — Sapete... non tengo affatto a quell’anello. Muserolle — Allora, restituitemelo. Bianca — Volentieri. (Fa vani sforzi per tirar fuori l’anello dal dito) Vedete?... Non esce... Muserolle — Aspettate, vi aiuto... (Tira con tutte le sue forze, ma l’anello non cede. Con ammira zione) È meraviglioso... come vi siete ingrassata... dappertutto... anche nelle dita... è meraviglioso ! Bianca — Non è colpa mia ! Muserolle — L’anello è ormai incorporato alla vostra mano... alle vostre belle mani... Ma con un po’ di buona volontà... (Tira di nuovo). I l Marchese (entra e vede la scena) — Carambas! Tradimientos ! Bianca (ritira rapidamente la mano e dice a Muse rolle) — Imprudente! Muserolle (tra sé) — Il marito! Bianca (al Marchese) — Venite, ammiraglio, forse è necessario! I l Marchese — Es verdad... Avevo avudo la impres- sion... la catastrofica impression... Bianca — Il signor Muserolle ha la pretesa di saper leggere le linee della mano e stava scru tando il mio avvenire. Muserolle — Francamente... io... (Tra sé) È vera mente sempre piena di trovate quando si tratta di faccende simili. I l Marchese (tra sé) — Està es burlettas... (Ad alta voce, a Muserolle, e offrendo la mano) Ebbene, vamos legger la fadalidad! Muserolle (tra sé) — Ahi... (Ad alta voce) Eccomi a voi, marchese... (Guarda la mano) Ecco, ben marcata, la linea della bontà. I l Marchese — Errores... io no soy bueno... io soy terribles... Muserolle — E, poi, quella dell’onestà... lì... di sbieco... Ed ecco la linea dello spirito che si con giunge con tutte le altre. I l Marchese — Insomma es come le lineas del ferrocaril... del trenos... Muserolle — Sì, ammiraglio. I l Marchese (ritirando bruscamente la mano) — Es bueno... E ahoras, vias!... vai vias... Andas... an das! Muserolle — Ma ammiraglio... I l Marchese (battendo il piede per terra, militar mente) — Ho detto andas ! L’ammiraglios ha detto andas ! Muserolle — Sì, ammiraglio... (A Bianca) Signora... (Tra sé) Indubbiamente ha dei sospetti... I l Marchese — Ancoras aquí?... Andas! Muserolle — Continuo a sospettare che abbia dei sospetti! (Esce) Signora... signor ammiraglio... vi prego di gradire i miei omaggi più rispettosi... (Esce). I l Marchese (scattando) — Finalmientes... Señora, datemi l’anellos que il vuestro querido... il vuestro amantes... vi ha messo nel ditos. Bianca — Che cosa? I l Marchese — E1 marquis de Pappaguanos ha buena vista e ha tuttos vedutos. Voglio l’aniellos... Bianca (porgendo la mano) — Prendetelo, se ci riuscite. I l Marchese — Vamos veder... (Fa sforzi per riti rare l’anello) Caramba... Malediziones... esto aniel- los es incrustados... Dove es mi sciabolas?... Bianca (ritirando la mano) — Ah! no, ammiraglio, questo no!... Se il signor Muserolle mi avesse rega lato quest’anello qualche minuto fa, l’anello usci rebbe subito dal dito. I l Marchese — Es verdad... Bianca (con dignità) — Questo anello è un caro ricordo di famiglia! I l Marchese — Ma alloras porqué Muserolle ve stringevas la manos con tanta familiaridad... Por qué? Bianca — Il signor Muserolle è un parente... uno zio... I l Marchese — Uno zios? Bianca — Il fratello di mia madre. I l Marchese — Mai hablato de esto hermanos. Bianca — Mai... Mi aveva tanto raccomandato di non farlo. (Sottovoce) Ha delle ragioni per nascon dersi. I l Marchese — Esta razón. Bianca — Delle ragioni... come dire?... Superiori- Capite? I l Marchese — Perfettamientes. Bianca — Vi prego di rispettarlo e di amarlo... E tutto quello che rimane della mia povera famiglia. I l Marchese — Todos que resta de vuestras fami- glias?... Hay un’ideas. Bianca (inquieta) — Quale idea? I l Marchese — Vamos veder... Bianca — Mi spaventano sempre un poco, le vostre idee!... Allora, a fra poco... (Tra sé) Come fare per avvertire Muserolle? (Esce). I l Marchese (si avvicina al caminetto e suona il campanello). I l domestico (appare) — Signore... I l Marchese — Vertos en señor Muserolle de sta un momento qui. (Il domestico esce. Il Marchese è allegrissimo) Gli domanderò senz’altro la mano di sua nipote... Sua nipote... La mano di sua nipote !... Muserolle (entra diffidente) — Desideravate dirmi qualcosa, ammiraglio? I l Marchese — Sì, caro e vecchios Muserolle... amigos ! Muserolle — Cosa? I l Marchese — lo conoscos i legamis che ve tien- gono unidos a Bianca... Muserolle (stupito) — Ma come? Vi ha detto? I l Marchese — Todos... e io ve chiero... vi amos come un vecchio zios... Muserolle — Perché, poi, come uno zio ? (Il Mar chese l'abbraccia. Tra sé) In fondo è un brav’uomo e non è geloso del suo predecessore... Ma mi ha letteralmente inzuppato la faccia! I l Marchese — Voi, conosciento Bianca... Muserolle — Sì e un po’ prima di voi. I l Marchese — Povera muchachas !... io la he trasci- nadas neH’abissos... nella verguenza! Muserolle — Certo, siete stati un po’ leggerini tutti e due... Per lo meno, finché ero vivo io, bisognava fare le cose con maggiore precauzione... Badate, che non è un rimprovero che vi faccio... I l Marchese — Ma io sov pronto a riparar mi tuer- tos... mi colpas... Muserolle (tra sé) — Non vorrei che finisse coll’of- frirmi una somma, a titolo di indennità coniugale... La rifiuterei con sdegno... A meno che, beninteso, non si tratti di una somma ragguardevole. Sen tiamo. I l Marchese (commosso) — Amigos, mi grande amigos... Muserolle — Vi ascolto... I l Marchese — In nome de los cielos, vi prego de accordarme la manos de Bianca... Muserolle — La mano di Bianca? I l Marchese — Io sarò orgogliosos, fieros, de dare a Bianca el nome dei Pappaguanos. Muserolle (scattando) — Ma come? Non siete già sposati? I l Marchese — No, senor... Muserolle (va e viene lungo la ribalta, irritatis simo) — Ma allora è un’altra cosa... Sono io che ho ancora tutte le responsabilità? I l Marchese — Cosa es esta responsabilidad? Muserolle — Il cancelliere, quel vecchio imbecille... I l Marchese — Usted no es contientos... Muserolle — No, non sono contientos... non sono affatto contientos... E voi, al mio posto, lo sareste, contientos?... Finché eravate solo voi, trovavo la cosa quasi divertente, ma adesso... Sentite, bisogna che sorvegliate Bianca più attentamente... Lo vo glio... lo esigo... I l Marchese — Cosa? Muserolle — Sia detto amichevolmente fra noi, voi non la vigilate abbastanza. Non voglio dir male di Bianca, della nostra cara Bianca, ma è una donna di opinione... diciamo così... mutevole... I l Marchese — Mutevoles... Muserolle — E già... talvolta svolazza... I l Marchese — Non compriendo. Muserolle — Insomma ha delle storie... Oggi, que sto... domani un altro. I l Marchese (fuori di sé e passeggiando nervosa- SI DEVE DIRE? mente) — Bianca, mi alma, mi corazón!... (Afferra Muserolte per il colletto). Señor, es calunnias... sporcas calunnias. Chiero la pruevas... la pruevas... Muserolle — Non mettetevi in collera. Fra tre mi nuti, ne avrete una di prove... I l Marchese — Bueno... voy aspettar... Ma recuerda, zios, se fra tre minutias, no hay la pruevas... Usted farà la conoscenzias con el marquis de Pappa guanos. Io soy terrible, so el terror del Parazuela... Que oras? Muserolle (tirando fuori l’orologio) — Le cinque meno sette. I l Marchese — Usted ha detto tre minutias. Fra tre minutias... soy acqui... El marquis de Pappa guanos non scherzias, señor (Esce). Muserolle (solo) — Delle prove?... È semplicis simo... ridomanderò a Gargaret il biglietto. Alberto (entra, ha un taccuino in mano ed è seguito da Gargaret) — L’inventario di valutazione è ter minato. Gargaret (allegro) — Adesso, posso tranquillamente bruciare la casa di tutti i miei vicini. Alberto, quand’è che mi mandi la polizza? Alberto — Quando vuoi... anche domani? Muserolle (stupito) — Ma come? Vi date del tu? Gargaret (a Muserolle) — Sì, figurati che, facendo insieme l’inventario, ci siamo accorti che eravamo parenti. Alberto — Cugini di secondo grado. Gargaret — E siccome tra cugini di secondo grado, ci si dà del tu, io gli ho detto: « Vuoi che ci diamo del tu? ». Mi ha risposto : « Se ti fa piacere ». Muserolle — È commovente la vostra storia. (Tra sé e indicando Alberto) Bisognerà sorvegliare quel giovanotto ! (A Gargaret) Ridammi un po’ quel biglietto che ti ho dato poco fa. Gargaret — Il biglietto? Cosa vuoi fame? Muserolle — Ne ho bisogno. Gargaret — Non l’ho più. (Tra sé) Siccome si trat tava di mia zia, l’ho bmciato. Muserolle — L’hai bmciato?... Disgraziato! E adesso come faccio? Bianca (entra, insieme a tutti gli altri) — Deliziosa giornata!... E le ombre del giardino sono così fresche ! Gargaret e Lucia — È vero ! I l Marchese (si avvicina a Muserolle e gli mostra l'orologio) — Non manca che il terzo minutos... Dove sono le vostre pruevas? Muserolle (sottovoce) — Desolato... ma le hanno bruciate. I l Marchese (furibondo) — Muy bien... Domani alle cincos oras, Usted riceverà mi padrinos. Muserolle — Alle cinque del mattino? Non sono mai sveglio a quell’ora. I l Marchese (allontanandosi) — Deliziosas gior- natas... E las ombras del giardinos soy frescas... molto frescas... Dupaillon (entra dalla sinistra e si avvicina in fretta a Muserolle, dicendogli sottovoce) — Signore, credevo che foste un gentiluomo... Domattina, alle cinque, riceverete i miei testimoni ! (Ad alta voce) EUGÈNE LABICHE Deliziosa giornata... E le ombre del giardino sono così fresche! (Si allontana). Muserolle (tra sé) — Due duelli? Mia moglie mi sta annoiando con la sua collezione di ammiratori. (Sottovoce a Bianca) Vado dal commissario di polizia a far constatare l’adulterio. È più spiccio. Bianca — Mascalzone! Domestico (annunciando) — La signora è servita! Bianca (sottovoce, a Muserolle) — Il marchese si corica alle otto e mezzo. Venite questa sera verso le nove. Muserolle (guardando Bianca con tenerezza) — Ci sarò, cara... (Tra sé e con entusiasmo) Da quando è ingrassata è meravigliosa! (Il marchese esce dal fondo, dando il braccio a Bianca. Dupaillon li segue). Gargaret (ad Alberto) — Alberto, dà il braccio a mia moglie. (Alberto dà il braccio a Lucia ed esce con tei. Gargaret mostra a Muserolle, Alberto che esce insieme a Lucia) Quello sì che è un amico... un vero amico... Mi ha promesso che, se si accorge della minima infedeltà di mia moglie, corre a dirmelo. Non farà come te che, all’ultimo momento, ti sei sgonfiato! A tto ter%o ~ L’ufficio di Gargaret. In fondo, una vetrata con tendaggi verdi e una porta che conduce nei magaz zini. Porte laterali in terzo piano. A sinistra, un caminetto. Egualmente a sinistra, un armadio. A destra, in secondo piano, un’altra porta. Ancora a destra, in primo piano, un tavolo, ricoperto da un tappeto verde. Sul tavolo, il necessario per scrivere. Vicino al tavolo, in fondo, un copialettere. AU’alzarsi del sipario, il commesso Domenico è vicino al copialettere e sta lavorando. Voce (dall'interno) — Domenico... Domenico... Muserolle (che sta scrivendo, seduto al tavolo) — Non sentite che vi chiamano? Domenico — Sto copiando delle lettere... Voce (dall'interno) — Domenico... Domenico... Domenico — Eccomi... Non posso fare due cose in una volta. (Esce, dopo aver rimesso a posto il copialettere). Muserolle (solo, si alza dal tavolo e agita in aria la lettera che ha scritto, per far asciugare l’inchio stro) — Non è ancora asciutto!... Mfi aveva detto: « Metto il marchese a letto verso le otto e mezzo e voi potete venire verso le nove ». Allora ho com perato un cappello nuovo... Ognuno ha il suo amor proprio... Sono andato all’appuntamento e... A me non piace compromettere le donne... (Sorride) È stata molto gentile... gentilissima... Abbiamo preso il tè insieme... fino alle due del mattino... e abbiamo chiacchierato... chiacchierato come una volta... È veramente una donna deliziosa!... (Ride) Povero marchese! Bianca mi ha fatto promettere di non rivelare, a nessuno, il segreto del nostro matri monio... ho promesso subito... tanto più che questo segreto conviene perfettamente anche a me... Una sola nuvola, in quella serata deliziosa... ho perduto il mio coltello... è una cosa cui tengo moltissimo... Andrò a cercarlo questa sera... Ho scritto due righe a Bianca... due righe scherzose per avvertirla della mia visita... (Legge la lettera) « Mia dolce polla- strina... hai trovato per caso, nella tua camera da letto, un coltello a molti usi, con una sega, una lima e un cavaturaccioli? ». Voce del Marchese (dalle quinte) — Es en el uffi- cios?... muy bien... Muserolle — Il marchese!... Nascondiamo subito la lettera... (Si guarda intorno e, scorgendo il copia- lettere, mette la lettera fra le altre. Tra sé) — Ecco il marchese! Non c’era più tempo da perdere. I l Marchese (entra dal fondo. Ha in mano la commenda del Condor Blu e si avvicina a Muse rolle, sorridendo). Muserolle (scorgendo la decorazione e tra sé) — Ha portato la patacca del Condor Blu... Non perde tempo. I l Marchese (a Muserolle, con enfasi) — Señor... 10 he oonoscido vuestra nobiltad. Usted, es muy degno del Condor Blu del Parazuela... Io hay el onor de consegnar à Usted esta decorazion... (Attacca la commenda all’occhiello della giacca di Muserolle). Muserolle — Siete davvero gentile... Io sono ono rato... 11 Marchese — Cinquanta francos... es la tariffas... Muserolle — Cinquanta franchi?... Ebbene, ecco cinquanta franchi, che non rimpiangerò davvero di aver spesi... (Si fruga in tasca) Diamine... scusate, ammiraglio... ho dimenticato il portafoglio a casa. I l Marchese (in collera) — Naturalmientes... como los otros... como todos los otros... (Riprende la deco razione, strappandola dal petto di Muserolle) Ami gos, hableremo de esta facienda una otra voltas... Hablamos de nuestra pequeña discussion... La señora marquesa me ha tutto spiegatos..., Muserolle (stupito) — La marchesa vi ha detto?... I l Marchese — La marchesa me ha confessado todo che Usted ha fatto... Io stessos non avrei agito diversamiente. Muserolle — Marchese! I l Marchese — Nella vida es circostancias special... la denuncias puede devenir un acto de eroismos... de devozion... Muserolle — Marchese! quale altezza di senti menti! (Si inchina) Ma che cosa gli avrà mai detto? I l Marchese — Priesto... hablamos de nuestri affari privados... Io sposo Bianca e Usted sarà mio testi moniantes... Muserolle — Io? I l Marchese — Usted. Come Usted vamo far rega- lettos a mia sposa. Muserolle — Io? I l Marchese — Sì, señor..., como zio... Muserolle — Ma come? Vi ha detto?... I l Marchese — Riesta tranquillo, Muserolle... io non farò tradimientos... Bianca me ha confessado la razón che ve dà obbligazione de nasconderves... Quanto al regalettos, caro Muserolle, niente follias. Es bastante el tradizional mazzolinos de flor de arancios... Muserolle —■ Certamente... I l Marchese — Col solito mazzolinos de diaman tes... La marquesa no pretiende altros... Muserolle — E sta bene, avrà i diamanti... ma il giorno del matrimonio soltanto. Non un giorno prima... Giulietta (entrando) — Signor marchese... I l Marchese — Cosa està muchachita ? Giulietta — Il cameriere del signor marchese desi dera conferire immediatamente col signor mar chese... Dice che si tratta di cosa molto urgente. I l Marchese — Urgientes... certamientes una ordi- nazion de guanos in grande quantitad... (A Muse rolle) Voi me escusate un momientos... Muserolle — Ve ne prego, marchese... ve ne prego... I l Marchese — Hablo e tomo immediatamientes... (Esce, seguito da Giulietta). Muserolle (solo) — Adesso mi spaccia per suo zio... il che mi permette di entrare da lei quando voglio... Furba, Bianca, molto furba... ma il col- petto dei diamanti è un po’ troppo... gliene parlerò questa sera... A proposito, ho dimenticato la mia lettera... (Ritira la lettera dal copialettere). Alberto (fra le quinte) — Ci vado subito. Muserolle ■— Accidenti!... Ancora gente... La spe dirò più tardi. (Pone la lettera, piegata in quattro, nella tasca del gilé. Alberto entra, da sinistra. È a testa nuda, ha dei documenti in mano e una penna infilata dietro l’orecchio). Alberto (avvicinandosi al tavolo e canticchiando) — Lalà... lalalà... lalà. Muserolle — Ah! eccovi, dunque, diventato ospite preferito del signor Gargaret! Alberto (sedendosi al tavolo) — Ebbene, sì... lalà... lalalà... lalà... Muserolle — Siete anche il suo uomo di fiducia, naturalmente ! Alberto — Sì, sono il suo uomo di fiducia... lalà... lalalà... lalà... Muserolle — Certo, per voi, è molto comodo... lalà... lalalà... lalà... alloggio, vitto e riscaldamento... comodissimo... Alberto — Perché comodissimo? Muserolle — Oh! così... per niente... (Canticchia). Alberto (alzandosi) — Spero, signore, che voi non mi fate l’ingiuria di supporre che... Muserolle (alzandosi) — Ma io non suppongo pro prio nulla... sono certo... certissimo... Alberto — Ma certissimo... di che? Muserolle — Voi fate la corte alla signora Gar garet. Alberto (simulando la più viva indignazione) — Io?... ah ! questo poi... Voi vi ingannate, signore... vi ingan nate grossolanamente... Io non provo, per la signora Gargaret, che un profondo sentimento di rispetto... e ho per il marito, per il signor Gargaret, un affetto così devoto che ogni sospetto diventa ingiurioso. Muserolle — Conosco queste belle frasi... le hanno dette anche a me... Guardate... non voglio pren dervi alle spalle... pugnalarvi alla schiena... Voglio essere leale con voi... Io sono stato incaricato di sorprendervi... Alberto — Sorprendermi? Muserolle — Insomma... di cogliervi in flagrante SI DEVE DIRE? colloquio con la signora Gargaret... Una specie di missione, la mia... Alberto — Congratulazioni... e poi? Muserolle — E appena vi avrò preso in flagrante, debbo denunciarvi a Gargaret! Alberto — Di bene in meglio... soltanto, c’è un piccolo intoppo alla vostra bella missione. Non riu scirete mai a prendermi in flagrante. Muserolle — Io dico di sì... Alberto — E io dico di no. Muserolle — Non mi conoscete... mi troverete dap pertutto: negli armadi, nelle dispense, nei cami netti, nei libri, se necessario. Alberto (ironico) — E nelle tabacchiere, no? (Tra sé) Ma come farò a liberarmi di questa sangui suga? (Ad alta voce) In ogni modo, grazie dell’av vertimento... Siete stato molto leale. Muserolle — La mia lealtà non basterà per sal varvi... L’amore è come il muschio... quando uno ce l’ha addosso, non lo può nascondere. Alberto — Ah! Muserolle — Cosa dite? Alberto — Niente! (Tra sé) È un’idea e, forse, una buona idea! Gargaret (entra dal fondo con una cassetta fra le mani) — Buongiorno, Muserolle. Alberto... una cas setta-campione da spedire subito, a grande velocità ! Alberto (prende la cassetta) — Benissimo. Gargaret — È venuto il postino? Alberto — No. Gargaret — Aspetto una lettera di Cheradam, da Nantes. Mi ha scritto : « Manda subito 500 chili candele ». Gliele mando e gli scrivo : « Manda su bito il denaro ». E quel cretino non mi risponde più... Alberto — Certamente, un ritardo... Gargaret (a Muserolle) — E tu... sei rientrato molto tardi, questa notte! Muserolle (imbarazzato) — Sì, sono rimasto fuori a prendere un po’ d’aria... la notte... si sta così bene fuori, la notte! (Sternuta) Ahi! mi sono raf freddato... Alberto (a Gargaret) — Ho esaminato la corrispon denza... tutti si lamentano della cattiva qualità delle tue candele... dicono che le tue candele sgoc ciolano... Gargaret — E, tu, che cosa hai risposto? Alberto — Che quando una candela sgocciola, è segno che è di ottima qualità. Solo le candele di cattiva qualità, non sgocciolano. Gargaret — Benissimo... sei veramente un amico, un amico intelligente e disinteressato... Leggi la mia corrispondenza, tieni in ordine i miei conti e che cosa pretendi, come stipendio?... Nulla. Nemmeno un soldo... una semplice stretta di mano... (Com mosso) Vuoi un piccolo aumento? Alberto — Sì, caro... voglio due strette di mano, invece di una sola! Gargaret — Eccole, mio caro amico! (Si stringono le mani). Muserolle (tra sé) — Sono stato cieco ed ingenuo anch’io, ma non fino a questo punto ! Gargaret — Ma caro Alberto, io non sono affatto EUGÈNE LABICHE un ingrato e sto ruminando un certo progettino che se riesce... I l Marchese (entra dal fondo, tutto sconvolto, e dice a Gargaret e a Muserolle) — Es necessario hablar immediatamientes e senza testimonianzas... Muserolle (tra sé) — Cosa sarà successo? I l Marchese (ad Alberto) — Usted non puede ascol tar... es confìdenzial. Gargaret (ad Alberto) — Va’ a spedire la cassetta. Alberto (prendendo la cassetta , ed allontanandosi) — Subito! (Tra sé, guardando Muserolle) Vecchio mascalzone, vuoi prendermi in flagrante, eh? I l Marchese — Mi grande amigos. Alberto (uscendo) — Vado subito dal farmacista. Gargaret (al Marchese) — Allora, cosa succede ? I l Marchese — Es venuto el momiento fatal... Mu serolle, Usted aveva razon.... Bianca es come una farfallas... Muserolle — Ancora? I l Marchese •—■ Non compriendo... porqué « ancora »? Muserolle — Volevo dire : ancora dei sospetti ! I l Marchese — Esta volta, soy siguro de la verdad 1 Gargaret (tra sé) — Che famiglia... mio Dio... I l Marchese — Vosotros siete parientes... amigos... 10 ve devo domandar... Muserolle — Di farvi da testimoni? 11 Marchese — No, io non voglio battermi a l’espada... Gargaret (stupito) — Ah! I l Marchese — Mia intenzion es matar el nemigo come un cagnolito... bau bau... pum pum... Muserolle — Ma è proibito da noi. I l Marchese — Io soy ambassador del Parazuela... Ninguno me puede arrestar... Soi inviolabiles... Muserolle — Certo... E conoscete il colpevole? I l Marchese — Non lo tiengos ancora... ma cuento su vosotros per escobrirlo... El delinquente non se diffiderà abbastanzas de vosotros... e quando voso tros avrete scobiertos el delinquentes venite subito a dirmelos... Muserolle — D’accordo. I l Marchese — Fate giuramientos ! Gargaret (stendendo la mano) — Giuro! Muserolle (stendendo la mano a sua volta) — Giuro ! I l Marchese — E ahora, qualcosa che podrà aiu- tarve mucho... ima cosa de appartenienza al bri- gantes e che la cambrera a trovados nella camera de Bianca... (Tira fuori il coltello a molti usi) Un coltello... Ecco, amigos... Muserolle (tra sé) — Il mio coltello! Gargaret (esaminando il coltello) — Ma è il coltello ! Muserolle (con vivacità e prendendo il coltello dalle mani del marchese) — Ma questo è un col tello spagnolo... Voi dovete cercare il colpevole all'estero... I l Marchese (esaminando la lama) — Hai scrittos qualcosas sulla lama... Muserolle (con serietà) — Certamente... uno scritto in spagnolo... I l Marchese (legge) — Dupont, via Vivienne, Parigi... El nome del fabbricantes... Vado subito a trovarlos... (Si dirige verso il fondo). Gargaret (tra sé) — E con tutte queste storie, della dote, non se ne parla affatto... (Ad alta voce) Dite un po’, marchese, e questa dote? I l Marchese — No hai tiempos... no hai tiempos... (Esce). Muserolle (tra sé) — Ho comprato quel coltello, esattamente, quattordici anni fa... Non ho nulla da temere... Gargaret — Ma dunque è vero... tu... con mia zia... Muserolle — Non devi assolutamente immaginarti quello che non esiste... Tra me e tua zia, non c’è nulla ! Gargaret — Se non c’è nulla, bisogna dirlo al mar chese. Muserolle — Non lo fare per carità! Gargaret — Allora è segno che c’è qualche cosa. E se c’è qualche cosa, bisogna lo stesso andarlo a dire al marchese. Lo abbiamo giurato... Muserolle — Sai... quella specie di giuramento... Gargaret — Caro Muserolle, sono tutto d’un pezzo, io... quando tua moglie ti ha... io te l'ho detto subito. E adesso che si tratta dell’onore della mia famiglia, vuoi che io stia zitto? Muserolle — Prima di tutto, non so perché ti im picci di queste cose... E poi, Bianca non è affatto la moglie del marchese. Gargaret — Come? Non sono sposati? Muserolle — No! Gargaret — Che famiglia! Accidenti che famiglia! Ma tu come fai a sapere che Bianca non è sua moglie? Muserolle (senza controllarsi) — Diamine!... è la mia ! Gargaret — Tua moglie?... Bianca è tua moglie? Muserolle — Oramai mi è scappata! Tanto peggio! Gargaret — Quella che era al ristorante con un no taio? Muserolle — La stessa ! Gargaret — Che famiglia! Accidenti che famiglia! Ma allora perché non te la riprendi con te? Muserolle — Ah! questo poi no!... C'è il marchese... e poi tutta una situazione... Gargaret —- Allora promettimi che non la rivedrai mai più... Capirai, la zia di mia moglie... davanti alla gente che figura ci farei?... Del resto, ti sor veglierò... Muserolle — Davvero? Secondo me, invece, faresti molto meglio a sorvegliare tuo cugino. Gargaret — Alberto?... è un giovane onesto! Muserolle — Ma che fa la corte a tua moglie. Gargaret — Ma sei pazzo! Cosa dici? Muserolle — Ti ho detto: sorveglialo di nascosto. E vedrai! Alberto (entra dalla destra con dei documenti in mano e si rivolge a Gargaret) — Ci sono delle fat ture da firmare... Gargaret — Benissimo, dammele... (Prende i docu menti, va a sedersi al tavolo e firma) Alberto, è venuto il postino? Alberto — No! Gargaret — Aspetto sempre quella risposta da Nantes... Muserolle (tra sé) — Bisogna assolutamente che vada ad avvertire Bianca che il marchese sospetta di qualche cosa! {Va verso il fondo per prendere il cappello e il cappotto). Alberto {tra sé e tirando fuori di tasca un flaconcino di profumo) — Ecco la mia trovata... del muschio... un flaconcino di profumo di muschio... con questo si sente un individuo a cinque metri di distanza. {Ne versa sulla giacca di Muserolle). Muserolle (riavvicinandosi a Gargaret con il cap pello e il cappotto) — Allora io me ne vado. Gargaret — Dove vai? Muserolle — Vado da un negoziante in legnami... capirai, quando si possiede una foresta, come la possiedo io, bisogna ogni tanto vendere del legname. {Infila i guanti). Alberto (che ha seguito Muserolle, innaffia il cap potto di muschio, tenendosi dietro a Muserolle e senza che Muserolle se ne accorga) — Tè... così, se ti metti alle mie calcagna, ti sentirò. Muserolle — Non fa troppo caldo questa mattina... Quasi quasi mi metto il cappotto (Lo infila). Alberto {annaffiando ancora un poco il cappotto ma sempre restando dietro a Muserolle) — Ancora un poco non ti farà male. Muserolle {cerca invano di abbottonare il cappotto) — Ci mancava anche questa. Gargaret — Cosa succede? Muserolle — È saltato un bottone... ma in fondo posso farne a meno. {Si toglie il cappotto) No, non c’è ancora bisogno di cappotto. Gargaret — Dai a me... ti farò cucire il bottone dalla mia cameriera. (Prende il cappotto) Accidenti che odore di muschio! Alberto — Muschio? {Fiuta) Io non sento niente. Muserolle — Io non posso sentir niente perché sono raffreddato! (Sottovoce, a Gargaret) È certa mente il muschio del tuo caro cugino... si profuma al muschio, adesso... Gargaret — Probabilmente... perché prima quando eravamo qui io e te, non si sentiva niente... Muserolle (sempre sottovoce a Gargaret) — Si pro fuma... dunque è colpevole... La virtù, la vera virtù, non ha bisogno di profumi... Gargaret — È vero... infatti, io non mi profumo mai... (Riflette) Sì, forse un po’ di cosmetico alla domenica. Alberto (tra sé) — Ma cos’hanno da borbottare fra di loro? Muserolle (sottovoce) — Insomma, mio caro Gar garet, io ti ho avvertito. Nasconditi e vedrai. {Ad alta voce) Vado ad occuparmi di Bianca... voglio dire del mio legname... {Esce). Gargaret {guardando Alberto che si è avvicinato al tavolo e consulta dei documenti) — Non posso credere che un giovane così diligente, così sgob bone, e con dei connotati così onesti... di solito un uomo che vuol bene al suo lavoro non pensa alle donne... Eppure quello che Muserolle mi ha detto... Lucia (entra e scorge suo marito) — Scusate... Vedo che avete da fare... mi ritiro... Gargaret (tra sé) — Mia moglie! {Ad alta voce) SI DEVE DIRE? Niente affatto... stavo andandomene. {Tra sé) Voglio tendere loro un tranello infernale. Alberto {alzandosi) — Te ne vai? Gargaret — Sì... sono obbligato di andare fino alla Borsa Merci... Il prezzo del sego mi inquieta un poco... (Tira fuori l’orologio) L’una... Non sarò di ritorno che alle quattro e un quarto... cioè fra tre ore e un quarto... ti affido la casa, Alberto... {Tra sé) È semplicemente infernale quello che sto com binando... Addio, Lucia! {L'abbraccia) Ah! ho piena fiducia in te, sai... Addio, cara... (L’abbraccia di nuovo, uscendo) Infernale... semplicemente infer nale! {Esce, portando con sé il cappotto di Muse rolle). Lucia — Arrivederci... Alberto (scattando) — Non è più possibile resistere... Lucia — Cosa vi succede? Alberto — Non mi è possibile continuare ad assi stere al graduale sviluppo delle vostre effusioni co niugali... Buongiorno, cara... Addio, cara... E poi vi abbraccia una, due, tre volte... E io debbo stare a guardare ! Lucia — Alberto... signor Alberto... io vi ho sem plicemente promesso la mia amicizia e nient’altro. Alberto — L’amicizia?... Ma non l’avete dunque letta la mia lettera? Lucia — Quale lettera? Alberto — Quella che ho nascosta nel copialettere... Il nostro nuovo nascondiglio... da quando faccio, io solo, la mia corrispondenza della città... Lucia — No, non l’ho veduta. Alberto — Non legge nemmeno le mie lettere! (Tira fuori una lettera dal copialettere) Eccola. Lucia — Datemela! Alberto (sgualcendola, senza guardarla e metten dola nelle sue tasche) — No, è inutile... Perché per dere tempo a leggere questa lettera?... una lettera nella quale avevo messo tutto il mio cuore... nella quale avevo messa tutta la mia passione... Ah! è così che voi comprendete l’amicizia? Lucia — Vi assicuro che vi voglio bene Alberto... Alberto — Sì ma quale bene? Un bene tranquillo, calmo, colle pantofole, un bene a riposo... {Si esalta) La mia amicizia, invece, è un’amicizia ardente, infiammata, corrosiva... Lucia — Mi fate paura! Alberto — E se voi mi respingete, anch’io salirò sulla torre di Nostra Signora di Parigi e mi butterò giù... per morire... per finirla... Lucia (vivacemente) — No, Alberto, ve lo proibisco! Alberto —■ Allora... accordatemi un favore. Lucia — Quale favore? Alberto — Lasciatevi abbracciare... è ben poco quello che chiedo... Lucia — E se qualcuno venisse? Alberto — Non verrà... (Guarda a sinistra). Gargaret (entra dalla destra con precauzione. Ha sempre fra le mani il cappotto di Muserolle. Tra sé) — Sono insieme... sono caduti nel mio tranello infernale... {Si dirige in punta di piedi verso l’ar madio e vi si nasconde). Alberto (a Lucìa) — Ho guardato... nessuno! T.ticta — Allora, fate Dresto! (Alberto si avvicina EUGÈNE LABICHE per abbracciarla amorosamente ma fiuta nell’aria, improvvisamente, un odore di muschio). Alberto (fiutando) — Odore di muschio! (Tra sé) Muserolle è qui! Lucia — E allora? Alberto (come se facesse una predica) — Come ve 10 dicevo poco fa, signora, la fedeltà è forse il più meraviglioso gioiello che possa ornare una donna... 11 focolare domestico... la famiglia... non c’è niente altro di bello, nella vita... Lucia (tra sé, un po’ stupita) — Ma che cosa va a tirar fuori? Alberto (tra sé) — Ascolta, Muserolle!... (Ad alta voce) Bisogna voler bene a vostro marito, signora, bisogna volergli molto bene, sempre più bene... il suo cuore è nobile e degno del vostro, perché è nobile la sua anima, perché il suo spirito è tutto rivolto verso i più grandi ideali, perché è intelli gente ! (Si sentono dei singhiozzi nell’interno del l’armadio). Lucia — Qualcuno sta piangendo dentro l’armadio ! (L’armadio si apre e si vede uscire Gargaret. Ha gli occhi pieni di lacrime) Mio marito ! Alberto — Gargaret! Gargaret (uscendo dall’armadio e piangendo) — Mu serolle è un perfido imbecille... E ho dubitato di te, Alberto... qua... fra le mie braccia, caro... (Lascia l’armadio nel quale è rimasto il cappotto. La porta dell’armadio si chiude). Alberto — Come? Hai sentito tutto? Gargaret — Tutto... Era meraviglioso... « Il suo cuore è nobile e degno del vostro... perché è nobile la sua anima... perché è intelligente... ». Lucia tu devi sempre dar retta a quello che dice Alberto... sempre... Lucia — Sì, caro... Gargaret — E quel mascalzone voleva offuscare la nostra amicizia! Alberto, sei il mio migliore e il mio più fedele amico... Ma io non sono un ingrato, sai... (Tira fuori un documento) Tieni, prendi questo documento... Alberto — Che cos’è. Gargaret — È il contratto della nostra futura asso ciazione... (Commosso) Alberto, vuoi diventare il mio socio? Alberto — Non so se debbo... Gargaret — Te ne prego e mia moglie Lucia si unisce alle mie preghiere... Lucia, non è vero che ti fa piacere sapere che io e Alberto siamo asso ciati per tutta la vita? Lucia (abbassando gli occhi) — Come vorrai, caro... Alberto — Allora, dal momento che lo esigi... che lo volete tutti e due... accetto (Prende il docu mento). Lucia — Vi lascio! (Tra sé) Ma come ha fatto a indovinare che mio marito era dentro all’armadio? (Esce). Gargaret — Però, prima di portare il documento dal notaio, dagli un’occhiata per via dell’ortografia... L’ho scritto un po’ in fretta. Allora, società in accomandita, fra te e me... « accomandita » con due « c »? Alberto — Sai, quando si ha molta fretta, si può anche metterne uno solo... Gargaret — Avevo molta fretta... devo averne messo uno solo... A fra poco. Alberto — A fra poco! (Esce). Gargaret (solo) — È necessario che, in una buona ditta commerciale, uno almeno dei due soci sappia un po’ di ortografia. Muserolle (entra dal fondo. Ha l’aria un po’ scon volta. La sua giacca è stracciata dietro) — Aiuto... nascondimi... Gargaret — Muserolle, che cosa ti succede? Muserolle — Che scena... caro... che scena... spero di avergli fatto perdere le tracce. Gargaret — Ma cosa succede? Muserolle (mostrando la giacca stracciata) — Non vedi in che stato sono? (Suona) Vorrei cambiarmi. Giulietta (entrando) — Signore... Muserolle — Datemi un’altra giacca (Giulietta esce. A Gargaret) Caro mio, sono sfuggito per miracolo alla morte... Ero andato da Bianca... Gargaret — Ancora? Muserolle — Per dirle addio... Stai tranquillo... non ci tornerò mai più... Ero in camera sua già da qualche minuto, quando sento improvvisamente la voce del marchese che rientrava... Il marchese non è un uomo : è una tigre... Bianca mi fa cenno con la mano di andarmene per la scala di servizio... mi ci precipito a testa bassa, ma siccome ho' delle scarpe piuttosto grosse, avrei dovuto togliermele... non ne ho avuto il tempo... il marchese ha sentito i miei passi e mi è venuto dietro... urlando: «Arre statelo... e tu fermati, se non sei l’ultimo dei vigliacchi ! ». Naturalmente, ho accelerato la mia corsa... Ad un tratto... pum... pum... pum... tre colpi di rivoltella, in pieno, nella scala... Sento i proiet tili che mi passano vicino alle orecchie, mi curvo, il piede mi scivola e... patatrac... la giacca si straccia... la rivoltella continuava a sparare... pum pum pum... (Eroico) Mi rialzo... la paura mi da un po’ di coraggio... Scappo via... Di corsa... Supero il corridoio... infilo la strada... rovescio i passanti... schiaccio un cane... ricevo sulla testa un’ombrellata che non me la scorderò più, ed eccomi qua... Gargaret — Che dramma! Giulietta (tornando con un vestito) — Ecco ima giacca per il signore! Muserolle (prendendola) — Grazie (Giulietta esce. Muserolle toglie la giacca stracciata e mette l’altra) Dimmi... non sono mica ferito? Vedi sangue? Gargaret — Non ne vedo ancora. Muserolle — Guarda bene... guarda meglio... per ché, con quelle maledette pallottole, non si sa mai... si è feriti mortalmente e ci se ne accorge soltanto il giorno dopo... Gargaret — A chi lo dici?... Hanno sparato tempo fa due pallottole nella vetrina della mia bottega e me ne sono accorto soltanto otto giorni dopo... Ma credi che il marchese ti abbia riconosciuto? Muserolle — No, da questo punto di vista, sono tranquillo... se mi avesse riconosciuto sarebbe già qui. Voce del Marchese — Dove està el puerco... el furfanties... io voglio el sangre del traditor... A muerte ! Gargaret — Ma è lui! Muserolle (ascoltando) — Sì... (Guarda la giacca che si è tolta poco prima) La mia giacca... La rico noscerebbe subito... (Getta la giacca sotto al tavolo) Adesso calma... molta calma... Facciamo finta di giuocare al ramino... Hai un mazzo di carte? Gargaret — No, non ce l’ho. Muserolle — Ma che razza di ufficio è questo? Nemmeno un mazzo di carte... I l Marchese (entra con Alberto. Ha una rivoltella in mano) — lo lo troverò el traditor... el vigliaccos... lo pugnalos e, poi, ahn... ahn... (Fa cenno coi denti) 10 chiero mangiar vivientes... Alberto — Andiamo, marchese, calmatevi... 