T E A T R O L E T T E R A T U R A C I N E M A A R T E M U S I C A R A D I O T V f l F A T T I O S C U R I E P A T T I C H I A R I P E R L ’ E N T E C I N E M A WÊÊÊÊÊÊÊÊÊÊtÊÊ U N A R O M A N T I C A S T R . . . L ’ A M B L E T O L O M B A R D O D I T E S T O R I S A N T U C C I | t e s t i S O R E S C U G i o s a f a t t e a t r a l i / n e r v i e s i s t o n o UNA MUSICA D’OGGI TR A PRESENTE E FUTURO IN PORTOGALLO TEATRO COATTO QUADRIENNALE FIG U RATIVA E NO ZEFFIRELLI PER “ UN BALLO IN MASCHERA” LIV E R A N I REBELLO C H IARETTI JACOBBI PICCIONI G. G. SEVERI FREDA P IT T VIGORELLI S IB ILLA GIAMMUSSO PETRONI GAUDIO BU R A TTI LANZA TOMASI SANESI P A LA D IN I DE M IC H ELI V IV A L D I GUASCO SCHÀR LA M B E R TIN I TESTA CHIUSANO AJASSA RONFANI E N T E # T E A T R A L E I T A L I A N O E l e n c o d e i T e a t r i g e s t i t i ANCONA AREZZO BELLUNO BOLOGNA BRESCIA BRINDISI CATANZARO CITTADELLA COSENZA CREMONA FIRENZE FOGGIA FORLI JESI L’AQUILA LECCE LUCCA MACERATA TEATRO SPERIMENTALE TEATRO PETRARCA TEATRO COMUNALE TEATRO DUSE TEATRO GRANDE TEATRO IMPERO TEATRO COMUNALE TEATRO SOCIALE TEATRO RENDANO TEATRO PONCHIELLI TEATRO DELLA PERGOLA TEATRO ARISTON TEATRO MAZZINI TEATRO PERGOLESI TEATRO COMUNALE TEATRO ARISTON TEATRO DEL GIGLIO TEATRO L. ROSSI MASSA TEATRO GUGLIELMI ORVIETO TEATRO MANCINELLI OSIMO TEATRO LA FENICE PADOVA TEATRO VERDI PAVIA PERUGIA PISA TEATRO FRASCHINI TEATRO MORLACCHI TEATRO VERDI RIMINI TEATRO NOVELLI ROMA ROMA ROMA TEATRO DELLE ARTI TEATRO QUIRINO TEATRO VALLE ROVIGO TEATRO SOCIALE SIENA SULMONA TEATRO DEI RINNUOVATI TEATRO COMUNALE TERNI TREVISO TEATRO VERDI TEATRO COMUNALE VENEZIA TEATRO MALIBRAN PIÙ IMPORTANTE CIRCUITO TEATRI IN ITALIA ANNO 49 - N. 1-2 - GENNAIO-FEBBRAIO 1973 Mensile - Spedizione in abbonamento postale - Gruppo 111/70 L’EDITORE ILTE Industria Libraria Tipografica E ditrice ■ Il Presidente ■ GIANCARLO VIGORELLI COMITATO INTERNAZIONALE DELLA RIVISTA « IL DRAMMA » MIGUEL ANGEL ASTURIAS ■ ALEXANDRU BALACI ■ INGEBORG BACHMAN JEAN-LOUIS BARRAULT ■ JOSE BERGAMIN ■ INGMAR BERGMAN CARLO BO ■ ROGER CAILLOIS ■ RAFFAELE CARRIERI ■ JOSE MARIA CASTELLET DIEGO FABBRI ■ ENNIO FLAIANO ■ MAX FRISCH a PAOLO GRASSI JAN GROSSMAN ■ WOLFGANG HILDESHEIMER ■ VLADIMIR HOLAN PHILIP HOPE-WALLACE ■ VERA HORVAT-PINTARIC ■ EUGENE IONESCO EUGEN JEBELEANU ■ OTOMAR KREJCA ■ PAVEL KOHOUT GIACOMO MANZU’ ■ MARIJAN MATKOVIC ■ MURILO MENDES GIANCARLO MENOTTI » GOFFREDO PARISE ■ GOFFREDO PETRASSI LEONE PICCIONI ■ RAUL RADICE ■ GREGOR VON REZZORI ANGELO MARIA RIPELLINO ■ GIAN LUIGI RONDI ■ ROBERTO ROSSELLINI AUGI SASSU ■ IGNAZIO SILONE ■ GIORGIO STREHLER ALFONSO SASTRE ■ URBANO TAVARES RODRIGUES ■ GIOVANNI TESTORI VASSILIS VASSILIKOS a THOR VILHJALMSSON ■ ROMOLO VALLI EMILIO VILLA ■ LUCHINO VISCONTI ■ DRAGOS VRANCEANU ■ BERNARD WALL ORSON WELLES ■ FRANCO ZEFFIRELLI ■ VALERIO ZURLINI Il Direttore Responsabile MAURIZIO LIVERANI Ufficio di Roma Giuseppe Tedeschi, Lucia Andreazza Ufficio di Torino Lidia Ronco, Emanuele Defend 00198 ROMA, TEL. 853241 (4 LINEE) ■ IL DRAMMA ■ DIREZIONE E REDAZIONE, VIA A. CORELLI 10, Direzione editoriale e amministrativa, corso Bramante 20, 10100 Torino, te lefono 690494-693351 (19 linee) □ Pubblicità: presso le sedi di Roma e di Torino □ Prezzo e Abbonamenti: abb. annuo in Italia, lire 10.000; all’este ro, lire 13.000. Abb. semestrale per l’Italia: lire 6.000. Ogni numero: Italia, lire 1.000; estero, lire 1.250. Numeri arretrati: Italia, lire 1.200; estero, lire 1.500 □ Editore e stampatore: ILTE (Industria Libraria Tipografica Editrice), corso Bramante 20, 10100 Torino □ C/c post. 2/56 ILTE - Torino □ Distributore per l’Italia: A. & G. Marco, via Monte S. Genesio 2!, 20158 Milano □ È vietata la riproduzione totale o parziale di testi e foto senza richiesta all’Editore □ Autorizzazione del Tribunale di Torino, del 15 luglio 1948, n. 290 □ Printed in Italy by SAT - Roma. r S o m m a r i o Maurizio Liverani Matteo Ajassa Ruggero Jacobbi Giancarlo Vigorelli Tommaso Chiaretti Gioacchino Lanza Tornasi Aldo Paladini 48 55 57 60 68 72 76 Fatti oscuri e patti chiari per l’Ente Cinema Per una politica culturale del cinema In memoria di Lucio Ridenti L’Ambleto lombardo di Testori Una romantica str... Zeffirelli per « Un ballo in maschera » Le certezze del giovane Brecht Luigi Santucci 81/97 Giosafat ( 4 quadri per musica ) e « tavola rotonda » con F. Borgazzi Fabor, F.L. Arruga e F. Crivelli. Alberto Testa Giovanni Piccioni Luiz Francisco Rebello Ruggero Jacobbi Italo Alighiero Chiusano Matteo Ajassa 98 100 105 107 117 118 Alla Scala Makarova per Strawinsky Dentro una musica d’oggi tra presente e futuro In Portogallo teatro coatto Pirandello, Fritz e Franz Tutti lebbrosi, ma Cristo no! La fedeltà è mortale Marin Sorescu 121/136 I nervi esistono (commedia) ^ Ugo Ronfani 137 Pilgrimage o le nuove confessioni di un figlio del secolo a Greenwich Village Ruggero Jacobbi Roberto Sanesi Robert Schar Luigi Lambertini Maurizio Giammusso 141 148 152 157 164 Strehler e il ritorno del gatto! Don Giovanni, Faust, Don Chisciotte, Ulisse: quattro misure per il nostro tempo Alle giornate di Soletta la scoperta del film « ritratto » Quadriennale figurativa e no Teatro all’ombra o teatro in ombra? i l l H l i l l i ' i l i ' i H W S o m m a r i o LE MUSE INQUIETANTI 5/46 Editoriali, Interventi, Schede critiche Angelo M. Lucano: Piccola inchiesta sulle compagnie autogestite H Irene Freda Pitt: Fan fare for Europe ■ Roberto Sanesi: Il gioco delle parti e la scoperta di uno scultore ■ Tito Guerrini: A Belgrado il Fest apre con « Rubliev » di Tarkovskij e chiude col glorioso Bu- nuel ■ Alberto Testa: Terabust, la rivelazione ■ Mario De Micheli: A Siena un nuovo ciclo di Carla Tolomeo ■ Gian Galeazzo Severi: Ritrattino dal vero di Katia Ricciarelli ■ Antonino Buratti: Il gran ritorno di Petrolini ■ Tito Guerrini: « La spada della morte » e altri film giapponesi ■ Sergio Lori: A Napoli « Il caos al castello » di Tardieu ■ Silvana Gaudio: Ritrattino parlato di Manuela Kustermann ■ Giancarlo Vigorelli: Un omaggio al « Gattopardo » ■ Cesare Vivaldi: La lezione di Otto Dix e di Balla ■ Giuseppe Recchia: Da Parigi ultimissime sul balletto di Petit e Blaska ■ Renzo Guasco: Fotografi e pittori in gara da cento anni ■ Giuseppe Sibilla: A New York successo dei telefilm italiani. LE MUSE INQUIETANTI: SERVIZIO LIBRI 169/178 Opere di: Pullini, Stefanile, Bartolucci, Liberovici, Restagno, San Lazzaro, Mandiargues, Fofi, Ronfani, Coffàro, Sklovskij, Lagorio. Schede critiche di: Petroni, Tedeschi, Giammusso, Vigorelli, Sibilla, Tedeschi, Sipala, Di Milia. L’OCCHIO PERPETUO 181/192 Note informative di: Rigotti, Giammusso, Lori, Lucano, Carioti. Fotografi e agenzie fotografiche: Bernard Bardinet, Andrea Cambosu, Elisabetta Catalano, Antonia Cesareo, Bruno Cioci, Luigi Ciminaghi, Colin Clarke, Anthony Crickmay, Barbara Davatz, Agnese de Donato, Léonard de Raemy-Camma, Fabio Donato, Aldo Fanchiotti, Bruno Garavoglia, Massimo Jannitelli, Tommaso Le Pera, Coletta Masson, Ugo Morandotti, An gelo Novi, Franco Parenti, Luigi Perrone, E. Piccagliani, Giuseppe G. Pino, Oscar Savio, Giovanni Simoni, R. Wiederkehr, De Rota, Dufoto, Fotocronache, Invernizzi, Keystone, Mo lino, Grazia Neri, Olympia, Omnia press, G. Rampazzi, Televisione della Svizzera italiana. e c c o d o v e v i a t t e n d o n o i M O T E L A G I P Su ogni strada importante, ma fuori del traffico e a difesa della vostra tranquillità, i Motelagip costituiscono la più estesa catena di alberghi per l’automobilista e la sua auto. Grandi nel numero, sono grandi nel comfort: un Motelagip significa infatti sicurezza di trovare una stanza accogliente, dotata di ogni moderna comodità, E Motelagip vuol dire anche comfort per la vostra automobile: parcheggi e stazioni una cucina genuina caratterizzata regionalmente. di assistenza tecnica. a l l ’A g i p c ’è d i p i ù r r u M i i i K L i M i i m i i w i i u n n L e « compagnie autogestite » suonano come termini di una realtà quasi magica da contrapporre al teatro pubblico. C’è anche qualcuno pronto a pensare che la loro nascita si è avuta in questo preciso momento storico per l’esigenza di alter native al teatro tradizionale. Entrambe sono posizioni errate: la seconda è anti culturale poiché ignora i tentativi succe dutisi attraverso i secoli — si pensi alle feste dionisiache, alla Commedia del l’Arte, agli improvvisi ardori del roman ticismo — al fine di porre il teatro fuori da una certa ufficialità oppure per reclutare un pubblico « nuovo »; sul pri mo punto invece, si scorge una pura e fa ziosa presa di posizione polemica. In fatti per taluni il teatro pubblico è una sorta di focolaio cancerogeno che rovina il teatro italiano. Ben venga, dicono, un numero sempre più nutrito di compagnie autogestite che facciano teatro dialetti co, epico, nuovo, « aperto », eccetera. Alla fin fine il discorso poi si rivela sempre partitico. Nel desiderio di condurre un discorso P i c c o l a i n c h i e s t a s u l l e c o m p a g n i e a u t o g e s t i t e Angelo L. Lucano chiaro e fuori di ogni spirito di parte, ho voluto informarmi con tre di queste compagnie e precisamente col Gruppo della Rocca, col Gruppo Teatro Libero, reduci entrambi dall’esperienza venezia na, e con la Compagnia del Malinteso che quest’anno opera in forma stabile al Ridotto dell’Eliseo in Roma. La pri ma domanda che rivolgo è ovvia, ma non fa male sentire la risposta dai più diretti interessati. Dramma: Perché, dunque, il porsi fuori da certe strutture tradizionali? Gruppo della Rocca: Il non voler ope rare in certe strutture può avere il si gnificato di « contestarle ». Usiamo que sta parola logora anche perché i gruppi che si stanno affermando hanno questo significato. Innanzitutto noi vogliamo creare strutture dove nella divisione del lavoro non esistano gerarchie interne, dove la partecipazione dei singoli con tribuisca a non far sentire gli stessi alie nati dal proprio dovere. Spostando il di scorso all’esterno, noi vogliamo costituir ci come alternativa all’« altro » teatro, quello degli Stabili dei quali comunque apprezziamo l’esistenza nel senso civico. Teatro Libero: Innanzitutto il nostro proposito sta nel tentare di dare l’avvio alla creazione di una struttura diversa dall’attuale, di un diverso rapporto col pubblico. Quando decidemmo di realiz zare il Barone rampante sapevamo che non si andava a finire nei circuiti nor mali, ma lo abbiamo fatto ugualmente nel modo da noi voluto, perché prima della questione del circuito esiste la vo- lontà di una scelta precisa, che è quella detta prima. Il rifiuto di strutture tra dizionali è anche rifiuto di condiziona menti a vari livelli. Il Malinteso: I condizionamenti esisto no, d’accordo. Uno dei più grossi è quello che deriva dalle sovvenzioni mi nisteriali. Oltre ad una legge anti quata e sbagliata, esiste anche una sor ta di mafia, ed entrambe premiano sem pre i primi della classe. Noi siamo una compagnia di sinistra, ma dobbiamo ri conoscere che per quanto riguarda certe volgiamo in modo particolare la nostra attenzione. La cosa può sembrare anti tetica. Ma vengo ad un esempio di prima mano. Noi quest’anno abbiamo alle stito Come le foglie di Giacosa. Lo ab biamo fatto perché avevamo bisogno di assestare un poco le nostre finanze. Un tale testo avrebbe richiamato un certo tipo di pubblico borghese, al quale noi dobbiamo rivolgerci perché esiste... Be ne, fatto inaspettato: i borghesi sono : venuti relativamente pochi rispetto al gran numero di giovani. Ij Dramma: E gli operai li lasciate alla porta? Il Malinteso: Non è facile portare gli operai a teatro. Si vuole un pubblico nuovo, ma in realtà sono sempre i bor ghesi o gli operai imborghesiti che noi avremo a teatro. Oggi come oggi, per portare il teatro agli operai, o viceversa, occorre una organizzazione particolare. Se pensiamo che anche l ’Arci, che ha un circuito proprio, non ce la fa! Le difficoltà sono enormi e l’impresa è scelte di repertorio, l’attuale pubblico è il vero condizionatore. Esso è borghese, e poi c’è il pubblico dei giovani. Il pri mo non ama le astruserie e ci castiga con l’assenza dalla sala. Pensiamo un momento a quelle compagnie della pas sata stagione che avevano molta preten- zione e molta noia! (che dentro il cuor loro speravano sempre che li andasse a vedere qualche funzionario dell’Eti e che le immettesse nel circuito). Poi c’è il pubblico dei giovani, al quale noi ri- Qui sopra: una scena di « Come le foglie » rappresentata dalla Compagnia del Malinteso. Nella pagina precedente: il Gruppo del la Rocca; nella seguente: « Noz ze piccolo-borghesi »; in chiusu ra: « Perelà, uomo di fumo ». quasi disperata, anche sul piano finan ziario. Gruppo della Rocca: L’andare col teatro verso gli operai implica la creazione di un’area di servizio che consenta di la vorare con certezza. Siamo dunque al discorso delle infrastrutture. Ed esse mancano. Su ciò la volontà politica non esiste. Da parte nostra c’è il bisogno di creare nuovi spazi teatrali ove poter verificare il lavoro anche con l’« altro » pubblico che erroneamente si crede me no vivo e meno attento di quello abitua- le. E poi, è necessario il ricambio di quest’ultimo. Anche perché per la clas se borghese il teatro è morto. Teatro Libero: Riteniamo che il pubblico attuale sia un pubblico inutile. Ha la sua utilità per la routine del teatro uf ficiale. Precisiamo: il discorso che noi facciamo potrebbe passare come il rifiu to categorico del pubblico borghese e la utopistica tesa di mano al pubblico pro letario. No. In sostanza, il non volere più un certo pubblico è il voler rifiutare certe strutture perché secondo noi è spostandosi al di fuori di esse, come stiamo facendo, che si fa già conto che esse possono anche non esistere. Dramma: lì discorso a questo punto può sembrare un circolo chiuso. A proposi to dell’« altro » pubblico, c’è appena da osservare che l’anno scorso ha risposto con una assenza dagli spettacoli teatrali tale da far registrare un incasso di 280 milioni in meno rispetto agli anni passati. Il Malinteso: Ma è ovvio. Quel pubbli co è stato stravolto da spettacoli che non avevano ragion d’essere. Non si creda che l’« altro » pubblico sia stupi do. Ma in noi c’è sempre tanta voglia di fare spettacoli da funamboli! Dramma: Cosicché oltre alle strutture contestate, alle infrastrutture mancanti, c’è anche la questione della scelta dei testi, o meglio, di scelte culturali e ideo logiche? Teatro Libero: Certo. Noi non vogliamo dare dei testi commerciali, ma che ab biano due caratteristiche: da una parte che corrispondano ad un tipo di teatro come « proposta », anche di ricerca di nuove proposte sceniche, strutturali, am bientali; dall’altra, vogliamo che essi non siano mai ripetizioni, riprese di testi già fatti, ma che siano solo cose nuove per il teatro e per il pubblico nel senso che debbono essere rivelatori di certe aspirazioni di rinnovamento e teatrale e sociale. Gruppo della Rocca: Quando scegliamo un testo lo facciamo tenendo presente l’intento di parlare di problemi che ri guardino molto da vicino il pubblico. In definitiva noi ci orientiamo verso un testo che ci consenta di agire nel circui to normale, il quale ci permette la so pravvivenza, e nello stesso tempo ci muoviamo nel senso di portare un con tributo alla nascita dei circuiti alterna tivi affinché ci si possa poi dedicare solamente ad essi. A quali riflessioni portano queste di- chiarazioni-tipo? Innanzitutto va ricono sciuto che molte delle lamentele fatte sono giustificate. In fondo, se si è giun si all’attuale condizione, lo si deve an che alPautoritarismo che ha caratterizza to il teatro tradizionale. Lo spagnolismo non è ancora morto, da noi, e ciò non con sente l’avviarsi di un discorso con una sua nuova articolazione. Non va poi di menticata la realtà italiana degli ultimi cinquanta anni durante i quali la bor ghesia ha trasformato la propria crisi in fondamento della propria esistenza. Per ciò resta difficile trovare spazio per chi intenda affidare al teatro « messaggi poli tici nuovi ». In proposito va detto di non poter condividere l’equivoco in cui teatranti per i quali il stanno molti teatro è veicolo di idee politiche. Il teatro può avere anche una funzio ne politica mantenendo però i suoi mo di specifici. Un rischio corso da que ste compagnie autogestite è quello di vo ler ridurre il teatro come fatto culturale a un fatto di pura tecnica operativa avul sa dalla prassi politica attuale. Fuori di essa il teatro può avere anche un non senso! E infine, mentre esse reclamano autonomia nelle scelte, ed è giusto che sia così, conclamano l’intervento pub blico rifiutandone il controllo... E an cora: esse dimenticano molto spesso che il teatro, come ogni attività umana, è sottoposto alle leggi di mercato. Chiudo con una domanda: hanno mai pensato le compagnie autogestite di ritrovarsi in sieme non tanto per verificare gli stru menti e i metodi di lavoro quanto per esaminare il sistema dei rapporti da sta bilire con la società? E sulla base di son daggi, valutazioni, tentare di individuare la prospettiva di un possibile concreto lavoro innovatore perché anche comune? Angelo L. Lucano il festival (hanno vinto Se è innegabile che l’Inghilterra si è ricongiunta all’Europa continentale so prattutto per motivi economici e politici, questo non toglie che i più fervidi « eu ropeisti » auspichino l’unione a livelli più profondi, e intitolato « Fanfare for Europe », composto di rappresentazioni teatrali, concerti, confe renze e mostre varie da un lato e di partite di calcio — i « Sei » contro i « Tre », ad esempio i Tre) — concerti di musica pop, sfi late di moda, incontri internazionali di scherma ed altri sport, che ha avuto luo go dal 3 al 13 gennaio, è stata l’espres sione di questo augurio. La maggioranza di queste manifestazioni, diffuse in tutta l’Inghilterra nonché nel Galles e in Sco zia, non è consistita nella passiva acco glienza di artisti, musicisti o sportivi di oltre Manica, ma piuttosto in un sapiente dosaggio di apporti inglesi e stranieri. Ovviamente, a Londra, dove l’attività culturale è sempre molto intensa, non c’è bisogno di un festival per far sentire orchestre e solisti del continente, per questo non mi soffermerò sulle visite durante il periodo del festival della Filar monica di Berlino sotto la direzione di Herbert Von Karajan, dell’Orchestre de Paris, del Concertgebouw di Amsterdam, dell’Orchestra della Radio Danese. Pre ferisco concentrarmi sulle manifestazioni allestite appositamente per il festival (anche perché il solo elenco delle attività F a n f a r e f o r E u r o p e Irene Freda Pitt in tutta la Gran Bretagna occupa una ventina di pagine nel numero unico stam pato per l’occasione ). L’avvenimento più grandioso è stato in dubbiamente il gala di inaugurazione al Covent Garden il 3 gennaio, il quale ha avuto luogo alla presenza della Regina Elisabetta, del Duca di Edimburgo, del Primo Ministro Edward Heath, di rap presentanti ad alto livello degli altri pae si della CEE, tra i quali Walter Hall- stein, Maurice Faure, Sicco Mansholt, Joseph Luns, e per l’Italia Franco Mal fatti e Mario Sceiba. Bandita dal programma di «Parole e Mu sica» qualsiasi retorica o pomposità, il privilegiato pubblico ha potuto ridere di cuore di molti dei brani letti da Laurence Olivier, Max Adrian e Judi Dench, che contenevano molti strali da parte di il lustri scrittori e personaggi inglesi del passato contro gli inconvenienti dei loro viaggi in Europa, e viceversa di giudizi altrettanto maliziosi sugli inglesi espres si da Stendhal, Heine, Engels ed altri. Disseminati con grande abilità tra le letture dai compilatori del programma, Patrick Garland e John Copley, veniva no i contributi musicali. Ad esempio, dopo qualche riga di Voltaire, la delizio sa Elizabeth Harwood ha cantato un’aria dal Candide di Léonard Bernstein; un brano di una lettera di Berlioz a propo sito dei Troiani, ha introdotto il mera viglioso duetto d’amore di Enea e Di- done (cantato da Josephine Veasey e Alberto Remedios); dopo un brano di Virginia Woolf, concernente un viaggio attraverso la Manica, ecco la splendida Régine Crespin che canta L’invitation au voyage di Duparc; dopo un cenno alla lotta dei Fiamminghi, sono Tito Gobbi e Werner Gotz che rievocano quel mo mento storico con un brano dal Don Carlos di Verdi; ancora, Laurence Oli vier recita parte di un discorso di Fal staff, e subito appare Gobbi, che canta questa volta Quand’ero paggio dal Tal- staff, mentre nella parte del programma intitolata «I nordici che bramano il sud», dopo qualche verso dall’Ode all’usignolo di Keats, Elisabeth Schwarzkopf ha can tato con la solita maestrìa Kennst du das Land di Hugo Wolf. Gli altri cantanti ospiti comprendevano Cristina Deute- kom, Graziella Sdutti (con Gabriel Bacquier, in Là, ci darem la mano dal Don Giovanni di Mozart, presente in tre interventi malgrado la nazionalità au striaca, poiché, come hanno ben affer- maio Garland e Copley, « non vale la pena di avere una comunità europea sen za Mozart »). Forse la recitazione più apprezzata è stata quella dell’attrice novantenne Sybil Thorndike nell’arguta poesia dell’italofilo Robert Browning, Up at a Villa - Down in thè City. E’ stata applaudita all’entrata in scena per il ri spetto dell’età, ma alla fine per la grande bravura. Laurence Olivier ha particolar mente brillato in una pagina comica dal romanzo di Dickens II nostro comune amico, ma ci ha colpito anche con i bra ni più seri. Parli per tutti il grande let terato del Settecento, il dottor Samuel Johnson: « Tutta la nostra religione, In apertura: Margot Fonteyn e Kenneth MacMillan; qui sotto: Antoinette Sibley e Anthony Dowell. negli sfarzosi lampadari e vino gratuito per tutti nell’intervallo. Sotto il titolo The Grand Tour, è stata presentata da tre attori e un’attrice in costume, con interludi musicali al pianoforte di Cle menti, una scelta di brani scritti nel Set tecento da personaggi inglesi sui grandi viaggi di allora, soprattutto in Francia e in Italia. Particolarmente gustose le os servazioni fatte da James Boswell, l’in- Londres (1871) e il coloritissimo Jour de Fête, Kew, di Derain, Barques sur la Tamise (1905-6); di Renoir l’incante vole Femme assise au bord de la mer ( 1883) e di Sisley Les régates à Molesey (1874) e la Baie de Langland (1897). Nella stessa galleria c’erano contempora neamente altre due mostre, quella di Die- ter Rot e l’altra intitolata: Staging thè Romans (Mettendo in scena i romani), cioè i drammi « romani » di Shakespeare allestiti recentemente a Stratford. L ’in teressante mostra comprendeva costumi e modelli, nonché fotografie e note sulla regìa. Se tutte le arti sono internazionali, l’arte quasi tutta la nostra legge, quasi tutte le nostre arti, quasi tutto ciò che ci pone al di sopra dei selvaggi, ci è venuto dalle sponde del Mediterraneo ». Notevole il contributo inglese (o comun que britannico) alla parte musicale, dal direttore d’orchestra Colin Davis ai molti cantanti, compresi gli eccezionali Geraint Evans e Janet Baker. Dei compositori in glesi sono stati inclusi Britten, Bliss e Tippett. La sera seguente, un gran contrasto è stato offerto con la più modesta, ma sim patica, produzione della Prospect Thea- tre Company (che presentò Amleto al Premio Roma del 1971), nella sala della Goldsmiths’ Company che si trova nel cuore della City, con candele vere genuo ma attento autore della più gran de biografia in lingua inglese, quella del dottor Johnson. Bravi tutti gli interpreti. Una mostra che ha suscitato molto en tusiasmo è quella degli « Impressionisti a Londra » alla Hayward Gallery ( accanto al Royal Festival Hall). Affascinante la serie di venrisei dipinti di Monet (rifu giatosi a Londra nel 1870), di cui la maggioranza rappresenta soggetti molto vicini alla sala, cioè il Ponte di Charing Cross, il Ponte di Waterloo, il Parla mento, con effetti di luce che variano secondo il tempo. Quella nebbia così cara a Monet è scomparsa ormai, ma egli ci trovava degli effetti magici. Fra gli altri tesori della mostra c’erano di Pissarro La Station de Fenge, Upper Norwood, europea per eccellenza, almeno ai suoi inizi, è il balletto classico. E’ giusto, dunque, che la danza sia stata in prima linea durante tutto il festival e non solo a Londra. A Glasgow, lo Scottish Thea tre Ballet ha allestito un programma speciale, con una prima rappresentazione e con artisti ospiti danesi, a Wythen- shawe la stessa sera (7 gennaio) il North ern Dance Theatre ha presentato un pro gramma con artisti ospiti francesi, danesi e olandesi. A Londra, quattro offerte molto diverse. A The Place, sorta di club frequentato soprattutto da giovani e ritrovo di tutti gli appassionati londi nesi di danza moderna, il London Con temporary Dance Theatre ha dato il 12 gennaio una rappresentazione pubblica Qui sopra: « Stages » di Robert Cohan; nella pagina seguente, un’altra scena dello spettacolo del London Contemporary Dance Theatre. (normalmente bisogna essere soci) del complesso lavoro Stages (Tappe), defi nito dal coreografo-regista Robert Cohan (seguace di Martha Graham) « impres sione in due parti del mito di un eroe ». Ho trovato il sottofondo filosofico piut tosto nebuloso a prima vista, e la coreo grafia non tanto originale, però mi ha fatto un’ottima impressione l’alto pro fessionismo della compagnia (bravissimo Micha Bergese nel ruolo dell’Eroe, molto apprezzata Noemi Lapzeson), mi è pia ciuto lo spartito, in parte su nastro, in parte suonato dal gruppo del giovane compositore Bob Downes; belle le luci. Se la finale distruzione del tempio signi fica la fine del mondo, il lavoro non sembra tanto adatto allo scopo celebra tivo, ma ad ogni modo è stata un’espe rienza interessante. Sempre nel campo del balletto moder no, il Ballet Rambert ha presentato un programma speciale, con una novità di Christopher Brace intitolata There Was a Time, basata sull 'Iliade, niente meno. Purtroppo, non ho potuto vedere questo programma, né l’ambizioso gala che il Festival Ballet ha presentato al Royal Festival Hall il 9 gennaio. Rimane da vedere quante delle quattro novità asso lute sopravvivranno. Sembra che quella più significativa fosse In Nomine su un tema religioso, con coreografia di Barry Moreland e musica recente di Peter Maxwell Davies. I due primi ballerini assoluti Gaiina Samsova e André Pro- kovsky, conosciuti anche in Italia, han no ballato nelle due novità Mozartiana di Ronald Hynd (passato da ballerino col Royal Ballet a direttore del ballo all’Opera di Monaco di Baviera) e l’eso tica La Péri di Dukas in una nuova ver sione di Peter Darrell. Maina Gielgud, che ha avuto molto successo con la com pagnia di Béjart, è adesso passata quale prima ballerina al Festival Ballet e ha brillato in questa occasione in un assolo creato per lei da Béjart (Forme et Ligne). Ho avuto la fortuna di assistere allo stu pendo gala di chiusura del festival dato al Covent Garden il 13 gennaio dal Ro yal Ballet e da artisti ospiti degli altri paesi della Comunità (salvo il Lussem burgo e, almeno ufficialmente, l’Irlanda). Il Royal Ballet ha tanti primi ballerini propri che ricorre raramente ad artisti ospiti; anche per questo si è trattato in partenza di una serata eccezionale. Anche se l’unica cosa che mi sarebbe piaciuta rivedere subito erano le Variazioni sin foniche, uno dei capolavori di Frederick Ashton, il programma è stato tutto pieno di delizie. Cominciamo dagli ospiti. Quasi tutti avremmo preferito dai danesi una bella esposizione dello stile Bournonville, in vece, forse come omaggio a Shakespeare e per la musica inglese (di Porceli), han no scelto la Pavana del Moro di José Limon, basata suWOtePo. Impeccabile il quartetto composto da Toni Lander, Henning Kronstam, Brace Marks e Vivi Flindt. Anche la coppia italiana Carla Fracci-Paolo Bortoluzzi ha avuto parec chio successo nel passo a due dall’ultimo atto della Coppélia, rin.aneggiato da En- rique Martinez e dagli stessi ballerini. Paolo Bortoluzzi, che era piaciuto molto al pubblico londinese quando faceva par te del complesso di Béjart, ha fatto così il suo ingresso al Covent Garden, e Carla Fracci, in ottima forma, ha avuto la possibilità di cancellare la sfortunata im pressione lasciata dalla visita del 1970 col Ballet Theatre americano. Alexandra Radius e Han Ebbelar del Balletto Na zionale Olandese hanno scelto un lavoro moderno che aveva già avuto molti con sensi qualche mese prima al Teatro del- l’Opera di Roma, Crepuscolo, di Hans van Manen. Il Belgio è stato inevitabil mente rappresentato dal Ballet du XXe Siècle di Béjart, che faceva la sua prima apparizione al Covent Garden con lo stesso passo a due da Bhakti, già da to al Festival di Nervi a luglio, ma con Angele Albrecht al posto di Maina Gielgud. Per l’Opéra di Parigi, Noella Pontois e Cyril Atanasoff hanno ballato, molto bene, il cavallo di battaglia II ci gno nero dal terzo atto del Lago dei cigni. Non essendoci un rigido atteggia mento nei confronti della nazionalità-, per il Balletto di Stoccarda sono venuti la magnifica Marcia Haydée (brasiliana di nascita) e il californiano Richard Cra- gun, in un brioso passo a due, pieno di invenzione, dal balletto La bisbetica do mata del sudafricano anglicizzato John Cranko, proveniente dal Royal Ballet, ma adesso direttore a Stoccarda. Altro omag gio a Shakespeare, dunque, ed enorme successo. Non tutti gli artisti principali del Royal Ballet hanno partecipato a questo gala, e solo nel pas d’action di apertura si è vista una parte del corpo di ballo, però si è avuta una buona idea dell’alto livello generale. Hanno ballato la coppia Svetla- na Beriosova-Donald MacLeary (un pas so a due da The Lady and thè Tool di Cranko) tre superbe coppie (con Merle Park e David Wall in testa) nelle Varia zioni sinfoniche, la coppia-stella Margot Fonteyn e Rudolf Nureyev, con grande stile, nel passo a due Le corsane. Per Antoinette Sibley e Anthony Dowell, il direttore del Royal Ballet, Kenneth MacMillan, ha creato un delicatissimo passo a due sulla Lavane di Fauré, e nell’ultimo lavoro prima del défilé di chiusura, abbiamo visto la prima rappre sentazione londinese di un passo a due umoristico, Side Show, fatto dallo stesso MacMillan su musiche di Stravinsky, per Lynn Seymour e Rudolf Nureyev (così diventato inglese naturalizzato, si può dire). Con i baffi e un costumino rosso coperto di paillettes, nel ruolo grot tesco dell’Uomo nerboruto di un circo, Nureyev si è divertito un mondo, men tre Lynn Seymour, tecnicamente sicu rissima, è stata di una comicità irresisti bile nel ruolo della cavallerizza. Le ripe tute chiamate davanti al sipario hanno costituito quasi un balletto a sé. In una serata come questa (accanto al l ’essenza internazionale, senza frontiere, del balletto) si vede anche il carattere strettamente nazionale di ogni partecipa zione, e si capisce che tutti possiamo imparare dagli altri. Bisogna però avere in sede una certa continuità di direzione e di repertorio che in questo momento manca, purtroppo, in Italia. Che una cop pia italiana abbia potuto partecipare con onore ad una serata del genere segna già una pietra miliare, ma quando si riflette sul fatto che tutti e due sono uccelli di passaggio dappertutto, quando si pensa che in Italia pochissimo dura più di una stagione, mentre a Londra ho visto la 166a rappresentazione al Covent Garden delle Variazioni sinfoniche, la 312a rappresentazione sempre al Covent Garden del Royal Ballet nella Giselle (con Antoinette Sibley e Rudolf Nure yev), si capisce che la strada da percor rere è ancora lunga... In altri campi, l’Italia è stata rappresen tata dai direttori d’orchestra Carlo Ma ria Giulini (da anni un beniamino del pubblico inglese) e Gaetano Delogu (che ha fatto, il 13 gennaio, il suo debutto al Royal Festival Hall), dai Solisti Ve neti, in giro nel Regno Unito, da altri musicisti, da film, e dalla Vedova scaltra di Goldoni, messa in scena a Cardiff. Nessuno s’illude che questa orgia cultu rale incida sull’atteggiamento dell’ingle se medio verso il Mercato Comune, ma è stato un memorabile festival, nonché un grande omaggio all’« idea » europea. Irene Freda P itt Giovanni de Angelis: « Nuota tore » (1971) e, nell’altra pa gina, «Testa» (1972). GALLERIE DI MILANO: BACON U. MILANI - A. GIORGI - COLLA PIRRUCCIO - G. DE ANGELIS I I g i o c o d e l l e p a r t i l a s c o p e r t a d i u n o s c u l t o r e e Konerto vanesi Collettiva piuttosto sui generis quella organizzata dalla Galleria Vinciana con il concorso diretto dei propri artisti, fon data su un meccanismo nuovo di rap porti e intenzioni, e intitolata « Il gioco delle parti ». Il titolo, pirandelliano, è so stenuto da una citazione di Pascal: « Es sendo ogni cosa causa o causante, deri vata o derivante, sostenuta o sostenen te, ed essendo tutte le cose unite da un legame unico ed indivisibile io sostengo che non si possano conoscere le parti senza conoscere il tutto come d’altronde non si può conoscere il tutto senza co noscere le parti in particolare ». Su que sta idea, pur costretti ad una parzialità di cui si giustificano le ragioni (lo spa zio, il reperimento delle opere, ecc.), senza alcuna pretesa di sistemazione sto rico-critica i cinque artisti della galleria hanno invitato quattro artisti ad esporre con loro in sezioni delimitate da titoli indicativi di una certa area comune di sensibilità, di intenzioni, di linguaggio. Sotto L’ambiguo geometrico si presen tano Aricò, Battaglia, Bonalumi, Caldera ra, Carrino; sotto L’assenza come prati ca mentale: Dias, Gastini, Ortelli, Piat- tella, Verna; a La dimensione ipotetica del vero appartengono Arakawa, Christo, Fabro, Plessi, Twombly; a Nature en pose: Cavaliere, Ceroli, Kounellis, Poz- zati, Schifano; a II filo rosso della pau ra: Monory, Sarri, Scanavino, Trubbia- ni, Veikkovich. Citando dal catalogo, « si è voluto che fossero presenti anche cinque poeti per allargare il campo di indagine delle consonanze creative » e, per chiarire che il senso della mostra non intendeva porre categorie o istitu zionalizzare tendenze, si sottolinea che « chiunque si potrà rendere conto di co me essi siano diversi e tuttavia affini ». Oltre al sottoscritto, nella sezione II ma lessere della ragione, erano presentati Guido Ballo, Giuliano Gramigna, Nelo Risi e Andrea Zanzotto. La proposta (evitare un casuale accostamento di ope re, mantenere ad ogni artista la propria personalità e nello stesso tempo tenta re un gioco di indicazioni tale da rendere in qualche modo più agevole, per reci proca proiezione, la « lettura » dei vari atti creativi) è stimolante. Le opere, nel complesso tutte di notevole valore, ac costate fra loro secondo un principio soggettivo di concordanze estranee ad un giudizio strettamente critico, malgra do le tendenze e le generazioni diverse non solo non sono entrate fra loro in conflitto, ma hanno spesso messo in luce associazioni impreviste, come (e si trat ta solo di esempi, a parte che una se parazione di questo tipo falserebbe di nuovo le motivazioni della mostra) Ca- valiere-Pozzati o Plessi-Twombly. D o po aver sottolineato le ragioni di un concetto d’arte come sperimentazione inarrestabile e proposta attuata metodi camente, nel presentare la più recente opera grafica di Arabella Giorgi alla galleria « Bon à tirer » Guido Ballo in dica come caratteristici del lavoro della giovane artista veneziana la « finezza co loristica che varia... col variare dei rap porti spaziali » e il linguaggio « limpido e gioioso... che dà in modo singolare alla fantasia quella ’’rispondenza inte riore” a cui accennava Kandinsky ». Esponendo insieme alle opere finite an che i loro progetti, non solo la Giorgi offre una pertinente chiave di lettura del suo procedere dall’idea alla sua strutturazione secondo una rigida logica interna, ma mostra anche come il con trollo intellettuale della creatività non sia necessariamente avverso all’invenzione fantastica e ad una sua resa variabile e felicemente autentica. L a Galleria del Milione ha inaugurato la sua nuova sede, luminosa e funziona- le, con una « triplice » che potrebbe apparire casuale. Ma l’intenzione dichia rata è di avvicendare esperienze diverse, che poss<- \o rendere « nella complemen tarietà e nella divergenza delle propo ste » più stimolante la riflessione sui fatti dell’arte contemporanea, e non si può affermare che il passaggio dall’ope ra grafica di James Rosenquist alle scul ture e ai dipinti di Umberto Milani e infine alla violenza espressiva di Francis Bacon non consenta osservazioni tanto variabili quanto significative. In parti colare, sul filo della generazione paralle la e delle differenti culture, nel discor dante rapporto fra Milani e Bacon, seb bene in parte le opere attengano a tempi diversi, tutte del dopoguerra quelle di Milani, dal 1933 ad oggi quelle dell’in glese. In Milani, dopo un’esperienza le gata a suggestioni cubiste, volontà di concretezza e nativa sensibilità, perfino sensualità, lirica, convergono alla ricer ca di un modulo che sia in grado di rivelare la dimensione plastica di una natura che egli sembra sentire con in teriorizzazione che tende quasi inevita bilmente all’informale ( e che si risolve quindi in astrazione), e nello stesso tem po si accaniscono in un’indagine che non volendo rinunciare all’espressione di nes suno dei suggerimenti che gli impone va quasi morbosamente il rapporto fra luce e materia in vibrazioni e accensioni sottili e improvvise finisce sempre col ricondurlo ad una soluzione scultorea. Un’arte teneramente severa, fluida e con creta, giocata appunto sull’equilibrio di questi impulsi a contrasto e tuttavia non contraddittori. Violenta e senza illusio ni la pittura di Francis Bacon, aggressi va e disperata, con un fondo espressio nistico che si rivela nella distorsione del la figura umana, dei corpi resi pura e semplice materia, carne logorata nella sgradevolezza stessa del colore denso, in associazioni stridenti, « impossibili ». Dietro c’è Van Gogh, mentre Velasquez resta un termine di confronto di tipo culturale, utile ad una prima operazione dissacrante ancora « simbolica ». Van Gogh che è, secondo Gianfranco Bruno, « non solo il modello tragico, il prototi po dell’artista nella società industriale alienante, ma un cristo di sciagure, co lui che ha svelato una ’’condizione” di tutti, e senza riscatto ». Ed è vero. Ma il giudizio che Bacon evidenzia è un giudizio netto e impietoso, senza alcuna freddezza di distacco: Van Gogh è vitti ma che si riscatta, l’uomo stravolto di Bacon non è più nemmeno vittima, la « primitiva ingiustizia » di Artaud è nel l’essere uomo. L a scultura di Giovanni de Angelis (galleria Cortina) denota una presenza dinamica rilevante, una preoccupazione che non si risolve quasi mai, comunque, « oltre la materia ». Chi vi si è avvici nato con atteggiamento critico non ha potuto evitare di rintracciare in più luo ghi, e non sempre in sequenza tempora le, quasi a indicare qualche incertezza, un ricordo di suggestioni culturali sco perte, da Martini a Marino, dall’arte arcaica a quella romanica, con un gusto evidente per la materia ruvida, per il peso grezzo della pietra. Ma così come non può essere sufficiente la coincidenza di un soggetto (il cavallo con cavaliere, il nuotatore, ecc. ) a denunciare una filia zione diretta o un piatto epigonismo, co sì non è detto che tali accostamenti — più o meno voluti e/o accettati da parte dell’artista — non abbiano un senso, non fosse altro per indicare quale sia l’area di autentica sensibilità in cui l’ar tista si accanisce per la sua ricerca. Av vertiva Franco Russoli che il mondo (la natura) ha ancora abbastanza simboli da offrire, e de Angelis ne sembra convin to. La sua tematica è semplice, e al cen tro vi risiede l’uomo. Ma vi sono motivi per credere, mi pare, che soprattutto nel- le opere più recenti la figura umana — senza arrivare a dire che si tratti ormai di un pretesto — comincia ad essere re stituita in modo sempre meno « espres sionistico », mentre acquistano valore componenti formali e materiche che spo stano le sculture di de Angelis in una direzione diversa. Se già in alcuni dei nuotatori si accentuava il gioco della di storsione e dello smembramento fino ad abilissime soluzioni ai confini dell’astrat to, e se in una delle teste di recente com posizione la connotazione somatica sfu mava a favore di un approfondimento del misterioso e dello spirituale in senso lato — e si potrebbe dire che proprio questi due moti convergenti caratteriz zano al meglio l’opera del giovane scul tore — è abbastanza evidente che alcu ne delle ultime sculture suggeriscono una preoccupazione sempre meno rivolta a soddisfare una relazione diretta fra il vi sibile già noto e carico di per sé di valori espressivo-simbolici (le «maternità», per esempio) e la sua restituzione in ope ra compiuta. Pur avendo ancora una chiara origine « reale » queste sculture a cui non è ancora stato dato un nome non intendono reggersi più su un dato precostituito da ripetere e variare. La fluida grazia naturale, il senso dello spa zio, perfino certe asperità della materia sono ora come trattenuti, sottoposti a giudizio, e rivolti a un fine da cui è scomparso il sospetto di ogni casualità, e di ogni spontaneismo. « Througb thè looking-glass », ma non come Alice, le forme del giovane italo- australiano Vincenzo Pirruccio presentato da Gillo Dorfles con la consueta limpi dezza critica alla galleria Gastaldelli. Non come Alice, ma senza sottovalutare la coincidenza di un’origine logica, men tale. Da levigatissime lastre d’ottone cro mato Pirruccio lascia emergere forme strutturate nella stessa materia ed appar tenenti alla stessa natura rigidamente « astratta », forme dinamiche, svincolate da una pura freddezza geometrica ( sono sufficienti leggeri spostamenti di masse, di pesi, alcune torsioni, a sospingerle in una dimensione sensibile) che si rispec chiano e completano incontrando il loro equivalente simmetrico in un’alea diver sa. Tridimensionali e tuttavia sospese, concrete e ingannevoli, poiché al di là dello specchio mutano posizione con lo spostarsi del punto di vista: e in effetti suscitano nello spettatore un processo di re-interpretazione continua, si immetto no in un universo in cui la legge ottica può essere almeno in parte contraddetta. E ttore Colla: artista chiuso, lento, dif ficile, come è stato definito, e spesso malinteso, spostato da certa critica — nell’inganno àt\Yassemblage, dell’ogget to trovato, del frammento, e senza evi dentemente tener conto delle solide ori gini figurative, e di alcuni risvolti di ti po ironico-fantastico, fino a punte di grottesco — in un’area fra il dada e l’informale. La vera chiave dell’arte di Colla, come testimoniano anche le scul ture esposte alla Galleria Blu, non è ge nericamente romantica o, peggio, senti mentale; non è data (o non è data sol tanto) dalla sua capacità, comunque sem pre sobria e intelligente, senza casualità, di porre in relazione frammenti imprevi sti dislocandone altrimenti il peso allu sivo d’origine fino ad una nuova e scat tante creazione che atterrebbe al surreale, ma è in una disciplina ferma, attenta, in un controllo tecnico e concettuale conti nuo e raffinatissimo. Per quanto fanta stico e libero, il suo procedere è medi tato, il suo fine è una sorta di ordine: nettezza espressiva, solidità equilibrata dell’unità immagine-materia, senza proie zioni spontaneistiche. Il suo selezionare elementi discordi non è rivolto a sugge stioni sospettabili di stupori barocchi, ma ad una ricostruzione del perduto qua si in termini di nuova, assoluta ed auto noma funzionalità. Nel testo che Sand- berg gli dedica in catalogo si legge fra l’altro: « la verdure reprend son domai ne / l’herbe, la broussaille renaît / par mi la matière morte, inutile... l’oeil créa teur de l’artiste / y reconnaît une utilité nouvelle... ». Se in certi rilievi in ferro policromo eseguiti attorno al 1960 può emergere una tentazione vagamente in formale, di sensibilizzazione pittorica del la materia, è con opere più apertamente plastiche che Colla riesce a fondere i due aspetti caratteristici del suo modo di aggredire, intervenire, mutare; uno più sottilmente lucido-simbolico, l’altro più fermo, tendente al metafisico per la sua spoglia assolutezza. E potrebbe essere il caso, per quanto riguarda questa mostra, di opere come Ratto d’Europa (Piccolo Saturno) del 1960-61, con quell’interse- carsi di piani con accenno al « mobile », come Giocoliere (1959), derivante da un paniere sferico a due valve per l’estra zione dei numeri del lotto, prelevato e modificato in forma sferica. Mentre si pone sull’altro versante, con decisione, un’opera come Carro solare ( 1961 ), che pur restando quasi puro reperto, senza interventi vistosi, si pone ad immagine convogliante un imprevisto e convincen te sapore arcaico. Roberto Sanesi A B e l g r a d o l F e s t a p r e i e o a R u b l i o r 39 d i T u r k o r s k i j e c h i u d e c o l g l o r i o s o B u n u e l Tito Guerrim Belgrado in stato di grazia, quest’anno. Anche per il clima: la temperatura non è scesa quasi mai sotto lo zero, il vento gelido che normalmente si abbatte sulla città ha preferito stavolta restarsene las sù, tra i Carpazi, c’è stata soltanto una spolverata di neve, mezz’ora o poco più. Il Pesi, poi, o Festival dei Festivals ha aperto bene e chiuso meglio: il film di inaugurazione è stato qu&WAndrej Ru- bliov di Andrej Tarkovskij che, realizza to sei anni fa, ha girato più o meno per tutte le rassegne cinematografiche d’Eu ropa, da Cannes a Sorrento a Roma, ma non ha ancora visto la luce nel suo paese d’origine, l’Unione Sovietica. La sua pre sentazione a Belgrado sta forse a signifi care che la cosa si verificherà a breve scadenza? C’è da augurarselo, natural mente: ché il Rubliov è un gran bel film e il Tarkovskij regista genialissimo e, quel che più conta, « personale ». Il film di chiusura è stato l’opera più recente di quel maestro che risponde al nome di Luis Buñuel, Le charme discret de la bourgeoisie, presentato al festival di New York. Ed è stato ancora una vol ta, come sempre capita alle opere d’arte, vittima di un compromesso che ha viste verificarsi la sua proiezione ad ora tarda, cioè dopo quella di Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy: conditio sine qua non per poter contare sulla pre senza di Alberto Sordi a Belgrado. L’Al- bertone nazionale comunque è arrivato, tutti contenti, organizzatori e pubblico, e il povero grande Buñuel relegato in seconda serata. Non fa niente, così va il cinema: solo che il film del maestro spagnolo lo hanno visto in pochissimi. A parte queste trascurabili ( ma non tanto) discrepanze, il « Fest » belgra dese è riuscito ad ottenere, con un anno di ritardo, Morte a Venezia di Luchino Visconti: sicché il pubblico jugoslavo ha potuto finalmente visionare quello che, a mio avviso, è il capolavoro del nostro grande regista. C’è stato anche A Clockivork Orange di Stanley Kubrick, che naturalmente ha riscosso larghissimi consensi, ci sono stati Salmo rosso di Jancsó, Cabaret di Bob Fosse, The Devils e Savage Mes- siah di Ken Russel. Né potevano mancare nell’ambito di que sto festival, che è essenzialmente una rassegna per il pubblico, opere come The Godfather di Francis Ford Coppola, Klute di Alan Pakula e, perché no?, anche Domare il fuoco del sovietico Da- njil Habrovitzki. Di un certo interesse, ma sempre ai mar gini, il rumeno Moartea lui ipu, il fran cese L’aventure c’est l’aventure, l’ame ricano Slaughterhouse 5, il nipponico Gunki hatameku motoni e qualche altro. Massiccia, di converso, la partecipazio ne della cinematografia italiana che, ol tre al capolavoro di Visconti, ha presen tato una selezione comprendente La classe operaia va in paradiso di Elio Pe tti, Il caso Mattel di Francesco Rosi, Mimi metallurgico ferito nell’onore di Li na Wertmuller, Questa specie di amore di Alberto Bevilacqua e Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy. Ad es sere sinceri il film che, oltre a quello di Visconti, ha ricevuto i maggiori con sensi di pubblico e di critica è stato quel lo di Bevilacqua. Gli jugoslavi, in altri termini, hanno dimostrato molto più buon senso di quanto non dimostrarono i francesi a Cannes nel maggio dello scorso anno, esimendosi dalle sperticate lodi quivi elargite ai film di Petri e Rosi e definendo La classe operaia un buon film ma certamente inferiore ad Indagine, e II caso Mattel un volente roso pamphlet più che un film vero e proprio. Personalmente mi sono offerto la possi bilità di una verifica, rivedendo Questa specie d’amore di Bevilacqua: una ve rifica che ha riconfermato gli indubbi pregi (e anche certi congeniti limiti) dello scrittore regista. Mimi e il Detenuto hanno creato mol to buon umore: né, probabilmente, il pubblico belgradese s’è affannato trop po alla ricerca dei reconditi significati nascosti nelle due commedie: problemi del genere ce li creiamo soltanto noi e, purtroppo, sempre a posteriori. All’attivo di questo « Fest 73 » resta co munque, come già nelle passate edizioni, l’entusiastica adesione del pubblico, un pubblico che accorre numerosissimo alle proiezioni, un pubblico che non teme di ingoiare, dal primo mattino fino a notte alta, chilometri e chilometri di pellicola. Lasciando da parte ogni considerazione critica, si ha la sensazione netta, e assai piacevole, che il cinema, qui, è veramen te un fatto popolare. Tito Guerrini Dal film di Claude Lelouch « L’aventure c’est l’aventure ». In basso, a sinistra, dal film di Serghiu Nicolescu: « Moartea lui ipu »; a destra, dal film di Tarkovskij: « Rubliov ». g r u p p o s t e i S tet Società Finanziaria Telefonica p.a. - Sede Legale: Torino Direzione Generale: Roma - Capitale L. 225.000.000.000 Société Financière pour les Télécommunications et l'Electronique S.A. Lussemburgo - Capitale S 5.000.000 a ttiv ità di teleco m u nicazioni Sip - Società Italiana per l'Esercizio Telefonico p.a. - Torino Direzioni Generali: Roma, Torino Capitale L. 500.000.000.000 Italcable - Servizi Cablografici, Radiotelegrafici e Radioelettrici S.p.A. Roma Capitale L. 18.000.000.000 Telespazio - Società per Azioni per le Comunicazioni Spaziali - Roma Capitale L. 2.400.000.000 Radiostampa - Società per Azioni - Roma Capitale L. 90.000.000 a ttiv ità di produzione e ricerca per le teleco m u nicazioni e l ’e le ttro n ica Società Italiana Telecomunicazioni Siemens - Società per Azioni - Milano - Capitale L. 11.500.000.000 Eltel - Industria Elettronica Telecomunicazioni S.p.A. - Palermo Capitale L. 1.000.000.000 Siemens Data - Società per Azioni - Milano Capitale L. 4.000.000.000 Selenia - Industrie Elettroniche Associate S.p.A. - Napoli Capitale L. 11.250.000.000 Vitroselenia - Società per Azioni - Roma Capitale L. 175.000.000 Elettronica San Giorgio - Elsag - S.p.A. - Genova Sestri Capitale L. 500.000.000 Interurbane S.p.A. - Milano Sirti ■ Società Capitale L. 5.500.000.000 S.T.S. S.p.A. - Consorzio per Sistemi di Telecomunicazioni via Satelliti Milano Capitale L. 1.500.000 S.G.S. - Società Generale Semiconduttori S.p.A. - Agrate Brianza (Milano) - Capitale L. 6.250.000.000 Ates Componenti Elettronici - Società per Azioni - Catania Capitale L. 2.000.000.000 Cselt - Centro Studi e Laboratori Telecomunicazioni S.p.A. - Torino Capitale L. 150.000.000 Italiana Reti Telefoniche a ttiv ità a u silia rie e com plem entari Seat - Società Elenchi Ufficiali degli Abbonati al Telefono p.a. - Torino Capitale L. 1.000.000.000 lite - Industria Libraria Tipografica Editrice ' S.p.A. - Torino Capitale L. 3.400.000.000 Seta - Società Esercizi Telefonici Ausiliari p.a. - Roma Capitale L. 5.100.000.000 Salat - Società Attività Immobiliari Ausiliarie Telefoniche p.a. - Torino Capitale L. 600.000.000 Fonit Cetra - Società per Azioni - Milano Capitale L. 300.000.000 Emsa - Società Immobiliare p.a. - Torino Capitale L. 2.100.000 Partecipazioni nella Rai, nella Italsiel, nella Senn, nella Coniel ed in altre Società. 