11 Marchese — No es possible con mio tempera- mientos... Io soy una tigre... Gargaret, dove es el traditor, el puerco? Gargaret e Muserolle — Ma chi cercate? I l Marchese — Un agientes me ha ripetuto ch’el tra ditor ese vendo equi ! Gargaret e Muserolle — Ma quale traditore? I l Marchese — Un traditor che era nella cameras di Bianca. Muserolle (tra sé) — Non mi ha riconosciuto! I l Marchese (a Muserolle) — Un vigliaccos... ha descendido la scalas... io he sparado con mia rivol- tiellas... ma el traditor aveva un profumos de mu schios... Alberto (tra sé e guardando Muserolle) — Ma che fosse lui per caso? I l Marchese — Me soy lanciado alos inseguimientos, gridandos... (Si ferma e fiuta) Carambas... lo stesso mismo odor... el muschios... (Si avvicina all'armadio guidato dall’odore) È là, el puerco, ne los armadios... Anda... anda... señor, se tu no es un vigliaccos... (Apre l’armadio) Nada... Ninguno... solo un cappottos con odores de muschios... Gargaret — È il mio... da quando sono sposato, mi piace un po’ di muschio sui vestiti... I l Marchese — Que schifezzas (Butta via il cappotto e va a sedersi al tavolo) Mia mujer ha detto che eras el peluquero... ma un peluquero no scappas così velocemientes... (Si ferma e fiuta) Ancora el odores de muschios... Sotto la tavolas... Como, co rno, traditor, se tu no es un vigliaccos... (Dà calci sotto al tavolo) Como... No... Aspiettas, puercos! (Tira sotto il tavolo parecchi colpi di rivoltella) No hai più cartuccias... Muserolle (tra sé) — Ha bucato tutta la scala, sfido! Le ha sparate tutte nella scala! I l Marchese — Ah! le pinzas... (Prende le pinze e dà colpi sotto al tavolo) Priendi, priendi, vigliaccos... (Alza la coperta e tira su la giacca con le pinze) Una giaccas... cosa es esto misterios? Gargaret — Vi spiegherò... I l Marchese — Silenziosi Muserolle (tra sé) — Ma è una belva! I l Marchese (fruga nella tasca della giacca) — Vo glio trovar pruevas... Muserolle (tra sé) — Accidenti, il mio portafogli... (Si palpa) No, l'ho io... SI DEVE DIRE? I l Marchese (trova un pezzo di carta) — Una rice- vudas de un sombreristas... el cappellaio... Venduto al señor... Niente nomes... Un sombreros con le letteras « E... M ». Muserolle (nascondendo il cappello che ha in mano) — Edmondo Muserolle... Alberto — Edmondo Muserolle... è lui. I l Marchese — E... M... Chi puede essere esto puercos?... (Il marchese esamina successivamente il cappello di Gargaret e quello di Alberto per veri ficarne le iniziali. Poi, si avvicina a Muserolle che, frattanto, si è seduto sul suo cappello per renderlo invisibile) Vado de corsas dal sombreristas... (Esce). Gargaret (seguendo il marchese) — E della dote, marchese, quando se ne parla? (Esce a sua volta). Muserolle (alzandosi in fretta) — Se ne è andato finalmente ! (Prende il suo cappello e ne straccia la fodera) Bisogna far scomparire queste iniziali compromettenti. Alberto — Sì, è più prudente quello che state facendo... Muserolle — Cosa dite? Alberto — Ah ! volevate farmela... pugnalarmi nella schiena?... ma io sono stato più rapido... l’uomo che odora di muschio, l’uomo dal cappello firmato « E M », siete voi ! Muserolle — Zitto... Per carità! Alberto — Voi mi accusavate di fare la corte alla signora Gargaret... mentre voi disonoravate i capelli bianchi di quel brav’uomo del marchese... siete voi da sorvegliare e da sorprendere in flagrante... Muserolle — Non fate tanto il gradasso... (Fruga nelle tasche) Aspettate, ho qualcosa che fa per voi. Alberto — Che cosa? Muserolle (tirando fuori la lettera che ha messa nel taschino del gilè) — Sentite : « Mia cara Lucia... No, l’amicizia non basta più... ». Alberto — La mia lettera! Muserolle — « La nostra amicizia ormai deve ce dere il posto ad un sentimento molto più vivace... ». Alberto — Dove avete trovato questo biglietto? Muserolle — Nel copialettere... un caso... un puro caso... ma io mi servo spesso del caso... Alberto (tra sé e frugando a sua volta nelle tasche) — Ma allora... qual è la lettera che ho ritirata dal copialettere?... (Trova una lettera e la legge) « Mia dolce pollastrina... ». Muserolle — La mia lettera! Alberto (continuando a leggere) — « Hai trovato per caso, nella tua camera da letto, un coltello a molti usi... » Sapete... reclamare un coltello perduto, nella casa della donna amata, non è molto ele gante... Muserolle — Non è tanto per il coltello, ma c’è la sega, la lima e il cavaturaccioli ! Signore, vi prego di restituirmi la mia lettera... Alberto — Non prima che mi abbiate restituita la mia... Muserolle — Allora, nello stesso tempo... uno... due... tre... (Gli porge la lettera) Ecco la vostra lettera. Alberto (porge a sua volta la lettera) — Ed ecco la vostra... , EUGÈNE LABICHE Gargaret {che è entrato senza far rumore, prende la lettera che Alberto ha fra le mani). Alberto — Oh! Muserolle (tra sé) — Oh! Gargaret — È certamente la lettera di Cheradam. Allora, il postino è venuto! Alberto (spaventato) — No, è il contratto della nostra società... pieno di errori di ortografia. Gargaret (restituendo la lettera ad Alberto) — Nascondila, per il momento. (Gli stringe la mano). Muserolle (tra sé) — Ma come? Gliela restituisce? Lucia {entra dal fondo) — Ecco lo zio! {Tutti fanno un movimento che esprime la paura). I l Marchese {entra sorridendo) — Soy calmos... era veramientes el peluquero che era nella stanzias a hablar con la marquesa... Tutti — Ah! I l Marchese — Bianca me ha mostrado el Serro por los riccios... Eccolo... {Mostra il ferro per i ricci) E, despues, el odor del muschios... solo los pelu- queros usano el muschios {Guarda Gargaret) Los peluqueros e los imbecilles... Gargaret — Marchese carissimo, vedo che siete finalmente di buon umore... Vogliamo profittarne per parlare un po’ della dote? I l Marchese — Hai consignado el ordine de portarla aqui... Ciento ottanta mila cinco francos. Gargaret — Avevamo detto 180 e dieci. I l Marchese — No es verdad... ciento ottantamila e cinco... Gargaret — Dieci... avevate detto dieci... Alberto (sottovoce a Lucia) — Come se vendesse un cesto di pesche ! Gargaret — Guardate... ho copia della lettera... {Va a cercare la lettera) Vi ho scritto : « In risposta alla pregiata vostra del 4 ultimo scorso, ho l’onore di comunicarvi che accetto la dote stabilita di franchi 180 e dieci... ». I l Marchese — Non es possibile. Gargaret {sfogliando il registro) — Lo vedremo... {Legge) « Vi spediamo a piccola velocità ». No, non è questa... {Legge) « Mia cara Lucia.. » Ah ! una lettera diretta a mia moglie... È una lettera di Alberto... Alberto {spaventato) — Sì, mi sono divertito... {Sottovoce a Muserolle) Accidenti... l’avete messa proprio nel copialettere... Muserolle {sottovoce) — Non l’ho fatto apposta... L'ho nascosta lì... poi mi sono seduto sul copialet tere. E ne è venuta fuori la copia... Gargaret {legge con voce terribile) — « Mia cara Lucia... no, l’amicizia non basta più... la nostra ami cizia ormai deve far posto ad un sentimento molto più vivace... Lasciate cadere uno sguardo sull’uomo che vi ha consacrata tutta la sua vita... ». Muserolle {tra sé) — Voglio vedere come quel gio vanotto farà a cavarsela... Gargaret {continuando) — « Il suo nobile cuore è degno del vostro... » {Con attenzione) « Il suo nobile cuore... ». {Stringe le mani di Alberto) Grazie, Al berto... {Lo abbraccia teneramente) Gli dà dei buoni consigli, perfino nella copia delle lettere... Ascoltate quello che vi dice Alberto, Lucia... ascoltatelo sem pre... {Fa passare Alberto accanto a Lucia dopo aver dato la copia della lettera al Marchese). Muserolle {tra sé) — È fenomenale... Gargaret, come cornuto volontario, meriterebbe di essere esposto al museo zoologico. I l Marchese {che già da qualche istante sta sfo gliando il copialettere) — Cosa està aqui... caram- bas... {Legge) « Mia dolce pollastrina ». Muserolle {tra sé, scattando) — Maledizione! Alberto {tra sé) — Il copialettere ha copiato tutte e due le lettere. I l Marchese {leggendo) — « Hai trovato per caso, nella tua camera da letto, un coltello a molti usi, con una sega, ima lima e un cavaturaccioli? » {Si ferma) El hombre del coltellos! Finalmientes ! Muserolle {tra sé) — Sono perduto! Gargaret {tra sé) — Assisteremo ad ima carneficina, ad una strage... I l Marchese {leggendo) — « Verrò a riprenderlo in camera tua stasera alle nove. Quanto al marchese è uno scocciatore di cui... ». Muserolle — C’è un errore... vuol dire scopritore... I l Marchese — Giusto... scopritore... sono lo scopri tore delle miniere di guanos {Fermandosi) Con scoc ciatore la frase non avrebbe senso, perché dice: uno scopritore, di cui dobbiamo rispettare il sonno... Alberto — Ma certo! I l Marchese {leggendo) — « Sono stato felice di poterti riabbracciare ancora una volta dopo una così lunga assenza! {Si ferma furibondo) Dove es mia pistolas... Gargaret {sottovoce a Muserolle) — Se fossi al tuo posto, io me la squaglierei. Muserolle {sottovoce) — Credo di non aver messo la firma. I l Marchese {leggendo) — Non dimenticherò mai questa bella serata di primavera. Firmato: Muse rolle. Muserolle {tra sé) — Maledizione! Ho firmato! Gargaret {tra sé) — Lo uccide subito. I l Marchese — Aqui... Muserolle... zios querido... {S’intenerisce e lo abbraccia) Mi querido zios... {Si abbracciano). Gargaret {tra sé) — Adesso, è anche diventato suo zio... decisamente, in questa famiglia, non riuscirò mai a capirci niente. I l Marchese — Che sbaglios... avevo sospiettos su mi zios querido... Soy un furfanties! Gargaret — E io non avevo forse dei sospetti sul mio caro cugino Alberto? Ci si può sbagliare qualche volta... I l Marchese — Ma ahora soy felice... el hombre mas felice del mundo... Gargaret — Anch’io... Muserolle {tra sé) — Sono felici tutti e due... De cisamente, nella vita, non bisogna mai dir niente. Tutto finisce coll’andare a posto da sé. Copyright 1967 by Marcel Le Due. P A O L O S T O P P A Forse, Paolo Stoppa è il p iù grosso ad autentico personaggio del nostro tem po teatrale. A differenza d i ogni altro — specificamente attore e non a ltrim e n ti classificabile — Stoppa appartiene a quella razza d i co stru tto ri professionali, che per giungere artisticam ente al p iù alto traguardo della sua notorietà (che non è solo celebrità d i com ico-divo) ha circoscritto il campo dei p ro p ri interessi um ani e psicologici, condizionando il suo stesso tempe ramento, trasform ando la sua creduta iniziale vis-comica in torm ento, richie dendo a se stesso la consistenza tragica del grande interprete. C’è riuscito. Onestamente e con fatica, come vedrem o. Fra tu tti g li a tto ri che l ’attuale m om ento della scena d i prosa pone d i fron te a battersi con le arm i dell’intelligenza, dell’introspezione — che è osserva zione d i n o i stessi come riflessione interna ed esame d i coscienza — e della personalità, nella scia scampanellante dell’attrazione dispersiva nei vari riv o le tti della popolarità quotidiana — teatro cine televisione ecc. — Paolo Stoppa è il prepotente assoluto ed unico personaggio. I va lo ri a ltru i potranno uguagliarlo per altre strade, m agari superarlo, se possibile, ma non confonderlo. In fin e è rom ano, in una « stagione italiana » esplosa con l ’u ltim o respiro della guerra, nella quale la lingua del bel Paese, com plice la colonna sonora, ha deviato l ’A rn o per il Tevere, negli echi del m ondo. L ’Ita lia ha da allora negli orecchi, ed orm ai sono decenni che si accumulano, quella cadenza d i linguaggio, lo stesso romanesco d i Stoppa, che n e ll’attore, per sua osmòsi, si condiziona nel personaggio dalla vita alla scena, filtrandosi e divenendo im percettibile, ma ugualm ente in confondibile. Essere rom ano, per Stoppa, vuole dire d i padre, nonni, bisnonni, senza la m inim a in filtrazione ; v u o l dire essere legato alla sua città da un vin co lo radicato e profondo , genuino e possente, come la vita stessa. T anto viscerale è questo sentim ento per Stoppa, da non poter accettare l ’idea, per assurdo, d i abitare ai P a rioli invece che a piazza Venezia, dove ha casa in quel palazzo U m bertino detto « dell’Assicurazione » i cui balconi a larghe ringhiere si seguono in parata da un angolo a ll’altro, d i fron te ad un a ltro palazzo che m olta storia ebbe nella v ita degli italiani. O rgo glioso d ’essere venuto al m ondo alla Rotonda, nato cioè nella Roma antica del Pantheon, che per R otonda non bisogna intendere — come i rom ani d i elezione sbagliano — quella d i via Ripetta, contro il m uro del Tevere. La casa, prim a d i tu tto , è per Stoppa un rico rd o che accompagna la sua v ita e partecipa alla sua « form azione » : senza questa precisazione, pensiamo non possa esserci un ritra tto d i Stoppa uo m o ; ed ancor senza d i questo a sostegno, un ritra tto p iù com pleto e perfetto d i Stoppa artista. La R otonda è lo spec chio nel quale si rifle tto n o i vecchi palazzi dei m inisteri, dove anche suo padre era uno dei fu n zio n a ri; è il pu n to m inuscolo ma preciso, p ro p rio lì, attorno alla fontana, d i una bottega d i orefice, nella quale suo nonno tra scorse la vita. E dai suoi p rim i passi d i adolescente, tra piazza del Pantheon e Campo M arzio, Stoppa risale a via M argutta, a ltro antico gio ie llo romano, in co n tro al negozio famoso d i A ugusto Jándolo (1873-1952) zio paterno, del quale, è risaputo, diverrà erede. Jándolo fu, sì, soprattutto un antiquario stim atissim o, reputato nei grandi m ercati d i P arigi e Londra, ma fu cosi a ttivo nelle arti, da essere per natu rale m u ltifo rm e a ttività, attore e poeta, autore e regista cinem atografico, scenarista ecc. D alla scuola d i V irg in ia M a rin i a Santa Cecilia, Jándolo nel 1898 recitò con la Duse per un anno, in una tournée a ll’estero. M a i l teatro non lo trattenne né lo trasform ò in un vero com ico; nessuna espressione del suo temperamento riuscì mai a condizionare la sua form azione mentale, che era quella dell’antiquario, perché tale restò, p u r mantenendo inalterato quel suo bisogno d i una continua e varia espressione artistica. Le commedie di Jándolo sono rico rd a b ili {Roma se sveja; Rugantino; Giacomo B e lli; Meo Pa tacca-, Goethe a Roma-, Michelangelo) e tutte ebbero in te rp re ti eccellenti: Stabile dell’ « A rgentina » con Garavaglia, C hiantoni, M onaldi, P etrolini. Le assenze d i Jándolo da quel negozio erano frequenti, ma ci stava il nipote Paolo, anche se giovane, con g li im piegati e g li u o m in i d i fatica d ivenuti esperti con la pratica e l ’abitudine. I suoi g e n ito ri sapevano che in quella strada, a ll’om bra nascosta della bottega avita così tipica quanto nota, il ragazzo avrebbe p o i trascorso i g io rn i della sua vita. M a per Paolo il tra va g lio era p iù complesso, certo stim olato inconsapevolm ente dalla persona lità dello zio, le cui realizzazioni erano tanto positive quanto varie. A lla cer tezza d i quanto già « possedeva » in via M argutta, alla quasi certezza di laurearsi in giurisprudenza, in quanto alla soglia degli esami, e nella vaga speranza d i diventare un grande violoncellista, frequentando le lezioni al Conservatorio, si iscrisse infine alla scuola d i recitazione d i Santa Cecilia. E questo nuovo im pulso g li fu certo dettato dalla curiosità del m ondo tea trale, cui lo aveva portato la passione latente, assistendo al gran cerim oniale delle com medie d i Jándolo, prove e recite, quanto al contatto con g li atto ri aveva subito il fascino della ribalta, sì che ogni diversa luce si spegneva nel suo anim o a ll’accendersi sempre p iù viva d i quella nuova fiam mella. Fu in quel m om ento che conobbe una ragazzina sedicenne, magra, selvaggia, con grandi occhi spiritati, tutta gesti, piena d i fervore e d i vita. A rriva va dal l ’E g itto con una sua sorella — che p o i divenne danzatrice e si stabilì a Pa rig i — e non conosceva per nulla Roma, p u r essendoci nata. Si chiama Anna M agnani. Stoppa la p o rtò in g iro a scoprirle Roma e chi m eglio ^di lu i avrebbe p o tu to farlo? — e quando fu ro n o in via V itto rio , davanti all Acca demia d i Santa Cecilia, entrarono insieme. Venne per entram bi il fatale m o- m ento del saggio finale, ed ancora insieme recitarono in Barberina d i D e Musset. Fu quel saggio a decidere delle lo ro esistenze: giudice supremo S ilvio d ’A m ico . L ’indom ani, il severo critico, ma sempre attento alle espe rienze g io va n ili, ritenne i due allie vi degni della lo ro prim a scrittura: alla giovinetta M agnani, la Compagnia N iccodem i, con Vera V ergani e Cimara; a Paolo Stoppa, la Compagnia Capodaglio-Racca-O livieri, che in quel m o m ento recitava al « Q u irin o » L ’Amorosa tragedia d i Sem Benelli, e si appre stava a portarla « trionfalm ente in tournée » — come si diceva — per tutta la Penisola. Stoppa avrebbe sostituito, dalla « piazza » seguente, che era Pe rugia, un attore che restava a Rom a per sempre e che rom peva col teatro, antica religione della sua fam iglia. I l giovane che preferiva un sicuro im piego al giogo della tradizione dai suoi sempre rispettata, era il fig lio di Cesare D o n d in i « nato in palcoscenico ». N e ll’attesa, facesse pure Stoppa i suoi preparativi e soprattutto convincesse i g e n ito ri amaramente sorpresi, per i quali aveva, ed ha sempre continuato ad avere, una idolatria. Bisognava staccarsene con convinzione ed amore. Invece fu chiam ato im provvisam ente dai suoi capocom ici per la sopravvenuta necessità che egli prendesse parte alla rappresentazione quella sera stessa. Si trattava d i sostituire il segretario, chiamato lontano da Roma per una scia gura fam iliare. Era consuetudine delle Compagnie d i quel tem po d i far reci tare nelle com medie dette « piene », dove i generici apparivano anche due o tre volte sotto spoglie diverse, anche il segretario, che in effetti era anch’egli un generico, ma rassegnato a diverso fare per conclamata insufficienza. D ifa tti, la « parte » — con grande stupore di Stoppa — non era form ata da parole, e chiunque fosse stato chiamato ad eseguirla l ’aveva già in gola: si trattava d i urlare; solo u rli, spaventosi e terrificanti, da emettere dietro una porta semichiusa. La vita artistica d i Paolo Stoppa ebbe in iz io con quegli u rli: era la prim avera del 1927 e sono passati quarantanni. U n tem po splen dido, tu tto punteggiato d i m eravigliose avventure dello spirito, che hanno valso a questo prestigioso attore una personalità eccezionale quanto unica. A quel tem po, l ’esistenza dei « ru o li » im poneva ai com ici d i scegliere secondo inclinazione, assai spesso sbagliando, si capisce. A vo lte la scelta la faceva il capocom ico stesso, m agari senza trascurare il p ro p rio interesse a danno della nuova recluta, ma anche questo non danneggiava, in quanto il tem po e le occasioni ristabilivano i giu sti equ ilibri. I l palcoscenico non inganna mai nessuno: questa la regola; le condizioni avverse o contrarie sono sempre temporanee, se d i indole meccanica e non spirituale. I l generico Paolo Stoppa, non avendo un v o lto d ’angelo né una voce flau tata, adagiò le sue possibilità sul ru o lo com ico e un anno dopo dalla Amorosa tragedia, potè scritturarsi con G andusio, il « brillante » per antonomasia, il « signore dello spirito e del tra tto » per definizione dei com ici stessi, colto, am m irevole, rigoroso, quanto esuberante. La sua maschera comica e la sua continua agitazione — rispondendo alla perfezione al congegno che m uoveva le commedie gaie del suo repertorio — accendevano fuochi d’ilarità nell’evi dente contrasto della sua sofferenza fisica, nella buffonesca concitazione, nel l ’alterazione della voce, in quel suo continuo m ulinare delle braccia, anna spando con le dita. Una com icità simile, ad un attore ai p rim i passi, convinto d i possedere qua- . . _ lità baste v o li per portarsi col tem po sul piano dove agiva il colosso che g li stava davanti, avrebbe p o tu to nuocere, inducendolo a strafare. Stoppa, p o r tato per giovanile esuberanza ad eccedere nel colore, in tu ì il pericolo. Con accorta intelligenza ed il raro senso del co n tro llo che sempre ha m ostrato come sua m aggiore v irtù , cercò d i assimilare dal maestro le d o ti meno appa riscenti, dalla misura della com icità contenuta al gioco delle sfumature, dal l ’ironia all’amarezza. U n complesso d i sensazioni che m o lto g li gioverà in seguito. A vvenne che da u n ’in tim a discordanza, im pedendo cioè alla p ro p ria com i cità d i abbandonarsi alla compiacenza, ad un certo m om ento e sempre con sforzo m aggiore g li riuscì d i trasform are il torm ento in senso tragico, farlo diventare dom inante nel p ro p rio tem peram ento e com pletare una personalità apparsa am bigua anche a se stesso. In iz ia to quel processo naturale d i scar nificazione, il suo anelito potè spaziare, ingrandendo e diventando aspro e cupo, tanto da o b b ligarlo a piegare e q u in d i distendere le proprie corde secondo volontà, fin o al superamento delle sue stesse forze, come vedrem o al m om ento d i ricordare interpretazioni d i alta m isura e grande significato sociale, um ano ed universale, da A l porte chiuse a D elitto e castigo, da Mo> te di un commesso viaggiatore a Uno sguardo dal ponte, ecc. D ive n u to « secondo brillan te » con mezzi sempre p iù evidenti d i possibile capacità, negli anni successivi fu ancora con G andusio u n ito a D in a G a lli e con A lm ira n te e Gandusio. G li anni d i mezzo — dal 1933 al 38 - furo no d i varie e buone esperienze, con Renzo R icci, Lam berto Picasso, g li Spetta coli gia lli, la Compagnia del Teatro d i M ila n o , un rito rn o , ma al fianco — questa vo lta —- d i D in a G alli, con ru o lo assoluto; ed eccolo nel 1939 alla svolta della sua carriera, con la Compagnia del Teatro Eliseo d i Roma, accanto alla Pagnani, la M o re lli, C ervi, Carlo N in c h i: una form id abile équipe, che ha un posto a sé altamente co stru ttivo nella com pagine degli u ltim i tre n t’anni del teatro italiano. A bbiam o a questo pun to in Paolo Stoppa un nuo vo attore, del quale traspare il v o lto autentico, non p iù adeguato ad una dim ensione comica, ma teso alla continua ricerca d i ogn i tipica caratteristica dell’uom o m oderno. E g li si im pone, la sua personalità si ingrandisce, la sua esperienza artistica si allarga e tocca i confin i dai lim iti vasti, quelli che si confondono con i m aggiori in te rp re ti europei. È da quel m om ento il sodalizio con R ina M o re lli, la fo r mazione d i una coppia artistica direm m o orm ai in im itabile, e non soltanto per le affinità, aspirazioni, gusto, ma perfino la mania per l ’ordine e la pun tualità, la certezza, radicata in entram bi, d i non scendere m ai a compromessi. E l ’in co n tro d i entram bi con quel grande maestro d i regia che è Luch ino V isconti, è stato alfine determinante, per una ascesa che, ad un certo punto, non ha p iù avuto ostacoli. O ppure è sembrato non averne, tanto è apparso norm ale quel co n tro llo rigoroso e perfino occulto e tenuto geloso, d i Rina M o re lli e Paolo Stoppa. I l p rim o consenso (applauso personale) d i una interpretazione tragica, Paolo Stoppa lo ebbe in Caffè dei naviganti d i Corrado A lva ro , e capì come la mutata direzione fosse al p un to giusto per consolidare la sua evoluzione. D a qui alcuni pensamenti d i natura artistica, ed una p iù ampia condizione spirituale, che trova ron o applicazione in quell’intertem po che la Compagnia del Teatro . Eliseo, per ragioni belliche, fu costretta ad articolarsi in due periodi. N e l p rim o tem po, personaggi d i alto respiro poetico, come « Sir A n d re w » in L a dodicesima notte, « F ord » in Le allegre comari di Windsor, g li erano serviti a scavare il sottofondo amaro sempre presente nei grandi personaggi com ici; ma Shakespeare non fu unico, in tanta luce che si apriva al suo orizzonte. I com ponenti d i quella form azione (detta dell’« Eliseo ») am biziosi nelle scelte, seppero tenere alto il lo ro prestigio e l ’insegnamento trovava giusta rispondenza nei desideri del nostro attore. A I I giocatore d i Sharoff (da D ostojew ski) e Viaggio alle stelle d i Anderson, seguirono — n e ll’aprile del 1939 — g li spettacoli classici al Teatro G reco d i Siracusa, né rinun ciò a qualche recita d ’eccezione, come L a Moschetta (Ruzzante) per in v ito d i Renato Sim oni, che m o lto lo apprezzava, e che dello spettacolo a V illa C orsini a Roma curava la regìa. Ricom posta la « Eliseo » nel 1944, g li in tendim enti non vennero m ai meno su quel piano di prestigio che orm ai aveva assicurato alla form azione rilie vo , ed agli a tto ri in confondibile fisionom ia. Stoppa fu « D em oko » in L a guerra di Troia non ci sarà d i G iraudoux e « F ilip p o » in L a brava gente d i Irw in Shaw, come non m o lto tem po dopo — per uno d i quei casi non frequenti che rendono prezioso un intero periodo d i ricchezza teatrale — recitò con D in a G alli, Rina M o re lli, A nnibaie Betrone, ecc. la commedia d i J. Kessel- rin g Arsenico e vecchi merletti, iniziando così le ricerche d i una nuova dim en sione comica, che si arricchì con F io r di pisello d i B ourdet, Spirito allegro d i Coward, ecc. È con questi la v o ri che egli aveva sperim entato n u o vi registi, come E tto re G iann ini e Renato Castellani, co n vin to che solo da una respon sabilità collettiva potesse nascere la perfezione. I l tem po della « parte » come virtuosism o a sé stante era più che lo nta no; l ’om bra del capocom ico-m atta tore, che pure aveva seguito col suo stesso passo iniziale, scomparsa per sempre. È a questo pu n to che si verifica l ’avvenim ento m aggiore e significativo della vita artistica d i Paolo Stoppa e Rina M o re lli : 1’in co n tro con il regista Luch ino V isconti. E ntram bi orm ai artisticam ente u n iti da m o tiv i e concetti non più trasform abili né separabili, scoprirono con V isco n ti « un m ondo m orale ed una realtà psicologica che si accordava pienamente con il lo ro senso d i in i bizione: si trattava d i una irriso lu b ile discordanza intim a, che rispondeva fondam entalm ente al temperamento dei due a tto ri ». Sono parole d i Calendoli. U n brevissim o g iro d i anni porta l ’attore alla graduale m aturazione, alla identificazione dell’essenza della sua personalità. E g li resta, sì, nel teatro di tradizione e m o lto trae ancora dal sorprendente « A lì» d i L ’impresario delle Smirne d i G o ldo ni, come dal maniaco «M archese d i F o rlip o p o li » in L a Lccandiera d i G o ldo ni, o il prestigioso Caro bugiardo di K ilty (da G . B. Shaw), ma è chiaro — per apparenti m anifestazioni della sua natura d’uom o, portato alla sincerità ed allo scrupolo — che egli subisce la suggestione d i quegli autori come Sartre e M ille r, nei quali riconosce i personaggi che, rispec chiando u o m in i del nostro tem po, aderiscono alla sua sensibilità d i uom o ed attore. Una m odernità d’in te n ti vibrante quanto profonda, tanto p iù con sapevole quanto m aggiore è la sua inibizione. Confessa egli stesso come la natura lo p o rti alla suggestione dell’in quietudine tipicam ente m oderna, e tale dichiarazione non è senza significato se guardiam o la scelta delle opere rap- pi-esentate quando la sua Compagnia ne propose alcune, che oltre all’aderenza sociale ed all’universale interesse, rispondevano al convincim ento che solo operando in gruppo si poteva raggiungere l ’e q u ilib rio p iù aderente al con cetto d i perfezione. D i quel lo ro periodo fecondo, alcuni spettacoli stanno ad esempio in dica tivo dell’evoluzione e trasform azione della nostra scena di prosa. Su d i essi, nel preciso ricordo, ritro via m o quelle aderenze struttura li dell’attuale nostro teatro dram m atico. U n lu ngo elenco d i opere nelle quali figurano anche a ltri eccellenti a tto ri, quali D e L u llo e la Falk, M astroianni e la Ferrati, Benassi, ed ognuno d i essi ha p o i avuto una propria dichiarata personalità, ed una smagliante carriera. Siamo al punto decisivo, al m om ento d i m aggior interesse per la consistenza artistica d i Stoppa : l ’in co n tro dei due personaggi p iù em blem atici e v ic in i al nostro tem po: W illy Lom an in Morte di un commesso viaggiatore ed E ddy Car bone in Uno sguardo dal ponte, creature d i A rth u r M ille r. T ra l ’interpretazione dell’uno e l ’altro passano sette anni (1951-1958) ma nel frattem po una fio ritu ra d i splendidi spettacoli — una diecina — concorrono a stabilire senza p iù equivoci la statura d i questo attore. N o n si tratta p iù d i una serie d i interpretazioni, ma tappe d i una realtà psicologica della nostra stessa esistenza. Che è il pu n to dove questo um anissim o attore intendeva poter arrivare. Per noi, la vita artistica d i Paolo Stoppa potrebbe essere conclusa : su queste basi egli ha operato ed infine stabilizzato quella parte d i gloria che g li spetta d i d iritto . I l piedistallo è questo. Restano i contorni, come nei m onum enti dell’O ttocento che coronavano il personaggio non sempre o soltanto d i fregi, ma talvolta con altre figure m in o ri non meno pregevoli dell’essenziale, come a dim ostrare che l ’eroe per aver variam ente operato e giustamente per ogni verso m eritato, bisognava guardarlo nel complesso della sua vita o del suo eroismo. D ire m o perciò senza entrare nel m erito, che d ’altronde non è nostro com pito, come Paolo Stoppa abbia avuto fino ad ogg i un peso non comune nel cinema, con la partecipazione a vo lte preponderante, a centinaia d i film . A lc u n i d i essi, quelli d ire tti da D e Sica e da V isconti, ad esempio,^ possono essere paragonati, sul piano dell’arte, a vere prestazioni teatrali d im pegno per caratterizzazione e risultato. T uttavia, come i grandi in te rp re ti teatrali stranieri, alla maniera d i Laurence O liv ie r, Louis Jouvet, Jean-Louis Bar- rault, ecc. anche d i Paolo Stoppa si può dire e si dice che « ha fa tto del ci nema », senza per questo costituire un grande p un to lum inoso nel firm am ento cinem atografico. La sua vera luce, forse la sola, è la ribalta. Così come la sua voce è quella che g li spettatori g li vedono salire dal petto e dal cuore, ascoltandolo, e non quella rifatta dalla colonna sonora, o prestata ad in fin iti in te rp re ti stranieri nelle fasi d i doppiaggio, chè Paolo Stoppa, come la M o re lli, sono m ostri d i bravura anche in questa ascosa bisogna. O g g i il co n trib u to degli a tto ri è per buona parte una fatica, video com preso; ma in tanta e m u ltifo rm e a ttività che concede la ricchezza, al m om ento della neces saria selezione, la prim a è sempre la vera, nata m agari dalla povertà e dalla sofferenza. Se Paolo Stoppa ha avuto il beneficio d i non conoscere la prim a, ha però volontariam ente fa tto sua la seconda, con la speranza d i lasciam il suo nom e tra coloro che hanno dato tu tto al Teatro, trasform andolo, arric Lucio Ridenti chendolo, onorandolo. C’è riuscito. C h i h a p a u r a d i E D W A R D A E R E E ? Molti critici sostengono che alla base dei temi scabrosi e violenti dell’opera teatrale di Edward Albee sia il complesso della sua origine oscura, della sua nascita illegittima. (Albee nato da madre e padre ignoti venne adottato quindici giorni dopo la sua venuta al mondo dal mibardario Reed Albee da cui prese il nome). Il fatto, come vedremo, ha la sua importanza determinante; determinante alla stessa ma niera del complesso erotico di tipo freudiano che dovette sorgere in Albee per qualche violento trauma subito da ragazzo. Il motivo ricorrente, quasi ossessivo, dell’innocenza perduta, assieme al tipo di critica infantilmente spietata mossa da questo giovane scrittore di teatro alla società in cui è nato e nella quale, per quell’originario rifiuto di sua madre e suo padre ad occuparsi di lui, egli si è da sempre sentito mal inserito, danno alle sue opere un significato protestatario del tutto particolare. Particolare perché le accuse che Albee muove alle strutture del suo paese partono inusitatamente da un’analisi di individui considerati nel ristretto cerchio degli affetti famibari, delle familiari incapacità, colpe, insufficienze. Individui che dibattono piccoli interessi personali e, per lo più, i più squallidi della loro vita — quasi sempre un fallimento — e che molto raramente parlano o agiscono in maniera da apparire seriamente coinvolti da problemi di morale generale quasi che questa appartenga per loro ad un altro mondo. (L’opera nella quale Albee fa decisamente eccezione a questo suo modo di vedere le cose è Tiny Alice). Il primo personaggio del teatro di Albee, Jerry di La storia dello zoo, è un individuo « senza famigba », che non ha un padre e una madre da ricordare, non ha un solo buon esempio da emulare e che, se ha tanto schifo di sé e delle cose che lo circondano è perché è incapace di amare. Il concetto di amore per lui è nato e morto con una brutta esperienza di passione anormale quando aveva quindici anni. Jerry è dunque un uomo senza contatti, che non può e non sa comunicare, che ha in sé e intorno a sé infinite cose sbagliate: uno spostato insomma al quale nessuno mai ha cercato di far capire gli eterni principi del bene e del male. E la mancanza di famiglia e di affetti familiari lo ha reso asociale. Quando quest’uomo, ancora giovane e non stupido ma ormai tarato da un isterismo para noico, incontra, seduto su di una panchina tranquillamente intento alle sue letture dome nicali, Peter (il secondo personaggio del dramma), persona dabbene, posata, piuttosto sen sibile, un individuo insomma di apparente normalità e rispettabilità che ha, a casa sua, ad attenderlo una felice famiglia composta da due figlie, una moglie, qualche gatto e due pappagalli, scatta in lui una molla, una determinazione: imporsi all’attenzione di que st’uomo a lui sconosciuto, provocarlo, arrivare ad un rapporto di violenza e, di questa violenza, restare volontaria vittima per finalmente soccombere del tutto, finire, morire e non pensarci più. La storia si svolge una domenica pomeriggio fra le piante del Central Park di New York. Peter, sulla quarantina, vestito in tweed, con pipa e grossi occhiali, seduto su una pan china — che di fronte ne ha un’altra — legge. Jerry, aria stanca, affranto ma più giovane del primo entra in scena e subito attacca discorso e lo fa nella maniera più strana possibile: « Sono stato allo zoo — dice a Peter —... Ho detto che sono stato allo zoo. Signore, sono stato allo zoo! », ma la stranezza non toghe al dialogo che segue fra i due una certa coe renza e, spigliato, veloce, teatralmente efficacissimo esso conduce lo spettatore al nucleo della vicenda, la storia del cane. La storia del cane a narrarla è ovviamente Jerry che, col cane, ne è il protagonista. Jerry abita una camera d’affitto al quarto piano di uno squallido casamento la cui proprietaria — il più brutto mucchio d’immondizia che esista al mondo, come egli la definisce, — pos siede un cane. Un cane mostruosamente nero, magro, malato che, fin dal principio, ha manifestato per lui, Jerry, un’antipatia irragionevole, spingendo questa avversione fino al punto di tentare ogni volta che egli rincasava di azzannarlo ai polpacci. Il racconto di Jerry prosegue con i particolari degli inutili tentativi da lui compiuti per accattivarsi le simpatie della bestia, fino alla sua determinazione di liberarsi dall’incubo avvelenandola. Peter ascolta dando segni di impazienza, non sa bene egli stesso se più sconcertato o disgu stato, e con l’evidente disagio di chi è costretto ad occuparsi di qualcosa che proprio, no nostante tutto, non lo interessa. Imperterrito Jerry prosegue a narrare di come il tentativo di avvelenare il cane fallisse e come nella bestia, che incredibilmente sopravvive all’avvelenamento, qualcosa era cam biato: all’avversione di prima si è infatti sostituita una sorta d’indifferenza che a Jerry ora sembra più penosa e insopportabile dell’antipatia di prima. E il giovane da questo trae la conclusione che gli è impossibile comunicare con gli altri esseri e che il tentativo fatto col cane è probabilmente il suo ultimo. E si è recato allo zoo « ... per scoprire qualcosa di più su come la gente coesiste con gli animali, e su come gli animali coesistono fra loro e con la gente ... ». Arrivato a questo punto del suo racconto Jerry si è seduto accanto a Peter e mentre parla comincia a spingere Peter perché si sposti e gli lasci posto fino a che lo costringe all’estremo limite della panchina e gli ingiunge di andare a sedersi su quella di fronte. Peter è sbalordito, ma difende la sua panchina e il suo diritto a restarci seduto. Ne nasce un alterco, Jerry con la coerenza di un pazzo lo stimola alla lotta e infine, tratto un col tello di tasca glielo butta e obbliga Peter a raccoglierlo. Quando Peter ha impugnato l’arma per difendersi, lo squilibrato gli si getta addosso e si ferisce a morte. Ma prima di morire si preoccupa di pulire il manico del coltello dalle impronte di Peter e con improvvisa gen tilezza dopo aver ritirato le offese e gli insulti, lo convince ad allontanarsi. The Zoo Story dopo aver fatto inutilmente il giro dei produttori americani, venne rappre sentata nel settembre 1959 a Berlino. Albee aveva trent’anni. Dopo il successo europeo l’opera incontrò anche quello americano e il giovane autore prese a scrivere e a rappre sentare a ritmo serrato una lunga serie di commedie. A The Zoo Story seguì The Death of Bessie Smith la cui azione si svolge durante il pome riggio e la sera del 26 novembre 1937. Una cantante negra che una volta fu famosissima resta gravemente ferita in un incidente stradale. Il suo accompagnatore, il negro Jack, corre disperato di ospedale in ospedale: dal braccio quasi staccato della donna il sangue non cessa di uscire, ma gli ospedali sono ospedali per bianchi. Bessie muore, ma Jack ca parbio va ancora in un ospedale. Qui un medico bianco sarebbe disposto a curare la negra, ma non può che constatarne la morte. Questo, benché argomento centrale, è solo una parte del dramma che si svolge su due paral lele: nell’ultimo ospedale al quale Jack bussa col suo ormai macabro fardello, un’infermiera bianca, figlia di un uomo che una volta fu ricco e potente, trascina amaramente i suoi giorni con l’animo roso dalla superbia del suo credersi, per quel passato di ricchezza, qualcosa di più di quanto ormai non sia. In rapporti amorosi con un giovane medico povero — lo stesso che pietosamente si occuperà di Bessie Smith — che vorrebbe sposarla, ella è divo rata da un miscuglio di sentimenti contrastanti che la fanno cattiva e spietata. La commedia si chiude con gli aspri rimproveri che la giovane muove all’innamorato che voleva occuparsi della povera Bessie Smith e che non ha potuto che constatarne la morte. Personaggio chiave dell’opera, questa donna, l’infermiera, è uno di quei casi di isterismo patologico assolutamente non infrequenti in America e che molto spesso si incontrano al centro di vicende teatrali, e letterarie in genere, di quel paese. Il teatro di Tennessee Williams ne è pieno, e non facciamo a caso il nome di Williams poiché egli è l’autore che più d’ogni altro ha influenzato Edward Albee. L’infermiera di The Death of Bessie Smith è il primo dei molti isterici personaggi femminili che Albee ha presentato nelle sue opere con sempre più violenza e passionalità. Donne dai nervi fragili, smaniose di sopravanzare tu tti quelli che le circondano e particolarmente l’uomo che le ama o le ha sposate, creature meschine, senza anima, perdute nel vuoto sogno di una potenza che non possiedono, hanno dato vita alle più belle delle commedie di Albee da Who is afraid of Virginia Woolf? a A Delicate Balance, eroine che, va ripetuto, somigliano moltissimo alle eroine di Tennessee Williams le quali ultime, tuttavia, conservano una finezza nella loro depravazione, una femminilità incancellabile che resterà sconosciuta alle donne di Albee. La donna per Albee, almeno la donna americana, è poco meno che un mostro, ed è a lei che direttamente o indirettamente egli fa risalire le gravi responsabilità del decadimento spirituale dell’istituto familiare negli Stati Uniti d’America. Perfino in The Zoo Story dove di donne in scena non ne compaiono, quelle evocate lo sono sotto stato d’accusa. La madre di Jerry, che se ne è fuggita con un altro uomo; una zia di Jerry che pur non dedita agli uomini o all’alcool non aveva saputo dare al ragazzo nes suna parvenza di affetto; la padrona di casa di Jerry, definita un mucchio di spazzatura per la sua stupida cattiveria e libidine sconcia; la moglie e le figlie di Peter su di un altro piano, brave persone, ma anch’esse egoiste e prepotenti: nella casa di Peter infatti non ci sono cani — come al bravo uomo piacerebbe — ma gatti e pappagalli, bestie a lui antipa tiche o indifferenti ma simpaticissime alle sue donne. Insomma la donna per Albee, è subito evidente, è con l’uomo che le vive accanto sempre in rapporto di prepotenza, di indifferenza, di insipienza, di sopraffazione. Dalla semplice evocazione di questi tipi di personaggi nella sua opera prima, Albee passò — come s’è visto — alla messa a punto dell’azione scenica dell’infermiera in La morte di Bessie Smith e la sua satira, pungente e amara insieme, divenne addirittura caricaturale ne La Sabbiera e ne II sogno americano le due commedie successive basate più o meno su un medesimo argomento tanto che l’una può essere considerata il complemento dell’altra. Dedicata alla memoria di sua nonna (nonna adottiva in quanto madre della madre adot tiva) una anziana signora con la quale Albee ha avuto forse l’unica vera corrispondenza di affetti della sua vita, The Sandbox è una delle più brevi opere teatrali che si conoscano. Dura quattordici minuti, i personaggi sono cinque: un marito, una moglie, la vecchia madre della moglie, un clarinettista e un giovanotto in slip che fa ginnastica e che sta a rappresen tare l’angelo della morte. La scena si apre con il giovanotto che fa esercizi dietro una grande sabbiera per bambini. Arrivano l’uomo e la donna che chiacchierano fittamente fra loro discutendo di un problema che non li scuote molto: la prossima fine della vecchia madre della donna. I due, trovato poi il posto di loro gradimento, stabiliscono di sistemare la nonna nella grande sabbiera e vanno infatti a prelevare la vecchina che fi attende fuori scena e dopo averla sistemata nella sabbia vanno a sedersi su due sedie vicino al clarinet tista che s’è messo a suonare. La vecchietta attacca discorso con l’angelo della morte e in breve il dramma è finito. Sullo stesso argomento della fatuità dei sentimenti familiari nella vita contemporanea è I l sogno americano. Anche qui sono di scena un uomo, sua moglie, la vecchissima madre della moglie, non c’è più il clarinettista e non c’è più l’angelo della morte ma in com penso una signora Barker che si occupa di un ufficio di collocamento per bambini abbando nati, un figlio adottivo che pur non comparendo in scena è un personaggio chiave, e il ge mello del figlio adottivo. Una farsa tragica che raggiunge punte di satira feroce: un quadro di situazioni reali pre sentate nel loro massimo ridicolo, una acuta critica all’istituto familiare e alla donna bor ghese americana. Di questo suo atto unico scrisse Albee in una prefazione del 1961: « ... è una protesta contro la storiella che tutto vada per il meglio in questo nostro paese così evasivo. «È un’opera offensiva? Lo spero, avevo intenzione di offendere», che è un’intenzione riuscita e — almeno a nostro avviso — neppure troppo arbitraria perché offendere la cat- tiveria, la stupidità, la superficialità, l’egoismo della gente non è offendere arbitrariamente qualcosa, ma qualcosa (e qualcuno) che merita d’essere offeso. E poi, soprattutto, quando lo si fa con un po’ di garbo e col talento, come è stato fatto in The American Dream (che è un piccolo capolavoro), con quella capacità tutta anglosassone di far correre i dialoghi e le situazioni sulle scene come se fossero veri e vissuti anche quando i significati sfiorano l’assurdo e l’incredibile. In The American Dream riprendendo il tema e in parte — s’è detto — i personaggi di The Sandbox, con una vivacità sorprendente Albee ha delineato una situazione familiare che, lontani o vicini gli echi della sua personale esperienza di figlio adottivo, evoca per lo spet tatore un mondo ben preciso, situazioni ben reali. Ispiratogli indubbiamente oltre che dalle sue private esperienze anche dal famoso atto unico di Williams: Una cena poco soddisfa cente, Il sogno americano è per assurdo la storia di un uomo e una donna che molti anni prima avevano adottato un bambino. Questo bambino, crescendo, aveva mostrato d’avere tutti i difetti dei bambini, e qualcuno in più bisogna ammetterlo, difetti insopportabili per gli avveduti genitori che anziché preoccuparsi di correggerlo man mano privano la povera creatura delle mani, della lingua e altro fino a che, sempre nel tentativo di repri mere l’insolenza e l’invadenza del figlio, ne affrettano la morte. La scena si apre su « daddy » e « mummy » (paparino e mammina) che discutono in attesa che una certa signora Barker, la stessa persona che tanti anni prima s’era fatta promotrice dell’atto d’adozione, si rechi'da loro che sono intenzionati ad aver «soddisfazione» del danno subito per la morte del figlio. Nell’attesa, mammina, che tiene nel suo ferreo pugno la volontà di paparino, racconta all’infelice consorte l’acquisto del suo ultimo cappellino « color grano » con tutte le piccole avventure inerenti al gran fatto che tu tti son sempre pronti a volerti ingannare ma che « mammina » non si fa ingannare e strepita e urla finché ottiene sempre soddisfazione. Entra in scena la « nonnina », unica persona della famiglia che, pur nel suo comportarsi stravagantemente, dice cose assennate (per quanto, tenuto conto della sua età, piuttosto spregiudicate) ed è continuamente ripresa dalla figlia che in più la minaccia di rinchiuderla all’ospizio, cosa che spaventa molto la povera vecchia. Arriva finalmente la signora Barker, e le cose strane che tu tti insieme i personaggi finiranno per dire e per fare aumentano fino alla conclusione che vede entrare in campo un giovane uomo (che si intuisce essere il gemello del primo figlio adottivo) il quale per le mutilazioni subite dal fratello è divenuto insensibile e che finirà per trovare la sua sistemazione, in sostituzione del gemello morto, in casa di « mummy » e « daddy » che avranno così il desi derato risarcimento e la desiderata « soddisfazione ». Da questo suo teatro che ha punti di contatto col teatro dell’assurdo, dopo la parentesi di un brevissimo e insignificante atto unico Fam and Yam, piccola storia d’un’intervista esplosiva carpita da un giovane commediografo ad un vecchio e famoso scrittore di teatro, Albee passò con Who is afraid of Virginia Woolf? a un genere quasi realistico, o meglio, « naturalistic ». E Who is afraid of Virginia Woolf? è senza dubbio il capolavoro di Albee, l’opera sua più completa che lo ha imposto all’attenzione mondiale come il più dotato dei giovani comme diografi americani. Con i suoi quattro personaggi sulle scene a dibattere il problema della propria vita moral mente fallita o in via di fallimento essa è, anche se non priva di difetti e ingenuità, un’opera veramente importante. George e Martha, Nick e Honey, due uomini e due donne che sbandierano intime miserie, frustrazioni e fissazioni con cinismo e spudoratezza, sono un quadro illuminante della loro società: la ricca società borghese che, nel caso specifico di quest’opera di Albee, è anche quella di un certo tipo di intellettuali, gli insegnanti di un « college » con le loro mogli e famiglie. Martha è la figlia non più giovane ma ancora molto affascinante del rettore della New Carthage University, e George, professore di storia, è suo marito. Un sabato sera, di ritorno da uno dei consueti ricevimenti dati dal vecchio rettore per i suoi professori, nel corso del quale egli ha presentato una serie di nuovi arrivati, Martha ha invitato a casa sua uno di questi insegnanti, Nick, con la giovane moglie, Honey. George accoglie malvolentieri la coppia: sono le due di notte ed egli sa, perché ben conosce le manie esibizionistiche della consorte, come la serata andrà a finire. George, più giovane della moglie di sei anni, è un uomo precocemente invecchiato, stanco, deluso; Martha lo maltratta, lo avvilisce, lo umilia da vent’anni senza sosta, senza pietà. Poiché egli non è stato capace di conquistarsi nell’ambito dell’università queU’emmente posizione verso la quale per il fatto d’aver sposato lei, la figlia del rettore, gli erano state spalancate tutte le porte, Martha nutre verso di lui rancori insanabili. George purtroppo « non ci sa fare » ed è restato « infognato » al suo semplice posto di insegnante nella facolta di storia. Martha, frustrata nelle sue maggiori ambizioni, che oltre quella d’avere un marito impor tante era quella di generare un figlio che non è avvenuto, poiché il loro matrimonio è stato sterile, è ora a cinquantadue anni, quando Albee la mette in scena, una povera donna iste rica, svuotata, ignobile la cui reazione al fallimento delle sue aspirazioni è stata quanto mai meschina: nei confronti del marito ella ha infatti piano piano assunto un comportamento di sadico egoismo, e per quanto riguarda la mancata maternità è arrivata al punto di inven tarsi l’esistenza di un figlio. Il marito ormai la lascia fare, solo esige che quest’ultima fan tasia (alla quale probabilmente egli stesso si abbandona volentieri) resti nell’intimità della famiglia. Martha per poter usufruire della sua collaborazione all’accarezzamento del suo sogno impossibile acconsente, ma, ogni tanto, si lascia prendere dal suo bisogno di par lare a qualcuno di questo figlio inventato e da qui nascono con George nuovi dissidi. Il dramma di George e di Martha sembra dunque esser nato dalla loro impossibilita ad avere figli (« non potevamo averne » ammetteranno insieme) e dall’incapacità di George a « portare i pantaloni » in una casa e in una situazione in cui per Martha era « stretta- mente necessario », tanto che è lei, da anni innumerevoli ormai, a portarli, metaforica mente è ovvio. Ma quest’ultimo non è che un dramma d’apparenze, George potrebbe benissimo far fronte alle proprie responsabilità, è solo l’invadenza, la prepotenza, l’assurda prepotenza di Martha, che ha creato una situazione tanto insopportabile, l’incapacità di Martha a comprendere o ammettere la personalità del marito che è diversa dalla sua e da quella di suo padre, da lei idolatrato. Ma poiché George non è aggressivo, non è un uomo portato alla lotta per il potere, ha ceduto le armi senza combattere e sua moglie ne ha fatto uno zimbello. Ma torniamo ai fatti: in casa di questi due sposi, ormai anziani e inariditi dalla lunga reci proca sopportazione, arrivano alle due di quel sabato notte, Nick e Honey, e Martha, al massimo dell’euforia per le troppe bevande alcooliche, inizia la sua scarrellata nel tempo, le sue rievocazioni del passato. Il passato suo e di George, una sfilata di tristi episodi, di umiliazioni spirituali che met tono a nudo le anime di entrambi, che svelano una lotta cieca, assurda, da sempre combat tuta l’uno contro l’altra alla ricerca d’un punto di contatto che non s’è mai trovato. Nick e Honey assistono con reazioni diverse allo spettacolo tanto gratuitamente e imprevedi bilmente offerto loro; Nick ben attento a trarne i suoi vantaggi che non sono solo quelli del piacere che la donna (anche se affascinante, così più vecchia di lui) gli offre, Martha ne farà infatti il suo amante occasionale, ma quelli che egli calcola per il bene della sua carriera, tanto strettamente legata, neH’ambito della New Carthage University, agli umori e ai capricci e alle simpatie delle mogli dei professori che contano. E mentre così Nick arraffa a piene mani — senza un minimo di rispetto per George, che d’altronde è ormai un individuo al di là di ogni rispettabilità — quanto Martha gli offre o gli può offrire, la sua piccola moglie dopo aver svelato la sua parte di vacuità morale, va ad addormentarsi ubriaca sulle piastrelle fredde del pavimento della stanza da bagno, George impotente e incapace di fermare in un modo qualsiasi l’andamento della serata, ed egli stesso ormai vittima dei giochi e dei divertimenti prediletti da sua moglie, reagisce come può e si prende vendetta del nuovo e sconcio tradimento di Martha, perpetrato si può ben dire sotto i suoi stessi occhi, sbandierando all’improvviso una notizia che per la moglie sarà crudele. Il figlio — il figlio il cui compleanno essi avrebbero festeggiato do mani, il figlio che Martha rompendo una volta ancora il suo patto di silenzio ha particola reggiatamente descritto ai due ospiti — è morto. Non compirà i suoi ventun anni domani, è morto, non tornerà più. Martha non vorrebbe accettare la distruzione della sua lunga illu sione, supplica George: « Non puoi deciderlo da solo! », ma George, che ha finalmente trovato un modo per ferirla, è irremovibile. Gli ospiti se ne vanno, George canterella: Who is afraid of Virginia Woolf? che nel corso del ricevimento della sera prima era stato motivo di grande ilarità fra tu tti i professori per la sostituzione di parole fatta da qualcuno al ritornello della canzone popolare: « Chi ha paura del lupo cattivo ». « Who is afraid of thè bad -wolf, bad voli, bad wolf? » era diventato con la variante delle due ultime parole (l’ultima, poi, di suono simile): «Who is afraid of Virginia Woolf? ». Martha se ne era molto divertita; George no. E tuttavia è stato George a ripetere durante il prolungamento della serata in casa loro ogni tanto il motivetto e a cantarlo infine, a serata conchiusa, a Martha restata sola: «Who is afraid of Virginia Woolf?» e Martha risponderà stancamente: « Io, io... ». Al titolo dell’opera hanno tu tti attribuito reconditi significati collegandoli all’infelice fine della scrittrice inglese, significati che se sono possibili non è tuttavia sicuro fossero nelle intenzioni di Albee, sebbene si può ammettere che Alhee vada spesso al di là delle sue stesse intenzioni e che, in quel gioco di parole, c’è un senso profondo di malinconia. Quella stessa raffinata malinconia che emerge dalla critica e dalla condanna che Alhee fa in questo dramma alla società benestante e futile nella quale vegetano Martha e George, perché è una condanna fatta attraverso personaggi per i quali, malgrado tutto, Alhee nutre finalmente anche una sua pietà, e nel fondo di questa pietà una piccola speranza che non tutto proprio sia perduto. Martha e George si odiano, eppure si sono amati e, forse, si amano ancora. Si offendono, si torturano, si straziano proprio perché, da due sponde opposte, si amano e si vorrebbero, benché ormai l’isterismo di Martha nascendo dal suo ventre insaziabile, dal suo utero insod disfatto sia diventato patologico. E alla base di questo sta l’educazione sbagliata eh’essa ha ricevuto, la sua giovinezza ricca, viziata e senza ideali: una vita in definitiva senza pro blemi reali. Anche Martha è una vittima, nessuno ha saputo a suo tempo insegnarle che l’amore è una cosa importante, da rispettare. Che l’amore non è un semplice accoppiamento ma è 1’incontro di due creature di sesso diverso che hanno una dignità da conservare e svi luppare, doveri verso se stessi e verso gli altri, e un grado di spiritualità che conferisce alle azioni una finalità umana. Che poi l’amore sia anche, e a volte solo, l’atto di un rapporto fuggitivo, fisiologicamente necessario, che non coinvolge o non tocca l’anima di chi lo compie, si deve ammetterlo, ma anche a quel semplice atto non può venir tolta l’elementare dignità della natura; tutto scade, si avvilisce, si sporca e diviene perverso al di là di questo limite. Tutto crolla: la dignità propria e quella degli altri, l’istituto della famiglia e l’organizzazione stessa degli stati. È la storia ad insegnare che alla lascivia dei costumi segue sempre il crollo delle ci viltà anche se ricche ed evolute. Donne come Martha di Chi ha paura di Virginia Woolf?, donne che nella società ameri cana hanno un peso, sono il pericolo più temibile del decadimento di una potenza. Il grande successo di Chi ha paura di Virginia Woolf? fu seguito da quello tiepidissimo di The Ballad of thè sad Café un adattamento da una novella di Carson Macullers. E per quanto una parte della critica fosse favorevole, si tratta di un lavoro mediocre. Particolarmente, ci sembra, l’introduzione di un narratore con funzioni anche di commen tatore, nuovo al genere di Alhee, non fa che appesantire la storia già di per sé pesante, e mai la chiarifica (essa oltretutto è abbastanza oscura). Yi si narra di uno strano matri monio liberamente accettato e poi inspiegabilmente subito rotto, fra una giovane donna, Amelia Evans, e l’uomo più affascinante e pericoloso della sua contrada, Marvin Macy. Marvin Macy per conquistare il cuore della giovane abbandona i suoi cattivi costumi e dopo due anni di vita laboriosa e ordinata chiede in sposa Amelia, che accetta. Seguono le nozze e lo strano comportamento di Amelia che non vuol do* mire con lo sposo e che, dopo pochi giorni, lo scaccia addirittura di casa. Marvin Macy finirà in un penitenziario e dopo anni e anni di lontananza, tornando alla casa di Amelia la trova trasformata in un caffè dove la gente della città si riunisce alla sera a bere, mangiare e conversare, e trova sua moglie sistemata con Cousin Lymon, un suo parente gobbo arrivato una sera da molto lontano e che non se ne è più andato. Inevitabile lo scontro fra i due e straordinaria la conclusione che vede abbandonata Amelia Evans da Marvin Macy e Cousin Lymon fra i quali è sorta una strana e ambigua intesa e che se ne vanno per sempre, non si sa dove. Il caffè chiude i battenti e tutto è finito. L’opera, con un suo sapore di sagra antica, le sue sorprese un po’ infantili e teorie inaf ferrabili e misteriose suU’amore, resta, a nostro parere, limitata in una sua atmosfera di gratuita ambiguità. Dopo questo adattamento, Albee produsse per le scene il più sconcertante dei suoi drammi: Tiny Alice. Si ’dice cbe Gielgud, che ne fu il primo interprete, alla prima lettura abbia chiesto ad Albee: « Ma che cosa significa? Non ci capisco niente » e che Albee gli abbia risposto: « Non preoc cuparti, cerca di rendere la realtà drammatica del personaggio, è tutto quello che puoi fare », e risulta poi, almeno dalla prefazione al testo stampato in America, che 1 autore è pienamente convinto della limpida chiarezza del suo lavoro. Ma la commedia, neppure nella splendente interpretazione di Gielgud, ha mai avuto suc cesso, poiché, anche a penetrarne la simbolicità, la vicenda resta abbastanza inafferrabile. E non è che Tiny Alice manchi di scioltezza, né di teatralità, né perfino di un soffuso anelito di verità che si manifesta nella disperata e disperante ricerca di Dio di fra Giuliano, attra verso tu tti gli ostacoli dell’isterismo, una vera piaga sociale in America. È innegabile che quando scrisse Tiny Alice Albee aveva un suo problema di Dio, che è vivo, attuale, importante, e in quest’opera egli non dibatte il problema dell’assenza di Dio ma quello della sua falsa presenza. La presenza di un Dio che gli uomini hanno creato, o riplasmato, a loro immagine ¡e somiglianza, una bambola di pezza o, per usare l’espressione dello scrit tore stesso: « fin dio di marzapane con gli occhi di uva passa ». Ma i difetti di Tiny Alice stanno nel fatto che tutto è purtroppo restato oscuro, ingenuamente o intenzionalmente non sapremmo dire, vago, e non c’è raggiungimento poetico. L’impressione che se ne riceve è che l’autore abbia avuto la presunzione di poter far opera di poesia prescindendo dallalogica. La storia della Piccola Alice è questa: un principe della chiesa, Sua Eminenza il Cardinale, riceve un giorno nel suo giardino un antico compagno di scuola, ora avvocato, col quale, sembra di capire, ebbe in passato strani rapporti. I Mue, oggi, si dimostrano senza mezzi termini una reciproca profonda antipatia. Il dialogo che si svolge fra loro è un crescendo di ricordi sgradevoli, di volgari accuse e contr’accuse, di parole dure che colpiscono l’avversario e la propria ascendenza: « figlio di... » e cose del genere vengono dette da entrambi con una disinvoltura che, tenuto conto soprattutto del rango 'di Sua Eminenza, suona veramente sconveniente. Quando finalmente si ritorna a discorsi più pacati, il Cardinale viene informato che la ric chissima amante dell’avvocato farà donazione anche alla Chiesa cattolica — oltre che alla Presbiteriana e agli Ebrei, ad ospedali, università, e sovvenzioni a moti rivoluzionari qua e là nel mondo — di un obolo annuale di cento milioni di dollari. Questo durerà per vent’anni. La cifra, enorme, viene devoluta a puro titolo di sminuimento di una ricchezza tanto grande che non si sa più come e dove accumulare. Tutto fin qui, sconcertante fin che si vuole, resta però nei termini di fatti e avvenimenti abbastanza chiari. A ingarbugliare le cose è la comparsa in scena (in casa della misteriosa Miss Alice) di padre Giuliano, umile frate segretario di Sua Eminenza, prescelto dalla bene- fattrice come intermediario fra lei e la Santa Chiesa. Miss Alice vive in un castello sontuoso di cui, nella sala biblioteca (luogo dove per lo più si svolgerà d’ora innanzi il dramma), esiste un modello su scala rifinito nei più minimi particolari e che, a sua volta, nella sua sala biblioteca in miniatura contiene un altro piccolo modello, e cosi via, « all’infinito », secondo quanto afferma il maggiordomo allo sconcertato padre Giuliano che con una borsa da avvocato sotto il braccio è arrivato nella regale abitazione per il suo primo incontro con Miss Alice. Ammesso finalmente alla presenza della misteriosa donatrice, padre Giuliano si trova di fronte a una donna apparentemente vecchissima che si finge sorda e stravagante e che, però, nel giro di poche battute di dialogo butta a terra il suo mascheramento e si rivela nella sua splendente bellezza di donna straordinariamente affascinante. A questa donna padre Giuliano racconterà certi suoi turbamenti derivatigli dal fatto che per un certo periodo di tempo egli era stato abbandonato dalla fede. Miss Alice ascolta sorridendo il racconto del povero frate e non si fa scrupolo di civettare apertamente con lui, ponendolo in serio imbarazzo. La giovane donna, legata da un patto misteriosissimo con il suo attuale amante, l’avvocato e il maggiordomo, che pure in pas- sato è stato con lei in relazione amorosa, vuole — e, sembra, debba — conquistare il cuore di Giuliano. Le sue arti di seduzione hanno in breve l’esito desiderato e Giuliano — che non ha gli ordini sacerdotali — accetterà di sposare Miss Alice. Il terzo atto dell’opera, decisamente il più misterioso di tutti, si apre con Giuliano che cerca inutilmente per il castello gli invitati, la moglie, l’avvocato, Sua Eminenza, tutti improvvisamente scomparsi un minuto dopo la cerimonia nuziale che lo ha legato a Miss Alice officiante il Cardinale stesso. In sala biblioteca si incontra finalmente col maggior domo il quale si comporta più stranamente del consueto, che è tutto dire. Ma Giuliano, ingenuità fatta persona, non rileva niente, non afferra nulla. L ’avvocato e Sua Eminenza hanno nel frattempo perfezionato l’accordo della donazione, e nel loro colloquio compaiono strani accenni all’inevitabile sacrificio — corpo e anima — di frate Giuliano. E resta fra loro deciso che, Giuliano lo voglia o no, verrà abbandonato nel castello in compagnia della « piccola Alice », la Alice che abita il modello del castello e le sue infinite piccolissime copie. Anche Miss Alice e il maggiordcmo abbandoneranno la casa, e tu tti insieme, dopo avere brindato agli sposi, tentano di persuadere Giuliano che quella che egli ha sposato non è Miss Alice (che è un’apparenza), ma Alice, « thè Tiny Alice ». « I have not come this long way... walked in those rohes... to be mocked! » esclama Giuliano con orrore e l’avvocato, per mettere la parola fine alla vicenda, spara e lo col pisce a morte. Quella frase di Giuliano: « Non ho fatto tutto questo cammino, portato quegli abiti (si rife risce al saio) per venir schernito! » è probabilmente la più esplicativa del dramma, il fiderò della vicenda, un’accusa contro chi fa delle religioni un mezzo per fini miserabili. Il dramma si chiude con un patetico e disperato monologo del moribondo che confusamente invoca Dio e Alice. Conclusione abbastanza misteriosa che lascia insoddisfatti. Anche a voler vedere dietro ognuno dei personaggi il simbolo più probabile — il Cardinale può infatti facilmente rappresentare la Chiesa, l’avvocato la ragione, Giuliano la fede e la buona fede, la « pic cola Alice » la realtà e Miss Alice l’illusione della realtà, il gioco delle parti rimane sostan zialmente oscuro anche se è innegabile che vi si intravede una critica mordente alle false credenze degli uomini, al loro essersi votati ai beni illusori del benessere economico e delle più miserabili soddisfazioni, al loro essersi prostrati in pagana adorazione al dio danaro, alla loro sete di potere; a una civiltà in definitiva che ha ripudiato ogni ideale. Tutto questo lo si intuisce, lo si avverte attraverso una particolare atmosfera scenicamente ben costruita, ma insieme si avverte un qualcosa di artificioso e una confusione che lascia sconcertati. A Tiny Alice Albee fece seguire Malcolm, un adattamento dalla novella omonima di James Purdy. Una fantasia scenica che sembrerebbe imbastita con la leggerezza di un’operetta per comici di quart’ordine anche se col nobile scopo di esprimere il grido di angoscia di un essere umano, Malcolm, abbandonato troppo presto a se stesso nello squallido mare della vita/ Il dramma racconta le miserabili avventure che coinvolgono il giovanissimo Malcolm per iniziativa di un presunto filosofo (il professor Cox, figura spregevole) e la sua fine imma tura e insensata. La scena si apre con Malcolm, che, seduto su di un sedile dorato davanti all’albergo dove alloggia, aspetta suo padre. Malcolm è giovanissimo, quindici anni (ma la sua età sarà svelata solo alla fine del dramma) e suo padre è sparito, svanito improvvisamente nel nulla, non si sa quando né come e, anzi, nello svolgimento dei fatti, si finisce perfino di dubitare che questo signore sia mai esistito. Mentre Malcolm se ne sta malinconicamente seduto sulla sua panchina, passa davanti all’albergo un ambiguo individuo, il professor Cox, che apo strofa il ragazzo e in breve lo convince ad andare a far visita a certi amici suoi, i giovani Raphaelson. Dopo i Raphaelson, una ben strana coppia di sposi, Malcolm verrà in contatto col miliar dario Girard Girard e la sua vecchia moglie capricciosa che si invaghisce perdutamente di lui. Avvenimenti di vario genere portano infine Malcolm nella casa sovraffollata di una pittrice dalla quale Madame Girard comprerà il ritratto di Malcolm e Girard Girard diret tamente Malcolm dietro versamento di una cospicua somma di danaro. Ma quest’ultimo mercato non viene perfezionato perché mentre il povero Malcolm aspetta, com’era stabilito, il suo compratore nel Parco viene avvicinato da un giovane che lo invita a seguirlo nel club dove la celebre cantante Melba dà spettacolo. Melba naturalmente si invaghisce a prima vista del ragazzo e, dopo averlo spinto al vizio del bere, si fa sposare da lui. Ma in breve, sfinito dall’alcool e dalla vita dissoluta, Malcolm spira fra le braccia di Melba e di Madame Girard. « Ci sono cose che non dovrebbero essere permesse, nella vita! », grida Madame Girard alla incauta e crudele seduttrice, « Ci sono cose che nella vita non dovrebbero essere permesse! » ed è un grido che l ’autore pone in bocca al suo personaggio con un’angoscia sincera, un grido che suona con chiarezza, finalmente, fra le tante brutture e falsità del dramma, in difesa dei valori essenziali dell’esistenza, ad affermare che la vita è importante e non è lecito a nessuno sprecarla, farne uso spregevole o, peggio ancora, indurre altri a farne uso spregevole. Un’affermazione che l’ordine è necessario e che di ordine tutte le creature hanno bisogno. L’ultima opera di Albee, A Delicate Balance (« Un equilibrio delicato »), portata in Italia da Zeffirelli, è cronaca recente. Rappresentata in America per la prima volta lo scorso settembre, ha ottenuto oltreoceano un buon successo — niente di eccezionale se si fanno confronti con quello di Who is afraid of Virginia Woolf ? — ma tuttavia soddisfacente. È un buon lavoro che si snoda attorno al principale motivo, come è chiaro nel titolo, del precario equilibrio nel seno di una famiglia che viene messo in maggior pericolo dall’esten- dersi del problema ad una famigba di amici. Agnes e Tobias, due anziani sposi che hanno avuto due figli, un maschio morto troppo presto ed una femmina, Julia, vivono nella loro bella e confortevole casa ossessionati dalla presenza di una sorella di Agnes, Claire, di lei più giovane, dedita all’alcool, una povera donna scombinata, un po’ mentecatta, ma lucida commentatrice dell’esistenza di coloro che le stanno vicino oltre che della propria. La tragedia trova il suo culmine col ritorno a casa di Julia che reduce del suo quarto falli mento matrimoniale trova la sua stanza da ragazza occupata da Hedna ed Harry, una coppia di sposi amici dei genitori. Hedna ed Harry sono arrivati la sera prima in casa di Tobias e Agnes e hanno chiesto aiuto e rifugio: qualcosa di molto strano è accaduto loro, un’improvvisa paura li ha colti nella loro solitudine, li ha fatti sentire sperduti, in balia di cose estremamente misteriose. Sono venuti a chiedere comprensione ai loro più cari amici che li hanno rassicurati, confortati, ospitati. L’arrivo di Julia, il suo isterico bisogno di ritrovarsi nella sua stanza, pone ai genitori una alternativa. Quale deve essere ora il loro atteggiamento di fronte ai vecchi amici? È vero — come afferma Julia — che essi non hanno diritto d’invadere la loro intimità, di togliere a Julia qualcosa, di profanare l’unità, già tanto precaria, della famiglia? Agnes e Tobias sanno che il motivo misterioso che ha spinto Hedna e Harry a lasciare precipitosamente la loro casa, è l’angoscia della loro solitudine, la speranza di un contatto profondo, d’una corrispondenza d’affetti, di una convivenza finalmente stretta con gli altri; gli « altri » che sono qui gli amici di tutta una vita. Come non tendere loro una mano? Ma Julia è loro figlia, e anche Julia in questo momento ha bisogno di loro, delle loro attenzioni, di ritirarsi nella stanza della sua infanzia, della sua prima giovinezza, a ritrovare se stessa che le sembra impossibile poter fare in un’altra stanza qualsiasi della casa. La conclusione, che vedrà gli amici tornare tristemente a casa loro, con l’amaro commento di Hedna che la sobtudine non si può fuggire e che, quali siano le tue illusioni, ti ritroverai sempre solo con te stesso, era nella logica delle cose e nel naturale svolgimento del dramma, solo che, a noi sembra, c’è qualcosa di più che non dovrebbe sfuggire. Tobias e Agnes non scacciano i loro amici, o, meglio, non inducono i loro amici ad andarsene, per egoismo; lo fanno perché costretti a scegliere fra loro e la propria figha. Insomma solo per una legge di necessità per uomini che ancora vivono, sia pure credendo d’aver raggiunto il massimo della civiltà e del progresso, una primordiale vita affettiva che vuol necessariamente rispet tati innanzi tutto i diritti di natura. Julia, una donna di trentasei anni con quattro esperienze matrimoniali alle spalle, torna nella casa di suo padre convinta che i suoi genitori non le rifiuteranno mai accoglienza, comprensione e soprattutto la totale dedizione di se stessi. Ma i suoi genitori vogliono ogni tanto poter essere semplicemente Tobias e Agnes e non per l’eternità « Motber and Dad » (mamma e papà) come dice Tobias alla figlia che si rifiuta di accettare questo perché si sente sola, non ha una sua famiglia perché non ha figli, ha una vita sentimentale difficile e contorta, ha bisogno di suo padre e di sua madre e della « sua camera » proprio nel mo mento in cui di Tobias e Agnes di « quella camera » hanno bisogno anche per Hedna e Harry e vi si sono installati. Ed ecco fra Julia e gli altri nascere il conflitto che culmina nella scena in cui la giovane donna con una crisi d’isterismo proclama i suoi diritti inalienabili su Tobias, Agnes e la « sua camera » che diventa il simbolo di tutto. Scena teatralmente imponente che si avverte nascere direttamente dalle insoddisfazioni e più intime delusioni familiari dell’autore, al quale i genitori naturali negarono tutto e quelli adottivi seppero dare poco (si parla di affetti, ovviamente, perché i miliardari Albee offrirono al figlio adottato ogni sorta di be nessere). Il problema agitato dalla commedia è questo: hanno diritto un padre e una madre ad una vita affettivamente indipendente? Per Albee che vive col desiderio infinito e inappagato dell’amore di una famiglia, in Un equilibrio delicato è stato facile arrivare a tesi se non proprio assurde certo discutibili. Una donna a trentasei anni dovrebbe venire considerata quantomeno completamente adulta e che Julia imponga ai genitori, per via di una stanza che le è più cara di un’altra, una scelta tanto drastica, suona artificioso, un po’ fuori del reale. Solo una persona che manchi completamente di esperienza in proposito — e ci sembra il caso di Albee — poteva arri vare ad una tale ingenuità che, tuttavia, se sminuisce il problema non toglie nessun inte resse allo studio di personalità isteriche del tipo di Julia, certamente piuttosto rare in Europa dove il concetto di amore fra genitori e figli è di reciprocità e dove si riconoscono doveri anche ai figli, quando adulti. Ma evidentemente in America, almeno per quanto afferma Albee, le donne sbagliano proprio tutto, quale sia la parte loro assegnata. In Un equilibrio delicato sbaglia Agnes che non è pronta nella scelta, che non sa darsi tutta appena richiestane al problema di sua figlia; sbaglia Claire che beve e fa stranezze e com menta e avvilisce la propria vita e quella degli altri, che è sola e non sa e non può trovare « un uomo tutto per sé » e da anni immemorabili pesa sull’equilibrio familiare di sua so rella; sbaglia Hedna che chiede all’amicizia cose che l’amicizia non e ancora matura per dare; sbaglia Julia perché è isterica e si è fatta un concetto deformato delle cose e soffre nel vedere i lim iti umani degli altri e non guarda mai in faccia quelli propri. Ecco quindi la famiglia andare in rovina, sfasciarsi, non far più fronte ai propri compiti. È un buon dramma, con ottimi dialoghi; non mancano le consuete nobili aspirazioni: « To bias ci porterà tu tti in un posto... where it is always good and happy » dice Claire con infi nita malinconia e qui il discorso, per un attimo, si sposta sugli uomini, sugli sbagli degli uomini. Non è forse la debolezza di Tobias, il suo lasciar correre, la sua offensiva pazienza, come già è stata l’ingenuità, l’arrendevolezza del giovane medico nei confronti dell’infermiera in The death of Bessie Smith, e l’acquiescenza idiota di « paparino » nel Sogno americano, e la dilatata alcolizzata soggiacenza di George in Who is afraid of Virgina Woolf ?, non è forse questo atteggiamento dell’uomo americano che contribuisce a potenziare lo sfacelo familiare? Quasi che, poiché a un certo punto da una situazione di soggiacenza le donne hanno levato la testa e hanno detto: potremmo comandare un poco anche noi, l ’uomo si sia sentito di rispondere: bene, e allora comandate solo voi. Come si fa con i popoli coloniz zati che vengono prima tenuti nella più completa ignoranza e quando si ribellano li si abban dona a se stessi dicendogli: arrangiatevi da soli. Buon Dio, come se il problema del genere umano non coinvolgesse uomini e donne, colonizzatori e colonizzati. « E Tobias ci porterà tu tti in un luogo dove solo regnano bontà e felicità », e certo, dev’es sere Tobias perché per secoli è stato lui a decidere del bene e del male, e oggi non può riti rarsi al club e poi pretendere che, a cominciare dalla propria famiglia, le cose vadano bene. E solo Claire, la povera alcolizzata, il personaggio più vivo e più bello del dramma, l’ha capito. Ma poiché le cose, a dirle, è ovviamente sempre Albee, ecco farsi chiara e definitiva e com pleta nel suo teatro la critica a fatti e situazioni, al costume del suo paese. Ma chi ha paura di Edward Albee? costanza Andrcucci E D W A R D A L B E E I V E N T ' A N N I D E L P I C C O L O T E A T R O 2 maggio 1947: la prima riunione della compagnia del Pic colo Teatro. Da sinistra, Elena Zareschi, Lia Angeleri, Mar cello Moretti, Lina Paoli, Lilla Brignone, Otello Zago, Er nesto Pezzinga, Antonio Battistella, Salvo Randone, Mario Feliciani, Aldo Santi, Maria Andrilli, Giorgio Strehler, Ar mando Alzelmo, Carlo d’Angelo, Lia Zoppelli, Antonio Greppi (primo presidente del Teatro, Sindaco di Milano), Gianni Ratto, Franco Parenti, Tino Bianchi, Gianni San- tuccio, Piero Carnabuci, Mario Luciani, Paolo Grassi, Mario | Apollonio, Arnaldo Martelli. La sala del Piccolo Tea tro, oggi. Essa è stata rinnovata integralmente nella struttura e nel l’arredamento nell’estate del 1952. U n d i a l o g o a p e r t o c o n p u b b l i c o , a t t o r i e a u t o r i C he il 14 maggio 1947 Paolo Grassi e Giorgio Strehler abbiano buttato sul tappeto verde della loro giovi nezza e del loro entusiasmo la carta r i schiosa del Piccolo Teatro, non è, in fondo, un fatto prodigioso. E prodigioso non è nemmeno il fatto che quel Piccolo Teatro sia arrivato, oggi, a compiere ven ta n n i col carico di tito li che lo proiet tano verso le dimensioni e le strutture del Teatro Nazionale. I l fatto prodigioso è che tutto ciò sia potuto avvenire a M i lano, vale a dire in una città la cui ammi nistrazione comunale, per festeggiare l ’av venimento con una cerimonia tra il mon dano e il democratico nelle dorate sale della Villa di via Palestro, abbia diramato in viti in cui il Piccolo Teatro era definito « egregia istituzione ». Vogliamo dire che M ilano — ancorché il suo sindaco, professor Bucalossi, sia to scano — non è città usa a sperperare aggettivi. D i fronte a industrie che assi curano il lavoro a centinaia di migliaia d’operai, a imprese i cui bilanci ruotano nell’ordine di m iliardi, a una rete di inte ressi finanziari che costituiscono l ’auten tico nerbo economico della nazione, riser vare a un teatro — sia pure il proprio Teatro — l ’aggettivo « egregio » è un riconoscimento che, di per sé, vale molto più di tutte le numerosissime medaglie distribuite nel corso di quella pubblica adunanza. Si badi: non c’è la minima ironia, nelle nostre parole. G li ultim i due o tre anni hanno dato torto a Giorgio Guazzotti che nel suo saggio Teoria e realtà del Piccolo Teatro, edito da Einaudi nel 1965, scri veva: « A ll’estero è ormai evidente che M ilano è la nascente capitale del nuovo teatro italiano ». No: Milano ha rinun ciato alle responsabilità di questo suo possibile destino. Non per niente, il Pic colo Teatro è entrato nel ventunesimo anno senza avere ottenuto una ragionevole soluzione al suo problema più grave e urgente, la seconda sala oltre quella, ina deguata, di via Rovello, dovendosi consi derare l ’« occupazione » del « Lirico » meno che un palliativo, un atto assurdo se non addirittura dannoso. Eppure, in queste condizioni, nelle quali concorrono il luogo comune della metro poli attenta soltanto al proprio duro lavoro quotidiano ma anche e soprattutto un coacervo di condizionamenti politici, il Piccolo Teatro è riuscito a portare avanti con coerenza il suo discorso, attraverso una attività che le statistiche, orgoglio di Paolo Grassi, sintetizzano in oltre cento testi rappresentati, circa centotrenta città visitate, mezzo migliaio di attori scrittu rati, e così via. inutile associarci ai rilievi, Riteniamo unanimemente ripetuti, sull’importanza del rinnovamento compiuto dal Piccolo nel costume teatrale italiano. Noi, peral tro, non apparteniamo alla faziosa schiera di coloro che per sottolineare questo indi scutibile rinnovamento si ostinano a svi lire la vita teatrale italiana tra le due guerre. La cultura di un Paese, quindi anche il teatro, è sempre l ’espressione di una determinata contingenza politica e sociale, e risponde sempre, in un rapporto diretto, alle esigenze di quella società. Affermare che il Piccolo Teatro è nato, per un processo irreversibile, dalle condi zioni storiche dell’immediato dopoguerra, è più esatto che vedere la sua fondazione come un gesto messianico, ispirato e rivo luzionario, mentre non toglie nulla alla sensibilità, al coraggio e al tempismo di Grassi e Strehler. A llo stesso modo e con la stessa serenità, senza però drammatizzare, si può prendere atto della crisi involutiva in cui il Piccolo Teatro si troverebbe attualmente. E ’ natu rale; ci si dovrebbe allarmare, semmai, per il contrario. E ’ vero che nella Sta gione 1947-48 furono realizzati undici spettacoli, e tre soltanto — ad esempio — nel 1955-56; è vero che da qualche anno le promesse dei cartelloni non sono — numericamente — tutte mantenute. Ma bisogna pensare alle maggiori respon sabilità, anche su piano internazionale, cui via via è andato incontro un orga nismo che, tra l ’altro, si regge sul delicato, difficile equilibrio tra un apparato inevi tabilmente tendente a macroscopizzarsi ed un lavoro artistico vólto a un progres sivo, estenuante impegno estetico. Stiamo sempbcemente constatando — sia ben chiaro — non difendendo (poiché non ci sembra necessario ) risultati e posi zioni obiettivamente verificabili. Una decina d’anni fa, Giorgio Strehler ricordava che in Francia, nel 1945, il documento di fondazione della « Com pagnie des masques » recava queste pa role: « La nascita di un teatro nasconde sempre una parte di mistero, una parte di miracolo. Non si può spiegare »; e, rilevando dolorosamente che « La Com pagnie des masques » era poi scomparsa famosa ma prematura, commentava: « Un teatro non solo nasce ma vive in un suo mistero ». Ora il « mistero » nel quale e per il quale il Piccolo Teatro è vissuto e continuerà a vivere, non è, alla fin fine, indecifrabile. A lla base di esso ci possono essere, anzi ci sono, l ’insoddisfatta genialità di un regista e la pertinace presenza di un orga nizzatore. Ma qualcos’altro ancora: innanzi tutto, la presa di coscienza di certi valori da parte di un pubblico meravigliosa mente strappato alla sua istintiva diffi denza e alla sua epidemica pigrizia; in secondo luogo, le virtù e la modestia, la disciplina e l ’insofferenza, gli estri e lo spirito « routinier » delle attrici e degli attori che sono entrati, per rimanervi a lungo o uscirne presto, in questa venten nale avventura. Da ultima (e avremmo dovuto citarla per prim a) la parola dei poeti, im m ortali o polverizzati sul nascere, dalla quale scocca invariabilmente la scin tilla di un contatto, diciamo pure di un messaggio che imprime ad ogni spettacolo il segno di una edificante sacralità. Ebbene, le medaglie — d’oro o no---- che, fra tanti dipendenti « anziani e fedeli » ( in testa a tu tti, l ’ineguagliabile segretaria Nina V inchi), Paolo Grassi ha conse gnato a sei attori (Fanfani, Graziosi, De Carmine, M auri, Mariani, Bartolucci) e ad un’unica attrice (Valentina Cortese) hanno pur avuto, secondo noi, il signifi cato di un riconoscimento esteso a quegli attori e a quelle attrici che, indipendente mente dal computo matematico dei loro anni di servizio, si sono imposti con auto rità nella storia del Piccolo e, per tale tramite, nella storia del teatro italiano dell’ultim o ventennio. Ricordare i nomi di Lilla Brignone, Sarah Ferrati, Tino Carraro, Tino Buazzelli, Gianni Santuccio (e quanti ancora do vremmo) è il minimo dei nostri doveri di cronisti; oltre all’omaggio, non sola mente critico, che andrebbe reso alla memoria di Marcello M oretti, cui restano legati i trionfi del Servitore di due pa droni, spettacolo-bandiera del Piccolo, di Luigi Cimara, Piero Carnabuci, Camillo Pilotto, G iulio Stivai, Ferdinando Tam- berlani ed altri. I l Piccolo ha, di certo, ridimensionato la fisionomia morale e professionale dell’at tore; ma sarebbe stato illogico prevedere e puerile sperare che da questa operazione, per taluni aspetti non inutile, si sarebbe dovuto o potuto produrre un clima tanto nuovo da sconvolgere il senso e i caratteri di una tradizione a dir poco plurisecolare. Tutto sommato, e al di là degli accidenti sconfinati nel piccolo demanio delle pole miche personali, resta un dato positivo il reciproco, profittevole apporto di espe rienze tra alcuni dei più illu stri attori italiani e il Piccolo Teatro. Più difficile, e comunque con risultati non altrettanto soddisfacenti, è stato il « dia logo » tra l ’istituto milanese e le giovani forze della drammaturgia nazionale. Sotto questo aspetto, le premesse su cui Grassi e Strehler hanno lavorato furono enun ciate con sufficiente chiarezza nel pro gramma della prima Stagione: « Non teatro sperimentale e nemmeno teatro d ’eccezione, chiuso in una cerchia d’in i ziati. Ma, invece, teatro d’arte, per tu tti ». Esclusa fin dal principio Talea dello speri mentalismo (che, si badi, non vogliamo confondere con il generico concetto di avanguardia), a maggior ragione il Pic colo ha dovuto tener fede a questa con dotta man mano che, col passare del tempo, andava assumendo funzioni « po polari » vieppiù rigorose, vincolate agli obblighi d’una precisa politica culturale. I l tentativo d’una sollecitazione, d’al tronde, è stato compiuto; ma, evidente mente, senza fiducia. Talché, i casi di Federico Zardi ( Emma e I giacobini), di Squarzina (Tre quarti l ’indispensabile di luna ), di Guido Rocca ( Una montagna di carta), di Testori (La Maria Brasca), di Ambrogi ( I burosami), di Cappelli (Duecentomila e uno) e di pochi altri ( tra cui, irrilevanti, quelli della non felice « Rassegna italiana n. 1 » ), a parte che non tu tti sono sbocciati da una volontaria intesa diretta, rimangono isolati e non possono entrare nel contesto di una stimo lante ricerca sistematica. Ad esiti complessivamente non più fe condi hanno portato gli sforzi per una provocazione scenica di alcuni scrittori, da Bacchelli a Moravia, da Buzzati a Savinio. Non c’è stata, insomma, per gli autori italiani d’oggi, l ’azione che Strehler e i suoi collaboratori hanno invece, fortuna tamente, voluto e saputo condurre per i grandi italiani di ieri, da Goldoni a Piran dello, da Bertolazzi a Praga; e, anche meglio, per stranieri — im portanti o meno — di ieri e di oggi, da M iller a Sartre, da Shakespeare a Cechov, da Gi- raudoux a Durrenmatt, da Ibsen a quel Brecht che costituisce fondamentale punto d’arrivo e di partenza dell’evolu zione critico-estetica strehleriana ( una piramide che sulla base dell’Opera da tre soldi e dell’Anima buona di Se-zuan, e con le connessioni dell’Eccezione e la re gola e dello Schweyk, arriva alla vetta del Galileo). N oi non crediamo che la mancata coagu lazione d’una definibile ed omogenea energia drammaturgica italiana contempo ranea attorno alle insegne del Piccolo Teatro sia il prodotto di un deliberato antisciovinismo culturale. Esistono pure responsabilità della controparte; respon sabilità, e non colpe, perché se si vuole aderire alle legittime necessità program matiche del Piccolo Teatro, è indispen sabile condizionare la creatività a una misura di carattere sociologico: cioè ad Segue a pag. 100 il 03 0-Q 0 0 j l l ! f I E | 0 3 :3 0 0 0 0 il E — ^ C cn O O 03 0 i- ~ 0 0 ~ O^J-« C D Q Q l i 2 l L ^ £ D < l J < j Q C Q L U ^ ^ J > > C L < L U l Q i a : O D g p l s g l l g 1 1 O 0~^ .2 5 | L | Ì | 0) 13ON 0 ~ 0 ._ O 03 03 2*: •e 'C o CO 13 C CL N ^ co_CD 0CQ "co -2 0 > 0 ,0 Q_ C O 0 0c0 0T3 0 C c O 0 o co -O ’C CO .Q -E> §> CU co _ jÒ Ìj_ jO c o O O c o o a 2 c o c c > 3 > c c iL i_ c /)c c c /)Z c Q N g .