18 L o Schiaccianoci è un balletto difficile perché ha avuto gestazione e vita dif ficili. Non staremo a farne l’intricatis sima storia, ma il fatto di scrivere sul programma del Teatro dell’Opera, ove si è rappresentato nel corso della sta gione lirica, alcuni degli autori principali che ci hanno messo le mani (Petipa, Vainonen, Grigorovic, Prebil, trala sciando inspiegabilmente due dei più di retti creatori: Ivanov e Gorsky) impe gna in un certo senso il coreografo della nuova versione, Zarko Prebil, il quale poi se n’è andato per la sua strada e ha fatto come gli pareva meglio. Egli ha complicato e al tempo stesso T e r a b u s t ^ r i v e l a z i o n e l a Alberto Testa Il balletto « Schiaccianoci » di Ciaj- kovskij con Elisabetta Terabust e Al fredo Rainò. In chiusura, Elisabetta Terabust. semplificato, stranamente, le cose. Le ha complicate da un punto di vista della messinscena, e semplificate eliminando le molte riposte significazioni che pur devono balzare fuori dal celebre rac conto di Hoffmann. Non è abbastanza chiaro, per esempio, il concetto del tra sferimento nella mente della bambina Mascia dello Schiaccianoci-giocattolo in oggetto trasformabile del proprio amore (dalla realtà al sogno e viceversa). Pre bil ha preferito raccontare la fiaba senza implicazioni oniriche o freudiane che al tri coreografi in tempi recenti hanno tentato, anche con felicità di risultati. Già fu detto lo scorso anno, in oc- spettive didattiche e più vaste cono scenze. Certo è sorprendente come essa abbia lavorato la sua estensione dorsale che è prerogativa della scuola sovietica (un insegnamento venutole da Prebil) se non esistesse ancora qualche rigidezza nelle braccia e qualche atteggiamento di maniera che vorremmo vederle scompa rire del tutto. Inoltre ci ha fatto assi stere a qualche preziosità d’ordine tec nico come i quarti di giro sviluppati in écarté (c’è ancora qualcuno che si oc cupa di queste cose?). Accanto a lei Alfredo Rainò, come Prin cipe, è stato assai bravo, senza strafare, con eleganza, leggerezza, buon gusto, simpatia che il pubblico gli ha ricam biato. Non è un partner formidabile, ma è corretto. Spiace addivenire, anche contro voglia, a dei confronti, ma Attilio Labis, chiamato per due rappresentazio ni a rimpiazzarlo, non ha entusiasmato casione delPallestimento di Cenerentola, e non sarà male ripeterci per chiarire anche questa volta la costruzione di un balletto. Zarko Prebil è certamente un ottimo didatta, un perfetto riproduttore del repertorio (basti pensare alla sua Giselle, la migliore che circoli oggi in Italia) ma poco incline a ricrearlo e a vivificarlo. Le cose procedono bene quando si tratta di realizzare qualche coreografia illustre, meno bene per ciò che concerne la « spiritosa invenzione » di goldoniana memoria. Egli, evidente mente, non ama i grossi colpi di scena, le bizzarrie e tanto meno gli scossoni, tutto scorre piano e tranquillo, sembra che la caratterizzazione non gli interessi (interessa però a noi) tant’è vero che il gustoso personaggio di Drosselmeyer, pur con il bravo Giancarlo Vantaggio, risulta soltanto un abbozzo di carattere, ma non si capisce bene che cosa sia e che cosa combini, mentre in effetti egli, mezzo parente, mezzo mago, intero deus ex machina, manovra non solo i fili dei burattini ma anche quelli della vi cenda e di un sogno sempre oscillante tra la visione e la realtà. Egli è stret tamente legato non tanto alla danza ac cademica, sospettabile sempre di rinno vamenti, quanto alla danse d’école, tant’è vero che la sua coreografia è tutta intessuta di passi e figurazioni del re pertorio. Non gli si nega abilità, me stiere, conoscenza, ma il suo disegno si limita ad essere secondo canoni ben precisi e prossimo alla fossilizzazione; non se ne scoprono di sotto i rivolgi menti, i ripensamenti, il substrato, un lavoro di superficie. Una superficie cer tamente levigata quando non scintillante ma le sorprese sono pochine e ci si chiede se forse non sarebbe stato meglio restare aH’originale tout court. Insom- ma, pare ormai inutile chiedergli quello che non vuole o non può dare. I solisti sono buoni, trasformati a tratti dal lavoro del maestro, ma il corpo di ballo non lo è altrettanto perché il lavo ro, pur accurato, evidentemente non po teva e non può essere sufficiente a lima re le molte asperità che si frappongono con la stasi forzata, l’indolenza che è il nemico numero uno dei complessi stabi li, senza un direttore e un maestro fisso del ballo. La più grossa sorpresa dello spettacolo è rappresentata da Elisabetta Terabust, aggraziata, fanciullesca, raggiante nel de siderio e nel sogno come si conveniva. Se di passi sempre si parla per una danzatrice, essa ne ha fatti molti, ma di uno o di altri la consiglieremmo: ten tare il suo grande volo verso palcosce nici internazionali, verso più ampie pro- e il porteur, forse in periodo di super lavoro o di stanchezza, non ha brillato particolarmente. I solisti meritano essere ricordati tutti: Elpide Albanese, una bambola adorabile che si cullerebbe volentieri sulle nostre ginocchia; la Parrilla, fuoco guizzante inseguita da Tuccio Rigano; il Venditti, efficace sia negli scatti marionettistici del Soldatino come in quelli caratteri stici del russo, ancora con l’Albanese; Diana Ferrara, levigata come una por cellana dalla tecnica limpida e sicura con il Terzoni nel quadro dei Pastori (che è poi la celebre Danza dello zufolo o dei flauti di canna ) ; Alvero Marocchi e la Truglia, graziosissimi cinesi, la Tes sitore e Rigano vivaci spagnoli, la si nuosa Cristina Latini, con il De Santis, nella Danza Araba. Mario Giorsi, scenografo e figurinista, ha seguito pari passo, con molta fedeltà, il coreografo e ha composto un quadro scenico adeguato all’azione con alcune nuove soluzioni indovinate e gradevoli, come le fughe architettoniche sghembe del salone e l’albero natalizio che sale dal di sotto del palcoscenico con le sta tuine dei personaggi che gli si profilano contro, qualcosa tra l’incubo e la distor sione di una lente onirica. Un po’ carente di inventiva nel primo atto, il balletto si è poi risollevato nel secondo con i pezzi solisti, il passo a due, la variazione della Fata confetto e con una coreografia tutta nuova (si è talmente abituati agli originali!) ma le apparizioni dei Topi, imperversanti, sono un po’ troppo insistite senza un mo vente che le giustifichi. Carlo Frajese si è comportato a dovere, al suo solito, con l’amore e l’entusiasmo che gli riconosciamo da tempo nella di rezione orchestrale dei balletti. Bastano le cinque dita di una mano (forse avan zano) ad indicare quei maestri che han no capito l’estrema difficoltà e l’impor tanza nella direzione di una partitura ballettistica, non solo come direzione volta agli strumentisti con il naso sul leggio e la testa ballonzolante su di loro, ma l’occhio vigile e desto a quanto suc cede sulla scena per gli attacchi, i tempi, le pause, gli stacchi e chi più ne ha più ne metta (sembra davvero che egli co nosca tutti i segreti di un simile com pito delicatissimo). Proprio così: un in dice di consapevolezza ma anche, se per mettete, di civiltà artistica. Teatro pieno ad ogni replica e cascate di applausi dall’alto (le eterne gallerie! ), non dalla platea, al solito imbalsamata (io, non so come, l’eliminerei...). Alberto Testa A b b o n a m e n t i a E d i z i o n i I h e Pierre C ourthion FELICE FILIPPINI L. 20.000 Guido Ballo FONTANA: IDEA PER UN RITRATTO Guido Ballo DE PISIS L. 20.000 L. 25.000 Testim onianze d ire tte sulla vita e sulle opere di BEETHOVEN in 3 volum i Le le tte re di Beethoven I quaderni di C onversazione di Beethoven C atalogo tem a tico d e lle opere di Beethoven Prezzo d e ll’opera com pleta in elegante cofanetto (In lingua francese) • Les le ttre s de Beethoven Traduzione di I. C huzeville Em ily A nderson Georg Schünem ann G iovanni Biam onti Em ily A nderson Fernand M ery IL CANE. Il suo m iste ro Fernand M ery IL GATTO. V ita sto ria magìa A ugusto Pedrini A ugusto Pedrini IL FERRO BATTUTO sbalzato e cesellato in Italia dal secolo XI al secolo XVIII IL M OBILIO Gli ambienti e le decorazioni nei secoli XVII e XVIII in Piemonte BRASIL D ip in ti di C andido Portinari C ASANO VA A VENEZIA DOPO IL PRIMO ESILIO L. 16.000 L. L. 8.000 8.000 L. 14.000 L. L. 7.500 1.500 L. 2.000 Annuo per l ’Italia L. 10.000 Rinnovo abbonam ento L. 8.500 S em estrale per l ’Italia L. 6.000 Annuo per l ’estero L. 13.000 Rinnovo abbonam ento L. 10.000 Ogni num ero (in Italia) (a ll'e ste ro ) N um eri a rre tra ti (in Italia) (a ll’estero) L. L. L. L. 1.000 1.250 ■ 1.200 1.500 Gli abbonamenti si sottoscrivono fa cendone richiesta a: ILTE, corso Bra mante 20, 10100 Torino. A G L I A B B O N A T I Gino D am erini D E “ I L D R A M M A ” S C O N T O S P E C I A L E d e l 1 0 % sui prezzi di copertina di tutte le pub blicazioni ILTE. Farne richiesta diret tamente a: ILTE, corso Bramante 20, 10100 Torino. Hans Ch. A ndersen RACCONTI Carlo C ollodi LE AVVENTURE DI PINOCCHIO I CAPOLAVORI DEL TEATRO EUROPEO Ibsen Dumas M olière L. 5.000 L. 4.000 L. 4.000 Shakespeare S trindberg W ilde L. 4.000 L. 4.000 L. 4.000 A S i e n a u n n u o v o e i e l o d i C a r l a T o l o m e o Mario De Micheli S embra che la dote essenziale di Car la Tolomeo sia la spontaneità: la sua pittura infatti è di un fresco e sorpren dente incanto, appare sulla téla con tra sparenza e immediatezza. Ma di quale natura è fatta tale spontaneità? La domanda è legittima. A guardare i suoi quadri — qui alla Galleria Jacopo della Quercia di Siena, diretta da Car lo Passaro — non si può fare a meno di formularla perché non è certo dif ficile accorgersi di come, dietro la fra granza delle sue immagini, sia sottesa una trama sottile e pungente d’inquie tudini, di apprensioni, d’impulsi felici e d’improvvisi sgomenti; di come cioè una simile spontaneità sgorghi da una intima profondità esistenziale dove ogni accadimento, ogni incontro con la vita, ogni dolore e ogni gioia è stato vis suto, stemperato e filtrato con strug gente intensità, con amore dolente o con limpida passione. Ecco: è di qui che germogliano sullo schermo delle sue tele i colori dei suoi giardini o che si annunciano come apparizioni i suoi per sonaggi. Il merito di Carla Tolomeo è quello di restituire la complessità emotiva del la sua vicenda interiore attraverso una operazione di grazia poetica che riesce a custodirne la ricchezza senza i sofi smi di un esercizio formale. E questa è pure la ragione per cui i suoi quadri, nella spontanea purezza della loro enun ciazione plastica, coinvolgono una così folta presenza di suggestioni, di nostal gie e desideri, di trepidazioni e ab bandoni. Per qualche aspetto, Carla Tolomeo può ricordare la fragilissima e tenace aman te di Apollinaire, la Marie Laurencin, ma con in più un brivido, una tenera e ansiosa allucinazione, talvolta addirit tura con l’affiorare di un panico re carla Tolomeo: dal ciclo « Le ombre, la sera », n. 3 (1973). Nella pagina seguente, dallo stesso ci clo, n. 7 (1973). moto, di un remoto strazio dell’anima. Gli alberi s’accendono di fosforescenze, i crepuscoli si perdono in cieli ondeg gianti di viola e smeraldi, dentro cui reclamano dolcemente amore e pietà i protagonisti di un racconto lirico ef fuso, quasi fantomatico, e tuttavia così irretito nell’ordito dei nostri giorni: di questi simboli figurativi si giova Carla Tolomeo per trasmetterci i motivi dei suoi rapporti col mondo e con gli uo- mini. Il suo pregio è quello di sfug gire alle circostanze frettolose dell’ag giornamento per una scelta consapevole della propria verità, dei propri modi, delle proprie inclinazioni espressive. Ed è un pregio che mantiene misura e ri gore in quella dote, appunto, di par ticolare spontaneità che resta fondamen tale per la sua pittura. Da questo punto di vista bisogna dun que dire che la ricerca di Carla Tolo meo si svolge in una dimensione dav vero autonoma, dove ispirazione, fan tasia e linguaggio coincidono natural mente, e coincidono in un risultato che nell’ evidenza palpitante dell’ immagine trova il suo vivo e conseguente potere di persuasione. Mario De Micheli R i t r a t t i n o d a l v e r o d i R a t i t i R i c c i a r e l l i Gian Galeazzo Severi IC atia Ricciarelli è, per concorde giu dizio di pubblico e di critica, il nuovo astro che sorge sull’orizzonte melodram matico, la nuova primadonna che potrà, si dice, esser degna se non maggiore di quelle che l’hanno preceduta. Incre dibile a dirsi, in un secolo come questo: il melodramma, che tutti davano per scontato come spettacolo sin dalla fine del secolo scorso, vive ancora abbastan za da « far notizia », nell’era nucleare, nell’era delle rivoluzioni a catena, delle contestazioni e, insomma, del tramonto del vivere borghese, e da attrarre l’at tenzione di un pubblico assolutamente diverso da tutti quelli che erano pub blico nei secoli precedenti sui suoi per sonaggi più squillanti che sono le pri medonne e i tenori. Ma soprattutto le primedonne. Sono soltanto di ieri le chiassate dei giornali e dei fotografi intorno a due eroine del palcoscenico lirico. L’epoca di quei frastuoni, di quelle chiacchiere, di quelle spesso indiscrete interviste è appena passata. Chi scrive ricorda, tanto per fare un esempio, la carica furiosa, una vera carica di bisonti, dei fotografi, l’ultima volta che la Callas cantò alla Scala. Polizia dappertutto, carabinieri di guardia alle porte, il principe e la prin cipessa di Monaco quasi travolti, nel l’ingresso del teatro, guidati da un Ghi- ringhelli che fendeva davanti a loro la folla, raccomandandosi a tutti. In palcoscenico, dove il sottoscritto aspettava quella che era stata sempre una buona amica, la carica dei fotografi fece paura a me e a quelli che erano con me. E si trattava — ai miei fianchi, se non con me — di Gianni Agnelli, di Aristotele Onassis, della duchessa Acquarone, nipotina di Toscanini, e di molti altri illustri personaggi, e — con me — di una nobile amica. Nemmeno nel corso di una corrida per villici di lettanti, in un villaggio dei paesi baschi, si vide mai una furia così tremenda. Chi scrive raggiunse a fatica la diva che stava sola nel suo camerino con il vi sconte di Harewood, cugino della regi na d’Inghilterra. Questo è accaduto non molti anni fa quando ormai la gloria del secolo veniva riservata esclusivamente agli atleti, ai grandi industriali e ai rivoluzionari di professione. E, non molti anni prima, ho veduto io stesso una folla spiritata spin gere a mano l’automobile di Renata Te- baldi dalla Scala all’albergo Continental; dove la aspettavano per un pranzo, la sera del suo trionfale ritorno al massi mo teatro lirico milanese. Ora queste cose, se documentano quel fenomeno terribile che è la celebrità nel mondo in cui viviamo — il mondo dei giornali, della televisione, della radio, dei foto grafi — non hanno nessun rapporto con la musica, per sè stessa: piuttosto do cumentano un fatto incomprensibile in questo secolo, cioè la sopravvivenza co me eroi, o tra gli eroi, del nostro tempo dei personaggi del palcoscenico lirico. Gli stessi furori, a Milano1, dei tempi in cui la Scala era frequentata dal Fo scolo o da Stendhal si sono ripetuti nel l’era nucleare, nell’era della rivoluzione contro la borghesia, che della Scala ave va fatta la sua più sontuosa roccaforte mondana. Dunque il melodramma, non si sa come, è ancora uno spettacolo at tuale, pure con la sua estrema impro babilità spettacolare, fondata dichiarata- mente sul falso, perché, come anno tarono parecchi illustri scrittori, tra i quali Lev Tolstoi, è inconcepibile una azione drammatica che si esprima sol tanto attraverso il canto, dove la gen te vìve, combatte e muore sempre can tando. Il melodramma non è credibile, anzi il suo vero fascino consiste proprio nella sua incredibilità. Pubblici smaliziati co me quelli del nostro secolo, abituati a tipi di spettacolo estremamente «veri», anzi troppo veri, come quelli del cine matografo — che non esisteva ai tempi del massimo fiorire del melodramma, — accettano tuttavia il teatro musicale; e le statistiche rivelano che l’affluenza di spettatori nei teatri lirici è grande e costante, tanto nei paesi a regime capi talistico quanto in quelli a regime co munistico. Le incredibili e inverosimili storie raccontate in musica da autori come Verdi e Puccini continuano ad essere valide; e i mediatori di queste sto rie musicali, direttori d’orchestra, pri medonne e tenori, continuano ad essere personaggi « sulla cresta dell’onda », an che oggi. L a giovane Katia Ricciarelli si affaccia a questo mondo di sopravvissuti furori ed amori, con buoni, anzi ottimi, nu meri per dominarlo, per diventare una nuova regina. E’ nata a Rovigo, ha 26 anni. Si presentò quattordicenne a Iris Adami Corradetti, una celebrità lirica tra il 1935 e il 1945, dichiarando di voler diventare una grande cantante. Di cono che chi vuole fortemente una cosa finisce per ottenerla. Il che, senza ta lento, serve a poco, ma comunque a conquistare nel mondo un posto supe riore al proprio talento; ma, quando il talento è vero e magari grande, conduce al trionfo d’un’artista, al di là del suo stesso temperamento d’artista, il quale, di solito, è nemico del chiasso e persino del successo. Aspettando senza fretta la sua ora, la giovane Ricciarelli ha fatto, mentre con tinuava i suoi studi musicali, l ’elettrici- II soprano in una scena di « Gio vanna d’Arco » di Verdi. sta in una fabbrica di giradischi e la commessa in un grande magazzino. E’ entrata a 18 anni in Conservatorio, a Venezia, dove si è diplomata con tutti i punti e la lode. E di qui cominciano i successi: vinto il concorso Aslico di Milano, debutta nel 1969 come Mimi, nella Bohème di Puccini, a Mantova; vince il concorso internazionale Giovani Cantanti a Parma, nel 1970, e viene scritturata per due recite del Trovatore al famoso e temutissimo Teatro Regio di quella città. Si iscrive al concorso « Nuove voci verdiane » indetto dalla Rai (1971) e si presenta così a un pubblico che comprende milioni di per sone. Vince anche questo concorso. In quel momento l’abbiamo ascoltata tutti, compreso chi scrive, il quale non l’aveva mai sentita nominare. E tutti ci siamo detti che la vittoria era meritata. Gli apologeti — perché ci sono già — dicono che la vittoria alla Rai ha fatto capire che la Ricciarelli era qualche co sa di più e di meglio di una brava can tante giustamente premiata: era la can tante attesa da anni. Questo mi pare un po’ eccessivo. Ma è pur vero che le ultime primedonne famose, se ci avevano affascinato con le loro qualità, ci aveva no1 anche non poco infastidito coi loro difetti musicali e non musicali. Le cose sono a questo punto: sono usciti dischi di cui uno degno d’atten zione, l’Omaggio a Giuseppe Verdi, che ha avuto, pare, un grosso successo. Io l ’ho sentito e l ’ho trovato molto inte ressante. La Ricciarelli ha cantato alla Fenice di Venezia, all’Opera di Roma e altrove. E’ impegnata a Torino, alla Scala, a Verona, sta impegnandosi col Covent Garden di Londra, con l ’Opéra di Parigi, col Metropolitan di Nuova York e con altri teatri. E nata la nuova stella. La ex-elettricista e commessa, co me aveva freddamente voluto, è diven tata una grande cantante. E dopo questo curriculum mondano, del quale il principale ingrediente è il suc cesso — ma il successo non è elemento determinante di giudizio artistico, piut tosto di giudizio psicologico, perché l’ar te di aver successo, difficilissima del re sto, non è ancora la riprova d’un vero talento — chiediamoci dunque se la Ricciarelli sia o non sia un’artista vera. E’ un’artista vera, cioè un’artista che crede in ciò che fa e che il buon Dio ha dotata d’un talento non comune. Un’ artista che, essendo agli inizi, non è sta ta ancora guastata dalla fortuna, dagli onori, dalle acclamazioni, dal danaro e dagli adulatori. Un’artista che sa ancora distinguere il vero dal falso, l’importan za della musica e la poca importanza di tutto il resto. Le cose stanno così ora, ma non dure ranno così. Oggi noi ascoltiamo una cantante troppo giovane ancora e troppo poco lodata ancora, la quale, per questa ragione, non osa ancora permettersi ca pricci e stranezze, così comuni a tutti gli « arrivati » e in particolare alle prime- donne. Ma anche la Ricciarelli, se la sua carriera mantiene quanto promette il suo debutto, finirà per guastarsi, anzi per essere guastata, e riavremo una tipica primadonna estrosa, capricciosa, altez zosa che, come hanno coscienziosamente fatto tutte quelle che l’hanno preceduta, crederà d’essere la musica in persona e tratterà con degnazione direttori d’or chestra, registi, scenografi e critici. Ecco perché il passaggio della signorina Katia Ricciarelli sul meridiano della ce lebrità va fermato a questi suoi primi anni di gloria, almeno per chi ama la musica. Perché sono questi gli anni in cui noi avremo il meglio di lei, come avevamo avuto il meglio della Callas e della Tebaldi quando ancora erano so spese tra la notorietà nazionale e la glo ria mondiale. Il pii professionnel esiste anche per le primedonne; e gli incensi hanno sempre fatto molto male agli artisti. Ascoltando il suo disco verdiano noi sia mo sorpresi da quelle qualità vocali che la porteranno lontano, ora che si accop piano a un nome già noto: ma soprat tutto ci sentiamo commossi dalla buona fede, dall’impegno, dalla modestia e dal la prudenza del suo canto. Perché ora l’artista sa che deve ancora persuaderci: tra poco non se ne curerà più. Una vol ta stabilito il tabù del suo prestigio mondiale, potrà fare tutto quello che vuole, se non proprio in Italia, paese difficile e, insomma, intelligentissimo, certo in quasi tutti gli altri paesi, so prattutto in America dove un nome af fermato non può più venir scalfito da dubbi. Non ci resta che formulare per la Ric ciarelli l’augurio, piuttosto vano, di non dimenticare la musica. Che non si dica di lei, come si disse « la Quinta di To- scanini » ( e non di Beethoven ), « la But- terfly di Karajan », o « la Tosca di De Sabata », anziché di Puccini, « Il Corsa ro della Ricciarelli », o « la Bohème o il Lohengrin della Ricciarelli ». Che, donna d’oggi, cerchi di smentire il mito ormai insopportabile del primadonnismo che fu piaga dei secoli andati. Gian Galeazzo Severi C on un titolo piuttosto generico, Me lanconie petroliniane, desunto da un mo nologo dell’attore romano, la Columbia dopo anni di inspiegabile silenzio ha pubblicato tre dischi microsolco con qua si tutte le registrazioni effettuate da Etto re Petrolini a cavallo fra il 1920 ed il 1930. Non è ancora un’operazione totale, ma si tratta pur sempre di una fetta so stanziosa e ghiotta, appetibilissima se si pensa che di Petrolini ( spariti da tempo i vecchi 78 giri) era stato pubblicato nel lontano 1957 uno striminzito 45 giri con Cantante de strada, Gastone e Gi- getto er bullo, che appaiono di nuovo in questa antologia. Rispetto alla produzio ne originaria a 78 giri mancano ancora, fra gli altri, Il conte d’Acquafresca, Sere nata n’ Trastevere, L’Ave Maria, Canzo ne a Mina, Serenata pedestre, Lavannare, Le sigherare e Afjaccete Nunziata. Il felice rilancio (sembra che le vendite dei tre microsolco abbiano registrato lu singhieri risultati) è dovuto in gran par te allo strepitoso successo di Nino Man fredi che presentò una canzone di Petro lini, Tanto pe’ carità, quale ospite d’ono re durante un recente festival di Sanre mo. Il caso, piuttosto che un preciso in tento di « politica » culturale, ha tratte dall’oblio e dalla polvere del tempo la voce di uno degli attori più completi ed intelligenti che siano apparsi in Italia negli ultimi cinquant’anni. Quali sentimenti e quali emozioni prova chi non ha mai visto Ettore Petrolini, come accade al sottoscritto, dal vivo? Quali forze entrano in gioco nell’avan- zare un giudizio che investe non soltanto l’attore ma anche l’autore? E come col locare uno « sconsacratore » così convin to e tenace nell’area sociale e politica di un’epoca che tendeva a scopi opposti, cioè alla esaltazione indiscriminata, alla mitizzazione, ad un ridicolo ed anacro nistico culto della personalità? Dissa cratore di tutto e di tutti (perfino di se stesso) come si « arrangiò » Petrolini nel mondo in cui doveva operare? La rispo s i g r a n r i t o r n o d i P e t r o l i n i Antonino Buratti sta forse giunge proprio da questi di schi: i reperti cinematografici sono scar sissimi, riducendosi in pratica alla « Pe- trolineide » ( collage dei film sonori gi rati dall’attore: Nerone, Cortile, Il me dico per forza ) ; mentre della vivifican te attività teatrale restano soltanto aridi e muti copioni che riflettono appena in parte l’umore, l’estro e l’arte di un atto re che lasciava largo margine alla battu ta estemporanea, all’improvvisazione. Questi dischi sono, quindi, un fatto es senzialmente fonico e sonoro. Tutto pog gia sulla voce di Ettore Petrolini, una voce che egli usava come uno strumen to, come una tastiera da cui trarre di volta in volta suoni gravi o squillanti, teneri o ironici, languidi o sarcastici. La sua dizione è come una composizione musicale: in fa maggiore, in do diesis minore, in si bemolle, in re e così via. Il tutto sorretto e guidato da una specie di basso continuo rappresentato da una smorfia perenne e da uno sghignazzo sempre in agguato, specie di cane da guardia che indica in ogni momento la giusta direzione del frizzo, il risvolto di una battuta falsamente sentimentale. Questa particolarità della voce è tutto quello che ci rimandano (oltre i testi) i tre dischi: potrebbe sembrare poco pensando al gesto di Petrolini, al suo naso che tentava perennemente un im possibile matrimonio con le sottostanti affilate labbra, al suo incedere a balzel- loni come un povero idiota. Ed invece è già molto per chi, in base ai pochi ma teriali fotografici e cinematografici visti magari di sfuggita, riesca a dare ossige no alla fantasia per ricreare un’immagi ne unica, completa di « audio e video ». L’ascolto di queste registrazioni dà ra gione, in parte, ad un’osservazione che i protagonisti di un racconto di Ernest Hemingway fanno in Tre giorni di bur rasca: « C’è sempre qualcosa che non possiamo capire » Nick disse. « Si capi sce. Ma ne sappiamo sempre abbastanza, lontani come siamo ». « Sai, si punta meglio senza vedere i cavalli ». idea consolatoria può avermi Questa « plagiato »: perché Ettore Petrolini mi è sembrato uscire dalle spire del micro solco in tutta la sua interezza, a tutto tondo: anzi tridimensionale. Dei ventinove titoli di questa antologia, soltanto uno, Roma, ha un riferimento laudatorio al regime fascita. Tutto il re sto è un continuo « tiro al piccione » con un bersaglio mai identico: la vittima è il melodramma o il cascame dannun ziano sbeffeggiato in Serenata pedestre (che speriamo sia pubblicato in un pros simo disco ) ; o contro i più « rumorosi » e scoperti uomini di penna e di pensie ro come Marinetti (Marinetti è quella cosa / che facendo il futurista / ogni sera fa provvista / di carciofi e di pa tate); né si salvano dalla pungente iro nia dell’attore romano i sacri idola come Amleto, Cirano e II paggio Fernando. Sotto il maglio della satira petroliniana passò, come in una inesorabile catena di montaggio, tutta la società del suo tem po: gli eroi strapaesani (Gigetto er bullo) i nuovi ricchi (Scenette balneari, Teopompo ai bagni), le sartine aspiranti suicide (Sotto ar portone), se stesso ( Melanconie petroliniane ). Sotto il profilo psicologico, il brano più interessante è Nerone, stralcio dell’atto buffonesco (al quale poi seguì il film) rappresentato da Petrolini verso il 1923. Non è pensabile l’ascolto di questo bra no senza ricorrere ad una lettura « in chiave » del personaggio. Dice Sandro De Feo che Petrolini massacrava, in Nerone, la « romanità di cartapesta », un mito che proprio in quegli anni era tornato in auge e trovava quotidiano alimento nelle follìe di un altro con dottiero non meno imprevedibile del lontano imperatore romano. Le battute di Nerone sembrano commentare una situazione attuale, anche nel 1930 l’ora è suprema. Dice Nerone: « Il popolo quando sente delle parole difficili si affeziona... Lo vedi all’ultimo come è il popolo? Quando si abitua a dire che sei bravo pure se non fai niente, sei sempre bravo!... Eccomi a voi tutto d’un pezzo... Io vi darò tutto, basta che non domandiate nulla. Il momento è difficile, l’ora è suprema... ». Lo spec chio era più lucido e riflettente che mai. Anni or sono, azzardai un’ipotesi che il riascolto di quest’opera quasi omnia mi ha riportato alla mente: fra Petro- lini ed il jazz esiste una consistente affi nità. A parte la curiosa coincidenza che accomuna il comico romano a Louis Armstrong (entrambi da ragazzi sono stati in riformatorio e tutti e due hanno trovato in questa prima amara espe rienza uno stimolo essenziale per il loro futuro artistico ), le linee di convergen za riguardano l’improvvisazione, il di ritto dell’autore-attore (simile in ciò a Duke Ellington che per la sua orche stra scrive titoli ad hoc e che durante tutta la sua vita ha suonato — salvo rarissime eccezioni — soltanto proprie composizioni), lo stile interpretativo an ticonformista reso più evidente da una voce sgraziata come il vibrato (così po co accademico) del clarinetto di Sidney Becket. « Petrolini — ha scritto Ghigo De Chiara — non seppe mai rinunciare (e in un certo senso fu questa la sua forza) alla più imprevedibile autonomia interpretativa... » anche quando si ci mentò con i classici come Molière: lo stesso può dirsi per Jelly Roll Morton quando riprendeva a suo uso e consu mo il « Miserere » dal Trovatore di Verdi o di Art Tatum con Humoresque di Dvorak. C’è anche un’altra pezza di appoggio: nella sua biografia, Billie Holiday ha dichiarato: « Odio cantare in maniera pedissequa... non posso eseguire uno stesso brano nella stessa maniera per due sere di seguito » e Carlo Levi scri veva di Petrolini: « Ciò che soprattutto diversifica Petrolini da ogni altro attor comico è la varietà, è la fantasia delle trovate, è — fonte eterna di comicità — l’imprevisto... In Petrolini c’è quella fresca comicità, di irresistibile comuni cativa, che dovette essere dei nostri an tichi comici dell’arte... Mai due volte uguali, questi comici ottenevano i loro più grandi successi con l’imprevisto del le loro trovate...». . Antonino Buratti „ . . “ L a s p a d a d e l l a m o r t e 39 e a l t r i g i a p p o n e s i f i l m Tito Guerrini Per noi occidentali il cinema giappo nese è poco più che ventenne: la no stra presa di contatto col film nipponico s’è verificata nel 1950, nel corso di quel la Mostra veneziana che presentò, tra la incondizionata ammirazione del pubbli co e della critica, Rasho-mon di Akira Kurosawa. Fu una vera e propria rive lazione: ci fu anche chi gridò al miraco lo del cinema nipponico. Ma, al di là di entusiasmi forse troppo facili, è cer to che il cinema giapponese ha scoper to una dimensione nuova dei rapporti tra l’uomo e il cinema, e — attraverso il cinema — ha rivelato la componente profonda della sensibilità nipponica nei riguardi della società e dell’uomo in essa. Il merito più grande di Rasho-mon, in somma, resta — al di là degli innega bili pregi artistici — quello di aver aper to alla cinematografia giapponese le por te dell’Occidente. E l’Occidente, di con verso, ha avuto modo di penetrare con maggiore profondità nel mistero d’un modo d’interpretazione della realtà fino allora riservato a pochi eletti. Si sono scoperti, cioè, non soltanto au tori di film di levatura internazionale come Kenji Mizoguchi, Keisuke Kino- shita, Akira Kurosawa, Masaki Kobaya- shi, Kimisaburo Yoshimura, ma — co sa assai più importante — si è scoperto un nuovo modo di vedere la realtà, di affrontarla, di interpretarla. Sulla scia di una rigorosa ed educatissima tradizio ne millenaria, il cinema giapponese ha saputo — nelle opere dei suoi registi migliori — leggere nel cuore dell’uomo e — con sensibilità sovente squisita — interpretarne le angosce e i problemi. Perché nel cinema nipponico, a differen za di quanto avviene nel cinema di altri paesi, non v’è nulla o quasi nulla di ca suale e di estemporaneo. Oltre che un fatto d’arte, insomma, il film giapponese è l’affermazione d’un fondamentale spirito di serietà con cui i problemi vengono sceverati e inter pretati. Lo spettatore occidentale, ad ogni mo do, era avvezzo a riguardare al cinema giapponese con una particolare forma mentis-, sicché la rassegna organizzata in dicembre dal romano Istituto Giappo nese di Cultura, in collaborazione con la « Mostra internazionale del nuovo cine ma », e comprendente vari film della più recente produzione nipponica, lo ha cer tamente interessato ed aggiornato ma an che, in un certo senso, « choccato ». Nel senso che lo ha posto di fronte alla realtà di un Giappone nuovo, un paese — non so quanto coerentemente e coscientemen te — à la page coi tempi. Non più il ci nema di Mizoguchi, Kinoshita, Kurosa- wa: ma il cinema di Nagisa Oshima, di Hiroshi Teshigahara, di Shinsuke Oga- wa, di Noriaki Tsuchimoto. Unica ecce zione, forse, La spada della morte di Tomu Uchida. Cinema verità, cinema documento, ci nema politico: al passo coi tempi, in somma. Il tipo di cinema prediletto dal la pesarese « Mostra internazionale del nuovo cinema » che, da due anni ormai, gli dedica ampio spazio. Personalmente non ho nulla contro que A N a p o l i c a o s 66I I a l c a s t e l l o 99 d i T a r d i e u Sergio Lori Esiste a Napoli un piccolo teatro spe cializzato in spettacoli d’avanguardia. Si trova in un vicolo al centro della città, ed è sede dell’Ente Teatro Cronaca, il cui animatore è il regista-autore Mico Galdieri: è il teatro Orione, dove è stato presentato, in « prima », un singo lare spettacolo, già replicato con grande successo a Bologna, a Verona, a Cata nia. E la tournée continua. Lo spettacolo s’intitola II caos al castello (riduzione di C’era folla al castello ), due tempi di Jean Tardieu, regia di Gerardo D’An drea, protagonisti Leopoldo Mastelloni e Ida Di Benedetto. « Di Jean Tardieu si possono dare scar se notizie — afferma il regista — non ha precedenti penali come Genêt o avven turosi come Adamov. La sua vita privata interessa a lui solo. Ma che cosa è il teatro di Tardieu? Innanzi tutto è un teatro di protesta misto a pietà e que sta, a sua volta, mista a ironia. Egli esamina i rapporti tra individuo e so cietà senza circoscrivere il suo interesse a questa situazione contingente, ma toc cando il lato brutale della ’’situazione umana” . Secondo Tardieu, la brutalità non è soltanto degli uomini, ma essi, spesso ne sono le vittime... In più, in Tardieu, c’è tutto un mestiere specifica tamente tecnico acquisito negli anni pas sati alla radio francese come direttore dei programmi di prosa del Club d’essais radiophoniques. Sarà così largamente spiegato certo suo virtuosismo fonico... ». Il caos al castello può essere considerato come uno sconcertante ma esemplare saggio di umorismo nero: è una sorta di « giallo » sintetico in chiave farsesca, i cui elementi grotteschi vengono ancor più esasperati nella serrata e spiritosa regia del D’Andrea, che si avvale di due giovani e spigliati attori ognuno dei quali sostiene tre diversi ruoli travestendosi e mutando personalità in pochi secondi. Sei sono dunque i personaggi della com media di Tardieu, abilmente tradotta e adattata dallo stesso regista, ma due soli sono gli interpreti, per cui l’azione sceni ca, condotta con fluido ritmo, risulta scorrevolmente avvincente. Un barone (di cui si vedrà soltanto il fantoccio) Nelle ioto: sopra, una scena di « Minamata: le vittime e il loro mondo » di Noriaki Tsuchimoto. Sotto a sinistra: una scena di « Summer Soldiers» (Soldati d’estate) di Hiroshi Teshigahara sto tipo di cinema: mi interessa, ne ri conosco la necessità e l’importanza. Ma, all’infuori forse del solo Notti e nebbia del Giappone di Oshima, non mi provoca alcun tipo di sollecitazione interna. (Ho detto « interna » non « emotiva », ché il dato emozionale ha con l’arte ben poco a che fare). Summer Soldiers (Soldati destate) di Teshigahara, Sanrizuka: Daini toride no hit obito (Sanrizuka: i contadini della se conda fortezza) di Ogawa, Minamata - Kanjasan to sono sekai (Minamata. Le vittime e il loro mondo) di Tsuchimo to, ed altri ancora: opere che indubbia mente possiedono una loro carica di sug gestione, ma che non riescono a lasciare il segno. Un po’ come Godard, se si vuole. E’ questo il limite — a mio av viso incolmabile — del cosiddetto cinema politico. E agli assertori ad ogni costo di questo tipo di cinema vorrei porre una doman da: che cosa pensano essi della penetran te, struggente introspezione psicologica e sociale ( e quindi « politica » ) de La stra da della vergogna di Mizoguchi, nei con fronti di queste opere tanto più esterior mente eclatanti quanto più interiormente estemporanee per non dire vuote? Il che non toglie, ovviamente, che an che questo genere di cinema abbia il suo valore: purché lo si consideri, piut tosto che cinema, documento del nostro tempo. Tito Guerrini dà una festa al suo castello. Un detecti ve sospetta che durante il ballo possa accadere qualcosa di losco; perciò s’in troduce nel maniero, dove la baronessa soffre di solitudine in quanto il marito l’ha sempre trascurata. Nel corso della festa si apprende che il barone, vittima di una caduta nel parco, è morto. Si trat ta di un banale incidente, di un suicidio oppure di un omicidio? Ogni personag gio vive la sua parte di addolorato e al tempo stesso rivela il suo ambiguo carat tere: la prima cameriera aveva una tre sca col barone, che invece agli occhi della moglie passava per inguaribile fri gido, mentre il primo cameriere si pro digava come consolatore della padrona. Intanto il detective indaga e scopre che il cadavere trovato nel parco, e poi su bito scomparso, non è altro che un ma nichino, destinato ad essere fatto a pez zi. Chi ha architettato la macabra messa in scena? E perché? La chiave del mistero è nella stravagante figura di una ricca Nelle foto: a sinistra, Leopoldo Mastelloni nei panni dell’ameri cana avida in una scena della commedia « Il caos al castello » di Jean Tardieu. A destra: Ida Di Benedetto nelle vesti del de tective ficcanaso, sempre nella stessa commedia. americana affascinata dal danaro e dalle nascoste virtù del barone. Costei vuole fuggire con lui, perciò hanno insieme architettato il fosco disegno. La com media si conclude con una scena di amo re orgiastico tra la baronessa, consola bilissima vedova bianca, ed il suo primo cameriere. Entrambi alla fine restano nu di, dopo un eccentrico spogliarello du plice, avvinti in un amplesso in cre scendo. Come già nello spettacolo Amare dell’an no scorso, Leopoldo Mastelloni si ricon ferma arguto, intelligente, sensibilissimo attore capace di destreggiarsi, addirittu ra in modo spumeggiante, nelle varie sfumature caratterizzanti, in maniera sen sibilmente femminile, sia il personaggio della baronessa, sia quello dell’avida ame ricana, sia quello ancora della prima ca meriera; rispettivamente con inflessioni e toni ora stile Lilla Brignone, ora tipo Franca Valeri, ora con l ’accento di Sophia Loren. Altrettanto brava e poliedrica, vivace mente inquietante al fianco di Mastel loni, si esibisce l’avvenente Ida Di Be nedetto, anch’ella sorprendente trasfor mista, nei panni del detective ficcanaso, nelle vesti del domestico consolatore e nella minigonna di una procace ma oca cameriera. L’indovinata scelta dei motivi ritmici che compongono una colonna sonora ben montata, i bizzarri costumi di Placa e la raffinata scenografia dello stesso Mastelloni contribuiscono a rendere mol to piacevole e suggestivo lo spettacolo. Sergio Lori R i t r a t t i n o p a r l a t o d i M a n u e l a f i u s t e r n i a n n Silvana Gaudio L ei coi capelli carota nascosti in una cuffia di lana, lui con le chiome a spaz zola sulle spalle, tutti e due con pan taloni informi e giubbotti di pelle di capra: se li incontri per la strada, pensi che di certe tribù di giovani hanno le prerogative inequivocabili. Non sbagli ad attribuire un peso alla loro allean za. T’inganni, invece, se credi che devi metterti in guardia e fare attenzione nel porgli questa o quella domanda, perché loro che in due fanno cinquan- t’anni, non stanno, come tanti altri del la loro età, col fucile spianato, pronti a coglierti col piede su di un terreno qualunquistico o assolutistico. No, loro, ed è necessario dire a questo punto che si tratta di Manuela Kustermann e di Giancarlo Nanni non « bluffano » (o 10 fanno in una maniera così esigua da suscitare persino tenerezza); sono con vinti delle proprie scelte e, vivaddio, disponibili a un discorso che non si esau risce in un monologo provocatorio in difesa di una posizione assunta anche in seguito a circostanze che hanno fa vorito la formazione di una « coscienza ». « Sono stata fortunata », dice Manuela, dopo avere liberato i capelli carota dal berretto di maglia, col quale, all’occa sione, si sente più adatta a difendersi. Spiega di non sottovalutare l’importan za esercitata su di lei dal clima di fer menti culturali nel quale è cresciuta. Si riferisce al Gruppo ’63, a Braibanti, a Bussotti, a Pino Pascali. E il tempo, nel suo racconto, perde una dimensione reale. « Quanti anni hai, Manuela? » « Ventitré ». Parla come se ne avesse il doppio, tan to da indurmi a scrutare inesistenti trac ce di rughe dietro la pelle del suo ovale smaltato. Divenuta l’« attrice di doma ni » e acquistata improvvisa, vastissima popolarità per la sua interpretazione de 11 risveglio di primavera di Frank We dekind messo in scena da Nanni (lo chiama per cognome il compagno del la sua vita e del suo lavoro, come usa fare la maggior parte delle donne im portanti), mi offre, con perizia, una dimostrazione convincente di quanto sia balordo collegare il suo successo con lo scandalo nato a Genova per un « pre sunto spogliarello ». « Ha provocato un’eco come quella se guita nel 1925 alla vista di Paola Bor boni, apparsa nuda sul palcoscenico dal la vita in su in Alga marina di Carlo Veneziani ». Lei non raccoglie il mio cenno alla prei storia. Si alza in piedi e ripete la sce na in cui, fuoriuscendo da un orrendo sacco di seta dorata, si lascia scivolare una specie di peplo dalla spalla destra lungo il fianco sinistro e, proprio come Venere, si copre il pube con la ma nina che avrebbe fatto impazzire un pittore rinascimentale per la impercet tibile tendenza alla rotondità: mostra, in definitiva, il seno sinistro. « Due, tre anziane signore non si sono scandalizzate, suppongo, per il mio se no, ma hanno colto piuttosto il prete sto per esprimere un rifiuto al tipo di proposta teatrale fatta da Nanni. Il fi schio isolato che si è levato in teatro proveniva da un colonnello ligure a ri poso, di quelli che si compiacciono di considerare il teatro un rito funebre ». « Il risveglio — interviene Nanni — mi ha affascinato per il meccanismo scenico complesso che, potendo, si sco pre dietro a un linguaggio naturalista, pieno di simbolismi... ». Manuela: « ...per il magma di ironia che siamo riusciti a cogliere, e che è spietata, non perdona, o Wedekind non sarebbe stato arrestato per lesa maestà nel 1899 a causa di poesie satiriche pubblicate sul Simplicissimus ». Manuela Kustermann, che esita a de finire medio-borghese il mondo dal qua le proviene, e non sa bene se il padre sia direttore o svolga invece altri ruoli nell’ente parastatale per il quale lavora, ha un punto fermo del passato: una nonna tedesca, scultrice. Le piace; ri tiene che le giovi. Troppo giovane an cora per valutare che una parte d’estro può esserle stato trasmesso dalla ma dre, ballerina dell’Opera. La presenta appena, per cui non si riesce a imma ginarla questa mamma. A stento s’in- travvede Manuela bambina, col tutù e le scarpine rosa coi lacci, avviata verso la carriera materna. « A 15 anni incontrai Carmelo Bene in un modo strano. Cercava Ofelia per il suo Amleto. Ci conoscemmo alle due del pomeriggio — sono passati otto an ni — e cinque ore dopo partimmo in sieme per Amsterdam. Devo a lui se ho fatto teatro, e se ho deciso di farlo nell’unica maniera, secondo me, possi bile ». « Sì, però, aveva cominciato con ha don na del mare di Ibsen »: mi svela Nan ni, il quale tiene a Manuela, teme di perderla un giorno o l’altro, e ride co me un ragazzo sicuro d’aver colpito nel segno. Io trovo naturale che abbia esor dito con una « tremenda compagnia » (la precisazione distratta ma tempestiva è di Manuela) ne ha donna del mare, perché sarebbe stato troppo facile get tar via il tutù e fare Ofelia, quindi su bito dopo, sensibile al fascino di una personalità forte e vitale come quella di Bene, dare volto e voce a Manon e a una delle streghe di Faust. I peccati commessi in TV, del resto veniali, van no accantonati. Li riscattano la coeren za con la quale ha sempre e solo fatto teatro d’avanguardia, e anche la fame patita. Le piace ricordare gli happen- ings: quello di Giordano Falzoni, con lo Stop Theatre, e l’altro di Giancarlo Nanni, Esagono for thè great taster. « Per la televisione tedesca girai un film sulla situazione dell’underground in Ita lia, su di un barcone piazzato sul Te vere, proprio di fronte a Castel Sant’An gelo ». Quasi contemporaneamente Calenda si accorse della presenza della Kustermann. E anche lui, in un certo senso, alimen tò l’atmosfera di fervore che ha con sentito a Manuela di formarsi e di acqui stare consapevolezza, superando lacune sul piano dell’informazione, con una ca pacità mostruosa di recepire che la po ne al centro di una realtà singolare, per la quale il tempo ha un valore relativo. Manuela potrebbe anche aver vissuto in sogno. C’è un’altra attrice che dà questa stessa sensazione: Valentina Cortese. Si assomigliano, nienteaffatto vagamen te, nonostante lo stacco di generazione. « Sei un’artista, fatti rispettare, non la sciare che ti calpestino »: le ha sussur rato Valentina, e Manuela, che ha toni di voce femminili, dolcissimi, la rifà alla perfezione. La Cortese, dopo essersi ac costata a Wedekind con tutta se stessa per trasferirsi in Lulu, diretta da Ché- reau, ha applaudito, convinta, Manuela Kustermann ne II risveglio di prima vera. « Le settemilacinquecento persone ve nute a ” La Fede” sono state dimenti cate da chi ha riferito, facendo la cro naca della ’’prima” genovese, l’episo dio delle vecchiette scandalizzate per uno dei miei seni scoperti »: osserva Manuela che, insieme con Nanni, con sidera « La Fede » il suo tetto. Ne par- lano entrambi come di una casa, quella che in realtà non hanno, perché il pied- à-terre in Trastevere potrebbe essere an che un deposito per gli abiti comprati a caso. Decisero, con audacia e pochi sol di, che era necessario avere un pro prio teatro quando destinarono a que sta funzione l’ex deposito di biciclette di Porta Portese, e un po’ alla volta, con amore, lo rinnovarono. Vi hanno rappresentato, tra l’altro, L’imperatore della Cina di Dessaignes che nessuno, dopo Bragaglia, aveva « rispolverato », e più recentemente A... come Alice, che, tratto liberamente da Carroll, dopo il successo della scorsa stagione, ottenne il premio dell’Aquila. Sì, perché Ma nuela Kustermann, che si permette il lus so di scegliere e di rifiutare offerte ap petitose, ha all’attivo anche premi: quel lo « Sandro De Feo 1972 » è stato as segnato a lei, mentre l’edizione prece dente era andata a Mariangela Melato. Due attrici con un punto di partenza uguale e molti numeri in comune; qua lità essenziali per imporle all’attenzio ne di un pubblico moderno: facce non intense, personalità belle, interessanti, spiccate, una naturale disposizione ad essere proiettate, fragili e forti insie me, verso il futuro. Hanno quello che si chiede alle donne d’oggi, e di conse guenza alle attrici, che in un modo o nell’altro, da sempre, sono destinate a interpretare i modelli di figure femmi nili più aderenti al loro tempo. « Però, io non voglio essere strumen talizzata dal cinema », afferma decisa Manuela. Nega, subito dopo, che sia stato difficile dire no a Strehler. « Sì, mi aveva offerto la parte affidata poi a Ottavia Piccolo in Re Lear ma perché mi sarei dovuta lasciare condi zionare dal suo invito, mentre ero per suasa che fosse più giusto che continuas si ad esprimermi autonomamente? ». Sfiora il compiacimento, è naturale, quando cede al piacere di riferirmi la telefonata avuta con un portavoce di Garinei e Giovannini, i quali avevano pensato a lei per uno dei quattro ruoli femminili principali della nuova edi zione di Ciao, Rudy. « Quel signore non finiva di stupirsi, e io a tentare di spiegargli che non c’era di che meravigliarsi ». L’alleanza con Nanni contribuisce a dar le forza, a permetterle di essere coe rente, a non cedere a tentazioni che si rifiuta persino di chiamare con questo nome. Ma Manuela sottovaluta il fatto che, in un mondo come quello d’oggi, due uomini pesano più di uno solo. In sostanza, non intende precludersi pos sibilità, in funzione di un obiettivo che riguarda un certo tipo di affermazione: il più difficile per via del prezzo che comporta. « Se ti chiedessero di esprimere un’opi nione sul teatro tradizionale? ». « Non serve a nulla: è vecchio, e non s’arrende al fatto d’essere vecchio. E’ incredibile che tanta gente, dopo aver fatto per lunghi anni teatro, non si la sci coinvolgere dai problemi esistenziali e rimanga insensibile alle modificazioni della società ». « Un critico inglese ti ha paragonata alla Duse. Cosa ha scritto esattamente?». « Mi sono sempre chiesto come recite rebbe Eleonora Duse nel teatro d’avan guardia. La risposta è: come Manuela Kustermann ». Silvana Gaudio Manuela Kustermann ha ultima mente registrato un bel successo nel « Risveglio di primavera » di Wedekind. U n o m a g g i o a l ¿ í G a t t o p a r d o 99 Giancarlo Vigorelli libri I grandi trovano sempre, più o meno congeniali, i loro illustratori; ed è giusto che sia suonata l’ora anche per II Gattopardo. Anzi, per questo grande libro, c’era già stata l’illustrazione e l’in terpretazione cinematografica di Viscon ti: viviamo, così si dice, in una società audiovisiva (che il più delle volte riba disce il lamento del salmista: Oculos habent et non vident..., aures habent et non audiunt...) ed era fatale che il cine ma tagliasse per primo il traguardo, con fermando appunto la regola, senza to gliere né merito né valore al film di Visconti, che spesso i più preferiscono « vedere » invece di « leggere ». Ma non lamentiamoci troppo biblicamente, Il Gattopardo ha avuto, e continua ad avere, lettori più numerosi e più « feli ci »; ed anche le prevenzioni, le ignoran ze, addirittura le ostilità, di certi ambien ti letterari sono cessate, e finite nel ri dicolo. Il libro è di quelli, e dei pochi, che nes suno potrà più espellere dalla nostra letteratura e più ancora dalla storia in certa del nostro romanzo; e rileggendo qua e là II Gattopardo, per accompagna- re con più fiducia ed abbandono queste illustrazioni di Francesca di Carpinello sulle pagine maggiori del Lampedusa, ho constatato quanto questo romanzo entri di anno in anno a fare più corpo con la nostra narrativa. E se ieri in tutta fretta sembrò un figlio irregolare o ritardato, oggi ne risulta piuttosto uno dei padri meno ufficiali eppure più legittimi. "Non era facile, diciamolo subito, ag girarsi nel mondo figurale del Gatto pardo; soprattutto dopo che era stato visitato così spettacolarmente da Luchi no Visconti. Francesca di Carpinello ha però avuto di intuito la grazia o l’abilità di non lasciarsi tentare da nessuna mac china spettacolare; dando così prova, non soltanto d’aver saputo leggere bene il Lampedusa, ma d’averne sùbito tra scinata nel suo segno grafico l’alta le zione semplificatrice, riduttiva, in altre parole antimelodrammatica (ed anche, si capisca, antimeridionale), che è propria della scrittura di Lampedusa e ancora di più della sua house of thought. Guardiamo insieme queste lito gattopar desche. Irrompe da ognuna una segreta sicilianità, che forse non esplode, o più intimamente e con nobile distacco, nel Gattopardo; ma non mi sentirei di farne un qualche rilievo all’artista, la quale, oltre a far fede a un proprio tempera mento diverso, non ha voluto sottrarsi Tre illustrazioni di Francesca di Carpinello per « Il Gattopardo » di Lampedusa. al fatto che oramai e per sempre II Gatto pardo è comunque un monumento di poesia e di civiltà siciliana. Insomma, Il Gattopardo, oggi, ha due dimensioni: è un’opera in sé, e ne è nel contempo un simbolo. Ed a me pare che Francesca di Carpinello si sia posta sul crinale di queste due misure, raggiungendo e con giungendo nella sua impresa grafica la figura reale e dedotta dei personaggi o degli ambienti del romanzo del Lampe dusa e quell’altra figura poetica o già idealizzata che ogni lettore rivive nella propria e comune memoria. L’illustrazione cioè oltrepassa nell’inter pretazione: e, per fortuna, qui l’inter pretazione non è deviata e deviarne, come spesso accade in tanti artisti d’oggi che prendono a pretesto l’opera altrui, e in luogo di ricomporla, se non con miope fedeltà almeno con non corto ri spetto, finiscono a scomporla arbitraria mente, velleitariamente. Nell’ovale di un tempo tanto storico quanto poetico, Francesca di Carpinello imprigiona e nel lo stesso tempo lascia libere le sue im magini gattopardesche; circoscrivendole, ha proprio reso omaggio all’autore ed al libro. Ma quel suo culto non è statico, anzi dentro a quel limite, a quella cor nice da vecchia fotografia di famiglia, sa sciogliere maggiormente la sua inven tiva, come nella ritmica scena del ballo dove le persone sono svuotate in ma nichini, e come se di quel ballo fastoso si fosse già precipitati al finale, al suo sfacelo: « ...I volti delle signore erano lividi, le faccie degli uomini erano gialle e rugose... una ventina di vasti pitali, a quell’ora quasi tutti colmi, alcuni scia- bordanti per terra... i mozziconi corti spandevano nei saloni una luce diversa, fumosa, di mal augurio... ». I o mi auguro che in qualche prossima ristampa del Gattopardo l’editore voglia far posto a queste illustrazioni-interpre tazioni di Francesca di Carpinello. Sarà come leggere due volte il gran roman zo. E’ sempre difficile prestare un volto ad un personaggio; ma qui direi che quel volto è dato ed ottenuto, e nello stesso tempo è velato, schermato. Il Gat topardo non viene mai sopraffatto, adul terato; l’artista ha vinto la sua non fa cile battaglia, perché non ha mai pen sato, e meno ancora tentato, di stia- vincere. La sua discrezione è stata pre miata: ed il suo segno, pur deciso e concreto, arriva a restituirci quell’aria di dissoluzione ( le rose degenerate del giardino di Villa Salina) che emana dal romanzo, comprovando così d’essere qua si stato eseguito a due mani; o dirò, almeno, che la mano che tracciava ogni segno ha saputo lasciarsi condurre da quella prima mano che aveva scritte le parole. Guardate, a riprova, ammirate l’intenso viluppo grafico del soldato mor to, e del « fitto trifoglio » che lo na sconde e insieme lo rivela, ed avverti rete che Francesca, oltre a quell’episodio del romanzo, qui sa farci partecipare a tutta quella solare celebrazione della morte che sta dietro a tanta, forse al l’intera arte e poesia fiorita dal magma in Sicilia. Giancarlo Vigorelli seppure trasposte in forme nordiche. Pic coli maestri spesso non privi di un loro modesto incanto, come d’altra parte i nostri Francalancia o Donghi o Trom- badori o Socrate, ma che non giustificano certo la grossa speculazione commerciale che sulla « Nuova Oggettività » da qual che tempo è in atto. Ben altro discorso, come ho detto, quel lo che riguarda Otto Dix. Il quale è veramente un artista geniale per il mo do in cui riesce a « ricaricare » l’espres sionismo non solo grazie all’attualità dei contenuti polemici, sociali, satirici, ma ricollegandolo linguisticamente alla tra dizione germanica, esemplata (e questo GALLERIE DI ROMA: MONTANARINI RUFFOLO - KLAPHECK - PERILLI MAGNONI - CARRINO - FIORONI DAVENPORT - SIEVERDING CATALANO - ORALI - BENETTI L a l e z i o n e d i O t t o O i . v e d i B a l l a Cesare Vivaldi -A Ha galleria « Giulia », splendida mo stra di acquarelli, disegni e incisioni di Otto Dix, organizzata dal Goethe Insti- tut. Senza alcun dubbio Dix è stato l’unico grande artista espresso dal mo vimento tedesco della « Nuova Oggetti vità », fiorito negli anni venti come una continuazione dell’eredità espressionista volta (almeno nei casi migliori) ad esiti di violenta polemica sociale e politica. Movimento eterogeneo, che accanto a Dix, a Grosz (personalità la più vicina al Dix soprattutto giovanile, ma che tra valica la «Nuova Oggettività» stessa), a Schad, a Felixmuller, tutti assai im pegnati politicamente, accosta realisti fan tastici (o « magici » per dirla bontem- pellianamente) come Razdiwill, e una pletora di piccoli maestri che sotto eti chetta realista in realtà praticano un vero e proprio « ritorno all’ordine », per ta luni aspetti prossimo a quello del « No vecento » italiano e non esente, per l’ap punto, da precise influenze italiane, da quella di Carrà a quella di De Chirico, fa si dbe Foperazione' craltratale di Efa sia progressi» aimzfafcié Beariomaniiai)) stri pira eterodbssa> e andace dei sudo! mae stri,, «¡pel Grramew'aiMI,. il «palle,, allibra,, murai ora «serto! «sOTOwirato! e arairarirato) «sai- ine' fa) è oggi Come; fa' è„ topraittratt»,, ; dai «paradoi Ffcass®' fa scoperto) FAbtare «di Collimar e me: fai tratto' pretesto per rama serie «di «fetagariiosri graffale'.. Il lliragpaggio' espressioirisifeaineroue «esai- sperato' «ffii GriSraiewaiIld,, Diix: fa) fa sen tito) «Mime proprio) e fa' fai assento in propria»,, in ramodb' faiente e strawolto) imR^gdlii asrpatelli e nei disegni),, irai nmodfe false Il^^rmiemte: pòri accadleramocos,, patii neiOTiraiascimraienttale,, iin molte tele e ttai- wole,, mrntatawia splloidiafe.. Moom esiterei cofflmraimqjrae a imdkaite per Dfa,, coirne per Grosz:,, propria' m^lii arapardli,, nei dii- segjri e mdlfe inorim i i paini alti rag- g>TnniinignitTTmeTnìltii.. L a gaililfariiai «» fai ordima'to trama esposizÌKOTie mmMto) interessante di' Guaco)- ramo> Baia,, esposizione incentrata sm tram aderto) tmtt’'alttiro> «die «< ramiinore »• deOFait- trirwditEai «del mmaosttroi fatraristta,, «peri© «de- «saratriiw,. ptesentaradb' progettn,, tazzetti wari edl oggetti esegraitti:: mofcalhi, arazzi,- wari,. ecc.. fa tte applicata fatturista effe' ssjpratttnnitttto) in Balla ((e poi in Dbpetov Bfarampoiini edl altri))'il pira gamtale dei amai propmgjMteri,, con tim’atriwittà mmifa tenrotta e costante a partire almeno' dal 1914 rimo) al 1930) cimai,, qraandb attrattawamo' fe fliigle face ed Elica,, emttramlbe' Bmc»me' pittrió,, e pro pri© la malfare',. Lisce,, fattraristai nota, come Badrace,, fa persomalmente rica- ramatto' e «ardito' paramellli detrattiti e «ani- sdami.. «Mb stesso' modo1 agiriai,. stull’esem- pii©> di Byiav Etepero',, aratore di canoini per arazzi poi eseguiti dada moglie.. C3o> «die «tolpisce ai prima tiistai,, n e i’atte applicaita di Bada:, è lai fette ripresa,, prar m forame astraitte e rmodetne',, «fel gjmsto liberty,, cot risralttaiti aMbastanzai prosri- Sfejfa patfiita praee*te«te, ©Nato Bfe: .«Disegrao a matite ». Pielite pagina seguente: Sergio Buffato: ««Disegno w, china, e ad ;u:rj.nureì- to>>»: asm. rami,, in alenimi casi,, a «peli SdB'fflti dèrni Le sAsxssdmm Ubetty som© berne awer- tdUlii inm trattai lai putttrara cffii Baiai,, per sino' iiim tafame « CjOTmpemetrazfawiii iride scenti >» e nnegdlii «< iMsawfararrafflmtai » del 1915., coti prarat© dii rarawmiia accentraa- rione tra 1 192® e 1 193®,, in epoca cime di atri dèmi)-;. fcgiiro> die esse siamo' adtti- ; rittttrara mnaissàcce mele applfeazfermi «ferov ra ti» di tale pittura,, qjiniamBgfc» essai dee è wDÌttai a «fecoraee il feordb di trama to>- wagffia m il «centro al turai «omsciim©.. I pro>- Merari dela pttttrara e «speli «¡Miai «dee©' raaibmr sor» «faterai,, ed è troppo' girisi© die Ballai, ropratttrattto irai «qjraefe’raMtraa att- rifatta riweffi le paini ampie e ptofferae co>F fasibmi coti M gras» «tomttemporame©,. mot esdris© tram certo' « rnoweerattism© >».. Db grande pittore Ballai,, amebe nel «camm- poi «felle' atri applicate,, è stato tram pare- «nmrsore gemiiafe,, e sin «¿ad 1914 «rii fina of ferto ram’bfafapaìzwme: straordikiariamiamte aerata affi) «pefflb die sani il giusto tìpico) degli amai wmri,, rimmreriztaradoi rmotifa fmitttiirislli,, spramtì liberty e sopadlrattrare «< mtm'teeemtìsffe >».. Coti tram gjmsto «del ro tore-face,, «pesta m ia inteso) a esaltate le ferme- e le «spaliti speciiftofc «degli «oggetti,. dbe è la mota essenziale: di tannata! la saia Dramgai carriera arrisrira.. I-ia ©ccaisibme della risiamiipiai,, per «nuora «degli editori Maardii e Bettoli,, del libro di fcrerimi D'al mM$m® d memdmsi- asm®,, «die fa prafeMirat© a Fairigi nel 1921., la galleria «; Fferogrammiraaì » Sia esposto trama feefflliisfama serie «di disegni «di Gino- Sederini,, aktrari altrimenti al li bro,. alctmrii degli anturi irai crai ri Man» fa pensato' e scrittoi,, e alctrari,, infime,, po steriori,, «degl amori taardi del maestro'.. ESfeegni spfendiidli e soprattutto' iimteres)- santi petdbe rariti di essi,, preparatori a «p'adri,, tecanoi indikazimrai di «safari,, coordinate e tracciati geommetorfei «fc dii- m©stramQ> comi «piantai severità Sederini,, «rraltote «dela « «fedina proporzione » e «del mramero d’’o?tto>,, meditasse sui «agni propria' «dipinto.. In tealta Sederini,, pittoore finissimo' e aggraziatìssimr©,, raggiiramgera Fatroooria attrawersoi calcolili sapienti e andrai,, e la stia Idiota espressi» era fratto di lun ga faticai. Andbe se i «padri non ap- paiiKOT®' per muda fatkari o> tortoppo'' dla- feorati. Aiai «< &nicaicin)ai >*> mostra personale di Lraiigi Momtanarini,, «eot tram liIbno)-caitalog!D' scrittoi db Ffefflb Fornente.. Montanairini,, in «gpriestii raMimmi anni,, fa persegpito' ranai rioateai sral cofore e siri ritmo',, con ttdle amefa: di grandi dimensioni firattttinrate «Sa s«qrailllatnti fasce crotraiatódlie (Ioti ef fetti tanto) consOTamti «jraiantov para spes so,, dissonanti)) a loro witiHi fegato e eMmise db roianisti segni scraril. linai sii- mile ricerca) è farse pansai troppo' rigo- risrira ad’’artista!,, il «^raaife fa sentii» c®> me1 il Msogjm©' di esplodere,, «ffii rompere gli selbemi,. ed fa «ffiparaito' in tram fere» periiodb di tempo) sessanta) «wiaizibni sra min wectdbib q[raadro> «lei 1950),, tramai com- posizicMce flloreaife assai astraittizzatai,, con Ile «pali fa costruito' la sna mostra.. Qmestai fase deU’bite «ffi MiOTitanamini è rana vera e propriai lifeeraziOTe passio^ naie,, «piasi mdactiem pamttmg,, affidata a tram sans© del rotore,, per „ «pam» rasai raffinât©' e controdato aradme «pian- d© semisfera pira düspetsfa© e rrattilamte.. Il ripesssairasemto' del passait©' «roiradye,, ira MOTtaraarismi,, «dot srais”acratai rosurienza «fel presiamte inteso' soprattratto) cwsiie tramai cOTtiiiMai TOiifiicai,, attrasms©' Fatto del dipingere,, dei mezzi dela pàittraira e dei propri.. Sergi©1 Krafifato',, sin qrai noto' soprattrat- » come grafie© e come designer,, è lascito ad© scoperti©' amebe romite disegnatore e «come pittore allestendo' al « Torcoliere »- rami'espo'rizibme nelb «pialle',, accanto' a rasai- nifestii,. ai iimipaigiimati,. a oggetti,, figmram®' per Faippmmto amebe «qpaiadlï e disegni.. Tafanto essenzialimente graffe©),, andbe «çpiaindo' dipinge,, Mmffoib fornisce di «db dbe intende rappresentare trama « sigla »>„ afefcrewiiamidby srorciiandb',, proce«fendo> per' ellissi,, per aUksiomï,. e d©' attrawers© drae1 soli efememnii,, il segno' e il pian®' cofav rato';; i «qraalli famm© ^jaiali fanziorai di cfe£iraiiziio.rae «' simbolica »«■ e eomwenzionai- le deUFo^etto» H segno',, il «qjraale imcai- seda e dbiiadie il colbte,. è fa' strramamto' teenfe©) |ws fanzfesmafc per Mraffolb.. Bowe il segno' sembra mancare- del tratto',, coi rne in tafani «padri,, esso* è « designato »> dalle gfamzfenii nette,, a incastro),, dei piami rofarati;; «dbe panrefeber©' di «origine crafeistai mentre som©' imsrece sniggerite dada preocinispaiziome di « estrarre >» dalai farma trama siglai,, di fornire tram rompendl©!.. A l a «Medusa.» Konrad Hapbect espo>- ne per la prima wSta a Komai prar esi- sendo raorissimi® in Italia.. KlapDieidk,, te- «fesroi,, è tram meosurrealista scrrapofosissi- un», inventore dii macchine di alluci inarate precisione pittorica e di non memo allti- rimatiti ambiguità antropomorfe o zoo - morie, antere di qraadri preziosi e con turbanti. Alla nuova galleria « Godei » Nicola Gami» ita mostrato urta serie di ind- siomi e di disegni di grande raffinatezza fermale (e tecnica)< e di grande grazia espressiva. Carrino' è in un momento fe lice, e la sua personalissima mmimal art sta giungendo a vera compitezza e per fezione. Successivamente a Carrino, sem pre alla « Godei », ha esposto il tori nese Griffa. Achille Penili ha esposto alla « Marl- borcugh » tutte le sue incisioni. Su que ste colonne mi sono già occupato lo scorso anno delle incisioni di Penili in occasione di una sua mostra alla « Re merò »; inutile quindi ripetere ancora una volta il bene che penso del lavoro grafico di questo pittore, tra i maggiori italiani della sua generazione. Alla « Primo Piano » Teodosio Magnoni, dopo anni di assenza dalle scene romane, ha esposto' le sue scultore recenti. Quella di Magnoni è un'arte che si potrebbe definire neocostruttivista, basata com’è su elementi semplicissimi, piastre di me tallo e tondini d’acciaio o fili di nylon. che disegnano' nello spazio • eleganti e fragili costruzioni. Tra i giovami scul tori italiani Maglioni, anche se troppo pcco conosciuto, è uno dei più validi, con un senso aereo dello spazio tutto proprio, personalissimo anche se non privo di agganci italiani (il primo Me liniti) e intemazionali. Alla « Rizzoli » Margherita Benetti ( alla mostra della quale ha fatto seguito « Ani mali » di Oretta Rangoni Machiavelli) ha esposto una serie di nuove acqueforti assai bella e sensibile. La Benetti in alcune lastre ha usato, anziché il bianco e nero, un colore, arricchendo in modo notevole le proprie possibilità espressive. Antonietta Raphaël ha inaugurato con una serie di sue opere (' tutte più o meno note) la nuova galleria « Querinas ». E’ un vero peccato che a questa nostra gran de artista non stano ancora resi gli onori che merita e soprattutto che l’Ente Premi Roma non si decida a organizzarle, a pa lazzo. Barberini, la grande mostra di scul tura che pure sarebbe necessaria. Alla « Schneider » Joy Davenport espo ne assemblages., dipinti, collages e inci sioni di netto sapore neodadaista. L'aero- pittore Tullio Orali allinea sulle pareti della « Pinacoteca » opere eseguite ne gli anni 1926-1972, tra le quali non v’è alcuna soluzione di continuità. AIP« At tico » Katharina Sieverding, ha fatto vedere delle fotografie e dei films. Alla nuova galleria « Seconda scala » hanno te nuto mostre assai notevoli prima Fabio Mauri e successivamente Giosetta Fioro ni. Alla «Ferro di cavallo» Sandro Trot ti ha presentato una serie di opere in sieme a un libro, alle stesse opere de dicato. La « Libreria dell’Oca » ha alle stito una piccola, preziosa mostra di Paul Klee. Vecchie opere di Giorgio de Chi rico, infine, ha mostrato la galleria « Di mensione »; mentre collettive di buo na qualità hanno ordinato gallerie quali la « Zanini », la « Don Chisciotte », la « Arti visive » e altre. Un cenno a parte merita la mostra di Tullio Catalano tenutasi alla galleria « Gap ». Catalano era sin qui noto co me critico d’arte particolarmente impe gnato nelle nuove tendenze concettuali. Come artista in proprio egli si è rive lato di un livello, diciamo così, « pro fessionale » veramente notevole, perfet tamente padrone dei propri mezzi (il collage e il riporto fotografico), e so prattutto caratterizzato da un gusto ac cortissimo per la « citazione » pittorica e letteraria. Cesare Vivaldi D a P a r i g i u l t i m i s s i m e s u l b a l l e t t o t r a P e t i t e B l a s k a Giuseppe Recchia ]V Ì imo e pantomima, collants rossi gial li bianchi blu, danseurs e danseuses, tea tro, musica — classica e concreta —, occhi dai differenti sguardi sociali, si fondono: ecco la piramide della festa, il mito di Serge di Diaghilev. La Belle Epoque incastona il folklore russo. Di metamorfosi in metamorfosi unisce Pi casso e Satie, Bakst e Strawinsky, Be- nois e Debussy. L’ispirazione viene dalla letteratura: Mallarmé, Cocteau, Blake, Rilke, Hoffmann. Si nutre di poesia il balletto, ma attenzione, « la banalità si trascina fra lo spettacolo danzato e voi ». Il mito è un nodo di miti. Per la meta fisica un salto è segno di assoluto re spiro. Il legame fra scrittura coreografi ca ed estetica si chiama racconto. Dicembre 72. L’omaggio al centenario della nascita di Serge di Diaghilev parte da questo breve schizzo. Ha un luogo: l’Opera; ha un nome solo: Rudolf Nu- reyev. Le coreografie ripescate sono di Fokine ( « La danza deve essere l’espres sione dell’epoca e del paese evocati dal l’argomento... »): Le Silfidi, Apollo Mu sagete, Eetrouchka. I passi da codice, in funzione della tecnica, parlano di stile grandioso ma dimenticano l’humour di Michel Fokine, la sua Russia. Manca il ritmo... un soffio. Rianimare una sta tua, uccide. Né la stampa, né il pubbli co amano « bisturi » sulla scena. Al pri mo di gennaio 73 le luci si sono spente all’Opéra. In ghiacciaia si conserva il ritratto dell’impresario dei « Balletti Russi ». In attesa del nuovo direttore Rolf Lie- bermann. Altrove, il balletto non ha affatto de luso un pubblico più largo, più giovane, più emotivo. « Palais des sports », « Mai son de la Culture » a Grenoble, « Théâ tre Palace » hanno fatto centro grazie ai coreografi Roland Petit e Felix Bla- ska, ed al « Théâtre du Silence » diret to da Jacques Garnier e Brigitte Lefè vre, entrambi transfughi dell’Opéra. Roland Petit dirige dal maggio del 72 Italia, al « Les ballets de Marseille », dopo aver dato vita, per anni, con Lifar, Balanchine e Béjart alla storia del balletto « parigi no », in Europa e nel mondo. Ma dire Petit è significare un « credo » alla poesia. Il creatore dei « Ballets de Paris » nell’intenzione di popolarizzare i suoi spettacoli, mise in show i ver si di Prevert e di Cocteau, lasciando a ballerine come Margot Fonteyn, Ludmil la Tcherina e Renée Jeanmaire il senso della mutazione. Ora fiore, ora animale leggero. Le jeune homme et la mort nel ’46, interpretato da Jean Babilée, su mu siche di Bach, dichiarò apertamente il talento e la direzione, a metà strada tra il classico e lo stile americano (fa cile?), del giovane coreografo Roland Petit. Demoiselles de la nuit, del mag gio ’48, su un testo di J. Anouilh, inte ressa per i decori di Leonor Fini oltre che per il simbolismo baudelairiano della donna-gatto, nell’interpretazione di Mar got Fonteyn: sensualità ed intellet tualismo. In teatro alla Scala, resta la forte impressione de L’éloge de la fo- lie, nel ’67, che rivelò in Petit il « gusto della meditazione » e à&W humour. Un interprete di talento fece parlare di sé: Felix Blaska. Oggi, nell’incarnazione di Majakovskij e di Blake [La rosa malata), su musiche di Gustav Mahler ( 2“ e 3“ sinfonia ) e dei Pink Floyd, Roland Petit fa uscire da una scatola magica Maja Plisset- skaja. « Tunica lunga a metà, alla so vietica, grigia poi nera, là per una sca lata sull’armatura di ballerini in calza maglie color carne e scheletro, noi l ’at tendiamo. La sala applaudisce al pas saggio una giostra di coupés-jetés, so lo passo dall’identità tutta classica, quan do improvvisamente ella sorge, senza espressione il suo viso, maschera di mantide religiosa, gesti viscidi d’insetto nella stagione degli amori ». Gustav Mahler e William Blake, musi ca e poesia, s’intendono — 1794 il se condo, 1888 il primo — per « saltare » con fanciulli e bestie, con amori ed ef fusioni, verso il dramma popolare. Per entrambi si è parlato di tono alla Shakespeare. Rileggiamo Blake: « O ro sa, tu ti ammali; l’insetto invisibile che vola la notte nel vento che muggisce, ha disfatto il tuo letto, imporporata di gioia, e il suo amore segreto e chiuso, divora e distrugge la tua vita ». E Maja Plissetskaja, « abitata dalla danza », con le sue braccia, le sue braccia soprattut to, « che sono occhi, pianto, ridere, fiamme, onde », ha operato la sintesi e la totalità, nell’eterno mutarsi. Petit, nonostante la critica francese sia troppo separata, ci ha dato un nuovo ca polavoro. Io non me la sento di accu sare questa opera di « politicante », né tanto meno il « suo » Majakovskij, in cui il coreografo-ballerino appare col cranio rasato a zero. Meno Felice è l’incontro tra Pink Floyd e coreografi. Il critico di « Le Monde » vede giusto: « Aerea, strutturata, elabo rata, la musica dei Pink Floid è delirio di suoni, di grida, di luci. Di fattura troppo classica, la compagnia diretta da Roland Petit è all’opposto dell’univer so sonoro del gruppo pop, i ballerini (ad eccezione di Rudy Bryans e Denys Ganio) sono mediocri ». La scelta del gruppo inglese cade male. La separazione è sentita con maggiore intensità da un pubblico abituato a sen tirsi unito alla musica pop. Allumez les étoiles, balletto sulla vita di Majakovskij, fu presentato quest’esta te ad Avignone. Esteticamente il ballet to piace, ma è pur vero che manca di ispirazione, ed in certe scene calca la tipologia del music-hall. Il quadro fina le, con bandiera rossa e apoteosi del poeta, è un pugno nell’occhio. Fa male... Felix Blaska, ex allievo di Roland Pe tit, trent’anni, presenta a Grenoble cin- A destra, in alto: « Tam-tam et percussions » di Blaska e « Tan go » di Strawinsky rappresentati al Théâtre du Silence. que nuove creazioni su musiche di Mo zart, Debussy, Strawinsky, Berio e Jean- Pierre Drouet. La « Maison de la Culture » di Grenoble ha fatto il pieno tutte le sere. Non un solo biglietto in vendita. Come alle par tite di calcio, certe volte, nei derbies ita liani. Blaska ha lasciato una traccia in Italia, in televisione, col suo indiavolato bal letto Tam-tam et percussions. Questa estate, a Verona, al Teatro Romano, « Les ballets de Felix Blaska », hanno dimostrato coesione e ritmo. Il coreografo franco-russo fu lanciato dallo stesso Petit che gli comandò una creazione su musica di Edgar Varese: Octandre. Da allora il Blaska ci ha dato Danses Concertantes su musica di Stra winsky, Ballet en trois mouvements, Elec- tro-Bach, Deuxième Concerto su musica di Prokofiev. Il Blaska vuole divertire, dare sensa zioni, e si oppone per questo alle manie « mistico-filosofiche » di Béjart. « Béjart è un regista della danza — dice Felix —. Béjart non sente la musica, se la mangia ». « Le Nouvel Observateur » trovò un tito- 1© .par fflbdka,, Him&Kdiiatato:: «< IHkgji® «Mila A \ GuarneMe,, Re imRdnnne «M Ipkkffifo «siede ;d ililife i Rnamma© ames»© a amasi© muna gsMtófiriia «H iaimtfcasdiki©,, Aarailtimuie,,, ttaattto > iü i tgcaipp© «Redi iffiAmwJnaRlWmmi. lEnurunsta l ’imnaffitto.. Anodine _«pi,¡ (osamae da IBsatSiy ï RaaRRariimia s©-, ita© ffimesfacffi. Da MWka HR m is nasmi è dne parola,,. .drosHeee Amtmmitiiname HI dsd®,, ,&a- - peate dbe Ria ffianra esiistte naiar lame,, all ffimswiL tmasaiì®,,, anana pflaætfiea:: : all! «amp© amantam®... Mas: BIWfca,,! Mi 1 Rattanm© >e-nuora,, . Rsggeaii,; Ma finse» tmimikia, jil ¡aaiDam® da f e Rnaltame gRRí i spettttatoniJ CuMimts ¡gpl® ¡ e lhiaiaidbij,i là ' Sumís i ' ¡fmmr t - Jewx.\ pàmms s è iantaipaeitatta Roland ®Rfìit mal Ibxfltafttto «M&flja- IbfKssSsiiij »»• «Halle murami di &ttya se iMariidie Ubé- «guiie:: date smodile,, di (ffltrRgjiiaie iifenamai,, (dine, damma© tdhmrmiæ dEk soma. Stowiimisfcy dsHUica a Defessy Sy/mpUm- màes d ’àmtbmmimlts à rtxrnit se Eefliis: rniikaa Tram pmDes pmrnr (dbmmelti&s par dk®rttii- re,, e disradicai,, ;a anniiixawrae ii fili di nntra-i- tti.. IR Borii® «RH C®mime è wasafamm©:: saEnfigra Rai Date «Ha unan filma 1 nmesltiam.-, G sa. tappas- sikama. Le aittre œmepgjræfir deR BRasfca sona© da aiwasllrae,, Rasdianm® «ptaRsdlBe dmUm®,. E tm©:: Hfl Mfflaatrtt «Bi' AM,[gm £tt Twgwie e & Sm «RH mum giawatane patoiasdamiistta fcana-: >>>è mnmffl'sgkswamec ¡I ..thvmippc—-llk;’iin®;;:an»;(iffilidÌHaa—^annessa,. ümaiaiMe. da Gamniisr se Buiçgittito Ito&me,, par làbdlkirsi, laRR’Qpaia.i ILa (CEHmpatgmiia lina ¡già «Ratto, mnin. ooeiMtiiinffli© «ii spatttaasallii,! iitm Ftratmdia, tm Belgi© œ uæ- ffmmtfmmnaïïillie im Swiizaaca. .AH rfllniBttffie: ffia-i- laato, , ¡atütaiallttiiianitte,, ptosamttta immmwe sa®-.- ffiBSS^trtaffiie,, dke irirwetkim© iiaiodariia æ ttoomi- - (cu,, toma «dine ràkpsndlnikim© mum Rastoto aia > laocadsmiia,, iqpedie a (aoimttaitto «Min fié miiun- siidlnB «ii lQcdikailfcfflr,, dtisratidiiitattte. TIR :parti- «totocdWfcRiBawa^ dii toa»inn(paBa5E aa. atmittttii iii «©e- sttì, pfflttnsellsRixe ttnuacKtoBe a «pssstta-saffltniçai-i- groiki, (dine, sanile, tnmtiiisiidltie d i iStttrawiimdky, ((Tàm^o' i<£ _I&qgAm)) è tcapaae.dlii traafflRtba Eaimttasita 1 e. (di’ i untiti triiao®. > hmmamur.. Mbtlto > «Rrnmaiarnisann© dhe osaadnittK stuJlllM din «M iditt- j «a»© .IMIimiii iniKmtiÈcidmttww..], jUha Mawjppc sarai aa RRcàfflnitai^i, saanfottat», iiimm &. Ek|gar Wù-; - mese. (Dc«n¡ cctReaaáicMmii «Sai DiaRándhinae, Baciti,. i Mëslkiav .Bmtdlér, .TettRey.v, CgliBSsæppe 'îteecfaSta « C i a s c u n o s i a u t o p r o c l a m a b r a v i s s i m o i n d i c a n d o n e g l i a l t r i c h e n o n s a r e b b e r o a l t r e t t a n t o b r a v i i v e r i e m a g g i o r i r e s p o n s a b i l i d i o g n i s c i a g u r a » im rigmrwm ¡gmgmffm degfi imdideiinti ffmi pmtzzia paitliM dì molti ihmogjlm loomm- nnii sali ewmpoirimiimtamte da ’guida mèdie mmiie niegiom e saiMia qamdittm «MI Émiffiiao dhe m sii mrwUge.. ILa disputimi isuuMm irnag- gjmre laarttmmmaiiÉio ¡par atdesm ¡imipmmlbiàe es- sasÉn tale pandtm imesistemtte, UH iriilliiiem) è impontmmte pxardhè Uria effetti ogiwrno, mettendo sotto «mommi mm ad itimi),, è rwernm qmesti dhe aatremi di ditnot- itaane gfli imttenxemti nmvsliu ai pmetremine gfli iimdidemtiL dimando ii mondi dice dhe urèi aid Iha guida è pireiiimlainteiimeimte sm - ueittia, wim/plliiditmiiimemte mifffeinma dhe :sam- nmm aim ¡piamo dii edomemmome istnadUe, o aum ipiiacim dii: imtteinrremto pnememtim),, iiiimmumt pimi ili wid dhe HE nrniidl.. Lo stesso diami se wwewsrmi Fmammi /¡munite ’dai ¡mnaridmme, Aivnniieme imsomwmw m E- mdllo negiomale «¡¡nudi dine mamiiene mi.iE- mdllo mdmMamàen diammam sii rnmtopm- dlarnm Ibmmviissimm, wmiimmio rnegE mitri, dhe marni sanelblbeiro mitmetkmto Ibmnvii., ii meni e immggjmnii mes/pwmmbiti di’ sdht- gmre je siiimistri: iSe imi «ssmnniamm i dati ,mosti emme di di7offimao scoprimmo dhe le . sette ine- giimim settiaiEnioimaE totalizziamo 4.MD4 immuti e 94.HDW feriti, dhe mappnesamta- nm nis/pettmwiimeimtte ai ■■kt.5 e ii 4.0),7 :par taamto ddl momplesm; ite dmqnue megimni ddl cernitilo ìlmiwiw imnmce IH ® immani e MQ33 foriti, cioè id W,3 „ immae., draollwim 3 milimm E55.3W imiochme., ’Ossia ii 12 par •oeimta) «MI pa- itirimiKOomo mxz.ionde.. Ammàogmmemte i muor iti e i feriti imsienme mem il 14.,5.. indie ¡regnami imeiridiimnaM cwwotkmo 1 nmiMicme 47Ì0..565 nmatadlmme, elhe im ¡peireemthmale sGom il 143 par icemtio degfli mwtmmmolli iéld /paese., e gfi wmddemti tam ¡morti e ffeiritti sonno il Eè,2- Qummto mille isole,, im- ffiime., esse ihanimo nummi eireolazimme di ¡S24.24S) nmaodhme,, eioè il 9,1 par laemtio dd totale,, mentre monti e feriti mmippne- semttamo il 53- Mentre melie megiomi seltPmtrimmin t ’è mima eorirwspmideiimniii «¡¡.misi mi iimillesmw Èrmi ndlmime ddhi eioraaàiimkme e immsmi di simistri, nodle mitre iiegmmi m sonno leggeri :seminiti, im mmumemtio mi mentirò e mi smd, e im metta dimnmmizkmie melie isole.. Si itmatitm /pxanò di differenze qwimm iiim/pareeititilbiM, se si eeeettum la pamttm nmassiima dd eemtm mtss&rlbitùa dd mesto da ¡Rsoumta elhe fia testo mi se, elhe mona mi- tteirmmo ili qwmdim d ’ansieiime.. ITmittmn pair- ite meMw miMuttiazionne degli imdiiienti é’è da temer mmnttio dèlie ¡aondizmiai in end si snwlge la einraokczimie.. Md smi., mti eseimipiw, specie mcMia zmm di iMmipoii, ite nmm /prenmauipamte emmanmii di simo nie, sm par la qwwmtità che par la ¡qnm- iiità. "Mmipola ina ¡¡aairtiiaokine /prnè esserne dm/ssiffiiiaata come mm città senzmi stra de:: meUl ’imaenìB) /pariimetim cittitwiiim wn mimammo si le imo tre o qmattmo materie ndattiminimeiiinte migilbili:; /par il mastio simi- rnm eompietamnemite mi termo. E' «¡pmstta> s/piega /perché ¡a INImipoii, punir essaim&owi nmoltiQ memo itimmclhime dhe mi Milltamo., ¡il ttmafffmo si ¡presentimi molto ¡pià emtotkw, Cemnmmqme le difffeiemze, se tei sono, nmm sonno tali dia mwtmìzzmae dd - r©.. Md Man® tìi ie rana. apiparte» «Dii Mmmiras® ¡a ipnqpsaak® «Sii «¡¡rateate» ritmarti®:: : «< .MMlar è morase mora fasci©:: Batratoia,, Sua arai iiimttdl- lfcfflte» llmviiJisàm©.. Md ian^lii il iriiitmatttt© itanuiriiasKa;; dFonltiiiia© laraw*»® è sitali® irata.inmmiiaffii ibis®n®r»>:s>. ."Sttiiunmiflatte» .. Si imacratirfflmmnffi ¡aimooo ratei girarmi suiacefiaM e Mainirat® gli face il i£amt®s® mitttEattflHB.. ' F”;amm® snmrs® at Miikim©,, al Camini© SSttun- «li Pían© «Bdla Forasaesisa,, stariti: i miinimiittii tuaamitiattme iriimramtii j «Si Marami®,, Dnnmig© le psametìi i «Sili pee psóroOde stMSWe. Fee ttegtee «Si!i HsfasiiBffiv «Si! i ttemaowtita,,.affi! jggpggtoosian ttraiaDe «li sHslksKe ((cieoras® MMlHr ie Mass ine,, Jesi fears®»,, , rami. ntaosnsl©; > «pM:ì tftegji®, finnimeranie osili «ptaitttro ffigpme,, mm- (casttmadiffl imd mima© .«Si; unraifl ccasaim wk «H P«srttikH» «S’Gtatawiai. Im , «pMBri ■ sttamtette «Hala Itooe Itaassa,, «tarcratsdktì «k.; mintotii i «psd : wtaltì. i asKaatì,, rami: i ^BtM®©®swslitÌ0)o«ìÌà'iraiii5mas^toffl!ÉlaìiCe dk anima sasordliittà «piasi ifrnimdtane. Ine ffiigimme tarano wiiwe,, musa irmramltailli par semmpme. Otte Ufe: : <« Stanne sii «nñtto alia. tìtimeitiea >» » !ii»2?.:).. sriknitaiil® per icaisffl.te ;adk2ga®: e lossinise ese (rii I(0fijwo»aeKsiiiiri®l!)’’'’.’.:..,..Citami ¡Amnsstmdk lanmkwa- mm® spesfa®,, lei picKstala ,dE «ptattm® (® (diim- «pie anmmi, a grocane iim. ijasazza Vero.. A «piai tempi ((mmisa flìij^lita Ina adtess© unmssSii- «di !anmmii)) ; Ita apjfefeM : (eo (rrmsmiitarnima «fa umm pora® tweidie fflnasiEffltnmsailiffl im (¡Sepatsat® «Hi rriiifiiunttii i e (acrampflettamnsamte madrasa»® «la ¡gruppi «Si gMwaimsinii dne gaacwam® di psaHlanse scaariiamsil® i itairaritai pian paontali..»>.. : F® saiiilttoi iDaimgdfei: —-eemmi isamritatae piariiaiittes ; ; riipprttarafe o ttnnttma c ; —— è è atttemtte»,, pmsriis®,, rnepfflikimte (cmnme. k sona pittaira- ra.. Obsa paffltono riha, iim ¡umm pxari*®db «Si «dlgaruitià dtaimiiiimaimtise,, tirajpp® paritai sarat- im® '.appanezzame.. I J m rasurara ¡gaUBaiisa, «< Fa mmek wemdìe 2»^>, lina wk Des irritarais sii è íimsaanjgaiunaflia dbe (cammmmiimsa ¡ ’’’’osm jpMacairadksine’’’’’ ’ per imam sdkdkiie saifc mtewe (dttitacümiai.. Siiimsame ((n®3« jMmi.)) > imm. dfe:: :’’T K ilbcn - mseca .salimitaime «pdl siifgimaie.. ID>a .«psaldhe tmmuim; iwedk» cdbfc jb. salranti. ;e anmcltae. M i ! ni nisjpxQHmfc; ;a samtamà mntaro® «tafe„;,adfes- Que. stOKHinK®:e:aytakimmffl «scwmiiimcita»® a , l , W> Ìdb3jtrdj0, .aSk CiaHleitiia Giriiwa i «TAmte MauSanma i è sttata iimsaangpr.ailia la irnuBsttma «<< Cdnritaaarmiinsamtti® par anm’jimmiTima- ¡giiime - fdtsigoffi e TFfittmmrii >»¿ pMnmassa dk^li ¿kimikii Tffiaiimseai «Sdi'Aitte Camtenm- psaraimea e dMla (GdHariiia Qdca,. Hat ram®- stto, (oramatta «k .Ddmielk Fdkrafflffii e kniigi CaAsoriis®, è .k «psarita «Mk tettie, psrace- (dtanttma —- sHMmee» imkkatKfiara à — «ka«< Fé Moifige Iimipiieifcaimai >»^. ,«< Il sacro e iti pro- tEams® imdikitttje «M simmUfetti >»„■ .«< M Ga- WBdtenAzmttsw);)»». Da laamtt’aimmm ¡ itm. «psa ((musa liossewaM®- ìme triijgsisaiBik ■ ropratntimtHE© : IMttiinim® (riiim- «psamtemmm® )) ) la wiisiiaimec è . (oorriiiiriiaimaita «Wk fiffltra®rdEi¡a erikl càmarnsattsaigrali®.. ÌNfcs- stram® ffl^i — ©■. sfflkmmamttse. Faisiistca — wdie .• (caam ■ i propri «kM.. CtaedliiaimB® dii wadate «fctìtttammsmtte Je persaime e le cs»- ise, musa . iitrii i Bealttà ganandfanmra sanggestni©- imairii dWlla msikme fotts^alkai. Dìdot® dbe ..sol®, -gtli! artticstta !sarmm®,: ,<® sa- pses«is©„ sgmaiffikre dlimeffitammamte le (case te mppiteseimttadlie lOsmmE s®im®„ tseimM k- sritamai dimiSktemzaaie «Ul’iimniiisagiimie SLoxte»- ¡grafìea. Mei priitimi (riefleammi (4®p® la «t®- panta «Mia lat(ag!r,ail)ia, i ffasttasgcaliìi — spe- (ciaikiiseimitie i irikmattfliisitì. — ai ipiowamx® ;ai ¡paittteimi eri a piititicjri si sflrwiwaan® «MTkoasi- lli® dLeflla ÈffliteigoSna ((aQsm® «pi (Aomiimisenii- ttsaaii «rari iEaaniKaai, asmne qnudllli «Si Ddla- inaata: e «Si De^as)) iim «ptamtte» sqjpnMmx© s^li stessi (oriiteirii ®sttetikii,> >■ im sagnnii!® ttnmttta k «Kjtsidkleittta awam^jitaiidlita sttsariica,, ¡dk (G&aimime di ffimmes ai (ainltatatìi tallii (espstefifflcamisiti, dffiatmmè iiimiplkittaiiitamte, cicsm le «pere,, iriir «< nmnlllk iasKQHnnii^Iik rame- ras® ;aDk realità (ribe orata festtogolBsa. Minik .assonmiigik imteras® dlk sosttaimza dite k .«lisa «Mritaca.. Dar inamrri.atie iS tserasa® dii (qfindkifflsa dìi aosHaimaidlE ai «Sewe nasame ratsatn mnm’ìoMim- Itatta rasa onim ssgpa©,, rnsam l’iraiittadkHnte rasa l’iirammagrase »> ((Mentem)).. F’iiiiiiweimdifflime «Mia iE®ttesprdÉia lai iiimiHktean- ztaite» la piititiiiiiEa mcosMima im mmodk© imaSi- inatite»,, liilkeraimdlola «SailO’nnniipfgiTisra dii Simnmii- ine iriiitmalftti die «jkssi aMiiferniitn e dii dì®- erarasmaaiae gii ¡mwmimnamitìi sttestriki. Sat- raimaa® ii dkdkiisttii edl i snmntedliisttti,, . Sarà k pitctano pwp «rasm rmttte le sane «fiarkaziiraii a seimrsi laimnpoammamte «Mk imnmmagiiime HiffittKìgrdEiDa, «smme dii «ras® «M piè tìpici imgpe&tmtó dMldttìea «Si rasas- sa, dlk pari dici icartriirani panlHikiliari,, «Mie rassegane sttradkllH,, «Mie scaitfflle «Si ItaitnEa.. JFStatifflri sodidli (edl ipartedliistì ttro- waim® imeUe fioassgrdEie k rasameria ptnirasa edl umm mmettodk® dii oamttroli®.. Fe rome piè dffiasriktaimtì «Mk mmcssttra sssmsffl imarnimrdlmmmtte «pMle «Sedliicate alle Sfflttssgrdfiie, edl dEe piè amttikdbe, k fotts»- grafie dMk .goreira dii sBoessiiome e (dMle IhantitaMite «H IKiisQMgimmiemtt!®, «pMle dM ttarram»®#!® «Si ¡San Framtritsa©, i ffiammesi ti- ttratttì «Si Madkr, «Si DaHemnsagmie, «li Disdle- irii il groppo dii ffammijgllk e 1® sttunpomdks ritfiratttttffl «Si ltaaradtaiima «Si .Lewis GarroS, dH ISJ’S’,, Se msaitimre monte «Si Fe Ssop, dM 1S52, sino a qpsai dime imomimalboli dbe sono Lm ttmwiki ¡pirteparmthM e Pammit Je wme (à’aiprès-imtltMK dii Miièpoe dM ”27.. Sfiati®® Citasco ( tlmufinti tinpiTM* zìi Uno "ardii,} I l P o l i e d r o ra s s e g n a m e n s ile d 'a r r e :ta d a - M ic h e le C a la b re s e Rema V k Morsura... 5 3 /b - tei. ©5B.52.SÌ A N e w Y o r k s u c c e s s o d e i t e l e f i l m i t a l i a n i Giuseppe Sibilla enti film proiettati in un arco di tempo molto ampio, una partecipazione così vasta che gli organizzatori sono stati a volte costretti a respingere una parte del pubblico, un interesse note volissimo presso critici, operatori cul turali e spettatori. La seconda « Rasse gna di programmi della Rai-Tv » al Museo d’Arte Moderna di New York si è chiusa, secondo quanto hanno sot tolineato concordemente tutte le corri spondenze giornalistiche, con un bilancio non solo attivo, ma entusiastico. Lo scorso anno la manifestazione nacque quasi in sordina, fra dubbi e perples sità, e incluse quattro pellicole in tutto, prudentemente selezionate tenendo con to della notorietà dei loro autori: Fel lini (I clowns), Rossellini {Socrate), Bertolucci {La strategia del ragno), Olmi {I recuperanti). Andò benissimo. Spazza te via le incertezze, quest’anno il cartel lone è stato moltiplicato per cinque e si è fatto posto, accanto ai « grandi », ai giovani e agli esordienti. Il film più atteso era sicuramente quello di Michelangelo Antonioni, andato a compiere la sua prima esperienza di au tore televisivo in Cina. Il risultato di questa esperienza si intitola Chung Kuo, ossia molto semplicemente Cina, e An tonioni l’ha ottenuto lavorando in col laborazione con il giornalista Andrea Barbato. Il regista ha definito « straor dinario » questo suo primo incontro con il mezzo televisivo. « Sono andato in Cina — ha scritto — prima di tutto per conoscere questo Paese, che si presenta, per quello che ne sappiamo e per quello che ne abbiamo letto, come un Paese assolutamente nuovo, sia come struttura politico-sociale sia come storia, e poi perché — soprattutto per certe mie ne cessità di carattere personale — sentivo il bisogno di rompere le tradizioni del no stro mestiere di autori cinematografici, che ci vedono quasi sempre legati alla realizzazione di un film attraverso ciò che gli americani chiamano il treatment, cioè un soggetto, una storia, una materia tut- Un disegno di Corrado Cagli ha illustrato la rassegna di film del la Televisione italiana al Museo l ’Arte Moderna di New York. Nel la pagina seguente: una scena del « Diario di un maestro » di De Seta; in chiusura: Anna Magna ni nell’« Automobile » di Alfredo Giannetti. ta da inventare e da esprimere in modo del tutto personale. Ho sentito il biso gno di tornare alle origini della mia car riera, quando facevo il documentarista, e di avvicinarmi alla realtà in modo di retto, immediato, oggettivo. In Cina mi sono limitato a girare quello che ho vi sto, e quindi credo di aver ripreso in modo molto fedele la vita quotidiana dell’uomo cinese, dell’operaio, del conta dino. Ecco una differenza fra la televi sione e il cinema, quindi. L’uomo com’è, non come ci si immagina che sia ». Ormai non c’è più regista o intellettuale che si accosti alla Tv senza « scoprirla », e in misura così approfondita da sentirsi autorizzato a coniare una definizione. Antonioni ha scoperto che la Tv è lo strumento per vedere « l’uomo com’è, non come ci si immagina che sia ». Chi gli avrà detto che la stessa cosa non si può fare anche col cinema? E perché il video non potrebbe servire, poniamo, per formulare ipotesi intorno all’uomo così come « dovrebbe essere » in una società diversa e magari migliore dell’at tuale, e per portare un contributo alla costruzione della prospettiva idonea a sollecitarne la crescita? (Per inciso, se i cinesi avessero una Tv, forse la use rebbero proprio a questi fini). Di scoperta in definizione, ecco quelle di Rossellini, del quale la rassegna di New York ha presentato due opere, il Pascal e Agostino d’Ippona. Senza la mi nima ombra di dubbio, Rossellini ha ri badito in questa occasione una convin zione che lo accompagna da alcuni anni: « Ho fiducia in tutto, tranne che nel ci nema ». E ha aggiunto che « il cinema tradizionalmente inteso, nelle sue strut ture produttive ma ancor più in quelle distributive, è oggi superato dalla tele visione ». E lo sarà sempre più a mano a mano che la Tv via cavo permetterà di centuplicare le possibilità di scelta, perché per questa via verranno parimen ti centuplicate le opportunità di inter vento sullo spettatore in senso didattico anziché in senso vacuamente spettacola re. « Il cinema — sostiene Rossellini — se vuole avere una funzione sociale, de ve essere didattico, deve insegnare qual cosa alla gente, deve raccontare l’uomo agli altri uomini. E questo compito non lo sta forse svolgendo la televi sione? ». La Tv non ha soppiantato nulla. Po trebbe utilmente svolgere un proprio ruolo, parallelo a quello del buon cine ma, se fosse a sua volta buona: ossia, ragionando sui dati della realtà di casa nostra, se modificasse in profondità le scelte che la guidano. Questo sul piano dei contenuti, o messaggi. Sul piano del linguaggio, la Tv è così clamorosamente vecchia e incapace di « soppiantare » al cunché, che per andare a esporsi al Mu seo d’Arte Moderna di New York ha dovuto scegliere proprio entro quella sua zona d’attività che si definisce né più né meno che come cinema. Ciò non è per niente scandaloso, come in altri tempi avrebbero forse pensato le anime belle che andavano in cerca di uno « spe cifico televisivo » da opporre allo « spe cifico filmico », in una patetica disputa tra fantasmi; però significa che disquisi re di superiorità dell’uno o dell’altro mezzo espressivo è questione di lana ca prina, mentre contano l’atteggiamento di coloro che detengono e gestiscono questi mezzi, e i fini politici e culturali ai quali essi vengono indirizzati. La scelta in fa vore del film televisivo, in Italia, è sta ta operata obbedendo a motivazioni del tutto pratiche: di dilatazione delle pos sibilità produttive al di là di quanto avrebbero consentito le sole potenzialità interne dell’azienda Rai-Tv (ma in que sto senso si è poi passato il segno, con grave pregiudizio della operatività degli impianti e della professionalità di coloro che dovrebbero usarli), di controllo pre ventivo sui contenuti, e di prestigio. Che poi da questa scelta vengano risul tati positivi è ben spiegabile, anche se non si può certo parlare di risultati suf ficienti. Alla rassegna di New York so no state presentate molte cose buone e alcune eccellenti: ma è chiaro che, con un ventaglio di autori comprendente Bresson, Renoir, Jancsó, Rocha, Pasoli ni, De Seta e Antonioni, ci sarebbe stato motivo di sorpresa solo se fosse avvenu to il contrario. Dei venti film esposti, circa una metà sono noti agli spettatori italiani, e altri sono sul punto di diventarlo. Sono già apparsi il bellissimo Quattro notti di un sognatore di Robert Bresson, La tecnica e il rito di Miklós Jancsó, L’Eneide di Franco Rossi, Tutte le domeniche matti na di Carlo Tuzii, Il piccolo teatro di Jean Renoir, i due « ritratti sceneggia ti » di Rossellini, L’ospite di Liliana Ca- vani (non in Tv, però, ma alla Mostra di Venezia, Chung Kuo di Antonioni e Diario di un maestro di De Seta, e gli « sperimentali », I corvi di Ivo Micheli, Andare e venire di Giuseppe Berto lucci e La fine del gioco di Gianni Amelio. E’ prossima la programmazione dei telefilm realizzati da cineasti della « nuova scuola » sudamericana, La notte di San Juan di Yorke Sanjines, La congiura di Pedro De Andrade, e il Tatù Boia che Glauber Rocha ha di retto alla testa di un « collettivo » di giovani (le tre pellicole fanno parte d’una serie compresa sotto una testata comune, L’America Latina vista dai suoi registi, che ne dovrebbe comprendere sei in tut to). Il cartellone di New York è stato tre completato da altre quattro pellicole: Le mura di Sana di Pasolini, L’automo bile di Alfredo Giannetti, San Michele aveva un gallo di Paolo e Vittorio Ta- viani, e Central Park di Gianni Amico. Lasciando in sospeso i giudizi di merito, che sono già stati espressi o lo saranno quando le opere verrano presentate al pubblico, è possibile fare qualche osser vazione d’ordine generale. Sulla vastità della gamma di interessi che il film-tv tende a coprire, per esempio. Si va dal documentario-inchiesta, come nel caso di Antonioni, di Pasolini e di Gianni Ami co, alla trascrizione dei classici (L’Enei de) e all’opera di invenzione autonoma (Jancsó, i due Taviani, Giannetti, Bres son, anche se quest’ultimo si è ispirato alla lontana al Dcstoievskij delle Notti bianche); dalla ricerca sperimentale (Ivo Micheli, Gianni Amelio e Giuseppe Ber tolucci) a quella tendente a sondare le possibilità offerte dalla Tv per ottenere risultati inediti dalla confluenza di in venzione, inchiesta, cinema-verità e cine ma spontaneo (il Diario di un maestro di De Seta, senza dubbio uno dei prò- gsamnmi più: sfottic dii ijutteass®© ,'bfe ¡fri lassai sdi a w ffig»jaiaittii));^ìdlaJl kJlassdkogi GjiitEesBiiai didatti»c-ófiflMostelimi a qw©fe> ' dii iimv sfflilUai ssaliii mmmisipmMmi o© ; surla storiai,, che è p®p©s» éé:-ptmm arasti ? gddwttàmiii ce wàhz dà# i ;T«mL Awaiw ifimatsAant®) dEsriratwqqayra»© dcgUii iiMiffitm presenwti nel cattèloroe. Qraelcidbesrièèddttti© tastai tettaiw-ai'. di mostrate- db©: non- ¿’e-sttadb-db©' asm- gì ®sSÉi< «Sii! 'Isaìttirearg-v c©am esdbaérate--Starni© «Dii- «pel® piai strettamente grfflMlistedlte,, dii fépmtage1 mi e da# viro®.. Lai me- ■■ statai dii11 « ¡Yorik arai per definizione «rdbdrasa >»: ai «peste' tipo dii pawerijpaedi®- me,, mai ¡ttraai-- siffliMe AiuawaKnonc© priva ' dii s rigarafkate'.. Essai ¡’riflette rana - delle 'c | latto,c© mante! atìaM©' omogejteoiiagDiiìàilllffli : cent©)- e. centt©:- ¡die cui:- sic tempomel jlarp©- : : gramMtroazione' ttdleviriva;;- erperisbé' r pm- 1 ¡dotti l¡della s scdltai,, sbamidiaraitii ! ¡mèle i• tm- • sufflè',, si: fama® poi 'misteriosi, aleatori,,; diffifidffi»mic!dai reperiate i Mi ’afflittemi©' dèi gran-, calderone- dele t ttasmiissionii - ©attiri- dfaraite itelkuilbMc^yibfeaiEiiitai, ta;-signora jytóenn©' Mancia,, iche'Bja guiidlàit®) liTgmp ideii sei tóanatKW i del 'MusteVd’Arte Moderna, jp© aver ragione1 «parad©' « - s swMe-' qeàlcui» c*m cbhe ! de evenga nmtoswat© i ]il onn^fio, 'Nella sua atwusiastica ! buona fede non p ie chiedersi se 1 de i meraviglie - che 1 de -vengono egBéte s siano i ¡il f ¡frutto «-¡di runa linea idi lavoro' generalizzata,, ©> nora ’piut- , tosto Idi «paldbe oneste sforzo indivi«lua- deo0sstt#eàatóe,o®wttossennora:s svòlgano la funzione di ! fiorellini da appuntare aM'edcMfflo.Idti JuniàMtoi sdrorito. « Se anche qua da' noi si potesse ipotiz zare la pdduzione- da parte delle reti te levisive-db film realizzar: «fa artisti noti quali Ford o VÌdor— ha detto- ancora - Adrienne-'-Mancia — c oddagg®wni 'regi sti come Jim'McBride e Peter Gòldmann, potremmo 'avere unhdea chiara- di-:quan- r to s sia i ¡importante c - ciò' c che èè r riuscita a ad a attuare I ¡la t televisione i V^ia tfee- ' ne: a a : patto rperò cbhe : i ffikn cidi ¡Ford, udii Wldoir,, ddi a-McErilde cecidi cGòJdmawm ( fsoBvèladd©' s sàile s ringhiasi i pedikafflonii ddfflas^nffitti^tonyà)V"ifflttBvvtóÉ®ttopp®si c ¡diisparii,,ce*tela«di,,l ÉBMttiÉmttlffiebfetìttàitìi \ viali f»ceqnwàl©roticidil fesfivyccano®i,ddi «eneggiàitti a a ! fosrattfi eedffli c iacèe Ideile i tra*ii»©nii ddbe- ©©«intuiscon©' He:- stBrtJWiae pjpDWttaunrtrii c IdfflÌdeèSgpa t tele- \ -«¡rivai a V t t i m . I Esiste uquestai I ddeMo- ggiai:: cerittono pptai i i l ¡Mura < ¡di shtttotàeim. ceddiIBeS&i^,,cBmi®see®iiH£SS£©(0aeee®tara- i uree-,, ccEasuMi c -demààk«iD, oo lupinai i probaKl- tnente ; allibi cealcòlami, (.Questi ' vengono) mandati alili© ¡mostre,,-::© Mr*est©>- sei dot ten- ggonog^is'sptttaffiosriii italiani, 1F ¡qaitt-—eeqapttfttoèè ShsessatJdo 'dei dee ¡imotìvi — s«e\vogliono: prendere visione c ¡«delle ¡’rare I deeeomfec elaborate' ¡dalla ccU- i tura televisiva,! ¡devono fattte«amente’rim- cciTitle in orari1 iiì|ip68tìiIIli,iiÌBceifflfiea- zioni furbesche,! 'ira Us*eett»8SeJ Può> per- ! finca aaràdere tibeUst-' gemma venga- depov ■ sitata:: ai i'pédi-udel destìnatario' inccondi- •• rioni udì [pieno comodo, - supponiamo ' al- 11-inizio ' ¡dei ; pogramimi, i 'la s sera, s dii cea- '’inkle i principale, ¡'-Ma f guarda-,'caso, i ¡il ¡’¡flii- mero> dèi© persone ¡disposte ad annnanmirao:- laèèi scarso,'-©¡-¡¿li1 intellettuali1 televiBtvi - sii'meravigliano.1-Si' meraviglianiD' bhe/'do ppo e#swae s state s spinte a* ppensante cbhe Camùnissimai sia ' uno < dei \ valori fonda- mentaili ¡della- vita, le popolazioni: ¡italiane considerino'. Jancso leggermenteidiffkol- tte8o,eeu®n| pò’: magari si annoianoial ’co spetto ddi "Bresson. -¥edete?, ::dicóno: è il pubblico che non vuole-’certe cose, che -esige' programmi « popolari ». Eiil-gior- ijks ■ t appresso-, con Fainima -già I ¡ira salvo per -¡aver commissionato i SI ¡ telefilm da eesponre a àBar rassegna ¡dèi Museo-d’Arte Moderna - dell ’anno - venturo, - si dedicano alla consultazione delle classifiche :di' Flit fFaràde. Giuseppe Sibilla t e a t r a l e C o m p a g n ia A s s o d a t a d i P ro s a . E l s a G i o r g i o R o s s e l l a A L B A N I D E L U L L O F A L K R i n a P a o l o R o m o l o M O R E L L I S T O P P A V A L L I F e r r i c e l o D E C H I E S A e N o r a R I C C I O C d i L U IG I P IR A N D E L L O È S Ì A L U d i D IE G O F A B B R I B ( S E V I P A R E ) G I A R D A D A L M A T R I M O N I O A d i G E O R G E S F E Y D E A U I V D L O R Z I O G !l atto ri Cper ordirne alfoteetóe©)):: Elsa A lb a n i A nita R arto lu cci A n to n io C o lon nello F e rru ccio de C e resa R ossella FaJk A rm ando Furiai A m elia Im baglio ne A le ssa n d ro tovrno A ngela Lavagna Rina M o re lli Mora R icci Paolo S toppa G a b rie le Tozzi D ino Tra p petti R om olo V a lli Isabella G u id o tti Direzione a artistica G IO R G IO DE LU LLO P A O LO STO P PA R O M O LO V A L L I G IO R G IO DE LU LLO Sceme e wfettomiiddlii PIER LU IG I P IZZI Direttore tecnico; Renato Morozzí AAmMilimlsfirátore:: Guglielmo Ponzi '.-Wficiio stampa:: Dino Trappetti F A T T I O S C U R E P v I P A T T U n I A l H D K I I I I p e r l ’ E n t e C i n e m a M a u riz io L iv e ra n i L o -scandalo dell’Ente Gestione Cinema è venuto alla ribalta per la fermezza del m inistro Ferrari Aggradi e in seguito a una denuncia dell’onorevole Preti, il quale ha rim proverato «certi am bienti» di voler trasformare « un episodio di cattiva ammi nistrazione » in un caso politico. Prima che uscisse in campo il parlamentare socialdemocratico, le v i cende dell’Ente Cinema, con tutte le complicazioni e gli intrighi (che, a quanto afferma l ’ex presidente M ario Gallo, potrebbero dare materia a un ro manzo), erano rimaste nel lim ite di conoscenza lavori cine (non ai lavori di pochi addetti ai matografici, naturalmente, ma del sottogoverno). Cos’è l ’Ente Gestione Cinema? Chi è M ario Gallo? Quali sono gli ambienti compromessi in questo scandalo, che si allarga a macchia d ’olio e che ha offerto lo spunto a una richiesta di indagine parlamentare? L ’Ente autonomo di Gestione per il Cinema, creato il 7 maggio 1958, è un ente di diritto pubblico che dovrebbe provvedere a gestire, « secondo criteri di economicità », le partecipazioni dello Stato nel settore del cinematografo. Da un punto di vista, per così dire, disciplinare, In apertura, Fon. Mario Ferrari Aggradi, ministro delle Par tecipazioni Statali, dalle quali dipende il « cinema di stato ». l ’attuale situazione di crisi è stata provocata da un conflitto tra il consiglio di amministrazione e l ’organo di presidenza, allorché, a causa delle d i missioni di alcuni consiglieri e in seguito alla loro sostituzione, si sono m odificati i rapporti di mag gioranza. Nella realtà è successo che, al controllo del com portamento e degli atti dei dirigenti, che per legge spetta al ministero delle Partecipazioni Statali, si è sostituito quello dell’opinione pubblica, interes sata alle «segrete cose » dell’ente da sconcertanti indiscrezioni sugli sprechi e sulla politica cliente lare di un gruppo di dirigenti socialisti, di cui M ario G allo è il leader da anni. Questi dirigenti, nell’as segnazione dei cosiddetti « m inim i garantiti », han no addirittura capovolto in eccesso le regole del mercato nazionale e internazionale. Chi è M ario Gallo? Gallo è un giornalista che ha esercitato, negli anni Cinquanta, la critica cinema tografica sull’organo del Partito socialista, l ’A vanti! In seguito passò alla regia e alla produzione di cortometraggi e fu in questo settore che allacciò rapporti con m olti produttori; rapporti che ora si assumono a prova di certe sue presunte irregola rità amministrative. Fu consulente del m inistro Corona durante i lavori per la formulazione della legge 1213 sulla cine matografia e, nel 1966, fu nominato presidente dell’Italnoleggio, una società di distribuzione in ventata, voluta e creata dal PSI, agli albori del centro-sinistra. N e ll’Italnoleggio, Gallo inserì alcuni elementi che con lui avevano collaborato nel mondo dei corto metraggi. G li si rim proverò allora, e gli si rim pro vera oggi, di avere assegnato m inim i garantiti a società amministrate o dirette da un tale Ascenzo G iu lio li, che era il suo organizzatore nella Gava film , con la quale G allo esercitava la sua attività di produttore privato, prima di essere assunto al l ’alto incarico; di aver facilitato film affidati alla regia di Silvano Agosti che, con lo pseudonimo di Luca Meglio, aveva montato e diretto i corto metraggi prodotti dalla Gava; di avere intrattenuto rapporti privilegiati con la Vides, la società di Franco Cristaldi, marito dell’attrice Claudia Car dinale, e, infine, di aver concesso un « m inimo garantito » (iperbolico per quei tempi) di circa un m iliardo a Pietro Notarianni, titolare della società Praesidens ed ex-organizzatore generale di Cristaldi, per la produzione del film La caduta degli dei, diretto da Luchino Visconti. A l suo attivo Pietro Notarianni, come produttore, ha soltanto una paren tela illustre: l ’onorevole Pietro Ingrao, suo cugino. Ci riferiam o qui alle accuse di maggior effetto, poi ché a riportarle tutte si rischia proprio di scrivere un romanzo. Nel 1968, in seguito a un drammatico contrasto con alcuni membri e con il presidente del collegio dei sindaci dell’Ente Cinema, Gallo si di mise, adducendo m otivazioni analoghe a quelle di oggi. Creò una nuova società di produzione, l ’A lfa film , con la quale realizzò il film M orte a Venezia, diretto da Luchino Visconti. G li osservatori maliziosi notarono che M orte a Venezia veniva realizzato con il finanziamento di quella stessa W arner Bros, alla quale l ’Italnoleggio, sotto la presidenza di Gallo, aveva ceduto con un’operazione assai criticata, i d iritti di esclusività per l ’estero del film La caduta degli dei. Gallo si difende sostenendo che la cessione de La caduta degli dei avvenne dopo le sue dimissioni da presi dente dell’Italnoleggio. I suoi detrattori affermano che la trattativa era cominciata quand’egli era an cora in carica. Va anche ricordato che i d iritti per lo sfruttamento a ll’estero della Caduta degli dei furono ceduti per una cifra irrisoria (dato l ’alto valore artistico e commerciale del film di Visconti) ai produttori che subentrarono al Notarianni nella Praesidens e che questi produttori realizzarono, con questo sfruttamento estero, favolosi guadagni. La condotta dei dirigenti dell’ Italnoleggio, in quella circostanza, fu da molte parti criticata. E ’ possibile che essi non abbiano valutato le possibilità di suc cesso dell’opera di Visconti sul mercato straniero? Nel settore privato, oltre che con l ’A lfa, Gallo agiva anche con la Gava, nella quale il regista Florestano Vancini era socio al 50 per cento. Gallo e Vancini produssero I fa tti di Bronte che ebbe dalla Rai-Tv un contributo di 180 m ilioni. Fu accusato di questo trattamento, considerato an- ch’esso preferenziale, l ’ex-amministratore della tele visione Luciano Paolicchi il quale, nel 1966, nella sua qualità di responsabile della commissione cul turale del PSI, aveva contribuito a far nominare Gallo alla presidenza dell’Italnoleggio. Pur dedi candosi con molto impegno alla produzione p ri vata, Gallo non tralasciò la m ilizia politica e ciò sollevò, in m olti dei suoi critici, gravi pregiudizi di carattere morale. Continuò a mantenere la carica di segretario del Sindacato dei giornalisti cinema tografici (che per legge hanno una folta rappre sentanza nelle commissioni che assegnano a ll’indu stria privata i benefici di legge), a far parte del Mario Gallo, presidente dimissionario dell’Ente Cinema comitato direttivo dell’Associazione nazionale auto ri cinematografici (AN A C ) e a esercitare un’atti vità politica e sindacale che, automaticamente, si poneva in contrasto con gli interessi dei produttori, della cui categoria era diventato un esponente autorevole. Fu giudicato anche assai grave il fatto che il Partito socialista italiano lo avesse delegato a rappresen tarlo nella commissione che M alfatti (allora m ini stro delle Partecipazioni Statali) aveva costituito per la formulazione di un nuovo schema di statuto e di riform a degli enti cinematografici. Dai lavori di quella commissione scaturì la proposta di con centrare tutto il potere al vertice dell’Ente cinema e tutti sapevano che alla presidenza di questo sa rebbe stato nominato, con certezza, proprio Ma rio Gallo. A lla vigilia di questa nomina, accadde un fatto sconcertante: il giudice Plotino della procura della Repubblica di Roma iniziò un procedimento per indizio di reato contro M ario Gallo e tutti coloro che avevano avuto incarichi direttivi nelle società cinematografiche pubbliche tra il 1966 e il 1968. La richiesta di perizia, che fece seguito a ll’avviso giudiziario, è composta da alcuni paragrafi nei quali sono contenuti m olti degli elementi sopra riassunti. Il procedimento aveva preso l ’avvio da numerose interrogazioni alla Camera nelle quali si chiedevano delucidazioni sulle critiche che agli am m inistratori delle aziende cinematografiche ve nivano fatte nella relazione della Corte dei Conti presentata in Parlamento nel febbraio del 1971. In tale relazione si deplorava il fatto che a ll’Ital- noleggio (la società ultim a venuta) fosse stato asse gnato circa il 40 per cento di tutto il fondo di dota zione dell’Ente Cinema, che era di 4 m iliardi e 800 m ilioni. Secondo il piano di utilizzo proposto dal presidente dell’ente stesso, avvocato Giorgio Mo- scon, socialista come M ario Gallo, tale fondo avreb be dovuto essere utilizzato nell’arco di quattro gestioni (dal 1966 al 1969); nel 1968, invece, al momento delle dimissioni di tutta l ’équipe socia lista, era totalmente esaurito. L ’Italnoleggio veniva indicata come la causa dello squilibrio di tutto il sistema delle società cinema tografiche poiché sull’assegnazione dei fondi do veva prevalere l ’esigenza prioritaria del riassetto dell’Istituto Luce e di Cinecittà che versavano in gravi condizioni di deficit. A l dicembre del 1968 i disavanzi delle due società erano i provvedimenti dell’articolo 2426 del codice civile. Il governo evitò di impegnarsi in una discussione in Parlamento su questi rilie vi che, fin da allora, tali da rendere necessari facevano parte, apparirono sconcertanti. Quasi tutte le interroga zioni e le interpellanze decaddero. Era evidente la preoccupazione di evitare uno scandalo che po tesse compromettere i socialisti i quali, in quel momento, in modo massiccio e determinante, della coalizione. Ma alla raccoman dazione del vertice politico si sottrasse il prefetto Valente che, nel frattempo, era diventato commis sario dell’Ente Cinema. Valente, funzionario scru poloso, proveniente dal ministero degli Interni, volle prendere sul serio l ’incarico commissariale, al quale era stato delegato dal m inistro Piccoli, e dimostrò di possedere un occhio assai acuto nella lettura delle cifre. Sfogliò alcuni lib ri contabili, controllò la situazione dell’Italnoleggio e, nel giro di un giorno e mezzo, fu in grado di compilare un rapporto nel quale si rilevavano gravi irregolarità amministrative. Il rapporto fu consegnato a ll’onorevole Piccoli che si mise le mani nei capelli, anche perché, su pres sione del PSI, la nomina di Gallo a presidente del l ’Ente Cinema avrebbe dovuto essere in quei giorni decretata. Intorno alle tre cartelline dell’indiscre to prefetto si tentò di stendere la cortina dell’omertà, ma il segreto non potè essere mantenuto. L ’imminente decreto di nomina, in fa tti, aveva sca tenato una faida tra i vari candidati dei partiti, poiché non era solo in gioco la presidenza Gallo, ma tutta la rappresentanza am ministrativa delle aziende, a partire dal consiglio di amministrazione dell’Ente Cinema fino alle amministrazioni uniche dell’Italnoleggio, di Cinecittà e dell’Istituto Luce e ai posti direttivi intermedi. Furono proprio i comunisti a rivelare l ’esistenza del rapporto Valente in numerose interrogazioni. La procura della Repubblica fu costretta a interes sarsene. Valente fu invitato, pena l ’incriminazione, a presentare il suo esposto alla magistratura. Fu così che ebbe inizio quel procedimento per indizio di reato, di cui recentemente l ’onorevole Gonella, m i nistro di Grazia e Giustizia, ha assicurato la con tinuazione. Da quel momento è cominciato il procedimento in diziario del giudice Plotino, un’indagine delicata e d ifficile, a detta dello stesso onorevole Gonella, di cui al momento attuale non si possono preve dere le conclusioni. Malgrado la spada di Damocle di un tale procedimento, i socialisti vollero per forza (soprattutto per volontà dell’allora segre tario del PSI, Giacomo M ancini) M ario Gallo alla presidenza dell’Ente Cinema. Q uali sono gli ambienti p o litici compromessi, in una maniera o nell’altra, nello scandalo? Più che alle segreterie, dobbiamo rife rirci ai centri in particolare, alle di potere dei vari partiti e, tali elezioni In seguito a commissioni culturali, i cui responsabili erano de legati a trasmettere e a discutere le varie candi dature e la proporzionale ripartizione della rappre sentanza. Questi centri erano raffigurati, nella com missione interpartitica che doveva riferire al m i nistro Piccoli, da Beniamino Finocchiaro del PSI, da Guido Ruggiero del PSDI, da Giuseppe Ros sini della DC. I repubblicani, in quell’occasione, si defilarono subito dalle trattative, avanzando la stessa pre giudiziale che ponevano nei rapporti con il go verno centrale. I patti tra i delegati dei tre partiti furono conclusi dopo drammatiche consultazioni. M ario Gallo sarebbe stato nominato presidente del l ’ente, a ltri due socialisti sarebbero entrati a far parte del consiglio di amministrazione, insieme a due socialdemocratici, cinque democristiani e tre lavoratori delle società inquadrate, di cui non si potevano prevedere le tendenze politiche, poiché le scelte dovevano essere determinate da elezioni interne. furono eletti due am m inistratori di sinistra e un democratico cristiano. M ario Gallo s’insediò alla presidenza dell’ente e richiese alcune deleghe al consiglio di amministra zione che gli furono accordate: si trattava di dele ghe che demandavano alla presidenza la scelta defi nitiva dei soggetti e la valutazione dei « m inim i garantiti ». II « m inim o garantito », com’è noto, è la conven zione con la quale una società di distribuzione, dopo aver valutato il progetto globale di un film , il preventivo, il costo effettivo, la qualità degli attori e il valore commerciale di un regista, anti cipa una certa somma al produttore, a garanzia dell’acquisizione del film stesso. Sulla carta, in base alle previsioni fatte, tale som ma dovrebbe essere recuperata. Si tratta di valuta zioni assai d iffic ili e rischiose, data l ’imprevedibi- lità e la m obilità del mercato. In linea di massima, secondo consuetudini ormai stabilizzate, il « m i nimo garantito » non dovrebbe superare il 50 per cento del costo effettivo del film che il distribu tore ha il dovere di individuare secondo i propri autonomi convincimenti. E’ d ifficile, in fa tti, che si dia il caso che un produttore presenti un preven tivo sincero. Il suo scopo in fa tti è quello di otte nere il massimo « m inim o garantito ». « In questo prim o periodo di gestione — afferma lo stesso G allo — i rapporti con il ministero delle Partecipazioni Statali furono abbastanza norm ali e corretti. I rapporti con il collegio sindacale furono im prontati alla reciproca volontà di collaborare ». In effetti la rottura tra la presidenza, il consiglio di amministrazione dell’ente e il collegio sindacale tema delle assegnazioni dei avvenne proprio sul « m inim i garantiti ». Una furiosa campagna da destra (seppure pregiu dicata dalla colorazione politica dei gruppi che la conducevano) rivelò notizie che preoccuparono sia gli am m inistratori democristiani che l ’autorità tu toria. Si seppe che Gallo aveva agito per assegnare « m inim i garantiti » da 150 a 180 m ilioni a « ope re prime » che sarebbero state prodotte o dirette L’on. Luigi Preti, presidente della Commissione Bilancio e Tesoro della Camera, che ha preso posizione verso la gestione Gallo. da alcune persone che avevano con lu i collaborato nelle sue produzioni private. Vennero alla luce collegamenti con ditte, società e autori che avevano fatto parte della cerchia di Gallo e del suo ambiente e che, sul piano associativo, avevano sostenuto la sua politica cinematografica. Si cominciò a parlare, per gli altri film del listino, e in particolare per i capigruppo, di cifre da ca pogiro. D al verbale di una riunione tenuta a ll’Italnoleggio in data 7 novembre 1972 (sfuggita, non si sa come, al segreto di ufficio) si conobbe la cifra vertiginosa che l ’ente aveva deliberato in un anno per l ’acqui sizione di film : 9 m iliardi e 408 m ilioni, che con 500.000.000 300.000.000 300.000.000 135.000.000 150.000.000 1.100.000.000 560.000.000 800.000.000 660.000.000 450.000.000 il listino successivo avrebbero raggiunto, global mente, il tetto di 16 m iliardi e 650 m ilioni. Riproduciamo, qui di seguito, i tito li dei film e i relativi « m inim i garantiti » assegnati per i così detti film slittati nel listino 1973. Film capigruppo Tecnicamente dolce, di Antonioni Clementina (se con la V itti) Giordano Bruno Missione di Em ilio R Eia Eia A lalà Film medi Allosanfan Sposa mia Prete fai un miracolo Opere prime I l messaggio Viaggio nella vertigine Film d iffic ili La circostanza 85.000.000 Queste notizie non potevano non provocare la pre occupazione del ministero delle Partecipazioni Sta tali e del collegio sindacale. Il m inistro emanò una direttiva, in cui stabiliva nuovi criteri di gestione e demandava a ll’intero consiglio di amministrazione la responsabilità di ogni decisione amministrativa. A llora Gallo, appoggiato dalle associazioni di si nistra, e in particolare d a ll’A N A C , guidata da Fran cesco Maselli (anch’egli tra i privilegiati dell’ente di Stato: dirigerà Missione di E m ilio R), reagì vio lentemente, definendo la direttiva una illegittim a intrusione negli affari di un ente che non era un organismo governativo, ma statale. I sindaci si schie rarono a favore del m inistro e, d ’accordo con gli am m inistratori democristiani, ritirarono a Gallo le deleghe precedentemente rilasciate. Un deputato socialista protestò in Parlamento. L ’onorevole Ferrari Aggradi oppose che l ’osservan za dei criteri di corretta amministrazione dovevano prevalere su qualsiasi altra considerazione politica. A sua volta l ’onorevole Preti, su richiesta del grup po comunista e socialista, riunì la Commissione b i lancio e partecipazioni statali, dove il socialdemo cratico onorevole D i Giesi, per un verso, e il mis sino Giuseppe Niccolai, per l ’altro, elevarono gra vissime critiche ai metodi di gestione di M ario Gallo. Gallo intanto era stato messo nella condizione di non poter agire. Nel frattempo i produttori del film Giordano Bruno, al quale era stato assegnato un « m inim o garantito » di 800 m ilioni, scalpitavano perché il consiglio di amministrazione dell’ente tar dava ad approvare le modifiche alla sceneggiatura. ( Il film di M ontaldo è passato, dopo le dimissioni di Gallo, a una ditta privata, la Euro, che lo ha preso in distribuzione per una cifra m olto infe riore a quella offerta d a ll’Ente Cinema). Su questo tema, nel quale si adombravano preoc cupazioni politiche (dato il contenuto del film ) dei consiglieri democristiani, avvenne la rottura. Gallo diede quelle dimissioni che l ’onorevole Andreotti gli rim proverò di aver rassegnato. Le associazioni professionali di sinistra, sempre p i lotate d a ll’A N A C , iniziarono una violenta campa gna di stampa, contestando le accuse di cattiva amministrazione che venivano rivolte a Gallo e a ttri buendo la paralisi dell’ente a una volontà demo- cristiana e socialdemocratica di restaurazione e in versione delle tendenze progressiste. Fu chiesta la revoca delle dimissioni. L ’onorevole Andreotti, in effetti, fete di tutto per smuovere dalla sua rigorosa e lineare posizione l ’onorevole Ferrari Aggradi, poi ché, a quanto si dice, sosteneva la inopportunità di « stuzzicare i socialisti » su un terreno di lim ita ti interessi, confrontati a quelli che si concentrano in a ltri settori delle partecipazioni statali (il fondo di dotazione dell’ente, in fatti, ammonta a soli quaran ta m iliardi). Ferrari Aggradi si dimostrò irrem ovibile. Proprio mentre l ’A N A C insieme a tutte le altre associazioni inquadrate protestava davanti agli u ffic i dell’Ente Cinema, giungeva la notizia della nomina a presi dente di Luigi Chialvo, un funzionario dell’IR I, molto stimato dal m inistro. Ferrari Aggradi ha an teposto a considerazioni di opportunità gli interessi dell’ente consultandosi ripetutamente con i sinda cati che hanno approvato il suo programma. Il resto è cronaca di questi giorni. L ’onorevole Preti è intervenuto nelle polemiche per negare il signifi cato politico che « certi ambienti » intendono dare a tutta la vicenda e lo delim ita a un semplice caso di « scorrettezza am ministrativa ». Chiede, infine, una indagine parlamentare. A lla richiesta si associa anche il Partito liberale. G allo querela l ’onorevole Preti e l ’ex-ministro delle Finanze risponde di essere pronto a spogliarsi del l ’im m unità parlamentare per documentare le sue accuse. Questi i fatti. Tentare di esprimere un giudizio sul l ’azione culturale e politica del PSI come è stata condotta da M ario Gallo è difficile , se prima, a livello di Parlamento e di magistratura, questi fatti non vengono illu m inati da un ’obiettiva valutazione. La presidenza Gallo è stata messa sotto accusa in un arco che abbraccia democristiani, liberali e so cialdemocratici. Ha trovato una tiepida solidarietà soltanto nell’estrema sinistra. Questi, ripeto, i fa tti più oscuri e oggi in via di chiarimento e, soprattutto, di correzione. Le po lemiche ariate, faziose e astiose, dovrebbero ora ricomporsi, e cedere il passo a patti chiari. E ’ a questo compito che ha subito messo mano il neo presidente Luigi Chialvo, uomo di provata capa cità e responsabilità. Maurizio Liverani R i s p o s t a a M a r i o G a l l o Questa inchiesta sull’Ente Gestione Cinema, parzialmente anticipata sull’ « Europeo », ha mandato in bestia il presidente dimissio nario, Mario Gallo, il quale nell’articolo ha intravisto soltanto motivi di risentimento per sonale perché io non avrei visto appagata la mia ambizione di diventare Amministratore Unico dell’Italnoleggio. Con fierezza, Gallo rivendica il merito di essersi opposto a que sta nomina proposta, dice, da « un sottogrup po socialdemocratico ». E’ bene esaurire su bito questo argomento che dimostra quale e quanto sia il livore dell’ex presidente perché il suo giochetto di favorire soltanto ditte cine matografiche a lui direttamente o indirettamen te collegate, con i «minimi garantiti» dell’En te, è stato, ormai, scoperto. Lo esauriamo su bito ricordando al Gallo che, se egli era il can didato del PSI alla presidenza dell’Ente, il sottoscritto era stato designato all’Amministra zione Unica dell’Italnoléggio dalla segreteria del PSDI, con una votazione unanime. Ci è facile replicare al 'Gallo che, con un’al tra amministrazione all’Italnoleggio, difficil