« w o> S > o » o 2 £ 0 0 CD O 3 O 0 _0 E 0Q. oo0Co .3 o n a l i M i d à t t i C a l l e d o r t a e T o l o c c i P / / / 4 3 2 1 3 6 0 9 6 8 - 4 6 4 3 0 8 . . z e r i d . i e t - 2 o l l e v o R a v i - o t t l e o r B l e d o z z a a P l 0>OQ. 0 03 O 0 3 ^ 0 0 o ^ - 0 P jj o 0 o 05 -Q c 0 « 0 oc03 Coo o 0 ■- §>•3 0 £ 0 c 3 3 0 Li O D o03 00 •- O 03 ZZ 0 0 a? 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E ’ un grosso pericolo, poiché — come dice Barrault — « non c’è Casa di teatro che possa durare, senza degli autori che l ’ali mentino ». Tuttavia, è impensabile che l ’istituto milanese, proprio ora che ha superato il traguardo dei vent’anni, riveda, al riguardo, le sue posizioni. E ’ impen sabile non per una questione di fedeltà o meno ai programmi di partenza, dal momento che i programmi non sono for mule ermetiche o im m obili, avulse dal divenire della realtà, bensì per una que stione di natura e di scelte consapevoli. « Non pretendete che l ’aquila si comporti come una volpe », ammoniva un favolista. Inutile, dunque, pretendere che, per favo rire gli sviluppi d’una drammaturgia nazionale, carica del peccato originale per cui deve manifestarsi in un’epoca ancora inibita dagli echi della vertigine pirandel liana e, attraverso un’ampia graduazione di valori, delle rosee divagazioni delle commedie garbatamente digestive, inutile — si diceva — pretendere che il Piccolo Teatro rinunci alla propria storia, alla storia del proprio lavoro, delle proprie ricerche e dei propri spettacoli che — di chiara Strehler — « è, in primo luogo, storia dei rapporti dell’uomo nella società di ogni tempo. E ’ storia di scelte e libertà umane; ma è anche la storia del cammino faticoso di chi tali scelte, tali libertà, tali rapporti fra uomo e società ha ricercato, individuato, proposto e, inter pretato ». Sul tessuto di questa affermazione s’è accesa e alimentata la vocazione politico brechtiana di Grassi e Strehler. Perché l ’anima latina generi scrittori — cioè crea tori — che, senza abdicare al bene della libertà — ché allora sarebbe tutto vano — infine, facciano propri i temi essenziali di quella vocazione così tipicamente mitteleuropea (cioè, non mediterranea), come ha gene rato interpreti — registi, attori, organiz zatori — subito pronti e capaci di assor bire e trasfigurare gli imperativi di un teatro « civile », dovrà passare molto tempo. L ’augurio che facciamo al Piccolo Teatro per il suo secondo ventennio è che nel 1987, di fronte a coloro che si radune ranno per festeggiare l ’« egregia istitu zione », i Grassi e Strehler d’allora ( ma gari gli stessi di oggi ) possano compiacersi d ’aver dato al teatro italiano una gene razione nuova di autori, così come già ora gli hanno dato un pubblico ideologica mente orientato e — almeno in parte — un tipo di attore che — secondo il desi derio di Strehler — riesce ad essere, al tempo stesso, un « compagno e l ’oggetto di una indagine e di una ricerca ». Carlo maria Pensa IL «PICCOLO TEATRO» DI MILANO, NATO COME TEATRO STABILE MILANESE, A VENTI ANNI DALLA SUA FONDAZIONE, E’ DIVENTATO UN RICHIAMO DI PORTATA INTERNAZIONALE I l 14 maggio, è ricorso il ventesimo anni versario della prima rappresentazione della compagnia del Piccolo Teatro. I l giorno 17, alla villa comunale di via Palestro, Vamministrazione comunale e i rappre sentanti del mondo teatrale e culturale milanese e italiano hanno voluto ricordare la nascita del più prestigioso teatro di pro sa italiano e quanti vi hanno dedicato il loro appassionato lavoro. La breve e pur così ricca storia del « Pic colo » è rivissuta nei lucidi e commossi discorsi di Antonio Greppi e di Paolo Grassi. Già poche settimane dopo la L i berazione, ha ricordato Greppi, la giunta comunale del CLN si mise all’opera « per sanare le offese che Milano aveva subito nel suo spirito ». Fu decisa la ricostru zione della Scala a tempo di primato; e appena un anno dopo Arturo Toscanini poteva alzare la bacchetta davanti alla sua orchestra e dare il via al memorabile concerto di musiche verdiane. Rinata la Scala, il Comune, sollecitato senza posa da Paolo Grassi e da Giorgio Strehler, decise la fondazione del Piccolo Teatro. Ancora dodici mesi di intenso lavoro e fi nalmente la sera del 14 maggio 1947, nella modesta sala di via Rovello, il si pario si aprì sull’Albergo dei poveri. Paolo Grassi ha parlato delle molte diffi coltà, anche finanziarie, che hanno accom pagnato il cammino del « Piccolo ». I l programma del teatro, tuttavia, è ben lungi dall’essere concluso. I l « Piccolo » sorse come strumento destinato ad avvi cinare la cultura a strati sempre più vasti della popolazione e a risvegliare nel po polo l ’amore per il teatro che si andava velocemente esaurendo. I l teatro si av viava ad essere un fenomeno di élite: bi sognava riportarlo ad essere un fenomeno di massa. I l « Piccolo » questo risultato l ’ha raggiunto, ha concluso Grassi: il com pito che l’attende è di ampliare e appro fondire il suo rapporto culturale con la grande massa dei cittadini, a Milano, in Italia e all’estero. La cerimonia attuale ha confermato una circostanza già nota. I l « Piccolo », nato come teatro stabile milanese, è diventato ormai un richiamo di portata internazio nale. Lo hanno ricordato il sindaco pro fessor Bucalossi e il sottosegretario allo spettacolo onorevole Sarti. I l sindaco — dopo aver reso omaggio a nome dell’intera cittadinanza ad Antonio Greppi, che con Grassi e Strehler, si dedicò con infinita te nacia al « Piccolo » — ha parlato delle « assurde e sterili rivalità » che hanno reso faticoso il cammino dell’ente, ma ha anche aggiunto che il « Piccolo » è ormai un « fatto definitivamente acquisito » e che il suo « messaggio culturale si è dila tato al mondo dei lavoratori e dei gio vani ». L ’onorevole Sarti, che rappresen tava il governo, ha aggiunto che la « storia del ‘ Piccolo ’ rappresenta una pagina im portante nella vicenda culturale italiana ». I l Sindaco ha poi consegnato, come se gno di riconoscimento del Comune e della città, V« Ambrogino d’oro » a Grassi, a Strehler, a tu tti i loro collaboratori. Fra gli altri sono stati premiati: Nina Vinchi, Ce sare Frigerio, Rosita Lupi, Fiorenzo Carpi, Giovanni Tenconi, Eugenio Avondet, A l fredo Sottocorno, Bruno Colombo, Otta vio Fanfani, Virginio Puecher, Gino Ne gri, Anna Targetti, Carmen Avondet, Franco Del Mastro, Maria D i Maggio, Maris e Flach, Carmen Ventura. Attorno a Grassi e a Strehler, all’ex-sin daco Greppi, all’assessore comunale ono revole Edoardo Clerici e al dottor Lam berto Jori — che per m olti anni hanno guidato il consiglio d’amministrazione del l ’ente — si sono stretti gli altri protago nisti del successo del « Piccolo ». Da Tino Carraro a Valentina Cortese, da Ernesto Calindri a Lina Volonghi l’anno prossimo sarà Madre Coraggio), da Mario Carotenuto a Francesco Soleri che è suc ceduto all’indimenticabile Marcello M o retti in Arlecchino servo di due padroni, a m olti altri attori e attrici. Erano presenti anche il dottor Franz De Biase direttore generale dello spettacolo, il dottor W aiser, direttore del teatro stabile di Zurigo, il re gista Squarzina, direttore con Ivo Chiesa del teatro stabile di Genova, che ha vo luto ricordare gli anni trascorsi al « Pic colo », infne il rappresentante dell’Asso ciazione generale italiana dello spettacolo, che ha consegnato al Sindaco ( quale pre sidente dell’ente), a Grassi e a Strehler, * medaglie di benemerenza. ( che Disegno di Suzanne Runa- cher, eseguito mentre si svolge la rappresentazione della pantomima tratta da Le manteau di Gogol: è il momento del furto del cappotto. M a r c e l M a r c e a u e i l l i n g u a g g i o d e l c u o r e Marcel Marceau, il grande mimo francese, è ritornato in Italia, dove gode di illimitate simpatie, rinnovando quel successo che già ottenne nel mag gio 1954 al Piccolo Teatro, ed ancora l’anno seguente a Milano, al Teatro Lirico, come a Roma e Napoli. Marcel Marceau ha oggi quarantaquattro anni. E’ nato a Strasburgo il 22 marzo 1923. Dal suo incontro con Barrault (1946: Bap- tiste e La Fontaine de jouvence) sono trascorsi ventuno anni, che è un tempo lunghissimo per un mimo, in quanto neces sarie ed essenziali alla professione la snel lezza del corpo, l ’elasticità ed il dominio di impiego dei propri mezzi fisici, tu tti attri buti, questi, che se pur aderiscono alla sua tecnica prodigiosa, la condizionano come attitudine acrobatica, essenziale per un mi mo. Che poi Marceau sia un poeta, che di questa sua arte particolare — la più antica nel teatro — abbia fatto una mirabile gi randola di espressione, nel dominio d’im piego dei propri mezzi, vedremo con quanta fatica e facilità insieme. Perché se la sua arte è perfezione di tempestività meccani ca, preordinata razionalmente, la sua sem plicità spontanea (del tragico e del comico) si annullano al momento dell’umana e sof ferta partecipazione, che è la conclusione felice della sua espressione. L’arte del mimo è una pianta rara nel no stro paese privo di terreno adatto. I pochi Alcuni atteggiamenti di Marcel Mar- ceau in Bip fait du sport; Bip gli ha dato la fama in tutto il mondo, il personaggio in cui prevalgono le soluzioni umoristiche della realtà quotidiana, quello in cui le osser vazioni diventano capillari e si tra sformano in stile. interessati — a parte i pro fessionisti, come vedremo — si riducono ad un clan. Si po trebbe considerare miracolo la nascita di un Marcello Mo retti, ed ora di un Soleri. Ve ne sono altri, in embrione, ma le difficoltà da superare non sono poche. La pantomima (come il balletto suo stretto parente) ha bisogno di molti iniziati, dotati di senso esteti co spiccato, di disciplina arti stica raffinata, e soprattutto di una particolare suggestio ne. In Italia manca un pub blico adatto inteso come mas sa, e le statistiche della tele visione ne fanno fede senza onore. Pure, sia detto almeno per curiosa osservazione, nes sun popolo quanto l’italiano, per la natura sua stessa, do vrebbe essere incline a tale espressione, portato com’è naturalmente alla pantomima. Invece per un aberràtio col lettivo, se all’italiano si dice « mimo » l ’immagine che gli si presenta è quella di un at tore che fa le boccacce. Né si rende conto, affermando ciò, di respingere la qualifica stes sa. Ma tant’è; il vizio mentale non muta. Può darsi che ciò avvenga per il vago sentore d’un’anti- ca ripugnanza, che ancora si espande imprecisa e latente, quando la professione era considerata Infatti, Tomaso Garzoni, nella sua « Piazza universale di tutte le professioni del mondo » (Ve- netia, 1585), chiama l’attore « buffone o mimo o istrione », per quanto si riferisca alla buffoneria cinquecentesca, im mediatamente precedente la Commedia dell’Arte. Successi vamente, questa, si arricchi rà di temperamenti comici non indegni, ed anzi di taluni eccellenti, sì che il gesto, as sorbendo la parola, onorava i indegna. A1 di là della m im ica virtuosa, le sue panto mime rispecchiano un modo personalissimo di intendere la vita, di sentire l ’esistenza come un tessuto di assurdità. Per creare le sue opere g li bastano le mani e l ’espressione del viso, ma dietro la tecnica si nasconde la fantasia e la genialità, che d’altronde si affacciano conti nuamente. La sua non è illusione, ma auten tica creazione. più meritevoli con l ’ammira tivo « Non parla e dice gran di cose ». Mimo, è risaputo, indica un essere in azione: i greci era no mimi, noi siamo mimi, ogni giorno, in ogni momen to. Vedere il mimo, capire il mimo, credere nel mimo, può significare accostarsi meglio alla natura dell’uomo, alla sua più elementare espressione, ed in essa raggiungere quan to possibile la poesia, che nel gesto consegue talora una delle forme essenziali. Marcel Marceau è indubbia mente il più noto e certo il maggior mimo del mondo. Mantengono ancora onorevol mente la professione l ’austria co Samy Molcho, l ’ungherese Laslo Ferencz, Rob van Reijn d’Amsterdam, ma sono pochi. Tuttavia la mancanza di soli sti, ha fatto fiorire il lavoro collettivo con buoni risultati, in tutta Europa, non esclusa una certa attenzione anche in Italia da parte di J. Lecoq, Fersen, Dario Fo, Orazio Co sta, e soprattutto — per la continuità, l’impegno e la ra zionalità dell’intento —- Gio vanni Poli, il direttore del Teatro di Ca’ Foscari. Esistono degli appunti scritti da Marceau sulla sua vita ar tistica; sono annotazioni ed incominciano con la dichiara zione che senza Charlot, pro babilmente non si sarebbe svegliata in lui la vocazione. Aveva cinque anni — dice — e per almeno altri cinque, gli insegnamenti gli vennero dal lo schermo del muto e dalle « comiche » di Charlie Cha- plin, che egli considerava un Dio, e come tale adorava Charlot. L ’imitazione di quel personaggio sviluppò la voca zione, divenne amore per un mestiere che ad altri — i suoi familiari e gli stessi compa- gni — sembrava assurda; essi consideravano folle un proba bile attore, già deciso a re stare eternamente muto. « Fi nirai per perdere la parola » — gli dicevano — e poiché questo ingenuamente lo spa ventava, terminate le panto mime di sua invenzione, par lava e gridava volutamente, assordando chiunque per tut to il resto della giornata. Fi nirono con l’arrendersi e mo strare di apprezzare il suo mutismo, i suoi gesti, le sue acrobazie. Di conseguenza — dice Mar- ceau — tutta la mia infanzia fu profondamente influenzata da quest’arte singolare, che mi permetteva di imitare gli uccelli, assumere gli aspetti e la forma degli alberi, « par lare » il linguaggio del silen zio, che la mente traduce in codice, identificando me stes so con tutte le cose che mi circondavano. Se mia madre mi mandava per una commis sione — ricorda Marceau — e dopo avermi spiegato ciò che dovevo fare, concludeva regolarmente «hai capito?», io improvvisavo il mio spet tacolo con i gesti di tutta la scena come pensavo si sareb be svolta, aggiungendovi un pizzico di fantasia: scendere le scale, camminare, salutare un conoscente, entrare nella bottega con cenno cordiale per l ’uomo del banco, atten dere il mio turno, scegliere, assistere alle pesature ed al l ’incarto, pagare, uscire, rifa re la strada e le scale, ritro varmi dove ancora ero, da vanti a mia madre, consegna re il pacco delle vivande. Da questa cerimonia era esclusa solo la carne, poiché mio pa dre era macellaio ed i car tocci li portava lui, infilati nelle tasche. Quando non mi bastò più esprimermi da solo e Der mia madre desolata, for mai una compagnia con i ra gazzi della strada, e poiché non capivano la necessità di star zitti e finivano per par lare istintivamente, le nostre prove le facevamo con la boc ca fasciata da un fazzoletto ben tirato e annodato sulla nuca. Poiché questo li soffo cava, il secondo giorno non ne avevano più bisogno; an zi, non rispondevano neppure più ai rimproveri ed agli av vertimenti. Il gioco dei muti sembrava loro un bellissimo passatempo, e quando ciò fos se benedetto da coloro che ci avevano in cura è inutile dirlo. A vent’anni, Marceau, si iscris se all’Accademia d’Arte Dram matica del Teatro Sarah Bern- hardt ed ebbe maestro Char les Dullin. In quella scuola eseguì il corso di mimo e le lezioni venivano impartite da colui che divenne poi il suo grande maestro: Etienne De- croux. Tuttavia quando ebbe ro inizio gli anni dell’appren distato, si accorse di dover ricominciare, perché se è ve ro che non esiste arte senza ispirazione, è anche vero che non esiste forma senza tec nica. La guerra ebbe importanza decisiva nella vita del giova ne aspirante mimo. Da Stra sburgo, la famiglia si era tra sferita a Lilla, ed ancora suc cessivamente a Limoges, do ve il fratello entrò a far parte della Resistenza. I nazisti pre sero il padre come ostaggio e lo fucilarono; Marceau si affiancò immediatamente al fratello partigiano. Terminata la guerra, riprese i corsi non soltanto per approfondire la tecnica, ma anche perché sen za allenamento, come al tra pezio, il corpo si indurisce e si nega all’esercizio. Molta fa me. Nelle sue poche note, scrive : non avevamo altro ad dosso che una « toute petite con souve garde de respectabili- té » : il nostro respiro era denso come il fumo, le mani irrigidite, lo stomaco vuoto. Solo i fanatici resistono. Noi lo eravamo. L ’incontro Jean-Louis Barrault, anch’egli mimo na to, lo salvò dalle possibili r i nunce per un mestiere prati camente tanto difficoltoso, fi no a quando, naturalmente, non si ha la possibilità d’im porsi e farsi valere. Raggiun ta questa possibilità ed entra to nel clima del suo sogno ad occhi aperti, si sentì — dice — sollevato di qualche centi- metro dalla terra. E così vive ancora. Dal celebre film di Barrault Les enfants du Paradis tras se la notorietà ed una certa tranquillità economica; nel 1946 fu in grado di presen tare un saggio della sua arte con Paxitèle et le poisson d’or. Confortato dal successo, formò una sua compagnia con altri quattro mimi, e nel 1947 ritenne di aver messo a pun to, dopo uno studio lungo e minuzioso quanto appassiona to, il personaggio di Bip. In esso prevalgono le soluzioni umoristiche della realtà quo tidiana, ed è qui che l’acuto spirito di osservazione diven ta capillare, si trasforma in stile, apre le ali alla poesia. Fu il successo di Bip ad entu siasmarlo infondendogli co raggio; capì di aver creato il suo l ’immedesi- mazione del suo spirito nel concetto universale: la realtà — ma non naturalistica — come punto di partenza, per conseguire, con la precisazio ne del gesto e del ritmo, l’ef fetto finale. Ormai il suo no me poteva correre attraverso i Continenti, iniziare le tour- nées all’estero, col felice esito di poterle rinnovare. Vinto il tipo ideale, premio « Deburau » (1) l ’an no successivo, con la sua pan tomima Mort avant l’aube gli fu facile dedicarsi ad altre creazioni, pur tenendo sem pre per mano Bip, arricchen dolo continuamente, conscio di continuare il « dialogo » con se stesso. Vennero lavori sempre più impegnativi: La foire\ Le joueur de feut; Mo- riana et Galvan (di Arnoux) ed infine lo strabiliante Man teau di Gogol. Si è tanto parlato in questi ultim i anni, ed ancora si r i pete, dell’essenza del teatro, anzi di teatro puro, ma basta pensare alle qualità che la pantomima possiede, per ca pire in che cosa consiste l ’uni versalità del linguaggio svin colato dalle limitazioni dei va r i idiomi. Solo il balletto af fianca la pantomima, ed in un certo senso la supera, per la sontuosità coreografica e l ’esaltazione musicale. Marceau, chiama tutto ciò il « linguaggio del cuore » e si chiede, ancor prima di do mandare « Ma non è la panto mima capace di esprimere e comunicare qualsiasi emozio ne, con immediatezza ed in profondità? Attraverso que st’arte che io ritengo sublime — dice — si evitano le parole e tutto diventa chiaro, diret to, preciso. Luciano, grande attore greco, non ha affermato che un mimo che commette un gesto sbagliato è colpevole di solecismo della mano? ». Marceau crede di non essere mai caduto in errore. E que sto è il suo orgoglio. ________ _ Marcel Le Due (1) Jean Gaspard Deburau (detto Bap- tiste), mimo francese, forse il più gran de di tutti i tempi, personaggio leg gendario della storia della scena fran cese, nato in Boemia (a Kolin) il 31 luglio 1796, morto a Parigi il 17 giu gno 1846. Suo figlio, Jean-Charles (1829- 1873) fu mimo ed attore, ma non riuscì ad offuscare il ricordo del padre. Di Jean Gaspard Deburau, Sacha Gui- try fece il protagonista di una sua commedia Deburau che Ruggero Rug- geri recitò mirabilmente in Italia, nel 1941. Dieci anni dopo lo stesso Guitry ne fece la trasposizione in film. C H IU S A L A S T A G IO N E IN V E R N A L E - A P E R T A Q U E L L A E S T IV A U n t e r d e n li n d e n Il 3 maggio 1967, nella sua sede di via Rovello, il Piccolo Teatro di Milano ha rappresentato la commedia di Roberto Roversi « Unterdenlinden »; regìa di Raffaele Majello. Dopo la musica « beat », esplosa in Patatine di contorno di Wesker, anche lo « strip-tease » è entrato nel tempio del Piccolo Teatro. Evento quant’altri mai piacevole da un certo punto di vista, ma non sufficiente a fare di Unterdenlinden ima apppassio- nante opera drammatica o a rive lare nel suo autore, Roberto Ro versi, una precisa, sconvolgente vocazione d’uomo di teatro. Roversi, bolognese, quaranta quattrenne, è scrittore di decan tata cultura filosofica; i suoi li bri e le riviste (Officina, prima; Rendiconti, ora) delle quali è stato od è agitatore, sono indi cazioni di un cammino rigoroso, giunto alla ribalta soltanto per la comodità di dare a un’idea il sapore e la violenza di un al larme. Per carità, non è che ci vogliamo irrigidire sulla necessità di rispet indispensabile, tare le formule tradizionali o an che soltanto una qualsiasi for mula « tout-court ». Anzi. Ma che un testo drammatico, preso l’av vìo, debba comunque essere por tato avanti — magari sulla stra da sbagliata, non importa — questo, almeno, sembra sia tut tora tanto più quando un autore intende usare l’arma di una « ironia striden te » ( sono parole sue ) « che non vuole, o non vorrebbe, far ride re e tantomeno sorridere; ma in durre alla pelle d’oca, alla tenta zione di un riesame privato, alla riflessione notturna, ai sonni con l’incubo, ecc. ». Unterdenlinden, cioè « Sotto i ti gli », non è, qui, l’inizio d’una delle più belle poesie del « min- nesànger » Walther von der Vo- gelweide, né il titolo germaniz zato del famoso romanzo Sons les tilleuls di Daudet; ma il no me della celeberrima strada di Berlino, un tempo simbolo, an che scenografico, dei fasti e della potenza del Grande Reich. La commedia di Roversi s’apre infatti — la notte tra il 7 e l’8 maggio 1965, appena caduti in prescrizione i delitti della guerra nazista — con la riapparizione ( da un bunker munitissimo o dall’al di là, fa lo stesso) di Adolf Hitler e del suo fedelissimo Mar tin Bormann. La trovata lascia immaginare chissà quali geniali sviluppi; e la speranza, per un certo tratto, non vien meno, an zi è confortata dal delinearsi de gli obiettivi del Roversi, che non sono di sconfinare nella fantapo litica o di riproporre determinati problemi d’ordine morale, ma di centrare la pericolosità dell’at tuale situazione, in cui la forsen nata civiltà dei consumi d’origi ne americana ha preparato bara tri paurosi per le nostre coscien ze, dai quali sarà facile e diabo licamente dolce farsi inghiottire, tutti vittime di despoti inflessi- bili, con o senza balletti alla Adolfo. Unterdenlinden è dunque la sto- ria della presa di potere (il po tere economico; ma sappiamo quanto labili siano i confini tra economia e politica, l’una inse rita nell’altra come una prospet tiva di scatole cinesi) da parte di questo Hitler redivivo che conquista la presidenza d’una enorme industria per la conserva zione delle sardine, una stermi nata « umanità » di sardine. Una ascesa forse resistibile — come quella del brechtiano Arturo Ui — nella quale concorrono tutte le violenze e le aberrazioni del nostro tempo, dal delitto al ses so, dal livellamento delle intelli genze all’imbottitura dei crani. Con un finale che, per essere am monitore, è pieno di sfiducia: perché dovremmo lottare se gli Adolfi hanno sempre ragione? La parabola del Roversi procede a ritmo cabarettistico attraverso una serie di esemplificazioni che non diventano mai fatti e che pertanto hanno il difetto di esse re sempre le stesse. Il sardinaio Adolfo semina il suo cammino di cadaveri, e Bormann riempie l’aria della parola che fu cara a Cambronne finché anche lui sarà fatto fuori dal suo padrone. Evi dentemente consapevole dei li miti prospettici del testo, il gio vane regista Raffaele Majello, sul quale il Piccolo Teatro fonda legittimamente molte speranze, ha animato uno spettacolo in cui si accatastano infinite componen ti, la chiarezza cedendo alla far ragine, a cominciare dal fragoroso dispositivo scenico realizzato da Ezio Frigerio e Carlo Tommasi, e non esclusi i costumi di En rico Job. Gianrico Tedeschi ha monolo gato con grande bravura, ancor ché il personaggio dell’invadente resuscitato non gli fosse partico larmente congeniale; gli ha feli cemente tenuto bordone il Bor mann di Mimmo Craig, che rie sce sempre meglio in questo tipo di burbanzose caratterizzazioni. Tra gli altri interpreti, numero- sissimi, citiamo: per l ’inconfondi bile compostezza, Ottavio Fanfa- ni, e perché sono, oltre tutto, as sai seducenti, Lia Rho Barbieri, Barbara Nardi, Maria Grazia Marescalchi. Le musiche, di Do riano Saracino, hanno avuto la peggio nel confronto col clamo re provocato dai metallici tap peti mobili su cui gli attori en travano e uscivano di scena co Carlo Maria Pensa me robot. LA PROSA AL MAGGIO FIORENTINO L ’ “ E e m o n t ” d i G o e t h e RAPPRESENTATO PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA L'«Egmont» di Goethe, con le musiche di Beethoven dirette da Gavazzeni, nel cortile di Palazzo Pitti, è stato rappresentato il 7 giugno 1967 con ia regìa di Luchino Visconti. Protagonista Giorgio De Lullo. Remigio Paone, che sovrintende da due anni alle sorti del « Maggio musicale fiorentino » dandogli un nuovo e vigoroso impulso, non potè, come è noto, includere nel programma deH’anno scorso il tra dizionale spettacolo di prosa, già fissato con I Giganti della montagna per polemiche ragioni di forza maggiore. Questa volta però non ha voluto tralasciare l’attesissima manifestazione, scegliendo un’opera di austera bellezza classica: YEgmont, la tragedia che Goethe scrisse in più riprese, dal 1775 al 1787, che fu rappresentata a Weimar nel 1791, ma ebbe le musiche di scena di Beethoven soltanto nel 1810, divenendo assai diffusa e popolare in tutta la Germania. L’Egmont nella sua stesura integrale è nuovissimo per l’Italia e conta nella edizione del « Maggio » una regìa di eccezione, quella di Luchino Visconti, e nelle vesti del protagonista un artista di larga notorietà, Giorgio De Lullo, che regista di grande fama anch’egli, si concede ormai raramente all’interpretazione. Ha avuto intorno una corona di ottimi, qualificatissimi altri interpreti, fra i quali Romolo Valli ed Elsa Albani, suoi compagni abituali. Lo spettacolo, quanto mai suggestivo, si è svolto nel meraviglioso e grandioso cortile di Palazzo Pitti: dirigeva l’orchestra il maestro Gianandrea Gavazzeni. Diremo subito che con questa edizione del- YEgmont si è ripresa, nel più insperabile dei modi, con una linea d’arte inconsueta, la tradizione già illustrata da Jacques Copeau, Max Reinhardt, Renato Simoni e dallo stesso Visconti, il quale ha portato, come nel 1949 con Troilo e Cressida, le più estrose ma valide invenzioni, realizzando questa tragedia goethiana, che, insieme a dare un panorama di un popolo che invano anela alla libertà, tanto che fu definita « la tragedia della passività civile », ha creato, a tutto fondo, la figura di chi vorrebbe dargli la libertà pur avendo fiducia nelle autorità regali che lo opprimono. Per queste ragioni la tragedia può anche ritenersi « la tragedia della libertà »; un testo, ad ogni modo, che nell’argomento, deriva da fonti storiche ancorché il poeta ne trasformi la vicenda e il carattere dell’eroe. Siamo al tempo delPoccupazione spagnola dei Paesi Bassi; la Reg gente, Margherita di Parma, sorella di Filippo II, ha come consi gliere un diplomatico sottile e astuto, che si chiama non a caso Machiavelli, che cerca barcamenarsi quando si vuol definire la figura del vincitore di San Quintino, che si è conquistato in pieno il popolo minuto, che vede in lui un amico, per quanto sia neerlan- dese, ma ostenta il Toson d’Oro e si vanta della fiducia del re. La Reggente sospetta di lui e di tutto il suo stravagante e scherzoso modo di fare, che incanta — è la parola — il popolo. Ma col suo fiuto femminile ha sospettato l’intimo fine al quale tende Egmont; fine che Machiavelli ha forse cer cato di nascondere per salvarlo dalle rappresaglie spagnole. Ma Egmont, accanto al suo sogno di libertà, nutre una passione dolce per una fanciulla di modesta estrazione — Chiarina — che pure ossessionata dalle affettuose premure di un innamorato — Bracheburg — non vive che per gli occhi del suo grande eroe, ido latrandolo. Ella è una semplice e romantica ragazza che si serve della passione del suo spasimante per poter ricevere continue noti zie di Egmont, che soltanto di notte può avvicinarla. Ma ecco che nel popolo comin ciano a serpeggiare, anche per diversità di fedi, malumori e di scussioni, che spesso finiscono con agitazioni tumultuose, che preoccupano non poco la Reg gente. Costei pensa di disinteres sarsene (lasciando il suo posto a Egmont) per vivere la sua vita spensierata. Andrà così per la sua strada, nella certezza di por tarsi sempre più in alto; se ca drà, precipiterà come un fulmi ne. Tanto che in un colloquio con Guglielmo d’Orange non si perita di trattenerlo nel deside rio esternato di far esplodere la rivolta. D’Orange pensa con rac capriccio ad una nuova guerra, in cui per salvare i vivi verrà seminata la terra di innumere voli morti. Spera ancora nella fiducia del re. La Reggente se n’è andata ed è giunto il Duca d’Alba, il più cru dele e duro servitore della corte spagnola, il quale, per prima cosa, vuol liberarsi dei più perico losi ribelli, fra i quali il D’Orange ed Egmont. E li chiama con la subdola scusa di chieder loro consiglio. Il D’Orange più furbo di Egmont, non si presenta; Egmont invece non sa nascon dere le sue critiche al regime che opprime il popolo, il quale — dice — può essere oppresso, ma non piegato. E fidando nella giustizia delle sue argomentazio ni, spera che vengano accolte. In vece è la sua fine. Il Duca d’Alba 10 fa arrestare e chiudere in car cere orrendo. Chiarina, che per mezzo del fidato amico Bracken- burg, ha precise notizie su Eg mont, ormai condannato, incitato invano il popolo a salvarlo, vuol precederlo nella morte e si av velena. Infatti il figlio del Duca che aveva amicizia e simpatia per Egmont, di cui apprezzava i sen timenti, è costretto dal tirannico padre a portargli la tremenda sentenza: sarà decapitato sulla piazza del mercato alla presenza del popolo per alto tradimento. Grande è la sua disperazione per non poterlo liberare, ma non ne ha la possibilità; potrà solo ac cettare l’ultima raccomandazione di Egmont: aver cura di Chiari na. Égli ignora che la fanciulla gli è già accanto per sempre. E la tragedia termina con l’appari zione di Chiarina in veste cele stiale, raffigurante la libertà, che si china su l’eroe dormente. L'Egmont, presentato nella mo derna scioltezza della traduzione di Fedele D’Amico, rivela i ri- pensamenti del poeta, che a più riprese, come si è detto, lo con tinuò e lo concluse. La libertà, che l’eroe intende e sogna è sen za dubbio una libertà limitata, anche perché non era certamente facile conciliare i desideri di un popolo e l’obbedienza che l’op pressore richiedeva. Egmont, in fatti, sembra che misurasse que sta libertà col suo modo di vi vere giorno per giorno. Sta di fatto ad ogni modo che la tra gedia, alla continua ricerca di una unità stilistica e concettuale, si snoda per due terzi in termi ne discorsivo, che, secondo il gusto d’oggi, appare uniforme e prolisso (e altri tagli erano forse opportuni), mentre il quarto ed 11 quinto atto si rivelano ricchi di azione e di movimento, anche se melodrammatico. Ma questo era nelle intenzioni di Visconti per la stessa voluta impostazio ne: musiche di Beethoven, diret te dal maestro Gavazzeni; spet tacolo da portare nei grandi tea tri lirici: la Scala di Milano, il San Carlo a Napoli, l’Opera di Roma, il Comunale di Bologna, eccetera. Quindi spettacolo per un pubblico tanto vasto quanto preparato al melodramma. E’ chiaro, anche, che una delle preoccupazioni di Luchino Vi sconti deve essere stata l’atte nuare tale evidenza e dare senso di profonda umanità alle ornate figurazioni del poeta, vero signo re della parola. Vari sono gli ac corgimenti, che cercano di sem plificare la regìa, dandole essen ziali movimenti e raccogliendo i personaggi nelle loro scene più intime, in determinati luoghi de putati, di cui ha potuto disporre con larghezza anche mercé la sce na di Ferdinando Scarfiotti, a piani sovrapposti, che si dilunga sull’intera parete chiusa del cor tile, elevandosi ad una altezza simbolica nel bel mezzo, come una torre. Si capisce come lo sce nografo abbia voluto dare al re gista lo spazio indispensabile per le folte e mosse scene d’insieme, riuscite nella loro stilizzazione, assai efficaci e d’effetto. Da elo giarsi la ottenuta continuità del l’azione nei vari quadri, che si sono succeduti quasi sovrappo nendosi con assai buon gusto. Risolta realisticamente l’appari zione di Chiarina. L’interpreta zione si è adeguata alle necessità degli spettacoli all’aperto: molto su di tono, specialmente nei mo menti in cui la tragedia esplode. Giorgio De Lullo ha dato al pro tagonista la sua prestanza fisica con giovanile vigore, accompa gnato da una linea di spavalda sicurezza, che si è fatta commos sa nella speranza che la sua mor te non fosse vana. Egli ha illu minato i diversi aspetti del carat tere di Egmont con notevole espressione. Romolo Valli ha vo luto caratterizzare, tanto fisica- mente che spiritualmente, la bru talità e la malvagità del Duca d’Alba, riuscendo a comporre una creazione di spietata e viru lenta efficacia. Elsa Albani ha dato comprensione e diplomazia alla figura della Reggente. Otta- via Piccolo, nelle vesti di Chia rina, per quanto ancora inesper ta, ha saputo dare sfogo al suo dolore ed allo strazio, con scon volte grida di disperazione. Ren zo Palmer ha reso con intelli genza la linea diretta e irremo vibile del D’Orange. Nanni Ber- torelli ha detto con sincero ac cento le accorate parole del figlio del Duca, ed assai ben preparati ed affiatati Nora Ricci, che era la madre di Chiarina, Luigi Di berti ( Brackenburg ), Egisto Mar- cucci (Machiavelli) e gli altri numerosi attori. Facevano spicco sulla nuda scena i costumi dise gnati dallo Scarfiotti. Applaudita Nicoletta Panni, che ha cantato con bella voce le canzoni di Chia rina. Gianandrea Gavazzeni ha, da par suo, diretto le musiche di Beethoven, che non poco rav vivano con la loro freschezza, i cupi toni della tragedia. Successo vivissimo con numero se chiamate agli interpreti, al regista ed agli altri vari colla boratori dell’austero spettacolo, che, con la sua mole imponente controbilancia benissimo tante presuntuose nullità che imper versano nel nostro teatro di pro sa. Ma Remigio Paone, è ormai consacrato un maestro dell’orga nizzazione: il teatro italiano può ben essergli grato. Spettacoli co me questo, in una città per stra nieri, onorano una Nazione nel mondo. Giulio Bucciolini L a M a n d r a g o l a La prima rappresentazione estiva all’aperto si è avuta quest’anno a Firenze, al Forte Belvedere, con La Mandragola di Niccolò Ma chiavelli, in una edizione curata sulla stesura autentica scoperta dallo studioso fiorentino Roberto Ridolfi e messa in scena per ini ziativa dell’assessorato della cul tura del Comune con la regìa di Roberto Guicciardini e un insie me notevole di giovani attori, fra i quali molti già affermati. Nien te da dire della più bella comme- dia italiana, della quale io credo si sia già detto tutto, ma qual che buona parola di commento meritano la regìa per la disposi zione dello spettacolo col magico sfondo della visione notturna del la città e l’impostazione interpre tativa data dal Guicciardini al testo, di cui ha messo in eviden za l’intima essenza della sua co micità: amara e drammatica. As sai viva e movimentata l’azione di tutti gli interpreti, fra i quali hanno primeggiato, per intelli- gente sicurezza, Carlo Bagno, nel le vesti di Don Timoteo; Adolfo Gerì, in quelle di Messer Nicia; Luciano Virgilio, che era un Cal limaco ansiosamente dinamico per amore; Gianni Musy, un Li- gurio astutamente beffardo; Gino Susini, ben caratterizzato Siro. Assai lodevoli anche Renata Ne gri, la Gasser, il Manetti, la Bo- relli, la Martelli, il Santangelo e i danzatori Margherita Pecol e Angelo Pietri nelle loro brevi ap parizioni. Molto successo. g. b. S p e t t a c o l i p e r l ’ e s t a t e • Ridimensionata l ’elefantiasi dei mesi caldi: solo otto spettacoli per altrettante formazioni, evitando così la fioritura di complessi che, come nel passato, non avreb bero fatto onore né agli allestitori né ai sowenzionatori. • T utti autori stranieri, naturalmente, meno Pirandello e Bruno Cicognani. Quest’ultim o è un letterato cimenta tosi col teatro nel 1927 con una fiaba che riprendono. In due tornate (il 9 maggio la prima, ed il 31 maggio la se conda) è stata stabilita la sor te dei numerosi candidati alle provvidenze per spettacoli estivi straordinari. Com’è no to un certo gruppo di località — Verona, Assisi, San Minia to, Venezia — godono di un trattamento che, più che pre ferenziale, è acquisito per ti toli; altre invece cadono nella categoria non diciamo discre zionale della Direzione Gene rale del Teatro — sempre udi to il parere della Commissio ne Consultiva — ma del buon senso, in quanto si è visto che lasciando via libera ai postu lanti, le Compagnie estive si moltiplicano in proporzione dell’appetito (diciamo artisti co?) dei vari organizzatori e comitati. Lo scorso anno si è appunto lamentato che la eccessiva longanimità ha permesso la nascita e il giro di complessi che non facevano onore né a chi li aveva allestiti né a chi li aveva aiutati, sia pure con la migliore delle intenzioni. Quest’anno, dunque, il regola mento ha, come si è avvertito, « bloccato » la cifra sulla doz zina, per cui il lavoro della prima seduta è stato piuttosto impegnativo, in quanto le do mande ammesse per un esa me preventivo dalla Direzione Generale del Teatro (ossia quelle ritenute meritevoli di considerazione) erano il dop pio, mentre altre otto non so no state ammesse all’esame perché non rispondenti alle norme stabilite. La Direzione Generale del Teatro ha voluto quest’anno cautelarsi, per cui quando il ministro Corona ha aperto la seduta del 9 maggio, erano presenti alcuni giornalisti, i critici della passata stagione (oltre, s’intende, i membri della Commissione Consulti- va) e questi tecnici, a cono scenza dell’ambiente, hanno portato il loro contributo di esperienza. Le due dozzine di aspiranti furono setacciate e per un motivo o l’altro, e si giunse così alla quindicina. Occorre avvertire che parecchie delle Compagnie ammesse in via provvisoria zoppicavano da un lato o dall’altro; si è avverti ta, ad esempio, l ’assurdità del la presenza di attori in com plessi diversi, la designazione molto approssimativa del « gi ro », l ’incertezza sull’entità dei contributi degli Enti loca li destinati a ospitare gli spet tacoli. Furono concessi una ventina di giorni per superare queste incertezze; quindi il 31 maggio la Commissione fu in grado di fare una scelta, sia pure non definitiva, in quan to certe ammissioni sono an cora subordinate ad ulteriori garanzie. Ecco l’elenco dei complessi e delle opere am messe ai contributi: La pace di Aristofane, tradu zione di Raffaele Cantarella, promotore l’Istituto Nazionale del Dramma Antico; regìa di Arnoldo Foà, anche interpre te, con Aldo Fabrizi, Gianni Bonagura, Corrado Annicelli, ecc. Prima rappresentazione, Segesta, quindi: Pompei, Lec ce, Capri, Torino, Trieste, Fie sole, Gubbio, Roma. Previste 30 rappresentazioni. Contribu to 13 milioni. La duchessa di Urbino di Lo- pe De Vega; organizzazione AA.TT.SS. Castiglioncello; re gìa Ruggero Jacobbi; attori principali : Diana Torrieri, Paolo Ferrari, Paola Pitagora, Renzo Palmer. Prima rappre sentazione Castiglioncello; gi ro: Fiesole, Minturno, Porto S. Stefano, Porto Recanati, Pescara. Previste 22 rappre sentazioni. Contributo 10 mi lioni. Misura per misura di Shake speare; organizzazione Centro Teatrale Italiano; regìa Luca Ronconi; attori principali : Massimo Girotti, Valentina Fortunato, Sergio Fantoni, Mario Scaccia, Tonino Pierfe- derici. Prima rappresentazio ne Torino, cortile di Palazzo Reale; giro: Verona, Ostia Miranda, Fosco Giachetti, El sa Albani, Piero Sammataro. Prima rappresentazione Saler no; giro: Amalfi, S. Maria di Castellabate, Napoli, Mintur no, Porto S. Stefano ed altre località; 25 rappresentazioni. Contributo 10 milioni. Mercator di Tito Maccio Plau- Antica, Fiesole, Minturno, Pi sa, Trieste; numero delle rap presentazioni: 25. Contributo 13 milioni. Celestina di Fernando De Rojas; organizzazione E.P.T. Palermo; regìa Giovanni Ca Isa lenda; attori principali: to; organizzatore Perfetto Bal dini; regìa Giovanni Poli; at tori principali : Ernesto Calin- dri, Ave Ninchi, Arnaldo Nin- chi, Giustino Durano, Maria Grazia Spina. Prima rappre sentazione Tindari; giro : Fre sinone, Cassino, Ferentino, Minturno, Lecce, Luni, Fieso le; 20 rappresentazioni. Con tributo 8 milioni. Beilinda e il mostro, fiaba di Bruno Cicognani; organizza zione Enti Turismo delle pro vince di Trento e Bolzano; re gìa Marcello Baldi; attori non precisati fra Ennio Balbo, Pip po Liuzzi, Maria Pia Nardon, Andrea Bosic, Neda Naldi, V i nicio Sofia, Salvo Randone, Ivo Garrani. Prima rappresen tazione Trento, Castello del Buon Consiglio; giro: Bolza no, Castel Pergine, Castel Ma- druzzo, Riva del Garda, Me rano, Castel Thun. Rappresen tazioni 20. Contributo 6 mi lioni. La casa di Bernarda Alba di Federico Garcia Lorca, tradu zione Vittorio Bodini; orga nizzazione Ente Manifestazio ni Torinesi; regìa Beppe Me- negatti; attori principali : Pao la Borboni, Gina Sammarco, Cesarina Gheraldi, Giuliana Lojodice, Ilaria Guerrini, Pao la Mannoni, Renata Negri, Le da Negroni, Andreina Paul. Prima rappresentazione Tori no, cortile di Palazzo Reale; giro: Firenze, Gardone, Fano, Massa Marittima, Portovene- re, Pescara, Ferrara. 15 rap presentazioni. Contributo 12 milioni. Volpone di Ben Jonson; orga nizzazione E.P.T. Gubbio; re gìa Roberto Guicciardini; at tori principali: Fosco Giachet- ti, Franco Parenti, Gianna Giachetti, Luciano Virgilio, Alfredo Bianchi; giro: Gub bio, Fiesole, Fano, Ascoli Pi ceno, Monte Argentario, To rino, Trieste. Contributo 8 mi lioni. i complessi ufficial Questi mente accettati e promossi (salvo integrare la documen tazione entro il 25 giugno); poiché qualcuno di essi po trebbe non completare l ’elen co dei documenti richiesti, so- no stati ammessi in ordine di precedenza: Vita e morte di Re Giovanni di Shakespeare; organizzazio ne Marisa Fabbri e Fulvio To- lusso; regìa Fulvio Tolusso; attori principali: Vittorio Sa- nipoli, Giancarlo Sbragia, Ivo Garrani, Renzo Palmer, Paola Borboni, Sergio Tofano, Otta vio Fanfani, Paolo e Ludovica Modugno, Stefano Colagran de, Marisa Fabbri (si nota la presenza in questo elenco di Garrani, Paola Borboni, Ren zo Palmer, già presenti in compagnie ufficialmente am messe; quindi l’organizzazione è in difetto). Aminta di Torquato Tasso; organizzazione SIST; regìa Mario Ferrerò; attori princi pali: Vittorio Sanipoli, Vitto rio Congia, Valeria Valeri, Carlo Reali, Laura Tavanti, Carla Puccini, Edmonda Aldi ni, Osvaldo Ruggeri, Renzo Montagnani. Prima rappre sentazione Roma; giro: Fie sole, Venezia, Pescara, Latina, Pisa ed altre località; 20 rap presentazioni. Tenendo presenti solo le otto compagnie ammesse, si rileva che gli autori sono un greco (Aristofane), un latino (Plau to), (Lope De Vega, Rojas, Lorca), due in glesi (Shakespeare e Ben Jonson) e due italiani (Bru no Cicognani [1] e Maccio Plauto). Ammesso che un paio di « rincalzi » siano possibili avremo altre due opere di Shakespeare. La produzione nazionale caldeggiata dal di rettore generale della Socie tà Autori, dottor Ciampi, è pressoché inesistente (2). E’ caduta la proposta di una compagnia di prosa diretta da Mario Landi che avrebbe do vuto dare nelle principali lo calità della Sardegna una r i duzione di Franciosa e Ferra ri del romanzo di Grazia De- tre spagnoli ledda Marianna Sirca; la pri ma rappresentazione avrebbe dovuto avere luogo a Nuoro. L ’isola è perciò esclusa. Una notazione: nei primi ot to complessi approvati, gli at tori sono designati solo per una compagnia; la contempo raneità delle presenze è ca duta, in quanto venute meno le proposte fondate su gene riche Speranze. Carlo Tralbucco (1) Beilinda e il mostro, un prologo e cinque episodi, di Bruno Cicognani, nato a Firenze il 10 settembre 1879. Roma, Teatro Valle, Compagnia di Lui gi Pirandello, 23 marzo 1927. A venti anni di distanza, Cicognani ha ancora scritto per il teatro Io, el Rey (1945) recitata a San Miniato. (2) N.d.R. - Come volevasi dimostrare. G i r o d ’ I t a l i a a r u o t a l i b e r a Questo avvenimento è già passato e scontato, ma il riparlarne a di stanza di tempo non vuole essere polemica — estranei come siamo ad ogni suo interesse — ma pre cisazione a richiesta di quei let tori che si sono rivolti a noi, per conoscere, a « giro » concluso e premiazione avvenuta, le cifre di gradimento del pubblico. Si è per so molto tempo (ecco la ragione del ritardo) negli accertamenti che sono perciò veritieri e scrupolosi. Dunque, Maner Lualdi partì l’ot tobre scorso, alla garibaldina, dal Teatro Sant’Erasmo di Milano in compagnia di diciotto concorrenti, regolarmente invitati a prendere parte alla « Prima Rassegna degli autori italiani contemporanei », os- V a l e r i a M o n c o n i La prossima Stagione teatrale 1967-’68, Valeria Moriconi non farà più parte del Teatro Stabile di Torino. La sua assenza dalla città sarà rimpianta dagli spettatori abituali, che si erano molto affezionati all’at trice, ed altrettanto nella nostra provincia. Questo capita raramente nella nostra città un po’ altera ed un tantino scostante, quindi difficile nell’esprimere sentimenti di simpatia, soprattutto in forma pubblica. Ma le prestazioni di Valeria Moriconi, sono state tanto apprezzate e la sua simpatia così comunicativa, per due anni, dalla Locandiera iniziale, alla « sua » Nina di II Gabbiano a conclusione, da costituire un vero successo personale, di quelli che stabiliscono un rapporto di durevole amicizia. Ma gli interessi della direzione dello Stabile sono evidentemente diversi, e quindi sacrificata la Moriconi, unitamente al regista Enriquez. L’aver bene operato ed il molto successo ottenuto ha loro nuociuto, evidentemente; crediamo sia questa la verità tanto supposta e cercata. A Valeria Moriconi, a nostro mezzo, il saluto augurale di Torino teatrale. E con molta fortuna avvenire. Firenze — 7 giugno — Cortile di Palazzo Pitti. Uno spettacolo me morabile con la prima in Italia del- VEgmont di Goethe, omaggio alla prosa del Maggio Fiorentino, di quel maestro dell’organizzazione che è Remigio Paone. Regìa di Lu chino Visconti, con Gianandrea Ga- vazzeni a dirigere le musiche di Beethoven. Nella foto accanto: Romolo Valli (Duca d’Alba) e Giorgio De Lullo ( Egmont) ; in basso, prima foto: De Lullo con Ottavia Piccolo (Chia rina); poi Renzo Palmer (Orange), De Lullo, Elsa Albani (la Reggen te), Egisto Marcucci (Machiavel li). Nanni Bertorelli (Ferdinando), Valli. J. W . G O E T H E Ritratto di Josef Karl Stieler (1828) Al Forte Belvedere di Fi renze, prima all’aperto: La Mandragola di Machiavelli, con la regìa di Roberto Guic ciardini. Interpreti, nella fo to sopra: Fulvia Gasser, Adolfo Gerì, Virgilio Lucia no, Renata Negri, Gianni Musy, Carlo Bagno. Nella foto piccola: la Gasser, Ba gno, la Negri. Niccolò Machiavelli (Terracotta del Sec. XV). Gino Damerini Si è spento ad Asolo il 3 giugno 1967. No stro compagno di lavo ro, pur abitando a Ve nezia, ha dato a que sta rivista, per lunghi anni, come prima di lui Renato Simoni, ol tre la regolare critica drammatica dalla sua città, un validissimo apporto di saggi e sto ria del teatro. Alla sua memoria il nostro do loroso rimpianto e la nostra gratitudine. Nella foto., Gino Da merini, in una delle stanze-biblioteca del la sua casa di Ve nezia. Aveva raccol to libri per tutta la vita e ne ha lascia ti alcune diecine di migliaia. sia a quello che nel mondo tea trale andò con il nome di « Giro d’Italia » delle novità. Alla par tenza si ebbe il ritiro di Carlo Terron, poiché la sua « Sposa cri stiana » non era novità assoluta. Divisi in « trittici » vennero pre sentati al « Sant’Erasmo » durante sei settimane. Giudice di ogni com media il pubblico pagante: ad ogni spettatore veniva consegnata, con il biglietto, una scheda per espri mere il suo parere. In media il 9 per cento degli spettatori ha espresso il proprio giudizio. La formula escogitata per le votazioni è risultata valida? Vi sono dubbi in proposito, anche se, tutto som mato, il criterio di sottrarre ai voti positivi i voti negativi, ha consentito di avere un saggio del gusto e delle preferenze del pub blico, che può dar vita a qualche commento non inutile. Qual è il lato negativo del criterio di togliere i « no » ai « sì »? Il precedente di Sanremo è assai eloquente, ed in fatti quel criterio fu abolito. Un concorrente che vede minacciata la sua classifica da chi lo incalza, può agevolmente invitare amici suoi — magari offrendo loro i bi glietti — ad entrare in teatro e deporre nell’urna dei « no » a dan no del collega. E’ chiaro che un « no » del genere fa arretrare il collega ed avanzare il furbastro. Per contro, nei casi di concorrenti tagliati fuori dalla gara per i primi posti, il giudizio di sconosciuti per un autore sconosciuto o poco noto, può essere considerato oggettivo e rispondente al gusto e all’apprez zamento artistico dello spettatore pagante. Questa considerazione ci viene suggerita dall’esame della classifica e particolarmente degli ultimi sei, per i quali i voti nega tivi hanno scavalcato i positivi, ossia hanno avuto dal pubblico più biasimi che elogi. Ma andiamo con ordine; la tappa di Milano ha visto la seguente graduatoria: 1) Peppino De Filip po con punti 2424 («Tutti i dia voli in corpo»); 2) Indro Mon tanelli, punti 2325 (« Il petto e la coscia » ) ; 3 ) Marcello Marchesi, punti 1689 («Bla... bla... bla...»); 4) Carlo Trabucco, punti 1686 ( « Agostino l’arcidiavolo » ) ; 5 ) Aldo Nicola], punti 1473 («Una famiglia molto unita»); 6) Aldo De Benedetti, punti 1341 («Un giorno d’aprile»); 7) Carlo Maria Pensa, punti 1113 (« Gli inno centi»); 8) Alberto Perrini, punti 789 («Coincidenza secondo bina rio»); 9 ) Alessandro De Stefani, punti 696 (« Il sesto atto della Signora dalle camelie»); 10) San dro Bajini, punti 318 («Eugenio 0 il trionfo della salute»); 11) Domenico Campana, punti 186 («Noi normali»); 12) Gigi Lu nari, punti meno 27 ( « La vitto ria di Giovanna»); 13) Achille Campanile, punti meno 87 ( « So gno occhi aperti di una notte di mezza estate»); 14) Carlo Mar cello Rietmann, punti meno 546 («Maschere scandalizzate»); 15) Silvano Ambrogi, punti meno 792 («Il topo verde»); 16) Dino Buzzati, punti meno 969 (« La fine del borghese»); 17) Pier Be nedetto Bertòli, punti meno 1071 («La marchesa viene a morire»). La tappa di Roma (recite di cin que giorni per ogni trittico al Teatro Parioli) ha avuto il se guente risultato: 1) Trabucco, punti 140; 2) De Benedetti, punti 123; 3) Peppino De Filippo, pun ti 64; 4) Nicolaj, punti 56; 5) Marchesi, punti 37; 6) Montanel li, punti 25; 7) Campana, punti 8. Tutti gli altri sono fra i negativi; a Milano gli autori « positivi » era no stati 11, a Roma, 7; pubblico quindi più severo. La tappa di Bologna (sei soli giorni di « gara »: ogni giorno tre commedie) ha avuto questa clas sifica: 1) Nicolaj, punti 484; 2) Peppino De Filippo, punti 270; 3) Trabucco, punti 66; 4) Mar chesi, punti 32; 5) De Benedetti, punti 23; 6) Montanelli, punti 21; 7) Campana, punti 10; 8) Lunari, punti 5; 9) De Stefani, punti 1. Gli altri otto sono fra i « nega tivi ». E’ da rilevare il cospicuo e sorprendente numero di suffragi andati a Nicolaj e a Peppino De Filippo, rispetto ai suffragi otte nuti dagli altri concorrenti. A Bologna si è verificato un im previsto: la « terna » della prima sera (ossia De Filippo, Nicolaj, Campanile) vide il teatro gremi to, perché la direzione del « Duse » « scaricò » tutti gli abbonati sul primo spettacolo, dimenticando che mutando trittico ogni sera sarebbe stato logico scaglionare gli abbonati nelle sei sere, cosic ché la prima si ebbero ben 844 spettatori paganti e le cinque sere successive rispettivamente, 80, 80, 68, 67, 145 spettatori paganti, os sia platea deserta. 1 maggiori suffragi andarono a Nicolaj, che ebbe 484 voti posi tivi, Peppino De Filippo 270, Tra bucco 66, Marchesi 32, De Bene detti 23, Montanelli 21, Campana 10, Lunari 5, De Stefani 1; gli altri otto sono fra i negativi. E’ da osservare che prima di Bologna si sarebbe dovuta dispu tare la tappa di Genova, che fu soppressa per la malattia della Quattrini, e, dopo Bologna, quella di Torino che fu soppressa per indisponibilità del teatro. Così si giunse alla quarta tappa di Trieste: sei giorni, sei trittici. Classifica: 1) Montanelli, punti 151; 2) Nicolaj, punti 135; 3) Campana, punti 70; 4) Peppino De Filippo e Trabucco, punti 60; 5) Pensa, punti 46; 6) De Stefani, punti 37; 7) Bajini, punti 31; 8) Buzzati, punti 16; 9) Perrini, punti 8. Sette ancora i negativi. Ultima tappa: Venezia. La clas sifica di tappa vede un nuovo vin citore: Marchesi, punti 116; 2) Trabucco, punti 74; 3) Montanel li, punti 61; 4) Nicolaj, punti 59; 5) Campana, punti 20; 6) Bajini e De Filippo, punti 15; 7) Pensa, punti 12; 8) De Benedetti, punti 11. Gli altri negativi. A questo punto si apprese ufficial mente da Lualdi, alla conferenza- stampa all’isola di San Giorgio, che la Società Autori aveva noti ficato non essere commedia inedita « Il petto e la coscia ». Monta nelli, dopo sei mesi di corsa, fu tolto dalla classifica. La sera del 5 aprile al « Ridotto » di Venezia, dove sono stati proclamati i vin citori dei quattro premi Davide Campari, la graduatoria finale ri sultò la seguente: 1) Peppino De Filippo, punti 2827; 2) Nicolaj, 2207; 3) Trabucco, 2036; 4) Mar chesi, 1944; 5) De Benedetti, 1558; 6) Pensa, 1179; 7) Perrini, 771; 8) De Stefani, 717; 9) Cam pana, 294; 10) Bajini, 280. Questi dieci autori hanno otte nuto più voti positivi che negati vi; invece, Lunari, meno 77; Campanile, 164; Riet mann, 767; Ambrogi, 1042; Buz zati, 1056; Bertòli, 1137. Non ci arrischieremo a parlare di bilancio positivo o negativo; Lual di, naturalmente, si è dichiarato soddisfatto dell’iniziativa (che ha toccato 41 città); non togliamogli tale piacere, tanto più che Lualdi ha dichiarato che intende ripetere l’esperimento. Speriamo inviti que gli autori che la prima volta sono rimasti fuori. E soprattutto — se davvero vorrà ripetere il « giro » — ricordi che senza una regolare giuria, la gara non ha senso (o ne ha troppo). i seguenti, A d d i o a G i n o D a m e r i n i È morto ad Asolo, sabato 3 giugno 1963, Gino Damerini, storico del teatro, critico drammatico, commediografo, giornalista, agiografo, critico d’arte, saggista, patriota. F u docente di storia contemporanea a ll’Ateneo veneto, come pure esperto di storia del teatro e di storia della scenografia a ll’Istituto d’A rte di Venezia. E ra nato a Venezia i l io luglio 1881. U n maestro. Una delle p iù alte e spiccate personalità del teatro, della cultura e del giornalism o. I l suo nom e è da affiancare a Renato Sim oni ed U go O je tti; al prim o, per la solida e vasta preparazione, g li interessi e la comprensione della scena drammatica ; al secondo, per la d u ttilità dello scrittore-giornalista, lo spiccato senso critico per le A rti, l ’eleganza dell’elzevirista, la responsabile m editazione del saggista. E d i entram bi, l ’umanesimo e l ’unanim ism o. Si aggiunga la sua devozione, il grande amore per Venezia da lu i considerata m iracolo, benché fig lio d i un livornese e d i una polesana. Per Venezia innalzò ed esaltò le grandi om bre del passato, da Francesco M o ro sin i a Daniele M anin, dal poeta Carer a Tommaseo, al G uardi, ai p itto ri veneziani del Settecento. D a tu tto ciò il dono della sua v ita : un grande esempio d i lavoratore galan tuom o. Fu anche sdegnoso e sdegnato per tu tto quanto d i in u tile e meschino vedeva, p urtrop po, in to rn o a sé. D a q u i la sua nomèa d i solitario, il desiderio d i starsene solo con il suo lavoro e la fam iglia, con le poche am icizie che fraternam ente coltivava — e n o i siamo orgogliosi d i aver appartenuto a questo ristretto clan — tutte fio ritu re che costituivano la sua forza interiore, la spe ranza continua nel bene comune, la stessa gioia della sua vita. D e i suoi ottantasei anni, nobilm ente e m eravigliosam ente vissuti, almeno sessanta sono stati dedicati al teatro, se Erm ete N o ve lli, già nel 1905 g li rappresentò la sua prim a commedia L a catena; come ugualm ente tutta la vita, sia pure a periodi, in quo tidia ni e riviste, ha tenuto la critica drammatica, partecipando attivam ente ed anche con punte polem iche alla vita della scena d i prosa, segnandone la cronaca quotidiana, sempre aderente al m om ento, m algrado l ’età, e questo per abito mentale e form azione spirituale d i uom o libero, sincero, entusiasta ed onesto. M a i un compromesso, lontano e schivo da ogni servizio non nobile né costru ttivo, sempre per la verità e la giustizia, salendo fino a ll’universale considerazione con la sua sola forza, la lunga e pericolosa scala della notorietà. D a tanto lavoro, il benessere : la sua casa è sul Canal Grande, a San G regorio nel palazzo Barbaro, e dai suoi balconi si guardano g li scalini d i Santa M aria della Salute. D a qualche anno, ad A solo, sul colle del Paradiso, aveva scelto la sua dim ora d i riposo e d i lavoro insieme. M a rito affettuoso della sua amata M aria, sensibile e squisita signora, artista nata per a ttitu d in i varie, padre orgo gliosissim o del suo Ferdinando, che ha sul v o lto m agnifico e nella prestanza d i aristocratico antico, la lezione d i vita che suo padre è riuscito ad infondergli, senza mai una parola d i più e sempre con uno sguardo d i amore p iù profondo. Si pensa con orrore che u o m in i sim ili debbano scomparire, e n o i che lo abbiamo avuto maestro ed amico, collaboratore d i questa rivista per almeno ven ta n n i, assiduamente come un redattore in sede, ed anche in ciò, per noi, pari a Re nato Sim oni, non riuscirem o per m o lto tem po a convincerci d i averlo perduto. Fenomeno d i instancabilità, g li sembrava d i non aver mai dato abbastanza: fa tti d i secoli da approfondire, personaggi e protagonisti da ridim ensionare, ricordare, lumeggiare. G li studi dannunziani occuparono gran parte della sua vita e m ai se ne staccò; difensore dell’Im m aginifico, suo biografo per suggestione e seduzione, dedicò al poeta prediletto il volum e D ’Annunzio a Venezia (1943) che è la cronaca e la storia insieme dell’amoroso Gabriele (leggi Eleonora Duse) e dell’eroico soldato D ’A nnunzio. D ella «G azzetta d i Venezia» fu direttore dal 1907 al 1922, succedendo a V irg in io A v i; nel p rim o decennio del Secolo fu corrispondente dall’Italia del quotidiano teatrale francese « Comoedia » ; alla sua città ha dedicato le opere A m o r di Venezia; I l Settecento veneziano; Monteverdi e la scenografia vene ziana; le biografie d i Giacinto Gallina e Caterina D o lfin ; L ’Ita lia e i l Cenobio di San Giorgio Maggiore; Casanova a Venezia dopo i l prim o esilio, pubblicato quest’u ltim o dalla nostra IL T E nella « Collana Storica »; ed abbiamo elencato soltanto i lib ri che al m om ento ricordiam o come i p iù im p o rta n ti e signifi cativi, perché i suoi opuscoli su G o ldo ni, i Cinquecentisti veneziani, ecc. sono num erosi e d i non facile ricerca. D urante la prim a guerra m ondiale combattè sul Carso, da valoroso, arruolandosi sottotenente nella Brigata Campobasso, ma si congedò m aggiore, ed i gradi li aveva otte nuti per azioni d i guerra, come fu ugualm ente decorato d i croce al m erito. D a pochi anni, dopo la tragica fine d i A lb e rto B e rto lin i, m algrado l ’età che assolutamente non dim ostrava per energia e disinvolta prestanza, aveva ripreso l ’esercizio della critica dram matica al « G azzettino », né lo disturbavano i co ntin ui viaggi per assistere alle prim e un p o ’ ovunque. N ella sua qualità d i com m ediografo, oltre alla com media rappresentata da N o v e lli e già citata, sono al suo a ttiv o : L ’amore di Loredana (Compagnia P iperno-Borelli-G andusio) ; Chiaro di luna (Com p. T a lli); Giuditta e Oloferne (Com p. E. G ram ática); L a spada e la bilancia (Com p. Sainati); Schumann, opera 46 (Comp. A . N in c h i); Osteria a ll’insegna dell’amor cieco (Comp. T a lli) e non pochi a tti unici d’avanguardia, come numerose le traduzioni da M olière, D e Musset, Ibsen, Dumas fig lio , ecc. S’è detto che il nostro caro amico è m o rto ad A solo, dove era per una con sueta ma breve vacanza ; non stava m ai trop po a lu n g o distante dalla sua casa d i Venezia, dalla sua splendida e ricchissim a biblioteca, che ora pensava d i trasportare nella dim ora d i A solo, per p o te rvi rim anere p iù tempo. Senza i lib r i in to rn o , non g li riusciva d i poter vivere. H a desiderato che la sua m orte fosse annunciata a trasporto avvenuto e così la notizia della sua fine è stata com unicata alla stampa il lunedì 5, dopo che a ll’alba, solo i suoi cari, m oglie e fig lio , con accanto il giardiniere ed il contadino che curano la sua proprietà, lo avevano accompagnato dal Colle del Paradiso al piccolo cim itero d i Pagnano. U n breve tra tto nel pensiero e nella luce dell’Eterno. M a sarà trasferito nel cim itero d i Sant’Anna, in cui riposa la Duse, ed avrà d i fro n te il m onte Grappa, eroico e fatale. A d d io a G in o D a m e rin i; addio al nostro amato M aestro; addio m io caris sim o G ino. Lucio Ridenti F e r d i n a n d o T a m b e r l a n i E morto a Milano, V II maggio 1967, Vattore-regista-scenografo Ferdinando (detto « Nando ») Tamberlani. Era nato a Campi Salentino (Lecce) il 15 gennaio 1896. Nel mondo dei comici del nostro tempo, dire « i Tamberlani» stava a significare una razza di attori particolarmente per bene. Non che altri non ve ne fossero — anzi, moltissimi, quasi tu tti — ma i Tamberlani lo erano per antonomasia. Rigidi continuatori di una tra dizione teatrale familiare, antica di secoli, la prosapia risale al teatro dialettale napoletano dei primi anni del X IX secolo, con un Tamberlani con la maschera di Pulcinella, primo fra i più popolari e prediletti del suo tempo: i Celesi-Balbi, Tommaso Fabioni, ecc. Gente prolifica (Ferdinando Tamberlani, nonno di Nando, ebbe diciotto figli) per inteme rata coscienza religiosa, per rispetto santissimo della famiglia, di Tamberlani comici vaganti, le cronache ne registrano parecchi, soprattutto nel meridione, con la vaga quabfica di giro vaghi. Vuole dire che spingevano il carro-dei-comici, con fatica e dolore. Quel nonno Ferdinando dai molti figli fu il capostipite degli attuali fratelli Tamberlani: il primo, Nando, il caro Uomo, sensibile e squisito, che ci ha appena lasciati. Suoi fratelli sono Luisa, Carlo ed Ermete. Carlo è il più noto. Se si cercano i luoghi dove i fratelli Tamberlani sono nati (Nando, a Campi Salentino; Luisa, a San Cesario; Carlo, a Salice Salentino, minuscole contrade del leccese), è facile capire quale rapporto potesse esistere a quel tempo — lontano di oltre mezzo secolo — fra le sper dute contrade bianche di calce ed accecate dal sole, ed una famiglia di comici vaganti e famelici. Si capirà altresì da quale ceppo sono nati gli orgogliosi ed intemerati Tamberlani, come altri innumeri nuclei di comici, tu tti uguali, sparsi nella penisola, macerati dalla soffe renza e sorretti dall’entusiasmo, dall’amore cieco per il teatro. I ragazzi Tamberlani soffer sero lo struggimento di quella vita, ma ne trassero l’insegnamento della parsimonia e del l’onestà, quanto la fede nella professione, la purezza di esercitarla sempre nel bene e nel rispetto; un vivere civile, onesto e laborioso che sempre ed ancoragli onora, che fa oggi ricordare con giuste parole il caro Nando, compagno d’arte, ora scomparso. Per essere in tal modo permeati di teatro, i Tamberlani hanno rivolto, durante la loro vita e per la loro carriera, ai più svariati e nuovi interessi. Nando aveva così impostata la sua attività — iniziata nel 1914 e svoltasi per dieci anni in Compagnie regolari, da Paladini a De Sanctis, da Betrone a Paoli, ecc. — non soltanto sulla recitazione, che questo gli sembrava ed era ovvio e teatralmente scontato, ma aggiungendo ad essa la direzione (regìa) e la scenografia, verso la quale era particolarmente attratto. Fondò nel 1925 a Lugano la «Famiglia del Teatro», un complesso che aveva aspirazioni ed ambizioni assai più di una normale formazione artistica del tempo. Tentativi che arric chivano le sue esperienze e gli valsero a fondare e dirigere negli anni ventotto e ventinove il « Teatro dei giovani » mettendo in scena Brancati, Marcello Gallian, Sarazani, ecc. D iri gere i primi spettacoli all’aperto (1932) fu per Nando Tamberlani un passo facile e perfino obbligatorio. Per un’istintiva vocazione di purezza interiore che lo portava verso opere di alto respiro poetico e dichiarato mistero religioso, fondò nel 1946, con Mons. Carlo Respighi, l’Istituto del Dramma Sacro, di cui assunse la direzione artistica. Da questa esperienza la sua opera Fonti drammatiche del Cristianesimo. Per quell’istituto, dalla fondazione ai giorni attuali, varie decine di opere furono messe in scena da Tamberlani, praticamente in tutte le regioni, come in Sicilia e Sardegna: Laude Umbre; I l gran teatro del Mondo; Resur rezione di Cristo; Miracolo del corporale; Peccatore Santo; Leggenda di Ognuno, ecc. Lavorò sempre, senza sosta ma senza frenesia, con amore e coscienza, con la visione sempre precisa del suo intendimento, con la certezza del suo operato. E come attore fu sempre pari al compito che gli affidarono, misurato, sobrio, ed il più possibile perfetto. Una bella ed utile vita spesa bene per il teatro. Crediamo che la sua ultima interpretazione sia stata quella di Firs, vecchio servitore di 87 anni, come ha precisato Cecov nell’elenco dei personaggi di II giardino dei ciliegi. Questa commedia pochi mesi fa si recitava a Torino con la Morelli, Stoppa ed altri bravissimi attori, compreso Sergio Tofano, appunto come Firs, ma dopo un certo numero di repliche, per un precedente impegno, Tofano fu costretto a ritornare a Roma. Fu sostituito da Nando Tamberlani. Ci rivedemmo subito. Lungo, magro, lieto, sano, gentile, affettuoso. E fu l’ultima volta. Addio, Nando. Ria Boito, Ruggero Bonghi, Felice Cavallotti, Ulrico Hoepli, Cesare Lombroso, Terenzio Mamiani, Pasquale Stanislao Mancini, Paolo Mantegazza, Gerolamo Rovetta, Eugenio Torelli-Viollier, Edoardo Sonzogno, Giovan ni Verga, Pasquale Villari, Giuseppe Za- nardelli. « Società per la tutela della proprietà lette raria e artistica », la definì lo Statuto ap provato dalla prima Assemblea. Ma non era impresa di poco momento quella di eser citare, da un giorno all’altro, una concreta tutela delle varie forme di utilizzazione del le opere dell’ingegno, e i prim i anni furono interamente dedicati a un’intensa propa ganda nei giornali, nelle riviste, in riunioni e conferenze, per rendere familiari alla pub blica opinione i principi giuridici e morali della protezione delle creazioni letterarie e artistiche. Si trattava di un lavoro non facile, nemmeno attraente per uomini di cultura, e a volte ingrato. Esso costituì tut tavia la premessa indispensabile di ogni futuro sviluppo e consentì che si formasse nel Paese una coscienza pubblica del rispet to dei d iritti d’autore e si preparasse l’ade sione dell’Italia ai movimenti internazionali che dovevano culminare nella creazione del l’Unione di Berna, con l’adozione della prima Convenzione in materia di diritto di autore fra gli Stati. Non dimentichiamo che l’Italia si trova fra gli Stati fondatori della Unione dal 1886. Nello stesso anno di nascita della Società degli Autori, erano state rimaneggiate, in forma di testo unico, le leggi succedutesi in Italia sulla materia, dopo quella origi naria del 1865. Ciò consentì alla Società nel primo quinquennio, dal 1882 al 1887, di non far soltanto opera di propaganda e di persuasione, ma di promuovere le salde basi di una chiara disciplina legislativa. Dal 1896 ha inizio un secondo e più lungo periodo che durò fino al 1926. La Società, nata come un sodalizio di carattere cultu rale, una famiglia di pochi iniziati, si tra sformò gradualmente in un’azienda con caratteri tecnici ben definiti e propri di chi opera in campo economico. 1896 - Ventotto giugno - Il Consiglio no minò Direttore generale della Società Marco Praga, facendo particolare affida mento sulle qualità di amministratore e di organizzatore, piuttosto che sulla sua rino manza di autore drammatico. Egli, da buon ragioniere milanese, come amava definirsi, diede in breve tempo un orientamento pre- I l c a m m i n o d e l l a S SOCIETÀ ITALIANA AUTORI EDITORI I A E 1882 - Ventitré aprile - Nasce a Milano la « Società Italiana degli Autori » come soda lizio privato. Le basi del nuovo sodalizio furono decise da una grande assemblea di scrittori, musi cisti, commediografi, studiosi e anche edi tori. Una vera e propria costituente, pre sieduta da uno storico insigne, Cesare Cantù, al quale venne conferita la carica di presidente onorario della Società. Presi dente effettivo fu nominato il senatore Tulio Massarani, amico delle lettere e dei letterati, e del primo Consiglio direttivo furono chiamati a far parte uomini tra i più illustri nel campo della musica, della letteratura e del teatro, da Giuseppe Verdi a Giosuè Carducci, da Francesco De Sanctis a Paolo Ferrari, da Edmondo De Amicis a Giovanni Prati. Vice-Presidenti furono eletti l ’avv. Enrico Rosmini e l’editore Emilio Tre- ves. A ltri nomi che erano o divennero illu stri sono compresi nel lungo elenco dei pro motori del sodalizio : Roberto Ardigò, Arrigo valentemente pratico alla Società e pose l’accento sulla sua funzione di Agenzia in termediaria. Gli incassi che avevano fati cosamente raggiunto le 100.000 lire all’an no nel 1896, salirono progressivamente du rante il periodo della sua gestione. 1913-1916-1921 - Nel 1913 aveva intanto assunto la presidenza della Società, dopo il senatore Giovanni Visconti Venosta, che l’aveva tenuta dal 1886 al 1906, e dopo il senatore Leopoldo Pullè, il maestro Arrigo Boito, che la tenne fino al 1916, quando fu nominato Marco Praga che vi rimase fino al maggio 1919. In quell’anno — dopo un breve interim di Augusto Ferrari — fu la volta di due autori drammatici, Dario Niccodemi e Alessandro Varaldo, chiamati, rispettivamente, alla presidenza e alla di rezione generale della Società. Quasi con temporaneamente, a Gabriele d’Annunzio venne conferita la carica di Presidente onorario della Società ed egli fu, dopo Cantù, il secondo « Socio giubilato ». Alle due vecchie Sezioni, si aggiunse quella del Libro, incaricata specialmente di orga nizzare e controllare il servizio della tim bratura dei frontespizi delle opere pubbli cate in volume, che venne in quel periodo di tempo affidato alla Società dalle organiz zazioni degli autori ed editori. Durante questo lungo secondo periodo non si avvicendarono soltanto i dirigenti, ma anche le Sedi della Società. Il trasferimento nell’ultima sede milanese, in Via S. Andrea 9, coincise con un avve nimento importante nella vita dell’Ente, cioè con la prima convenzione stipulata con lo Stato per la riscossione delle impo ste sugli spettacoli che risale al gennaio 1921. Vincenzo Morello dispose, nella primavera del 1926, il trasferimento a Roma della So cietà, che contava ormai circa 250 tra fun zionari e impiegati addetti alle diverse sezioni e uffici. 