mente gli sarebbe riuscito di far assegnare centinaia di milioni a ditte che danno scarse garanzie. Gallo alla testa dell’Italnoleggio ave va bisogno di una persona docile che facesse approdare al tavolo degli amministratori del l’Ente soltanto alcuni progetti e non tutti i progetti. Ora, egli cerca di coinvolgere, nelle sue responsabilità, anche quelle degli altri amministratori. In verità i consiglieri d’ammi nistrazione dell’Ente sono stati sino ad oggi chiamati a dire se un film andava fatto o no. Non gli si diceva nulla sulla ditta che lo pro poneva, né sui « minimi garantiti » che gli venivano accordati. Il dibattito era soltanto di natura ideologica. Gallo diceva press’a po co: « Io vi propongo con procedura d’urgen za questo film che ci è conteso da molte altre case distributrici. Dobbiamo fare presto, al trimenti ce lo soffiano ». Chi conosce bene la situazione del cinema italiano sa che non esi ste alcuna caccia ai film impegnati « ideolo gicamente », ma soltanto ai film « commer ciali ». Un ricattino era sempre il sottinteso di ogni riunione di consiglio: se vi opponete a questo film che tratta di un povero mona co trascinato alla sbarra dell’Inquisizione e poi al rogo, siete dei reazionari. Le sceneggia ture che filtravano sino al tavolo del Consi glio attraverso il setaccio dell’Italnoleggio sono quasi tutte ideologicamente irreprensi bili. A non essere irreprensibili sono i « mi nimi garantiti » che, come sostengo nell’arti colo, stravolgono addirittura il mercato cine matografico italiano. Le ditte proponenti, infine, per un verso o per l’altro hanno avuto (non tutte, è onesto ammetterlo) qualche parentela d’affari con il presidente Mario Gallo. Nell’inchiesta da me svolta giungevo alla conclusione che la politica dell’ex presidente dell’Ente è stata una politica clientelare. Abbiamo soltanto ri ferito le accuse documentabili della gestione Gallo, rinunciando, con uno sforzo stoico, a riferire tutto quanto il mondo del cinema (anche quello prossimo al presidente dimis sionario) dice e mormora perché rientra nel la sfera del pettegolezzo. Il dilettantismo e la improvvisazione di tutti coloro che, nelle vi cende dell’Ente Gestione Cinema, non hanno saputo sottrarsi alla facile mormorazione, non sembrano, in confronto ai dati politici che la vicenda fornisce, dissimili dalla scriteriata audacia dei pionieri di un nuovo continente. M.L. P E R U N A P O L I T I C A C U L T U R A L E D E L C I N E M A recenti vicende dell’Ente Gestione Cinema hanno vi vacemente richiamato l’attenzione dell’opinione generale sul tema del cinema pubblico. Si tratta di un discorso che non può essere disgiunto dal problema della politica cine matografica nel Paese e questa dalla politica della cultura. L’istanza di un organico rapporto tra questi momenti fon damentali — cinema, programmazione e politica culturale — è per la verità avvertita da molti, ma si è trattato purtroppo finora di aspirazioni astratte: il disegno del raccordo non ha preso consistenza operativa ed ognuno continua ad ope- intesa non come politica di potere, ma come politica cul turale, vale a dire fondata su una serena e completa analisi della situazione e delle possibilità offerte dalle strutture, adottando risposte adeguate alle domande variamente espres se, evitando la soluzione caso per caso, ma rispettando le regole di una programmazione che lega la politica cinema tografica alla politica culturale e questa alla politica globale. Su questa linea si rivela fondamentale l’esigenza di una strategia di raccordo tra i protagonisti operanti nelle diverse sfere del mondo cinematografico: ideazione, produzione, M a tte o A ja s s a rare nel proprio spazio con strategie troppo spesso isolate ed isolanti. Eppure l’istanza è anzitutto ampiamente giustificata dal rilievo che le varie tecniche audiovisive hanno assunto in una realtà sociale dinamica come la nostra. I diagrammi nella produzione dei consumi confermano in fatti che una larga misura del tempo libero dell’uomo me dio italiano è dominio stabile di questi prodotti diffusi in tutti gli ambienti, con obiettivi non solo di svago, ma di informazione e di acculturamento. La loro incidenza non è estranea a quel vasto processo di trasformazione che caratterizza attualmente la nostra so cietà, ove l’esuberante consumo dei prodotti audiovisivi, con l’eloquenza di un linguaggio estremamente facile ed accattivante dotato del duplice privilegio della immedia tezza e della universalità, interessa aree culturali piuttosto eterogene di opinione pubblica del nostro paese che pur avendo « codici diversi » stanno subendo, a tutti i livelli, la massiccia irruzione dei prodotti dell’industria culturale. E’ un’incidenza che si accompagna dovunque alle modifi cazioni economiche, sociali, culturali in atto nella quale sono in gioco, non solo il complesso degli atteggiamenti di cultura, ma il quadro stesso dei valori e delle norme. Il discorso dell’intervento dello Stalo nel cinema e la politica cinematografica e della politica della cultura trova pertanto la base del suo raccordo su questi elementi tipici della dinamica di un paese che vive un’intensa fase di transi zione culturale. D a questa premessa consegue che il cinema ha un suo preciso, rilevante ruolo: un cinema, si intende, nel quale è in atto un processo modificativo che va attentamente considerato. Di qui perciò l’esigenza di una politica cinematografica distribuzione, esercizio, critica ed iniziative di formazione culturale ed educativa sono componenti in un certo senso indissociabili. E’ una politica quella del cinema, che esige senso della gradualità e convinzione democratica. Una politica, per questo, dialettica e rispettosa del plurali smo culturale che caratterizza la nostra comunità, nella quale contano le strutture, le innovazioni tecnologiche, ma non vanno ignorati gli autori, in modo particolare quelli che dovranno essere gli autori di domani. Ì n questa prospettiva, cinematografia privata e cinemato grafia di Stato non costituiscono i termini irriducibili di una antitesi: sono invece destinati a convergere e a colla borare senza scontrarsi. Dal canto suo, è giustamente detto nella relazione sullo schema di disegno di legge concernente l’aumento di fondo di dotazione e finanziamento dell’Ente Gestione Cinema, l’intervento statale nel settore cinematografico pubblico non ha e non deve avere una ragione di essere puramente con tingente e finalizzata al salvataggio di iniziative già esistenti. L’intervento finanziario dello Stato deve rispondere a un preciso ed insostituibile impegno di carattere culturale e civile della collettività. Infatti il cinema interessa, e con incidente rilevanza, la dinamica del costume, della educazione, della formazione civica e culturale della collettività. Proprio per questo lo Stato non può ignorare o trascurare il settore, ma deve avere in esso una presenza costante ed efficace, pienamente giustificata dall’importanza sociale che il mezzo cinemato grafico riveste in un momento storico caratterizzato dall’uso in prevalenza consumistico di tale strumento di diffusione del pensiero. L’intervento pubblico, pur lasciando all’ini ziativa privata lo spazio che le è proprio e favorendone anzi un corretto sviluppo, dovrà essere rilevante e giusti ficato in quei comparti che maggiormente coinvolgono l’in teresse della collettività attraverso un’opera intelligente e sensibile di integrazione, di propulsione, di armonizzazione. J-~ra presenza delle imprese pubbliche nel campo cinemato grafico deve essere rivolta a fornire allo spettatore in clima di libertà creativa, una alternativa al cinema cosiddetto mercantile, utilizzando il cinema come veicolo di informa zione e strumento di formazione del pubblico e in parti colare dei giovani, favorendo la conoscenza e la diffusione delle opere cinematografiche italiane ed estere che abbiano validi requisiti artistici e culturali, promuovendo lo svi luppo tecnologico, garantendo la conservazione e l’utilizza zione del patrimonio di opere e di documentazioni cinema tografiche, stimolando l’affermazione del film italiano al l’estero e la cooperazione culturale e tecnica in sede inter nazionale. Si tratta, insomma, di assicurare che l’intervento statale abbia una dimensione ed un peso ben preciso e determi nante, mentre esso finora, nonostante i molti sforzi com piuti, è risultato più che altro nominale e non soltanto per motivi di ordine strettamente economico, per la vetustà degli impianti e la pesantezza degli oneri finanziari soppor tati dalle imprese pubbliche del settore, ma anche per ca renze interessanti la stessa meccanica delle decisioni adottate. Questo richiamo ai documenti ufficiali intende offrire a quanti si chiedono le ragioni dell’intervento pubblico nel cinema elementi sufficientemente indicativi per inquadrare quella che è stata chiamata la possibile ideologia di una corretta ed efficiente presenza dell’impresa pubblica nel settore cinematografico. cy^sosi precisato, il discorso sull’intervento pubblico nella cinematografia può trovare senza cedere a tentazioni uto piche il suo avvio verso una corretta, non rigida, ma ela stica impostazione dei problemi. Il che sarà possibile a patto che le imprese, (come si legge già nel documento ela borato dalla commissione consultiva istituita presso il Mi nistero delle Partecipazioni Statali con il compito preciso di fissare gli indirizzi programmatici ed operativi della co siddetta cinematografia di Stato) operino nella piena con sapevolezza dell’esercizio della funzione pubblica che esclu da dispersioni sezionali ed esiga il coordinamento con la azione di altri gruppi a partecipazione statale (in modo par ticolare con la Rai-Tv), anche per assicurare l’intervento pubblico nella prospettiva dello sviluppo tecnologico dei mezzi audiovisivi. L’intervento dello Stato si attua attra verso un’organismo verticale completo, integrato in tutti i vari stadi dell’elaborazione del prodotto cinematografico e della sua offerta al pubblico (produzione, stabilimenti, ser vizi, noleggio, distribuzione, esercizio, distribuzione al l’estero, ecc.) e costituisce anche una forte struttura indu striale e produttiva che l’attività cinematografica nazionale non ha mai avuto e che l’iniziativa privata non ha finora creato. Questa struttura, che deve essere posta a disposizione delle migliori forze creative e sollecitare nuove forze produttive del cinema nazionale, rappresenta una possibilità completa per l’eliminazione delle periodiche crisi del settore o, al meno, per attenuarne gli effetti, per far fronte ai mutamenti delle condizioni di mercato, per assicurare la continuità e l’autonomia creativa della produzione in Italia, anche indi pendentemente dagli apporti del capitale straniero, per ga rantire il livello di occupazione dei tecnici e delle maestran ze, per calmierare i costi e per selezionare le iniziative degne di interesse, per l’impegno artistico e culturale, che incontrano ancora molte difficoltà ad essere accolte dai normali canali commerciali. Questo discorso vale naturalmente per il grande cinema, il « cinema spettacolo », ma anche per le cinematografie spe cializzate che operano in uno spazio caratterizzato, per usare le espressioni dell’appendice al « progetto 80 », da « esigen ze di promozione sociale », « di perfezionamento culturale, di riconversione e aggiornamento professionale ». Si tratta, per la verità, di esplicite domande rivolte alla cinematografia specializzata la quale deve tener ben pre sente che il fronte dei problemi sociali, culturali, professio nali e formativi è il fronte sul quale deve muoversi, non in generici termini di comunicazione di massa, ma individuan do i suoi destinatari. Una comunicazione che punta tra l’altro sull’educazione permanente e sull’apprendimento, capace con i suoi diversi prodotti di integrarsi con gli altri media. Questo integrarsi esige una « strategia flessibile » nella qua le sia tenuto costantemente conto della connessione tra pro mozione culturale, informazione, apprendimento e modifi cazioni economiche, tecnologiche ed organizzative. I l rapporto cinematografia di Stato, politica cinematogra fica e programmazione esige naturalmente un impianto di fondo organico, sorretto cioè da un indirizzo programmatico che individua i vuoti, elimina le duplicazioni e blocca gli sprechi. Esso si esprime nel concreto attraverso un piano non estem poraneo di interventi ai vari livelli e nei vari settori. In tal modo il cinema potrà definire il proprio ruolo tra le agenzie audiovisive di promozione culturale ed educativa, precisando la sua funzione di nesso tra le esperienze diverse e soprattutto di stimolo nella affermazione di valori e di comportamenti capaci di incidere sul rinnovarsi della vita civile. Il tutto affrontato con una attitudine graduale e concreta che non si propone tutto subito, e troppo spesso male, ma che sa applicare criteri di scelte prioritarie non guidati dal la moda o da altre più o meno discutibili sollecitazioni. Una attitudine che non escogita le nuove soluzioni sulla base di suggestioni dettate da pura fantasia, ma che conosce il decisivo valore della sperimentazione. Su queste linee sia il « cinema spettacolo » che il « cinema specializzato » son chiamati ad operare un progressivo ridi mensionamento delle distanze tra cultura scolastica, cultura popolare e cultura tecnica favorendo la libera formazione degli individui e dei gruppi. E’ un impegno che va ulte riormente precisato definendo e con urgenza una politica dei rapporti tra sfera pubblica e sfera privata tenendo però sempre presente che nel caso della cinematografia di stato ci si trova di fronte ad una « impresa pubblica che produce beni eccezionali come raggiungimento dei fini sociali con il minor costo possibile e con la ricerca di tutti i possibili recuperi ». Matteo Ajassa I N M E M O R I A D I L U C I O R I D E N T I m o n e o c o l o l a s t o r i a P e r un quarantennio la testata del « Dramma » e il nome di Lucio Ridenti sono stati una cosa sola. La mia generazione ha trovato già la rivista con inserti fotografici, m olti articoli, notiziari interna zionali e piena attenzione al rinnovamento allora in atto nel teatro italiano, tra le « A rti » di Bragaglia (cui Ridenti diede un appoggio costante) e le inizia tive dei giovanissimi registi. Ma m olti di noi avevano in casa, e gelosamente conservavano, la prim a serie del « Dramma », quella che si era pubblicata quan do eravamo bam bini: la serie che portava una sola foto, nella copertina (contornata ogni volta da un colore diverso); dentro, una commedia, due o tre pezzi leggeri, qualche volta un corsivo editoriale; in fondo, il famoso « Termocauterio » di aneddoti più o meno fantasiosi, che faceva sognare la pro vincia italiana sul mondo ancora m itico del teatro. Era il quindicinale torinese parallelo alle « Grandi firm e », con lo stesso formato, la stessa carta e lo stesso numero di pagine. Con questa differenza: che il problema grafico P itig rilli l ’aveva risolto una vol ta per tutte, con quella mano che reggeva il titolo della novella, la riproduzione in facsim ile delle fir me, e pochi culs-de-lampe, sempre gli stessi. Ridenti invece aveva scoperto un disegnatore geniale, mo dernissimo, Erberto Carboni, che in uno schema d ’impaginazione costante introduceva continue va riazioni ispirate al mutevole contesto; d’un sapore tra umoroso ed astratto, le vignette infioravano e stilizzavano Verneuil, Chiarelli, Muñoz Seca... Quel la prim a serie del « Dramma » non si era ancora aperta alle proposte della K u ltur; trascriveva le com medie « di grande successo » via via che si rappre sentavano, e le inseriva in un lieve documentario di costume. D i un costume volubile, epidermico, pro fumato: « con la riga al Pantalone », come il Gasto ne di Petrolini, e col monocolo a ll’orbita, come il suo direttore. Non era stato Ridenti l ’attore più noto in Ita lia per i suoi foulards, i suoi panciotti, le sue cravatte, i suoi smoking? Non doveva egli darci, qualche tempo dopo, un famoso manuale di elegan za maschile? Anche la rivista (lasciata la profes sione d’attore, e coltivando in quest’altro modo il suo disperato amore per il teatro) Ridenti l ’aveva messa sotto il segno dell’eleganza. Ma la seconda serie era attentissima alle inquietu dini del tempo. Tuttavia l ’origine «di palcoscenico» (un moto che andava dal palcoscenico alla cultu ra, e non viceversa) rimaneva visibile nella stretta ostilità di Ridenti alle proposte di Silvio d’Amico. G li parevano, come a Bragaglia, invasioni, in tru sioni di letterati nel campo « dell’arte »; gli pare vano avverse a certe avanguardie internazionali, che AG B unico ed ultim o coltivava; gli parevano lim i tare la spontaneità del rapporto fra scena e pubbli co, il gioco libero del successo. A Ridenti non anda- va giù che il teatro potesse diventare una sorta di Ente di stato o un’appendice dell’Università. In questo era rimasta, dentro di lui, la resistenza del l ’attore, la diffidenza di una categoria abituata a vincere da sé le proprie battaglie, a cominciare da quella per l ’esistenza. L ’ho conosciuto allora: nel ’41-’42, alle « A rti ». E fu, nel ’43, il mio prim o editore. Stampò nella colla na « Teatro » la mia traduzione della M alquerida di Benavente. Nella copertina, stilizzatissime rondini di Carboni. La collana — interrotta più volte, osta colata dalla guerra —conteneva stim oli a un reper torio nuovo, ripensamenti critici notevoli, ed ebbe fortuna. Nel dopoguerra, tornato Ridenti alla sua testata, già profanata da una versione repubblichina affidata ad altri, a quella collana agile ne aggiun se una solenne, quella dei libroni, opera omnia di grandi drammaturghi. E mi piace ricordare il grosso Strindberg curato da Oreglia che, se non era completo (e come avrebbe potuto esserlo?) era certo di una vastità e di una novità, per gli italiani, da dover essere messo alla testa di tutto lo strind- berghismo di poi. Intanto la rivista prendeva una terza strada. Dopo aver seguito per qualche anno l ’andazzo del dopo guerra (americani ed esistenzialismo, a dosi mas sicce, alternantisi con lo spiritualismo a ll’italiana) e dopo aver promosso una rete d ’inform azioni in ternazionali sempre più fitta, con collaboratori che andavano dai grandi nomi del teatro straniero ad alcune « trovate » tipiche di Ridenti (il filosofo A n nibaie Pastore che, in veneranda età, si mette a scrivere di teatro, interpretando Ghelderode e A r taud), sul declinare degli A n ni Cinquanta la rivista si restringe, si lim ita non solo economicamente ma polemicamente. Ancora una volta la diffidenza del l ’antico attore si manifesta: la linea D ’Am ico ha vinto un po’ troppo, i registi schiacciano la creatività degli interpreti, le scelte avvengono a liv e lli letterari o politici, l ’azione dei teatri stabili porta troppo lontano da quella dolce Nostalgia, da quella gar bata Conservazione, che erano inelim inabili dallo spirito di Ridenti. Si rimette a polemizzare in nome di lìbere iniziative e compagnie; e batte, come non mai, sul tasto dell’autore italiano. Perché di questo II 15 gennaio ’73 è deceduto Lucio Ridenti, fondatore e direttore sino all’ottobre 1968 della rivista « Il Dramma ». Gregorio Sciltian: « Ritratto di Lucio Ridenti ». In apertura, una sua foto, tra le due guerre. egli era convintissimo: che solo da un patto costante fra scrittori e attori nazionali potesse trarre alimen to la vitalità di un teatro nazionale. Un ideale che egli interpretava magari capricciosamente, al vento delle amicizie cui era proverbialmente fedele; ma un’idea fissa che rimane un suo blasone, un suo segno. Ridenti ha scritto per anni, sul « Dramma », quelle pagine intitolate « piccolo ricordo » che ha poi an che riunito in volume: via via che i suoi maestri e i suoi stessi coetanei scomparivano, egli ne ricor dava, con vera commozione, la figura e il lavoro. Faceva la sua guerra contro il tempo, in un mondo come quello teatrale che la polvere divora cosi in fretta. Ora è arrivata anche per noi l ’età dei necro logi. Ma in questi tempi aspri non è facile trovare l ’eleganza felpata dei suoi « ricordi »: si resta a guardare, sgomenti, come le cose si allontanano. Come si allontana l ’alta figura démodée di Ridenti, gentiluomo inim itabile, fig lio di un’arte senza pro blemi, e che tanto contribuì a fissarne la cronaca, la storia. Come quando indusse Simoni a ristampare tutte le sue cronache, e le curò amorosamente, certo di tramandarci quel teatro che aveva cercato di sal vare in sé per tutta una vita. Ruggero Jacobbi Fortunatam ente, fatalmente L ’Am bleto di Testori, pubblicato da Rizzoli sotto il Natale del ’72 è pas sato subito sulle scene, per merito di Franco Pa renti, nella prim a metà del gennaio ’73, e qui a M ilano, com’è giusto, perché il suo è un gran testo lombardo; e in pieno inverno, come era immanca bile, perché tutto quello che in questo dramma di Testori è detto e scritto, pregato e bestemmiato, sconsacrato e innovatissimo, viene come da una protratta agonia iemale, da una ibernazione tene brosa, ma nel contempo lucente quanto più è avve nuta, e si è consumata, in quella che Am bleto chia ma una « giazzera calda ». A i ghiacci bloccati e bloccanti, alle algidità espressive e alle aridità ed impotenze mentali, la letteratura e le arti di que sto secolo ci hanno fin troppo avvezzati, e viziati. D ov’è andato il cuore, bandite le passioni, deviati i sentimenti; e dove si è smarrita la ragione, che frenando il cuore l ’ha pur sempre disfrenato? Sia mo pervenuti al Sahara dell’Amore, anzi alla sua Fliroshima, peggio al suo Vietnam dell’ultim a ora nixoniana; e purtroppo anche la Poesia, l ’Arte, og gi, porta spesso più megatoni di distruzione del l ’uomo, che scorie per la sua salvezza. M ai come adesso, perciò, i pochi poeti autentici, pur non di sertori del nostro tempo, soffrono d ’esserne esiliati, Luisa Rossi (Gertruda) e Alain Corot (il Franzese) e, dietro la tenda, Gianni Manieri (il Polonia) nell’« Ambleto » di Testori. In apertura, nelle due pagine precedenti, Franco Parenti, protagonista. tanto religione e poesia per natura e per grazia sono fuoco, roveto ardente, ed invece la realtà e la società sono ghiaccio artificiale, destituzione, de gradazione, irrapportualità, sterilità, volgarità. Ma anche un iceberg si incrina, esplode: se c’è chi vuole, chi sa farlo esplodere. L ’Am bleto di Testori è questa esplosione, neppure sotterranea ma dentro le viscere, giù nel sangue, sulla faccia. Erano anni, appunto anni d’involontaria ibernazione, che Te stori, forzato a vivere nella giazzera comune, co vava tra la disperazione e la rivolta, tra la nausea e la carità, non soltanto il bisogno di uscirne fuori ma la volontà di scioglierci tu tti: e, come è sempre condotta sacrificale dei poeti veri, Testori, prima di liberarsene e di liberarcene, ha attirato su di sé l ’algore della nostra età e di quel che ab aeterno è il disumano e il luciferino, ed ha coinvolto il ca lore anzi l ’ardore del divino e dell’umano, che coa bita nel poeta infedeli: « sono tutto repleto de caloria — confessa in lu ci do strazio Am bleto al Franzese — e poi, tutto de un tratto, sono tutto repleto de brina e de nevicata come se fudessimo in dei giorni di Natale... ». tanti uom ini fedele tra ^ Ì o n so dire se L ’Am bleto sia, o non sia, l ’acme del lavoro, sinora, di Testori; un’opera così com posita e sopratutto così elementare come questa, ha bisogno anche di pazienza per essere valutata a fondo, ed altrettanto di impazienza per essere, come deve essere, subito violata. Proprio perché è un’opera innocente — anche se risulterà oppor tunamente, terribilm ente, mai esibizionisticamente scandalosa — , il lettore, lo spettatore deve sgoz zarla come un agnello, come una colomba. O ltre tutto Testori l ’ha scritta per offrirsela, ed o ffrirla , come un sacrificio, espiatorio e redentivo. E’ una opera rituale, non si cada nell’errore di farne un happening. Testori ha toccato, e congiunto, i due estremi: tragedia e farsa, come spesso avveniva nei drammi sacri medioevali. Sì, quel Medioevo che in Lombardia non è stato soppiantato dal Rinasci mento e neanche dalla Controriform a: il solido, terrificato e pur sempre vitalistico medioevo bar barico, ma civilissimamente manzoniano, da San- t ’Am brogio a San Carlo, dai Longobardi a M aria Teresa, che da noi ha sempre tenuto duro e soprav viverà, pur con i generosi e concreti apporti illu m inisti, liberali, socialisti, sino a ieri, malgrado tutto sino a oggi. Non è forse tuttora un valido esempio di intatta medioevalità la permanenza qui in Lombardia, a dispetto dell’ovunque mafiosa im m oralità, di un costume morale che si alimenta alla pari di doveri religiosi e di d iritti civili? La procla mata anarchia di Ambleto, che pur vuole rovescia re e « spetasciare » la piramide paternalistica tanto del potere religioso quanto del potere politico, sino a contestare anche quel D io che è al vertice della piramide e troppe volte è identificato al Potere, quell’anarchia è piuttosto una feroce brama insa ziata di quella Comunità parificatamente teocen trica ed antropocentrica, della quale la Cristianità ha ad intervalli offerto sopratutto nelle campagne e nelle parrocchie, non la b ili m odelli, non tanto gerarchici quanto e sopratutto cooperativi, uno per tu tti, tu tti per uno. Non a caso Arlungo e Ger truda, che qui nell’Am bleto di Testori incarnano la corruzione e la corruttela politica di sempre e di oggi in particolare, accusano i giovani opposi tori che hanno Ambleto-Testori per vittim e e per liberatori di essere « quei ’narchi che credono an che in del Cristo ». Quel suo anarco-cristianesimo, e forse basterebbe dire quel suo evangelismo po polare, Testori l ’ha sempre sentito nel sangue, nel la carne, nella crapa, benché poteva averlo magari trattenuto o camuffato: anche certo suo marxismo passato o presente, è prim a di tutto un cristiane simo stravolto, destituito, sostitutivo ma non sosti tuibile, e mai compensativo perché se il Progresso è e deve farsi socialista, la M orte è cristiana o co munque resta un conto da saldare con D io, dopo avere pagata la V ita tra gli uom ini, con l ’Uomo. Am bleto non soltanto muore, ma si suicida, dopo avere macellata una Società sbagliata, falsa e fa lsifi catrice. E ’ un Sansone, violento soltanto perché r i masto puro, che muore in mezzo ai Filistei di ieri, ai Farisei di oggi: e, sopra tanto turpe sfacelo, an- ch’esso insidiato ma non ancora intaccato, fragile ma infrangibile, soltanto persisterà a vivere, estre ma ed unica vittoria, l ’Amore. Ma non si creda che la parabola di Testori sia idilliaca. E ’ la tra gedia totale, e la condanna tanto cade su tu tti che Am bleto stesso non se ne sottrae, e le va incontro, a morte: e, se Cristo, per salvare il mondo, non può morire una seconda volta, perché è come se rivivesse e morisse in noi ogni giorno, forse il sui cidio che oserei dire cristiano dell’Am bleto di Te stori sta a rivelarci che per salvare l ’uomo e il mondo basta imparare semplicemente, concreta mente a vivere (« E, forze, tornati per sempro dal niente, reussiremo a capire quello che qui se chia mava vanamente la felicità, la giustizia e indel- sopradeltutto, la vita »), a vivere non da vite ven dute e da anime a ll’asta, mentre mai come in questa età stiamo tu tti adulterando, sovvertendo, annien tando e nullificando la Vita. P er fortuna, dicevo, L ’Am bleto è andato subito a finire, come doveva, in palcoscenico. Così lo spettatore, se già non se ne è accorto il lettore, avvertirà il colpo che qui la parola è azione; e se incorrere in fosse irriverenza, direi che non il verbo si è fatto carne, o viceversa. Ascoltata in platea, piombata giù dalla scena, la parlata infra- lombarda di Testori, tra natura e cultura, tra dia letto e lingua, entrerà di soppiatto sotto la pelle di ognuno, con b rivid i di stupore o d’orrore; ma quel che è certo è che circolerà nelle vene, trapas serà le ossa, e dopo qualche repulsione istantanea finirem o a non fare a meno del suo suono, del suo tuono d ’apocalisse. Chi parla così?, ci doman deremo; e nello stesso momento risponderemo a noi stessi che, prim a d’esserci falsificate le parole in bocca, parlavamo anche noi secondo questo im pasto prim ordiale; e sopratutto ogni parola che ci veniva fuori aveva, dalle viscere alle labbra, e manteneva, uno stesso valore, un identico sapore, senza fare palta in bocca, come diciamo noi lom bardi. Se Testori ha tentato una lingua inventata- mente veterolombarda, retrocedendola con geniale arbitrio a un’epoca che, invece d’essere quella sta tuita da Shakespeare, è piuttosto a cavallo tra un tardo medioevo gotico-padano e un post-barocco lombardo-veneto, non è stato per esperienza e ancor meno per civetteria plurilinguistica, con tutti gli equivoci annessi e connessi dal gaddismo al paso- linismo, ma unicamente per retrocedere — lu i stes so, e noi con lu i — quasi ad uno stato naturale, non appena della lingua, ma della coscienza. D ’altra parte, chi da la letteratura è sempre stata per lu i quest’unica ope razione di verità temeraria, ultim ativa, e cioè reli tempo conosce Testori sa che giosa. L ’« infametà », grida Ambleto, è il capovol gimento della legge evangelica dell’amore, e perciò è « antecristità ». E quand’anche, per disperazione propria o altrui, tra preghiera e bestemmia in Te stori il lim ite si rattrappisce e si dissolve, la sua poesia resta cristiana, non sfugge al calvario della « cristità » anche se ne discende; o se indugia sotto alla croce a giocare a dadi, è per trovare l ’anima, e sfidarla, mai per barattarla. Non so se L ’Ambleto, Qui Franco Parenti e, nell’altra foto, ancora Parenti con Alain Corot. Nelle due pagine seguenti, una scena d’insieme e, in alto, Giampiero Fortebraccio (Arlungo) e in basso, Gianni Manieri (il Polonia) e Mario Bussolino (Slaerto). sa metterci di fronte, plasticamente, a un possi bile mondo da rifare, e poeticamente insegna per quale ragione, e con quali ragioni del cuore il mondo con comune aiuto debba essere rifatto? Tutto è crollato intorno al suo Ambleto, e Ambleto stesso è senza più vita. Eppure che invito a vivere, quale urto vitale viene da ogni parola, e sale nel sangue, assedia anima e corpo. Quale dissacrazione di ogni falso potere, e valore, e simbolo: ma, con fulminea logica poetica, quale altrettanta rivendi cazione e riconsacrazione della vita vera, celeste e terrestre. E perché? Perché lasciandosi alle spalle sue e di tu tti quel decadentismo che ha guastato non soltanto la letteratura dell’ultim o secolo, e che sta tirando le cuoia con tante decameronate del l ’ultim a ora, Testori ha saputo salutarmente ripren dere nella coscienza, nella parola, quella corpu lenta elementarità, tanto di vita quanto di morte, che in fondo, dalle prime prove, aveva sempre ten tato di inseguire e di conseguire; questa fisica e quasi fisiologica essenzialità! non del « bello », ma del « vero », era ed è un’immancabile necessità lombarda. Corporeità e coralità che, per accertare la letteratura, Testori è spesso andato e corso a rinvenire nella pittura del suo Caravaggio, o nel « gran teatro montano » di Gaudenzio Ferrari, o n e ll’orripilante e magico Paracca della Cappella torno a dire ed a concludere, sia il culmine, per ora, di tutta l ’opera di Testori. Certo la sua voce non è mai stata, se non nella musica rotta ed estrema dei quattro e presto cinque lib ri di poesie, I T rion fi, Crocifissione, L ’Amore, Per Sempre e l ’imminente Nel Tuo Sangue, così capace di creare nell’atto stesso di distruggere. Ma in qual senso Testori d i strugge e fa saltare il mondo, se invece più che rappresentare lo squallore di uno sfacelo L ’Ambleto della Strage in tutta la sua dialettale « brutalità incubosa e caprina », o in Tanzio da Varallo e nel Ceruti, insomma in quei p itto ri di realtà-verità illustrati in numerose ricerche e in saggi straordi nari. Ed è in loro compagnia che è durata oltre un decennio quell’ibernazione che, senza sottrarlo alla contemporaneità, gli ha tuttavia fatto trovare e sce gliere secondo giuste radici quei maestri o quei m inori alto-italiani (e aggiungiamo i suoi manzo- niani « p ittori della peste ») o comunque nordici (il suo G riinew ald), che se ieri erano la sua dismi sura ora sono, per noi almeno, la sua commisura possibile, congeniale. Ultimamente, a partire dal 7 1 , ha ottenuta e risolta anche nella sua pittura, materica e pur così dematerializzata, una coerente incorporea corposità d ’un reale che si fa vero e d ’un vero che non può non essere reale. E’ l ’identico risultato — oltre ai risvolti persino psicanalistici ai quali può essere condotto ma non ridotto — che il lettore e lo spettatore di questo Am bleto appunto toccherà con mano, una mano che va diretta al costato e a ogni piaga dei nostri mali o del poco nostro bene: quest ’Ambleto, infatti, è una crocefissione prim itiva (alcuni gridi qui ven gono d a ll’altare di Isenhein), è un’attuale e profe tica Cappella della Strage perversa e innocentissima. Giancarlo Vigorelli U L T I M O T A N G O A P A R I G I D I B E R T O L U C C I U R N A O M A N T I C A S T R . . . lo m m a s o C h ia re tti « L e beurre, nom de Dieu! le beurre!...», gri dava un personaggio di Céline, 1936, Parigi. Vale il conto di dedicare un m inuto a quella paginetta: « Il l ’a trouvé enfin son pot... Il tape dedans à la louche... Il l ’emporte pleine... Il recourt vite vers le plumard... Elle faisait des manières encore... elle finissait pas de tortiller... Il lu i a beurré le trésor, les abords et le reste, tout lentement, soigneusement à fond, comme un ouvrier de la chose... Elle relui sait déjà la tante!... Il a pas eu de mal... Il l ’a ravie à fond d’autorité... C ’est allé tout seul... Ils ont eu un émoi terrible... Ils poussaient des petits cris stri dents. Ils se sont écroulés sur le flanc. Ils se sont raplatis... Ils se sont foutus à ronfler... ». In Bernardo Bertolucci l ’ingrediente è adoperato in modo vistosamente diverso. Non delirio ero tico, non fetore di ambienti dove ristagna l ’unto di m iserabili cucine, di indumenti mai lavati, di cessi sul ballatoio. L ’appartamento di Bertolucci sovra sta una Parigi benestante. Certo, vi sono misteriosi topi m orti, e si presume l ’accumulo di molta pol vere. Eppure, rotolandosi, amandosi nelle posizioni più. elementari di un tranquillo Kamasutra cittadi no, gettando in terra indumenti, i due amanti non suggeriscono l ’idea (che è invece proprio céliniana) di un continuo grufolare di bestie. I l porcile, sem- mai, è metaforico: è quel luogo deputato in cui si consumerebbero i riti della fam iglia, della patria, ed anche del sesso. E l ’americano protagonista, nella sua patetica rozzezza ideologica, lo dice alla sua disponibile antagonista europea, quando improba bilmente la sodomizza ingiungendole di bestemmia re proprio contro il Pantheon borghese. E si potreb be ricorrere ancora ad a ltri classici del sadomaso chismo, e dell’erotismo borghese, poiché è Berto lucci stesso a suggerirli: Leautaud e Bataille, e se si vuole Buñuel, sul quale lo stesso Brando mostra di essere aggiornatissimo quando cita goffamente Le charme discret de la bourgeoisie. Siamo, tran quilla, ma equivoca. Assegnare U ltim o tango a Pa rigi alla moda dell’erotismo, indagare — o peggio, ironizzare — sulle manchevolezze del suo reper torio, e su certe impasses di tecnica amatoria; o anche restringerne (magari per polemica contro lo scandalo dei benpensanti) proprio il carattere di aggressione e di provocazione, vuol dire entrare in un dibattito del tutto scorretto: perché si tiene conto delle cose dette, delle cose superficialmente viste, delle cosiddette novità e delle citazioni, ma mai del lo stile. Ora, quando si è parlato di opere « scandalo- tuttavia su una falsa pista. Facile, se » — come sono state in letteratura Lady Chat- terley, i Tropici e Ulisse e anche Histoire d ’O, e an che Santuario — se ne è discusso, per essere seri, al di là del breve e gretto aneddoto giudiziario (esecrabile, si intende, non c ’è neanche da dirlo). Ognuna di esse, in qualche modo, si proponeva con scandalo soprattutto sul terreno del linguaggio, del lo stile, e non per la maggiore ampiezza del voca bolario erotico, colto e plateale, con e senza puntini di sospensione. Né tanto meno per l ’acquisizione di nuove «situazioni» e posizioni: ché il marchese De Sade, noiosissimo o sublime che sia, aveva già steso il completo corpus delle figure principali e delle varianti. Ma se si allontanerà d a ll’U ltim o la que stione prevaricante d e ll’erotismo, ci si avvedrà con sufficiente chiarezza di che cosa si tratta. Attraverso un itinerario che sembra essere di m olti registi nati con l ’avanguardia, Bertolucci cede alla sua vera, unica, confessata tentazione, che è quella del film hollywoodiano. La scelta di M arion Brando ha qual cosa di .più che uri sapore divistico, è upa gratifica zione agli amori dell’adolescenza, alle mitologie dello schermo americano. I l modo stesso con cui vengono indicate le tappe del personaggio corrispon de maliziosamente a quelle dell'attore (il « fronte tango del porto » e il Messico, Hong Kong e l ’Africa). Se fosse stato vivo Humphrey Bogart, Bertolucci avreb be voluto lui, ma senza la strizzata d ’occhio di Woody A lien: un Bogy diviso tra Hemingway e Fitz- gerald. E di Hemingway sono, chiaramente, l ’alber- ghetto e certe piccole spie, come il bourbon sulla ferita. D i Fitzgerald è la suggestione di un titolo: Ultime da Parigi, quindici anni fa. E un film fitzge- raldiano, L'ultim a volta che vidi Parigi. D i sim ili spie ce ne sono più d ’una: c’è Tom che grida a feanne: « Sei più bella di Laureen Bacali ». Nelle foto alcune scene dell’« Ultimo tango a Parigi » di Bernardo Bertolucci. Con Marion Brando, l’attrice francese Marie Schneider. C’è il continuo riferim ento a un’altra età. a un altro gusto, a una sorta di paradiso perduto di lampade liberty, di tanghi, di abiti squisitamente fuori moda. C ’è lei, una Baby D oli nata appunto da una rile t tura frettolosa di Tennessee W illiams. Lei, che « appare bella come un cigno nel trionfo bianco del suo abito da sposa vagamente ’’anni 40” . E’ un momento magico ». (Santo cielo, non si dovrebbe mai cedere alla tentazione di pubblicare le sce neggiature come fossero dei testi letterari: questo furioso cascame di Guido da Verona non è neanche mimato bene, non è divertente, non ha la grazia del pastiche. E ’ soltanto una pesante ipoteca sulla lettura delle immagini). Lasciamo pure tranquille le intenzioni, che la sce neggiatura sfrontatamente dichiara. M olta cattiva letteratura ha pur dato del diverso cinema. Ma che cosa c’è di « diverso » nel cinema di Berto lucci? In sostanza egli adopera, con precisione di meccanismo, tu tti gli schemi della commedia sofi sticata americana degli anni quaranta. Ecco l ’idea strutturale del film : un uomo maturo e una ragazza si incontrano in un appartamento vuoto da affittare. Entram bi in quell’ambiente inizia un gioco d ’amore. Non è lo schema di un racconto che si è già visto? Q ui c’è in più il sesso, è vero. Ma il sesso è in più dovunque, nel nostro tempo e nella nostra società: nei giornali, nei manifesti, nei lib ri. O meglio, non è qualcosa in più, è solo qualcosa di diverso: perché c’era sesso anche in Mae West. E così si va avanti attraverso le situazioni cano niche della convenzione sofisticata: l ’ascensore che si chiude sulla faccia dell’antagonista che deve sa il gioco del nascondersi nell’appar lire a piedi, lo vogliono. E i compunti danzatori di tamento vuoto, l ’esibizione di goffaggine dell’eroe ubriaco tra tango. C’è, guardate, anche la portiera negra che borbotta. E che cosa fa l ’eroe, il magnifico bruto, il duro più tenero di quanto si creda, che cosa fa Bogart bandito o detective, quando la ragazza cade ai suoi piedi? Egli si mostra più vilain di quanto non sia. Egli dice: « Piccola, io non sono degno di te, ho rapinato banche, ho ucciso uomini, getto via le donne come zolfanelli, sono ricercato da tutte le polizie ». Q ui M arion Brando, di estrazione più moderna e morbosa dice: « Questa è una romantica stronzata », e invita al taglio delle unghie. Ora, effettivamente, così come era posta, si trat tava di una romantica stronzata: « Vuoi che questo potente e luminoso guerriero costruisca una fortezza dove tu possa rifugiarti, per non avere mai più paura, per non sentirti sola, per non sentirti esclusa. E ’ questo che cer chi, vero? ». « Sì ». « Non lo troverai mai ». « Io l ’ho già trovato, quest’uomo ». Purtroppo da Hemingway, da Fitzgerald, e anche da Ben Hecht e da Damon Runyon siamo discesi a Vicky Baum: è già qui il tipo di operazione culturale sfugge. Così come sfugge il vago senso di satira del regista nouvelle vague che dovrebbe emergere nel personaggio di Tom-Leaud. Sem brerebbe quasi che, approdando alla meraviglia glamour del cinema hollywoodiano, Bertolucci ri fiu ti l ’Europa (anche la sequenza apparentemente decadente della stanza con la moglie morta nasce ancora da Tennessee W illiam s piuttosto che da Baudelaire. E solo l ’ovvietà culturale da Reader’s Digest che è nel personaggio di Brando gli può suggerire l ’immagine di Ofelia per la giovane che fa il bagno). La sua Francia è più quella di Losey che quella di Godard: ma quanta più crudele ve rità in quel tragico unico turpiloquio di Beimondo morente sul traguardo di A bout de soufflé che negli esibizionismi verbali e nei vacillanti gigio nismi da A ctor’s Studio del tardo Brando. Si è già accennato a Woody Alien e a Provaci an cora, Sam. di Ross. Si tratta, anche qui, di un fenomeno alla moda, e occorre cautela. G li attori comici, poi, sono vit time troppo spesso di rapide parabole, si consu mano come candele: il caso di Peter Sellers, che oltretutto suggeriva un tipo di comicità e di mimica analogo a quello di Alien, lo dimostra. Ma certo il film è delizioso. Anche esso pienamente holly woodiano, lo è per corrette origini, e con disinvolta grazia. I l modo con cui si guarda allo stesso cinema cui guarda Bertolucci non è mitologico. V i è affetto e ironia, compiacimento e vergogna, la superficia lità è dichiarata, ma non scostante, la commedia non si traveste da tragedia, il sesso è quello che sappiamo, con una gran voglia di togliergli quel l ’aria di mistica celebrazione che sta assumendo in m olti: non si sa se per i troppi secoli di repres sione, o per la bruciante permissività. S’intende, che viva la permissività, ma con il fine, appunto, di renderci più allegri, più vivi, più disponibili, e non più cupi, più sordi, più ottusi. Bertolucci può obiettare: non è colpa mia se la ragazza del film è ottusa, non è colpa mia se la realtà di tanti quarantacinquenni è questa torbida ansia del sesso. E può sostenere anche che la sua vuole essere un’analisi di tipo, diciamo, « viscon- tiano », della crisi di una classe, della borghesia. Non sarebbe un caso, insomma, che Tarma con cui Brando viene ucciso sia quella di un ufficiale colonialista. Ma questa, che più da taluno è stata avanzata, è la tipica vecchia, inutile argomenta zione sui contenuti. Mentre, tutto sommato, lo spi rito sanculotto di Bertolucci sembra essere nella form ula di Jeanne: « Amo tutto quello che va dal 1880 al 1935 perché in antiquariato sono anni rivoluzionari ». Tommaso Chiaretti Z E F F I R E L L I p e r U n b a l l o i n m a s c h e r a G io a cch in o L a n za T o m a si . F ra le lacune della critica verdiana, la mancanza di una storia dei generi, ed a ll’interno di questi delle forme adoperate nel melodramma dell’O tto cento, è quella che scontiamo nelle posizioni di retorica che ci aspettano ad ogni apparizione di un’opera di Verdi, nota o ignota che sia. Ultim a conferma, il ritorno di Un ballo in maschera per Sant’Am brogio alla Scala. Il danno non consiste soltanto nel fastidio di rileggere qualche apologia del genio verdiano, quanto anche nella carenza di una documentazione su cui possano appoggiarsi gli interpreti. Fra il 1855 ed il 1867, fra i Vêpres Siciliennes e il Don Carlos, Verdi altera la matrice stilistica del suo melodramma. Se fino ai Vêpres il suo genere operistico non si era gran che disco stato da quello di Donizetti e di Mercadante, dal 1855 si fa evidente la presenza di forme operistiche francesi, tanto nel taglio grand-opéra dei prodotti espressamente destinati a Parigi, quanto anche nel gusto dei singoli pezzi. Ragioni arcane dell’amor di patria hanno steso e stendono su questo Verdi infranciosato una cortina fumogena. E ciò vale soprattutto nel caso di Un ballo in maschera, opera rivelatrice e corrotta, se mai si ammettesse che Verdi ha lasciato per una volta da canto il mondo degli eroi popolari, e che ha pre stato orecchio alle frivolezze dell’opéra-comique, se non addirittura a quelle dei bouffes parisiens. Due scene dell’edizione scaligera di :< Un ballo in maschera », diretto da Gavazzeni, regia di Zeffirelli, scene di Renzo Mongiar- dino. costumi di Enrico Job. Ma altro è lo spirito, vi premunirà invariabilmente il programma di sala. E l ’osservazione che la chiusa del prim o quadro, o le facezie del paggio, o le can zoni cavalleresche del Conte non sarebbero esistite senza Offenbach ed Auber non possono competere con lo spirito. In Italia, si sa, di fronte allo spirito la storia dei generi segna tuttora il passo. Peggio poi in quei passi dove si presume che il Verdi italico abbia corso soltanto la propria strada. Così nel celebre duetto notturno si insiste sul dramma e le posizioni dello stesso, e si tappano le orecchie alle affinità della figurazione vocale e strumentale fra il « M ’ami Amelia » di Riccardo e il « D i’ che m ’ami » proferito da Raoul negli Ugonotti, perno della scena d ’amore con Valentina. Eppure in ter m ini musicali è proprio l ’invenzione della posizione drammatica che viene derivata da Meyerbeer: l ’ab bandono a ll’estasi vocale appoggiata sul canto del violoncello ed armonizzata sui trem olìi degli archi, una figura liberatoria della passione quale corri spettivo alla confessione di un amore impossibile. Gran ladro, quel Verdi. Ma al metro dei classici ciò non im plica censura. Mostra anzi la qualità prima d e ll’invenzione: quella di saper collazionare l ’espe rienza per ripresentarla poi in diverso e personale contesto. Una qualità che, anche se posseduta dal Nostro in grado supremo, egli era assolutamente restìo a confessare. Donde le invettive contro Parigi ed i suoi teatri, contro Rossini e la sua detestabile moglie, in accordo col carattere di un uomo che dopo settanta anni di carriera non ha lasciato ai posteri un pezzetto di carta compromettente, o un solo schizzo che permetta di gettare uno sguardo nella sua officina. Pedissequi, gli esegeti hanno se guito il quadro dettato d a ll’autore: donde il m ito dell’artista contadino, orso ed irascibile, l ’aura del patriota, mazziniano o cavourriano a ll’occorrenza. Seminati gli esegeti, a oltre un secolo dalla prima Verdi corre il rischio di aver fuorviato anche gli interpreti. Se Un ballo in maschera è dunque una singolare commistione fra melodramma italiano ed opéra-comique, con soltanto una scena madre del grand-opéra, si comprende come l ’intento di Verdi sia qui l ’alleanza fra le forme melodrammatiche povere, da lui sempre considerate più accessibili e di cassetta rispetto ai costosi splendori dell’Opéra. Preme a Verdi la riduzione al significante e l ’eli minazione del superfluo. Egli possiede in sommo grado i talenti dell’artista ellittico, il dono e la m i sura del classico. E raramente, forse soltanto nella Carmen, il teatro d ’opera si configura come nel Ballo in maschera a livello di soli archetipi strut turali, cioè a livello di pezzo chiuso e della sua posizione rispetto ad un intreccio tipo. Pertanto Un ballo in maschera è a mio avviso l ’opera di Verdi che più si presterebbe ad un’interpretazione scenica priva di tempo e di luogo, dove le figure vocali si stagliassero quali portatrici di un signifi cato acquisito lungo la storia del teatro musicale. Tale certo non è stata l ’impostazione di Franco Zef fire lli, coadiuvato per le scene da Renzo Mongiar- dino e per i costumi da Enrico fob. A d ib iti i suoi talenti di illustratore, Z e ffire lli ha in fatti puntato sul fasto e la decorazione, e a ll’occasione ha sperso i protagonisti nell’oceano di un paio di centinaia fra comparse e figuranti, talché la sfida verdiana di un melodramma opéra-comique, contrapposto al kolossal della maggior scena parigina, ha dovuto cedere di fronte ai mezzi di una serata inaugurale in caccia di prestigio. Come ci insegna la scenografia naturalista, mèta prima del kolossal è sbalordire con la verità. E pena massima del genere, l ’Egitto dell’Aida. Nel Ballo in maschera fa al caso una Boston favolosamen te « M ayflower », d a ll’edilizia integralmente lignea e spoglia, se non per gli stemmoni intagliati. Neri i costumi ed alti i cappelli a pan di zucchero della corte, fra cui si stagliano le tinte frivole del Conte e di Oscar, europei galanti, capitati fra puritani di rozzati e cacciatori di renne rivestiti di cuoio, quei Samuel, Tom e accoliti, che nella scenografia so ciale di Z e ffire lli rappresentano i campagnoli indo m abili, sconfitti dal nascente urbanesimo. Un con trasto, si badi, in cui non si sfiora l ’ombra di pietà per il povero e l ’oppresso, tanto la tecnica dell’illu strazione teatrale opera la metamorfosi del pezzente in eroe. T ali ad esempio gli stracci di Ulrica, rap presentati da un manto variopinto di squame lu centi, metamorfosi favolistica, avvolta nell’epica da m ille e una notte, della miseria e del tugurio. Apice infine di tale violenza del lusso la macchina teatrale della sala da ballo: lumiere, cariatidi e maschere, precipitate di colpo nell’orgia dei colori, che ad un tratto di bacchetta magica mutano lo spoglio studio del Conte nel sogno faraonico del bostoniano d’epoca. Ed unica eccezione allo stori cismo im m aginifico il notturno del secondo atto, dove il quadro d ’ambiente era sostituito da un orrido romantico, condotto sulla scenografia che Pierre Cicéri ideò per il Gustave I I I di Auber. Se il rispetto dei generi avrebbe imposto per il Ballo tu tt’al più settanta in palcoscenico ed altret tanti in orchestra, contro i quattrocento scaligeri o giù di lì (Verdi aveva parlato del Ballo come di una sorta di Sonnambula), va detto che Z e ffire lli ha spesso cercato da par suo di adeguare il ritm o scenico a quello musicale. E vi è riuscito soprat tutto dove la calca dei corpi non ha ostacolato l ’emi nenza dei protagonisti, come è avvenuto nell’antro di Ulrica. Ottim e invece le posizioni dei solisti e di questi fra loro. Così soprattutto aderente a ll’in tenzione verdiana il piazzamento di Oscar come doppio del Conte. La sua collocazione accanto a Riccardo nei concertati ha fatto comprendere nel l ’unione delle voci l ’affinità cavalleresca che lega il paggio al signore. Ed ancora accordata sulla pas sione insorgente l ’esplosione del plenilunio nel not il discutibile turno del secondo atto. Ed anche Viorica Cortez e Ann Wyckoff in « Un bai lo in maschera » di Verdi. colpo di scena del ballo favolistico era riscattato da un’intuizione di maestro nel minuetto alla ma zurca, sottolineato d a ll’incedere a passo di danza di livide im m agini del rococò, annuncio ritm ico della morte, concluso sul colpo di pugnale dalla riconversione in studio della sala da ballo, mentre le maschere si slacciano gli addobbi di festa e r i tornano al plumbeo abito bostoniano. Trapassi di scena questi ritm ati sulla musica, che tanti aspetti fanno perdonare di questo Ballo opulento, salvo la derisione del Primo Giudice, calcata con mano in tenzionata, come ci si attende da M issiroli anziché da Z e ffirelli. Il filo d ’Arianna dell’amor cavalleresco, grande sco perta verdiana del Ballo, è rimasto in sordina anche nella direzione di Gianandrea Gavazzeni. E ce 10 attesta un certo tedio che la claque ha penato a dissipare. Animatore delle tensioni, Gavazzeni ha preso quota dal second’atto in poi, quando appunto 11 mondo delle ballate comincia a cedere il passo a quello delle passioni. Una tinta fors’anche qui da addebitare alla consistenza orchestrale, quanto e più della scena opulenta. Navigatore esperto di prime scaligere e di loggionisti, Gavazzeni si è d i stricato fra gli scogli di quel singolare luogo tea trale che è la Scala. Un teatro dal loggione diviso fra claque e commentatori, pronti questi ultim i a beccare le voci che non collim ino con le memorie del cuore. Luogo ribollente, il loggione scaligero è l ’ultim a propaggine del circo romano, con la sua divisione fra plebe e patrizi, e dove nell’insulto alla diva si colpisce di rimbalzo la classe dom i nante. Ingiuria ed acclamazione danno alle prime la tinta della rissa, che i volponi alla Gavazzeni placano riattaccando d’impero nel caldo del tumulto. Tutto ciò rientra nel gioco delle parti, come an che l ’applauso prolungato a Cappuccini (Renato), ottim o certo ma non nella sua forma m igliore, ed i tentativi di dissenso per Placido Domingo (Ric cardo), cantante ed interprete supremo, anche se non italiano. Il suo « Ma se m ’è forza perderti » conta fra i grandi momenti vissuti in teatro, quando la dizione musicale attinge sensi in effabili ed alla parola negati. Né sarei stato capace di trovare il pelo nell’uovo in V iorica Cortez (Ulrica) — voce chiara per una megera secondo gli esperti — o in Margherita G uglielm i (Oscar). Mentre le riserve paiono giustificate nel caso di Lou Ann W yckoff (Amelia). Non soltanto perché Amelia ha il dovere di avere un « do » grosso così, come proclamava un benpensante, ma anche perché la dizione cat- tiva si accompagna ad un fraseggio drammatica- mente incerto. In una pagella apparsa l ’8 dicembre sul « Corriere d ’inform azione» la W yckoff aveva 6V2, Dom in go 8, Cappuccini 9, il coro 10. Non nego che il dare e l ’avere rispecchiasse gli umori della sala, cioè il principio che soltanto l ’appartenenza sca ligera assicuri l ’eccellenza. M i si consenta di re ttifi care: 8 al coro e 10 a Domingo; almeno per chi non tema l ’eccellenza dei barbari. Gioacchino Lanza Tornasi L e c e r t e z z e d e l g i o v a n B r e c h A ld o P a la d in i e t E / la seconda volta che una tra le pri missime opere teatrali di Brecht, Tam buri nella notte, viene proposta al pub blico italiano (anni fa ne aveva allesti to un’edizione, senza grandi risonanze, Aldo Trionfo). Ora al teatro Belli di Roma l’impresa è stata affrontata con esiti ampiamente positivi, prima di la sciare la capitale per una lunga tournée, dalla Compagnia del Granteatro che agisce sotto la direzione di Carlo Cec- chi; ed è naturale domandare a lui, an zitutto, le ragioni d’una scelta che a pri ma vista potrebbe sembrare gratuita o almeno inattuale. Tra la prudentissima gente di teatro Cec- chi è un regista e un attore, come si sa, estroso ma cauto: la natura toscana e il lungo soggiorno partenopeo lo por tano da un lato a vivaci scatti d’umore, ad argomentazioni inattese benché mo tivate, dall’altro a calcoli scrupolosi e savie riflessioni. « La scelta — dice — ha trovato la sua ragione principale nel l’ambiguità dell’opera: in altri termini, cioè in termini culturali prima ancora che di spettacolo, nell’interesse che Tamburi nella notte presenta all’interno della pro duzione di Brecht e nel corso della sua evoluzione. Il lavoro andò in scena la prima volta a Monaco nel 1922; ma era stato scritto com’è noto tra il T8 e il ’20, all’indomani della fallita rivoluzio ne spartachista, della ’’settimana di san- gue” a Berlino, dell’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Di fron te a questi avvenimenti, nella tempesta che andava squassando una Germania messa a terra dalla disfatta e lacerata dalla guerra civile, qual è l’atteggiamen to del giovane Brecht? Quale il giudizio da esprimere sulla gente travolta dalla bufera o attenta a profittarne, sul ma rasma da cui tutti tentano di uscire con la violenza o con l’astuzia? In che conto vanno tenuti i grandi e piccoli filibustie ri o invece i fautori d’una palingenesi to tale delle istituzioni e dello Stato? E come valutare infine la parte degl’imbo scati e quella dei reduci della guerra per duta? A tutte queste domande, sia pure nei limiti di un’azione drammatica, Tam buri nella notte cerca di dare una rispo sta: ma si tratta appunto d’una rispo sta ambigua, come lo stesso Brecht di chiarerà più tardi, dove la satira anche mordente di chi ha lucrato sulla guerra e specula sul disastro nazionale non tro va compensi in un’aperta accettazione della rivolta e nemmeno in una chiara difesa delle sue ragioni. Nonostante la scarsa simpatia che dimostra per gli sfruttatori e i farisei, qui difatti l’auto re poco più che ventenne non prende partito per reazione o rivoluzione; e il suo reduce, spinto alla rivolta non tan to dalla certezza nella bontà della causa quanto dagli affanni d’un guaio perso nale, volta le spalle alla lotta non appe na ha risolto il suo problema, finendo col dichiarare sbracatamente che nessu no sta bene come nella propria pelle. Questa morale equivoca, così lontana dai posteriori orientamenti di Brecht verso le istanze rivoluzionarie, sarà stata ma gari il frutto di un’insofferenza natura le del giovane drammaturgo per le affet tazioni neo-romantiche e l’astratta sim bologia di moda in Germania, all’inizio degli Anni Venti, presso i rappresentan ti più qualificati d’un teatro espressio nista ormai sul punto di ripetere stan camente i suoi temi: lui stesso in età matura, nel tentativo di giustificare le sfuggenti posizioni ideologiche del dram ma, ce ne ha fornito una simile spiega zione. Ciò non toglie che Tamburi nella notte anticipi, insieme con un’alta virtù drammatica, le varie contraddizioni e il perplesso agnosticismo accertabili in componimenti successivi: da cui, come dicevo, l’interesse non soltanto teatrale del lavoro. Onestamente devo aggiunge re che c’è stata poi un’altra ragione (di natura pratica, questa) a consigliarci di metterlo in scena: ed è che in Italia chi voglia rappresentare il teatro di Brecht deve fare i conti con Strehler e col ’’Pic In apertura, a sinistra: Toni Ber- torelli e Daniela Piacentini nei « Tamburi nella notte » di Brecht messo in scena dalla Compagnia del Granteatro diretta da Carlo Cecchi; a destra: Marilù Prati