1926 -1945 -1948 - Il terzo periodo, carat terizzato della trasformazione in senso pub blicistico, ha inizio sul declinare del 1926 e dura sino al 1945. Nel 1927, per effetto di una riforma dello Statuto conseguente alla nuova disciplina dei rapporti economici fra le categorie pro fessionali attuata dalle leggi sindacali e corporative, la Società assumeva il nome di « Società Italiana degli Autori ed Edi tori ». La natura di ente pubblico della Società, fermato confermata dalla Corte di Cassazione sotto il regime dello Statuto sociale del 1927, do veva poi essere esplicitamente riconosciuta dalla nuova legge del 1941, che ha riser vato alla SIAE in via esclusiva l’attività di intermediazione comunque attuata per l ’esercizio dei d iritti di pubblica rappresen tazione, esecuzione, registrazione e radio- diffusione di opere letterarie, teatrali e musicali. turbinosi dell’immediato dopo Gli anni guerra non hanno lo sviluppo aziendale. Già nel 1945 la Società riassu meva la sua precedente denominazione e il Commissario nominato dal Governo nella persona di Mario Vinciguerra, scrittore li berale, proveniente dagli studi letterari e dal giornalismo, cominciò senza indugio a ridarle un’impronta democratica. Col fermo proposito di ripristinare la collaborazione dei Soci attraverso le rappresentanze elet tive, fu messo allo studio un progetto di riforma e nell’aprile 1948, un decreto del Presidente della Repubblica modificò pro fondamente lo Statuto del 1942. In base al nuovo ordinamento si è voluto in definitiva rafforzare il principio asso ciativo dell’antico sodalizio, secondo gli unanimi voti degli autori ed editori, ma si è voluto anche conservare alla Società il carattere di un ente intermediario che agisce con alcune prerogative di esclusi vità, raggiungendosi così un felice contem peramento del principo pubblicistico con quello privatistico in un settore in cui l’in teresse particolare dei creatori delle opere dell’ingegno non può essere disgiunto da quello della diffusione della cultura e dalle esigenze della collettività. * O t t a n t a c i n q u e a n n i d e l l a S o c ie t à A u t o r i e d U d i t o r i Il 9 maggio, il Presidente della Repubblica è intervenuto alla inaugurazione ufficiale della nuova sede della Società Autori ed Editori (Siae), all’Eur, in occasione dell’85° anno di fondazione della società. La Siae, nata il 23 aprile 1882 come sodalizio privato, ha vo luto, nella ricorrenza, festeggiare quei soci illu stri che hanno in essa ricoperto cariche sociali, nonché quei soci anziani che hanno raggiunto il mezzo secolo di appartenenza al sodalizio. Il Capo dello Stato è stato accolto dai rappresen tanti del Senato e della Camera, dal ministro della Pubblica Istruzione, che rappresentava il Governo, dal presidente della Corte Costituzio nale e dal ministro dello Spettacolo. Il presidente della Siae, Mario Vinciguerra, che insieme al direttore generale, Antonio Ciampi, faceva gli onori di casa, ha rivolto al Capo dello Stato un indirizzo di omaggio. « Con la sua presenza — ha detto — ella dice a noi molte cose: dice prima di tutto del suo interessamento per le lettere e le arti del nostro Paese; dice inoltre che è conscio delle difficoltà che si frap pongono al libero esercizio delle professioni, le quali si rivolgono al mondo della cultura e ad esse si appoggiano per la loro esistenza ed il loro sviluppo ». Vinciguerra ha poi ricordato la partecipazione del presidente Saragat alla so lenne commemorazione di Benedetto Croce a Napoli, nel teatro San Carlo, dando ad essa, con le sue parole, il tono e il significato che si estendevano a tutta una zona, e la più eletta, della vita intellettuale della Nazione. « Ella pro segue nella sua azione — ha detto ancora Vin ciguerra — che è anche un monito con l’ade sione data, com’è noto, alla prossima comme morazione di Luigi Pirandello. Ed ella è oggi qui, quasi ad offrirci un pegno del suo interes samento concreto per la cultura del Paese, con scio che il destino personale degli scrittori e degli artisti è indissolubilmente legato al de stino delle lettere e delle arti di un Paese civile ». Antonio Ciampi, che ha preso subito dopo la parola, ha illustrato l’attività della società affer mando che « questa attività si svolge non senza travagli e non senza difficoltà, perché la produ zione e il consumo, anche delle opere dell’inge gno, sono sotto un certo aspetto fenomeni eco nomici e, come tali, non si sottraggono alle leggi inesorabili della domanda e dell’offerta ». « Ma — ha soggiunto — la coscienza pub blica, sempre più diffusa, del diritto d’autore e l’opera di mediazione delle grandi e piccole organizzazioni che operano nel campo editoriale e dello spettacolo sino alle più moderne indu strie meccanizzate della radio, della televisione, del cinematografo e del disco hanno consentito e consentono, con l’appoggio dei pubblici po teri, un felice contemperamento degli interessi morali e patrimoniali di carattere privato, con quelle esigenze che hanno un profilo di pub blica utilità per la libera circolazione delle opere e per la diffusione della cultura ». Il Presidente della Repubblica dopo aver espres so le più vive, cordiali felicitazioni alla società e alla categoria dei soci benemeriti, ha così proseguito: « Vedo qui scrittori illustri, illu- stri musicisti, illustri editori. Vedo anche nu merosi giovani destinati a portare innanzi un’alta e nobile missione di civiltà. A voi tutti e a tutti quelli che qui rappresentate, sia io, sia le auto rità qui convenute, siamo lieti di testimoniare con questa nostra stessa presenza la più schietta, viva e sincera simpatia. Noi conosciamo ed ap prezziamo non solo l’intrinseca nobiltà, ma an che la funzione sociale della vostra opera. Voi, infatti, nel contesto sociale di un popolo e, in dimensioni più vaste, nel contesto della uma nità, costituite la coscienza più profonda, più vigile, e talvolta più tormentata e inquieta di quel popolo e dell’umanità; e dunque siete anche i garanti e i rivendicatori della sua li bertà. Ed è questa la ragione che ci rende tanto sensibili ai problemi della cultura: l’equazione, cioè, che noi scorgiamo intercorrere perenne- mente fra i due termini cultura e libertà ». Ricordate le benemerenze dell’istituto, Saragat ha detto che la Siae ha il merito di aver favo rito lo spirito associativo di una categoria di persone così singolarmente gelose della propria indipendenza e di avere esteso questo spirito associativo nei rapporti con istituzioni similari esistenti in altri Paesi. Il Presidente della Re pubblica ha concluso plaudendo all’opera della Società e formulando l’augurio che essa possa sviluppare sempre più e sempre meglio la sua proficua attività a favore della cultura. Saragat, quindi, ha personalmente consegnato le targhe d’oro di benemerenza al maestro Ilde brando Pizzetti, per la sua lunga attività di compositore, che ha onorato ed onora l’arte musicale e ia cultura italiana nel mondo, e al maestro Alberto Curci, in ricordo della lunga ed illuminata attività svolta in seno agli organi sociali della Siae e in riconoscimento della isti tuzione di una fondazione musicale a Napoli. Saragat ha altresì consegnato le medaglie d’oro ad illustri soci con oltre 50 anni di appartenenza ininterrotta al sodalizio. Sono così sfilati dinanzi al Capo dello Stato, che ha avuto parole di cor dialissimo compiacimento e di augurio per ognuno dei premiati, Ferdinando Albano, Rino Alessi, Cesare e Andrea Bixio, Giulio Bonard, Aniello Costabile, il rappresentante delle edi zioni Curci, Aldo De Benedetti, De Luzio, Ales sandro De Stefani, Stefano Ferruzzi, Salvatore Gotta, Adriano Lualdi, Gianfrancesco Malipie- ro, Piero Mazzolotti, Ennio Neri, Nino Salva- neschi, Tommaso Salvini, Giulio Trevisani e Pacifico Vento. Giuseppe Possenti ha ritirato la medaglia conferita al padre, Eligió. Alla ceri monia erano presenti numerose autorità e per i. t. sonalità della cultura e dell’arte. T H É Â T R E D E S N A T I O N S S t a g i o n e 1 9 6 7 Un estremo rigore nella scelta degli spettacoli, un’atten zione vigile alle manifestazioni più avanzate della creazio ne teatrale, la rinuncia ad ogni velleità commerciale e l’apertura di un dialogo permanente con le personalità più rappresentative del Teatro contemporaneo attraverso la costituzione di un « Cartello internazionale » in cui figu rano i nomi di Albee e Besson, Béjart e Brook, Grassi e Strehler, Felsenstein e Lieberman, Suzuki e Tovstonogov: tali sono stati i principi informatori cui si è ispirato Barrault. Sotto la sua direzione il Teatro delle Nazioni ha trovato la sua seconda giovinezza. Puntuale, l’annuale Festival del Teatro delle Nazioni. Gioioso, atteso appuntamento che si ripete ormai da molti anni. Fu nel 1955, infatti, che i rappresentanti delTIstituto In ternazionale del Teatro riuniti a Dubrovnik, la « Venezia slava », decisero di chiedere alle autorità francesi di promuovere la costitu zione, a Parigi, di un Teatro delle Nazioni. Pareva uno dei tanti voti chimerici che si formulano nei congressi, invece il progetto incontrò l’interessamento del governo fran cese, della municipalità di Parigi, della gen te di Teatro e divenne realtà prima di quan to si potesse sperare. Da allora, fra la primavera e l’estate di ogni anno, Parigi innalzò l’insegna del Festival del Teatro delle Nazioni, divenne il quadrivio dove s’incontrarono attori drammatici, registi ed attori di tutti i continenti. Si confronta rono esperienze, si scopersero filoni nascosti, si misero a nudo le linee di forza del Teatro contemporaneo. Mentre sul mondo soffiava ancora il vento della guerra fredda, la ribalta parigina del Teatro delle Nazioni accolse le « troupes » dell’U.R.S.S. e dei paesi dell’Est, con i loro autori nazionali. Ma il grande me rito dei Festivals del T.d.N. fu di avere fatto conoscere in Francia e, di riflesso, in Europa, i tesori dell’arte teatrale dei paesi del Terzo Mondo, che il colonialismo aveva nascosto o ridotto alle proporzioni di folclore spicciolo. Fino al ’65 il Teatro delle Nazioni continuò in questa esplorazione sistematica di una « geografia teatrale » a dimensioni planeta rie. Fu cioè eminentemente informativo ed antologico. Dopo questa prima fase, di pro spezione generale, bisognava passare ad una attività selettiva che tenesse conto maggior mente della qualità degli scambi teatrali e soprattutto, valorizzasse le iniziative tendenti a riconciliare il Teatro ed il mondo contem poraneo. D’accordo con l’Istituto Internazio nale del Teatro, il ministero della Cultura francese volle, l’anno scorso, riorganizzare in profondità il sodalizio. Jean-Louis Barrault subentrò nella direzione a A. M. Julien (non senza qualche inevitabile frizione polemica) e la sede fu trasferita dal « Sarah Bernhardt » al- l’« Odeon - Théâtre de France », il prestigioso palcoscenico del Quartiere Latino dove, in que sti anni, si sono combattute le battaglie più ge nerose per il rinnovamento dell’Arte drammati ca e dove fin dal lontano 1927 l’allora direttore Firmin Gémier aveva organizzato un primo festival internazionale del Teatro. Un estremo rigore nella scelta degli spettacoli, un’attenzione vigile alle manifestazioni più avan zate della creazione teatrale, la rinuncia ad ogni velleità commerciale e l’apertura di un dialogo permanente con le personalità più rappresen tative del Teatro contemporaneo attraverso la costituzione di un « Cartello internazionale » in cui figurano i nomi di Albee e Besson, Béjart e Brook, Grassi e Strehler, Felsenstein e Lieber- mann, Suzuki e Tovstonogov: tali sono stati i principi informatori cui si è ispirato Barrault. Sotto la sua direzione il Teatro delle Nazioni ha trovato la sua seconda giovinezza. Il cartel lone della stagione 1967 — notevolmente snel lito a vantaggio della qualità — offre all’inten ditore un meraviglioso colpo d’occhio sul Tea tro d’oggi: fra maggio e giugno dodici spetta coli di generi diversi (prosa, melodramma, dan za, pantomima e « cabaret » ) presentati dalle migliori « troupes » della Germania, della Gran Bretagna, degli Stati Uniti, dellTtalia, della Cecoslovacchia, dell’India, di Cuba, della Tuni sia, del Belgio. ■ Anche quest’anno, a sottolineare il posto che nell’opera di rinnovamento del linguaggio tea trale debbono avere i giovani, Jean-Louis Bar rault ha voluto che l’inaugurazione ufficiale della Stagione del Teatro delle Nazioni fosse preceduta dalla presentazione, sul palcoscenico dell’« Odèon », dei lavori risultati vincitori del quinto Festival del Teatro universitario di Nancy, svoltosi nell’ultima decade di aprile. Quest’an no avevano preso parte all’ormai tradizionale rassegna ventiquattro compagnie universitarie in rappresentanza di ventun paesi: Germania Fe derale, Belgio, Canada, Columbia, Spagna, Stati Uniti, Finlandia, Gran Bretagna, India, Italia, Libano, Liberia, Nigeria, Polonia, Portogallo, Singapore, Svizzera, Cecoslovacchia, Turchia, Jugoslavia e, per la prima volta, l’Unione Sovie- tiva, con trenta allievi dell’Istituto Superiore del Teatro di Leningrado. L’Italia era rappresentata dal Teatro Universitario « Ca’ Foscari » di Vene zia diretto da Renato Padoan, con Gli Epitaffi e La Potione di Andrea Calmo e Questo xe lo doxe se ve piase, « momaria » a cura dello stes so Padoan e di Checchino Sannazzario. Lo spet tacolo della giovane « troupe » veneziana — già conosciuto in Italia, il che ci dispensa dal par larne diffusamente, e ripetuto per una sera sul palcoscenico parigino dell’« Atelier » — è stato accolto con entusiasmo dal pubblico di Nancy, una parte del quale l’ha francamente preferito alle stesse opere vincitrici, ed ha ottenuto una menzione dalla giuria, che era autorevolmente presieduta da Paolo Grassi, direttore del « Pic colo » di Milano. Fuori competizione, alla vigi lia del Festival lo « Stabile » di Torino diretto da Gianfranco de Bosio aveva presentato, molto applaudita, l’Anconitana del Ruzante e la com media-pantomima del Teatro piemontese El cont’ Piolet, di cui il lettore italiano è già informato. Il Festival di Nancy prevedeva due sezioni, una ad argomento libero e l’altra a tema imposto. Questo tema era « una giovane coppia in con flitto con la società di ieri, di oggi o di doma ni »: e nella sua enunciazione didascalica non ha certo giovato a stimolare la produzione di opere di valore autentico. Ci si deve chiedere, anzi, se un Festival teatrale sopporta l’artificio del tema fisso. A nostro parere, no. Altre deb bono essere le vie per sollecitare l’impegno del giovane Teatro nei confronti dei problemi di attualità. Ha vinto il premio del Festival la compagnia del Teatro universitario di Helsinki con II canto di mille appartamenti, una breve commedia semimusicale di dodici quadri e otto canzoni della giovane scrittrice finlandese Maria-Leena Mikkola, sul tema della difficile ricerca di un alloggio da parte di una coppia. E’ un’opera sa tirica, tributaria del teatro di Brecht; un’eserci tazione raffinata più che un testo autonoma mente valido. L’altro premio del Festival — il cui livello generale, quest’anno, è stato franca mente modesto — è andato al Teatro universi tario di Birmingham, che ha liberamente riela borato, con La battaglia di Azincourt, un brano tratto dall’Enrico V di Shakespeare, cercando di attualizzare il tema del conflitto fra chi ha la responsabilità del comando e chi deve ub bidire. H Dopo l’anteprima riservata al Teatro universi tario, la sera del 3 maggio è toccato agli attori del « Diisseldorfer Schauspielhaus » — sodali zio rinato nel ’47 dalle ceneri della guerra e attualmente diretto da Karl Heinz Stroux — l’onore di inaugurare ufficialmente il Festival, con II prìncipe di Amburgo del poeta romantico tedesco Heinrich von Kleist. Una scelta a sfon do politico, se si vuole, destinata a sottolineare il recente rilancio della cooperazione, anche cul turale, tra la Francia e la Germania Federale: e difatti alla « prima » ha assistito, con a fianco l’ambasciatore tedesco Klaiber, il ministro degli Esteri francese Couve de Murville. Jean-Louis Barrault era a Montreal, per presentare nel tea tro del padiglione francese dell’Esposizione del Canada un « Omaggio a Saint-Exupéry »; ma un collegamento in « duplex » realizzato dalla Radiotelevisione gli ha permesso di rivolgere un messaggio di saluto al pubblico del Teatro delle Nazioni e di dialogare brevemente con Ma- deleine Renault e Stroux, che l’ascoltavano sul proscenio. Jean Vilar era in sala, spettatore attentissimo. Ad Avignone nel ’51, l’anno dopo al T.N.P. pa rigino, egli aveva già presentato II prìncipe di Amburgo, con Gérard Philipe come protago nista. I critici non hanno mancato, naturalmen te, di fare un confronto fra quella lontana ver sione e l’allestimento del « Schauspielhaus di Diisseldorf ». Hanno concluso che questo non aveva la « magìa » della realizzazione di Vilar, che mancava soprattutto l’« elfo », l’« angelo » Gérard Philipe, interprete ideale del romantico eroe di Kleist. Noi non avevamo veduto la ver sione francese, perciò non abbiamo potuto sta bilire confronti. Con questo, forse, di vantag gio: che siamo stati liberi di apprezzare senza sviamenti certe qualità tipiche dello spettacolo della « troupe » tedesca, la sua coralità per esempio, la sua dimensione epica, la sua barbara solennità. L’inquieto, tormentato Kleist aveva scritto Der Prinz Friedrich von Hombourg nel 1809, quan do pensava già al suicidio consumato nel no vembre del 1811, a soli trentacinque anni. Ma il poeta già tormentato dalla follìa era riuscito a comporre, miracolosamente, un’epoca che è un modello di equilibrio, di armonia, di misura. Tutti i caratteri, a cominciare da quello del Prin cipe, sono disegnati con mano fermissima ed il dramma, nel suo insieme, aduna le virtù del teatro di Comedle e di quello di Shakespeare e, dietro il drappeggio romantico, si rivela straor dinariamente ricco di motivi moderni, anticipa addirittura i temi del Teatro psicologico, per non dire psicoanalitico. Poche opere sono rias suntive delle qualità della drammaturgia tedesca come questo Prìncipe di Amburgo, che svolge il tema del conflitto fra l’eroismo, l’amore e l’obbedienza alla legge. Pare che Kleist avesse tratto l’ispirazione per questo dramma da un episodio storico raccon tato da Federico II di Prussia. Durante la batta glia di Fehrbellin il principe di Amburgo, coman dante della cavalleria brandenburghese, aveva at taccato di sua iniziativa, contrariamente agli ordi ni ricevuti, le truppe svedesi, rischiando così di compromettere le sorti della campagna. Nel l’opera di Kleist l’iniziativa arbitraria del gio vane e focoso Principe — che è una sorta di Amleto teutonico turbato da sogni di gloria — diventa il vero motivo della vittoria branden burghese, ma il Principe Elettore lo condanna 10 stesso a morte, nonostante l’affezione che gli porta, per ribadire davanti agli altri capi mili tari la necessità dell’obbedienza, e lo grazia sol tanto dopo avere saggiato la sua abnegazione. 11 dramma ha un esordio shakespiriano: Fede rico, il giovane Principe, è immerso nelle sue fantasticherie, preso da uno di quegli accessi di sonnambulismo cari alla fantasia di Kleist, poeta dell’inconscio. Quando la principessa Natalia, nipote deH’Elettore, gli cinge il capo per gioco con una corona di alloro, nel giardino illuminato dalla luna, Federico crede di essere stato visitato dalla Gloria. L’indomani, vigilia della battaglia, non ode neppure gli ordini impartiti dal suo co mandante e quando, nel più folto della mischia, sente dire che il suo sovrano è in pericolo, di mentico della consegna di presidiare la posizione assegnatagli corre in suo aiuto. Dopo la batta glia, vittoriosa anche per il suo gesto, egli deve però comparire davanti ad una corte marziale, che lo condanna a morte. Così ha voluto l’Elet- tore, per dare un esempio all’armata. Alla vigi lia dell’esecuzione Federico, disperato, ottiene un colloquio con l’Elettrice e con Natalia (di cui, riamato, è invaghito) e le supplica, senza dignità, di intercedere per la sua salvezza. Ce dendo alle pressioni di Natalia l’Elettore sospen de l’esecuzione ed invia una lettera a Federico. Decida lui se la sentenza è stata equa, si consi deri libero se ritiene che non lo sia stata. Posto così di fronte all’idea del dovere il giovane Prin cipe riconosce la sua colpa, comprende che non può chiedere la clemenza dell’Elettore ed invoca lui stesso l’esecuzione della sentenza, con stra zio di Natalia e dei suoi compagni d’arme. A questo punto, toccato dalla nobiltà d’animo di Federico, l’Elettore concede la grazia. Il marti rio si trasforma in apoteosi, gli squilli di tromba della Gloria diventano le note di una marcia nuziale e, con l’approvazione dell’Elettore, Fede rico e Natalia decidono le nozze. Il regista Stroux ha diretto II Principe di Am burgo come una partitura wagneriana, con mol to polso e misura, mettendo in risalto più i temi eroici del testo che quelli lirici. Nella loro sobrietà le scene ed i costumi di Teo Otto hanno aggiunto una nota di grandezza allo spettacolo. L’attore Wolfang Arps (il principe Federico) ha supplito con l’irruenza ed il vigore, oltreché con un consumatissimo mestiere, alla penuria di certe qualità di sogno proprie dell’eroe ro mantico, e nell’insieme ha realizzato una compo sizione più che convincente. Ewald Balser ha conferito alla figura dell’Elettore l’autorità cal ma e la brusca umanità che le convenivano; Arthur Mentz ha disegnato con forza il perso naggio del rude e generoso colonnello Kottwitz; Evelyn Balsor è stata una tenera Natalia. La stessa compagnia del « Schauspielhaus di Düsseldorf » ha dato il secondo spettacolo del Festival rappresentando Tango, del polacco Slawomir Mrozek, autore — come si sa — fra i più significativi della giovane drammaturgia europea. Lo spettacolo era interessante per più motivi. Anzitutto, perché si voleva vedere come una « troupe » abituata a recitare i classici, in uno stile non dissimile da quello della « Comédie Française », se la sarebbe cavata alle prese con un testo d’avanguardia come quello di Mrozek. Poi perché gli attori tedesco-occidentali del « Schauspielhaus » erano diretti per l’occasione ( a dimostrazione che la « guerra fredda » è, al meno sul piano culturale, finita) da un regista polacco, Erwin Axer, che a Varsavia dirige la compagnia del « Teatro contemporaneo », e che è uno degli specialisti degli autori « nuovissi mi »: Albee, Pinter e, appunto, Mrozek. Terzo motivo d’interesse: Tango è rappresentato at tualmente a Parigi anche in versione francese, nell’interpretazione e con la regìa di Laurent Terzieff, sicché si voleva confrontare le due realizzazioni. Le differenze fra l’allestimento di Axer e quello di Terzieff sono, in effetti, notevoli. Il giovane attore-regista parigino ha calcato la mano sugli spunti surrealisti e suH’umorismo nero della « pièce » di Mrozek, pimentando il tutto con l’« anarchisme » acido e con il « non-sense » messi in voga dai giovani « arrabbiati » del Tea tro anglosassone. La sua versione apparenta il testo di Mrozek da un lato a certe « pièces » di Pinter, per esempio II ritorno, e dall’altro a quel capolavoro del Teatro francese del Nove cento che è Victor o i bambini al potere, di Vitrac. La versione di Erwin Axer, invece, è diretta- mente innestata sul grande ceppo del Teatro espressionista tedesco, ha la crudezza allucinante delle « pièces » di Frank Wedekind, come ve nivano rappresentate trenta o quarant’anni fa. Il suo grottesco è più grave e più tragico; il tema del conflitto fra le generazioni che Mrozek ha svolto paradossalmente (in Tango, com’è noto, sono i genitori e la nonna di Arturo, il protago nista a vivere senza ideali, nel disordine e nella confusione, mentre è il giovane che desidera imporre il rispetto delle convenzioni e dell’or dine) si presta più, nell’interpretazione del regi sta polacco, alla meditazione che al divertimento, e la danza macabra del finale, che lo zio Euge nio ed il valletto Ede — simboli della reazione e della violenza — eseguono intorno al cadavere del ragazzo, assume qui, nella versione tedesca, un lugubre, agghiacciante significato, quello di un potenziale rischio di ritorno del nazismo per esempio. Qual è il modo più giusto di interpretare que st’opera forte, strana, affascinante? Forse pro prio quello del regista polacco, nonostante che la brillantissima interpretazione di Laurent Ter- zieff abbia fatto dire il contrario ad una parte della critica parigina. Quali che siano stati i pareri sulle due versioni, tutti sono stati d’ac cordo nel ritenere che il giovane attore Wolf gang Reinbacher — cranio a spazzola, occhiali rotondi, il fisico di un Jerry Lewis da tragedia —- è superlativamente bravo nel disegnare la figura di un Arturo complessato, nevrotico e, nel profondo, assetato di ideali come un bam bino lo è di fiabe. Arthur Mentz (il padre), Gerda Maurus (la madre), Heinrich Ortmayr ( lo zio Eugenio ) e Wolfgang Gronebaum ( il val letto Ede) danno rilievo, su un piano più grot tesco, ai rispettivi personaggi. Le scene ed i costumi di Eva Starowieyska sono un « mélan ge » esplosivo di stile espressionista e di « Pop-Art ». ■ Il Teatro delle Nazioni alterna — com’è noto — la prosa alla lirica, al balletto, alla panto mima. Dopo le solide, convincenti prove del « Schauspielhaus » di Diisseldorf ha proposto una versione musicale del Sogno di una notte d’estate di Shakespeare realizzata da Benjamin Britten, uno fra i più fecondi ed apprezzati com positori contemporanei. Siamo esentati, in que sta sede, dal dovere di parlare a lungo di questo spettacolo. Basti dire, a titolo di cronaca, che ha interpretato la partitura l’orchestra dell’« En- glish Opera Group » di Londra diretta da Colin Graham. La musica di Britten non è riuscita a fare dimenticare quella che, sullo stesso cano vaccio scespiriano, aveva composto Mendels- sohn; l’Inghilterra non è il paese del « bel canto » e i cantanti del « Covent Garden » — che prestavano le loro voci — non sono eccezio nali. Successo di stima, dunque. La partecipazione dell’India al Festival del Tea tro delle Nazioni è consistita quest’anno in una serie di rappresentazioni di Kathakali. Uno spet tacolo di Kathakali è un insieme di canti, danze e pantomime ed ha origini antiche, legate alle feste religiose nelle provincie agricole dell’India. Il vero Kathakali comincia con il calar delle te nebre e prosegue ininterrottamente fino all’alba, quando la danza di Krisnha (dea dell’Aurora) dissolve le fantasmagorie e i personaggi fanta stici evocati dai danzatori. Questi agiscono su un piccolo, rudimentale palcoscenico delimitato da canne di bambù piantate nel suolo, con un tetto di foglie di palme intrecciate. Il pubblico segue il lungo spettacolo, che evolve insieme alle ore della notte, seduto per terra, mentre l’incenso brucia nei tripodi. Erano gli stessi « maraja », un tempo, a comporre i testi dei Kathakali, che erano cantati da un piccolo coro maschile accompagnato da strumenti simbolici come il tamburo, il timpano, i campani. Oggi i testi sono scritti dai maggiori poeti indiani, ed il genere è stato rinnovato ed adattato alla sensibilità moderna, pur restando fondamental mente vicino alle originarie regole. Il Kathakali con cui i danzatori del Kerala Kalamandalam hanno aperto la serie di spettacoli dati al- l’« Odèon » evocava una sorta di guerra fra Montecchi e Capuleti indiani, i Pandavas e i Kauravas, che si erano giocati i beni e le donne ai dadi. Genere lontano dalla nostra sensibilità europea, ancor più del No’ giapponese, il Katha kali ha portato tuttavia al pubblico parigino l’immagine dei favolosi rituali drammatici del l’antica civiltà contadina dell’India. Un fascino strano ed indefinibile, al quale non si poteva restare tuttavia indifferenti. La prosa è tornata sul palcoscenico dell’« O- déon ” con il “ Théâtre d’aujourd’hui », una giovane compagnia belga, di Bruxelles. Ora, sarà il ricordo dei sarcasmi di Baudelaire, fatto sta che i belgi non hanno fama di essere, in Arte in generale e nel Teatro in particolare, dei no vatori. Ma presentando per il Teatro delle Na zioni il Tieste di Seneca, liberamente interpre tato secondo il « Théâtre d’aujourd’hui » ha smentito un tale giudizio. La « troupe » belga è riuscita a fare fremere d’orrore, scandalizzare e dividere in campi avversi il pur agguerrito pubblico pari gino: il che è tutto dire. Il « Teatro d’oggi » è stato fondato nel ’58, recita in fiammingo, è diretto da Rudi Van Vlaenderen (37 anni, ma una già solida repu tazione europea) e, oltre ad avere presentato opere del repertorio nazionale, ha incluso in programma testi di Brecht, Max Frisch, Ghelde- rode, e Beckett, fino ai nuovissimi dell’avan guardia, come Robert Pinget, Jean Tardieu e René de Obaldia. Fra le iniziative varate in questi anni dal sodalizio meritano menzione i Toneelgesprekken (in fiammingo, « Incontri sul i canoni dell’avanguardia, Teatro»), consistenti in letture drammatiche seguite da liberi dibattiti e « I mezzogiorno del Teatro », rappresentazioni teatrali che si svol gono dalle 12,30 alle 13,45, e di cui profittano soprattutto le comunità di studenti, impiegati ed operai che vivono nella « banlieue » di Bruxelles. Mettere in scena una tragedia di Seneca è im presa difficile, per non dire disperata. Brani di eloquenza sublime, squarci lirici di grande ef ficacia, riflessioni filosofiche di alto tenore non possono fare dimenticare la truculenza delle situazioni, gli eccessi del linguaggio, la lentezza dell’azione. Ma il Tieste presentato dal « Teatro d’oggi » di Bruxelles è, dell’originale, un libero rifacimento dovuto ad Hugo Claus, un giovane ed originale poeta, romanziere e pittore di stirpe fiamminga che ha anche curato la messinscena. L’espressione « libero rifacimento » dev’essere, qui, presa alla lettera: basti dire che il coro è sostituito da un personaggio dei nostri giorni, mezzo « provos » e mezzo scaricatore di porto; che il Tantalo il quale all’inizio della tragedia s’interroga intorno ai nuovi tormenti riservati dagli dei alla sua stirpe è raffigurato come un mostro obeso dalla testa ad uovo, senza mani, ricoperto di scaglie; che la Furia intenta a tes sere la sua trama di odio fra Atreo e Tieste si presenta come una creatura scimmiesca, rapidis sima a saltare da un punto all’altro della scena. E che abbondano i gesti rituali, le pantomime alla Béjart ora tragiche ed ora grottesche, le figurazioni simboliche, gli esercizi di respira zione sui valori ritmici del testo. Basti aggiun gere, infine, che il regista non si è fermato di fronte agli aspetti più barbari del testo, anzi li ha sottolineati con un partito preso di provo cazione. Si conosce la storia orribile che ha raccontato Seneca: Atreo, re di Micene, concepisce un odio implacabile verso il fratello Tieste, che gli ha sedotto la sposa Europa. Per vendicarsi, fa ri chiamare Tieste dall’esilio e finge di volersi rap pacificare con lui; poi massacra tre dei figli del fratello nati dall’adulterio e, nel corso di un tragico festino, gliene fa mangiare i resti. ^Orbe ne: non soltanto il Claus ha voluto riprodurre in scena ogni particolare dell’orrendo banchet to nel corso del quale Tieste ingoia, boccone dopo boccone, la tenera carne dei figli, e ne beve il sangue, ma dopo la rivelazione della vendetta da parte di Atreo ci mostra l’infelice padre che vomita i resti del pasto, e fa rotolare sulle tavole del palcoscenico le teste insangui nate delle vittime. Questi momenti dello spettacolo, forse tollera bili dal pubblico romano dei tempi di Nerone, hanno indisposto gli spettatori più delicati, che hanno abbandonato il teatro. Con tutto questo, oseremmo sostenere che le forzature volute da Hugo Claus sul registro dell’orrore tendono a giustificarsi, non tanto nel tentativo di restituire le fosche atmosfere della tragedia romana della decadenza, quanto in quello più attuale, e meri torio, di provocare nel pubblico una sorta di reazione istintiva, carnale, contro la violenza delle passioni, l’ambizione del potere, le verti gini della vendetta. Siamo, qui, oltre i limiti del realismo, alle soglie di un espressionismo selvag gio. Plugo Claus si è ricordato, nel reinterpre tare Seneca, del Guignol tragico rappresentato dal teatro del suo connazionale Ghelderode, mentre la drammaturgia brechtiana gli ha sug gerito i motivi di contrappunto messi in bocca al suo « coro » in « blue-jeans ». Tutto sommato, un interessante, intelligente ten tativo di « rilettura » in chiave moderna di un Teatro che non sarebbe più proponibile nella sua forma originaria. Ed un buon lavoro di regìa, denso di notazioni di incontestabile qua lità. La scena è di una rigorosa semplicità atti ca: un trono di pietra bianca sullo sfondo azzur ro dell’orizzonte, con una colonna dorica che sorregge un enorme cranio di caprone. L’inter pretazione, senza essere eccezionale, è apparsa più che onorevole, in ogni caso omogenea (Ton Lutz come Atreo, Rudi Van Vlaenderen come Tieste, Hogo Van den Berghe come il Coro, Coen Pronk nella parte di Tantalo e Hetty Verhoogt in quella della Furia). 1 Questa cronaca è stata scritta prima che il « Piccolo » di Milano abbia presentato, sempre nel quadro del Teatro delle Nazioni, I giganti della montagna, di Pirandello. C’è molta attesa per lo spettacolo, intorno al quale riferiremo nella nostra prossima corrispondenza. Ug:o Ronfani Parigi, giugno 1967 C R O N A C A D E I T E A T R I S T R A N I E R I ■ L’attività dell’Istituto Culturale Italiano: da Pirandello a Marinetti. ■ Il fervore per la scena di prosa dei parigini ha indotto i direttori di teatri alla revi sione di alcuni commediografi e dei loro successi degli anni Trenta, da « Jean de la Lune » di Marcel Achard a « Marius » di Pagnol. ■ La Comédie Française ha rappresentato l’atto unico di Marivaux, ritrovato miracolo samente dalla bibliotecaria della « Maison de Molière » e da noi tradotto e pubblicato in « Dramma » subito dopo, nel marzo dell’anno scorso. ■ Interesse del « Festival del Marais ». F M I dal 1923 — accogliendo trionfalmente i Sei per sonaggi — aveva onorato il drammaturgo sici liano quando il suo genio era ancora contestato in Italia. Con entusiasmo ha accettato di venire a tenere un « recital », svoltosi la sera del- l’8 maggio nella fastosa sala delle conferenze dell’Hótel de Galliffet trasformata, per l’occa sione, in teatro, davanti ad un pubblico di invi tati comprendente l’ambasciatore d’Italia For nati, il console Ferrara, diplomatici, uomini di Lettere e di Teatro (fra i quali il commedio grafo Félicien Marceau, il traduttore di Piran dello Michel Arnaud ed il regista Claude Régy, che ha mirabilmente allestito la versione fran cese di Trovarsi con Delphine Seyrig), inoltre testimoni dei passati trionfi parigini di Marta Abba e studenti del Quartiere Latino. Ha presentato l’attrice il regista André Barsacq, a giusto titolo, non soltanto perché degli uomini di Teatro parigini egli è imo dei più attenti co noscitori dei nostri autori (Gozzi, Goldoni, Betti hanno figurato fra le sue messinscene), ma anche perché delle opere di Pirandello egli ha dato mirabili esecuzioni, non molto tempo fa allestendo con successo Questa sera si recita a soggetto. Barsacq ha ritracciato la carriera arti stica di Marta Abba, che il pubblico italiano conosce perfettamente, ed il lettore di questa rivista in particolare, dispensandoci cosi di do verla riassumere. Marta Abba ha quindi inter pretato, con magnifico impeto, alcune scene di opere pirandelliane, da Come tu mi vuoi a Sei personaggi a Trovarsi. Il pubblico le è stato largo di simpatia e di applausi. Ma nella chiara ripresa di interesse parigino per il teatro italiano, questa volta a Pirandello è stato aggiunto il futurista F. T. Marinetti. Il regista Nicolas Bataille (che era stato il primo a mettere in scena La cantante calva di Ione- sco) ha riesumato su un piccolo palcoscenico alcune brevi « pièces » di Marinetti che erano Ci sia consentito non per semplice nazionali smo, ma per dovere cronístico di fronte all’inte resse suscitato, di iniziar la cronaca parigina, col particolare compiacimento all’attenzione per il nostro Paese, da parte dell’Istituto Culturale Italiano, diretto con competenza e dinamismo dal prof. Edgardo Giorgi-Alberti. Parigi ha ce lebrato il centenario della nascita di Pirandello. Dopo il riuscito dibattito sul Teatro pirandel liano in Francia presieduto dall’accademico An dré Maurois, e di cui abbiamo già reso conto, a cura del neo-nato « Piccolo Teatro » di Parigi è stata organizzata una lettura in francese de I giganti, nella precisa traduzione di Thérèse Lemaresquier. La presenza di Marta Abba, in fine, ha degnamente coronato le celebrazioni pirandelliane a Parigi. L’illustre attrice, infatti, ha accettato di essere ancora, per una sera, l’in terprete del suo Pirandello nella città che fin state rappresentate nel 1918 a Parigi dal grup po « Art et Action », perché convinto — ci ha detto — che « il futurismo è ancora tutto da scoprire » e « ha fortemente influenzato tutto il “ Teatro dell’assurdo ” ». Al « Café Théâtre de l’Echiquier » — un locale un po’ funereo che si trova a due passi dal « Mayol », il « tempio parigino del nudo » ■— un altro re gista votatosi all’avanguardia di tutti i tempi, Roland Sabatier, ha messo in cartellone Le Roi Bombance, « tragedia satirica » scritta dal Marinetti direttamente in francese nel 1905 e rappresentata a Parigi quattro anni dopo, con temporaneamente alla pubblicazione sul quoti diano Figaro del primo manifesto futurista. L ’avanguardia è come il fiore di campo, sfiorisce presto. Mentiremmo se affermassimo che abbia mo trovato « di struggente interesse » queste riesumazioni del Teatro marinettiano. Tuttavia è doveroso attribuire al futurismo la paternità di certo « Teatro dell’assurdo », come afferma il Bataille. Preso l’avvio dalla rappresentazione, anche il nostro Istituto di Cultura ha organizzato un dibattito del « Movimento Futurista ». Dibat tito interessante, per un certo aspetto, quello della lunga « stagione francese » di F. T. Mari netti ed al quale hanno partecipato Enrico Fal- qui, il prof. Michel Decaudin dell’Università di Tolosa studioso di Apollinaire, il prof. René Jullian autore di un corso sulla pittura futuri sta presso l’Università di Parigi, il regista Batail le ed il giornalista Bruno Romani, che sta prepa rando un saggio Dal simbolismo al futurismo. ■ Festivals, celebrazioni: ma intanto la stagione teatrale parigina continua il suo corso. L’afflus so primaverile dei turisti e le grandi manife stazioni in programma nella capitale (come la « fiera del cielo » al Salone aeronautico del Bourget) hanno incitato impresari e registi a rinnovare ampiamente il cartellone degli spetta coli. Si « rilancia » il compianto Audiberti (di ventato un « autore sicuro », purtroppo, soltanto dopo la morte ) : Cavalier seul al « La Bruyère » con la cauzione dell’« audibertiano » della prima ora Georges Vitaly, e Coeur à cuir, nel nitido allestimento di una « troupe » provinciale, quella della « Comédie de Bourges » diretta da Gabriel Monnet. Attrici di talento, con una reputazione da difendere, non disdegnano di abbandonarsi al clima « allegro » della stagione recitando nel « boulevard »: Danièle Delorme, insieme a Ca roline Cellier ed Henri Virlojeux, è apparsa in Chaud et Froid, « pièce » di Fernand Cromme- lynck — l’autore del Cocu magnifique — che ha una trentina d’anni, e li dimostra (Théâtre de l’Œuvre). Marins, di Marcel Pagnol, è tor nata all’« affiche » al « Sarah Bernhardt »: è una commedia scritta quarant’anni fa, ma anco ra senza una ruga, anche per merito del giovane interprete Jean Sagols, che a ventitré anni non ha avuto paura di misurarsi con le ombre degli illustri attori i quali l’avevano preceduto nel ruo lo: Raimu, Fresnay, Charpin, Dullac. Altra ripre sa: ]ean de la Lune di Marcel Achard, una delle commedie più rappresentate nel mondo (Théâ tre du Palais Royal, con Dany Robin, Jean Le Polain e Pierre Mondy ). La « pièce » di Achard era stata rappresentata per la prima volta nel ’29 alla « Comédie des Champs Elysées », di cui era direttore Louis Jouvet. Achard, oggi Accademico di Francia, aveva allora ventinove anni e faceva la « bohème ». Dopo la « prima » Jouvet era di umor nero. « Un disastro — aveva detto all’autore allibito. — Domani smontiamo la baracca e riprendiamo Knock ». Ma il grande attore s’era sbagliato: l’indomani i critici aveva no accordato i loro favori a ]ean de la Lune, che fu replicata cinquecento sere di seguito. Un anno dopo dalla commedia era stato tratto un film — uno dei primi « parlati » del Cinema francese — con Michel Simon, René Lefèvre e Madeleine Renaud; poi Jean de la Lune comin ciò una brillantissima carriera in tutto il mondo, dove fu rappresentata diecimila volte. La ripresa al Théâtre du Palais Royal — dovuta a Jean Piat, il Cyrano della « Comédie Française » — si segnala per la bravura degli interpreti, e riesce a nascondere quel tono di commemorazione un po’ mesta che ispirano iniziative del genere, lega te ad un Teatro destinato ad invecchiare con la moda ed il costume di un’epoca. Impossibile rendere conto, tutto in una volta, delle novità di disparato valore ed interesse pre sentate in queste settimane. Si passa dalla « piè ce » avanguardistica Les bâtisseurs d’empire del compianto Boris Vian (Théâtre de l’Alliance française ) a Un caprice de Bonaparte del grande Stefan Zweig ( Théâtre des Arts ), da un adatta mento di Jean-Pierre Laruy dei Fratelli Kara mazov di Dostojevski (« Sarah Bernhardt ») alla riduzione teatrale di Far tarino di Tarascona di Alphonse Daudet dovuta a Maurice Picard, dal la promettente « opera prima » di un giovane autore senegalese, J. H. Sibney, intitolata La tribù ed impostata sul conflitto fra un negro occidentalizzato e la sua comunità attaccata ai valori tradizionali ( « Comédie de Paris » ) al dramma dell’irlandese Sean O’Casey La Coupe d’argent che racconta la storia patetica di un campione di calcio il quale torna dalla guerra paralizzato alle gambe (Théâtre de l’Est pa risien). La « Comédie Française » ha ripreso Le ]eu de VAmour et du Hasard di Marivaux (interpreti Micheline Boudet, Claude Winter e J.