e Toni Bertorelli nello stesso spet tacolo rappresentato al « Belli » di Roma. Nella pagina seguente: la scena della « riunione di fami glia » nello spettacolo di Carlo Cecchi. colo” di Milano, cioè con questioni abba stanza complicate di esclusive, diritti e cose del genere. Era dunque necessario per noi che intendevamo misurarci con un testo brechtiano ( confronto inevita bile per ogni regista e attore di qualche ambizione) puntare su un dramma ’’mi nore” e quindi, sotto quel profilo, più accessibile di altri ». Crediamo non sia il caso di fermarsi troppo sui meccanismi e le conseguenze d’un monopolio che in pratica preclude alle formazioni giovani la possibilità di cimentarsi con una produzione teatrale tra le più ricche e stimolanti del nostro tempo. Il discorso s’accende invece sulle asserite ambiguità di alcune delle opere di Brecht, e di questa in particolare: in terpretazione che non ci trova d’accor do, anche se Cecchi dice bene quando rammenta che lo stesso autore ha parla to esplicitamente di significati equivoci a proposito di Tamburi nella notte. Ma vediamo di che si tratta. L’azione si svolge a Berlino sui primi di gennaio del 1919, circa due mesi dopo la fuga del Kaiser in Olanda, la firma dell’armistizio a Compiègne e la sconfit ta definitiva degl’imperi centrali. Il sog getto è noto. Il signor Balicke, già fab bricante di cassette per munizioni, ora che la guerra è perduta decide di dedi carsi alla produzione di carrozzine per bambini: i tempi sono tristi e il paese è in rivolta, ma la gente con la testa sul collo sa sempre come cavarsela. Per quanto riguarda le sue faccende familia ri, egli sollecita quindi il matrimonio della figlia Anna già fidanzata ad Andrea Kragler, giovanotto partito per la guer ra senza più dare notizie di sé da quat tro anni, con un certo Murk che invece alla guerra non è andato, imboscandosi opportunamente e facendo gli affarucci suoi durante il conflitto. Il signore e la signora Balicke, pur all’oscuro del fatto che la ragazza attende un figlio da que sto Murk, fissano le nozze a breve sca denza nel corso d’una festicciola al Pic- cadilly Bar, mentre dall’esterno giungo no rumori e notizie sugli assalti degli spartachisti al quartiere dei giornali. Ina spettatamente, di ritorno da una lunga prigionia in Marocco, Kragler compare tra gl’intervenuti e reclama la fidanzata insieme col diritto a riprendere il suo posto nella « società civile »; siccome però è conciato male e non ha un soldo in tasca tutti lo respingono, anche se An na è presa da una certa commozione al ricordo dell’antico amore. Dopo un aspro litigio col vecchio Balicke e con Murk, tra urla, insulti e generose bevute di kirsch, Kragler vaga disperato per le strade e approda all’osteria di Glubb, taverniere che ha avuto un nipote ucci so nell’occupazione d’una fabbrica. Il locale è pieno di operai, disoccupati, oziosi e prostitute. Si discute e si béve, la notte sta per finire, tutti escono più o meno ubriachi per unirsi ai rivoltosi e Andrea guida il drappello. A ll’alba pe rò incontra Anna, che pentita s’era mes sa a cercarlo. La ragazza lo mette al cor rente del suo stato ma gli fa capire, nel lo stesso tempo, che ama lui e non Murk: Kragler allora abbandona i compagni, ri fiutando il combattimento e la logica stessa della rivolta per avviarsi con la sua futura sposa verso « un letto grande, morbido, bianco » e una dignità socia le da recuperare non importa come. A prima vista, dunque, può sembrare che il maggior carico d’equivocità se non di cinismo, in Tamburi nella notte, debba risultare dalla sua conclusione, cioè dal « tradimento » del protagonista; e questa in fondo fu la tesi di Brecht quando gli venne fatto di riconsiderare, a cinquant’anni, i connotati essenziali del lavoro. « Di tutti i miei primi componimenti tea trali — scrisse difatti in una nota ap parsa nella seconda serie dei Versuche (1949) — la commedia Tamburi nella notte è il più ambiguo. In esso mancò poco che la rivolta contro una conven zione letteraria disprezzabile mi portas se al disprezzo per una grande rivolta sociale. Un trattamento normale, cioè convenzionale, di questa storia del sol dato che si unisce alla rivoluzione per ché la sua ragazza s’è messa con un al tro, o gli avrebbe fatto riacquistare la ragazza, oppure gliel’avrebbe fatta per dere per sempre: in entrambi i casi egli sarebbe diventato un combattente della rivoluzione. In Tamburi nella notte, in vece, il soldato Kragler si riprende la ra gazza, benché ’’disonorata” , e lascia per dere la rivoluzione. Sembrerebbe la so luzione più ignobile, soprattutto se c’è il sospetto che l’autore l’approvi. Oggi capisco che il mio spirito di contraddi zione [...] mi portò quasi ai limiti del l’assurdo. D’altra parte il dramma della predica umanitaria allora in voga, con le sue pseudo-soluzioni irrealistiche, non si confaceva ai gusti e alla mentalità dello studente di medicina ch’io ero a quei tempi: metteva in scena un improbabi lissimo e inefficacissimo insieme di bra ve persone che avrebbero dovuto porre fine alla guerra ( questo fenomeno com plesso che affoga profondamente le sue radici nelle strutture sociali ) per mezzo della sua condanna morale. Certo allora conoscevo poco della rivoluzione russa; [...] ma se nel novembre 1918 la mia modesta esperienza militare d’assistente di sanità non era bastata a rivelarmi quanto fosse seria l’insurrezione proleta- ro, ma che non ero riuscito a far sì che il pubblico vedesse la rivoluzione in mo do diverso dal mio ’’eroe” ; ed egli la vedeva, al più, come qualcosa di senti mentale. La tecnica dello straniamento non la conoscevo ancora ». Fin qui Brecht e la sua « giustificazio ne »: ma il senso e la chiusa di Tamburi nella notte possono veramente qualifi carsi d’ambiguità, o invece non è vero che il corso e gli sviluppi della storia tedesca dal ’18 al ’45 valgono a dimo strare tutto il contrario? La sera del 9 novembre 1918, affaccian dosi a una finestra del Reichstag, dove vano a proclamare una repubblica di ti po sovietico. D’altra parte la maggioranza dei tede schi era ben lontana dal concepire e dal- l’augurarsi l’avvento d’una Germania de mocratica. I più ( e tra questi più biso gnava comprendere quasi tutti i giova ni sotto le armi ) non riuscivano a dis sociare il principio d’autorità dal tradi zionale^'potere degli Junker e degli altri ceti dominanti, dei grandi industriali e degli alti funzionari dell’impero, soprat tutto dei generali e della casta militare: condotta sul modello della rivoluzione russa con i suoi consigli di operai e di il mio rumoroso ria in Germania nell’inverno tra il ’18 e il ’19, era stata però sufficiente a farmi capire quanto poco seriamente potesse parteciparvi ’’eroe” . L’iniziativa della lotta fu presa dai pro letari: egli, in quella lotta, poteva sol tanto nascondersi. Essi per diventare ri belli non avevano bisogno di perdere al cuna proprietà: egli avrebbe reclamato e ottenuto la restituzione d’una sua pro prietà. Essi erano pronti a difendere an che i suoi interessi: egli li avrebbe tra diti. Essi erano tragici, lui era comico. Rileggendo la commedia capii che tutto questo mi era stato perfettamente chia- si teneva una convulsa riunione dei capi socialdemocratici, Scheidemann aveva an nunciato lì per lì, alla folla che gremiva la sottostante Kbnigsplatz, la nascita del la repubblica tedesca. Il suo gesto però non rispondeva affatto alla volontà de gli altri compagni di partito e soprat tutto di Ebert, desideroso fino all’ulti mo di salvare la dinastia degli Ho- henzollern: sulle rovine dell’impero, e senza consenso di popolo, il mutamento di regime era dunque avvenuto in modo quasi fortuito, soprattutto per « antici pare » gli spartachisti che dalla loro cit tadella nel palazzo del Kaiser s’accinge- soldati, la rivolta spartachista era desti nata a fallire proprio perché priva d’un valido sostegno da parte di truppe an cora largamente ipnotizzate, nonostante tutto, dal mito della disciplina e della cieca obbedienza ai capi. Da parte loro i socialdemocratici, trovatisi inopinata mente con le redini in mano, non solo continuavano a subire l’influsso di quel mito ma cercavano in ogni modo di sostenerlo, contando essenzialmente sul l’esercito per contrastare e stroncare le iniziative degli aborriti comunisti ( «Odio la rivoluzione come il peccato mortale », aveva detto Ebert nell’assumere la ca- rica di capo provvisorio dello Stato): lo si sarebbe visto tra il 10 e il 17 gennaio del ’19 quando aH’ex-macellaio Noske, nominato da Ebert ministro della difesa, fu possibile impiegare formazioni di re duci e truppe regolari al comando di von Liittwitz per l’eliminazione del movi mento spartachista e lo sterminio dei suoi aderenti. Certo, quando scriveva Tamburi nella notte, Brecht non poteva sapere che nel la stessa notte del 9 novembre, poche ore dopo l’improvvisa proclamazione del la repubblica, dal comando supremo a Spa il successore di Ludendorff, Gro- ner, aveva telefonato segretamente a Ebert per garantirgli la disponibilità del le forze armate contro la sommossa pro letaria, ottenendone in cambio l’assicu razione del mantenimento dell’esercito con tutte le sue tradizioni; tanto meno poteva immaginare che molti smobilitati di quello stesso esercito sarebbero anda ti a ingrossare via via le milizie priva te di Hitler, e che i capi militari guidati da Hindenburg avrebbero finalmente consegnato la Germania ai nazisti. Un giovane d’ingegno sottile e con gli occhi bene aperti, però, vede e prevede. Anche se poco più che ventenne, Brecht aveva visto i soldati maledire il fango delle trincee e i disastri della guerra ma tenersi cari, con l’uniforme lacera delle armate imperiali, i ricordi delle vittorie a Gorlice o sui Laghi Masuri, in Polonia o in Lituania; li aveva visti sprofondare nelle bettole dopo la disfatta ma riemer gerne poi quasi subito, al primo cenno dei ben noti comandanti, per dare la cac cia nelle piazze e nelle vie di Berlino ai « sovversivi » di Liebknecht a scarica re sul proletariato in rivolta, ma debole nell’organizzazione, la rabbia e il senso di colpa per la guerra perduta. Il protagonista di Tamburi nella notte è appunto uno di loro, né quindi pote- va venir configurato in altro modo. Re duce che tenta di liberarsi della pro pria angoscia dissolvendola nel caos uni versale, da cui peraltro si ritrae imme diatamente in nome dell’« ordine » e della « rispettabilità », Kragler è né più né meno che un piccolo borghese al quale in sostanza non interessano le for tune o sfortune pubbliche, ma i vantag gi e le sistemazioni private. A sipario calato, dopo la fine del dramma, possia mo oggi immaginare quale sia stato il suo destino: avrà trovato un posto nella azienda del suocero o magari nei repar ti armati di Rohm e poi della Wehr- macht, in ogni modo sarà andato avanti benissimo sostenendo il nazismo prima e dopo la conquista del potere, nella seconda guerra mondiale e oltre (molti industriali tedeschi ed ex-gerarchi del Terzo Reich non hanno fatto mistero, almeno fino ai cancellierati di Adenauer e di Kissinger, di carriere e simpatie dello stesso tipo ). Kragler non è dunque un personaggio ambiguo: è invece chiarissimo, addirit tura profetico, investito come risulta dalla luce d’un oggettivismo duro, senza illusioni, cui sarebbe impossibile chie dere artifici o pietismi. Fuori natural mente da formule assolutorie, il suo com portamento trova se mai qualche scu sa nell’azione corruttrice e intimidatri- ce di classi dirigenti che soverchiando i più deboli o i più corrivi (cioè la mag gioranza degli uomini ) determinano le loro scelte in senso negativo: sarà que sta anche la sorte d’altri « eroi » di Brecht — una Madre Coraggio o un Ga lilei, per esempio — vittime non meno del soldato Kragler di società ugualmen te ottuse, oppressive e violente. Si dirà, ancora, che in Tamburi nella notte i personaggi adunati nell’osteria di Glubb non inducono a giudizi molto lusinghieri sui rappresentanti della ri- voluzione. Ma essi in realtà non lo sono, presentandosi piuttosto come i soprav venuti dell’ultima ora, quelli che si ag gregano a ogni sommossa di piazza sen za vere ragioni ideali, per semplice amo re del trambusto o soltanto per pescare nel torbido; e se un leggero appunto può farsi alla regia di Cecchi, dominata evidentemente dalla supposta « ambigui tà » del lavoro, è quello di non aver sot tolineato con maggior intensità la pre senza e gli echi dei veri rivoltosi (per quanto esterni allo sviluppo propriamen te drammatico), quegli spartachisti che vennero sgominati anche dall’interessa ta opposizione dei vari Balicke o dal so stanziale lassismo dei vari Kragler e compagni. Non bisognava forse trascu rare il fatto che Brecht — come scrisse Jhering nel Berliner Bòrsen-Courier del 5 ottobre 1922 recensendo la prima ber linese di Tamburi nella notte — ha sem pre veramente « immerso sangue e ner vi nell’orrore del nostro tempo ». Per il resto tutto bene, con un Toni Ber- torelli efficacissimo nelle vesti del redu ce a volta a volta rabbioso e smarrito sino alla finale sottomissione, una Mari lù Prati vogliosa, ipocrita e contraddit toria a dovere come Anna Balicke, un Gianni Guaraldi aderente con piglio si curo al servilismo, all’impudenza, alla brutalità di Murk; mentre Giancarlo Pa lermo non manca di dare esatto rilievo allo spregevole giornalista socialdemo cratico, Babusch, e lo stesso Cecchi è un Balicke crudele, grossolano e sfot tente come i più tipici esemplari della conservazione. La scenografia di Franz Prati è valsa infine a ricordarci i trionfi dell’espressionismo ai tempi di Ko- koschka e di Klein, non senza qualche riferimento alla messinscena di Reigbert per la prima assoluta di Tamburi nella notte ai Kammerspiele di Monaco nel 1922. Aldo Paladini G I O S A F A T q u a t t r o q u a d r i d i L U I G I S A N T U C C I p e r l a m u s i c a d i F A B I O B O R G A Z Z I F A B O R I l l u s t r a z i o n i e b o z z e t t i d i C A R L A T O L O M E O G I O S A F A T D I L U I G I S A N T U C C I BORGAZZl: La musica che ho adot tato per il Giosafat di Santucci, è, per così esprimermi, una musica « plurali sta ». Potrei dire apertamente un col lage, una fusione « mixata » di espressio ni musicali. Quali? Rispondo schemati camente: 1°: musica elettronica su na stro pre-registrato; 2°: musica concre ta, anche su nastro pre-registrato; mu sica aleatoria per taluni personaggi co me i Politici, il Borghese, la Madre, ec cetera. 3°: musica seriale (dodecafoni ca) per la Morte in tutti i suoi molte plici aspetti; musica atonale ed a quarti di tono per il Coro che commenta e risponde anche timbricamente; musica tonale: modale per il Papa, verista per il Profeta, blues per la Prostituta, ver diana per gli Innamorati, pop per gli Hippies. Nella parte strumentale c’è pro prio un mixage. ARRUGA: Ecco, alla prima sprovve duta lettura uno trova mescolati in que sto libretto tutti i miti, i personaggi- simbolo del nostro tempo, addirittura nella loro accezione più ovvia, più mass-media: nel loro comportarsi di personaggi, non c’è proprio nulla d’im prevedibile in quello che dicono; in somma, l’umanità portata al grado più scontato di quello che ne sappiamo. Al lora uno ha il sospetto che non possa accadere niente, che si sia radunato tutto quello che di più facile esiste. E invece subito dopo scatta il tema nuovo, e anche antico, ma con un taglio nuovo: questa umanità emblematizza- ta — che incontriamo tutta, dagli Hip pies ai Politici ai Perseguitati al Papa stesso — presto s’incontra con l’unica realtà che veramente li riunisce: con testiamo la morte, liberiamoci di lei. Ed ecco sorge il mito; e il mito — senza coinvolgere delle punte di per sonalità particolari (salvo forse la Pro stituta) e di situazioni diverse da que sta semplice e paradossale situazione d’inizio — è questo: se il grande Pa drone contestato, Dio, togliesse la Mor te, se la Morte infine non ci fosse, che cosa succederebbe? Qui comincia il te ma portante dell’abolizione della Morte: a poco a poco si avverte nel libretto, ma ancor più sottolineato nella partitura, che andando verso l’abolizione di essa non si va verso il possesso della felici tà. Già intanto l’abolizione della Morte richiede un morto, il Profeta; richiede « finire » cioè già una morte, la « mor te della Morte »; poi, quando subentra questa sospensione in cui ognuno è ga rantito d’immortalità terrestre, c’è quel clima irreale, assurdo in cui scatta una nostalgia vorrei dire purgatoriale, per cui nessuno si riconosce più. A questo punto la mancanza di morte richiede un atto vitale all’indietro, cioè la ri conquista della Morte. Non si sa per ché, ma solo attraverso questo passo avviene la riconquista della Vita. Sia mo di fronte a un’opera in cui, meglio che un’azione, c’è una specie di enorme allegoria dell’umanità. Ecco allora che Io spettacolo o è statico o è, per così dire, itinerante. Io lo vedo come un grande spettacolone, per cui le stesse cose che noi vedremmo nel carnevale di Viareggio: Nixon, gli Astronauti, il Papa eccetera mantenuti tali e quali nella loro macroscopica emblematicità, si vengono a trovare drammatizzati in un happening metafisico, in un’allego ria, dicevo, tesa e marciante verso un comune obiettivo. Questa « festa tea trale », come l’ha chiamata Crivelli, ri chiede un tipo di partitura che abbia due aspetti (e di qui la soluzione di collage musicale scelta dal maestro Bor- gazzi): uno è la scelta dei suoni na turali, normali e soliti del mondo (ed ecco i rumori imitativi della vita, quelli naturalistici della sirena eccetera, il complesso pop che suona pop); su que sto c’è poi un inserimento di coro (giac ché nessuno in scena ha un ruolo di mediazione fra la vicenda e il pubbli co): e tale ruolo se l’assume una parte orchestrale, che è fatta di un’orchestra grosso modo tradizionale dove ci sono degli elementi tonali, anche se armo nicamente variati, e degli elementi se riali, assunti però con un criterio mne monico, cioè non come ipotesi di co struzione ma come elemento che torna, diverso, riconoscibile dall’andamento tonale, che crea così anche una certa dialettica interna. Musicalmente, tutto questo cresce in una prospettiva unita ria, dall’inizio alla soluzione finale: ar rivati cioè al terzo quadro, la felicità gioiosa ha i caratteri di una felicità vo luta e vuota, non quelli del tripudio totalmente orgiastico che è invece l’ap prodo dell’ultimo quadro. CRIVELLI: Una mia preoccupazione forse marginale che ho avuto leggendo il libretto è quella dell’attualità, o me glio dell’« inseguimento dell’attualità »; questa che ho chiamato « festa teatra le » deve rispettare di continuo l ’evol versi di molte situazioni di costume. Ora talune di queste, specie quelle che appaiono nel primo quadro con tanta sottolineata caratteristicità possono ar rivare all’esecuzione già un poco invec chiate, se non addirittura travolte dal dinamismo del costume. Penso ai Poli tici, al Papa e a qualche altro riferi mento della nostra cronaca attuale. Si Nella pagina precedente: Luigi Santucci, autore di noti romanzi: « In Australia con mio nonno », « Lo zio prete », « Il velocifero », « Orfeo in Paradiso », « Non spa rate sui narcisi ». Qui, da sini stra: il critico musicale Franco Lorenzo Arruga, il maestro Fabio Borgazzi Fabor, il regista Filippo Crivelli. pio, al Castello Sforzesco di Milano, collocando i tre luoghi scenici (la Cit tà, la Valle di Giosafat e il Colle degli Immortali), ad esempio, in tre cortili db versi che il pubblico può raggiungere. SANTUCCI: Quanto a me, dopo che lo spirito, le intenzioni e gl’itinerari tec nici del Giosafat sono stati così chiara mente messi a fuoco da Borgazzi, poi da Arruga e Crivelli, vorrei porre in evidenza un solo particolare « momen to » del libretto, che attiene alla sua di mensione letteraria ma forse più alla sostanza musicologica dell’opera. Voglio cioè dire che il coro degli Hippies non ha solo una funzione contestativa e di « dissacrazione » attraverso uno scetti cismo sbracato o naïf. I giovani armati di chitarra, già fuori in partenza dalla dovrà riuscire, intendo, a trovare delle simbologie ancora più elementari ed esa sperate, dal momento che domani la ma schera di Nixon potrà andar sostituita da quella di Lindsay o di Edward Ken nedy: più perenni. Gli Hippies stessi non potranno forse essere, il giorno della rappresentazione, il particolare movi mento di flowers children in via, mi pare, di flessione e di dissolvimento, quanto un’altra rappresentanza umana, con diverso nome non importa, pur sempre per indicare « quelli che dico no no », « quelli che sono contro »; a- prendo al massimo, « i giovani », gli esponenti dell ’underground perenne. Quanto alla messa in scena — per en trare in una zona già più attinente alla regia, di cui mi occupo — per realizzare soprattutto il primo quadro io vedrei come soluzione una specie di groviglio, di grappolo di umanità che potrebbe riportarsi alle immagini di pala d’alta re del tre e quattrocento. Attraverso dei giochi di luce, creare diversi picco li « luoghi scenici », luoghi d’azione che vengono « pulsati » di volta in volta e messi in rilievo. Tuttavia, proprio per risolvere questo problema della eviden ziazione separata e di « primo piano » dei singoli personaggi emblematici, la realizzazione televisiva, per il Giosafat, a me sembra la più idonea. ARRUGA: Altrimenti io, coerentemen te con quanto ho enunciato sullo stam po allegorico del Giosafat, lo vedrei realizzato come « spettacolo aperto »: una sorta di moderna, spuria e invasa ta « sacra rappresentazione ». Per esem- dialettica Vita-Morte, armonia-ostilità fra gli uomini, propongono in più passi, nella musica stessa in quanto tale, la soluzione o il superamento del massi mo problema: la metafisica per loro — o comunque la dimensione extravitale (extraterrestre) — è già nella musica. E’ questa la loro vera contestazione, il loro affrancamento dal mondo storico e organizzato, dal « sistema ». Ecco al lora che questa « apologia » della mu sica in un’opera musicale, l’additamen- to della musica come summum bonum o quanto meno summa libertas a me sembra l’aspetto interessante degli Hip pies, al di là della loro funzione di coro, ora rissante ora petulante. Tavola rotonda a cura di R.R. PERSONAGGI I l Profeta La P rostituta I l Papa L’Innamorato L’Innamorata L’Americano I l Russo I l Cinese I l Borghese massificato Lo S trillone I l Primo Astronauta I l Secondo Astronauta Lo Scienziato atomico G li Hippies La M orte I l Negro I l Bambino I l Vecchio I l M alato I l Carcerato L’Internato Comparse (gente, chierici, preti, poli ziotti, ecc.) Coro (sempre fuori scena) Primo Quadro. La Città La scena rappresenta un’immagine di città moderna. Grattacieli, semafori, in segne di night-clubs, supermercati, sui tetti grovigli fittissimi di antenne tele visive. Tra le case, una chiesa barocca: ma tutto è accatastato come in una rissa tra gli edifici stessi, ed insieme avvolto in uno spazio e in un’atmosfera di de serto. Stridore e boati di traffico, sul fondo campeggia, più alta delle case, una macroscopica autoambulanza, quasi l ’os sessivo duomo della città (all’inizio squil lerà in lontananza, poi assordante e rav vicinata, la sirena del pronto soccorso). Vicino a una pianta ridicolmente nana e tisica siedono su una panchina i due In namorati. Sul lato destro una delle case, la prigione, ha un’inferriata a livello stra dale dietro cui è visibile, aggrappato alle sbarre, il Carcerato; un’altra, l’ospedale, fa vedere in modo ben distinto il Ma lato in un letto (o in piedi, in pigiama); più discosto dall’ammasso delle case, un filo spinato con dentro, in uno spazio ristrettissimo, un uomo cencioso: l’Inter nato. Più di proscenio, su una stilizzata utilitaria ove siede al volante, il Borghe se massificato. Sul lato sinistro tre uomi ni giuocano ai dadi davanti a un gran mappamondo collocato entro il loro trian golo; l’Americano, pullover girocollo co perto delle stelle e dei colori USA; il Russo, colbacco di pelliccia sormontato dalla stella rossa; e il Cinese, camiciotto blu maoista e faccia fortemente tinteg giata di giallo. Alle loro spalle un pugile negro in braghette e guantoni li osserva in piedi. Pure nei pressi dei tre giocatori, a osservarli, è lo Scienziato atomico: por ta sul torace una sorta di corazza-ordigno con manometri e pulsanti; in testa una complicata torre con antenne e aggeggi tecnologici, a raffigurare il « cervello elettronico ». Più in centro, su una pan china o al tavolino esterno di un caffè, un Vecchio signore col cappello e il ba stone. Legge quieto il giornale, e di quando in quando riceve il Bambino ( ve rosimilmente suo nipote) che giuoca con teneramente un piccolo carro armato fra la ghiaia, mentre la Madre sferruzza su una pan china seguendo il figlio. Mezza dozzina di Hippies — abbiglia mento eccentrico e lunghe chiome — con chitarre, sulla scala di pietra della chiesa. Mescolati agli altri, i due Astro nauti, con tuta, la testa scoperta e il casco spaziale sotto il braccio. Due poli ziotti. La Prostituta gira con sigaretta provocando i presenti ma tenendo soprat tutto d’occhio, languidamente, il Profe ta. Questi veste una tunica che ricorda il Cristo: ha capelli lunghi, un’espressio ne dolente e quasi smarrita. Fra tutti, vestita di nero in lunga gonna, si aggira la Morte. All’aprirsi del sipario entra in scena da un lato lo Strillone col fascio di giornali sotto il braccio, e dall’altro il Papa, con preti e chierici, solennemen te paludato, che sale i gradini della chiesa per entrarvi. Al suo passaggio qualche se gno di croce e genuflessione (le tre don ne; il vecchio si toglie il cappello), nei più indifferenza, qualche fischio e risata. Squillo lungo di sirena, che sulla stessa nota si sviluppa poi in musica. Lo S trillone (attraversando la scena verso il Papa che entra). Cinque casi di colera anche nella nostra città... I l Profeta (al passaggio del Papa tenta di fermarlo, inginocchiandoglisi davanti). Santo Padre... Santo Padre, fermati: qui c’è tanto dolore. I l Papa (benevolo, ma distaccato e im paziente, gli pone una mano sui capelli). Il rito ci attende. Confida in Dio, figlio lo. (Entra nella chiesa col seguito). I l Profeta (si aggira sconsolato fra gli astanti, accostandosi a ciascuno, li trafig ge con uno sguardo di pietà impotente o dedica a qualcuno un gesto di solidarietà: accarezza il Bambino, batte la mano sulla spalla al Vecchio, si mescola affabilmen te agli Hippies che lo guardano inebetiti e sarcastici, ai tre che giuocano alle carte e lo osservano con ostile sospetto. Infine si sofferma davanti alla finestra del Car cerato). Che hai fatto? Hai ammazzato? (L’uomo dietro le sbarre fa cenno di sì, spinge le braccia disperatamente oltre le sbarre; il Profeta lo abbraccia). G li Hippies (in coro sulle loro chi tarre). Tutti hanno ammazzato - tutti hanno ammazzato. I l Profeta (fa sosta davanti al Malato). Molto male? Dimmi, dove? (Il Malato annuisce e si tocca tutto il corpo: an ch’egli sporge le braccia sfinite fuori dal davanzale e il Profeta lo abbraccia e ac carezza per un attimo). G li Hippies (c.s.). Tutti stiamo male - tutti stiamo male. I l Profeta (si porta davanti ai fili spi nati del lager). E tu, compagno, perché ti han deportato? (Il Deportato apre le braccia, come chi non sa o non ricorda; il Profeta attraverso i fili gli stringe le spalle e lo incoraggia). G li Hippies (c.s.). Tutti ci hanno de portato - in un luogo disperato. I l Profeta. O città, perché ci castighi tanto - di essere nati fra le tue mura. - Le tue case - a quest’ora che le finestre si accendono - potrebbero essere così dolci. - Quale mostro le assedia - e mor de i nostri cuori? - E tutti ci affannia mo a scappare - e siamo sempre qui. - Un altro giorno - è passato - e nulla va meglio di ieri. - Ma dove fuggire? Coro. Dove fuggire?... L’Innamorato (stringendo la ragazza). Perché piangi, amore? Se i tuoi non vo gliono scapperemo. Questa sera, scappia mo stasera. Ti amerò tutta la vita! G li Hippies (con una risata, ritmando sulle chitarre). Non è vero non è vero - vuole solo portarti a letto - non ha in te sta altro pensiero - quel gorilla maledetto. (L’innamorato stringe al petto la ra gazza e tende il pugno minaccioso e sprezzante verso gli Hippies). L’Innamorata. No, io so che mi ami. Ma a che serve? Verrà la morte per mio padre. E per noi i rimorsi! Poi la morte verrà anche per noi. La Morte, nel suo vagabondare semidan zante, li sfiora, li tocca con le mani, essi si ritraggono con ribrezzo abbracciando si. Il Profeta è ora alle spalle degli In namorati e appoggia le mani sulle loro teste. Poi si porta nel crocchio dei tre che giuocano ai dadi, li guarda in terrogativamente. Il Cinese, il Russo e l’Americano giuocano un’aspra partita, gonfia di ostilità, cui il pugile negro assi ste sempre più inquieto). L’Americano (play-boy di 40 anni, ca pelli corti, veste un maglione con le stel le USA, fuma un grosso sigaro). No, niente angosce. Mille dollari al mese e uno può pagarsi un buon psicanalista che mette tutto a posto. Anche le ango sce per il Vietnam. Happy end, lieto fine... Da noi in USA si compra il lieto fine, non c’è da scappare. (La Morte gli fa una carezza e VAmericano si ri trae con una schivata di ripugnanza). Ba sta restare in USA e rendere tutto USA. Sorridere... (sorride) e picchiare (asse sta un ceffone al Cinese). G li Hippies. Vietnam! Vietnam! Viet nam! (Dal loro gruppo, coro di schia mazzi e pernacchie all’indirizzo dell’Ame ricano). I l Russo (voce da basso profondoI Marx Lenin Stalin... Non si può far fe lice il mondo senza imparare a odiare abbattere uccidere. E noi siamo felici perché i nostri maestri ci hanno insegna to a uccidere abbattere odiare per ren dere un giorno felici i lavoratori. (La Morte gli fa le corna con le mani e il Russo gira le spalle e si rimette rabbioso a giocare con gli altri due). G li Hippies. Il patto con Hitler - le fosse di Katin - le purghe di milioni di uomini. Assassini! I l Cinese. Settecento milioni: siamo tutti puliti vestiti e sfamati. Abbiamo Mao, il riso e anche l’atomica. Perché nervosi, onorevoli nemici? Io sorrido sempre. La Morte per noi non ha alcun senso. (La Morte gli fa davanti un mimo orientale, e il Cinese la caccia sorriden do, come una mosca). G li Hippies. Viva Mao Tse-tung - viva Mao Tse-tung... - Viva Mao - Viva Mao - Viva Mao, Mao, Mao! Il Negro a questo punto, in una crisi isterica di violenza, prende a pugni i tre giocatori. Due poliziotti lo immobi lizzano, lo percuotono duramente e lo trascinano via. I l Papa (uscendo dalla chiesa: musica d'organo). Amare. E’ il precetto di Cri sto. L’odio è il peccato contro lo spiri to, il peccato senza perdono. E il solo amore è nella Chiesa. Guai ai disertori. E guai ai giuda! Stringetevi attorno al vicario di Dio e avrete la pace in questi miseri giorni, e la gloria futura. (Con geda il suo seguito e rimane tra i perso naggi in dignitoso e distaccato atteggia mento). I l Borghese massificato (appoggiato alla sua utilitaria). Cose troppo grosse. Si ostinano a complicare. - Questa mac china va bene. Non mi hanno mai tam ponato. Al sabato mi porta ai laghi, nel le sicure colonne del week-end. Con mia moglie, eccola là, con mio figlio, eccolo là. - Non mi sono mai ammalato. - La sera della domenica, quasi sempre riu sciamo a essere a casa in tempo per la televisione. - Non fumo più. (La Morte gli si accosta: terrorizzato rientra nell’abi tacolo, suona disperatamente il clacson). Primo Astronauta. No, la soluzione è un’altra. Non è qui, è altrove. Qui tutto è finito, John. Qui si crepa di smog, guerre, sovrappopolazione, e loro testardi vanno avanti. Secondo Astronauta. Ma lassù, Benja min, nel Mare della Tranquillità, come si stava bene, ricordi? Primo Astronauta. Quel verde elet trico dei prati, quei sassi... Solo noi li abbiamo toccati; ci torneremo. Secondo Astronauta. E ci resteremo. (Alla Morte che li prende per le spalle). E là tu, strega, non potrai salire. G li Hippies (si scatenano in un rock, si baciano e si drogano). Porci vigliacchi, mistificatori. - La vita... la vita... nes suno di voi l’ha capita. - Voi siete dei castrati - perché da Morte - terrorizzati. (Si alza un solista hippy: dirige). Tuffa tevi nella musica - sentite, sentite: la mu sica! - E fregatevene di odio e amore - di chi vive e di chi muore. Lungo tempo musicale, anche melodi co. Tutto è sommerso in musica. La Morte cerca di girare fra loro per spa ventarli, ma essi la baciano, la palpeg giano, tentano di alzarle le sottane. La Prostituta. Quelli sono matti - tutti matti. - E io invece sono felice - mi vado bene così. E far l’amore con tutti. - Chi ha fatto l’amore - più volte di me? - Ogni volta, anche con quel vec chio, io riesco a godere. - E poi essere innamorata - del mio amore. (Va alle spalle del Profeta e lo abbraccia maliar da, lui la sopporta con amaro distacco). Vero, mio amore? - sempre solo di te. Durante questi monologhi, di contro scena il Profeta gira, soffermandosi pre valentemente dal Malato, dal Carcerato, dall’Internato ; accarezza il Bambino; la Madre fa giocare questi col suo balocco, seduta su una panchina, borghesemente vestita; gli Astronauti giocano a palla con una luna di gomma; la Prostituta lusinga ora questo ora quello, anche il Vecchio seduto, e le guardie, molto ar mate, mettono in evidenza compiaciu ta le loro pistole. La Morte fa un con tinuo ghirigoro di calabrone fra tutti. I l Profeta. Voi cercate la vostra pace - come se camminaste fra i binari di notte - e alle vostre spalle può arrivare il tre no. Ciascuno racconta a se stesso - una storia in cui non crede. - Oh potessi vedervi pacificati e felici - senza quella feroce paura. Lo Strillone. Terremoto in Anatolia. Trentamila morti... La Morte danza esaltata. Il Profeta, an gosciato, si copre la faccia con le mani, si accascia. La Prostituta lo consola. La Prostituta. Ma è lontana, è lonta na. L’Anatolia chissà dov’è? Forse non c’è... G li Hippies (ripetono cantando sulle chitarre). E’ lontana, l’Anatolia. Chi li conosceva quei trentamila? La Morte pone una mano sulla spalla del Vecchio: questi è colto da malore e si porta una mano al petto. Lo soccor rono. Sibilo di autoambulanza; lo cori cano sul veicolo; altro sibilo. G li Hippies. Ecco, ne prende un al tro, ne prende un altro... Coro. Un altro, un altro... Lo Strillone. Muore di sincope men tre legge il giornale... Il Profeta fa un gesto di sconforto. La Prostituta. Ma è vecchio, era vecchio... G li Hippies. Vecchio. Vecchio. Non capiva più niente. Largo ai giovani. La Madre tocca la fronte del bambino e, trovatala calda di febbre, dà segni di sgomento. La Morte si era curvata a giocare col piccolo. Altro sibilo di au toambulanza: caricano il malatino sul mezzo di soccorso. La Madre mima la disperazione. La P rostituta. Vedrà, signora, vedrà che guarirà. I l Borghese massificato (padre del Bambino, scende dalla macchina e si ac costa alla moglie). Vedrai, nostro figlio guarirà. Restano tutti immobili. Tregua anche di musica, a indicare un tempo che scorre; poi buio, indi luce e il Borghe se rientra col Bambino per mano, gua rito, la Madre lo abbraccia, tutti danno segno di partecipazione e di gioia. La Madre. E’ guarito! E’ guarito! Coro. E’ guarito! E’ guarito! I l Borghese massificato. Andiamo tutti in campagna - a festeggiar questo bel giorno. (Salgono in auto e via, sven tolando le mani dai finestrini. Buio, poi luce). Lo Strillone. Grave sciagura sull’au tostrada. Due sposi e il figlioletto inve stiti da un camion. La madre resta uccisa... Intermezzo orchestrale molto intenso a commentare ed interpretare la tragedia. Fiati e ottoni. Tutti gli astanti assumo no, aggomitolandosi su se stessi, un at teggiamento di sgomento e di orrore, come se volessero cancellarsi. Solo gli Hippies sembrano estranei alla mazzata e seguitano ad agitarsi sulle loro chitarre, in una dimensione alienata. G li Hippies (ogni tanto). La vita, la vita... I l Profeta (in un accesso di dispera zione si straccia i capelli: con le braccia alte verso il cielo). Perché allora l’avevi graziata? Perché? (Con ira, agli Hip pies). E cantate, avanti, cantate - che an che lei era matura per la Morte - che va tutto bene così. Tutti si avventano furibondi sulla Mor te, che tenta di sfuggire al linciaggio, e il Profeta ora le fa scudo e tenta di proteggerla. T u tti. Maledetta... Coro. Maledetta... I l Profeta. Non maledite la Morte. La Morte è serva di Dio. G li Hippies. Dio non esiste. Dio non esiste. La P rostituta (cerca di calmare e con solare il Profeta, abbracciandolo con struggente amore). Su, calmati... Cal mati... Coro e g li Hippies (provocatori). Sei tu che ci esorti a esser miti e rassegna ti - sei tu che ci hai detto - « dolce è la Morte ». - Provacelo! (Ridono). L’Americano. Che succede, noi siamo di cattivo umore! Davvero questa mor te non si spiega. Parlino le macchine. (Allo Scienziato). Il tuo cervello elet tronico, okay. Ci dia lui una chiave di questa tragedia: una garanzia per il no stro domani. Lo Scienziato (fatto segno dell’atten zione dei presenti si concentra, met tendo mano alle varie leve e ai pulsanti della complicata torre che regge sulle spalle; armeggia per qualche istante, mentre la musica commenta grottesca, con sibili e rumori d’ingranaggi. Poi apre le braccia con disappunto). Il com puter è inceppato. La scheda non sa rispondere - a quesiti che riguardano la Morte. (Movimento generale di irrita zione e di sconforto). Coro. La Morte... G li Hippies (ridono). Ah ah ah - il tuo cervello è un baccalà. Il Profeta piange. La P rostituta (abbracciandogli le gi nocchia). Smetti di pianger su di noi. - Salvaci e portaci via, là in quella terra dove non si muore. Tutti si accostano, stringendosi quasi carponi attorno al Profeta e interrogan dolo con gli occhi, ansiosamente. L’Innamorato. Una terra di aranci e di vispi leprotti. L’Innamorata. Una valle dove - nudi nel sole - si possa far l’amore - con gli alberi e i sassi. La P rostituta. Ma parla... Esiste la Terra Promessa? L’Innamorato. Ognuno l’ha nel cuore. L’Innamorata. La valle dove non si muore. Coro (parlato). Tu che conosci Dio, tu che gli parli nell’orazione. I l Profeta. La valle dove non si muo re - è la valle degli ultimi morti dopo il Grande Giudizio: Giosafat. G li Hippies (in un ritmo improvvisa mente frenetico modulano sui loro mo tivi, quasi disgregandola in una sarca- stica speranza, questa parola). Gio-sa-fat... - Every-body Gio-sa-fat... - Every-body - Gio-sa-fat... - Every-body - Gio-sa-fat! L’Americano. Basta con questa tiranna. (Scaccia brutalmente la Morte con uno spintone) I l Russo. Quest’agonia di vivere - noi vogliamo spezzarla. I l Cinese. Facciamola finita. G li Hippies (c.s.). Gio-sa-fat... Every body! Rientra il Borghese massificato. Tutti gli fanno cerchio attorno. Ha un atteg giamento distrutto, tiene il bambino per mano. L’Innamorata (inginocchiata ad abbrac ciare l’orfano). Dov’è la tua mamma? Ora andiamo a cercarla. L’Innamorato. Se è morta, con lei vo gliamo tutti morire. G li Hippies. O la va o la spacca - o la va o la spacca. - Stavolta siamo noi a fare - la contestazione a Dio. - La su- percontestazione. Coro. La supercontestazione. G li Hippies. O tutti morti o tutti vivi. Coro. O tutti morti o tutti vivi. La P rostituta (al Profeta). Mettiti al la nostra testa, capitano. Portaci a Gio safat - noi verremo con te. - Se tu ci ami. Questa lunga commedia ci ha stan cati. - Guida il nostro funerale di vivi - alla valle dei morti. Coro. Questa lunga commedia ci ha stancati - saltiamo all’ultima scena e vedremo - se sarà un fiasco o un trionfo. Andiamo a fischiare - l’Autore della vi ta. - Andiamo a far fallire con un grande sciopero - il padrone della vita. L’Americano. Basta, Wall Street è saltata... I l Russo. Vani sono i piani quinquen nali, le Armate rosse... I l Cinese. Vana la Rivoluzione cultu rale... Lo Scienziato atomico. Le nostre for mule e la disgregazione dell’uranio: c’è la Morte. T u tti (gli uni agli altri). Andiamo, an diamo. G li Hippies. Partite, borghesi: andate pure - voi a mendicare la vita - o a buttarvi per viltà nella morte. - Noi in vece non ci associamo - stiamo fuori dalla congiura - non abbiamo la vostra paura. - Non ce ne frega niente di vivere o morire - Restiamo qui con le nostre chitarre - l’immortalità è nella musica. (Scatenando un indemoniato accordo). Sentite se questo non è - essere immor tali... (Il loro leader alzandosi urla). L’immortalità è nel ritmo. L’Americano, i l Russo e i l Cinese. Venite, venite anche voi, a morire una volta per tutte. La P rostituta. Su, in marcia. (Al Pro feta). A Giosafat - portaci a Giosafat - se è vero che ci ami - se è vero che ci ami. - Rompiamo questa spirale: o vita o morte. T u tti (agli Hippies). Venite anche voi. Un Hippy. Si vedrà, si vedrà magari per curiosità. Secondo Quadro. La Valle di Giosafat Conca dirupata aspra e selvaggia; senza alberi, solo cespugli; grandi uccelli e senso di deserto, ma non priva di un suo poetico incanto. A criterio dello sce nografo, questo ambiente sarà tappezza to di teste storiche immediatamente ri- conoscibili: mascheroni di Socrate, Car lo Magno, Budda, Cristoforo Colombo, Einstein, Hitler, Kennedy, papa Gio vanni ecc. La scena resta vuota per qual che istante perché lo spettatore ne as sorba la suggestione. Risuona un tema ritmato e orecchiabile di marcia. Poi in corteo, preceduti dal Profeta, entrano con passo affaticato, con un certo smarrimen to, i personaggi del primo tempo: anche il Papa, anche il Malato, il Carcerato, l’Internato: tutti, meno, naturalmente, quelli che sono morti. Ultimi dopo un breve intervallo, chiamati dalla Prosti tuta con gesto d’invito mentre sono an cora fuori scena, entrano anche gli Hip pies con le loro chitarre, incerti, come se non facessero parte della carovana, con un atteggiamento di perplessa curio sità: si dispongono su un avvallamento delle rocce, a mezza altezza. Tutti gli altri si accasciano stanchi attorno al Pro feta che resta in piedi nel centro della scena con espressione di gravi e combat tuti pensieri. I l Profeta. Eccoci... Ecco la valle, ec co la nostra meta: qui Dio ci aspetta. G li Hippies. E’ come entrare in un teatro - quando è vuoto, a luci spente. I l Papa. Qui, dice la Bibbia, è l’ultima tappa del viaggio degli uomini. G li Hippies. Avanti, Padre - fatti sotto a giudicare. - Giosafat, Every body, Gio safat. - Tu hai scelto il luogo - non è male questa valle - ma noi scegliamo il tempo - l’ora. - E l’ora è questa: - ades so. - Su, dite che cosa siete qui a fare. - Fate la vostra dichiarazione di voto - il vostro ultimatum. - Dite che siam qui per il grande suicidio - se le cose non cambiano. (Additando la Morte). Noi ce l’abbiamo con quella. - Scegli, Pa dre: o noi o lei. (Agli Innamorati). E non baciatevi qui - non riattaccatevi alla vita con sensuali dolcezze - questo luogo è sacro: è Giosafat. G li Innamorati (tenendosi per mano e guardando il cielo). Noi vogliamo mo rire - amarci e dover morire non ha senso. - Questo è il nostro viaggio di nozze - ora ci uccideremo. L’Americano. Okay, anch’io morire. - Crepare in bellezza finché siamo - il più forte popolo del mondo. - Un allegro tastrofi. (Getta rabbiosamente per la scena il mazzo di giornali che ha sotto il braccio). La P rostituta (raccoglie attorno a sé i più derelitti — il Malato, il Carcerato, l’Internato, il Negro — e parla abbrac ciando le loro spalle). A me piace la vita, il mio corpo è sano e sa godere. - Ma penso che di là sarà più bello. - E’ stato scritto che le puttane avranno il più bel paradiso. - E voi poveracci che sof frite (si rivolge ai suddetti) e qui non potevate più fare all’amore. - Là mi da rò anche a voi, faremo l’amore in eterno. I l Papa. Anch’io, Padre, mi toglierò la vita - con loro - se Tu non ci dai un segno della tua pietà. - Non resterò solo ad annunciare il tuo Vangelo - in una terra deserta - alle piante e alle faine - che accettano di vivere - solo perché non sanno - di dover finire. Lo Scienziato atomico (aprendo le braccia e ostentando il torace irto di meccanismi). E io sarò il grande car nefice, come Sansone - farò crollare il tempio dei disperati - e finirò con loro. (Addita sul petto un ordigno). O tu ci grazierai dalla Morte, o premerò que sto bottone. - Un grande fungo, un istan te solo per annientare - ciò che Tu hai messo sei giorni a fabbricare. La P rostituta (si avvicina allo Scien ziato atomico in un atteggiamento am biguo, tra minaccia tragica e seduzione erotica. Accarezza e bacia l'ordigno, ten de le mani al cielo). Dio, infinito ma schio, padrone di vita e di morte - ascol taci, ascolta la sfida ultima - dei tuoi figli nella tua ultima valle: - noi ti re stituiamo la vita: - legata alla morte, la vita - ci è insopportabile. - Tutti insieme ora faremo il Gran Salto - l’umanità vive il suo ultimo minuto. - Ora io abbrac- cerò quest’uomo - premerò il pulsante che tutto può distruggere - sarà l’ultimo amplesso - tra femmina e maschio. I l Profeta. Ferma! Prima io parlerò con Lui. - Sentirò se ha qualcosa da risponderci - se un’ultima pietà o grazia ha in serbo per noi. (Sale su un pendio e inginocchiato a braccia alte si racco glie; suono potente e disarticolato che funerale - e fatemi imbalsamare con mol to cerone sulla faccia - e un rossetto di donna sulla fronte. I l Russo. Tovarisc Morte, chiamami - deportami con te - nella tua grande step pa solitaria. - Wodka e terra su di me. - A ll’inferno è l’uguaglianza - di tutti i proletari. I l Cinese. Per un piccolo cinese il pas saggio fra vita e morte - è una leggera festuca di riso. - Quasi non ci accorgia mo se sia già accaduto. Sono pronto. I l Primo Astronauta. Sì, terribile è stato tornare sulla terra. I l Secondo Astronauta. E adesso è difficile che ci rimandino sulla luna - toc ca agli altri camerati. I Due Astronauti. Vogliamo un viag gio sul pianeta Morte - essere i primi a passeggiare su quei sassi bianchi. I I Borghese. Lascerò aperto il gas sta sera. - E’ tanto tempo che sogno di non svegliarmi - Non farmi la barba, non andare all’ufficio... Lo Strillone. Voglio morire e mi am mazzerò. - Sono stufo di annunciare ca esprime la presenza e l’incombenza di Dio). G li Hippies (cantando sui loro stru menti). Da Dio non vogliamo grazie, da Dio non vogliamo pietà. - Vogliamo un gesto di fantasia - vogliamo musica nuova - che tiri e accordi il tempo come un elastico - anzi che abolisca il tem po: - non la Morte ma il Tempo è la tortura. - Vogliamo che Dio scenda a cantare con noi - ci strappi la chitarra di mano - faccia strip-tease con noi del suo mistero - si ubriachi con noi - e ci batta il tempo sulle spalle. Tutti li zittiscono, il canto dei giovani s’interrompe a taglio secco. Pausa di drammatico silenzio. I l Profeta (scendendo fra i compagni sconvolto e gioioso insieme). Ha detto sì, ha detto sì... Ci vuole vivi per sempre. La Morte è morta. (La Morte ha un ge sto di sgomento e si accascia a un lato della scena. Sorpresa ed entusiasmo dei presenti che si serrano attorno al Pro feta e lo toccano, gli baciano le braccia). Ma uno, uno ancora - per tutti - deve andare di là. - Varcare la barriera. - Por tare a Lui di là - la Morte prigioniera. Voci. Uno? Perché? Chi sarà? G li Hippies. Chi sarà? Il più sciocco? Il più vecchio? Il più malato? O il più bigotto? O tireremo a sorte? Ah, ah... (Ridono). I l Profeta. Non a sorte. Andrà il più innamorato. (Si scioglie dagli altri, con calma, fa per avviarsi verso la montagna; si capisce che lui sarà il sacrificato. Per plessità di tutti. Solo la Prostituta gli sbarra il passo, lo afferra per le spalle e lo gira verso di sé. La P rostituta. No, amore, morirai. I l Profeta. E’ necessario per il popolo che uno muoia. Voci (mentre gli si affollano intorno per trattenerlo). No, no. Non potremo vi vere senza di te. Tu sei l’unico buono. L’unico cui stanno a cuore le nostre sventure. I l Profeta. Non avrete più sventure, più odio né malinconia - perché non tu non avrete più paura - di lei... (indica la Morte rintanata nel suo cantuccio; poi si divincola per allontanarsi, ma gli altri gli si serrano attorno, ne nasce una spe cie di colluttazione sempre più orgiastica e violenta; a un certo punto è chiara l’intenzione, in parte inconscia, degli uo mini, di sopprimere il Profeta. Molte mani lo stringono al collo. Il Papa tenta di scongiurare il fatto alzando le brac cia. Solo la Prostituta prende coscienza della spirale omicida delle cose e si batte per salvarlo). La Prostituta. Assassini, voi lo uc cidete! Voci (mentre lo incalzano sempre più con violenza). Resta con noi. Si svolge una specie di rissa danzata, in un groviglio nel quale si distingue la Prostituta che cerca di respingere i lin ciatori dal corpo del Profeta facendogli scudo. Anche la Morte è nel groviglio, e sempre più s’impadronisce col suo ab braccio della vittima. Infine il Profeta scivola a terra esanime fra le braccia della Morte. Tutti smarriti si ritraggo- no, solo la Prostituta gli resta accanto, si piega su di lui e sciolti i capelli lo accarezza gemendo. La Prostituta. Tu sei morto. Tu sei morto. L’avete ammazzato. Gli astanti si stringono nelle spalle in un gesto di scagionamento e di nega zione. Anche la Morte si stacca dalla preda e fugge abbandonando la scena. Il Papa si accosta alla salma e la bene-, dice con solennità; poi alla Prostituta, e paternamente l’abbraccia e la solleva facendola allontanare dal morto. Allora tutti danno inizio al rito della tumula zione. Come per gli antichi guerrieri, il Profeta viene ricoperto da sassi, tutti ne raccolgono uno e lo fanno cadere con gesto ieratico su di lui, fino a rico prirlo. Ogni tonfo di pietra è sottolinea to da uno strappo musicale. Sul lato, i singhiozzi della Prostituta che abbraccia piangendo le ginocchia del Papa il quale la consola mimicamente. Duetto Prostituta-Hippies: La P rostituta. Amore amore. Chi ame remo se tu ci hai lasciati? Chi ci amerà se tu ci hai lasciati? G li Hippies. Un altro morto - un altro che non si sveglierà più a sole alto - nel suo letto - con la bocca impastata - i sogni di sghembo sulla fronte - il pube dolente - un altro che non addenterà d’estate - cocomeri rossi. - Per te, com pagno, né pioggia né cicale. La P rostituta, come sopra. G li Hippies. Pare che questo sia l’ul timo - la megera infatti se n’è andata - è uscita di scena. - Questo avrebbe pa gato per tutti. - Staremo a vedere. - I padroni promettono sempre - e poi non mantengono mai. La P rostituta, come sopra. G li Hippies. A noi però non ce ne fre ga niente - il gioco è sempre lo stesso - ma noi siamo fuori del gioco - lo sporco gioco della vita - del tempo della gente e degli ammiragli. - Ci spiace per quel povero Cristo - che non sentirà più que sti rocks - più bocche di donne sul suo ventre - non vedrà più films del West - coi loro allegri spari. (In lontananza deto nazioni di pistola). E la musica la musica la musica - che fa crepare i vivi - risu scitare i morti... (Scendono dalla roccia e attorno al tumulo portano la loro mu sica ad assordante volume, quasi perché il morto li senta). Terzo Quadro. II colle degli im m ortali Un luogo campestre in cima a un colle. Alberi, frutti, senso del Paradiso Ter restre. Un banco di cocomeri con i fe il Malato, stosi giganteschi frutti allineati, di cui uno già spaccato mostra la rossa polpa. Dunque, primo segno della vittoria sul la Morte è la scomparsa della Città. Tut ti i personaggi dei primi due quadri, meno ovviamente i morti e la Morte, in varie positure, in atteggiamenti di leti zia e concordia. Visibili anche il Car cerato, l’Internato, sempre con il loro abbigliamento ma in una situazione di benessere e libera giocon dità. Solo la Prostituta è in disparte in atteggiamento di distaccata mestizia. Lo S trillone (grida coi suoi giornali sotto il braccio). La pena di morte è abo lita... Ultime notizie. La morte abolita... Coro della gioia (canto rotondo, mas siccio). La Terra è nostra - siamo immortali come una giostra - senza più mali gira la Vita - su questo colle. L ’ansia è finita - baciam le zolle che non preparano - per noi più vermi. Danziam con giubilo - vivremo eterni. G li Hippies. Il Padrone - ha mollato - ha accettato - la grande rivendicazione. - Il Padrone - si è piegato. Finito il canto, le luci del crepuscolo ca lano quasi improvvise. Una pausa di si lenzio, eventualmente riempita di accenni di vecchi classici motivi — sinfonici e di canzoni note — ad indicare in tutti un rimescolio nostalgico, irrazionale, del pas sato, di un mondo perduto, tradito. Poi, solitario in disparte, il gemito della Pro stituta. La P rostituta. Dove sei amore mio? Chi ti ha scacciato da noi? G li Hippies. Piange il suo innamorato - quell’esaltato - quel piagnone. - Quel gentile anfitrione - che ha pagato il conto per tutti. - Su, ragazza, non essere mesta - non sciupare questa festa. Lo S trillone (rientrando attraversa la scena coi giornali). La Morte è abolita... - C’è solo la Vita... - La malinconia è proibita... Inizia una musica malinconica. La P rostituta. Dove sei, amore mio? L’Americano. Taci, sgualdrina, non ci sciupar la gioia - coi tuoi vedovili rim pianti... - Uno più uno meno che vuoi che importi? - Il tuo maschio adesso cercalo - fra i vivi, non fra i morti. Voci. Cercalo fra noi. - Mi vuoi, mi vuoi?... La P rostituta. Vigliacchi, voi me l’ave te ucciso - mi avete tolto il mio paradiso. Si fa sempre più buio, tutti si appartano in solitudine. I l Russo. Cos’è questa malinconia? - Questo colle ora diventa l’arida steppa - della patria mia. I l Cinese. O fiume Giallo o fiume Gial lo - vorrei affogare nelle tue onde - bere il Nulla - in un volo di fenicotteri rosa. I l Primo Astronauta. Ricordi, came rata, - l’unica nostra ora goduta - la scar pa posata - sulla ghiaia lunare - Come dentro la tuta - il cuore ci batteva? I l Secondo Astronauta (guardando il cielo). L’astro d’argento lassù traspare... - Vi potremo mai più camminare? I l Borghese. Avevo i miei miti e i miei amori che mi bastavano per vivere. - L’automobile si è sfasciata quel giorno sull’autostrada. - E il Profeta... il Pro feta che tutto avrebbe cambiato? - Anche lui me l’hanno1 sfasciato - in quella dan nata valle. (Esaminando un grande ca lendario). Giovedì... sabato... il ponte. - Forse ci scappa un giorno di ferie. - No, sbagliato. - Domani c’è da fare - la ce dola per le tasse. L’Innamorata. Ho freddo al cuore - stringiti a me. - Ho paura. L’Innamorato. Ma di che? L’Innamorata. Che sia morto il nostro amore. I l Papa. Fratelli, abbiamo peccato - ab biamo tradito. - Anch’io ho tradito - pri ma che il gallo cantasse la seconda volta. - Per questo ora siamo tristi. - Stipen- dium peccati. - Haec est hora tenebrarum. L’Americano. Peccato? Ma che fando nie ci vai raccontando? Stiamo alla scien za. (Allo scienziato). Il cervello elettro nico, il computer... Consulta la tua mac china, schiaccia il bottone, via, - che ci guarisca di questa malinconia. Lo Scienziato si appresta a manovrare il computer girando leve e manopole fra un’attenzione scarsamente curiosa, scet tica. Dall’ordigno parte qualche scintilla e crepitìo. Dopo alcuni vani tentativi scuote la testa, apre le braccia. G li Hippies (ridono su accordi di chi tarra). Ah ah ah - la tua macchina fa pietà. Lo Scienziato. I am sorry. Anche l’ani ma mia - è piena di malinconia. Torna il tema della gioia, per l’orche stra, ma trasformato in toni elegiaci, cupi, di tristezza. La P rostituta (avanza al centro della scena, non ha più la mimica di provoca zione erotica dei primi quadri. E’ sfinita e come febbricitante. Ironica). Su con la vita, belli, siete tristi? Perché? La vita è bella. (Gira davanti a tutti, alzan do squallidamente la gonna e mostrando le còsce). Cosa volete di più, maiali - ora che siete tutti immortali. (Si ricopre, ride amara; poi, improvvisamente senten ziosa). In realtà non è questa - la nostra condizione. - Noi abbiamo paura della I l Cinese. Voi, onorevoli signori, - siete responsabili. - Il capitale l ’imperialismo il revisionismo la borghesia... L’americano e i l russo. No no. Tu invece. Voi, voi. (Mimano, altercano, additandosi a vicenda come colpevoli e tendendosi i pugni. Il Papa invoca pace con gesti delle braccia; infine, in un'im provvisa solidale concordia, su iniziativa dell’Americano il Russo e il Cinese addi tano il negro che, in disparte, non parte cipa alla rissa). I tre (gridando). La colpa è di lui... Il brutto muso nero... E’ stato lui! Lincia molo, linciamolo! Rissa col Negro che tenta di schermirsi con una mimica frenetica. Lo serrano sot to sempre più minacciosi. Il Negro schi va da buon pugile. Poi dal banco dei co comeri raccoglie il coltello e lo immerge nel petto dell’Americano. Questi resta indifferente e gli ride in faccia. Quattro, cinque volte il Negro gli ricaccia il col tello nel petto; poi lascia cadere l’arma e si copre la faccia. L’Americano. Okay, sono immortale - idiota, non puoi farmi male. La rissa è stata accompagnata dal ritmo degli hippies che cantano. G li hippies. La violenza... la violenza... la violenza... Lo s trillo n e (entrando, grida). Negro che pugnala un bianco. Cinque colpi di coltello nel petto della vittima... II Papa, sgomento, a braccia levate; si getta verso il Negro che piomba davanti a lui in ginocchio, rannicchia la testa fra le spalle e si tura le orecchie con le pal me, in gesto di pentito smarrimento. Lo S trillone (uscendo). Nessun morto... I l Papa. Ma si rinnova l’atto di Caino. (Al Negro) Fratello, domanda perdono. (Il Negro si agita convulso; poi all’Ame ricano che si schermisce sprezzante). Fra tello, perdona al tuo nemico. G li Hippies (come l’arbitro che « con ta » il pugile abbattuto). Uno... due... tre... quattro... - Il Negro adesso è al tappeto. - Ha colpito ma è lui al tap peto. - Però il Bianco ha un coltello nel ventre. - Match nullo, match nullo, match nullo. - E tu vecchio Papa non predicare cose della Bibbia, Caino e Abe le... - Quello lì (indicando l’Americano) non è certo Abele - anche lui è una vecchia carogna. (La musica riprende in un’onda suasiva e melodiosa il tema del la marcia su Giosafat). La P rostituta (come invasata da un improvviso irresistibile richiamo). A Gio safat, su, seguitemi - andiamo alla no stra valle. Animazione di consenso nei presenti, voi- Vita - come della Morte, - noi abbiamo tedio - della gioia stessa. (Quasi in un pianto