-P. Rous sillon) e l’ha fatto precedere da La Commère, l’atto unico dello stesso autore miracolosamen te ritrovato dalla bibliotecaria della « Maison de Molière », signora Chevalley. Registriamo l’avve nimento memori che « Il Dramma » aveva subi to pubblicato il breve testo, ohe Marivaux aveva scritto ispirandosi visibilmente al suo romanzo Le paysan parvenu. E siamo lieti di aggiungere che la « pièce » è degnamente servita da una regìa ben ritmata di M. Duchaussoy e da una brillante interpretazione di Louise Conte, Fran çoise Seigner e Alain Pralon. Proprio mentre il generale De Gaulle, nella sua ultima conferenza stampa, s’ingegnava a spiegare perché la Gran Bretagna non è matura per inte grarsi all’Europa continentale, sul grande palco- scenico del Teatro Nazionale Popolare di Palaz zo Chaillot si è avuta la prova che alla Francia resta ancora molto da fare per assimilare il genio di Shakespeare. Il Re Lear che Georges Wilson, direttore del T.N.P., ha realizzato ed interpretato come ultimo spettacolo della Sta gione non può essere proposto — ahinoi — come un modello nel genere. E ciò nonostante che la traduzione, tutta nuova, sia di un dram maturgo sperimentato come Maurice Clavel, no nostante che la messinscena non manchi di so brietà e di forza, nonostante che i ruoli siano stati assegnati ai migliori attori del T.N.P. E’ lo stile, è il modo di interpretare Shakespeare che si trova in discussione. Tragedia del potere e della vecchiaia che trae una barbarica grandio sità dal suo stesso disordine strutturale, Re Lear è, con La tempesta, una « pièce » anticartesiana per eccellenza. Pretendere di dare un ordine logico, rigoroso al simbolico errare attraverso la tempesta del vecchio re Lear e del duca di Gloucester, volere razionalizzare l’enfatico, ri dondante rimescolìo delle passioni che agitano i personaggi significa svuotare l’opera dei suoi elementi drammatici e del suo stesso vigore poetico. Purtroppo, tanto come regista che come interprete, Georges Wilson non ha saputo resi stere alla tentazione di trasformare il dramma in melodramma, esteriorizzando sistematicamen te gli effetti, imponendo allo spettacolo un anda mento troppo « logico » e « prevedibile », senza lampi di follìa, senza allucinazioni, senza cru deltà. Un Re Lear insomma ragionevole, anche troppo. Eccellente attore quando si tratti di disegnare personaggi picareschi, o satirici, o grotteschi come nell’Illusione comica di Corneil le, in Puntila di Brecht, in Romolo il Grande di EHirrenmatt, qui Wilson non va molto al di là di una composizione dignitosa, senza movi menti interni. Nel ruolo dell’infelice conte di Gloucester André Reybaz eccede in effetti gran guignoleschi ed il giovane José-Maria Flotats manca dell’esperienza necessaria per rendere tutta l’ambiguità di Edgar. Anche le pur valenti attrici che incarnano le figlie di re Lear (Eléo nore Hirt, Judith Magre e Monique Lejeune) calcano troppo sugli effetti. Soltanto Charles Denner (Edmond) e François Maistre (il Buf fone) sono « in situazione ». L’insieme della messinscena, spoglia e stilizzata, s’ispira visibil mente al memorabile King Lear che Peter Brook aveva portato a Parigi per il Teatro delle Na zioni, ma ne è una copia sbiadita. Da un po’ di tempo — duole rilevarlo — la qualità fa difetto a Palazzo Chaillot. E nei Teatri di « banlieue »? Dopo un’eclisse di anni, il pubblico parigino riscopre Eugenio O’Neill •—- il grande drammaturgo americano premio Nobel nel 1936, deceduto nel ’53 — proprio grazie ad un Teatro di periferia. Il Théâtre de la Commune di Aubervilliers ha infatti deciso di rappresentare una « pièce » fra le più significative dell’autore de II lutto si addice ad Elettra\ Le marchand de giace est passé (« Viene l’uomo del ghiaccio ») conosciu ta in Italia certo quanto in America, per le rappresentazioni che ne sono state date, ultima recentissima, quella del Teatro Stabile di Geno va, con Buazzelli. D’altronde « Il Dramma » ha pubblicato, dal 1933 al 1957, il teatro di O’Neill, compreso Viene l’uomo del ghiaccio che è nel fascicolo del primo gennaio 1949. B Degno coronamento di una Stagione varia, intensa, interessante, ecco il Festival del « Ma rais ». Il « Marais » — per chi non lo sapesse — è un quartiere storico di Parigi: la « place des Vosges » dove, sotto le finestre di Richelieu, ave vano incrociato i ferri i prodi moschettieri; un dedalo di strade nelle quali si respira l’aria rarefatta delle città morte (eppure le « Halles », il « ventre di Parigi » zoliano, sono appena a Cronaca italiana ultim a POSTE ITALIANE La nostra Rivista, come si ricor derà, per due anni consecutivi, ha messo in rilievo la giusta causa che per il centenario dalla nascita di Luigi Pirandello — 28 giu gno 1967 — fosse emesso un fran cobollo a Suo onore e ricordo. L’on. Ministro per le Poste e le telecomunicazioni, Giovanni Spa- gnolli, riconosciuta valida la no stra richiesta ha fatto sua la pro posta, ed il francobollo è stato emesso il 28 giugno scorso. Siamo molto lieti ed esprimiamo la no stra gratitudine di teatranti e cit tadini italiani. Il francobollo è stato stampato in quattricromia per venti milioni di esemplari, su carta bianca, liscia, non filigranata. Boz zettisti: Cuzzani e Consolazione. E’ stato anche pubblicato il bollettino bilingue illustrativo, il cui testo è dell’on. Crescenzio Massa, sottose gretario di Stato alle PP. e TC. Il francobollo è valido fino al 31 dicembre 1968. L’inedito di Marivaux La Commère, mano scritto scoperto dopo due secoli dalla si gnora Sylvie Cheval- ley, bibliotecaria del la « Comédie Françai se » (e che noi abbia mo pubblicato tradot to nel fascicolo del marzo 1966) è stato rappresentato alla «Comédie Française». L’atto unico, datato 1741, ha avuto inter preti Alain Pralon, Louise Conte e Fran çoise Seigner, con la regìa di M. Duchaus- soy. La piccola e gra ziosa opera è stata accolta con tutti gli onori del successo al la Maison de Molière. Nella foto in alto i tre interpreti citati. Mrozek al Teatro Lutèce. Si tratta di una versione polacca, più scopertamente satirica di Les Parents terribles di Cocteau. E’ piaciuto alla critica; anche quella tradizionale. Al T.N.P. diretto da Georges Wilson. Le Roi Lear di Shakespeare, con Wilson stesso, interprete e regista. Ma non è andata bene, poiché Wilson ne ha fatto un polpettone melodrammatico esterio rizzando sistematicamente gli effetti, ed impo nendo allo spettacolo un andamento troppo logico e prevedibile. Nella foto a sinistra, Georges Wilson è con Monique Lejeune; qui sopra le attrici Judith Magre e Eléonore Hirt, nella stessa opera. Nella foto grande, sotto. l’India al Teatro delle Nazioni, con una serie di rappresentazioni di Kathakali, insieme di canti, danze, pantomime, il tutto di origine religiosa. VIENNA - Nella foto in alto Aglaja Schmidt e Kunt Meisel, nella commedia Napoleon greift ein (Napoleone attacca) di Walter Hasenclever al Teatro Accademia. Nella foto sotto, Alessander Troian. (parte di Lucifero) nella Tragedia dell’uomo del grande poeta Jmre Madach, rappresentata al Festival di Vienna. Il «Fe stival » è stato dedicato all’Ungheria ed ha per titolo 1 vicini del Danubio. Ecco una scena di come è stata messa in scena a Vienna Tragedia dell’uomo di Imre Madach; Adamo (Seba stian Fischer); Èva (Sonja Sutter); Lucifero (Alessander Trojan). Regìa di Ulrich Erfurth. A conclusione della Stagione del Teatro Mondiale, alP« Aldwych » di Londra, il Piccolo Teatro di Milano ha rappresentato Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, dando all’Italia il prima to fra tutte le altre nazioni. La serata, oltre che artistica, è diventata anche altamente mondana per la presenza e l’entusiasmo disinvoltamente di mostrato dalla principessa Margaret e suo marito. Nella foto sopra, scena con Ferruccio Soleri, Ma rio Valdemarin, Gianfranco Mauri, Nico Pepe, Maria Grazia Antonini, Graziella Galvani. Nelle due piccole foto accanto, prima Valdemarin e Soleri; poi, Franco Graziosi e Soleri. qualche centinaio di metri ) ; un alternarsi di vec chie case cadenti dove tengono insegna sarti o vinai e di palazzi inscritti nel « Gotha » dei mo numenti storici; « hôtels particuliers » dove sono vissuti re, principi della Chiesa, avventu rieri e favorite; scorci di giardini con tigli in fiore e colonnati bianchi di luna dov’è facile immaginare i fantasmi di Caterina de’ Medici, Diana di Francia e « Madame » de Sévigné. Il « Marais » ebbe i suoi momenti di massimo splendore fra il XVI ed il X V II secolo; poi decadde, saccheggiato dalle rivoluzioni, detur pato dal cattivo gusto della borghesia dell’Otto cento, segnato dal tempo che faceva cadere in pezzi i bassorilievi, copriva di erbe selvagge i giardini, fendeva i soffitti affrescati, anneriva di « smog » le facciate disegnate dal Mansart, dal Delamair, dal Boffrand. Ma oggi il quartiere, a poco a poco, sta ritro vando una sua nuova vita ed i segni del rinno vamento incominciano a vedersi. Per iniziativa degli « amici » del « Marais » — che compren de nomi fra i più prestigiosi della capitale — è nato così il Festival del « Marais »: sul prin cipio quasi una sfida alla smemoratezza dei parigini ed alle intemperanze atmosferiche (gli spettacoli si tengono all’aperto, nei cortili degli storici hôtels illuminati a festa); oggi la più alta manifestazione, sui piani della qualità e dell’eleganza, che Parigi possa offrire, parago nabile alle prestigiose rassegne di Salisburgo, di Venezia, di Avignone. L’anno scorso il Festival aveva adunato settan- tacinquemila spettatori. Quest’anno, per tutto giugno e fino alla vigilia del 14 luglio, quando su Parigi esploderanno i fuochi d’artificio della allegria popolare, il Festival mette a disposi zione nei cortili e nei giardini degli hôtels di Rohan, di Sully e d’Aumont, o sotto le navate delle chiese di Saint-Merri, Sainte-Marie e Saint- Gervais centoventimila posti e ottantatré mani festazioni diverse: prosa, opere liriche, balletti, concerti, varietà. I cartelloni delle varie sezioni preannunciano sul « Marais » una pioggia di stelle di prima grandezza. Per il Teatro Jacques Mauclair, spe cialista di Ionesco, è stato chiamato a mettere in scena Joueur sans gage, mentre a Jean Vilar è stata affidata la regìa e, accanto a Maria Casa- rès, l’interpretazione del Trionfo dell’amore di Marivaux, autore d’obbligo nella prescelta cor nice dell’Hôtel de Rohan. Sullo stesso palco- scenico all’aperto, l ’Antigone di Sofocle nel l’adattamento di Bertolt Brecht, la regìa di Jean Tasso e l’interpretazione di Françoise Brion. All’Hotel d’Aumont, creazione di Eupalinos ou l’architecte e ripresa di L’Ame et la danse di Paul Valéry; in alternanza, L’Impromptu du Marais, « poemi da recitare e cantare » presen tati da Simone Valére e Jean Desailly. Non manca la danza, naturalmente, l’opera, i concerti, e perfino una « serata di musiche d’amore a lume di candele ». Ma in effetti, tutto il « Ma rais » diventa un immenso palcoscenico. Ugo Ronfani Parigi, giugno 1967 L O N D R A ■ Rolf Hochhuth, il trentaseienne autore di « Il Vicario » sceglie bene i soggetti per i suoi dram mi. Ecco pronto il secondo, con Sir Winston Churchill protagonista, dopo le accuse a Pio XII. Laurence Olivier e Kenneth Tynan — rispettiva mente direttore artistico e consulente letterario del Teatro Nazionale di Londra — avevano accettato il dramma e si proponevano di rappresentarlo. Il consiglio d’amministrazione del Teatro Nazionale ha posto il veto, ma solo per il teatro sovven zionato, precisando che un teatro di stato ha dei doveri e dei miti da difendere; che il dramma « I soldati » — questo il titolo — può essere rap presentato in uno dei cosiddetti club privati dove di solito si sbrigano queste faccende. « I soldati » si rappresenterà al Festival di Berlino nel pros simo ottobre. Potrebbe anche comparire su una ribalta italiana, come « Macbird », pensiamo, libe ramente, ma non in un teatro sovvenzionato. Per ché se fa comodo aver la vita tranquilla e stare sul sicuro con i soldi di tutti i contribuenti, non bisogna poi rappresentare opere indirizzate al lin ciaggio di personaggi (Pio XII - « Il Vicario »; Ken nedy - « Macbird »; Churchill - « I soldati ») che possono dispiacere a una parte del pubblico. Per questo, come l’Inghilterra ha i circoli privati, noi abbiamo le compagnie di giro. ROLF HOCHHVTH, TORNA ALLA CARICA TEATRALE CON UN ALTRO SCANDALO I SOLDATI: CON QUESTA NUOVA COMMEDIA, TENTA IL LINCIAGGIO DI SIR WINSTON CHURCHILL ★ Tutta questa grossissima polemica sulla de cisione dei Governatori del Teatro Nazionale di mettere il veto alla rappresentazione del nuovo lavoro di Rolf Hochhuth, I Soldati — a dispetto del direttore artistico Sir Laurence Olivier e del suo Consigliere letterario Ken neth Tynan — mostra due cose lampanti: che Sir Laurence Olivier, pur senz’avvedersene, sta diventando un grosso pallone, e che il tedesco signor Hochhuth è un pericolo pubblico. Passi per Olivier, il quale rimane un grande attore, anche se il suo Otello non aveva niente a ve dere con l’Otello del vecchio Shakespeare, che era un moro — diamine, non era intitolato chiaramente Otello, il Moro di Venezia? — e non già un negro della Giamaica per comodo opportunismo politico. Passi dunque per Sir Laurence Olivier, che può pur sempre simulare di farsi venire il fegato grosso per « l’Arte pura ». Ma il signor Rolf Hochhuth! L’Europa occi dentale, la nostra Europa, che vuol dire la nostra civiltà, ne aveva avuto più che abbastanza del suo libello contro Pio X II, libello che se aveva estasiato gli anticattolici e i sinistrorsi inglesi, aveva per contro provocato pubbliche rivolte a Parigi e in Svizzera, per non menzio nare il disgusto sollevato in Italia: ed ora, « per amore dell’arte » — ma quale arte? — dove vamo ingoiarci quest’altro libello contro Sir Winston Churchill, accusato nientedimeno che di avere, durante la guerra, ordinata la morte del Generale polacco Sikorski, che era un suo amico. Rolf Hochhuth ha fatto a Basilea delle dichia razioni a un giornalista inglese, delle dichiara zioni che fanno risorgere nella mente di molta gente la domanda che già era sorta al tempo del lavoro contro Pio X II: è questo signor Hochhuth soltanto un fanatico, ossessionato da oscure fissazioni moraleggianti, oppure vi è dietro di lui in questi suoi libelli la mano di qualche forza superiore che mira a distrug gere le più alte figure della nostra civiltà europea? L’Hochhuth — che ha trentasei anni ed il tipico aspetto deH’intellettualoide anarchico — ha detto che I Soldati è « un lavoro contro l ’immoralità della guerra, in particolare contro il bombardamento delle masse civili nelle città indifese, e imo dei capi che ordinarono quei bombardamenti fu Winston Churchill ». L’Hochhuth ha ammesso che Churchill dava quegli ordini per vincere la guerra quanto più presto possibile: « Ma io deploro la norma che ispirava quegli ordini, e la tesi del mio lavoro è che un uomo umano quale Churchill non esitò a far distruggere una città come Am burgo ». All’obiezione che le terribili cose com piute dai nazisti assolvono qualunque cosa Churchill aveva ordinato sotto la pressione delle necessità di guerra, l’Hochhuth ha rispo sto che « nel primo atto del suo lavoro sono menzionate le cose commesse dai nazisti in Po lonia, a Rotterdam e nei campi di concentra mento ». Perché allora prendere come bersaglio del suo libello Churchill anziché Hitler? « Perché Churchill era un grand’uomo con una mente sublime, responsabile delle sue deci sioni, mentre Hitler era un uomo dalla mente malata: in Hitler non v’era conflitto mentale; Hitler non mi sarebbe servito come grande figura per illustrare le mie idee ». Quanto al fatto specifico dell’accusa a Chur chill di avere ordinato l’assassinio del leader polacco Gen. Sikorski, accusa provata falsa dal l’inchiesta nella tragedia aerea al largo di Gi bilterra in cui perì il Generale Sikorski, l’Hoch huth ha evitato una risposta chiara, dicendo che « l’accusa di assassinio è discussa ma non affermata »; e premuto dalla domanda se avesse delle valide prove per sostenere una questione che implica un’accusa, ha risposto vagamente che egli aveva lavorato per tre anni a questo suo lavoro, aveva letto tutte le lettere inter corse fra Stalin e Churchill e Roosevelt ed Attlee e Truman, e il diario del Maresciallo Alanbrooke ed i documenti inglesi, polacchi, americani e russi, « e l’idea di un premeditato assassinio del Generale Sikorski si era venuta formando nella mia mente a poco a poco », ed egli « è convinto della reità di Churchill ». Un’affermazione da lasciare esterrefatti. Non meraviglia che l’annunzio che i Governatori del Teatro Nazionale avevano vietata la rappre sentazione del lavoro dell’Hochhuth sia stato accolto con consenso unanime dalla massa del l’opinione pubblica. La situazione è stata cristallizzata dal Presi dente dei Governatori del Teatro Nazionale: « Il nostro comitato rappresenta in modo equo l’opinione del pubblico, perché c’è fra di noi un grande attore (l’Olivier), un grande cri tico drammatico (il Tynan), un grande im presario e due esponenti del socialismo. Sul lavoro dell’Hochhuth noi non abbiamo appli cato la censura: ma il lavoro è un grottesco libello, un’assurda calunnia contro un uomo che fu un grande uomo di Stato. Inoltre, trat tandosi del Teatro Nazionale, noi dobbiamo sempre tenere presente che vi sono molti fore stieri i quali sono convinti, per esempio, che il « Times » sia un giornale compilato dal Go verno inglese; se noi avessimo autorizzato la rappresentazione di questo lavoro dell’Hochhuth si sarebbero levate in Europa voci di questo genere: « Ah, guarda che cosa accadeva in In ghilterra durante la guerra! ». Quindi, se si vuole rappresentare a qualunque costo il lavoro dell’Hochhuth, lo si faccia in uno dei tanti teatri-club che esistono a Londra, ma non nel Teatro Nazionale che vive del sussidio passato dal Governo inglese. Tutti i documenti riguar danti la morte del Generale Sikorski sono de positati in una Banca svizzera, e saranno resi pubblici soltanto fra cinquant’anni; fino ad allora noi non possiamo permettere che, sia pure in nome della libertà di parola, venga messo sulle scene del Teatro Nazionale un li bello contro chicchessia ». C’è da domandarsi se vi sia altro Paese al mondo dove il comitato letterario di un Teatro Nazionale si sognerebbe di mettere in scena un lavoro che libella l’uomo che, nella stima e nell’affetto di tutto il popolo, fu il salvatore della Nazione. No, non c’è un altro Paese, e di certo non del mondo sovietico; e la polemica suscitata dal comitato artistico del Teatro Nazionale mette in luce le differenze basilari che in Inghilterra esistono tra la cultura sinistroide e il sen timento del pubblico. Infelice invero è il Paese in cui i consiglieri artistici sono sordi ai sen timenti nazionali di gloria, perché una nazione si nutre dei suoi miti eroici, e non può soprav vivere a lungo alla loro distruzione. Londra, giugno 1967 C. M. Pranzerò L ’A rle c c h in o d e l P icco lo T e a tro d i M ila n o a l T e a tro A ld w y c h d i L o n d ra ★ A conclusione o quasi della Stagione del Teatro Mondiale, lTtalia ha goduto ancora una volta di un grande meritatissimo successo per merito del Piccolo Teatro di Milano, che ha presentato il suo spettacolo più famoso, nel senso che tutto il mondo oramai conosce l’Ar lecchino servitore di due padroni di Goldoni. La serata, oltre al suo grande merito artistico, ha raggiunto quello che si dice il tono alto della mondanità per la graziosa presenza, quan to mai interessata, della principessa Margaret e suo marito, della signora Jennie Lee, ministro delle arti, e dell’ambasciatore d’Italia Gastone Guidotti, con la moglie. Il pubblico ha mostrato di gradire la rappresentazione tributando agli interpreti nutriti e calorosi applausi. Positivi e in molti casi lusinghieri i giudizi dei critici. « E’ stata una serata meravigliosa », ha detto la principessa Margaret al direttore del P. T., Paolo Grassi. Passando in rassegna i resoconti pubblicati dai giornali si constata che l’ammirazione dei critici è stata determinata soprattutto dallo stupendo e quasi perfetto gioco d’insieme che gli inter preti hanno eseguito in palcoscenico sotto la regìa di Giorgio Strehler. Gli esperti che hanno potuto mettere a confronto una rappresenta zione di Arlecchino eseguita sette anni or sono al Festival di Edimburgo dalla stessa compa gnia e lo spettacolo offerto ieri sera hanno su bito notato che la commedia ha ora raggiunto il massimo della perfezione stilistica. « Questa settimana — scrive il critico del “ Guardian ” — gli ospiti della Stagione del Teatro Mondiale al Teatro Aldwych sono i bril lanti “ clowns ” del Piccolo Teatro di Milano, che ci hanno dato una rappresentazione stu pendamente vivace e divertente di Arlecchino ». L’esperto ricorda che è questo lo spettacolo del Piccolo Teatro che ebbe « un così fertile effetto sugli allestimenti teatrali di tutta l’Europa ». Riandando all’edizione presentata a Edimburgo, egli ricorda che allora la compagnia aveva un « meraviglioso » protagonista in Marcello Mo retti; ma aggiunge subito: “ Sono particolar mente felice di aver scoperto ieri sera all’** Ald wych ” che Moretti aveva trovato un degno successore in Ferruccio Soleri ». Il « Financial Times », che allinea solitamente critici di difficile contentatura, loda la sceno grafia, le « invenzioni » di Strehler, il « tre mendo gusto di Ferruccio Soleri, che ha fatto suoi i virtuosismi di un “ clown ”, di un comico e di un acrobata in una spumeggiante inter pretazione ». La rappresentazione è stata quasi « senza difetti » e — conclude l’esperto — in vece di lodare gli interpreti ad uno ad uno « dò il mio tributo all’intera compagnia, dai protagonisti alle comparse ». Il « Times » scrive che questo allestimento di Arlecchino è « un trionfo d’ingenuità» e il « Daily Telegraph » sottolinea « la esemplare finezza dei lavoro di insieme », pur avvertendo che l’eccesso dei lazzi e della mimica potrebbe nuocere alla fin fine alla « grazia » del testo goldoniano. Qualche altro critico osserva che la vivacità quasi febbricitante della rappresen tazione (le piroette, i salti, i gesti, il battere dei piedi, la eccessiva, costante, frenetica mo bilità degli interpreti) potrebbe generare stan chezza nello spettatore di « palato meno me diterraneo ». In realtà, però, il pubblico che ha gremito l’« Aldwych » ha dato l’impressione d’essersi tremendamente divertito. La recita è avvenuta con l’ausilio della traduzione simul tanea. Arlecchino, servitore di due padroni sarà rap presentato tra qualche mese al Festival di Chi- chester, protagonista Danny Kaye. « Ora che abbiamo visto l’interpretazione del Piccolo Tea tro — scrive il critico dell’ “ Evening News ”, simulando di scrivere una letterina al famoso comico americano — il cielo ti salvi, Danny. Ti sarà molto, molto difficile sfidare Ferruccio Soleri nella parte di Arlecchino... ». Dopo la rappresentazione, Paolo Grassi, gli at tori e le attrici del Piccolo Teatro e personalità del mondo della cultura e dell’arte sono stati invitati a un ricevimento all’Ambasciata d’Italia. Al ricevimento sono intervenuti anche la prin cipessa Margaret e il marito. La principessa si è intrattenuta a lungo con Paolo Grassi e con gli interpreti, conversando affabilmente in francese. « La sua semplicità e affabilità — ha detto oggi Grassi — ha conquistato davvero tutti. Margaret avrà ripetuto almeno una diecina di volte: “ E’ stata una serata meravigliosa, il vostro spettacolo mi è piaciuto molto ". Ed è rimasta alquanto sorpresa quando le abbiamo detto che Strehler ha allestito 12 lavori di Shakespeare, tra cui i grandi drammi storici ». R osencrantz e G u ild e n ste rn sono m o rti ■ Chiamati a Corte per spiare emozioni e pen sieri del principe danese, Rosencrantz e Guilden stern vengono coinvolti nel complotto reale per uccidere Amleto e ne rimangono vittime incon sapevoli senza che il Bardo inglese conferisca loro motivazioni e caratteri ben definiti: sono perso naggi secondari, intercambiabili — le battute del primo possono essere pronunziate dal secondo e viceversa —, funzionali solo come piccoli ingra naggi di una trama macchinosa o come bersagli dell’amara ironia del principe. In Rosencrantz e Guildenstern sono morti del giovane Tom Stoppard, presentato in un’ecce zionale produzione e messa in scena dal « Na tional Theatre », essi diventano gli angosciati e assurdi protagonisti d’una vicenda esistenziale in chiave pirandelliana o becketiana: la Corte di Elsinore è vista da un’anticamera dove i due gentiluomini logorano una dimensione eterna del tempo con dei giochi di parole e di monete: nulla sanno di se stessi tranne quanto riescono ad afferrare del dialogo serrato dei veri prota gonisti, hanno un passato che non conoscono e un futuro di cui riescono appena ad intuire le tragiche incognite celate nelle ultime pagine d’una sceneggiatura; sono nati grazie a un’istru zione di scena, moriranno perché Shakespeare li ha cancellati con uno spietato colpo di penna dalle scene successive. E’ probabile che il ventinovenne Stoppard ab bia tratto lo spunto di questo dramma dal Canto d’amore di J. Alfred Prufrock di T. E. Eliot (« No! I am not Prince Hamlet, nor was meant to be; — am an attendant Lord... »), ma è certo che nello stesso testo delVAmleto egli abbia trovato battute e situazioni tali da giustificare l’impostazione del suo dramma. I due personaggi shakespeariani sono incompiuti ma sono anche velati da una misteriosa mesti zia: non sembrano convinti di quanto dicono né comprendono quanto viene detto loro o il perché debbano essere sbeffeggiati dal principe danese. « Siamo come gli innocenti bambini di questa terra » dice Rosencrantz; Guildenstern parla di « sogni che sono in verità ambizione, ché la sostanza vera dell’ambizioso è solamente l’ombra di un sogno » e c’è risentimento e do lore nella sua ammissione di « essere stato chia mato » ad interpretare un ruolo che non com prende bene (atto II, scena II). Il tema dell’in comprensione e del disagio ritorna nella sce na I I dell’atto I I I quando Guildenstern si per mette uno scatto d’ira alle risposte evasive e iro niche di Amleto: « Io non vi capisco, o mio signore » continua a replicare Rosencrantz nel l’atto IV durante la sua ultima apparizione in scena. Nel dramma di Tom Stoppard re, regine, cospi ratori e pirati appaiono e scompaiono davanti agli occhi attoniti dei due personaggi, sono i soggetti di una trama misteriosa come la vita mentre Rosencrantz e Guildenstern sentono la loro impotenza di oggetti; ogni loro ribellione appare futile, ogni aspirazione all’esercizio di un libero arbitrio vana: meditano ad esempio sulla possibilità di gettarsi in mare durante il viaggio verso l’Inghilterra alterando cosi i piani sinistri di cui sembra debbano essere gli ese cutori; ma poi riflettono sconsolatamente sul fatto che anche questa loro iniziativa possa far parte di una programmazione generale, che sia stata cioè prevista da chi ha dato loro un’esi stenza cosi parziale ed incompiuta. La parabola morale diviene così trasparente: la corte di El sinore, il palcoscenico cioè, è il mondo, siamo tutti dei Rosencrantz e dei Guildenstern chia mati a recitare parti incomprensibili ed a sof frire di questa incomprensione o inadeguatezza. La genialità di questo giovane autore inglese è di avere situato personaggi così contempo ranei nella cornice robusta e baroccheggiante di un dramma elisabettiano di cui ha svilup pato o trasformato con moderno sentire temi minori fino a farli diventare ossessivi e spa ventosamente realistici. Gli « attori » ossequiosi ed ubbidienti dell ’Amleto diventano una banda di sicofanti rotti alle esperienze più degradanti pur di soddisfare i gusti decadenti dei loro pa droni; il principe danese è un « beatnik » scon volto da eruzioni poetiche come un Bob Dylan; il re e la regina sono delle forze naturali, impe riose ed ostili come terremoti o uragani. Abbiamo già menzionato l’ispirazione piran delliana o quella becketiana, ma si potrebbero aggiungere i nomi di Cocteau {La macchina in fernale), Sartre {Le mosche) e Giraudoux. Sono semplici termini di riferimento o di guida nel linguaggio drammatico contemporaneo, ma non attribuiscono a quest’opera singolarmente uni taria e stilisticamente originale alcun carattere derivativo. La superba regìa di Derek Goldby, le eccellenti interpretazioni di John Stride (Ro- sencrantz) e Edward Petherbridge (Guilden- stern), le immaginose scenografie di Dessmond Heeley e la musica di Marc Williamson hanno contribuito alla eccezionalità di uno spettacolo che arricchisce di un’altra gemma il repertorio del « National Theatre ». 1. I R I D I Il peso e l’importanza, a Broadway, delle due for tissime associazioni teatrali « Drama Critics Circle » e « Actors Equity Association ». La prima, quella dei critici, impone, dispone e premia; la seconda, non vuole attori stranieri. Senza entrare nel merito, e cioè se la critica drammatica sia, qui a Broadway, una faccenda molto seria, è certo che dal giudizio più o meno positivo dei critici dipende se uno spettacolo « tiene » o si deve togliere dopo poche setti mane. Non che il pubblico sia succube, tanto è vero che da qualche tempo mostra di voler deci dere direttamente (in effetti c’è poco da fare, perché una massa enorme di gente chiede di essere orientata), ma è la critica a tenere le redini, stabilendo il buono o il cattivo tempo dell’organizzazione teatrale. E poiché talvolta si tratta (soprattutto per i musical) di som me favolose e comunque sempre di grosso im pegno, non c’è chi non veda quanto conti alla resa dei conti, e scusate il bisticcio, il giudizio dei critici. I quali sono tutti riuniti in una Associazione che nell’assegnare i premi si attie ne allo stesso concetto di valutazione usato per sollecitare o allontanare il pubblico. Il mese scorso ha, infatti, scelto come i migliori, due lavori della Stagione Teatrale 1966-67: The Homecoming dell’inglese Elarold Pinter e il mu sical Cabaret, degli americani John Kander e Fred Ebb. Questi due lavori erano già stati pre miati col « Tony » — come abbiamo riferito in una cronaca precedente — che per Broadway è l’equivalente dell’« Oscar » a Hollywood, con molto meno rumore, naturalmente. Ma il cinema ha i suoi interessi spettacolari-pubblicitari da difendere: si tratta di una faccenda a ripercus sione mondiale. The Homecoming (Ritorno a casa ) fu presentato a Londra dalla « Royal Shakespeare Company » che lo portò a Broad way lo scorso gennaio. Pareri discordi della critica (due quotidiani contrari; altri due tie pidi); ma di ciò non si è tenuto nessun conto. Neppure Cabaret ebbe accoglienze unanimi della critica. Come avrete già notato, nulla di eccezio nale in queste opere premiate, soprattutto se si vuole tener conto, e lo si deve, di un fatto abba stanza significativo, che ora è sotto i vostri occhi, in Italia. Un equilibrio delicato di Edward Albee, che ha ottenuto recentemente il premio Pulitzer come il miglior lavoro drammatico del l’anno, per l’Associazione dei critici drammatici (« The New York Drama Critics Circle ») vale meno di Ritorno a casa ed è stato classificato secondo. Questo comportamento « polemico » —• è evidente — dà ragione ad Albee, che accu sa i critici di tenere lontani gli spettatori dai teatri che rappresentano i suoi lavori, definiti per lo più troppo allegorici o addirittura incom prensibili. Sinceramente, incomprensibili, non crediamo. Da una associazione all’altra: dalla « Drama Critics Circle » alla « Actors Equity Associa tion ». Quest’ultima riunisce tutti coloro che hanno a che fare con il teatro, ed ha votato recentemente una risoluzione che proibisce l’im piego a Broadway ed al Lincoln Center, di attori stranieri senza il consenso dell’associazio ne stessa. E’ avvenuto questo: per la rappre sentazione di Vita di Galileo di Brecht al Lincoln Center, è stato chiamato l’attore inglese Antho ny Quayle, elogiato quasi all’unanimità nelle recensioni. C’erano già state manifestazioni con cartelli di protesta davanti al teatro dove si dà Black comedy, che impiega più di un interprete proveniente dall’Inghilterra. Si è manifestato anche davanti al Viviam Beaumont Theater del Lincoln Center, sede di questa compagnia sta bile, per aver anch’essa invitato un attore stra niero. Non si tratta di nazionalismo ad oltranza, ma risentimento degli attori a spasso, come diciamo noi in Italia. E non si tratta di generici, naturalmente, ma di attori la cui statura arti stica può essere paragonata, da noi, a un Cervi o Stoppa, De Lullo, Valli, Albertazzi, ecc. Se c’è risentimento è alquanto giustificato. « L’Actors Equity Association » dichiara, ed è vero, che almeno cinque o sei interpreti americani che in questo momento non lavorano per mancanza di scrittura, avrebbero potuto interpretare il Gali leo come Antony Quayle. A parte la valutazione critica ( che non spetta all’Associazione ) sul pia no artistico, umano e sindacale, non hanno torto. In quanto al Galileo, ad eccezione di qualche dissidente, in complesso la critica lo ha accolto favorevolmente. E’ l’ultimo lavoro in cartellone dello Stabile del Lincoln Center per questa Stagione. Si è finito col dire che, in pratica, questa seconda stagione sta per chiudersi in bellezza con ovvio riferimento polemico alla vita contra stata e difficile di questa compagnia stabile che nelle intenzioni doveva essere la prima d’Ameri ca, e stenta a trovare la via giusta. Di un autore, qui famosissimo non per le sue molte esperienze teatrali (ha scritto un musical ed un atto unico ), ma perché i suoi « apologhi » sempre a fondo amaro sono pubblicati a catena da ottanta giornali americani, è stata rappresen tata una commedia accolta bene dal pubblico (nel caso la critica non conta, dato il nome eccezionale, come s’è detto ) : Piccoli assassini di Jules Pfeiffer. Vediamo sulla scena una famiglia nuovaiorchese, con figlia trentenne promessa ad un apatico giovanotto. Padre malaticcio, madre insofferente per nascoste velleità, contenute im pazienze della figlia. Fuori, in città, segni quasi inavvertiti di disordini, con l’eco di qualche sparo lontano. Il fidanzato fu un fotografo di qualche successo; poi i clienti lo abbandona rono; ora è quasi uno spostato. Si sposano. Le nozze vengono celebrate da uno squinternato profeta del Village, che si impegna ad ultimare la cerimonia senza pronunciare neppure una volta la parola « Dio ». E non basta ancora, perché approfitta della situazione, diremo in sue mani, quale officiante, per smascherare con brutalità alcune ipocrisie ricorrenti tanto sociali come sessuali, sul matrimonio. I presenti ne sono sgomenti. Questo strano matrimonio finisce male del tutto, dato che al momento del tradizionale bacio finale, una delle fucilate lontane, cui ab biamo fatto cenno, diventa tanto vicina da ucci dere la ragazza. Da questo momento la comme dia ha uno scarto improvviso di tono: l’atmo sfera diventa incubo, tutti si barricano in casa protetti da pesanti tende nere alle finestre, la città si riempie di spari e lo sport preferito diventa quello di tirare alla cieca sui passanti. Con una sequenza di scene volutamente tradi zionali e con la precisa intenzione di fare del banale e del vecchiotto, Pfeiffer mostra alla fine la sua nota abilità nel confezionare apologhi, rag giungendo il pubblico con le agghiaccianti intui zioni del terrore che dilaga nella città. Rivolu zione. Tema quanto mai attuale. Eccellente alle stimento con la regìa di George Shermann. I due interpreti principali — gli sposi — sono Elliott Gould e Barbara Cook. Gianfranco Mcnnini New York, giugno 1967 v i m m II Festival di Vienna ha quest’anno per motto « I vicini del Danubio » e quindi tutto è ungherese, ad incominciare dal grande poeta Imre Madach del quale è stata rappresentata la sua famosa « Trage dia dell’Uomo ». ■ Al Teatro Accademia una strana commedia « Na poleone attacca », con la quale l’autore — Walter Hasenclever — immagina un risveglio (inutile, natu ralmente) del grande corso, dal museo delle cere dove si trova, accanto a Landru. Il divertente di questa storia è che Napoleone dice a Landru di andar via con lui, ed il vedovo che bruciava le mogli, risponde: « no, no, sto troppo bene qui ». ■ I teatrini sperimentali (Teatri « keller »: canti ne) non hanno fortuna neppure qui: i tentativi sono sempre sbagliati e non concorrono a formare quel teatro di ricerca che si invoca e si attende. Il Festival di Vienna si è appena inaugurato, e le sue manifestazioni quest’anno sono unite dal motto « I vicini del Danubio ». Come sempre programma ricchissimo di esposizioni, concerti, opere, balletti, ed anche teatro, che per la dif ficoltà della lingua è sempre in secondo piano. Comunque il « Theater von der Tor » di Praga presenterà delle scene mimiche per attori; gli jugoslavi presenteranno una azione mimata mu- sicale da II nuovo inquilino di Ionesco, e Samy Molcho, metterà in scena I Portraits, che si annunciano interessanti: sulla scena visti con umanità ed ironia vi saranno personaggi noti, tra cui Brigitte Bardot, Picasso, ecc. Spettacolo inaugurale in omaggio al grande poeta ungherese Imre Madach, chiamato « Il Faust ungherese ». L’omaggio è consistito nella grandiosità della messinscena, nella imponenza del numero degli attori (quattro pagine di pro gramma ), nella cura cui si è voluto rendere com prensibile e presente il pensiero di Imre Madach, che ha scritto La tragedia dell’uomo. Questa tra gedia del grande scrittore ungherese, scritta nel 1859, porta in sé, malgrado la tragica visione universale del destino umano, molto di autobio grafico. La rigida educazione dell’infanzia, la si tuazione politica della patria, la filosofia di Schopenhauer, l’amarezza per le infedeltà della moglie, si ritrovano nei tredici quadri che ci narrano l’ansia fatale che incombe sull’uomo dalla nascita in poi. Opera pessimista, amara, ma non assurda. Difficile dare un corpo ad un pensiero filosofico, ma la regìa di Ulrich Erfuhr, ha tentato di modernizzare il concetto del poeta; forse è andato anche troppo in là. La stilizza zione gli ha preso la mano, ci si trova davanti ad una serie di quadri dal motivo statico, belli ed armoniosi a vedersi, ma che non ci riportano il senso di disperata umanità che il poeta ha posto nella tragedia cento anni fa. Moderni i costumi e moderna la musica di Janssens, ma il pubblico viennese, conservatore per principio, è rimasto un po’ scosso di fronte ad Èva che eleva canti al Signore, a ritmo di jazz. Anche il quadro degli austronauti è sembrato lontano dal pensiero di Madach. Pure riconoscendo nella concezione drammatica del poeta molto di pro fetico (forse anche per il fatto che le situazioni nella storia si ripetono) non è da pensare che il grande poeta, che scrisse questa tragedia a trentasette anni, volesse immaginare il mondo delle stelle come il mondo degli austronauti. La tradizione e l’adattamento della tragedia so- sono stati curati da Rudolf Henz, il quale, si deve ammettere, ha riconosciuto di essersi pre sa qualche libertà, perché nel programma scrive: « L’opera tratta la rappresentazione drammatica del destino dell’umanità. Io mi sono proposto di rendere nel linguaggio di oggi il concetto filosofico rendendolo aderente al modo di sen tire di oggi. Certamente per alcuni, che amano resperimento, sembrerà troppo poco moderno, per alcuni puristi storici, troppo libero ». Diffi cile, come si è detto, mettere in scena il bene ed il male assoluto, difficile fare uscire Adamo ed Eva dalla concezione classica, difficile ren derne le debolezze umane, allontanandosi trop po dall’amaro filosofeggiare del poeta. Comunque, i critici hanno scritto che La trage dia umana è stata trasformata in musical. Seba stian Fisher è stato un Adamo, ed ha reso uma namente la sua fiducia, Sonia Sutter (non po teva essere che lei, la bella attrice del « Burg- theater » ad interpretare Eva) ha avuto tutte le doti ed i difetti (l’amore, la fedeltà, ma an che la leggerezza ed il tradimento) che da che mondo è mondo la letteratura attribuisce ad Eva ed alle sue figlie. L’entusiasmo del pubbli co è andato particolarmente a Alexander Trojan, che interpretava Lucifero. Insomma, tutto bello, bellissimo, ma la critica scrive che « Madach non voleva dir questo ». Noi ci siamo accontentati; noi pubblico natu ralmente. A ll’« Akademietheater » Napoleón greift an (Napoleone attacca) di