nostalgico). Abbiamo bisogno in vece - di un grande riposo, - abbiamo bisogno - di un grande letto - dove tutti giacere - senza farci del male - come bambini - la mattina di Natale. - Un grande letto... (salendo di tono, quasi al grido) una grande allegria. (Improvvisa mente angosciata). Ma adesso che lui è morto - più nulla di bello è possibile. - Tutti saremo disperati. - E l’Inferno è questo campare eterni - dove lui non c’è... (Singhiozzi). I l Papa (si curva a consolarla). Preghia mo fratelli - contro la tentazione - della disperazione. - Preghiamo i nostri morti. - Il nostro ultimo fratello morto. G li Hippies. Prima lo accoppano - poi pregano per lui. L’Americano. La colpa è di chi lo ha lasciato morire. I l Russo. La colpa è di chi lo ha fatto morire. ti accesi di speranza; gl’innamorati si ba ciano con fervore. I l Papa. Pellegrini sempre all’ultimo san tuario. - Malattia è la Vita, come la Morte. - Andiamo a chiedere - final mente di guarire. La Prostituta. Il mio amore è bello - lui dorme là nella sua bellezza unica. - A lui chiederemo - che ci faccia guarire. G li Hippies (infoderando le chitarre, nel gesto di chi parte). Andiamo. - Un posto o l’altro per noi fa lo stesso - purché si possa suonare - cantare - dire 10 schifo e l’amore - che tutte le cose ci suscitano. La P rostituta e i l coro di tu tti. Guarire... G li Hippies. Guarire: ma di che cosa? Di che male? - Se il male è uguale al bene - se allegria e tristezza - sono la stessa cosa? 11 coro e gli Hippies si palleggiano can tando le parole « guarire », « Giosafat » mentre si svolge un generale movimento di esodo dalla scena. Quarto Quadro. La Valle di Giosafat Stessa scena del secondo quadro. Tutti di sposti a ferro di cavallo attorno al tumu lo del Profeta; la Prostituta gli è più vi cina, alla testa del tumulo stesso; gli Hippies sono appollaiati sul loro rialzo, come nel secondo quadro. Questo tempo ha un’assoluta prevalen za musicale: l’azione è ridotta al mini mo. Il Compositore dovrà fare, oltre al l ’invenzione di temi nuovi, un grande epico missaggio o ricapitolazione dei te mi musicali svolti durante i quadri pre cedenti. I l Papa [intona). De profundis clamavi ad te Domine - Domine exaudi vocem meam. Tutti in coro ripetono; solo la Prosti tuta non canta. G li Hippies (rompendo con un ritmo secco di roll). In che cosa adesso volete essere esauditi? - Che altro chiedete ora - a un Dio che avete ricattato - e a un mor to che non può rispondervi? - Anche noi amavamo - quel fratello dai capelli lun ghi - che piangeva sui mali di tutti. - Ma voi l’avete messo sotto i sassi. I l Papa. Non date loro ascolto. Abbiate fede e chiamatelo. Qual è quel padre che, se il figlio gli domanda un uovo, gli met terà in mano uno scorpione? La P rostituta. Amore, amore, hai in bocca - lo scorpione della Morte. - Ma non puoi essere morto - se senti quanto ti amo. - Sputa il nero scorpione... T u tti in coro (ripetono in una modu lazione gregoriana). Hai in bocca lo scor pione della Morte - sputa il nero scor pione... La Prostituta. Son povera e bruca - non ho più Dio né clienti - che vogliano la mia carne. - La mia carne è avvizzita - come se fossi stata - con te dentro la tua tomba. - Non ho più risate né seno né sigarette - con cui sedurti - offrirti il mio amore. - Più nulla se non il mio latrato di cagna - che ha perduto il padrone. I l Papa. No figlia, non sei così sola. - Hai ancora la parola. - La parola è forte - la parola è più forte della Morte. La Prostituta. Aiutatemi allora, parla te, datemi parole - consumatevi nelle pa role - anche se da esse resterete soffo cati. - Parole parole che siano - più aguz ze di questi sassi. (Raccoglie un ciotolo sul tumulo). Le più antiche le più sem plici che avete - quelle che dicevate alla Vita - nell’utero di vostra madre. G li Hippies (pizzicando le chitarre). Forza allora, ragazza - forza con le paro le. - Voi ci mettete il testo - noi ci met tiamo (fanno lunghi e suggestivi accordi di chitarra) ... questo. - Parlategli, su, gente - senza musica tutte le parole - non servono a niente. T u tti in coro (sulla musica degli Hip pies). Ci hanno deportati in un paese senza morte, non siamo nati per questa interminabile sorte. La Prostituta. Rispondi amore... Coro. Riportaci i nostri sogni le nostre ambizioni strangolate del i nostri quotidiani bisogni [tempo l’allegria che è pausa del tormento. La prostituta. Rispondi amore... I l papa. Non habemus hic manentem civitatem. Coro. Riportaci il Dio dei nostri padri la mia bambola marcita nel fienile la gondola colma di baci a Venezia quella sera che tornai dalla guerra e mia madre si ubriacò il lieto coraggio di sapere che non sempre vedremo queste [piante questi tramonti e neppure sempre nelle gaie mattine il rasoio scorrerà sulla nostra guancia promettendoci fortuna e amori. Non sempre non sempre. La prostituta. Rispondi amore... G li Hippies. Forza con le parole - siete in forma oggi: vedrete - che lui cederà. I l Papa. Promissi sunt nobis novi coeli et nova terra. Voci a solo dal coro (a scelta del compositore). Abbiamo capito. Dobbiamo amarci concordi in questa danza di vivi perché tutti questi colori che guardia- j r- • • • [mo insieme non son definitivi. I l Papa. Sicut cervus desiderai ad fon- tes aquarum, ita desiderai anima mea ad te... La Prostituta. Rispondi amore... G li Hippies (in un incalzare quasi fre netico). Rispondi amore... Rispondi amo re... I l Papa. Lazare, veni forasi Una pausa di intenso silenzio, poi la mu sica rompe e sale col tema del Profeta. Voci Bianche (come da spazi lontani, lungo vocalizzo). Oh oh oh... La P rostituta (come chi ha captato un inaudibile messaggio). Ha risposto! Voci (intense di felicità). Ha risposto! Ha risposto! Togliamo il tumulo, toglia mo i sassi. Tutti impazienti tolgono i sassi che ri coprono il Profeta gettandoli gioiosamen te intorno; durante questa operazione gli Hippies cantano. G li Hippies. Così va bene, compagno - torna fra noi e non preoccuparti. (Altra ala degli Hippies, la più estremista). Abbiamo sacrificato tutte le idee e ci siamo arresi al Nulla e finalmente - ab biamo raggiunto il luogo dove - sul ca vallo a dondolo - qualcuno mangia mar mellata di ciliegie. (Altri Hippies). Ora loro andranno raccontando - che ti hanno svegliato con le loro parole. - Ma tu che sei stato di là - nel gran sonno, sai bene - che solo le nostre chitarre - potevano farti tornare indietro - passeggiare senza pas saporto - fra inferno paradiso e che cavo lo altro. - Perché un accordo in re (lo eseguono) perché una canzone è più forte - della Vita e della Morte. Il profeta è ora interamente scoperto, si sgranchisce ; calmo ma rapido si leva in piedi. Il Papa e la Prostituta s’inginoc chiano estasiati e vibranti ai suoi fianchi, lei gli abbraccia e bacia le ginocchia. Gli altri si protendono, più discosti e in due semicerchi, verso di lui con le braccia tese e i volti festosi. In quel punto rien tra a passo di danza dalle quinte la Mor te. Il Profeta fa cenno lietamente di no, come a schermirsi da quella accoglienza trionfale, fa rialzare la donna e il Papa stringendo entrambi effusivamente per le spalle. Indi ha inizio la grande danza or giastica attorno al profeta risorto. Anche la Morte danza fra loro, e a turno ciascuno si allaccia con lei in passi e gi ravolte. Anche gli Hippies scendono dal loro pendio con le chitarre e danzano un poco. Poi si aggruppano sul proscenio. G li Hippies (primo gruppo). Vi abbiamo suonato il flauto e voi non avete ballato. Vi abbiamo suonato il flauto e adesso finalmente ballate. (Secondo gruppo) Abbiamo sacrificato tutte le idee ci siamo arresi al Nulla e finalmente abbiamo raggiunto il luogo dove sul cavallo a dondolo qualcuno mangia marmellata di ci- [liegie. Teste dure, state allegri, gente la vita è su queste corde la vita non ve la porterà via nessuno finché qualcuno farà musica sulla terra. ” (Primo gruppo) (Secondo gruppo) Vi abbiamo suonato il flauto e voi non avete ballato. Vi abbiamo suonato il flauto e adesso finalmente ballate. L’alternanza e l ’intreccio di queste ultime strofe si ripete a volontà del composi tore. Luigi Santucci (Copyright 1973 by Luigi Santucci e « Il Dramma ») A S l l a c a l a f i l ' I l l T I i J- ra i molti pensieri che hanno agitato la nostra mente nel corso dello spet tacolo strawinskiano alla Scala, due si sono affacciati insistenti; uno riguarda Strawinsky direttamente e la straordi naria prolificità di spettacoli intestati al suo nome, infittitasi dopo la sua scom parsa nella primavera del ’71. Sarebbe come dire: « Non aspettate che io muoia per parlare di me » che potrebbe anche suonare così: « Non aspettate la nostra morte per parlare di noi». Congedatosi dalla scena del mondo, ora non si fa che parlare di Strawinsky, che allestire spettacoli e mostre; non è una tarda resipiscenza, ma certo questi ri cordi recano in sé qualcosa di forzato, come di un atto di riparazione, come di ravvedimenti poco plausibili, o peg gio ancora, come di un nutrimento cul turale un po’ a saturazione. Altro pensiero ricorrente riguarda la ne cessità o meno di aggiungere nuove ver sioni coreografiche a quelle già esistenti di capolavori del teatro di danza. Per duta di Le Sacre du Printemps la ver sione Nijinsky (1913), Massine ne ri la coreografia con lo fece nel 1920 stesso (di Nicholas Roerich). Allora parve azzeccata. I cin quanta e più anni trascorsi da quella data pare abbiano assodato la vitalità di quella coreografia che continua a rap presentarsi nel mondo intero e che la Scala tenne nel suo repertorio a partire dal 1947 (nella quale stagione arrivò, sempre per arretratezza culturale, con l’effetto di una bomba! ) e per un cer to periodo di tempo con notevole suc cesso. Dopo le nuove edizioni di Mac- Millan (Londra 1962), della coppia Va- silyov-Kasatkina per il Bolscioi di Mo sca (1964), di Milloss-Guttuso (Roma 1967) e di molti altri (sarebbe da ri cordare almeno quella di Mary Wigman per il Festival di Berlino del 1957), non si capisce la necessità di un nuovo allestimento tenendo in considerazione Le Sacre di Béjart (1959) che rivolu ziona il celebre contesto ma ne dà an- impianto scenico che un’interpretazione sotto più aspetti significativa, a parte il fatto che risulta ad oggi come uno dei suoi lavori più riusciti. Soprattutto non si capisce quando il nuovo allestitore, John Taras, ci dà una versione tanto scialba ed insignificante. Taras non si è limitato, come già fece Béjart, a « derussificare » il tema, ma lo ha devitalizzato (lo stesso corpo di bal lo, impreciso e smarrito, ci è parso poco convinto di ciò che faceva). Ahimè!, mai come in quest’ultima occa sione è saltato fuori lampante il grosso equivoco sul quale continua ad appog giarsi la traduzione italiana con il titolo La Sagra della primavera ( titolo sba gliato poiché « sagra » è « festa annuale per celebrare la ricorrenza della consa crazione di una chiesa; per estensione, festa popolare con fiera e mercato », dal dizionaro, e di tale manifestazione aveva i caratteri). Per questo è giusta la tra duzione anglosassone, vigente nel mon do intero col titolo The Rite of Spring. L’allestimento di Taras ha tutti i ca ratteri di una « sagra » ma non di un sacre, che è qualcosa di diverso e che appartiene al rito. Proprio ciò che pre dicava Béjart ( « l’assenza di ogni arti ficio del pittoresco » ) non è stato ri spettato in questa nuova versione con la reintegrazione dell’elemento pittorico ad oltranza e l’eliminazione delle forme pla stiche ed architettoniche, anche se la trasposizione di Béjart da un piano vi- talistico in uno erotico, che rientra nella sua tematica, sposta il concetto degli autori. Marino Marini, che ha firmato scene e costumi con due siparietti, dei quali il secondo frantuma l’azione e ci costringe alla sosta forzata di chi si mette a guardare ad un tratto un qua dro, non ascolta più la musica e natu ralmente non vede danzare, ha accen tuato con la violenza dei suoi colori mediterranei questa impressione. Pro prio il rito è stato cacciato brutalmente a calcioni ( quelli dei ballerini ) fuori dalle quinte. Si è avuto solo un mo- fosse avvenuto mento di concentrazione, di attimo so speso, ed è quando l’Eletta (Natalia Ma- karova) è scoperta dal gruppo per la sua danza del sacrificio, presenza in tensa fra lo sbigottimento e il presa gio, ma poi s’è dovuto lamentare da più parti che l’esordio scaligero della celebre danzatrice in quella veste, in un ruolo non adatto a lei e che di lei non sfruttava le qua lità peculiari, di danzatrice accademica, dal temperamento squisitamente lirico. La direzione ha poi voluto fare am menda con quel sistema della sostitu zione che lascia sempre sbalorditi gli spettatori. Forse per mancanza di fidu cia nel pubblico (trattandosi per lo più di lavori nuovi) si è ricorsi, nello spet tacolo di fine d’anno, ad un’ennesima replica di Giselle, benvenuta quando a danzarla sono chiamati due interpreti della forza di una Makarova e di un Labis, ma intanto l’unica rappresentazio ne con l’ospite è scivolata via abba stanza frettolosamente (si è parlato di un ritorno di Makarova alla Scala molto presto e speriamo bene: ne riparleremo certo!). Ad inizio di serata un Oedipus Rex ve ramente eccezionale. Siamo un po’ sa turi ormai di trovarcelo in ogni serata d’omaggio a Strawinsky, ma questa vol ta la parte visiva era servita a dovere, come sarebbe piaciuta probabilmente all’autore, stando alle sue esplicite di chiarazioni nelle Cronache della mia vita. Regia (di Giorgio de Lullo) e allesti mento che si fondevano molto bene, sta tici e solenni nei blocchi granitici, senza svolazzi o inutili coreografie, una sce nografia quadrata, severa, plumbea com’è giusto che sia (una delle belle cose di Pier Luigi Pizzi fra le non po che che egli è solito darci). La parte auditiva ci è parsa meno im ponente (con alla testa il direttore Bru no Maderna), insomma ci ha colpito di meno, ma su questo non mettiamo pa rola. Alberto Testa p i S e r * l l ^ i D E N T R O U N A M U S I C A U ' O G G I T R A P R E S E N T E E F U T U R O G io va n n i P ic c io n i D a un po’ di tempo tengo d’occhio — più o meno bene — la musica po polare commerciale inglese e america na. Seguitare a considerarla ha signi ficato essere disposti a resuscitarne la varia stratificazione. Come di un og getto, qualsiasi oggetto o fenomeno, spellandolo, se ne riconosce, oggi, uno strato più profondo di quello appurato ieri. Ha significato preventivare una duplice attitudine di porsi in rapporto con essa. Gradire un oggetto, o rifiu tarlo, o semplicemente tollerarlo fa tut- t’uno. E, invece, se lo interrogo e ten to di riferirlo a una serie di coordina te, lo assumo come problema: mi muo vo in una situazione diversa dalla pri- ma, riscontro una seconda attitudine, nel mio tener d’occhio. Cesso di coe sistere con il fatto, il fenomeno, per tentare di esplicitarlo. Rinuncio a su birlo e a sovraimpormi ad esso: rinun cio, per il tempo della chiarezza, al suo impero sentimentale. La musica anglosassone è un fenome no complesso: più ancora, vasto e nuo vo. Quando si è data, infatti, un tipo di musica talmente popolare da esser lo per un’intera generazione di occiden tali? Per più di una generazione, forse; forse anche per i non occidentali. Tal mente commerciabile da essere com merciata in un mercato di una vasti tà senza precedenti. Che è la musica dei campuses universitari della Califor nia, dei night-clubs di Tokio, della nuo va bohème londinese, degli hippies e degli « angeli dell’inferno » neonazisti; delle gioventù ricche e povere che s’in contrano e convivono ai concerti del Palazzo dello Sport di Roma. Musica preideologica, se mai ve ne fu; e in gran parte, preculturale, perché indiffe renziata e indifferente ai fatti come ai condizionamenti della cultura: neutra. Eppure, e qui sta la sorpresa, assillata di richieste, investita di sensi: di tutti i sensi, non uno escluso, impossibili a enuclearsi e costituenti /’ethos della pla tea, del pubblico, dei fruitori. Ad essa si è chiesta non una, ma dieci ideolo- gie e un centinaio di gestioni sentimen tali. E’ stata rivoluzionaria e intimista, volgare e raffinata, violenta e dimessa, erotica e liliale: Guida alla Vita, alla Religione e alla Politica. Né, peraltro, in grazia della sua propria natura di fatto preculturale, si è pensato di evi tarle la qualificazione in senso tradizio nale: giacché poesie sono i testi che piacciono o commuovono, poeti gli au tori, artisti i compositori. Un fenomeno complesso, dunque. La cui storia interna è diffusissima e ric ca di testimonianze suggestive. E’ la storia di quanti ritrovano, nella musica d’oggi, una denominazione comune. (Varca quindi la prima linea dell’oriz- II gruppo dei Blind Faith (da sinistra: Rie Grech, Ginger Baker, Stevie Windwood ed Eric Clap ton). Ebbe breve durata, nono stante fosse atteso, dopo la scis sione dei Traffic, con ansiosa e trepida fiducia. Nelle pagine se guenti: James Taylor, il « model lo » della musica pop americana, sostitutivo, oggi, di Dylan, e Ste vie Winwood, leader dei Traffic, « responsabile » di una grossa fet ta della musica commerciale in glese, e non solo inglese. In chiu sura, un’altra immagine di Ja mes Taylor. zonte e diviene racconto intrecciato di gusti, inclinazioni, tendenze e finzioni). Una storia, però, che appartiene, tutta intera, all’impero del sentimento; quan do ci si identifica con le proprie scel te, incapaci di leggerle in trasparenza. E s’investono di una molteplicità ine stricabile di vizi o virtù che altro non sono se non la propria esistenza. E la chiarezza? Non interessa — si ri sponde. E’ inattingibile, piuttosto: ine sercitabile da chi non sa mediarsi gli oggetti assumendoli in prospettiva. Né può mutare attitudine e interrogarli, senza rischiare di interrogare inoppor tunamente una parte della propria me desima esistenza. La chiarezza, cioè, in quanto importa uno stacco e la recisio ne dei contatti flagranti, sembra un’am bizione dileguante all’orizzonte dei frui tori della musica popolare odierna. / J unque: dove nacque questa musi ca. Nacque, io dico, nelle sue parole. Nella sua pretesa capacità di « darsi una parola ». Lo spazio che avrebbe monopolizzato era occupato, all’atto della sua nascita, dal rock ’n roll e, ge neralmente, da una musica sommaria, aleatoria. Elvis Presley, chi per lui, la musica commerciale europea di allora, con tutte le generose ma non risolutive eccezioni, non consentivano una storia interna. Erano la patina lucida di un attimo: la sera a ballare, le feste nei colleges. Poi, rientravano al di sotto della superficie, prestandosi ad una mi stificazione del tutto marginale. Non offrivano la surrogazione di un com plesso vago o preciso di ambizioni. Lo scalpore fu Dylan. I primissimi Bea tles, infatti, più che altro importarono un’attrazione e convenzione del gusto. Quasi, direi ora, un’introduzione a Dylan, Questi — si diceva — parlava, parlava, narrava, con pochissima mu sica: non cantava quasi mai. Erano le parole polemiche come bloccata consa pevolezza e affermazione. Era la spe cificità, come nozione d’un tempo, di un luogo, di una mozione di affetto. Ed eccola qui, allora, la nuova musica di cui non importa ritracciare le fila, ma che valeva la pena di ricostruire nella sua primitiva e anche inconsapevole ac cezione. Rappresentò, in un baleno, per una generazione, l’illusione di poter sa turare di se stessi alcune parole. Intendiamoci: potevano anche darsi ca si di musica esclusivamente strumentale o di testi letteralmente non significativi. Eppure, anche questi episodi, sintoma tici nella loro rarità, non invalidano quanto è stato detto. Una volta racco mandatesi come attuazione della volon tà di nominarsi, le parole si offrivano a tutte le possibili e alternative utiliz zazioni. Fino al nonsense dei Beatles, e al silenzio del testo di alcune canzoni dei Pink Floyd. Che divengono modi di ritenere avvenuta l’articolazione del pro prio linguaggio e di farla pesare al di là della lettera: nel silenzio, appunto, nella fin troppo palese ironia della insi gnificanza. Insamma sono forme di so fisticazione, variazioni possibili del mo do diretto di Dylan. E non ignoranza delle parole. Siamo sempre, anche in questi casi, nell’ambito della stessa storia. Si potrebbe obiettare, protestando che testi senza dubbio significativi — nien- te affatto aleatori — esistevano assai prima di Dylan e di questi ultimi anni: basti pensare a Di Giacomo, alle can zoni brasiliane, agli chansonniers fran cesi. Ma sarebbe solo un modo del buonsenso di affossare la questione, ag girandola. Infatti, le parole della canzo ne napoletana, o francese, o brasiliana, dichiarano qual più, qual meno, la loro diversamente coronata aspirazione liri ca, ovvero straniante. Vengono inguai- nate nella sostanziale anche se diversa- mente pronunciata natura melodica del la canzone. Mostrano, al di là di quel che significano, la propria disponibilità alla liquefazione melodica: inattualità e remissività insieme. E invece la nuova musica che diciamo, parve fatta di parole coagulate e inso lubili, preda insperata alla rete del se taccio: rappresentative non dei rimpian ti ma dell’attesa, della volontà attuale, non dell’effusione patologica. Parve e fu illusione. 1 oiché i testi, i tanto celebrati testi, sono, senza la musica, privati del soste gno vitale. Senza il pur esangue e rima sticato, monotono e bambinesco filo musicale se ne stanno inerti e non di cono, sono filastrocche orfane del pro prio senso. Non essendo concetti, né, ancora, immagini, non hanno che una parvenza di autonomia. La musica dà loro l’atmosfera, uno spessore: li fa co municare. Fonda tutta la loro credibilità. In realtà è proprio l ’inerzia quanto col pisce, ad un’eventuale lettura. Quelle parole non hanno il ritmo né la sor presa misteriosa che dà la poesia. Han no bisogno di un supporto, il foglio bianco non è sufficiente. Se ne resta no, sulla carta, cieche e sorde: cieco alla loro grafia e sordo al loro suono se ne resta chi le legge. (Eppure significa no, si dirà: ma così significano solo let teralmente e pretenderebbero di signifi care molto di più). E’ la musica, il sup porto: poiché sono, istituzionalmente, parole di canzoni. E la musica, per quanto poca, povera, non sarà mai trop po poca finché commercerà le proprie parole. Ecco allora che, se non vi era mai igno ranza delle parole (anche nel nonsense, nel silenzio verbale) non vi è mai, in un altro senso, in realtà, liberazione dalla musica. Si attuano, di volta in volta, miscele diverse; i testi sottraggo no spazio alla linea melodica, vengo no pensati prima della musica (è il ca so di Dylan) o proposti insieme ad essa — penso a James Taylor, alla più recente voga americana — o come me taforicamente sottintesi. Si vorrebbe. l’intenzione: ne statuisce comunque, in queste diverse possibili calibrazioni, garantire la propria can zone: che sarebbe, ridotta ai minimi termini, solo parole. Quelle parole ca paci di estrovertere la propria storia interna: di enucleare e articolare, in crollabilmente, la somma delle proprie aspirazioni. In realtà, si è detto come questa intenzione venga sistematicamen te contraddetta dal fatto che la musica resta come coefficiente inalienabile. Nel senso che agisce come nutrimento e anticorpo insieme: nutre i testi e, con temporaneamente, ne converte, steriliz za l’impo tenza. Liberazione dalla musica: sia chiaro di quale musica parlo. Quella che essen zialmente si propone di sollecitare la sentimentalità comune; non la musica che cresce e si governa da sé sola e semmai induce al pensiero della pro pria autonoma e superiore presenza. Le parole delle canzoni sono incatena te alla loro musica. Il connubio non è pacifico ma attiva un conflitto di cui già si sa il perdente: il testo; il quale, paradossalmente, è conscio di poter so pravvivere solo in quanto sconfitto e sterilizzato e, allora, solo retoricamente duella. E’ rivelatore come sia di tutt’altra na tura la reazione che si produce fra la musica e le parole di una vera poesia. L’involucro musicale è sistematicamen te allontanato, o accettato solo come sfondo inerte: riempitivo cioè, e non del vuoto delle parole, ma dell’ambien te concreto dove le parole sono dette. Poiché la poesia si fonda autonoma co me la musica autonoma, in virtù del proprio ritmo, diverso da quello musi cale. E invece, nella canzone, il filo musi cale non è sfondo, ma sostanzia il te sto, lo fa comunicare, al tempo stesso che ne altera il peso specifico: e il duel lo, si è detto, è retorico. Quindi: sono i suoni organizzati in un certo modo che rendono comunicabili i testi. E i suoni si situano in una di mensione diversa da quella dei testi. Mentre questi si è visto come vorreb bero essere monoliticamente bloccati e significanti, gli altri puntano a conve nire ad una situazione sentimentale o psicologica. C’è la musica triste, quella dolce, quella lieta; contro alle parole che significherebbero solo una definita consapevolezza. Le quali parole, reduci dalla disfatta del duello, non avendo possibilità di contrattazione, accettano la pace senza condizioni: sopravvivono tutte nella dimensione della musica. La canzone allora, parole e musica a brac cetto, senza parole o con poca musica, ha la propria udienza al disotto della coscienza. E’ surrogazione, estenuazio ne di una situazione sentimentale, cul la di ethos diffuso. Né le parole hanno più una loro sicura specificità, ma si fanno adoperare, inoffensive: fungono quasi da recipienti vuoti, disposti al l ’uso. 0 uesto tipo di ricognizione, condot ta, spero, nei limiti della chiarezza, sembra concludere la mancanza di ef fettiva novità del fenomeno preso in esame, lo credo, invece, che una por zione di novità resti, oltre quella che è definitivamente rientrata. Non è tanto la vastità di diffusione del la musica anglosassone che fa pensare, ma, di volta in volta, il modo profon do con cui attecchisce nei suoi fruitori, individualmente e collettivamente. So no, questo modo profondo, le innume revoli interrogazioni cui è stata sottopo sta, i molteplici sensi che abbiamo detto all’inizio: la quantità di storia interna che le è stato chiesto di spartire. Se, da una parte, dovrebbe ormai risultare chiaro come possa fornire tante rispo ste diverse, essendo tutte finte risposte, né avendone una specifica da fornire; resta da sapere perché incoraggi una così ansiosa volontà di interrogare. Per ché si presti a sostituire, a cullare, in somma a fungere da fiduciaria, molto la allinea, di più e più intensamente di qualsiasi altra musica di ieri e di oggi. Si è visto quale ne fosse l’accezione primaria, anche se oscura, da Dylan in poi: di valere come parola, nel senso figurato che ho detto. E’ stato chiarito anche come questa intenzione o pretesa venisse neutralizzata dall’elemento mu sica. La prima conclusione fa riferi mento al modo intuitivo con cui il pub blico ha intenzionato la sua musica. La seconda, invece, tiene conto della sua effettiva portata e rico struendola, al resto della musica popo lare e commerciale. Ad un terzo livello, invece, se ne può enucleare il margine di novità: che scaturisce dalla sua strut tura. La quale è di valere ininterrotta mente e contemporaneamente nei due sensi fra loro contrari: di parola e mu sica, consapevolezza e sentimentalità, attivazione e remissività. Viaggia, cioè, sempre su due binari: il primo virtuale e il secondo effettivo. Ogni canzone è simultaneamente presente nella sua pre tesa di essere e nella sua reale esisten za. E la pretesa è solo retrodatata dal l’esistenza, non annullata. Proprio questa irriducibile opposizione, ricondotta a unità solo a livello di struttura, spiega, di questa musica, il margine di novità. Ove mancasse uno dei due termini, il fenomeno non sa rebbe più quale è. Senza lo scatto della volontà di nominarsi, nessuno si sa rebbe coinvolto come molti hanno fat to. Né altrimenti, senza che, effettiva mente, tanta volontà venisse irrealizza ta. retrodatata, simulata. Se cioè aves se proceduto e si fosse imbattuta nella vertigine di una parola « esatta », di un « linguaggio non comune ». ^^-uesti alcuni degli strati, recupera ti, filtrando, alla soglia d’una pretesa di chiarezza, qualche anno di sentita convivenza. E, se l’esame di coscienza dovesse seguitare, direbbe, ricomposta la complessità del fenomeno, come pe si oggi un certo tipo d’impero senti mentale. Cioè di indugio su se stessi e il proprio presente: il modo di se dare l’inquietudine nell’edonismo della malinconia, della droga, dell’artificia lità. Come la musica di cui parlo, o, almeno, i sensi in cui è stata sperimen tata, esemplifichi l’attitudine odierna a ignorare parte di se stessi: irrealizzan dosi, smussando i molti spigoli del proprio essere nel mondo: radiandosi da una più difficile attività. Oggi si ignora il futuro o lo si programma mi croscopicamente: norme entrambe ne cessarie ad annullarlo nella quieta tem perie del presente. Ma più grigia, per carenza di creatività: senza la naturale utopia di domani. Proprio quando la « novità » è attesa non come frattura dal « passato », ma negazione dell’« eterno attuale ». Giovanni Piccioni I n P o r t o g a l l o T E A T R O C O A T T O L u iz F ra n c is c o R e beiio L a « liberalizzazione » del teatro portoghese, di cui la stagione 1969-70 aveva fatto nascere una certa speranza, ha fatto fiasco. Si era potuto cre dere, allora, che non sarebbe più stata la commis sione di censura a reggere i destini del teatro in Portogallo, che gli autori sarebbero stati più o me no liberi di scrivere le commedie che avevano in mente e i registi di metterle in scena nei teatri. E, in fatti, opere di Bernardo Santareno, Sttau Mon- teiro, Alves Redol, vietate da molto tempo, si po terono rappresentare durante quella stagione e la seguente, che hanno anche visto il trionfo di una violentissima satira della borghesia clericale (la trasposizione scenica del famoso romanzo di Eca de Queiros, La Reliquia) e la messa in scena di commedie straniere come Victor ou les enfants au pouvoir di Roger Vitrac, La cucina di Arnold Wesker, l ’adattamento del Processo di Kafka, Dopo la caduta di A rth u r M ille r, Le monache di Edouard Manet... Ma, d a ll’inizio dell’ultim a stagione, que sto movimento si è fermato, peggio ancora, ha fatto marcia indietro. L ’apparato repressivo ha r i preso le vecchie (e spiacevoli) abitudini: molte opere, di autori sia nazionali che stranieri, sono state vietate, e una di queste, La Madre, di W it- kiewicz, che doveva costituire il secondo spetta colo del nuovo Teatro M unicipale di Lisbona, ha provocato le dimissioni del direttore e dei suoi principali collaboratori e la chiusura del teatro. Nel suo insieme (salvo due o tre eccezioni di cui bisognerà parlare più diffusamente) questa stagio ne 1971-72 è stata una delle più m ediocri degli u ltim i tempi. Ecco il prim o segno di questo fallim ento: soltanto due commedie di autori portoghesi sono state rap presentate per la prim a volta, e, in entrambi i casi, si trattava di commedie pubblicate già da qualche anno: A Salvacào do Mundo, tragicom media del poeta José Règio, che risale al 1954, e A Outra M orte de Ines, un testo che vuol essere epico, di Fernando Luso, uscito nel 1967. La p ri ma ha inaugurato la stagione, troppo corta, del Tea tro M unicipale, la seconda è stata rappresentata dalla compagnia del Teatro-Studio di Lisbona, di retta da Luzia M artins e Helena Felix, compa gnia che non risparmia i suoi sforzi per la form a zione di un pubblico che tutto allontana dal teatro e che tuttavia bisogna cercare di conquistare al teatro. In fa tti c’è un taglio nettissimo tra il teatro e il pubblico: quest’ultim o è sempre m inoritario (relativamente a ll’insieme della popolazione), sia che si tra tti di spettacoli che interessano soltanto circoli ristretti di intellettuali, di borghesi illu m i nati, di studenti, sia che si tratti di spettacoli che si rivolgono a un numero più vasto di spettatori e che gli propongono un’evasione, pur mantenen doli nella loro condizione alienata. E ’ ovvio che soltanto una profonda trasformazione delle strut ture sociali potrà cambiare questo stato di cose, e consentire finalmente la nascita di quel vasto pubblico senza il quale il teatro non potrà essere altro che gioco intellettuale o oppio, subito o imposto. Tuttavia, uno spettacolo che caratterizza il verti ce della stagione, è riuscito a sfuggire in qualche modo a questo dilemma: il Tartufo di Molière, nella versione dell’autore spagnolo Enrique Llovet e per la regìa del suo creatore, grande attore spa gnolo anche lu i, A dolfo M arsillach, che recitò al Teatro V illaret il più popolare di tu tti gli autori portoghesi, Raul Solnado. E ’ vero che il doppio sigillo spagnolo da cui era segnato questo spetta colo fin dalTorigine fa sì che non se ne possa par lare come di una creazione interamente portoghese. Ma era recitato da attori portoghesi e si rivolgeva a un pubblico portoghese, che gli ha decretato un gran successo e che ha afferrato perfettamente l ’innegabile importanza critica di questa versione che faceva del personaggio di M olière un tecno crate che utilizza la religione come un tram polino e, allo stesso tempo, un paravento per i suoi loschi affari. Forse questa manipolazione del personag gio colpiva di più in Spagna, dove il ritratto era certamente più somigliante ai m odelli; ciononostan te l ’accoglienza del pubblico è stata entusiastica, come avvenne due anni fa per La Reliquia, che offre qualche analogia con questo Tartufo. E ’ anche la prova che il teatro commerciale non ha compieta- mente esaurito le sue possibilità di intervento nel processo sociale. Accanto a questo spettacolo, quasi tu tti gli a ltri sono sembrati scipiti, e alcuni di essi sono perfino al di sotto di ogni critica. Non parliamo di spetta coli di puro consumo, come era il caso di La M am ma di Roussin, di Prestami il tuo appartamento, di Chapman, di Scenda, chiedono di lei di Jean de Léttraz, che sono stati in cartellone tutto l ’anno. Ma avevamo il d iritto di esigere dalla compagnia del Teatro Nazionale (alloggiata al Teatro da T ri nidad, in attesa della fine dei lavori di ricostru zione della sala distrutta dal fuoco nel 1964) che i due spettacoli presentati nel corso della stagione — il Caligola di Camus, completamente sfigurato dalla regìa arbitraria e gratuita di Jacques Sereys, e il Gabbiano di Cecov, ridotto al più piatto natu ralismo — non fossero un fallim ento così totale. (C’è stata anche una ripresa di Le Roi se meurt di Ionesco, con la presenza dell’autore, che ha per messo a José de Castro di ripresentare la sua stu pefacente creazione di Béranger, per la quale d’al tronde aveva ottenuto a ll’unanim ità il premio della critica nel 1971). D ’altra parte, la messa in scena del Sogno di Strindberg — questo dramma che è una delle prime pietre dell’edificio del teatro con temporaneo, e una delle più solide — firm ata da Luzia M artins, nel suo Teatro-Studio, ha deluso i fedeli am m iratori di questa compagnia alla quale si deve uno degli sforzi più tenaci e rigorosi per la creazione di un valido repertorio, sforzo che ha dato i suoi fru tti m igliori con La cucina e Victor, di cui abbiamo già parlato, L ’amante inglese di M ar guerite Duras, e Home di David Storey. E, tra gli avvenimenti negativi di questa infelice stagione, bisogna anche collocare la versione del Nemico del popolo di Ibsen, dovuta (sia per il testo che per la regia) a Sttau M onteiro: pubblico e critica si son trovati d ’accordo a ll’unanim ità nel in blocco questo rimaneggiamento di un testo che no nostante tutto è ancora significativo ai nostri giorni. rifiutare A parte il Tartufo, bisogna cercare i m igliori spet tacoli dell’anno nelle sale d ’avanguardia, come la « Casa da Comedia », che ha fatto rappresentare la versione di Durrenm att della Danza di morte di Strindberg, splendidamente messa in scena da Jor- ge Listopad, il quale ha anche ripreso, con una re gia nuova e intelligente, la commedia del pittore e poeta Almada-Negreiros, Deseja-se M ulher, che, scritta verso la fine degli anni 20, conteneva in ger me certe proposte del moderno teatro dell’assurdo. Se il Teatro d ’Essai di Cascais, sempre diretto da Carlos Avilez, si è lim itato a riprendere due dei suoi spettacoli più riusciti — Yvonne, principessa d i Borgogna di Gombrowicz, che ci riportava verso un « teatro gestuale », un po’ nella linea di Grotow- sky, e una liberissima versione dell’Azione senza parole di Samuel Beckett — dobbiamo ricordare l ’ultim o spettacolo del « Gruppo 4 », una compa gnia di giovani attori che cercano di rompere il « cerchio maledetto » del teatro commerciale, e che questa volta hanno scelto due commedie in un atto, In alto mare di Slawomir Mrozek, e La curva di Tankred Dorsi, e soprattutto la messa in scena della Casa di Bernarda Alba, la famosa tragedia di Garcia Lorca, che il regista spagnolo Angel Facio ha organizzato per il Teatro d’Essai di Porto, e la cui invenzione più notevole era di aver affidato a un uomo il personaggio di Bernarda, che, in questo modo, acquisisce un valore metaforico il cui senso non è sfuggito al pubblico. Se è vero che la regia di Facio ricordava un po’ troppo, in certi aspetti, quella di V icto r Garcia per Yerma (e anche il film di Arrabai, Viva la muerte), è anche vero che egli è riuscito a mettere in risalto, attraverso il natura lismo apparente del testo, il dramma della repres sione politica e sessuale, cosa che ha scatenato, a destra, vivissime reazioni che erano la prova che aveva toccato il bersaglio. Per finire, una parola sul teatro di rivista, che in Portogallo ha caratteristiche assai originali, che sta va per perdere a causa delle restrizioni della cen sura. Durante quest’ultim a stagione abbiamo tut tavia potuto assistere a una specie di rifio ritu ra , per quanto tim ida, del genere (che è quello che at tira i più vasti strati di pubblico): il commento po litico e sociale ha ripreso un po’ dell’importanza che aveva prim a, e il pubblico l ’ha salutato con un entusiasmo che non lascia dubbi su quanto manca al teatro portoghese perché diventi popolare e r i prenda il posto che gli è dovuto nella città. E’, sem plicemente, la libertà. Luiz Francisco Rebello • T T T / • > / / z e F r a n z C r o n a c h e t e a t r a l i r o m a n e d i R u g g e r o J a c o b b i F errante M o rii arriva di lontano. A rriva dallo spazio indecifrabile della libertà. Porta con sé un gran vento di mare e di tempesta. Essendo libero, sa rendere liberi gli altri. Li scioglie nella gioia, li fa esprimere secondo una calda fisicità. Ma costoro hanno anche bisogno di una struttura in cui artico lare la loro vita quotidiana. Questa struttura, nel sistema italiano e non soltanto italiano, è in prim is la famiglia. Qui Ferrante M o rii non serve. E ’ capa ce di essere un gran marito e un gran padre, ma è del tutto autosufficiente. Amore e paternità sono cose che non lo legano se non nel cuore. D i vincoli sociali egli non ha conoscenza, perché non ne ha bi sogno. Così, uscito l ’uragano Ferrante dal paesag gio dei suoi giorni, la gaia Evelina, che egli aveva trasformato in Èva, diventa l ’assennata Lina. E quando l ’uragano ritorna, lei è già tutta incatenata da quei famosi vincoli. Per tre atti si dibatterà come tra le liane d ’una foresta. E ’ una donna, una donna borghese, una donna italiana degli Anni Venti. Nessuna vera nozione di libertà le è stata concessa. A questo punto, ambedue i personaggi rischiano il disprezzo dello spettatore comune, che assomiglia piuttosto al dignitoso e noioso Carpani, secondo uomo di Evelina. Ferrante è pronto a tenersi Èva, ma è anche pronto a lasciarla andare: la sua morale sta proprio nel non costringere nessuno. Così pas serà. inevitabilmente, per egoista o per irresponsa bile. Ma il dignitoso spettatore ha anche il suo bo- varismo: e quando Èva torna ad essere Lina, potrà pure giudicarla una donna senza coraggio, una con formista. Qui Pirandello, al solito (spero si sia capito che sto parlando de La signora M orii, una e due), ha la sua alzata, la sua botta di poeta. Mostra come l ’intrico sociale sia tutto aggrumato di nodi viscerali e psi cologici. Evelina è doppiamente madre: dell’adole scente Aldo, fig lio della furia, e della piccola T itti, figlia della calzetta. Sicché la decisione di Evelina, il suo cedere (in fondo) a un ricatto, trova la sua radice nel sentimento materno. Sentimento che si estende allo stesso Carpani: costui ha certamente più bisogno di lei che l ’irrefrenabile M orii. L ’unica soluzione sarebbe, diciamolo francamente, che an dassero a vivere tu tti insieme. Ma chi di loro è pre parato a un’esperienza del genere? Nessun Carpa ni, comunque, accetterebbe mai una simile scelta, condannata oltrettutto dalla società e quindi rovi nosa per il suo prestigio morale e per la sua posi zione economica. Così Evelina ridiventa Lina, ma aprendosi uno spiraglio per farsi ogni tanto Èva: resterà divisa per sempre, divisa in se stessa, a specchio d’una vita che m ortifica e contorce la stessa coscienza. Tutta questa vicenda si svolge nello spazio liberty dei giardini cinti da cancellate ritorte, vegliate da grappoli di glicine; nelle ville dalle grandi vetrate protette da tendaggi, che si schiudono sulle aiuole ornamentali; e ha una sua musica, talora dissonan te, più spesso patetica, come di vecchio jazz. Si svolge — cioè — a ll’interno del microcosmo bor ghese, ma lo fa esplodere a forza di contraddizioni. E si disegna formalmente secondo regole ben no te, ma anch’esse continuamente violate e messe in questione d a ll’incalzante novità ritm ica e dialettica del linguaggio. Qualcosa dell’ambiente è stato colto con finezza dal regista M ario Ferrerò, ma quanto al resto non aveva attori che potessero aiutarlo a formulare un discorso coerente. Che c’entrano Lauretta Masiero e Paolo Ferrari con questa commedia? In diversi momenti sembra di assistere a nient’altro che a un Niccodemi un po’ più raffinato; in troppi altri si assiste, hélas!, a una parodia di Pirandello. P ¡randello è stato la terza tappa di una sostan ziale democratizzazione della nostra lingua poeti ca. Le prime due furono, è noto, Manzoni e Verga. Sulla Lupa di quest’ultim o ho scritto più volte, an che recentemente: e non vorrei ripetermi. Ma nep pure vorrei che una mia ipotesi, avanzata al tempo del pessimo spettacolo M agnani-Zeffirelli, fosse ri masta in circolazione, in modo confuso e magari occulto, e si trovasse ora a ll’origine delle generali reazioni negative della critica alla Lupa diretta da Giorgio Prosperi e interpretata da Lydia Alfonsi. Dissi allora che « certamente » la Lupa non era opera locale, folkloristica, vernacola; e che, così stando le cose, « forse » si poteva tentare di met terla in scena nudamente e solennemente, come una tragedia classica, di stampo più raciniano che euri pideo. A lla premessa credo ancora: un m inimo di analisi linguistica rivela come nella parlata di que sti personaggi verghiani predomini, in lessico e sin tassi, non il siciliano, bensì il toscano. Verga si af fiancava agli sforzi per determinare un linguaggio nazionale-popolare unitario, e per questa via, oltre che per impulso geniale di poeta, superava il veri- Qui sopra, da sinistra a destra: Lucilla Mor- lacchi, Omero Antonutti e Lina Volonghi in « Questa sera si recita a soggetto »; Piero Nuti, Lauretta Masiero e Paolo Ferrari ne « La signora Morii, una e due ». In apertura: un’altra scena di « Questa sera si recita a soggetto ». smo. Ma alla certezza della premessa segue poi il dubitativo della proposta: la prosa di Verga è fran ta e quotidiana, non è certo il verso di Racine, né segue il compatto ordine delle strutture aristoteli che. Sicché l ’ipotesi rimane ipotesi, e con tutti i r i schi. Finché non sia verificata, non si può invocar la, quale fantasma m inatorio, contro chi fa dell’one sto Verga verista (e non turistico-fastoso, come età accaduto a Z e ffire lli). Il guaio, piuttosto, di questo spettacolo di Prosperi sta nel fatto che esso si presenta in forma incoeren te, a causa di tutta una serie di stratificazioni. Pri ma di tutto c’è il trasporto d a ll’aperto al palcosce nico: là, ovviamente, una punta di tentazione « tra gica » doveva essersi manifestata, e l ’A lfonsi ne porta ancora il segno; qui occorreva una riduzione tonale, d ifficile da raggiungere in qualche giorno di prove. Lo spettacolo al chiuso si sovrappone a quello en plein air, e ne nasce già un pasticcio. A l tra stratificazione è quella fra il recitare « in lin gua » della protagonista (e fa benissimo, anzi avreb be dovuto eliminare certi goffi tentativi d ’imitare la cadenza del dialetto) e la presenza massiccia d ’un gruppo di attori isolani, quasi tutti bravi, ma che trascinano l ’interpretazione verso un’ovvia descrit- tività tradizionale. La cosa si complica ancora per Nella foto della pagina seguente: Eros Pa- gni in « Questa sera si recita a soggetto ». un singolare effetto, direi, di distorsione ottica: il tragico tentato dalla Alfonsi, la sua sostenutezza e insieme dismisura, appena immesso in quel conte sto paesano, e a contatto con la lettura rigorosa mente realistica del regista, finisce per risultare non classico, bensì stranamente espressionistico. Donde stridori e discrepanze che dànno persino nel co mico. Ancora un risultato delle strane condizioni in cui tu tti, tranne pochi privilegiati, si trovano a fare teatro in questa repubblica. S e La signora M o rii appartiene al prim o Piran dello, adepto del grande realismo ottocentesco ma toccato dalla grazia deH’inquietudine, Questa sera si recita a soggetto s’inserisce come abnorme inter mezzo o capriccio nella produzione del secondo Pi- randello (su cui vorrei che il lettore vedesse la sti molante indagine di Umberto Bosco, ora ne « Il cannocchiale », n. 3-6; nella quale, non a caso, il terzo dramma del « teatro nel teatro » è lasciato da parte, come privo di significazione nell’insieme di quella traiettoria). Ho un remotissimo ricordo dello spettacolo Abba- Benassi diretto da Guido Salvini; ero un ragazzino, allora, e nella platea d e ll’Argentina covavo fanta sticamente attese e inquietudini. Due sensazioni mi sono portato dietro. La prim a, che in quel momen to di faticosa affermazione della regìa in Italia un testo tutto fondato sulla negazione della regìa, o di una sua falsa immagine, suonasse inopportuno e addirittura reazionario. La seconda, che i pezzi di m iglior effetto (lo si poteva constatare anche dal la reazione del pubblico) appartenessero al vecchio Pirandello naturalista, e nemmeno al m igliore. Ora sono passati più di tre n i’anni: in tanto tempo, ho avuto più volte l ’occasione di rileggere riascoltare rivedere Questa sera si recita a soggetto. Non sono mai riuscito a liberarm i da quell’antico fastidio: ma certo ho imparato a vedere certi balenìi, certi spun ti di visione o creazione globale del fatto scenico (il bellissimo « questo è muro, questo è muro, que sto è muro » in cui l ’attrice deve determinare simul taneamente una situazione legata al personaggio e una scenografia da costruire nella mente) e soprat tutto ho cercato di individuare un nucleo poetico intorno a cui organizzare la confusissima opera. Una di quelle opere in cui un problema appena in traveduto e non ancora assimilato (la regìa) si me scola ad un altro da tempo approfondito ma di- chiarato insolubile ( l’attore) e ad altri divenuti ad dirittura rip e titivi nella tematica del drammaturgo (la Sicilia, la fam iglia, eccetera). E, tu tti insieme, fanno ingorgo; ogni particolare cresce d ’im portan za, oltre ogni economia, versando per giunta una sorta di sudore polemico che invischia e impasticcia ogni cosa. Orbene, quel nucleo m i pare che possa individuarsi nella prosecuzione, su altro versante, del tema già presente e ossessivo nei Sei personaggi. Pirandello è venuto al teatro in un’epoca in cui si poneva sol tanto il rapporto testo-attore; e, in fondo, a questa sola form ula teatrale è rimasto attaccato. La sua sardonica impazienza verso il dottor Hinkfuss (che dovrebbe starsene buono buono tra le quinte ad accendere rifle tto ri, e solo questa u tilità gli è con cessa) è proprio lo scatto d’umore di chi vede na scere una nuova complicazione in uno stato di cose che già gli pareva complicato sino a ll’insolu bilità. Ci mancava anche quest’intruso, ora, in quel la gabbia di m atti: con la pretesa di mettervi ordi ne! Pirandello da tempo aveva fatto suo il vecchio detto dei comici francesi: « L ’autore scrive una commedia, gli attori ne recitano un’altra, e il pub blico ne capisce una terza »; e persino direi che vi si stava adattando. Ma non senza dolore: anzi, questo dolore era una parte inelim inabile della com plessità e del fascino vitale del teatro. E questo dolore egli era chiamato a interpretare, ad espri mere: in Sei personaggi con folgorante visione di tu tti gli aspetti della drammaticità, di tutte le facce dell’accecante prisma; in Ciascuno a suo modo divagando assai discutibilmente sull’incidenza so ciale, anzi mondana, di quell’abbaglio costante; in Questa sera badando a ll’attore, guardando a lu i più che a ll’autore o al personaggio, quasi chieden dogli scusa di non aver pensato abbastanza a lui, di non aver abbastanza veduto che anche quella dell’attore è una pena, un immedicabile strazio. Nei Sei personaggi Pirandello aveva fatto fare agli attori una figura abbastanza ridicola: essi erano, in fondo, i suoi nemici, e venivano a disturbarlo in una lotta già spaventosa con i personaggi. Ma poi ha accettato la seconda lotta: quella appunto fra la sua parola e gli attori, divenuti amici-nemici, cioè fòm ite dialettico. A questo punto la funzione di disturbo tocca al regista; ed ecco Pirandello schierarsi dalla parte degli attori, difenderli contro il regista, così come prim a aveva difeso i personaggi contro gli attori stessi. Un punto rimane irrisolto, in tutto questo schema: perché — sia nei Sei personaggi che in Questa sera —- Pirandello lavora sui rifiu ti del suo cas setto, su progetti larvali, su novelle che egli stesso aveva rinunciato a sceneggiare? Proprio per mo strarci quel che c’è dietro ad ogni recita d ’un testo « compiuto »; c’è un margine d’incompiutezza, pro pria del fenomeno scenico, che la compiutezza del testo c’impedisce di vedere. Per scorgerla bisogna mettere a nudo il processo di gestazione, tirare la tenda che nasconde il laboratorio. Così vedremo, una volta, come lo scrittore sia quasi impotente di fronte a ciò che la sua fantasia ha bene o male messo in moto (donde lo sgomento degli attori); mento più bello della realizzazione che Luigi Squar- zina ci offre di Questa sera si recita a soggetto è anche il momento più bello del teatro: è la scena di Sampognetta, non più realistica o melodramma tica qual era in passate versioni, bensì attenta a quelle forme di straniamento, di rivelazione del meccanismo teatrale, che essa deve avere e che Squarzina, con l ’aiuto del sorprendente Chiappa- rino, mette perfettamente in luce. Il resto è giustapposizione di molte, troppe cose, come nel copione. Dobbiamo sorbirci le lunghe chiacchiere di Hinkfuss per quasi tutto il prim o atto, e meno male che Eros Pagni è bravissimo, aiuta anzi a retrodatare il suo tipo di regista: retro- Neda Naldi, Salvo Randone e Cesarina Ghe- rardi nel « Piacere dell’onestà ». e, una seconda volta, come l ’attore sia quasi im potente di fronte a ciò che la sua natura ha scate nato su un m inimo pretesto (donde lo smarrimento del regista). Senza dubbio in tutto ciò c’è un m i stero, che Pirandello si guarda bene dallo spie garci; perché non ne ha la chiave, ed è certo che nessuno ce l ’ha: è un mistero, appunto, e come tale va espresso. A l solito, a Pirandello interessa non la spiegazione, ma il dolore che la vana ricerca di una spiegazione può generare. Là è il dolore dei personaggi, brandelli sanguinanti duna carne di poeta; qua il dolore degli attori, brandelli sangui Il mo- nanti del lacerato corpo dello spettacolo. datazione che poi lo spettacolo effettua sontuosa mente nei pannelli d’aeropittura e nel personaggio della sciantosa impostato alla Louise Brooks. Dob biamo anche ammirare la pazienza di Squarzina n e ll’ammannirci gli insulsi intermezzi in platea. Ma c’è l ’altra, e famosissima, scena inventata dagli at tori: quella di Mommina col m arito e poi con le bambine (le quali sono assenti, e va benissimo). Scena inferiore, nel testo, a quella di Sampognetta, perché in essa il desiderio di prendere alla gola un pubblico ansioso di commozioni ha il sopravvento sull’ originario intento dimostrativo, riportandoci dal dramma degli attori a quello dell’improbabile A sinistra, Andrea Lala e Lydia Alfonsi, e sotto, Lydia Alfonsi in « La lupa » di Giovanni Verga. personaggio. Ma Lucilla Morlacchi lo muove, que sto personaggio, con candore di verità, con una punta di follia squallida, che ha una bella evidenza. Lo stesso non potrei dire, questa volta, dell’Anto- nutti, che risolve piuttosto di maniera le ossessioni di Rico Verri. E insomma questa frammentaria, ma a tratti acuta, addirittura abissale, saga dell’at tore, non è riuscita — ancora una volta — a espan dersi al di là degli altri elementi, prim o fra tu tti lo sfocato e insieme pletorico apologo sulla regìa. D ’un altro Pirandello si dovrebbe parlare, e cioè di quello che T uri Ferro ha ripresentato a ll’Argen tina, con l ’affiatatissima troupe dello Stabile di Catania, dove fanno spicco non solo la Carrara, la N inchi, lo Spadaro, ma tutta una serie di m inori e precisissimi interpreti. Senonché, questo Liolà ha già il suo posto nella storia dei nostri anni, fin dal 1960, quando fu presentato per la prim a volta con la regìa di Accursio di Leo. E ciò che fa storia, non si presta più alla cronaca. Ugualmente non vale la pena d ’insistere troppo sul- l ’allestimento del Galileo brechtiano intrapreso con diligente spirito coloniale da Fritz e Franz per lo Stabile di Torino. (Rubo le due parole a Gian M a ria Guglielmino, che ne ha scritto con amara esat tezza). Fritz e Franz sono venuti nel paese dei Boto- cudos, e hanno fatto il loro dovere. Il guaio è che in questo paese c’era già stato il Galileo di Strehler. (Omaggio a ll’archivista: Fritz si chiama Bennewitz, e fa il regista; Franz si chiama Havemann, ed è un bravo scenografo). A ltra « ripresa » è Un ladro in Vaticano di Diego Fabbri, commedia tra le più spiritose e suggestive del suo autore, della quale già dicemmo ogni bene quando fu presentata col titolo Lo scoiattolo. D i sgraziatamente, oggi come allora, regìa ed inter pretazione sono lontanissime dal vero significato del testo e soprattutto dal suo stile. Malgrado il grosso prestigio di Cervi (e, la prim a volta, di Ca- lin d ri) questa è una commedia ancora da mettere in scena. Il Fabbri boulevardier che i nostri comici stanno inventando da qualche tempo è un fenomeno piuttosto preoccupante: e più ancora dovrebbe es serlo per Fautore. Una novità invece è II filantropo, del giovane in glese Christopher Hampton, che Arnaldo N inchi presenta con una regìa pulitina di John Karlsen e alcune notevoli interpretazioni: di lu i Arnaldo, che in certi tip i svagati e patetici rende meglio del so lito ; di Ennio Libralesso, che ha tutta la grinta e la malinconia di un intellettuale subalterno; di Roberto Bruni, che fa un suo show di vanità e di egoismo; di Teresa Ricci e di O lim pia Carlisi. La la sottigliezza d’una classe al ganza, tramonto, mentre Barracano sostituisce spavaldamente — con aggressiva tetraggine, e il misterioso senso d’un dovere da compiere — la propria fantasiosa auto rità di popolano risalito sulla china del sottosvi luppo (sino ai fastigi del boss) a ll’altrettanto fan tomatica autorità dello Stato. Non rientra nei ranghi, si pone addirittura al disopra di essi. V ittim e sa crificali o meri vendicatori, questi personaggi si pongono al centro d ’una ritualità disperata, che gli aspetti « regolari » dell’uno come dell’altro testo non riescono a coprire. Eduardo resta uguale a se stesso, o più raffinato ancora, più impalpabile; Randone fa uno strano passo indietro verso una presentazione « anni trenta », di grande mestiere ma scarsamente critica, che non aiuta il pubblico nuovo a intendere il perché del dramma. La regìa è firm ata da M ario Landi. Un eccellente montaggio di testi di Jacques Prévert ci ha offerto A chille M illo , col titolo Am atevi gli uni sugli altri, che è poi uno dei versi più blasfemi ed agghiaccianti del poeta, riferendosi ai mucchi di m orti che le guerre hanno accumulato nel nostro secolo. Il prim o tempo è particolarmente rigoroso Nella pagina seguente: Gino Cervi, Didi Perego, Alvise Battain, Corrado Olmi, Sil via Monelli, Wainer Verri, Emilio Peluso in « Un ladro in Vaticano » di Diego Fabbri. commedia ha un prim o atto affascinante, con punte di umor nero e una specie di risvolto impassibile del teatro della crudeltà. Nel secondo tempo l ’au tore mostra una certa paura d’aver parlato solo per iniziati, e mette in forzatissima luce i rapporti sentimentali, che sono i meno interessanti fra quan ti ne possano intrecciare questi gelidi personaggi. Cominciando dal sofisticatissimo, si finisce nel ba nale. E sono ritornate due famose interpretazioni di clas sici contemporanei italiani: quella di Salvo Ran done nel pirandelliano Piacere dell’onestà, quella di Eduardo nel suo Sindaco del rione Sanità, due drammi che coincidono profondamente con la lo gica nazionale dei problem i dell’anima applicati al rapporto sociale, cioè con un rivolgim ento (di tipo realistico) della tradizionale prospettiva cri stiana senza tuttavia m odificarne sostanzialmente i term ini. Baldovino e Barracano devono ambedue riscattare in una giustizia astratta e fu o ri della legge un passato che senza vera malvagità li ha emarginati dalla vita, spingendo il prim o a non pre cisate azioni « irregolari » e il secondo al delitto. in sé l ’ele- Solo che Baldovino deve ricuperare e inquietante, giustapponendo in una macchina sce nica semplice ma lim pida alcuni dei più atroci scherzi e delle più disperate tensioni liriche del Prévert surrealista. Un prim o tempo così (condot to da una mano di regista che quasi non si vede, e perciò raggiunge finissim i effetti di ritm o) può risultare persino ermetico per lo spettatore comu ne. Perciò M illo , nella parte finale, fa le sue picco le concessioni al Prévert « di consumo ». Ma anche qui bada a conservare la sua lucidità critica: basti vedere a come smitizza il decantato Questo amore. Una lode maiuscola va ai suoi compagni Angela Pagano e Piero Sammataro, giovani, veri, scattanti, sempre vivi d’una luce d’intelligenza. P oche righe mi restano per dire che anch’io ho visto, finalmente, I l barone rampante, che Armando Pugliese ha tratto dal memorabile racconto di Italo Calvino. L ’ho visto in una sera gelida sotto il ten done d ’un circo installato sul Colle Oppio. Lo stes so Calvino, in una garbata nota di presentazione, dice che questa, d’un « teatro di piazza », potrebbe essere una prova assai difficile per un personaggio Michele Placido, Vittorio De Bisogno, Fran cesco Vairano, Gaetano Campisi, Fiorella Buffa, Giovanni Poggioli, Nino Bignamini e Renata Zamengo nel « Barone rampante » di Italo Calvino. come il suo Cosimo di Rondò, « più leggero di una piuma ». Ma Pugliese ha avuto un tocco molto leggero, e più che teatro di piazza, ha fatto teatro da camera. Si vive in piena intim ità con questi attori arrampicati sopra gli alberi. Ci si sposta nei diversi camminamenti, naso a ll’insù, come per certe calli di Venezia che sembrano i corridoi di casa tua. Sicché il gran sapore di vento di frasche di tempesta, la natura con tutte le sue stagioni, che pure fa da coro costante nel racconto di Calvino, è l ’elemento che viene sacrificato. Le impalcature di legno restano impalcature di legno e mai, in nessun momento, viene in mente che possano stor mire. Io vedo in tutto ciò una grande saggezza di Puglie se. Questo tipo di teatro si regge solo se si mostra quale teatro, se non fa mai dimenticare che lo spet tatore si trova in mezzo a una convenzione e la deve accettare come tale. M i sta benissimo. E nel circo è ancora più scoperto il gioco, come appunto 10 è da secoli quello dei clowns. Né ciò impedisce, alla fine, che qualcosa di Calvino passi al pubblico: qualcosa di più di un ’atmosfera esterna: la sua intelligenza illum inistica, ma d ’illum inista in crisi, come dimostra lo splendido finale, cui il regista ha dato un suo enigmatico tono lirico. Certo non è il teatro « politico » che vorrebbero certi scalma nati: ma a chi, ditem i, a chi, importano più siffatte sciocchezze? Tra gli attori ricorderò Enrico Salvatore, specie nella parte di Gian de’ Brughi; le donne, tutte eccel lenti, dalla smaniosa Rossini alla grintosa Zamengo alla spiritosissima Buffa; mentre dei due Cosimi m ’è piaciuto di più, per freschezza e invenzione, 11 giovane, cioè Nino Bignamini. Non che il For- nara non abbia doti d’attore: direi anzi che ne ha troppe, e che vuol mostrarle tutte in una volta. L ’insieme è assai fuso e divertente, e dovrebbe pia cere anche ai ragazzi. Non è un elogio da poco: ecco per lo meno un pubblico certo, in un momen to in cui nessuno sa più a chi parla. Ruggero Jacobbi i V el fascicolo di ottobre 1971. un anno prima che Boll avesse il suo rilancio mondiale col premio Nobel. « Il Dramma » pubblicava Lebbra, la commedia che ora ha visto la sua pri ma rappresentazione italiana al Teatro Centrale di Roma. Chi ha interesse an che all’incontro silenzioso con la pa gina vada a ricercare quel numero del «Dramma ». Tuttavia non è stretta- mente necessario, perché l’edizione tea trale romana rende il lavoro senza fal sature. Ricordiamo, brevemente, di che cosa si tratta. In una camera d’albergo della Germa nia occidentale viene trovato morto, ste so sul letto in abito talare, un giovane sconosciuto. Nessun dubbio sul suici dio, e perciò la pratica si potrebbe ar chiviare. Ma l’ispettore di polizia, Tob- ser, toccato dalla giovinezza indifesa di quel cadavere, continua le indagini, nonostante la disapprovazione sempre A R O M A I L D R A M M A D E L N O B E L B O L L T u t t i l e b b r o s i , m a C r i s t o n o ! I. A . C h iu sa n o pili minacciosa dei superiori, e scopre a poco a poco chi era quel misterioso prete. Niente da fare nel campo più facile del pettegolezzo: quel prete non aveva amori proibiti, anche se nella giovane maestra Anna trovava una com prensione e un’amicizia che aveva dato ombra ai suoi superiori. Era forse un melanconico? Sono tutti concordi, i te stimoni che Tobser riesce a far parlare: quel sacerdote era anzi una creatura al legra e piena di gioia. Ma allora? La verità viene a galla quando si segue la pista di Schneider, un uomo strano e contraddittorio al quale il morto era legato da un’amicizia fraterna. Entram bi trovatelli, entrambi educati in isti tuti pubblici, il sacerdote e Schneider erano però approdati a rive diverse: il primo al credo cattolico militante, il secondo al servizio dell’apparato comu nista nella Germania orientale. Poi le autorità Schneider, d’accordo con dell’Est, aveva finto la fuga e si era rifugiato in Occidente. E adesso per chi fa la spia? Per i comunisti di oltrecorti na o per le autorità di Bonn? Schneider in effetti, pur propendendo per il bloc co orientale, in fondo è un individua lista anarchico, fa parte per se stesso e si diverte a deludere tutti e due i suoi « datori di lavoro ». In Occidente im parano a stimarlo, e lui, per entrare nel partito che si definisce cristiano, ha anche preso il battesimo cattolico, sia pure dopo aver fatto decidere da un dado se doveva entrare nella Chiesa di Roma o in quella protestante. Il prete suicida (cui avevano affibbiato il grottesco nome di Bonifacio Cristiano) era stato costretto a battezzare lui stes so il suo amico Schneider, e da quel giorno era entrato in crisi. La prontezza con cui i suoi superiori ecclesiastici ave vano accettato e coonestato quello che a lui pareva (ed era) un sacrilegio lo aveva totalmente sconvolto. Vedendo così poche tracce di cristianesimo in una società che si dice cristiana e perfino in coloro che del messaggio cristiano si fanno i banditori ufficiali, temendo di venir meno lui stesso a quella fe deltà — più che fede — che è la nota più intima della sua natura, Bonifacio si uccide. Ma a che serve averlo scoper to? Né le autorità civili né quelle ec clesiastiche possono permettere una così scandalosa rivelazione. Perciò — e qui Boll va decisamente nel surreale e nel simbolico — coloro che possono influire sugli altri bloccano il diffondersi della vera interpretazione ricorrendo a una trovata geniale: sul cadavere del suicida si sono scoperti chiari segni di lebbra, perciò chiunque abbia avuto contatti con lui viene messo in quarantena. Alla enso che il regista Baldi meriti una particolare gratitudine da parte di chi milita in politica ispirandosi ai valori cristiani per aver messo in scena Leb bra di H. Boll. Nel lavoro, con la sua esplicita metafora e con una dialettica mai reticente a mettersi risolutamente di fronte alla propria coscienza, il graf fio della satira si accompagna ad un patetico scavare nella condizione con traddittoria di personaggi simbolici ed umani al tempo stesso: una satira che sa trasmutarsi anche in pietas, rive lando in modo esemplare i carati cri stiani dell’opera di Boll. Proprio perché sono chiamati in causa alcuni valori centrali, come libertà, giu stizia, uguaglianza, Lebbra sollecita A N C O R A S U B O L L L a f e d e l t à è m o r t a l e M a tte o A ja s s a fine troveremo rinchiusi in una gabbia dorata non solo l’ispettore Tobser e Schneider, ma anche un giovane prete contestatore amico del defunto, che vo leva gridare la sgradita verità dai tetti. Ed è proprio quest’ultimo che dà al pa radosso il suo più paradossale risvolto, sputando in faccia al vescovo suffra gamo Mohrscheidt, l’eminenza grigia di quel laido complotto. Ormai la trappola è troppo ben congegnata perché non scatti da sola. Benché tutti sappiano che quella della lebbra è una mera fa vola, di fronte a quello sputo lo stesso medico che l’ha inventata non può trar ne che una conseguenza: anche Mohr scheidt dev’essere rinchiuso in quaran tena. Ma non gli mancherà nulla, come a tutti gli altri. Nulla di nulla. E’ stato chiesto autorevolmente, subito dopo la prima, come mai uno scrittore cattolico (oggi veramente Boll si dice solo cristiano, e talvolta nemmeno que sto) abbia scelto proprio il clero per accusarlo di così bassi intrighi. La ri sposta ci sembra facile. Proprio perché ancora intimamente cattolico e cristiano, Boll si scandalizza, non tanto che intri ghi simili li imbastisca il « mondo », cosa conforme alla sua corrotta natura, ma che ci si prestino talvolta anche co loro che dovrebbero rifuggirne come da quanto c’è di più lontano da Cristo. Se prima avevo ancora qualche dubbio sulla profonda religiosità di questo dramma dalle apparenze così scandalo se, la rappresentazione romana me ne ha tolto anche l’ultimo residuo, tanto si è sentito, in quelle battute sofferte, in quei dialoghi tragici e sanguinanti, l’ansia quasi maniaca di arrivare al noc ciolo pulito delle nostre anime, dove si sente ancora la traccia del calore di Dio. Nella pagina precedente, e qui accanto, due scene del dramma di Heinrich Boll, « Lebbra », rap presentato al Teatro Centrale di Roma. Di questo, e più ancora del risultato artistico e tecnico, va data lode al regista e condirettore della compagnia, Marcel lo Baldi, che credeva in questo testo fin dalla prima lettura, e lo ha dimo strato. Sugli essenziali, nudi sfondi spo stabili di Enrico Sirello (ambiente quan to mai adatto, nella sua austera nudità, a un dramma tutto di coscienze) Baldi ha scandito uno spettacolo di robusta incisività, alieno da ammiccamenti sen sazionali, ma sostenuto da alcune « tro vate » mimiche, di recitazione e di mo vimento tanto più efficaci quanto più contenute. La prima sera un certo ner vosismo ha sfocato qualche effetto, ha reso troppo stridulo qualche registro, ma in seguito il congegno ha girato sen za intoppi. Forse di mezzo gradino più a posto e disinvolti degli altri, fin dalla prima serata, Giulio Girola, che dise gnò con gustosissimo nitore la figura di un presidente di polizia (se si dovesse fare una percentuale di ruoli interpre tati a dovere, Girola sarebbe tra i pri mi d’Italia, molto più di vari attori di gran nome), Valerio Ruggeri, di una si nistra piacevolezza nei panni dell’emi nenza grigia, e Nino Pavese, tutto da godere nella « comodità » un po’ cana gliesca dì un prete con nessuna pretesa di santità. Max Turilli diverti e sorprese nella sagoma espressionistica di un lumi nare della medicina che pareva uscito da una vignetta di George Grosz. Schneider ebbe, in Marcello Tusco, una corposità irruenta e pensosa, con oscil lazioni dall’idealismo al cinismo, di otti mo effetto quando non fu turbato dalla tensione nervosa. Un pericolo che insi diò anche Marcello Bartolucci (Tobser), più felice nel cogliere i lati pervicaci e arrovellati che quelli pietosamente uma ni del suo personaggio, giunto alla giu sta dimensione nella scena apparente mente dimessa del colloquio col presi dente di polizia. Il prete contestatore ebbe in Romano Malaspina una sem bianza spavalda e nervosa, una voce squillante (anche troppo), un tormento più irritato che interiore: comunque di sicura presa sul pubblico. Rifinita con cura, da Gualtiero Isnenghi, la piace vole sagometta di un grande industriale un po’ svanito. Quanto alle donne, Wan da Tucci fu una «consunta », fraterna amante di Tobser, Mariapia Nardon un’amante di Schneider estremamente fiera e tormentata, mentre Maria Tere sa Sonni (la giovane maestra) seppe ren dere credibile, con alcune note e alcuni atteggiamenti di grande purezza espres siva, la difficile figura di una ragazza che il prete morto ha amato, senza che possa sorgere alcun sospetto di più pe ricolose simpatie. Il pubblico seguì e continua a seguire lo spettacolo con un’attenzione concen trata che ogni sera si scarica in un applauso denso, prolungato, convinto. Heinrich Boll non sarà un teatrante nato, ma anche tradotto in altra lingua dimostra di saper avvincere una platea con la forza dei suoi problemi, la vita lità dei suoi personaggi, la dignità senza orpelli del suo dialogo. Italo Alighiero Chiusano ad una verifica che non può esaurirsi nei paradisi artificiali dell’astratto, ma deve essere riferita costantemente alla sorte dell’uomo reale. Nella fattispecie l’homo cristianus. Ora, per Boll, la dimensione cristiana trova fondamento e garanzia nella dimensione umana. L’uomo, considerato non come elemen to puramente addizionabile e come sup pellettile, ma nella sua qualità di per sona, capace cioè di una vera tensione comunitaria, non è una passione inu tile, ma un soggetto capace di scelta e capace di fedeltà. Ma che tipo di scelta e che tipo di fedeltà? La scelta tipicamente evangelica del sì e del no e la conseguente fedeltà, quel la che uno dei personaggi centrali chia ma « mortale » quella che si dimostra gettando se occorre la propria vita « usque ad mortem ». Le altre scelte, le scelte del calcolo, sono la « lebbra ». La fede è la vita, il calcolo è la leb bra. E’ su questa contrapposizione esempla re che morde il messaggio di Boll e spinge ad una verifica radicale della propria condotta. Chi sceglie la fede come vita ben sa pendo che « la fedeltà è mortale », è chiamato pertanto ad essere un uomo di verità: non di mezze verità, ma di verità intere, anche « se niente scon certa più l’apparato che la verità » come afferma Schneider, uno dei protagonisti. Non v’è dubbio però che in un tempo come il nostro, di sostanziale incertez za, la scelta non è facile e la tentazione del calcolo e della sua ipocrisia è in combente. Comunque per il cristiano la scelta non può essere il calcolo, che ha come tra guardo il potere, la sua gestione e il suo affermarsi. Anche la scelta politica per un cristia no è una scelta di « metanoia »: cam biare se stessi e cambiare nei limiti del possibile le situazioni. Non arrendersi. Su questa scelta di fedeltà il caso pre sentato da Boll è emblematico. Schneider, dice Kumpert, « voleva di ventare membro del partito e poiché si chiamava Cristiano gli raccomanda- rono di entrare in una delle due chiese ». Cosa fece Schneider? Ricorse ai dadi. « Se viene pari mi faccio cattolico. Uscì un quattro ». L’episodio nella sua paradossalità ri chiama l’amara battuta di quel politico cristiano che parlando di un certo per sonaggio nostrano usava dire: « Più che convertirsi al cristianesimo, si è con vertito alla Democrazia Cristiana ». C’è sempre, è vero, il conforto dell’opi nione di Monsignor Herkens, altro per sonaggio-chiave di Lebbra: « Non si può respingere nessuno che chieda la fede. Quello Schneider chiede la fede e talvolta la grazia segue vie inimma ginabili ». Comunque, anche se milita in politica, il cristiano non può avere né una doppia fede, né una doppia mo rale, sostenendo che il sistema ha sue invalicabili leggi di conservazione. Sot trarsi alla regola consacrata non sareb be che un eroismo velleitario che diso rienta l’opinione pubblica e pregiudica l’integrità delle strutture esistenti. Il potere è un obiettivo al quale tutto va sacrificato. L’ammonimento di Schneider a questo proposito è perentorio. Per stare nel gio co il rispetto dell’uomo non conta: «gli uomini devono sacrificarsi». « Avrà an che dei gravi conflitti perché non sa sacrificare gli altri ». Questa è la regola spudorata del pote re, in un « paese che non ha molto pudore ». Il pudore è virtù che nasce dal rispetto dell’uomo. Ma chi pratica il calcolo e di conseguenza le solidarie tà ipocrite ed i loschi intrallazzi tra potenti operanti in un sistema contras- segnato dalla suprema idolatria del per benismo e delle sue apparenze, non possiede questa attitudine idonea a con ferire alla realtà quel « sottile calore teleologico » di cui parla il poeta russo Mandel’stam. Il calcolo e il potere generano una so cietà svergognata. Contrassegnata dalla « lebbra », cioè, dice Chiusano, il pat teggiamento compiacente con i più cini ci gruppi di potere, la soffocazione vo lontaria di ogni verità sgradita, la paura di vedere in mezzo a noi quello sco modissimo personaggio che è un santo autentico. La scelta del calcolo, del potere, del successo non è una scelta cristiana, è scelta che produce lebbra. Il cristiano milita presso l’uomo, non presso il si stema. Una milizia difficile, che esige una misura illimitata, la misura dei santi. Boll lo dichiara, anche se la proposta può apparire anacronistica, per bocca del giovane prete Kumpert amico del prete che si è suicidato « perché non riesce a liberarsi della propria fedeltà». « ...Perché si semina tanto e si racco glie così poco. Una messe senza valore e i santi sono coloro che non riescono a liberarsi dalla loro fedeltà. Che cre dono disperatamente ». Il nostro tempo ha bisogno di questo tipo di testimonianza. Il calcolo non si gnifica salvezza, ma dimissione dell’uo mo. In ogni caso è sempre la capitola zione di quella fondamentale qualità umana che fa di ciascuno di noi un fine e non un mezzo. La sua scelta perciò quale norma di condotta pur troppo è inesorabilmente destinata a sfociare in quel conformismo delle con venienze che non è altro che disprezzo dell’uomo. Un’opinione corrente piuttosto diffusa il calcolo come ritiene l’imballaggio più efficiente per garantire e conserva re quei beni immediati che una civiltà come la nostra sembra fissare al som mo delle sue preferenze: i beni della carriera, della tranquillità, del successo, della sicurezza materiale. La fedeltà, al contrario, con la sua di namica, può esporre gravemente, quan do non ineluttabilmente compromettere, la solidità di questi beni particolari, la cui conservazione è perentoriamente fondata sulle categorie del mantenimen to del potere. La « lebbra » si rivela in definitiva uno stato di struggente passività, di males sere interiore, attraverso il quale l’uo mo perde la chiaroveggenza del cuore e dell’intelletto, nonché il coraggio di procedere, dopo un sofferto vaglio del le posizioni, ad una scelta per dichia rarla, non solo a parole, ma per tradur la in opere, anche se si tratta di una « fedeltà mortale ». Anche per il politico e soprattutto per il politico di ispirazione cristiana, la vita è contesa da un incessante con flitto che rivela, per chi crede che resi stenza dell’uomo non è riducibile ad una sola dimensione, l’incessante im plicarsi di grazia, natura e storia. In questa esistenza bisogna entrare con dei principi. Al cristiano, a qualsiasi condizione o ruolo appartenga, non è però consenti to proclamare i principi e contraddirli poi nei fatti. Egli deve sapere quello che vuole o per lo meno quello che non vuole. Dice Kumpert: « Ma io so ciò che non voglio. Godere dei privilegi e predicare a quelli che non ne hanno ». Matteo Ajassa d u e t e m p i d i M A R I N S O R E S C U I L L U S T R A Z I O N I D A L L E O P E R E D I M A R I O R O S S E L L O PERSONAGGI Ion, trenta-quarant’anni, l’età delle di vagazioni. Alin, idem, compagno di divagazioni. I l Professore, tutt’al più cinquanta anni. Dorina, treni’anni. Magda, venticinque anni. Atto Primo L’abitazione di Ion: una camera ammo biliata con semplicità, da scapolo. Un tavolino, un ferro da stiro, un asse per stirare. Un acquaio in capo al letto. Un ' calorifero che si può spostare su e giù lungo un asse. Ambiente piuttosto stret to. Dalla finestra si vede un’acacia. La camera ha anche una porta che dovrebbe dare su un balcone: deve in qualche mo do suggerire l’idea di un balcone. Ion (all’orecchio, confidenziale). Questo secolo mi ha distrutto la flora intestinale. A lin (spaventato). Ullalà! Allora va pro prio male. Ion. E’ il più gran male che si possa fare a un nemico. Alin. A un amico. Ion. A un vicino. Una volta gli uccidevi il gatto. Alin. Ora gli distruggi la flora. Ion (amareggiato). La mia è spacciata, completamente. Anzi, non esiste neppu re più. E inoltre, mi hanno anche ta gliato d’ufficio un quarto di stomaco. Alin. Davvero? E non sei andato da un dottore? Ion. Per farmene tagliare un altro quar to? Chi credi che... Alin. Aah! Ion. Comunque, senza flora intestinale la felicità è uguale a zero. Alin. Ho sentito dire che se distruggi il plancton in un mare, anche la fauna marina è spacciata: i pesci, i granchi, i gamberi. Perché vivono di questo. E con la flora intestinale è lo stesso. Ion. E cosa credi che io provi sulla mia pelle da un sacco di tempo? Proprio que sto. E in più mi hanno lasciato solo tre quarti di stomaco. Alin. E come puoi tirare avanti con uno stomaco così mal ridotto? Ion. Ora, come se non bastasse: la flora intestinale. Questo è il secolo in cui vi viamo! A lin {solenne). Caro Ion, non aspettare Di corsa dal dottore! Perché se ti ca pita di morire, addio! Su, vai! Ion. Ci sono andato. Alin. E allora? Ion. Mi ha ordinato quaranta giorni e quaranta notti di calma. Alin. Digiuno? Ion. No, calma. Alin. Capisco. Come Cristo nel deserto. Ti ha dato per caso anche il deserto? Ion. Ha scritto una ricetta. Ma chi ca pisce la loro scrittura? Alin. Scrivono in modo incomprensibile. Ion. Tutto diventa incomprensibile da qualche tempo in qua. Alin. Accavallano le lettere quegli scia gurati. Ion. E poi sono proprio loro a consi gliarci di non bere acqua durante i pasti! Alin. Io non bevo acqua, a tavola (con ta) da due anni. E’ stato proprio un dot tore a consigliarmelo. Diceva che entra l’aria. Un po’ d’aria oggi, un po’ di più domani, dopodomani un altro po’, e si finisce per scoppiare. Ion. Ma a te è andata bene dal momen to che non sei scoppiato. Alin. In cambio, crepo di sete. Ogni volta che mi metto a tavola, mi viene una sete... Ho perso anche l’appetito. Ion. Succede, quando si può fare ciò che si vuole. Alin. Non ho più voglia di nulla, asso lutamente di nulla. Deduci? Ion. Cosa devo dedurre? Alin. Sillogisticamente... Finora però ho resistito: da due anni non una goccia durante i pasti. E nonostante ciò, la mia cistifellea è piuttosto malandata. Ion. Forse non dovremmo neppure man giare durante i pasti. Alin. La tendenza è proprio questa. Cre do che sia il nostro unico scampo. Ion. Io l’ho già scampata una volta. Circa vent’anni fa. Gli ero piombato ad dosso e mi rimisero in piedi. Alin. Mandali a farsi fottere perché so no dei porci. Ion. Io devo comprarmene uno... O al meno un coniglio. Alin. Non ostinarti: non sono un gran che. Ion. Perché? Alin. I conigli nostrani... Ion. Hai ragione, meglio una lepre... C’è una cosa però che mi preoccupa: come verrà interpretata? Alin. Cosa? Ion. La lepre, no? E’ sempre sul punto di darsela a gambe... Se ne sta con le orecchie dritte, pronta a... e ho paura che... Questo si nota... Eppure, la cam pagna è a due passi. Cosa diranno in giro... che nascondo un fuggiasco? Tu che ne dici, eh? Alin. Il problema delle lepri non è an cora... Ion. Sì, un orecchiuto in casa ci stareb be proprio bene... La campagna si vede, è qui. {Fa per guardare dalla finestra. Ci ripensa). Anche dal buco della ser ratura... Alin. Siamo ancora agli inizi... Ion. Ma no, siamo noi che non ce ne accorgiamo... Alin. Si è fatto anche questo? Eh già, se no sarebbe dura. Ion. A me lo dici? Capisci, distruggermi la... Ecco perché vedo male questo se colo! Alin. Questo non è niente. Vedrai cosa succederà verso la sua fine. Quando quel la cometa urterà la terra. Ion. Mamma mia, che sbatacchiamento di campane ci sarà allora! A lin {imitando). Din don! Din don! Ion. Non fare l’uccello del malaugurio! Alin. Ho avuto un amico che toglieva il battaglio alle campane e poi batteva sul battaglio con dei martelletti da zim- balon. Ion. E suonava bene? Alin. Il bronzo è bronzo. Ion. Non sempre. Senti, nella mia città c’era una statua che fu mangiata dai porci. Senza scandali, senza niente di niente, la buttarono giù col muso e pri ma che fosse mattina e la gente venisse a saperlo la mangiarono. Alin. Anche loro campano come posso no. E’ duro oggi guadagnarsi da vivere. Ion {ha finito di riparare il ferro da stiro). Ora credo che... Devo ripararlo ogni gior no... {Va in giro per la stanza, cerca qual cosa). Ti offro qualcosa... Un... Alin. No no... Ion {si avvicina all’acquaio, apre il ru binetto). Viene... Alin. Ti stupisci?... Il livello del mare... Ion. Che livello? Alin. Del mare. Ion {spaventato). Siamo sotto il livello del mare? Alin. No, credo di no... almeno non è stato annunciato. Ion. Ho una paura terribile dell’acqua. Sai, l’acqua non risparmia nulla. Alin. Assolutamente. Il fuoco e l’acqua... sono i due... Ion. Si infiltrano dappertutto. In quanto alla seconda, l’acqua... Vuol coprire tutto ciò che si trova sotto il livello del mare! A lin {intenzionalmente). Il cosiddetto livello... Ion. Neanch’essa l’ha raggiunto. Alin. Neanche lontanamente. Ion {continua). Già, e ogni volta che cado in una buca, ogni volta che entro in una cantina, mi dico: è finita! Ora il mare si accorge che sono sotto il suo livello e me lo trovo addosso... Insem ina, sei mio ospite... Cosa ti faccio? A lin {si schermisce). No, veramente, ti prego... Ion. Un caffè? Alin. No. Ion. Un decotto di peduncoli di... Alin. No. Ion. Allora ti lavo qualcosa... sei mio ospite, che diamine... {Autoritario). Dam mi il fazzoletto! A lin {contrariato, tira fuori di tasca il fazzoletto. Ion va all’acquaio e incomin cia a lavarlo). Era pulito... Ion. Sì, ma ho un sapone nuovo. Non c’è niente di troppo pulito per un sa pone nuovissimo {manca l’acqua). Non viene più... Che ora è? A lin {guarda l’orologio). Si è fermato... Ion. Ah... Tu cosa ne pensi? Ci sarà qualche rapporto? Le montagne e il ma re... L’onda e l’orologio... Il cielo e la terra... Tutto, sai, alla fin fine... in fon do in fondo, sì... (Va a guardare dalla finestra, sognante. L’acqua ricomincia a gocciolare. Ion si precipita all’acquaio. Il gocciolìo cessa...) Guarda un po’ l’oro logio... E’ ripartito? Alin. Non ancora... devo farlo riparare. Ion. Ha bisogno di spinta... A volte pen so di essere troppo in alto... Di essermi innalzato molto al di sopra degli altri... e allora ha bisogno di spinta... {Indican do l’acquaio). Anche la pressione tiene fino a un certo grado di sviluppo della società e dell’individuo... Puoi forse co struirti un avvenire con degli spilli? A lin {soprappensiero). Ma! Non lo so. {Pausa). Quanti ne hai? Ion. Circa duecento. Alin. Tutti cominciano da poco. Uno oggi, un altro domani. Ion. Ho paura che me li rubino. A lin_ Anche questo è possibile. Ion. Perché mi hanno già rubato il pas sato. Un bel po’ di anni! E se vengono a sapere che questi spilli sono l’avvenire... Alin. L’ago è una cosa diabolica. Ion. Punge. Alin. Ho provato anch’io con qualcuno. Puoi contare su di me. Ion. E ti è passato? Alin. Cosa? Ion. Il reumatismo. Sai, se ti lasci pun gere dalle api... il loro veleno guarisce i reumatismi. Alin. Io non ho avuto api, neanche una. Ion. E’ terribile non avere un’ape pro pria in questi tempi di tensione inter nazionale. Che venga a ronzarti sotto il naso quando leggi il giornale, che si posi sui fiori del tappeto... Alin. E ti lasci un po’ di miele in un bicchiere... Ion. E ti punga di tanto in tanto, come cura preventiva... E’ inumano non avere neanche un’ape. Dici proprio sul serio? Alin. Sì. Ion. D’altronde, non ne ho mai avute neanch’io. E non vedo neppure come potrei procurarmene una, ora che siamo d’autunno. Alin. E’ un tempo morto. Ion. Morto? Qui? Puzza. Per questo raccolgo spilli. Ne ho circa duecento. Quando ne avrò qualche migliaio, li met terò in un alveare. Alin. L’alveare te lo faccio io. Ho al cune assi di una vecchia tavola. Ion. E allora vita, presente. L ’alveare là, sul balcone. La finestra aperta. Io, sdraia to in poltrona. Alin. Ti invidio con tutto il cuore. Sì, anche il balcone... Ion. Contano molto anche i balconi nella felicità degli uomini, sàppilo, moltissimo. A lin [esitante). Circa il cinquanta per cento? Ion (autorevole). Aggiungi. A lin (più sicuro). Sessantacinque! Ion. Ci sei quasi vicino. Io ho studiato la questione per qualche anno. Conta enormemente. Alin. Sospettavo qualcosa... Ion. E credo che, scientificamente, si potrebbe spiegare nel modo seguente: sarebbe come avere un’uscita sul mare. Alin. Direttamente da casa. Ion. Perfettamente. E questa uscita ti libera dalla pressione delle quattro pa reti, diventi più calmo, più sognatore, puoi fumare una sigaretta, anche la dige stione lavora più spedita... E quasi quasi sei felice. Alin. Come, quasi? Lo sei. Ion [ammettendo, quasi vergognoso). Sì, in quei momenti sei veramente felice. Perché non ammetterlo chiaramente! [Pausa per uno scambio di idee). Alin. Ma questi balconi non sono spun tati da un giorno all’altro. Ion [ride con gravità). Cosa sono, dei funghi? Hanno richiesto sforzi... Alin. Considerevoli. Ion. Considerevoli. Alin. Generazioni e generazioni che si sono sacrificate per questa tua felicità. E solo poco fa ti sei reso conto che sei felice in casa tua. Ion [vuol tirarsi indietro). Non proprio in casa. Sul balcone, qualche volta. Alin. Tutti dobbiamo riconoscere che i balconi rappresentano il coronamento di tanti sudori versati... La porta si apre bruscamente, entra il Professore. I l Professore. Chiedo scusa, c’è un posto libero? Ion e Alin si guardano perplessi. Ion. Prego, avanti! I l Professore. Subito, prendo il ba gaglio. [Esce e ritorna con una valigia enorme). Vado anch’io con loro. A lin [impacciato). Noi non andiamo da nessuna parte... Ion [lo tira per la manica, gli sussurra). Ssst! Chissà chi è! Non avventurarti in dichiarazioni. [Ad alta voce). Andiamo anche noi dove vanno tutti. Alin. Evidentemente. Come possiamo non andare da nessuna parte? Noi an diamo avanti. Stiamo qui, ma andiamo avanti. I l Professore. Io scendo tra qualche fermata. Ion [perplesso). Fermate? [Scoppia a ri dere). Formidabile! Che treno cerca lei? I l Professore. Il treno che passa di qui. Ion [continua a ridere). Signore, lei è formidabile. E’ capitato in una casa abi tata. I l Professore (si guarda intorno). Dav vero, in una casa? Questa è buona! (Ride). A lin (mettendosi anche lui a ridere). E’ proprio buona. Capisci, voleva andare con la tua casa fino a... Ion. Questa mia casa sarà straordinaria, ma le ruote non le ha... Alin. Non le ha. I l Professore. Comunque, non posso stare qui con la valigia tra i piedi della gente. La metto su. Ion. Dove, su? I l Professore. Sulla rete. (Si rende conto). Ah, certo, non essendo un treno, uno scompartimento, non c’è neanche la rete. Tutto ha una logica di ferro. (A Ion). Però, avrebbe dovuto fare una rete. Casa, casa, va bene, ma dove mette le valigie di quelli che vengono? Dove posso mettere la mia valigia, se non c’è neppure una rete? (Alzando il tono). Sporgerò reclamo. A lin (conciliante). Se non c’è, si può fare. E’ nostro ospite, che diamine! Per i cinque minuti che dovrà passare qui, ci daremo da fare perché si trovi bene. (A Ion). Non avresti un po’ di spago? E qualche bacchetta, qualcosa? Ion. Come no?! E’ una casa abitata que sta. (Esce e torna con l’occorrente. Insie me con Alin improvvisa una rete). Fatto. (Si asciugano il sudore). Così va meglio. Mi stupisco di non averci mai pensato. Alin. Non ne hai avuto bisogno. Ma ora, non appena s’è presentato1 il pro blema, ecco subito la soluzione. La vita risolve sempre. Ion. La vita risolve intensamente. Alin. E’ nuova. Ion. E’ come nuova. Alin. Regge agli strapazzi. Ion. E’ per questo che sono qui. I l Professore. E’ una vita buona. Ion. Hmm... sì, può andare, può andare... I l Professore. Tutto ha una logica di ferro. (Prende la valigia, fa per metterla su). Per favore... Ion e Alin lo aiutano. Ion (mette mano alla valigia). Pesa... A lin (idem). Oppone resistenza... Ion (piano, ad Alin). Cosa ci sarà... di là? (Batte col dito sulla valigia). A lin (piano). Cosa ci sarà?! Problemi... Ion (dopo aver terminato, ridendo). An che questa è fatta. I l Professore. Speriamo che non cada a qualche scossone. Ion (sospettoso). Chi diavolo vuole che dia scossoni? Alin. Qualche terremoto, al massimo. I l Professore (prende una sedia e si sposta vicino alla finestra). Meno male che ho trovato posto accanto al finestrino. Ion. Ho anche il balcone. I l Professore. Chissà dove siamo? Ion (ha un’idea). Credo che sia arrivato a destinazione. Tiriamo giù la valigia. (Si affretta e con una gentilezza un po’ spic cia tira giù la valigia. La valigia si apre. Si sparpagliano le cose più disparate: due scalpelli tagliaferro, materiale isolante, una spazzola da scarpe, un’armonica. Ion prende l’armonica e prova a suonare; il Professore gliela strappa di mano, la ri mette dentro, raccoglie le cose, richiude la valigia, la rimette su). I l Professore. La lasci, non ho fretta. Non sono di quelli che passano da un treno alPaltro. Sa, io sono professore. Ion. Anch’io sono professore. Alin. Anch’io sono professore. I l Professore. Io sono neurologo. Ion. Ah, ah! Alin. Ah! I l Professore. Ah! Anche loro sono professori. Allora posso parlare. Mi pos sono capire. Ebbene, sappiano che siamo — veramente — su un treno. Sono loro che confondono. Non ho voluto dirlo subito per non turbarli. Ion. Treno? Impossibile. {Ridendo). Pa go l’affitto. A lin (incerto). Si può mai sapere, Ion? Potrebbe anche essere un treno... Non si può mai sapere con queste case... Ion. Ma va’ là, abito qui da molti anni. Se fosse un treno, chissà dove sarei ora! Avrei fatto il giro del globo... (Va alla finestra). Ma guarda, la stessa collina di fronte, la stessa acacia e i frassini più in là, la stessa gente per la strada. I l Professore. Illusioni ottiche... Noi funzioniamo sulla base di illusioni ot tiche. Alin. E non solo ottiche... Anche acu stiche... Conosco uno che sente col mi gnolo della mano sinistra e va in giro a chiedere alla gente di tagliargli le orec chie, perché gli sono d’impaccio. I l Professore. Scientificamente, è per fettamente spiegabile. E’ avvenuto un trapasso di sensi. Per suggestione e auto- suggestione. Loro non sanno che io ho fatto una scoperta. Ion (ironico). Riconosciuta in tutto il mondo. I l Professore. Da un terzo della me tà... Conquista ogni giorno masse sem pre più numerose. Alin. Indipendentemente dal sesso? I l Professore. Non potrei dirlo. Le donne sono più resistenti. Ion. Il sesso gioca un ruolo importante dappertutto. É il futuro prevede, nei prossimi cinque secoli, un ruolo ancora maggiore per il sesso. Eh sì, è una fac cenda che gioca un ruolo... A lin (flemmatico). E se lo giochi pure! I l Professore (sdegnato). E già, a lei non importa nulla... dei bisogni della gente! Alin. Io non m’immischio... Ion (tira Alin per la manica). Non av venturarti... (Ver riparare). La donna è una compagna di vita. I l Professore (risentito). Errato! A lin (incerto). Di lavoro?... di conce zioni... di aspiratore... I l Professore (sentenziando). E’ una santa. La donna è una santa. Ion (stupito, ad Alin). Sentilo, sentilo... I l Professore (scandendo le sillabe). Una santa... A lin (acido). Ci sta bene! Ion (al professore, un po’ spaventato). Insomma... è proprio vero? Non sta scherzando? I l Professore. E’ una scoperta recen te... Due studiosi... In base ad una ana lisi spettrale... Ion (saltando su come scottato)... del carbonio? I l Professore. Sì. Ion. Hmm! (Ad Alin). Vedi un po’, la scienza... (Fischia). A lin (macchinalmente). La più progre dita... (All’improvviso, furioso). Non mi sposo più. Non voglio saperne di car bonio. Se anche in queste faccende si intromettono le ultime scoperte... Ion (innervosito a sua volta). Chi li paga costoro che continuano a scoprire? I l Professore (piuttosto risentito, a Ion). Dunque, si oppone. Ion (spaventato). Come?... Come!... Chi si è...? Io op...ehm... pormi? Ma lei non sa quanto ho lottato... I l Professore (sullo stesso tono, ad Alin). E lei, lo stesso! Dunque prote stano? A lin (pallido). Pro... noi? I l Professore (battendo i pugni). Pro testano in massa? A lin (ritrova la sua dignità). Bene, si gnore, ammettiamo che la donna si ac cordi con la scienza più avanzata, diven tando, come diceva lei, una santa... (Fu rioso). Allora perché noi continuiamo a lavorare? Questo no, un’altra cosa no... Ion. Ma certo, giorno dopo giorno, su, giù, sulle impalcature, sui... E perché? Per cosa? I l Professore. Per la società... Ion e A lin (illuminandosi all’improv viso). Ah, allora... Ion. ...E’ tutta un’altra cosa... Dunque, per i nostri figli... Alin. Per la società dei nostri figli... (Soprappensiero). Certo che... ma con chi li facciamo? I l Professore (sentenzioso). Crede che gli studiosi dormano? (Sospira). Ecco, succede sempre esattamente così. Il nuo vo irrita. Ion. Irrita la cistifellea... I l Professore. Credono che la mia teo ria non abbia incontrato anch’essa...? Ma sono certo che un giorno riceverò un riconoscimento unanime. Assolutamente certo. Alin. Non ci vorrebbe dire che scoperta ha fatto? I l Professore. Una semplice, a prima vista. Ion. Sono proprio quelle semplici che... I l Professore. Nego l’ esistenza dei nervi. Alin. E con questo? I l Professore. Questa è la mia teoria. Ion. Io nego l’esistenza del cervello. I l Professore. Ma io lo posso dimo strare. Alin. Cosa? I l Professore. Che viviamo in un se colo di calma. Ion. Ullalà! Alin. E’ vero, cresce il numero dei cal mi naturali e artificiali. Lo si può notare nei musei. I l Professore. Anzi, al contrario. Cre sce il numero degli astenici. Ion. E allora? I l Professore. Ma la loro astenia non è autentica. L’hanno contratta per sug gestione. Il solo rimedio che ci resta è proprio la suggestione. Dalla suggestione all’autosuggestione e di qui, indietro alla suggestione... Alin. Ma ci siamo già stati una volta. Cosa facciamo, segniamo il passo? I l Professore. Questa è la strada. Ser peggia. Ecco, così. Ion (sfaccendando intorno al ferro da stiro). Il serpente domestico sta attorci gliato otto ore e produce veleno. Il suo veleno viene raccolto meccanicamente, quando gli si fa mordere un flacone di ferro che si chiude automaticamente. Ad ogni modo, lui è contento perché alme no lavora nel suo ramo; infatti, ad esem pio, per un certo tempo dovette pro durre miele. E poiché il suo miele risul tava un poco più amaro di quello dei fiori d’acacia, il serpente domestico fu fatto serpente boa. In quel periodo sof frì addirittura la fame, perché non po teva strisciare fino in Africa, dietro le antilopi. In seguito, fu tolto dai ser penti boa e messo tra i coccodrilli, in base ad una fotografia di un suo ante nato... I l Professore. Dunque, indietro, al l ’autosuggestione... (Con un tono diver so). L’astenia si manifesta anche negli animali... Io avevo una tigre... Alin. Ma gli individui? I l Professore. La stessa cosa... a ter ra... Il solo rimedio, l’autosuggestione. Alin. Secondo la sua teoria, se dico a un morto: « Ehi, fratello, non sei mor to. Su risorgi! Perché diavolo ti sei la sciato suggestionare in questo stato », lui risorge? I l Professore. Arriveremo anche a que sto. Per il momento, ciò che ho potuto ottenere è la rivelazione, fondamentale per la scienza, della non esistenza dei nervi nella gente. Ion. E la gente... lo sa? I l Professore. Questo è il punto. Alin. Non sa affatto di essere calma. I l Professore. Verrà un giorno però che saprà tutto. Dobbiamo lottare per l’avvento di questo giorno. Ion [sognante). Ci daranno anche i Wur stel. (Con decisione). Io andrò in prima fila. Alin. Anch’io non starò con le mani in mano. Ho una cultura, ho ricevuto una determinata piega delle cose, me le han no insufflate, ho fatto dei corsi, ho ina lato... Ho inspirato profondamente il sof fio vivificatore, ho... insomma, è inutile parlarne ! Ion. Non parliamone più. I l Professore. Per il momento la sola tattica è un lavoro da uomo a uomo. Alin. Intuisco l’essenza del problema: si passa di casa in casa a dire alla gente di calmarsi. Ion. Ogni uomo calmo in più è un gua dagno per l’ umanità. [Guadagnato al l’idea). Dottore, ha in me un fratello. E’ capitato al momento giusto: sentivo che stava per darmi di volta il cervello. Per questo avevo chiamato il mio amico, per parlare un po’. Per non dare i nu meri in silenzio. O meglio... nel pen siero. Alin. Noi siamo amici fin dai primi tempi. I l Professore. L’amico è come un pa rafulmine. Ion. La sera, quando spengo la luce, mi appaiono sulle pareti delle strisce oriz zontali, intersecate da strisce verticali. Non so da dove vengano queste strisce. Ci ho pensato, ho meditato. Ho persino consultato la cibernetica. Alin, il tuo buio è anche così, a quadratini? A lin [incerto). Così così. I l Professore. La causa è sempre la suggestione. Ha avuto qualche volta in casa un crivello, una griglia, o qualcosa del genere? Ion [ci pensa). Crivello... griglia... No. I l Professore. Forse delle inferriate? Voglio dire che forse, visto che prima c’erano i ladri, ha abitato in una casa con le inferriate alla finestra. Ion. No, ma una volta sono passato vi cino a una. I l Professore. E la cosa lo ha profon damente impressionato. Ion. Profondissimamente. Per un certo tempo mi è persino stato impossibile muovermi di là. I l Professore [trionfante). Vede? Tut to si può spiegare scientificamente. Ion. Sì, ora la cosa è chiarissima. Alin. Tutto diventa chiaro da un gior no all’altro. Signor professore, ci è sta to di grande aiuto. D’ora in poi troverà in me e nel mio amico uomini con una calma di ferro. Atleti della calma umana. Ora vada. [Si prepara a partire). La pos so accompagnare qualche passo? I l Professore. Come, siamo già arri vati? Alin. Dove dobbiamo arrivare? I l Professore [nostalgico). Laggiù, lon tano. A lin [piano, a Ion). Questo qui rico mincia. [Ad alta voce). Ma lui [indicando Ion) è arrivato a casa, è casa sua. Noi dobbiamo scendere e cambiar treno. I l Professore [fa per prendere la va ligia, poi ci ripensa). Io resto. Mi piace la sua casa, è riposante. Ion (macchinalmente). Ha anche il bal cone. I l Professore. Mi scusino se ho con fuso. Credevo di essere divenuto. A volte confondo il problema dell’ arrivare da qualche parte col problema del divenire. C’è un punto nel futuro dove i due ter mini, invero, si congiungono. (Vergo gnoso). Ho fatto una gaffe, vero? Ion. Non è niente, non è niente, crede che io non confonda? Alin. Ad esser proprio sinceri, tutti con fondiamo intensamente. I l Professore. Ed esistono tali e tante possibilità di confondere una casa con un treno. Alin. Soprattutto ora che la ciberne tica... I l Professore. Tutto sta a non crede re nelle superstizioni, anche se sono ma scherate sotto forma di cose diverse. A lin (intenzionalmente). E a partire in tempo. Io, per esempio, me ne vado. E’ tardi... (Viano, a Ion). Forse riesco a suggestionarlo. Arrivederci. (Esce, poi torna). Mi scusi, con chi ho avuto l’onore...? I l Professore. Ecco il mio biglietto da visita. (Glielo dà). Ion (ridendo). Ma è completamente bian co. Non c’è nessun nome. I l Professore. Ci sono le mie im pronte. Alin. Ah! Allora è chiaro. (Dalla porta). Vado a casa... e mi faccio una doccia... Ion. Come si sta bene in casa. A lin (continuando)... Mi vesto bene e mi faccio una doccia. (Esaltato). Sento il bisogno di lavarmi la testa, di calarmi l’imponderabile schiuma del sapone fin sugli occhi, come un casco da cosmo nauta che ha urtato Dio e gli entra nel guscio, a poco a poco. Se vi dicessi che oggi sono stato pazzo, non mi credere ste! Pazzo per aver potuto vivere un giorno come questo, assolutamente nor male; non ho sgarrato di un millimetro, né a destra, né a sinistra. Devo ver sarmi acqua sulla testa, per svegliarmi in me stesso, come in una ascensione al cielo. (In crescendo). Uuuh! Sono arri vato all’infinito e, Dio mio, non è poi gran che, tranne alcune rette parallele, che si sono incontrate qui sui rami e formano una specie di griglia e non sono per nulla felici e si chiedono con mera viglia: «Be’? Be’? Be’?». Ma statevene un po’ zitte, diavolo, ché mi avete as sordato, lasciate che mi goda anch’io un pochino di infinito. L’avete voluta la griglia?! Non vi bastava il paralleli smo! Cosa avete cercato qui? Chi vi ha detto di correre come pazze? Io sento un torpore... artificiale. Artificiale, ma buono, che si posa sulle palpebre come hashisc. Sento che anche la terra s’in fradicia nel pantano, si spalanca una bocca grandissima nel mezzo, ed io con tinuo ad andare — pùnfete! pànfete! ciùffete! ciàffete! — in giù. (Dopo una pausa). Questo all’acqua calda. All’ac qua fredda, hmm! incomincio a gridare. Così, all’improvviso, mi vien voglia di gridare, come se la lingua mi prendesse fuoco. Non voglio più svegliarmi, dico, lasciatemi normale... Cosa significa que sto? Prendete in giro la gente? Non posso crescere con questo sgocciolio sulla testa, mi spinge indietro, mi frena. Dov’è la mia luminosa prospettiva? ! Sono arri vato alla mia età e niente, non ho rea lizzato niente! (Altro tono). Ma sì, non vai la pena realizzare se tanto devi cre pare... (Come una giustificazione). Non vedete che è cambiato anche il clima... (Malinconico). E niente... Neppure un sentimento che... che ti leghi... (Irritato). E come puoi ancora amare qualcuno in questo stato?! (Breve pausa). Che va pore, che scivolosità sulle pareti! Non è più possibile percorrere, attraversare una parete... Dov’è la spada appesa al sof fitto a un filo di capello? Chi mi ha rubato il soffitto? Io non ricordo di averlo allontanato... (Triste, piano, come una conclusione). E io urlo, urlo sem pre più forte... o sempre più piano, non so neanch’io... Come posso saperlo in queste condizioni... Ora caldo, ora fred do... E qualcuno che ti tiene appeso sulla testa un doccione terribile... I l Professore (che ha sempre preso appunti). Sssì... Ha ancora qualcosa.... da dichiarare? A lin (spaventato e in certo qual modo vergognoso di quanto ha detto). Non ho fatto dichiarazioni... Ion (per difenderlo). Ha detto anche lui la sua... I l Professore (ride con superiorità). Ah, ah, ah! Ion (durante il monologo di Alin ha tentato a più riprese di lavare il fazzo letto; ora va di nuovo all’acquaio, apre il rubinetto). Continua a non venire... (Al Professore, con un tono autoritario da controllore che chiede il biglietto). Il fazzoletto, prego. I l Professore (stupito). Che fazzo letto? Ion. Il suo fazzoletto, prego, lo mettia mo a mollo... Tanto devo lavare l’altro... (Il Professore gli dà il fazzoletto). Uno o due fa lo stesso... I l Professore (cercando di raccapez zarsi). Lava la sua biancheria in un treno? A lin (a lon, all’orecchio). Non te l’ho detto io? (Forte). Miei carissimi amici, 10 batto in ritirata... Il mio orologio... (lo guarda) che si era fermato per un po’... ha ripreso a camminare... 11 Professore. A scatti... E’ così che cammina il tempo... Ion (intenzionalmente). E così dobbia mo fare tutti... Alin esce. I l Professore. Come? Cos’ha detto? (Ion tace). Queste uscite non mi piac ciono. Atto Secondo Stesso scenario. Ion e il Professore nella posizione che avevano alla fine del pri mo atto. Ion. Porto fango con un secchio alle donne che fanno nudismo. Da giovane avevo un’opinione migliore sulle donne. Ma qualcuno deve pur farlo questo me stiere. Loro ormai non fanno neanche più caso a me. Mi chiamano « il fanghi no » e badano solo al loro nudismo. D’altronde, neanch’io do loro importan za. Le chiamo « le donne che si infan gano », e penso ai fatti miei. A volte, però, mi viene all’improvviso una voglia matta di ingiuriare. Porto fango e impre co: al diavolo la vita, la giovinezza, la vecchiaia, l’amore, il matrimonio, l’ideale, e tutte queste imprecazioni si trasfor mano in fango di buona qualità. Co munque, le donne lo trovano ottimo e se lo spalmano sulle natiche. I l Professore. Dov’è andato? Ion. Chi? I l Professore. Il suo amico. Ion. E’ uscito. I l Professore. Queste uscite non mi piacciono. Ion. Ma sono necessarie. I l Professore. Un male necessario, vuol dire! Ion. Anche noi abbiamo bisogno di par tire di tanto in tanto. Di vedere il mondo. I l Professore. Lo si può vedere an che dalla finestra. Ion. Certo, ma il mondo dalla finestra non è tutto. Ogni finestra ha un limite. I l Professore. Anche il mondo ha un limite. Per esempio, il signore che se ne è andato, rappresentava per me un limite. Ora il limite non c’è più, e mi pare di sentirmi meglio. Ogni uomo che perdiamo ci rivela la presenza del peri colo. Ion. Ed è un profondo dolore. I l Professore. Ma non dobbiamo es sere pessimisti. Ion. Né disarmare. I l Professore. E soprattutto non per dere la calma. Ion. Ah... I l Professore. Questa è la cosa più importante. Ion. Tutto è la cosa più importante. I l Professore. In determinate circo stanze, sì. Ion. E a un certo stadio. I l Professore. A un certo stadio di determinate circostanze. Ma, nel nostro caso, l’autocontrollo porta con sé, come conseguenza, la rigenerazione delle cel lule... Ion. Come il sonno... I l Professore. Dalla rigenerazione del le cellule al ringiovanimento spirituale non c’è che un passo. Ne consegue, in modo logico, il benessere materiale. Ion. E’ questo che aspetto da un sacco di tempo! E tutto solo con la calma? I l Professore. E tutto solo con la calma. Ion. Allora vuol dire che noi siamo nervosi ? I l Professore. Enormemente. Ma so lo in apparenza. E’ proprio contro que sta apparenza che s’appunta la mia teo ria. Io combatto contro le apparenze. Ion. Distruggiamo le apparenze. Il pro blema però è questo: come distinguerle dalle realtà, perché ho l’impressione che le apparenze e le essenze camminino ma no nella mano. I l Professore. Da qualche tempo. Ion. E come fare? I l Professore. Cominceremo con un processo di delimitazione delle appa renze. Ion. Per esempio, lei si insedia in casa mia, dice che è un treno e che vuole andare fino a non so dove. Insomma, mi viene addosso e nello stesso tempo so stiene che non ho motivo di lagnarmene. I l Professore. Questo è sociologismo volgare. Ion. Ma qui l’essenza dov’è? I l Professore. Spesso l’essenza ci sfug ge tra le dita, lo riconosco. (Guardan dosi le mani e meditando). Tra queste mie dita sono sfuggite tante essenze! Ion (commosso, lo consola, battendogli una mano sulla spalla). Non è niente. Non è solo colpa sua. Sono sopravve nute anche determinate circostanze. I l Professore. Di vita o di morte. Ion. Disperate. Ma a volte siamo noi che guardiamo le cose troppo superfi cialmente. I l Professore (attento). Ah, questo è importante, importantissimo. Ion. Cosa è importante? I l Professore. La sua testimonianza di poc’anzi. Ion. Quale? I l Professore. Che guarda le cose troppo superficialmente. Ion. Va bene, ma è una semplice con statazione... I l Professore. Potrebbe rilasciarla per iscritto? Ion (spaventato). Ma a cosa serve? I l Professore. Io non posso calmare la gente se non con documenti alla ma no. Sa, un testo in cui io possa decifrare la personalità del soggetto. Il fatto che guarda superficialmente il mondo spiega, per esempio, perché non può distinguere la realtà dalla illusione. Perché si ostina a sostenere che questo maledetto treno è casa sua? Ion. Insomma, ha anche il balcone. I l Professore. Questo non prova nul la. Dimentica che viviamo nell’era della tecnica più progredita. Sarebbe poi una cosa tanto straordinaria se qualcuno aves se brevettato un treno col balcone? Ion. D’accordo, ma da noi non avrebbe attaccato: il nostro è un paese montuo so! Abbiamo molte gallerie! I l Professore (con compatimento). Ragazzo mio, certe concezioni si sono proprio radicate in profondità nella sua testa. Cosa sono i suoi genitori? Ion. Non ci sono più. I l Professore. Allora osserviamo un momento di raccoglimento. (Lo osserva). E dove sono sepolti? Ion. In un paesino di montagna... I l Professore. Allora lei viene dalla campagna? Ion (spaventato). E’ grave? I l Professore. Non è gran cosa. E’ una grossa fortuna che sia un paese di montagna. Ion. Era di montagna, ora non lo è più. Era vecchio. Col passare degli anni l’ero sione... I l Professore. Ad ogni modo, il ca rattere positivo del luogo si mantiene. L’aria era più sana. Anche se non esi stono più abeti propriamente detti, re sti di ozono, provenienti da tempi im memorabili... Ion. Quaicosetta, così così... (Pausa. Va alla finestra). Sa una cosa? Penso che potrebbe aver ragione. Ecco, poco fa non c’era quella cornacchia sull’acacia davan ti a casa. Ora c’è, la vedo chiaramente. Potrei anche contarle le piume. I l Professore. A chi? Ion. Alla cornacchia. Vuol dire che il paesaggio in una certa misura è cam biato. Potremmo anche essere su un treno. I l Professore (raggiante). Bene, in primo luogo si è calmato; quando l’uo mo giudica a freddo, guarda diversa- mente e vede diversamente. Ion. Sarei un ipocrita se non riconoscessi sinceramente, apertamente che lei mi ha aperto gli occhi. I l Professore (modesto). Non io, la mia scienza sull’apertura degli occhi. Ion. Veramente, lei ne sa molto più di me. I l Professore. Potrei anche essere suo padre. (Dopo una breve riflessione). E sua madre. Ion. Madre? C’era già qualcun altro che pretendeva di avermi partorito... I l Professore. Sono un tutto perfet to. Un monotutto. Se voglio1 posso tutto. Ion. Credo di essermi disastenizzato. (ìnghiotte a vuoto due o tre volte di seguito). I l Professore. Cosa fa? Ion. Inghiotto l’ultima briciola di nervi. Il suo metodo è veramente miracoloso. Ecco, mi sento benissimo. Mi sembra di essere appena rinato. Proprio ora, in que sti nostri minuti. I l Professore. Sono stato io a farla uomo; ma, come le dicevo, il merito non è mio. La scienza prima di tutto. Ion (con slancio). Meritavo questa for tuna? (Convinto). No, non la meritavo. I l Professore. Sì, la meritava. Ion. No, non la meritavo. E’ stato un vero colpo di fortuna. E questo colpo di fortuna deve essere esteso a tutta l’umanità. Anche se, di sicuro, non lo merita. I l Professore. Mi compiaccio che lei mi abbia capito perfettamente. Ma dob biamo procedere sistematicamente. La gente non rinuncia facilmente ai suoi nervi. L’estirpazione dei nervi della po polazione richiede prudenza. Ion. Molta prudenza. I l Professore. Analizziamo un po’ la situazione. E cioè se il nervosismo è una malattia contagiosa... Gli uomini si in nervosiscono a vicenda. Ion. A rotazione? I l Professore. E’ semplice, l ’un l’altro. Ion. E cosa dobbiamo fare in questo caso? I l Professore. Isolarli. Ma come? Ion. A chiusura stagna! I l Professore (pensa). Cosa ne direb be di provare con la lana di vetro?... No, sarebbero più adatte delle pareti di sughero... Il sughero blocca ogni rumore. Ion. Ma dove lo troviamo tanto sughe ro? Anzi, quanto sughero ci sarà anco ra sul globo? I l Professore. Non mi meraviglierei se non ne fossero rimasti che alcuni boschi. Ion. Certo, perché ogni volta che si ha bisogno di qualcosa, non la si trova. E cosa si può fare con qualche bosco di sugheri? E’ tanto se si riesce bene o male a isolare tutte le suole. I l Professore. Potremmo prendere su ghero anche dai salvagente. Ion. Sarebbe un’idea. Tanto stanno lì a far niente. Chi usa ancora oggi i salva gente per salvarsi? I l Professore. Dal momento che ab biamo la bomba atomica! Una cosa an nulla l’altra. Ion. Questo significa progresso. Io cre do nel progresso. I l Professore. Se non ci credesse, non sarebbe qui. Tuttavia, poniamo che si riesca con il sughero così ottenuto ad arrivare, in questa operazione di isola mento della gente, fino alle ginocchia, ammettendo, come dicevo, che si inco minci dalle suole. E con il resto come la mettiamo? Ion. Eh già, come la mettiamo con il resto? I l Professore. Si può lasciare tutta questa gente scoperta, esposta? Ion. Non si può. Dal momento che ci si è messi all’opera, bisogna andare fino in fondo. I l Professore (esitante). I trucioli... cosa ne dice...? Ion. Usare i trucioli? I l Professore. Hanno delle qualità iso lanti. Anche gli strumenti di precisione vengono isolati nelle casse con i trucioli. Ion. E l’uomo è uno strumento di pre cisione. Il più preciso di tutti. I l Professore. Dunque, a maggior ra gione ci vogliono i trucioli. Ion. Ammettiamo che in un modo o nell’altro si riesca ad ottenere risultati soddisfacenti in questa direzione. Si riu scirà a far sì che l’uomo non veda più l’altro uomo? I l Professore. Con gli anni. Ion. Non so, però, se saranno d’accor do. Hanno imparato a vedersi. Ho sen- .tito dire che anche in oriente è stato abolito il velo delle donne. Dunque, la tendenza generale è opposta. Non dob biamo ostacolare il cammino della sto ria. In un modo o nell’altro, la gente deve vedersi. Soprattutto le donne. La situazione è questa, il vento ora soffia in questa direzione. I l Professore (deconcentrato). Allora che si vedano, ma che non si sentano. I nervi, in gran parte, derivano da que sto: ne senti una, ne senti un’altra... Ion. No, che si vedano e si sentano, ma che parlino lingue diverse. I I Professore. No, una sola lingua, ma diversa. Ion. Quale? I l Professore. Una qualsiasi, ma che sia ben diversa. Il problema è di toglie re agli uomini ogni possibilità di capirsi male. Ion. Certo, gli uomini si capiscono ma lissimo. I l Professore. Peggio non sarebbe pos sibile. Ion. Io non ho trovato che una sola persona con la quale posso comunicare. I l Professore. Quanto alle comunica zioni... è meglio non parlarne! Se il padre non comunica più col figlio, la moglie col marito... la città con la città, il paese con la città... Ion. E quella persona è un vero amico. I l Professore. Ne esistono ancora? Ion. Ne esistono: uno. I l Professore. Cosa sono i suoi ge nitori? Ion. Funzionari. I l Professore. Ah! Ion. E’ il mio migliore amico. Quando ho voglia di fare una discussione, una discussione che mi arrivi al cuore, vado da lui, oppure viene lui da me... Un caffè e la discussione comincia. Parlia mo di tutto, senza reticenze. E’ una gran cosa non dover avere alcun riserbo quando si fanno due chiacchiere con qualcuno. I l Professore. Assolutamente, assolu tamente! Ion. E quando siamo arrivati a cono scerci così bene da poter parlare anche a vanvera, mi sono sentito un altro. Lui al mio posto ed io al suo. I l Professore. E perché non prova ora? Ion {si guarda intorno pauroso). Per paura. Mi potrebbe capitare di dire chis sà cosa per conto di lui e lo metterei nei pasticci. No, non si fa. E poi, per ché non lasciare agli altri il piacere di dire da soli ciò che hanno da dire? Al meno finché sono vivi! I l Professore. Sarebbe un crimine con tro l’umanità. Ion. Certo. E, ad esser sincero, credo che lui sia per me un amico migliore di quanto non lo sia io per lui. Mi cono sce nei minimi particolari perché tutto ciò che mi riguarda lo interessa. Ha succhiato lo stesso seno. I l Professore. Vive forse con sua moglie? Ion. Forse; ma non sono sposato. Se fossi sposato, forse vivrebbe con lei, sarebbe suo contemporaneo. Per trop pa