Hans Walter Hasen- clever. Lo scrittore, figlio di un medico rigido e conservatore, lasciò presto la casa paterna, e vagò da un centro di cultura all’altro, fino a che, divenuto corrispondente di un giornale parigino, fece della Francia una seconda patria. Le sue due commedie I matrimoni si celebrano in cielo e Napoleone attacca, risentono infatti l’influenza dell’ambiente letterario francese. Con il suo dramma II figlio (tema genitori e figli), rappresentato nel 1916 a Praga, fu riconosciuto come uno dei più rappresentativi scrittori del l’espressionismo tedesco. Ad inserirsi in tale corrente fu però contrario lo stesso Flasencle- ver, che prese come uomo e come poeta un indi rizzo completamente individuale. L’uomo e la sua esistenza e la tragedia della guerra furono i temi delle sue opere. Di questa commedia Napoleone attacca, avven tura in sette quadri — come l’autore l’ha chia mata — la trama viene cosi esposta dallo stesso autore. « Nella mia commedia — dice —- si vedono noti uomini politici e di stato del nostro tempo. Sulla scena, la fondazione delle nazioni unite di Europa, purtroppo ben diversa da ciò che gli idealisti si immaginano. Io mostro un congresso delle nazioni, nel quale sotto la dittatura delle banche americane d’Europa, vie ne creata una unione sociale politica, che in effetti già esiste, ma sotto forma (camuffata) di una filiale economica di gruppi finanziari americani. Immagino che Napoleone si risvegli dal museo delle statue di cera, nel nostro tempo, per realizzare il piano concepito cento anni pri ma. Ma deve constatare che un Napoleone oggi non è più un genio militare, e che i Napoleoni della nostra epoca, sono i grandi finanzieri ame ricani. Gli rimane una sola possibilità: recitare il suo ruolo in un film ». Era il 1930. Intanto l’orizzonte politico della Germania sta rannu volandosi. Mentre nella commedia il grande corso finisce anche in manicomio, per le sue teorie militaristiche, e mentre l’autore- ci vuol dire che i dittatori non sono più attuali, i tempi dimostrano che il suo idealismo di poeta si sba glia. Dal ’37 in poi lo scrittore passerà da un lager all’altro, internato, fino a che, nel lager di Les Milles, il 20 giugno del 1940 tenterà di avvelenarsi con del Veronal, preso dalla sfidu cia in un mondo migliore ed antimilitarista. La commedia che è stata applaudita a scena aperta molte volte, contiene battute di ironia sottile, ed in tale ironia si deve intendere il significato della tragedia. Il pubblico si è divertito alle molte battute che potevano essere attuali. La regìa di Boby Gobert (un attore tedesco di teatro, popolare per la sua attività cinemato grafica) si è un po’ estraniata dalla amarezza che è nel sorriso di Hasenclever. Kurt Meisel è stato un Napoleone dalla maschera viva, tra l’eroico, il fanatico, il genio, e l’avventuriero pe ricoloso. Aglaja Schmidt, una delle signore del « Burgtheater », che si dedica in genere alle parti sentimentali, si è trasformata questa vol ta in una « starlet », e lo ha fatto con uno spi rito ed una grazia che hanno lasciato sorpreso il pubblico che la ricorda, ad esempio, nella Stella di Goethe. Un simpaticissimo Landru, compagno di sala nel museo, di Napoleone, è stato Manfred Inger. Istigato da Napoleone a lasciare il museo, ha difeso la sua pace con cal ma, con convinzione, felice di essere ancora ammirato dalle donne almeno nel museo. Ap plaudito Paul Horbiger nel ruolo di dottore del manicomio. Egli ebbe già, nel 1930, una parte nella commedia quando fu recitata per la prima volta a Berlino, protagonista Werner Kraus. Successo vivissimo. Due prime poco felici nei teatri cantine. Al « Courage » La strana elegia di Harwey Oswald. L ’autore è austriaco, ed il nome George Orgel è uno pseudonimo. E’ riuscito a mantenere il mi- stero. Di lui non si sa di più. La tragedia è stata scritta nel 1965, ma nessuno l’ha voluta rap presentare. L’autore ci fa vedere in scena lo svolgersi della vita di Lee Harvey Oswald, che egli ha dedotto da un accurato studio del rap porto War-ren. Così compaiono sulla scena tutti i personaggi che hanno seguito la vita di Oswald. Questo pasticcio non poteva essere altro che una maledetta noia, con tutte le ripetizioni fino ad oggi rifritte su una delle più grandi tragedie del nostro tempo. Meno male, come s’è detto, che questi esperimenti avvengono nelle « Can tine » (Teatri « keller ») e chi le frequenta deve proprio cercarsele. La critica è stata giustamente senza pietà verso il signor Orgel, dicendo che strillando non si fa dell’espressionismo. Un altro teatro del genere ha presentato Simeo ne alla colonna, prima assoluta di Imre Sarkadi. Altro buco nell’acqua, perdonabile dall’inten zione di stare nel motto del festival « I vicini del Danubio ». L’autore di questo Simeone si è ucciso dopo una discussione avvenuta tra un gruppo di letterati ungheresi sul volo di Ga- garin. Improvvisamente si buttò dalla finestra e non si è mai saputo perché. Ora, postuma, è stata messa in scena al Teatro Madach questa sua opera. Come Simeone, che secondo la leggenda passò trenta anni isolato dal mondo su una colonna, anche il protagonista Janos Kis, un pittore man cato, si risolve ad isolarsi dal mondo con freddo cinismo, e facendo oggetto chi gli è vicino di una arida perfidia. Sedotta la moglie del suo inquilino, la vende poi ad un altro, e viene da questi ucciso. La tragedia non ha un indirizzo unitario, ed elementi realistici si mescolano ad elementi fantastici. La regìa di Gunter Bauer, credendo di alleggerire il negativismo della tra gedia, ha dato spesso toni falsi. Il protagonista, Herwin Seebock, notissimo attore di « cabaret », stranamente scelto per questo ruolo, ricorda troppo i mezzi del genere che è abituato a recitare. Si è voluto dar conto di questi esperimenti, non perché lo meritassero, soprattutto in una rela zione per lettori stranieri, ma per far capire come — anche qui, ed in tutta Europa — il continuo accavallarsi di tentativi giovanili, sem pre sbagliati, non concorrono a formare quel teatro, neppure di ricerca, che si invoca e si attende. Titta Brunetti Vienna, giugno 1967 s c h e d a d ’ a r c h i v i o Per «Delitto all’isola delle capre » di Ugo Betti Dramma dell’istinto si disse all’inizio e si è ripetuto in cantilena fino al parossismo. Dram ma dell’istinto; e giù a diecine piovvero i calli- grafismi compiaciuti dei critici, anche autorevoli: sessualismo esacerbato, sporcizia morale, l’urlo dei sensi, riscossa dell’istinto dopo i trionfi della dialettica, tendenze masochistiche, animalità chiusa tirannica impetuosa, ecc. A questa esegesi ovvia e semplicistica aderivano naturalmente numerose messinscene e interpretazioni dram matiche; e anzi con tanta petulante condiscen denza che in varie capitali del teatro, nazionali ed internazionali, raramente fu dato di vedere nelle tre donne più di tre esemplarissimi esem plari della sottospecie dei ruminanti che pasco lano sull’isola senza nome. Né mancano, nel campo della critica accademica, casi di sbriga tiva menzione o drastica soppressione di questo sconcertante tropo che sembra fatto apposta per rintuzzare ogni tentativo di studiata sistemazio ne nei quadri della rimanente produzione bet- tiana. Ma ormai, a più di tre lustri dalla prima messinscena romana e alla luce degli appunti e abbozzi C) redatti dall’autore prima della ste sura drammatica, dovrebbe apparir chiaro che il senso di questa geniale creazione teatrale non si esaurisce in anguste formulette, siano esse di sapore puritanico o « avant-garde ». No; il delit to all’isola delle capre muove da un substrato psicologico in fermento, ha una chiara sorgente etico-filosofica; e il primitivismo caprino belan te, che scandalizzò gli italiani esilarò i francesi e confuse gli alienati d’oltre oceano, è un’alterna tiva lucidamente programmata dall’autore per mostrare l’esito tragico raccapricciante d’una scelta morale errata. Agata è un’eroina tragica di statura eccezionale. Ella porta in sé, nell’essenza stessa del suo carattere, il principio del suo destino: un orgo glio smisurato misto di protervia satanica e « hubris » aristotelica, un’inesorabile fierezza d’animo che piuttosto che piegarsi alla ragione preferisce inabissarsi nell’inferno: « Fin da bam bina ho sempre voluto o tutto o nulla » (I, iv). Questa abnorme presunzione, a lungo coltivata ed accarezzata, ha generato insoddisfazione, pe renne inquietudine, odio, invidia e rancore, bra ma di distruzione e autodistruzione; ha avvele nato la sua vita e l’ha resa invisa ai suoi stessi congiunti («M i hai sempre fatto paura, brutto (!) Pubblicati in inglese su Tulane Drama Review, 1964. spirito malvagio! », proromperà alla fine Fia). Ma Agata ha voluto indulgere in questi senti menti, conscia dell’abisso, anzi attratta dall’abis so e in atto di sfida contro Dio. E così questo suo perpetuo rabbioso malumore finisce per « distillarsi » nella sua natura di femmina e, all’arrivo del forestiero, trova l’unico inevitabile sfogo nel sesso, nell’incontrollato appagamento dell’istinto. Ma, come ella è consapevole d’aver voluto il male, così sa anche che deve pagare il fio. Il castigo eterno, che pur marca il trionfo di Dio, trova un’Agata coraggiosa, coerente, giu sta ed imperturbabile; e queste sono le qualità che ispirano la prodigiosa catarsi finale: « ... Qui è un disordine, è veramente un caos. 10 sola tengo la testa fuori e penso. Sono calma. Prendo tutto sopra di me. Lui ormai ha capito, noi abbiamo capito, non c’è più altro da dire o da fare; ormai è tardi. Questa è una cosa che finisce oggi... Non credo in una pietà: ne sarei confusa, sarei una macchia nera nella luce. Amo 11 mio peso. Vi è un punto in cui si sceglie ciò che siamo. E’ il principio; niente ancora esiste, tutto è libero; e l’occhio si volta per ringraziare e gioire; oppure dall’altra parte. Di lì comincia, però vi è sempre una certa pace, nell’essere ciò che si è, nell’esserlo completamente: il condan nato ha questa gioia. Io accetto... » (III, ii). Al fianco dell’eroica e granitica figura di Agata, Angelo appare debole e minuscolo. Egli rappre senta il principio o piuttosto lo strumento del male, ma non solo per l’attrazione sessuale che esercita sulle tre donne, né tanto per la sua postura di cinico impostore e libertino libidi noso in cerca di un arem isolano. Egli rappre senta il male principalmente perché pretende di « ridurre al semplice le cose complicate » (I, in), che in questo caso significa conciliare due opposti irreconciliabili e cioè la condizione naturale dell’uomo e le leggi etico-sociali. Per il Betti una simile pretesa è illusoria, utopistica: la frattura tra stato naturale e moralità è insana bile poiché voluta dall’uomo stesso, il quale tende a superare lo stato naturale, ha bisogno d’una regolamentazione della condotta umana e sa che l’inosservanza delle leggi produce squili bri, disarmonie e infelicità. Angelo ignora l’asso luta validità storica ed umana di questo conflitto tra natura e volontà morale; egli è vittima d’un equivoco generato dall’ignoranza ( vittima igna ra e miserevole quasi come il « pharmakos » espiatorio del teatro antico), e pertanto deve soccombere alla forza di Agata che di quella validità è pienamente consapevole. Molto signifi cativo sotto questo riguardo è anche il suo por tamento, concepito e presentato in termini spic catamente etnico-folcloristici, ché, diversamente da altri personaggi bettiani di origine indistinta e nebulosa, Angelo ha una provenienza, una sua identità più o meno chiara. Egli viene dal mon do arabo o medio orientale, appartiene ad una cultura molto diversa da quella occidentale, e questa sua esotericità si studia di mantenere ed impugnare, quasi ne fosse il portavoce ufficiale, con un contegno niente affatto incline alla sim biosi o al compromesso. Non per niente egli si chiama « Useim » di cognome, ha sulle labbra una simbolica nenia di tipo arabo, parla conti nuamente del « suo paese » — anch’esso popo lato di capre ma dove le donne sono prospere docili servizievoli —-, in contrasto ai « vostri paesi» (I, iv), cioè ai paesi occidentali la cui civiltà si fonda su assunti spesso irreconciliabili con la mentalità orientale: ed infatti Pia, riget tando le sue prime profferte d’amore, gli fa notare che « noi occidentali consideriamo queste cose... in un modo del tutto diverso» (I, ii). Astuto ed eloquente, Angelo parla molto, odia il lavoro, non si strapazza mai e ha grande cura della propria persona; affetta forza fisica ma in realtà è un tipo flemmatico infingardo, « bianco e nutrito come una donna » (I, Hi). Statura piut tosto bassa, testa ricciuta come un agnello, sguar do furbesco malizioso: questi gli altri tratti ca ratteristici della sua fisionomia. Per «Buming Brighi» (Fiamma~che luce) di John Steinheck Dopo Of Mice and Men e The Moon Is Down, rappresentati rispettivamente nel 1937 e 1942, Burning Bright (Fiamma che luce) è il terzo esperimento di Steinbeck nel genere misto che egli chiama « play-novelette », una specie di « roman-pièce » o dramma romanzato che vuole essere insieme dramma di facile lettura e roman zo che si presti agevolmente all’adattamento sce nico mediante l’isolamento delle parti dialogate. Tale formula composita avrebbe il duplice scopo di propagare la lettura dei testi teatrali tra il grosso pubblico e di fornire agli uomini di teatro un corredo descrittivo che sia di gran lunga più esteso e particolareggiato delle tradizionali dida scalie e che quindi renda esaurientemente chiare e palesi le intenzioni dell’autore. I primi due esperimenti riscossero un notevole successo, registrando rispettivamente 200 e 70 repliche (2 ) Burning Bright, invece, giunto a New York dopo un periodo di rodaggio che fa ceva sperare bene, fu stroncato senza pietà dopo la prima al « Broadhurst » nell’ottobre 1950, e viene adesso riproposto nella nota serie televisi va The Play of thè Week. Si tratta di un dram ma allegorico in tre atti sul tema della sterilità sessuale e tutto teso verso il postulato morale, enunciato nella scena finale, secondo cui l’istinto della riproduzione individuale non può e non deve, anche se frustrato, spegnere nell’animo umano l’amore per la vita in generale e per il principio cosmico che garantisce l’incessante ri- produzione di tutta la razza umana. Per confe rire un senso di universalità a questo tema, l’autore introduce una singolare ed ingegnosa novità: pur mantenendo l’unità d’azione e lo svolgimento cronologico dei fatti, egli cambia tre volte l’ambiente e la professione dei perso- naggi, cosicché questi nel primo atto sono acro bati, nel secondo agricoltori e nel terzo marinai. Nell’« Enciclopedia dello spettacolo » si legge che i quattro personaggi di questo dramma « ri vivono tre volte la medesima vicenda, ma sotto spoglie diverse ». In realtà la vicenda non è « rivissuta » tre volte, ma semplicemente suddi visa in tre consecutivi segmenti cronologici cor rispondenti ai tre atti e in cui i personaggi riman gono gli stessi pur sotto le cangianti parvenze professionali. Il protagonista si chiama Joe Saul, un uomo sui cinquanta, fiero dell’antica origine della sua stirpe e profondamente amareggiato perché non ha figli in cui eternare il suo nome e l’atavico retaggio del suo mestiere. La giovane moglie Mordeen, sapendolo sterile (e non impotente, come si dice nella citata enciclopedia, ché la stessa Mordeen attesta, ammirata, la gagliarda e passionata virilità del consorte), e amandolo tanto da commettere qualsiasi azione pur di ren derlo felice, si dà al giovane e spregiudicato Victor con il solo intento di concepire un figlio per Joe, al quale ella dice di essere rimasta indis solubilmente legata anche durante l’esperienza adulterina. Ignaro della sua infermità, Joe Saul è pazzo di gioia nell’apprendere che avrà final mente il tanto atteso erede. Ma intanto Victor s’è innamorato anche lui di Mordeen e, per quan to sia consapevole dell’illimitato amore che la lega al marito, non sa e non vuole rinunciare ai suoi diritti di vero padre del nascituro e alla (2) Il primo di questi due drammi fu rappresentato in Italia col titolo Uomini e topi al Teatro del Convegno di Milano il 22 ottobre 1958; il secondo, La luna è tramontata, messo in scena a Roma nel 1945 dalla compagnia Ruggeri, fu pubblicato su II Dramma del 1° agosto 1946. speranza del completo e incondizionato posses so della donna amata. Toccherà a Friend Ed, il fraterno consolatore e quasi confessore di Joe e Mordeen, ad intervenire attivamente nel terzo atto e sopprimere il focoso e testardo amante. Joe Saul scopre infine la verità e, dopo un breve periodo di crisi e ripensamento, finisce per accet tarla filosoficamente. Il simbolismo è ovvio. Mordeen è la madre cosmica, l’eterno fem minino mentre Victor personifica la vitalità bruta redenta dal sentimento dell’amore. La metamorfosi spirituale del protagonista nel l’ultima scena si fonde sulla teoria che l’egoi stica riproduzione di un solo essere umano non è che un frammento infinitesimale del corso eterno ed imperturbabile della vita. In effetti il contenuto del dramma si riduce a queste poche idee. Da questo punto di vista la rappresentazione drammatica può interessare ed a tratti anche convincere, ma veramente non ha la forza di commuovere, di ispirare una vera catarsi; e ciò appunto perché, data la natura pre valentemente concettuale dell’opera, i personag gi tendono ad essere tipi o prototipi piuttosto che creature umane di carne e ossa. Ci sono inoltre alcuni difetti su cui non è facile sorvo lare. La sbrigativa soppressione di Victor, il terzo elemento dell’eterno triangolo, non appare del tutto giustificabile né eticamente né dram maticamente. Lo stesso metodo della metem psicosi professionale, per quanto ingegnoso, si rivela essenzialmente meccanico, coglie di sor presa e costringe lo spettatore ad attendere al quanto prima di poterne comprendere la natura e funzione. Il soggetto dell’opera sembra di quelli che potrebbero ispirare una favola in versi o un poema drammatico con accentuate risonanze mitiche; l’autore americano invece adotta uno stile medio tra la favola morale e il realismo borghese, creando così un’ambivalenza stilistica che si riflette negativamente sul piano recitativo rendendone difficile l’interpretazione. La recente messinscena televisiva è in cinque atti; e di questo riadattamento non si capisce bene la ragione, dato che esso non aggiunge nulla alla rappresentazione, anzi arbitrariamente dissesta la calcolata simmetrìa del dramma e non tien conto della funzione simbolica connaturata alla strutturazione originaria. La regia è di Curt Conway. Gli interpreti sono Myron Me Cormick, Colleen Dewhurst, Dana Elcar e Do nald Madden. Me Cormick (Joe Saul) sa essere a tratti incisivo, ma più brava di tutti è la bella e matura Dewhurst che interpreta Mordeen con duttilità e calore. Antonio Illiano THE UNIVERSITY OF TEXAS DEPARTMENT OF ROMANCE LANGUAGE3 HISTORIA DEL TEATRO CONTEMPORANEO Di Juan Guerrero Zamora, uno dei più attivi e illustri uomini di teatro spagnoli, scrittore, commediografo, critico e regista, per i tipi di « Juan Flors-Editor, Barcelona, 1967 », è uscito il quarto volume della monumentale e origina lissima Historia del Teatro Contemporaneo che, tra uno o due anni, sarà completato da un quinto e ultimo volume. Nelle sue 634 pagine di grande formato e illustratissime, Zamora, se guendo il criterio che l’ha guidato nei tre pre cedenti volumi, esamina la produzione dram matica (e le relative messe in scena) non già secondo i consueti schemi cronologici bensì in quadrando i testi e gli spettacoli nelle correnti e sottocorrenti ( « Realismo », « Surrealismo », « Simbolismo », ad es. ) che hanno caratteriz zato il teatro moderno dall’Ottocento a oggi. Giunge all’attuale produzione drammatica ( « So- cialexpressionismo », « Realismo dinamico », « Farsantes » « Neoconvencionales absolutos », ecc., ivi compreso l’« Hiperrealismo » vale a dire il « Teatro della crudeltà » profetizzato da Antonin Artaud che sembra, a distanza di trent’anni, far sentire in modo rilevante la sua influenza) immettendo in ben definiti binari la produzione detta dell’« Assurdo », quella della « Neoavanguardia », della trasfigurazione della realtà o del ritorno a forme più o meno tradi zionali. Anche il teatro italiano ha larga parte in questa trattazione che vede collegati tra loro Goldoni, Verga, Giacosa, Praga e Bertolazzi. Fino ad oggi, la compilazione di questa docu mentatissima « Historia » è costata all’autore dieci anni di studi alla ricerca dei « perché? » dei molteplici e contraddittori aspetti del tea tro d’oggi che ha fitte radici nell’Ottocento. Zamora ha tentato con successo di incidere la crosta « confessionale » di certo teatro per met tere a nudo i tessuti vivi dei dubbi e delle infermità morali, sociali e spirituali che trava gliano il nostro tempo. E tenta alcune diagnosi del tutto inedite. In questo modo Juan Guer rero Zamora rompe vecchie ed abusate strutture critiche per presentarci correnti, opere, autori e spettacoli nelle loro somiglianze e assonanze, derivazioni ed evoluzioni, involuzioni e opposi zioni, in nuove e sorprendenti dimensioni e pro spettive, storiche e critiche, oltremodo stimo Alberto Perrini lanti. TOMASO DI SAVOIA DUCA Dì G E N O V A * LUOGOTENENTE GENERALE DI SUA MAESTÀ Y IT T O B IO E M A N U E L E PER GRAZIA DI DIO E PER VOLONTÀ DELLA NAZIONE wJ-UiM <3uuf>. @Hl>£ • —> RE D ’ IT A L IA In virtù dell’autorità a Eoi delegata ; Vista la domanda, del presidente del ConsigL io direttivo della Casa di riposo per gli artisti dranunatici con sede in Roma diretta ad ottenere l ’erezione in ente morale del predetto istitu= to , dotato di un patrimonio di L. 86034,83 Visto lo Statuto organico presentato per la. Mostra ap= provazione ; Vedute le relative deliberazioni del Consiglio comunale e della Commissione provinciale di pubblica assistenza e beneficen= ?. a di Roma ;Vedute le leggi 17 luglio I890,l.o6972,21 giugno 1896, A'. 218, 18 luglio 1904 ,1«i° 390 , ed i relativi regolamenti; Udito il parere del Consiglio di Stdo , del quale si adottano i motivi , do. ritenersi qui integralmente riprodotti ; Sulla proposta del Ministro Segretario di Stato per gli affari dell’Interno ; ABBIAMO DECRETATO E DECRETIAMO.: arto io_ La Casa di riposo per gli artisti drammatici ART® 2°- E’ approvato lo Statuto organico in data 22 con sede in Roma è eretta in ente morale con amministrazione au= tonoms. . gennaio 1917.composto di 32 articoli sostituendo nell’art. 22 alle parole su uomanda di almeno 20 soci , le seguenti : su domanda di almeno 15 soci . Detto Statuto sarà munito di visto e sottoscritto d or= uir.e Destro , dal Sinistro proponente - Ordinis.no die il presente Decreto , munito del sigillo del lo stato ,ois inserto nella raccolta ufficiale delle leggi e dei de= orati del Regno d'Italii,Mudando a chiunque spetti di osservarlo e. di farlo osservare . Dato a Roma , addi 15 febbraio 1917 . Firmato; Tomaso di Savoia Controfir: Orlando Per copia conforme Il Direttore Copo Divisione sa una folla di autorità, amici, autori e giornalisti; al centro del « parterre » umano, gli Ospiti della Casa, già attrici ed attori. Dalla parola di Ruggì, dopo la lettura delle principali adesioni, dei telegrammi di chi non ha potuto intervenire, delle lettere di commossa partecipazione, so no emerse immediatamente la figura e poi l’opera di Adolfo Re Riccardi. Il busto in marmo è ben visibile, in alto staccato dal muro, nella stessa sala dove era vamo convenuti. A quel busto si rivolgeva spesso, parlando, Lo renzo Ruggi, e tutti seguivano il suo sguardo, rivedendo, non più marmoreo ma come vivo e pal teatranti conoscono pitante (i bene questo caro gioco d’illusio ne) lo squisito signore delle « coulisses » del « Quirino », del « Manzoni », dell’« Arena del So le », del « Margherita », e dei tea tri dei « boulevards » parigini, tutti i « luoghi deputati » dove Re Riccardi viveva con spirito signorile, impeccabile nella sua eleganza di antico uihciale di ca- I c in q u a n t’a n n i d e lla C asa d i R iposo La Casa di Riposo Lyda Borellì per Artisti Drammatici Italiani in Bologna, ha compiuto cin quantanni di vita: fondata nel 1917, tenuta fra le braccia e sul cuore da Adolfo Re Riccardi, uomo di teatro tra i più rappre sentativi e fortunati del princi pio del secolo. Non s’avverte minimamente, tra le quinte della Casa di via Sara gozza, il trascorso mezzo secolo di vita, anche se tra i suoi ses santa ospiti di oggi, l’attrice Dio- nisia Vaccari, nubile (nata a Chiavari il 10 settembre 1870), ha 97 armi. Ne ha trascorsi la mag gior parte recitando, dalla prima Compagnia che fu quella di Gia cinta Pezzana, alla Niccoli, l’ul tima. Seccatissimo per il prima to della Vaccari, il novantaseien- ne Lorenzo Curati, eccellente am ministratore dalla Duse a Gan- dusio. Curati è stato il primo degli ospiti che abbiamo incon trato, entrando nel parco della Casa di Riposo: era all’ingresso, con un bastoncino in mano, svel to ed arzillo; ci ha fatto un gra zioso inchino. Ridenti dal fondo dell’auto ha detto: « queU’inchino ha novantasei anni ». Soli 91 (se ne vergogna) ne ha Giuseppe Con forti, detto il saltapicchio per la sua agilità. La vecchiaia non è per la gente di teatro; più volte s’è scritto sulle ragioni della lo ro longevità, ma debbono essere trucchi che non fanno cono scere, superstiziosi come sono. La Casa sorge in mezzo ad uno stupendo parco-giardino, ora tut to zeppo di verde e di fiori. Alle spalle, la collinetta del Giardino delle Rose, che si è prestata di buon grado ad en trare nel clima dello « spettaco lo », come diremo. I cinquant’anni sono stati ricor dati e festeggiati il 12 di questo mese. Il « Presidente » per anto nomasia, Lorenzo Ruggì, con a fianco il vice-presidente avv. Gio vanni Ozzo, ha accolto nella Ca valleria, sempre preceduto, nelle visite ai camerini delle attrici, capocomiche e no, da enormi cespi di rose e assai spesso (nel le serate d’onore) da scarlatti astucci molto graditi, il cui con tenuto è superfluo accennare. Anno 1917, l’Italia è in guerra. Adolfo Re Riccardi, transitando da Bologna, chiama alla stazione il caro amico Lorenzo Ruggi, autore di commedie già rappre sentate da Zacconi {Il cuore e il mondo, Vittime del passato), da Amedeo Chiantoni, da Sainati, dalla compagnia di Virgilio Tal li, dalla compagnia Borelli-Piper- no (tutte in scena prima del 1917), e gli chiede d’interessarsi presso il Comune di Bologna, per avere in donazione il terre no sul quale costruire una Casa di Riposo per gli artisti dram matici. Ruggi prima sobbalza, eppoi (il suo « cuor d'oro ») ac cetta entusiasta il compito : pren de contatti con i « padri coscrit ti » della città, fa ricerche sulle mappe catastali, e scova al Me- loncello, accanto a Porta Sara gozza, un bell’appezzamento di terreno in condizioni di felice in coltura. Fatto. Ma perché Bolo gna e non un’altra città? Roma, ad esempio, perché capitale, o Milano per le sue possibilità eco nomiche, oppure Torino per la sua aristocratica austerità? In vece Bologna, soltanto Bologna in quanto a quell’epoca era la « città dei comici » e lo era da secoli. A Bologna gli attori tra scorrevano le loro vacanze obbli gate, i periodi di riposo, a Bolo gna erano le agenzie teatrali. A Bologna i comici sapevano di essere a casa loro all’« Arena del Sole » ed al caffè dell’Arena, do- v’era loro consentito di non pa gare, rimettendo il debito alla riunione della Compagnia. Bolo gna era, come si dice, la « culla dei comici » : una Casa di Riposo non poteva nascere ed aver for tuna che a Bologna. L’ha avuta, da cinquant’anni. Ma bisognava incominciare a co struire, senza un soldo di capi tale. L’atto che sanciva l’erezio ne in ente morale della Casa di Riposo recava la firma di Vitto rio Emanuele Orlando (come ri corderà poi, dopo di Ruggi, l’av vocato Ozzo), ed era una garan zia di grande galantomismo; ma per costruire, le firme non ba stano, ci vogliono i capitali. Or lando era anche un appassionato di teatro. Re Riccardi e Ruggi lanciano un appello alla gente di teatro, ai simpatizzanti, agli amici: ci vogliono quattrini o pietre da costruzione. Cominciarono ad ar rivare le pietre. Chi ne sottoscri veva cinquanta, chi cento, chi ne inviava una carrettata, chi un vagone. Cumuli di pietre sul l’area del Meloncello. Poi una specie di montagna. Ed ogni gior no, Ruggi, dalla casa paterna di via Barberia, si recava a Porta Saragozza, per misurare, con oc chiate ormai tecniche, il crescere della cubatura del pietrame. Co me in una favola, una mattina si incominciò a costruire, le pietre diventarono muri pareti stanze sale e salotti, suggerendo a que sto punto che bisognava cercare l’arredamento (perché alla Casa di Riposo non si parla mai di comperare; ma soltanto di cer care) per le stanze. Fu passata la consueta parola alla gente di teatro, dalla più in vista ai più modesti, ma tutti ugualmente generosi e fervidi, e vennero co sì donate le « camere » dedican dole a persone care di allora : Zacconi, Novelli, Galli, Gandusio, Tina di Lorenzo, Simoni, Lopez. Erano mobili fatti eseguire ap positamente, di solida fabbrica zione (dovevano durare!). Un al tro problema da risolversi con uguale immediatezza : lenzuola, federe, tovaglioli. Chi poteva of frirli? Re Riccardi li chiese, nien temeno, alla regina Margherita di Savoia, che fu ben lieta di far spedire alla Casa di Riposo il primo corredo di biancheria da letto e da tavola. Non solo, ma prese l’istituzione di Bologna sot to la sua protezione, cioè il « pa tronato ». Portò molta fortuna. A questo punto Ruggi ricorda l'opera di un altro « cuore d’oro » della Casa, ma come si può parlare, qui, ora, di Lucio Ridenti che attraverso questo « Dramma » ha convogliato alla Casa oltre la sua perenne e ma teriale assistenza, anche venti nove milioni raccolti tra la gen te di teatro e gli amici della gente di teatro? Ridenti, certo, legge prima di passare in tipo grafia queste nostre righe, e « ta glia ». Non scriviamo, perciò, quanto lui certo taglierebbe, ma potremo raccontare altrove quan to egli ha fatto, con fraternità di affetto: « San Lucio » (lo chia mano così gli Ospiti della Casa); e lui li indica come « i miei com pagni d’arte ». Miracoli, davvero. Ve ne accorgete che siamo in un altro tempo? ma è una gran gioia vivere a questo modo. E Ruggi ricorda ancora il conte Vittorio Cini, che diremo il be nefattore numero uno della Ca sa, che — s’è detto — è intito lata a sua moglie, l’attrice indi menticabile. Forse Ruggi potreb be continuare a raccontare cose e particolari affascinanti, per al cune ore — ed è delizioso sen tirlo rievocare —, ma qualcosa preme sul suo cuore: vuole pre sentare al pubblico la sua nuova creatura: il Teatro delle Cele brazioni. Conclude rapido, dopo aver fatto conoscere un gesto squisito della signora Rina Gaio- ni Govi, che ha donato alla Bi blioteca (già ricchissima, forma ta soprattutto dalla donazione Gandusio, che possedeva libri come e quanto Simoni o oggi Ridenti) un’edizione monumen tale della Divina Commedia illu strata da Amos Nattini. Un’ope ra celebre: tre volumi, con il mobile che li contiene e la lam pada in ferro battuto che li illu mina. Furono il primo « lusso » di Gilberto Govi, acquistati ap punto mezzo secolo fa, soldino su soldino, e sempre conservati nello studio dell’attore. Oggi pas sano alla Casa, per completare quanto il creatore del Teatro Ge novese ha sempre fatto per i vecchi compagni d’arte. Dopo un breve ma denso e illu minato intervento dell’avvocato Ozzo, che illustra e ricorda so prattutto le fasi costitutive e la organizzazione protettiva del l’opera attraverso la Legge, il pubblico degl’invitati e gli Ospiti si trasferiscono nell’attigua co struzione. Il Teatro delle Celebrazioni è sorto dalla mente, dalla volontà e dal cuore di Ruggi. E' possibi le — s’è detto — far vivere dei comici senza un « loro » teatro? Ora lo hanno accanto al letto ed alla tavola, fraternamente fedele. Questo teatro non ha eguali in Italia ed è forse unico al mondo. Un monumento al Teatro. Se ne conosceranno i dettagliati parti colari a lavori ultimati, ma è già risaputo come la parete di fondo del palcoscenico vastissi mo è formata da cristalli elettri camente scorrevoli che fanno tanto da parete muta e non tra sparente, come, aprendosi, si spalancano sull’intera collina delle Rose: un affresco stupendo che s’incorpora alla scena. E non si tratta di un riquadro o di un pezzo di giardino, ma di una stupenda visione di alberi secolari ai lati, di scalee, marmi, strade, ecc. Uno scenario natu rale. Una meraviglia. Abbiamo accanto Cesare Vico Lodovici, che porta al viso le mani con giunte, mormorando: « questo è il teatro di tutto Shakespeare... ». A questo punto si impone una precisazione quanto mai utile per chi non conoscesse la rigidità amministrativa di Lorenzo Ruggì e l’organizzazione che è alla base della Casa di Riposo. Ideando il teatro, Ruggì, ha tenuto ben di stinte le spese senza possibilità di confusione e quindi questa nuova opera si vale soltanto dei volontari contributi di privati e di aziende, che hanno donato a quel solo scopo. Il teatro è già conosciuto all’estero, sappiamo che attori francesi, inglesi ed americani lo hanno visitato, si sono entusiasticamente « preno tati » per recitarvi. La curio sità non è ancora terminata, per coloro che in questa occasione lo visitano, in quanto le poltrone (una platea di ottocento posti; un vero grande teatro dunque) invece di avere la consueta nu merazione, si fregiano di una targhetta in ottone con un no me: attori, autori, scrittori, gen te di teatro o soltanto uomini il lustri amanti ed amici del tea tro. E proprio nel giorno del cinquantenario, nella riunione commemorativa cui abbiamo fat to cenno, alla presenza di Lucio Ridenti e della piccola famiglia de « Il Dramma », è stato ricor dato l'avvocato Fortunato Posti glione, amministratore delegato della ILTE (proprietaria di que sta rivista), morto il 21 aprile scorso. Creando la ILTE, Egli volle che la rivista fosse non sol tanto conservata alla proprietà, ma potenziata ed arricchita, per mettendole così di raggiungere una tiratura di quasi ventimila copie, che è un fatto davvero ec cezionale per una pubblicazione culturale teatrale. Forse « Il Dramma » è la sola rivista nel mondo, dopo 43 anni di vita, che abbia lo stesso direttore che l’ha fondata. Al nome di Fortunato Postiglione, benemerito anche del Teatro, è stata dedicata una poltrona accanto a Ridenti : una amicizia affettuosa che rimarrà eterna. Ruggì continua la sua fatica di guidare amici ed ospiti, da un punto all’altro del « suo » Tea tro; è instancabile, la commo zione lo ha ormai fatto quasi afono. Ma trova ancora la vo lontà d'inerpicarsi su per una scaletta, di affacciarsi da un bal latoio aereo. Di lassù, sorriden do festosamente, saluta tutti: il Teatro è davvero una fontana di eterna giovinezza. Enrico Bassano Bologna, 12 giugno 1967 150. B a i a t o S i m o n i - T r s n t ’ a n n i d i c r o n a c a d r a m m a t i c a Sono e s a u riti : Il p rim o e il q u a rto v o lu m e (del secondo abbiamo trovato an cora in magazzino qualche copia) D is p o n ib ili: Il s e c o n d o - il te rz o Il q u in to v o lu m e e le C o m m e d ie O gni v o lu m e d e lle C ro n a c h e Il v o lu m e d e lle C o m m e d ie L. 4 8 0 0 L. 2 0 0 0 I l f E INDUSTRIA LIBRARIA TIPOGRAFICA EDITRICE LUCIO RIDENTI : Direttore responsabile - Proprietà artistica e letteraria riservata alla editrice e stampatrice ILTE - Industria Libraria Tipografica Editrice - Torino - corso Bramante, 20 I manoscritti, le fotografie ed i disegni non richiesti, non si restituiscono per nessuna ragione R a i LA MASCHERA di Carlo Bertolazzi Regìa di Filippo Crivelli Martedì 6 giugno ore 20,20 Programma Nazionale R a d i o t e l e v i s i o n e I t a l i a n a IL RUMORE di Ludwig Harig traduzione di Ida Porena Regìa di Alessandro Brissoni Sabato 10 giugno ore 22,30 Terzo Programma PER NON MORIRE di Renato Mainardi Regìa di Maurizio Scaparro Lunedì 12 giugno ore 20 Terzo Programma Club d’ascolto: ACHILLE IN SCIRO di Pietro Metastasio rielaborazione e regìa di Vittorio Sermonti musiche di Carlo Frajese Domenica 18 giugno ore 21 Terzo Programma MARGO’ giallo radiofonico in 10 puntate di Francis Durbridge traduzione di Franca Cancogni Regìa di Guglielmo Morandi in onda dal 19 giugno ore 10 Secondo Programma I grandi interpreti: Andreina Pagnani in LA FAMIGLIA BARRETT di Rudolf Besier traduzione di Ada Salvatore Regìa di Giacomo Colli e LA PROFESSIONE DELLA di G. B. Shaw traduzione di Paola Ojetti Regìa di Mario Ferrerò SIGNORA WARREN Martedì 20 giugno ore 20,20 Programma Nazionale Martedì 27 giugno ore 20,20 Programma Nazionale STANDO COSI’ LE COSE un atto di Fabio De Agostini Regìa di Flaminio Bollini Sabato 24 giugno ore 22,30 Terzo Programma ■ N.B. - I suddetti programmi possono subire spostamenti o variazioni in conseguenza delle necessità di programmazione L a p r o s a a lla R A D I O n e l mese d i G I U G N O R a i R a d i o t e l e v i s i o n e I t a l i a n a L a p ro s a a lla R A D I O n e l mese d i L U G L I O MANON LESCAUT romanzo dell’Abate Prévost adattamento in 10 puntate di Mauro Pezzati Regìa di Umberto Benedetto in onda dal 3 luglio ore 10 Secondo Programma 1 grandi interpreti: Andreina Pagnani ne I FIGLI D I EDOARDO di M. G. Sauvajon, F. Jachson, R. Bottomley Regìa di Pietro Masserano Mercoledì 5 luglio ore 20,20 Programma Nazionale UN’EREDITÀ’ E LA SUA STORIA di Ivy Compton-Burnett e Julian Mitchell Regìa di Giorgio Bandini Lunedì 10 luglio ore 20 Terzo Programma I grandi interpreti: Andreina Pagnani in LETTERE D’AMORE di Gherardo Gherardi Regìa di Pietro Masserano Mercoledì 12 luglio ore 20,20 Programma Nazionale I CUSTODI originale radiofonico in 12 puntate di Leslie Darbon Regìa di Massimo Scaglione in onda dal 17 luglio ore 10 Secondo Programma SALUD di Nicola Manzari Regìa di Enrico Colosimo Mercoledì 19 luglio ore 20,20 Programma Nazionale L’INTERVISTA I Sabato 22 luglio di Alberto Moravia 1 ore 22,45 Regìa di Gian Domenico Giagni | Terzo Programma ■ N.B. - I suddetti programmi possono subire spostamenti o variazioni in conseguenza delle necessità di programmazione e h t c t è i i a F i a t 1 2 5 S c e lta tra i p r o t o t ip i F ia t c o s t r u it i p e r p r o d u rr e u n a v e ttu ra d i 1 6 0 0 cc. a d e le v a te p re s ta z io n i. M o to r e a d o p p io a lb e ro a c a m m e in te s ta . P o te n z a 9 0 C v (D IN ). 5 p o s ti. V e lo c ità 1 3 0 k m /o ra . P re z z o L 1 .3 0 0 .0 0 0 © 3 ! , E S I © D A L 27 GIUGNO A L 3 AGOSTO A L TEATRO D I PALAZZO R EALE ' 6 “ R a s s e g n a d e i G r a n d i S p e t t a c o l i a l V a p e r t o (A CURA DELL* ENTE MANIFESTAZIONI TORINESI) 27 - 28 -29 - 30 giugno 1° luglio 5-6-7-8-9 luglio 11-12-13 luglio 11-15-16 luglio 18-19-20-21-22 luglio 24-25 - 26 luglio 28 - 29- 30 luglio 2-3 agosto L A CASA D I RERNARDA A L B A di F. G. Forca M ISURA PER M ISURA di W. Shakespeare BLAC K NEW W ORLD Cauli e danze dei negri d'America BALLETTO BRASILIANO I I famoso carnevale di Rio in palcoscenico IL MERCANTE D I V E N E ZIA di W. Shakespeare VOLPONE di Ben Jonson L A PACE di Aristofane BALLETTO D E LL’OPERA D I STATO D I K IE V L’Ente Manifestazioni Torinesi si riserva il diritto di apportare al programma quelle variazioni che fossero rese necessarie da ragioni tecniche o di forza maggiore. Informazioni particolari: Ente Manifestazioni Torinesi presso Ente Provinciale per il Turismo di Torino. Informazioni: Agenzie di viaggio — Enti Provinciali Turismo.

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Il dramma : rivista mensile di commedie di grande successo. - Torino : Grandi firme, 1925-1992.

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