simpatia per me. Ma di una cosa sono certo: anche se facesse un gesto simile, di socialismo volgare, non lo ver rei mai a sapere. Sa tenere i segreti. I l Professore. Forse glielo direbbe sua moglie. Ion. Dalle donne ci si può aspettare di tutto. Sono anche capaci di dirtelo! I l Professore. E dov’è ora? Ion. Sarà andato a casa. E’ proprio la persona che era qui poco fa. I l Professore. Simpatico! Ion. Noi discutiamo senza ombra di ri serbo. Ho notato una cosa. Mettiamo che venga lui da me. Mi chiede: « Come stai? », io chiedo: « Come stai? ». Poi 10 rispondo: « Come diavolo vuoi che stia? Bene ». E lui dice: « Anch’io bene » 11 Professore. Il bene è veramente entrato in tutte le case. Ion. Poi io dico: « Fuori piove ». E lui: « Cosa ti prende? Non vedi che c’è il sole? ». « Questa notte ho sognato che pioveva a catinelle », dico io. « Ma co me fai a sognare che piove? », osserva lui. « E dimmi, com’era? Pioveva forte, grandinava anche, com’era? », si inte ressa lui. Dopo di che, la discussione si sposta sulle ultime inondazioni di non so dove, sul mio parere riguardo al di luvio di Noè, e così via. Voglio dire che, dopo due o tre battute, le regole della discussione vanno a farsi benedire. Diventa, per così dire, sregolata. I l Professore. Potrebbe farmi uno schema di questo meccanismo di pen siero? Ion. Niente di più facile (prende un pez zo di carta e una matita, fa lo schema). E’ più o meno così. {Glielo fa vedere). I l Professore. Dunque, la linea supe riore rappresenta la realtà, il terreno solido delle sensazioni e delle perce zioni immediate... Di qui partono una quantità di lineette... che possiamo chia mare nervi... Ion. Possiamo chiamarle nervi... I l Professore. ...in su e in giù. Pen so che avrebbe dovuto disegnarle con colori diversi. Per esempio, rosso e az zurro. Ion {esitante). I nervi che vanno in su col rosso, quelli che vanno in giù con l’azzurro... I l Professore. E’ esatto anche così, ma io pensavo al contrario. Ion. Ha ragione, è più esatto al con trario. I l Professore. E’ e non è. Ion {cercando una spiegazione). Perché noi non siamo ancora riusciti a concen trarci... La nostra concentrazione... {Di sgustato). Ah! I l Professore. Pretendere tutto dagli uomini non significa pretendere troppo. Ion. Questi poveri uomini potrebbero dare di più, ma sono... {cerca la parola) pigri! I l Professore. Già, pigri! Li conosco io! Non appena sfuggono di mano... Ion. Si slegano... I l Professore {importante). Le mie basi sono radicate qui {indica la testa) e le voglio anche radicate qui {indica il cuore). Ion. pisco. I l Professore. Senza questo non si può. Ion. E’ evidente. I l Professore. Dare qualcosa alla gen te che arrivi qui... Ion. Al cuore... I l Professore. Ecco! Di più non posso. In una costola dell’umanità, ca Ion. Tutto dall’uomo, perché di più non si può... I l Professore. Almeno in questa fase, capisce? Ion {sospettoso). Lei non è per caso... pessimista? I l Professore {ride con superiorità) E’ finita per il... Ion. Anche per il pessimismo ottimista? I l Professore {imbarazzato). Ma... sa, è piuttosto... Ion. Gli uomini, quando muoiono, non sono pessimisti. I l Professore. No. Ion. Ma quando lo sono? I l Professore {imbarazzato). Lo sono quando stanno per morire... Cioè, se so no arrivati alla convinzione di aver vis suto una vita buona, una loro vita, lumi nosa, in certo qual modo, veridica... Ion. Questo è il punto... Non è vero? Rumore di stivali sulle scale, passi pe santi, cadenzati, colpi alla porta del vi cino. Si sente aprire la porta. Voci d’uo mini. Il Professore e Ion ascoltano con attenzione. Ion. Gli spazzini... Quelli della spazza tura. Grida. I l Professore. Sono venuti a pren derla? Ion. Sì... ogni settimana... {Ascoltando). Ora lo arrotolano... I l Professore {spaventato). Come? Ion. Lo legano bene... Sa, perché entri... E’ antico e le cose vecchie... I l Professore. Come? Ion. Non capisce? I l Professore. No... Cioè... Ion. Il tappeto... I l Professore. Ah... Ion. Perché entri nella macchina... {Ascol tando). Ora lo incorniciano... I l Professore {meravigliato). Il tap peto? Ion. No, il vicino. Ha un grande qua dro sulla parete. Lui è giovane... Lo tol gono dalla cornice e finché non l’hanno ben ripulito... Qualcuno deve pur sosti tuirlo, no? Perché la cornice non resti senza continuità... Perché non abbia al l’improvviso un vuoto metafisico... un abisso... I l Professore. S’intendono di metafi sica? Ion. Chi? I l Professore. Questi... della spazza tura... Ion. No, ma vanno per intuizione. Met tono le mani su qualche intuizione e via... I l Professore. Ah... Tonfi di mobili, rumore di stoviglie rotte. Ion. Perché entri nella macchina... I l Professore. Scaricano alle fogne? Ion. E chi lo sa! Forse oppone resi stenza... I l Professore. Si oppone? (Stizzito). Uno non vuole, l’altro neppure. Ecco perché manca l’acqua... Ion (stupito). Ma che razza di macchi na hanno quelli della spazzatura? I l Professore (vago). Nuova. (Forte, all’orecchio). Nuova! Ion (calcolando). Ciò durerà molto... La tecnica ha fatto progressi. Una faccenda tanto anche Ion. La raccolgono... I l Professore. Forse si oppone, non vuole dichiararla? Ion (come un segreto). Non ne ha... Non ne ha più, visto che ogni settima na... Ogni tre volte al giorno... I l Professore. Capisco il meccanismo: al mattino, a mezzogiorno e la sera. Ion. E ora... finito, non ne ha più... (Con aria ancora più misteriosa). Non mangia neanche più... per non far briciole... Co me sarà ridotta la sua flora stomacale... I l Professore. Poveraccio... Ion. Ma loro sono abituati... Il Professore chiede a Ion, con un cen no del capo, chi era. Ion. Volevano qualcosa... Poveracci... Due lei più, due lei meno... (Leu-, mone ta rumena; n.d.r.). I l Professore. Versa regolarmente la sua quota? Ion. Due lei, cosa vuole che sia... La paga è piuttosto... E il lavoro è pesante... I l Professore. Poveracci... Ion. D ’altra parte, sono sanissimi... Man- gerebbero... I l Professore. E già, è un lavoro pesante... Ion. Senza orario fisso... come questa può durare tutta la vita... Questa vita e tutta l ’altra vita... Il dopo... I l Professore. E il vicino è...? Cioè, quanti ne ha? Ion. Anni? (Gesto di compatimento con la mano). E’ vecchio. E’ invecchiato ieri. Aspettava che venissero ieri, ma non sono venuti. Li ha aspettati tutto il gior no. Verso sera, all’improvviso, si è ac corto di incanutire... Tumori sordi. I l Professore (con compatimento). E... cos’hanno con la sua spazzatura? Si sentono delle grida. Grida ancora più lamentose. I l Professore. Una pulizia terribile... Ion (sospirando). Somiglia a... Lucidano! Lucidano tutto! A questi lumi di luna... I l Professore (con slancio). Voliamo, voliamo... Non dimentichiamo che ci at tendono i voli cosmici... La faccia na scosta... Lamenti. Ion. A questi lumi di luna... La luna! E io da quando... (Passi sulle scale, col pi alla porta di Ion. Ion esce e ritorna dopo qualche tempo). Eh, questa è la vita... Dunque, dove eravamo rimasti? I l Professore. Si sfiancano... (Breve pausa. Tira fuori un foglio, lo consulta. Insinuando). E come la mettiamo con le lepri? Ion (stupito). Quali? I l Professore (enigmatico). Le lepri, i conigli... Ion (ridendo). Ho detto, semplicemente, che se si chiudesse una lepre qui, vor rebbe sempre fuggire... Ecco, vediamo un momento... poniamo che lei chiuda una lepre in casa. Come giustifica que sta sua sete? Questa sua sete di volo? I l Professore. L’attrazione del cosmo, mio caro. L’accelerazione gravitazionale... che si eleva al quadrato... Capisce? Ion. Cioè... la lascia libera? I l Professore. Temo che questa solu zione sia troppo drastica. (Spaventato). E chi la riporta indietro? Ion. Abbiamo i nostri uomini... Anche se col loro salario... Ma non è inutile che la lepre fugga? I l Professore. Tutto ciò che è gra tuito non va. Ion (trasalendo). Ma come fa lei a sa pere ciò che io ho detto sulle lepri? Lei non era qui... Come è possibile che...? I l Professore. La sua autobiografia è piuttosto marcia. Ion. (quasi soffocando). E’ cambiato an che il clima. Fa piuttosto caldo, no? Pe rò, come l’ha saputo? I l Professore. La parola, una volta uscita di bocca, appartiene alla società. Ion (si avvicina al Professore, gli batte una mano sulla spalla). Bravo! Felicita zioni! I l Professore. Perché felicitazioni? Ion. Lei legge il pensiero della gente. Comincio ad aver paura di lei. Entra Dorina, una donna di treni’anni, alta, bella, insomma, con tutti gli attri buti. Ha in mano il suo bagaglio. Si guarda intorno, cerca un posto, posa il bagaglio, siede sul letto. Ion la guarda inquieto. Il Professore finge di leggere i suoi fogli. Ion. Se arrivava un po’ prima, poteva prendere il posto vicino alla finestra... Dorina fa un gesto evasivo. Ion (dopo un altro silenzio). Il signore... (indica il Professore)... ha avuto fortu na. Sa com’è, il diritto del primo occu pante... (Ride un po’ incerto). Cioè, cre do che si chiami primo occupante quello che ti occupa per primo, no? Dorina (un po’ imbarazzata). Sa, io., mi toglierei le scarpe... Non so perché, ma ogni volta che viaggio in treno, mi si gonfiano i piedi... Ion (sondando il problema). E quando sta a casa... lo stesso? Dorina (ridendo). No, quando sto a casa non si gonfiano. Né il sinistro né il destro. Solo quando vado in treno. (Si toglie le scarpe, non sa dove met terle). Ion. Le dia a me. (Le prende). C’è an cora un po’ di posto qui, sulla rete. (Le mette sulla rete). La rete è nuova. Il problema si è presentato poco fa... Reg ge qualsiasi cosa... Dorina (di nuovo un po’ imbarazzata). Senta... Potrebbe spegnere la luce? (Sba- diglia graziosamente). Sono piuttosto stanca... Ion (impacciato). Ma... (indicando il Professore) il signore legge. (Il Profes sore tossisce significativamente). Sa, il signor Professore è il primo occupante... Credo che d’ora in poi gli pagherò an che l’affitto... o magari, quotidianamen te, il biglietto a tariffa intera. Dove an drà questo treno? Dorina. Lontano. Ion (spaventato). Un mucchio di soldi allora. I l Professore (lascia i suoi fogli; au toritario, alla donna). Cosa fa suo ma rito? Dorina (evasiva). Abbiamo litigato. Mi ha mandata a spasso. I l Professore. Il passato si paga. La donna dev’essere monolitica col suo uomo. Ion (a Dorina). E’ santa? Dorina, perplessa, non risponde. I l Professore. E deve andare in pri ma fila... La porta si apre; entra a precipizio Mag da, una donna sui venticinque anni. Magda (ansante). Chiedo scusa, la casa ha traslocato qui? Dorina (con superiorità). Signora, con fonde... Ion (amareggiato). Qui ha appena tra slocato il treno... Magda. Prendo solo un po’ di fiato... (Siede sul letto). Sono entrata qui, ho visto che non c’era coda e mi son detta: forse sei fortunata. Da quando hanno cambiato gli orari... Se si mette in mez zo la donna, è il caos... Ion. Si può ancora essere sicuri di qual cosa? Pausa, durante la quale ciascuno pensa al modo di tirare avanti la conversazione. Ion. Viviamo piuttosto intensamente. I l Professore. Piuttosto mente. Ion (a Dorina). L’ha notato anche lei? Dorina. Si vede a occhio nudo... Ion (continuando). Per esempio, oggi è... I l Professore. Martedì. Ion. Straordinario! L’ineffabile mi ac cade di martedì. Giorno dopo giorno, ora dopo ora... e finalmente il martedì. Dunque esistiamo nel giorno di Marte. Magda (perplessa). Su Marte? Ion. No. Di martedì, qui, sulla terra. Un altro dei nostri martedì... Bello, lu minoso, lungo... Bene. (Illuminandosi). Ma proprio oggi ci troviamo anche nel la tal settimana, nel tal mese, nel tale anno, nel tal secolo, nel tal millennio... intensiva Non è vero? I l Professore. Giusto. (Con soddisfa zione). Solo che ha dimenticato l’epoca. Ha detto tutto, ma l’epoca l’ha saltata. (Irritato). Perché l ’ha saltata? Ion. Sì, viviamo un martedì dell’epoca in cui viviamo. Non le pare che sia troppo? I l Professore. Cosa? Ion (contando sulle dita). Troppe co se... insieme... (Sbottando). Non ne pos so più ! Dorina. Ci prendono la pelle. Magda. Per definizione... E io ho l’im pressione che si esageri. Ion. Troppi atteggiamenti... I l Professore. Si dimentica che sia mo uomini anche noi... Magda (idea). Hanno osservato come si distrugge una zolletta di zucchero nel caffè? A poco a poco, si sbriciola, si di strugge... E non si può dire che non sia stata buona... I l Professore. La bontà non spiega tutto... Dorina. Anzi, proprio per questo... Ion. Una donna non tradirà mai abba stanza un uomo. Dorina. Ci sono casi e casi. Ion. Ad ogni modo, noi meriteremmo di più. I l Professore. Non ancora secondo il merito. Ora ci tradiscono a seconda del le forze, in seguito, ciascuno secondo il merito. Magda (vaga). Eh, la vita è complessa. I l Professore. Il nuovo complesso del la vita... Ion. Se gli uomini, invece di muovere alternativamente le gambe, dovessero muoverle tutte e due insieme... Dorina. Come? A balzi? Ion. Sì. A balzi, così... (Dà una dimo strazione). Si dovrebbe codificare come andatura più evoluta il balzo, più adat to comunque a risolvere il problema del salto... Magda. Sarebbe difficile... (Prova an che lei). Piuttosto... I l Professore. Certo, perché siamo anchilosati. (battendo il pugno sul ta volo). Siamo anchilosati e non voglia mo riconoscerlo apertamente! (A Ion). Sa come si pronuncia una vocale? Ion (come a scuola). Sì', con la bocca spalancata... a, e, i, o, u. I l Professore. Così dobbiamo ricono scere i nostri errori. Come per le vo cali. Perché con queste vocali si enun ciano le grandi imprese. Ion. Gli stranieri sentono e ne godono... Il Professore sospira. l’aria — Il sole, il mare — Ion. (illuminandosi). La mia teoria è la seguente: prima nel fuoco, no? Dorina. Il fuoco fu al principio. Ion. Dal fuoco, plaf! nell’acqua. Dal l’acqua — nell’aria — l’era cosmica. Dall’aria nel vuoto. Magda. Andiamo verso il vuoto? Ion. il vuoto: un anello della spirale. Un anel lo della frusta che ha cura della mate ria. Bene o male, le prime tappe le ab biamo percorse. Anche se a stento. Chi ricorda ancora il nostro fluire nell’ocea no, la nostra cenere calda che colava nell’oceano come in un’urna che invece di tenerci nascosti, segreti, cominciò ad addentarci? Fu la rivoluzione più straor dinaria, quando osammo sollevare il ca po nell’aria, a mordere l’aria secca. Chi fu il primo a gridare: « sto bene, mi sento bene », per poi cominciare ad asciugarsi? L’aria però è la prima tap pa del vuoto. I nostri polmoni si sono appena abituati aH’aria che già gli rovi niamo l’abitudine. Gente, questo mal costume di respirare non va! Rinunciate a questo capriccio! E’ chiaro che ci aspetta il vuoto. Il punto da cui partim mo fu la durezza massima della mate ria. Non è normale che si tenda verso il suo opposto? I l Professore. E’ più che normale! Ion. Il vuoto: che rilassamento asso luto! Senti di poter tirare il fiato, final mente; volevo dire, di poter trattenere il fiato. Credo che anche la bibbia, nelle sue illuminate previsioni, localizzasse qui il giudizio finale. (Visione). I buoni e i malvagi sono crepati, le loro anime sono salite in cielo, fino ad incontrare il nulla. Qui hanno sentito un’ebrezza straordinaria: Valdilà sognato. La vita futura. Ma proprio allora si sono tro vati davanti la rispettiva bilancia e il rispettivo consesso di santi pesatori. I giusti sono rimasti nel vuoto. I pec catori sono stati spinti indietro, con la punta del piede, nell’aria, dove hanno preso fuoco immediatamente, a causa dell’attrito, e bruceranno eternamente a causa dell’attrito. Mentre dall’altra par te, una vita! Non senti nulla, non una pagliuzza in cui inciampare, viaggi alla velocità del pensiero raggiunto dal corpo. Eh, che piacevole confusione, che dolce scivolare! Che velocità uguale, non solo tra gli individui, ognuno dei quali ha diritto per legge alla stessa accelera zione, ma tra le cose! Andrai alla stessa velocità di un sasso, di una montagna! Dove andate, gente? Da nessuna parte, qua e là. Non è questa la vera felicità? Dorina. Non hai male, non hai problemi. Ion. L’adattamento all’aria ha avuto una linea ascendente, ha raggiunto un punto culminante, dal quale, naturalmente, co mincia la discesa. Quando è cominciato il declino? Fin dall’antichità i filosofi avevano osservato che il destino del l’umanità procedeva monco. Ai nostri giorni, lo svuotamento di tutto ciò che si è accumulato, di tutto ciò che ha significato qualcosa, è evidente. Dal vuo to interiore al vuoto delle idee. Tutte le cose tendono inavvertitamente a que sto. L’atomismo nella scienza, l’ultima scomposizione del granello di polvere in quattordici, con l’aiuto della bomba atomica. Dunque la direzione generale è: verso il vuoto, avanti, marsc! E come stiamo a vuoto? Relativamente bene. E’ stato immaginato, supposto, dedotto lo gicamente e poi dimostrato sperimen talmente. Gli emisferi di Magdeburg, il tubo di Torricelli, avvenimenti molto più grandiosi della sintesi dell’urea, di cui si fa tanto parlare. Il vuoto è qui, vicino, a destra, a sinistra, sopra la te sta, sopra il cuore. Il vuoto è nello stomaco. E continua a scendere... La fobia cosmica è solo un sintomo. Non del nostro volare verso il vuoto, ma del suo propagarsi tra noi. Lo spirito santo fu una colomba di vuoto. Ci bat tezzerà tutti, e gli ultimi saranno i primi. In fondo, è lo stesso: il primo, l’ultimo, non conta più. Una volta adattato alle condizioni di vuoto, ti sarà facilissimo andare dove vuoi, sbattere nelle stelle fisse, materiali e rimaste molto indietro... Dorina. Ma... Ion. Le api si eccitano all’odore del ve leno. Se una ti ha punto, il suo veleno ne chiamerà una seconda. Il veleno di tutte e due altre quattro. E di questo passo, l’intero alveare ti sarà addosso, con un accanimento che neppure un’ape si può spiegare. Noi siamo stati ecci tati dalla luce. Il primo uscito alla luce ne ha attratto un secondo. Magda. Come ci potremo adattare alla nuova situazione? Ion. Si scopriranno in noi organi sco nosciuti, insospettati, separati. Quelli co nosciuti si rigenereranno. Non è escluso che l ’appendicolo, di cui tutti si chiedono perché madre-natura ce l’abbia dato, non sia un fattore motorio per la condizione di adattamento al vuoto; o l’ombelico. Già ora, d’estate, sulla sabbia calda di tutte le spiagge del mondo, guardate la gente: con l’ombelico in su, come una presa, cerca di captare chissà quale raggio. Forse quel raggio che le risve gli dentro una corrente inaudita, un milione di volte più potente di qual il capo, o siasi voltaggio. Vivremo — speriamo — con quella corrente misteriosa che è in noi, quando un raggio o una spina dall’alto la azionerà attraverso l’ombe lico. Temo però che qualcuno ci abbia preceduti. (Misterioso). Ieri sera, un disco volante si è fermato proprio so pra il mio tetto. Ho sentito il suo ru more e la sua missione sospetta. Ne sono discesi quattro cucchiai giganti ni chelati, coperti di un materiale simile alla plastica. Hanno incominciato con l’ispezionare il mio tetto. Uno è saltato dal tetto e si è fermato, a mezz’aria, da vanti alla cucina. La finestra si è aperta da sola. I miei cucchiai sono stati presi dal panico. « Basta! — ha detto loro il cucchiaio cosmico. — Sapevate che è co minciata un’era nuova? » « Un’altra? » « Prendete le vostre cose e imbarco ». I miei cucchiai si sono guardati intorno nella cucina; cosa potevano prendermi? Forse gli scarafaggi che mi fanno com pagnia quando mangio; e sono saliti sul tetto. Ero al colmo della rabbia. La vita diventa sempre più cara e ora mi por tano via anche i cucchiai! Prendo il fucile, scendo in cortile e miro a quello grande, che sembrava la capa — - chissà di che sesso saranno lassù. Il proiettile l’ha colpito, ma è rimbalzato ed è tornato indietro ad una velocità sempre crescente, passandomi — pardon — tra le gambe, all’altezza delle ginocchia. Se in quel momento andavo a gambe levate, mi stendeva. Fortuna che sono andata a gambe levate, per la paura, un momento dopo. La pallottola era passata e si era piantata in terra, e chissà se non tornerà. Percorrerà la sua parte di spirale e ritornerà... ancora più grande... Ho paura... (Al Professore). Lei che ne dice? I I Professore (scandendo le sillabe). Speculazione filosofica. Dorina (guarda tra qualche minuto... (Guarda la rete, poi, a Ion). Vuol essere così gentile...? Ion le dà le scarpe. Dorina (se le mette). E’ curioso, en trano abbastanza facilmente... Non mi si sono gonfiati i piedi... Ion (a commento). Ogni testimonianza deve essere presa in considerazione. Dorina (prende il suo bagaglio). Buona sera! (Esce). Magda. Però... non sanno dove abbia traslocato la casa? Ion. Non vuole restare ancora con noi, signora ? Magda. Non voglio restare senza bi glietto... (Esce). l’orologio). Io... I l Professore (dopo una pausa). Era no da donna? Ion. Chi? Cosa? I l Professore. Quelle scarpe... Non per niente le ha prese in mano: le ha accarezzate... L’ho visto coi miei occhi... Ion {in imbarazzo). Ma... credo... spero... che fossero da donna... Una signora che si rispetti non si mette delle... non si presta... Soprattutto ora che la ciber netica... I l Professore. Dunque le lagnanze sul fatto che lei praticherebbe la bigamia erano fondate... Ion. Sono monoteista. I l Professore. Neppure un Dio? Ion. Non sono bigamo. I l Professore. Cosa cercavano quelle donne da lei? (Disgustato). Sono andate difilato verso il letto; dunque, conosce vano il posto, non erano alla prima scap pata. Nessuna delle due ha avuto il benché minimo sussulto di coscienza nel compiere l ’atto di sedere sul letto... Ion. Cosa c’è di strano se è una carrozza letto? Almeno così credo... Se no, non si sarebbe tolta le scarpe... {Inquieto). Signore, per Dio, dove siamo? I l Professore. Siamo in pieno viaggio, ragazzo mio. Attento ai nervi... Ion (a disagio). Mi stanno cedendo un poco... Mi crepita la fronte... {Si avvi cina al Professore, lo prende per un bottone). Guardi ancora quello schema... Cosa...? I l Professore {riprendendo). Ad ogni modo, il suo- schema è molto interessan te. Apre una serie di prospettive alla ricerca scientifica. Dunque, dal terreno sano della realtà — la linea principale — partono, quando un uomo si confida ad un amico, sia le aspirazioni che le di vagazioni. Ion. Capisco, capisco. Le aspirazioni van no in su — le lineette rosse — le diva gazioni vanno in giù, verso la terra. I l Professore. Esatto. Le lineette az zurre. Ion. E quali sono le più positive? Quelle che si perdono in su o quelle che si perdono in giù? I l Professore. Quelle che si perdono in su. (Pausa). Ad ogni modo, è neces saria una volontà-mostro. Ion. Questo è quanto si chiede dapper tutto: una volontà di ferro e, se è pos sibile, una volontà-mostro. I l Professore. Né più né meno. Ma potrebbero essere positive ambedue. (Esaminando lo schema). Questa alme no è la mia dottrina. Ion (confidenziale). Senta, mi liberi da queste maledette linee azzurre. Quelle che vanno in giù. Mi par d’intuire che non sono precisamente progressiste. Me ne liberi! I l Professore. Ah, no! Ion. Io mi sento bene quando sogno così, a occhi aperti, ma chissà? Forse non si addice. Il pensiero giusto, al posto giu sto. Forse non è abbastanza necessario alla società. (Supplichevole). Lei che ha scoperto il rimedio per la calma, po trebbe guarirmi anche da questo... (Pra tico). Mi guarisca! I l Professore. No, non è il momento. Non posso scendere agli interessi me schini, particolari, almeno non in que sto stadio. Prima bisogna risolvere il problema su un piano mondiale. In se guito, potremo passare alla guarigione da uomo a uomo. Non so se mi sono spiegato... Ion (rassegnato). Purtroppo sì. Pausa. Ion passeggia per la camera. Bus sano alla porta. Ion. Chi è? Una voce. Posta! Ion esce e ritorna con un foglio. I l Professore. Riceve lettere dall’e stero? Ion. Eh, già: l’affitto. La notifica che devo pagare l’affitto. Non si può più fare un passo senza ingiunzioni. Ma al meno ora sono sicuro di una cosa. I l Professore. Di cosa? Ion. Che non mi hanno trasformato la casa in treno. (Si alza, prende la valigia e fa per metterla fuori). Pensavo: forse ho bevuto troppo e invece di arrivare a casa, sono saltato su un merci... Forse questa notte, mentre dormivo, le case sono state dichiarate treni... Ma ora (in dica il foglio) ho la prova. Pago l’affitto. (Vittorioso). Devo pagare! Sono notifi cato! Questa è la certezza più grande. I l Professore (gli prende la valigia e la rimette su). Ehi, si calmi! Ion (si calma). Ha ragione, mi sono un po’ agitato. (Vergognoso). Spero però di non aver alzato la voce. I l Professore. Be’, un pochino. Un piccolo, scatto di nervi, ricevuto per con tagio dai suoi antenati. Naturalmente, senza cattive intenzioni da parte loro. Non incolpiamo gli antenati. Ion. Credo che ora neppure lei sostenga più quella balordaggine del treno. I l Professore. Sì, io resto fermo sulle mie posizioni. (Avvicina di più la sedia alla finestra). Meno male che ho trovato un posto qui, vicino al finestrino. E’ dif ficile trovare posti al finestrino. Ion. Abbastanza difficile... Oh, ma si sono asciugati i fazzoletti stesi... (Attacca il ferro da stiro alla presa, prende un fazzoletto, lo distende sull’asse per sti rare, cerca un pezzo di giornale, lo mette sul fazzoletto e incomincia a stirare). Vediamo se riesco a indovinare qual è il suo. (Si concentra). Questo... Che ne dice? I l Professore. Come vuole che lo veda se l’ha coperto col giornale? Non posso leggere tra le righe... Ion (indicando il fazzoletto rimasto sul filo). Quello di chi è? I l Professore. Mio. Ion. Dunque questo è di Alin... Bene... Ora facciamo affiorare il cifrario... I faz zoletti scritti con inchiostro simpatico a stirarli rivelano tutto il loro contenuto... (Rimane deluso). Ma guarda un po’... (Pensieroso). Tuttavia, a giudicare se condo logica, tutto è dalla mia parte. Dormo qui, vivo qui, qui... I l Professore. Si vede che non ha mai fatto un viaggio più lungo. Ion (vergognoso). E’ vero, questo sa rebbe il primo. Non faccio per dire, ma ho già viaggiato una volta, andata e ritorno, per quattro giorni. Due giorni andata — fino al capolinea —■ e quando stavo per scendere, mi sono addormen tato. Altri due giorni, ritorno. Dopo quattro giorni mi trovavo esattamente nel punto da dove ero partito. Solo che ero stanco morto. I l Professore. E ora, me lo dica sin ceramente, in questi ultimi anni, ha mai più sentito una stanchezza come quella di allora? Ion. Affatto. I l Professore. Perché le distanze che percorriamo sono più grandi — non dimentichi che presto ci aspetta il co smo — e le condizioni di viaggio sono diverse. Molto più comode. Vai avanti e non te ne accorgi neppure. Come ha detto lei, si crede di essere a casa. Non si sente che il ronzìo appena percetti bile dell’avanzare! Ha appoggiato qual che volta l’orecchio sul pavimento? Ion. No, mai. I l Professore. Su, provi. (Ion si china, ascolta). Cosa sente? Ion. Mi pare che se le diano di nuovo. I l Professore. Chi? Ion. Gli inquilini del piano di sotto. Al solito. I l Professore. Non ci badi. E’ un in cidente passeggero, non significativo. Se ascolta meglio, al di là delle risse, delle grida e delle ingiurie, si distingue il sibilo appena percettibile dell’avanzare. Ion. Allora provo a sentire un’altra vol ta. (Prova). I l Professore. Dunque? Ion (chino). Ma... forse, forse... I l Professore (trionfante). Vede?! Ion (si alza). Io non capisco più niente. Non mi meraviglierei che ora si affac ciasse qualcuno a dirci, solennemente, che siamo arrivati chissà dove. I l Professore. E se dicesse così: « Si gnori, siamo arrivati nel futuro più lon tano »?! La porta si apre, compare Alin vestito da poliziotto. Ion. Alin! I l Professore. Ah, noi ci conosciamo! Ion. Ma perché diavolo ti hanno messo questa divisa? Se non fossi il mio mi gliore amico, non ti avrei nemmeno ri conosciuto. A lin (solenne, ufficiale). Signori, si chiu de. (Li « chiude »). M arin Sorescu Traduzione di Marco Cugno (Copyright 1973 by Marin Sorescu e « Il Dramma ») P I L G R I M A G E o l e m o v e c o n f e s s i o n i d i u n f i g l i o d e l s e c o l o G R E E N W I C H V I L L A G E D o p o la proiezione privata in una sala dei Campi Elisi, Bona de Pisis piangeva senza ritegno, commossa. Pieyre de Mandiargues, il marito, cercava il regista per complimen tarsi con lui: l’esteta raffinato era rimasto enchanté per la bellezza delle immagini. A ll’Unesco, dov’è stato presen tato ad un pubblico esigente di letterati, educatori e so ciologi, hanno elogiato il tono sincero del film, la sua carica di testimonianza, il suo livello espressivo. I critici hanno tirato fuori i nomi di Dreyer, Bresson, Antonioni. Ugo R o n fa n i E i giovani, che hanno cominciato a vedere il film nel Quartiere Latino, hanno avuto l’impressione di un incontro con qualcuno che, meglio di tanti altri cineasti della crisi della gioventù, ha saputo parlare per loro. Pilgrimage non sarà, credo, un film di cassetta (il che, in un’epoca in cui dilagano sugli schermi i « sottoDecame- roni » pornoerotici, è in fondo un titolo di merito). Ma è un film che rapidamente si è imposto — nonostante un certo carattere di confessione « privata » e la mancanza di concessioni ai tic ideologici alla moda — come un’opera molto rappresentativa del nostro tempo, nella linea di quel « realismo simbolico » che ha già dato Zabriskie Point di Antonioni, Leo thè Last di Boorman, Arancia meccanica di Kubrick, Cerimonia segreta di Losey, Ultimo tango a Parigi di Bertolucci. I consensi dei critici che avevano veduto il film a Cannes fuori festival, le fertili discussioni che aveva suscitato alla rassegna di Taormina e le passioni che adesso provoca a Parigi, in mezzo ad un pubblico particolarmente avver tito, provano che Montresor ha saputo mettersi di colpo, alla sua prima esperienza cinematografica, nella schiera di punta dei nuovi registi. Auguro a Pilgrimage un successo anche commerciale (e nella Francia che ha « lanciato » An tonioni e Bertolucci il « miracolo », dopotutto, potrebbe ac cadere), però sento il bisogno di avvertire che per un film come questo — un film, fra l’altro, girato con poco denaro e molta fede — le cifre dei borderò assolutamente non con tano. Contano l’emozione di Bona de Pisis, l’ammirazione di Pieyre de Mandiargues, l’entusiasmo dello studente del Quartiere Latino o del Greenwich Village: e chi non vuol essere della festa, peggio per lui. Pellegrinaggio (il titolo ha appropriate risonanze religiose ma è stato trovato in Young, ed indica una ricerca nel mondo d’oggi che è ascesa interiore) è un’opera prima, ma un’opera matura. E questo perché Beni Montresor non è uno di quegli enfants prodige che irrompono nel cinema come il terribile Victor di Vitrac nel salotto dei genitori: ha 46 anni, prima di dirigere un film ha avuto l’umiltà è la pazienza di fare, in Italia e in America, approfondite esperienze come pittore, scrittore, scenografo, regista di opere liriche, assistente cinematografico. Era l’immediato dopoguerra quando Montresor (di antica ascendenza francese) lasciò la natia Verona per andare a studiare pittura e scenografia all’Accademia di Belle Arti di Venezia; poi si spostò a Roma per frequentare il Centro sperimentale di cinematografia (scene, costumi), scrisse testi radiofonici, fece della critica cinematografica, lavorò alla sceneggiatura di una ventina di film, fu collaboratore di De Sica, Rossellini e Fellini, affrontò le prime esperienze di regista teatrale. Intanto scriveva ed illustrava libri per ragazzi, un’attività continuata anche negli Stati Uniti — dove si recò per la prima volta nel I960 dopo aver lavorato in Francia, in Germania, in Spagna, in Africa — e che laggiù gli valse il « Caldecott », che è il premio più im portante di letteratura infantile. In America avrebbe dovuto restare tre mesi; invece mise radici, diventò un cittadino del Greenwich Village, si fece conoscere ed apprezzare come scenografo, costumista, re gista di opere del teatro lirico e del teatro di prosa. Lavorò al Metropolitan, al Lincoln Center, al New York City Ballet, per le scene di Broadway, al Covent Garden di Londra, alla Scala, al festival di Spoleto; allestì fra l’altro II flauto magico di Mozart, La Cenerentola di Rossini, La Gioconda di Ponchielli, il Benvenuto Cellini di Berlioz, Pelleas e Melisenda di Debussy, L’ultimo selvaggio di Menotti, Va nessa di Samuel Barber e Raimonda di Alexander Glazunov, con Nureyev, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, e per il teatro di prosa La folle de Chaillot di Giraudoux, la Beatrice Cenci di Moravia, Marco Millions di O’Neill. Se ad un certo punto, dopo questo lungo periodo di così fertile attività teatrale, Beni Montresor ha sentito il bi sogno di rimettere tutto in discussione, e di passare alla macchina da presa, è perché il cinema gli è apparso come il mezzo di espressione più adatto — a lui, che si è sempre espresso così largamente attraverso le immagini — per esorcizzare vecchi fantasmi anzitutto, poi per raccon tarsi a se stesso e agli altri, infine per situarsi in rapporto al mondo d’oggi. Si può vedere Pilgrimage come una sorta di « confessione di un figlio del secolo » (senonché Mon tresor avverte: « non mi piace essere preso per romantico; i romantici vivono nel passato o nel futuro ed io vivo nel presente »); lo si può considerare come un documento sulle due anime degli Stati Uniti, la old America quacquero e danarosa e la giovane America in rivolta di cui ci ha già parlato Antonioni in Zabriskie Point. In realtà il film è l’una e l’altra cosa, e altro ancora. Non è soltanto confessione, perché altrimenti avrebbe i limiti di un film intimista, e non è semplice documento su un paese o su una civiltà perché sennò sarebbe riconducibile a certi schemi politici o ideologici ai quali, invece, deliberata- mente sfugge. E’ anzitutto un film — ha detto bene Michel Ciment su « L ’Express » — che esprime un’intensa con vinzione personale, che trascende però il fatto privato per diventare, in virtù della sua stessa sincerità, una testimo nianza estremamente rivelatrice sulla gioventù d’oggi. Defi nita, logicamente, in rapporto al mondo degli adulti, mondo d’ombre e d’impotenza nei suoi opulenti splendori. Un film a ritmo binario, i giovani e gli adulti (o i vecchi), l’amore per la vita (che può diventare rabbia di vivere) e l’orrore dell’esistenza. Al Museo del Prado — osserva nel film un personaggio gentile, cui Idanna Pucci, la nipote del couturier diventata attrice per amicizia verso Montresor, presta i suoi linea menti di madonna fiorentina — le tele di Gerolamo Bosch sono attigue a quelle del Tiziano. Così nel film, e questa coesistenza dell’orrore di vivere e della dolcezza di vivere non è soltanto il fatto di un’unità estetica, è il fatto di un’unità morale. C’è una frase, del discorso che Beni Mon tresor mi ha fatto sul suo film, che mi sembra estremamente rivelatrice: « Io non ho scelto, non ho preso partito coi giovani contro i vecchi o viceversa. Io mi sono accorto, mentre filmavo la mia storia, che i miei personaggi li amavo tutti, giovani e vecchi, poveri e ricchi, sereni e disperati ». Qui tocchiamo, forse, il carattere più prezioso del film: in un’epoca in cui si gira « coi pugni in tasca », si raccontano sullo schermo storie di rabbia e di rifiuto, Montresor ha voluto che l’approccio ai personaggi, a tutti In apertura: Beni Montresor e Loulou de la Falaise. Nella pagina seguente: in alto, Cliff de Young; in basso, de Young con Loulou de la Falaise. i personaggi, fosse quello del rispetto, anzi della pietas. Il vecchio finanziere che vuole offrirsi, per il teatro im maginario della sua morte, uno spettacolo di fanciulle nude come l’innocenza del mondo; la ragazza del Greenwich Village che crede di proteggersi con la droga dalla crudeltà e dalla violenza; la madre che s’è trasformata in statua di pietra per paura che il suo amore non fosse utile e accettato; il mentore che crede di poter parlare ai giovani dall’alto di un fragile, risibile equilibrio; la vecchia go vernante che celebra il rito catartico del dolore ai funerali del padre del protagonista, e tutti gli altri, non sono pedine di una scacchiera ideologica, sono creature umane che meritano affettuoso rispetto. Per le strade di New York (una New York in sfacelo, battuta dal vento), nelle ricche dimore, enigmatiche e son tuose come ville venete, dell’alta società americana cui appartiene la sua famiglia, nei bordelli e fra le comunità hippies, in mezzo ai drogati e nella solitudine, il giovane protagonista (Cliff de Young, un attore di razza scovato nella troupe newyorkese di ttair) prosegue il suo viaggio metafisico alla scoperta di se stesso. E alla ricerca di una verità possibile nel mondo d’oggi. Che non trova né nella droga, né nell’erotismo o nella violenza ma — verità an tica — nell’ascolto delle voci che vengono dai suoi simili massimamente di quella nitida e ammonitrice del dolore. La morte del padre segnerà il momento della sua libera zione: dopo aver trasformato il banchetto funebre, fra l ’orrore degli invitati, in un’insopportabile lamentazione ge stuale (le vivande buttate sul pavimento, in cerchio, a formare una finalmente, con la madre-statua, in uno slancio di reciproca, conso lante compassione. E così al viaggio verso la morte del padre corrisponde, simmetricamente, l’ingresso nell’età adulta del figlio: un altro dei cerchi magici del film, il principale, che si rinchiude. « Film mitologico » ha definito Pilgrimage un critico di New York. Un sociologo, dopo la proiezione all’Unesco, ha visto il film come una serie di riti interrotti, fino al l’ultimo, esorcizzante, del banchetto funerario: ed è vero che i personaggi — nelle esatte, raffinate inquadrature di Tonino delti Colli, l’operatore del Decamerone di Paso lini — hanno la solennità di officianti, e gli oggetti, il letto dell’agonia del padre, il tavolo di una cena silenziosa fra vecchi e giovani, le bottiglie e i bicchieri della liba gione funeraria, si stagliano come altari e arredi sacri. Non mi ha stupito, Beni Montresor, quando mi ha raccon tato che questo film di violenza e di pietà, di dissacrazione e di fede, dotato di non so quale potere ipnotico, è stato presentato per la prima volta, su loro richiesta, davanti ad un pubblico di piccolo-borghesi in una chiesa di Cle veland che era ogni giorno sempre più vuota, e che la trincea del dolore) l’incontro, induista o semplicemente umanistico: proiezione è stata il punto di partenza di una sorta di confessione collettiva dei membri della comunità, di rin novati slanci, di ritrovati fervori. Perché il tema del film è, ad un tempo, l’angoscia di vivere e la speranza di vivere. « Noi abbiamo tutti paura di morire — mi ha detto Montresor, questo laico che legge Young ma anche Pascal. — Siamo in mezzo ad altri che cercano come noi, o che non hanno più la forza di cercare, ed abbiamo paura del silenzio e della solitudine. Allora col mio film, pur aste nendomi dalle implicazioni religiose, io ho voluto dire: ’’Quando ti trovi nel buio, quando hai perduto la spe ranza ricordati del Cristo, che camminava solo in una santa insicurezza, e vedi quanto amore ha dato e quanto amore ha ricevuto” ». Film cristiano, le etichette non contano. E’ un film, direi, che mette la comprensione al di sopra della contestazione e di ogni altra cosa. L’amore, direi, se la parola non fosse scaduta. Mi ha detto ancora, Beni Montresor, che la volta in cui il film è stato presentato nel campus dell’università della Pennsylvania una ragazza, dopo la proiezione, è venuta a dirgli: « Come ha fatto a sapere tante cose su di noi? Pilgrimage è la nostra storia ». E Montresor: « Non so, io ho voluto fare un film su me stesso ». La ragazza: « Lei ci dice, nel film, qualcosa che sentiamo profondamente in questo tempo. Ci siamo accaniti duramente, intransigente mente contro i nostri genitori; abbiamo voluto sostituire i loro slogans — successo, tranquillità, benessere — con le nostre verità: amore, solidarietà, pace. E alla fine ab biamo capito che abbiamo inventato, semplicemente, altri slogans e che la vera salvezza è essere se stessi, nel silenzio. Il suo film dice questo; grazie ». Beni Montresor sta preparando il suo secondo film. Lo gi rerà in gran parte alle Hawaii. Ma non sarà un film son tuoso, come non lo è Pilgrimage, anche se le amicizie hanno spalancato al regista le più belle dimore della old America. Come il primo, verrà girato con mezzi finanziari modesti e molti attori non professionisti. S’intitolerà Father, « Pa dre »; sarà, ancora una volta, la storia di una lunga soli tudine, in un mondo di esseri che non riescono a comuni care. Comincerà con un sacrificio col fuoco, alla maniera dei bonzi, in una strada di New York; terminerà con la fuga di un uomo che va a morire nei boschi. Due fatti di cronaca veri, a cornice di un dramma intimo altret tanto vero. Auguro a Beni Montresor che anche con questo suo nuovo film, come con Pilgrimage, riesca a fare del cinema, stru mento di espressione corale, un mezzo per toccare la sensibilità e stimolare la riflessione di ognuno. E’ per questa via che il cinema troverà i suoi titoli di nobiltà. Ugo Ronfani . S T R E H L E R e i l r i t o r n o d e l g a t t o ! {Q u ando Gabriele d ’Annunzio pubblicò il N ot turno, Em ilio Cecchi scrisse che era tornato il gatto. Non che la letteratura che il nostro Novecento allora esprimeva, e di cui Cecchi era esempio m i litante, gli sembrasse opera di spregevoli topolini, tu tt’altro; né che egli contestasse la necessità, in essa tutta evidente, di opporsi alla concezione di letteratura del Vate. Ma insomma, mettendo l ’ac cento sul momento della « realizzazione » più che su quello delle intenzioni, bisognava pur levarsi tanto di cappello a chi mostrava d ’essere allo stesso tempo così coerente e così capace di affinarsi; e che soprattutto diceva sino in fondo — assottiglian done i term ini allo spasimo — ciò che aveva da dire. Nella perspicuità inalienabile della forma. I l ritorno di Strehler, con il Re Lear che ci è geo graficamente vietato di commentare (ma sarà al meno lecito dire, di passata, che si tratta d’uno spettacolo stupendo?) e con /’Opera da tre soldi che inattese vicende hanno spinto sino alla nostra giurisdizione, cioè a Prato, è davvero il ritorno del gatto. Né vale dire che, al tempo di qualche fan toccio lusitano, il gatto era parso un po’ spelac chiato: sfido! Strehler non può mettersi a fare il gatto da strada, è un micione di lusso. Ridategli i cuscini e gli agi della sua casa, e vedrete come il pelo gli lustra, l ’occhio guizza, il graffio è pron to e fatale. Perché questo grandissimo uomo di teatro non fa, poi, degli agi un luogo di m olli e vane comodità. Ne fa il tram polino per operazioni disperate di scarnificazione, di autolacerazione; di dolore p ri vato e di universale accusa. Prova ne sia questa seconda versione della Dreigroschenoper, dove tutto è cresciuto in rigore e in intensità, con l ’aggiunta di quella malinconia che nel Lear fa così alta prova di sé, spandendo intorno alla scena un alone di desolata e virile pietà storica. Da dove viene, del resto, siffatta malinconia? Dalla constatazione che, se era abbastanza triste dover riconoscere nel 1956 l ’attualità di fondo di una situazione narrata (favoleggiata) da Brecht sullo schema di Gay tren ta n n i prima, ancora più grave è il vedere che nel 1973 siamo da capo a undici. Non che il testo non sia invecchiato: lo era già nel ’56, e sappiamo che Brecht espresse qualche dubbio sull’opportunità della «ripresa ». Ma in vecchiati sono semmai certi m oduli del simboleg giare, certe pieghe del raccontare, certi sim boli che il tempo vorace e l ’èra dei consumi ha ceduto allo shopping più banale. Invecchiata non è, invece, la Nella foto in apertura: Giorgio Strehler. Nelle altre pagine: Domenico Modugno, Milva e Gianni Agus nell’« Opera da tre soldi ». trama essenziale dei rapporti fra uomini, quale viene esemplificata nella Londra d ’un tempo, nell’Ame rica di queste versioni. Trama di ferocia e di pic colezza, intendendosi fra i due rapporti — il bel luino e il meschino — l ’intercorrere d’un rapporto dialettico fra i più strazianti. E ben fa Strehler a mettere, in uno dei suoi tre articoli per il pro gramma, l ’accento sulla scena dei ricordi m ilita ri di Brown, la Tigre, e sul coinvolgimento biografico- colcnialista che subito si opera nei riguardi dei gangsters. Carnefici, tutti, e tu tti vittim e. (Va detto velocemente che i tre pezzi sono eccel lenti, e appartengono a quello Strehler scrittore di cui dobbiamo lamentare i troppo scarsi saggi; e che è scrittore sul serio. Sia nella prospettiva teo rica del prim o scritto che nella saggistico-tecnica del secondo — sulla musica — o, infine, nella pura narrativa del terzo, dove i due personaggi, Bertolt e Giorgio, diventano così quotidiani e indimen ticabili). L ’America inventata da Strehler per TOpera è que sta volta il centro, illum inato dalle gelide lampade bianche e blu, della perdizione mondiale, dell’equi voco perpetuo. Le due grandi ruote da lunapark sono anche squallide ruote di biciclette giganti, ma pur sempre biciclette, come quelle con cui ogni po vero, in ogni pianura padana del pianeta, va al lavoro nella bruma dell’alba. E il muro di m attoni è tanto il muro della fabbrica quanto quello della fucilazione. Lo spettatore vorrebbe divertirsi; e in fin iti sono effettivamente i momenti godibili, aiutati dalla musica di W eill, che qui tiene spesso il campo da protagonista, com’è giusto. Ma in definitiva Strehler bada a som ministrargli una serie di docce fredde, attraverso pause tetre, rotture deliberate del ritm o, iterazioni antiliriche, avvisi ai naviganti elaborati con una segnaletica sottile. Scrivo in fretta, e non posso dilungarm i come sa rebbe necessario sul senso generale dello spettacolo e sul particolare rilievo mortuario, ma perciò stesso esemplare, che vi assume il testo. Ma non posso fare a meno di parlare degli attori. In prim o luogo, per l ’onor dell’arm i a chi ha affrontato la prova in un tempo di record, Domenico Modugno, che presta tutta la sua simbologia meridionale a un gangster da tango e da brillantina, della specie augusta di un George Raft. U n’aria di « cosa nostra » si span de intorno alla sua precisa, disciplinata, intelligen tissima prova. Ma dove il discorso strehleriano mostra tutte le sue im plicazioni è in G iulia Lazzarini, la quale sa pren dere la distanza dal proprio personaggio più ancora di quanto Brecht supporrebbe, a forza di citazioni stilistiche, di recuperi musicali, di composizioni mentali della voce e del gesto; tutto in lei è disegno, gracile e fortissimo insieme, d’una lettura critica di Brecht. E, accanto a lei, c’è la grossa « trovata » di Gianni Agus. E ancora: Adriana Innocenti, che specie quando invade la platea mostra una grinta tutta sesso e antica rivolta; M ilva, con la sua fantomatica aria alla Louise Brooks e lo scatto continuo, quasi me tallico, del corpo inarcantesi al calco del perso naggio; le varie e gustosissime reincarnazioni del D ettori; l ’ottim o Grechi; tanti altri. Dispiacerà al mio vecchio amico Gianrico Tedeschi, del quale sono strenuo ammiratore, se gli dico che il suo Peachum, malgrado alcuni momenti straordinari, è il più « naturalistico », il meno esattamente brech tiano tra i fig u ri di questa galleria degli schiavi? Tutta la misura scenica d’un testo che il secolo si porta dietro più come un brandello di vecchia bandiera che come un capolavoro da conservare (e voleva forse questo il poeta?) viene fu o ri qui, tra i m iracoli della visibile orchestra e i presagi d ’una notte che è nostra, nella quale ci sentiamo ingoiare tra l ’agguato dei mostri e il presentimento dello sfacelo. Ruggero Jacobbi A L L A T V D I L U G A N O G R Y T Z K O M A S C I O N I I N T E R R O G A L ’ U O M O C O N T E M P O R A N E O D O N G I O V A N N I F A O S T D O N C H I S C I O T T E O L I S S E q u a t t r o m i s u r e p e r i l n o s t r o t e m p o J^fon è una novità che la Televisione della Svizzera Ita liana (Lugano) stia diventando — per quel che riguarda quel settore « culturale » la cui stessa denominazione sem bra incontrare in genere la muraglia contraddittoria delle buone intenzioni e delle pratiche impossibilità giustificate dallo « scarso gradimento » pubblico — un esempio piutto sto raro per intelligenza, vivacità, coraggiosa serie di inizia tive; e quanto ci è stato promesso e mantenuto quindicinal mente fra il 19 febbraio e il 2 aprile non solo conferma, ma acuisce, proprio sul piano del coraggio della sperimentazione, questa sensazione di apertura. Il progetto, a cura del poeta Grytzko Mascioni su un’idea del saggista Roberto Guiducci, è fra i più stimolanti: dedicare un’intera serata, da telegior nale a telegiornale senza intervalli di riposo o altre distra zioni farisee, a quattro personaggi-argomenti che per il fatto di essere sufficientemente popolari da farsi intendere ormai a livello di simbolo di universali tensioni umane, non sono per questo da considerare né semplici né « leggeri » a chi voglia, se non analizzarli a fondo, almeno coglierne le com ponenti più scoperte, i loro risvolti psicologici, i loro riflessi sul costume e sulle arti in genere. Quattro figure monu mentali: Don Giovanni, Faust, Don Chisciotte e Ulisse, sulle quali e attorno alle quali si intrecciano i motivi più vivaci e complessi del pensiero occidentale, e che sono state affrontate — pur nei limiti di tempo concessi da una serata — senza tralasciare o attenuare nessun aspetto, nessuna proiezione, artistica o scientifica che sia, dal poetico al teologico, dall’etico al filosofico, dal teatrale al figura tivo. In effetti basta scorrere i nomi delle persone impli cate in quest’opera di messa a punto per rendersi conto di quali siano state le intenzioni, chiarissime, degli organiz zatori. Vi si incontrano, citando a caso, il filosofo Max Horkheimer, che già propose un Ulisse proto-borghese; il poeta Rafael Alberti; la scrittrice Armanda Guiducci, che ha curato la documentazione storica; il critico Stefano Agosti; lo psichiatra Emilio Servadio; il romanziere Max Frisch, autore di un Don Giovanni o l’amore della geome tria; Marisa Bulgheroni, scrittrice, che si è occupata della so pravvivenza dei personaggi-miti trascelti nella narrativa mo derna; i musicisti Goffredo Petrassi e Luigi Dallapiccola; lo scrittore e sociologo Roberto Guiducci, che ha diretto i gruppi di discussione; il poeta Giorgio Orelli; il dramma turgo Diego Fabbri, che ha più volte affrontato nella sua opera il tema del seduttore; e poi ancora Ladislao Mittner, David Turoldo, Giovanni Orelli, uno dei narratori più inte ressanti della Svizzera italiana, Massimo Mila, Piero Chiara, Andrea Zanzotto, Silvio Ceccato, Ruggero Orlando, Gina Lollobrigida... per non dire degli attori impegnati nella reci tazione di brani significativi dai testi originali della nascita del mito o comunque relativi al soggetto, da Franco Mole a Ottavio Fanfani, Ivana Monti, Rita Forzano, Gianni Cajafa, Alberto Ruffini, Franco Bertorelli... E poiché non si pre tende, qui, che di informare, sarà necessario aggiungere i nomi di Renato Guttuso (pannelli illustrativi), fimmy Ortelli (scenografia), Dudu Gobba (presentatrice), e Grytzko Ma- scioni e Augusta Riva (regia). Come sono congegnate que ste quattro trasmissioni rivolte a tracciare il ritratto dei In alto, da sinistra: Max Horkheimer, Goffredo Petrassi, Diego Fabbri, Giorgio Orelli, Franco Russoli, Massimo Mila, Max Frisch e Roberto Guiducci, che prendono variamente parte alle quattro supertrasmissioni di Grytzko Mascioni (qui nella foto a destra). quattro personaggi? Anche qui, con rispetto del pubblico ma senza falsi pudori. Ogni trasmissione si compone, in certo senso, di trasmissioni diverse che pur essendo fra loro legate hanno un minimo margine di autonomia: quasi pro grammi nel programma, si è potuto assistere, secondo un orario interno, allo spettacolo musicale (dal Don Giovanni di Mozart, dall’Ulisse di Daliapiccola, ecc.) o a quello teatrale (Molière, o Marlowe, ecc.), a quello cinematografico (il Faust di Mornau, il Don Chisciotte di Pabst) o a quello più spiccatamente letterario (letture da Dante, Goethe, Tho mas Mann, Borges, ecc.), forse lamentando la costrizione al frammento, ma certo apprezzando la scoperta, o la riscoperta, di testi dimenticati, di edizioni rare, di relazioni impreviste. Ogni trasmissione si chiude, poi, con un dibat tito che tende a tirare le fila, ad azzardare giudizi, a provocare reazioni, a porre ipotesi, non per volontà acca- demica, piuttosto per suggerire — a chi lo desideri — un metodo di lettura, e soprattutto per preparare il pubblico ad una prevista ripresa autunnale dei temi già posti e discussi. Il pubblico — e in qualche modo anche questa è una novità nell’impostazione di un programma culturale — non è stato inteso come elemento passivo da indottri nare, sia pur divertendo. E al gruppo iniziale di trasmis sioni è infatti legato una sorta di concorso che coinvolgerà direttamente gli spettatori fino a condurli di fronte alle telecamere per un dibattito, e si vedrà in tal modo, non astrattamente, quale sarà stata la vera rispondenza a un esperimento che a giudicare dalle premesse sarebbe da noi abbastanza impensabile, non fosse altro per quella pregiu diziale di malintesa democraticità (e di altrettanto malintesa cultura) che fondandosi su un puro calcolo di maggioranze finisce a volte con l’avvilire sia le maggioranze ridotte a media sottosviluppata di fascinati canori, sia le minoranze costrette a sparuti gruppetti accademici del già risaputo. Mi pare che la TV svizzera, senza per questo cadere in as surdi specialismi, abbia voluto affrontare il discorso senza mezzi termini, concedendo alla chiarezza del linguaggio an che nel senso della più assoluta libertà d’espressione, ma anche concedendo alla serietà dell’impostazione culturale ciò che simile impostazione pretende. E’ ovvio che in questa sede, per quanto riguarda i risultati ultimi dell’esperimen to, non si abbia altra possibilità che ipotizzare, tuttavia l’impegno con cui i responsabili hanno aggredito i sog getti, chiamando a collaborare nomi non solo prestigiosi ma realmente esperti del loro specifico settore, non può che essere sottolineato, in attesa di conferme, o magari di per plessità, che saranno in ogni caso esemplari. Roberto Sanesi In alto, da sinistra: Dudu Gobba, pre sentatrice dei quattro telespettacoli, con il pittore Franco Gentilini; Piero Chia ra, G. Mascioni e Gina Lollobrigida. durante una pausa di lavorazione. Nel riquadro a sinistra, altri quattro colla boratori: Marisa Bulgheroni, Ruggero Orlando, Giovanni Orelli e Stefano Ago sti. Qui, gli attori Renzo Fabris, Massi- Sacilotto, Ivana Monti e Ottavio Fanfani. I —/ ’anno scorso, il « Filmstudio 70 » di Roma dedicò una settimana al nuovo cinema svizzero. Durante quella mani festazione sentii un’osservazione tipica da parte di uno spettatore capitato pro babilmente a caso nel cinema: « Non sapevo che in Svizzera, a parte il for maggio e la cioccolata, si facesse anche del cinema ». Osservazione tipica perché corrispon de al solito cliché che ci si fa comu nemente di questo paese. E’ vero che la Svizzera produce il formaggio, la cioc colata, gli orologi, che è nota per le montagne, i laghi, lo Jodel, ecc. Ma è altrettanto vero che in Svizzera esiste una cultura che respinge tutti questi clichés cercando di dare un apporto alla comprensione dei problemi reali. Nell’ambito di questa cultura, il cine ma si è sviluppato parecchio nell’ulti mo decennio. Ogni anno, le « Giornate cinematografiche di Soletta » documen tano lo sforzo dei giovani cineasti indi- pendenti di contribuire mediante il loro mezzo espressivo alla continua auto- R o b e rt S c h à r riflessione e di sviluppare una coscienza critica negli spettatori. La produzione dei film essendo sem pre più vasta, quest’anno è stato neces sario estendere le « Giornate » a cinque (dal 31 gennaio al 4 febbraio). La no vità di quest’ottava edizione della ras segna sono i primi lungometraggi della Svizzera tedesca. Finora il film a sog getto è stato quasi esclusivamente do minio della Svizzera francese. Ma an che nel campo del documentario si può verificare una nuova tendenza: se l’an no scorso (vedi « Il dramma » febbraio- marzo 1972) prevalevano i film di ana lisi e indagine sociologica, quest’anno si è vista una serie di film-ritratti. X 1 fatto di concentrare l’attenzione di un intero film su un solo personaggio, ritraendolo nel suo ambiente e prenden-. do spunto dalla sua autobiografia e dal credo artistico, politico o filosofico, può avere diverse origini. Il cineasta può essere impressionato dal la personalità o singolarità di un deter- minato personaggio e sentire il bisogno di farlo conoscere ad altri: è il caso del film Max Daetwyler - Versuch einer Dokumentation (Max Daetwyler - Ten tativo di una documentazione). Munito di una grande bandiera bianca, il vecchio Signor Daetwyler conduce da decenni la sua battaglia privata per la pace mondiale. Niente di meno. La gen te lo considera un folle e sorride quan do appare nelle strade affollate di Zu rigo, Berna o Ginevra. Con straordi naria ingenuità si reca al parlamento durante le sessioni ed è ricevuto dai consiglieri e dai capi dello Stato. Negli anni ’50 è andato in America per la sua causa, e, non avendo i soldi per i mezzi di trasporto, ha camminato a piedi sul l’autostrada da New York a Washing ton per parlare al Presidente degli Stati Uniti. Altrettanto ha fatto a Mosca. Dato che i Capi di Stato non riuscivano a realiz zare la pace, lui, Max Daetwyler, si era proposto di insegnar loro come la si doveva fare. Questa sua ingenuità lo ha portato di verse volte in prigione o al manicomio: intendere la pace alla lettera è consi derato una pazzia nella società odierna. Purtroppo, l’autore del film, Norbert Feusi, non ha saputo interpretare il fe nomeno Max Daetwyler. Ha semplice- mente registrato delle dichiarazioni il lustrandole con delle immagini che non danno nessun apporto. La colonna so nora è completamente autonoma e po trebbe benissimo essere un’emissione radiofonica con lo stesso valore infor mativo del film stesso. T_Tn altro criterio per la realizzazione di un film-ritratto può essere di ordine economico. La televisione compra facil mente dei filmati su personalità note. Basta scegliere il personaggio giusto, quello alla moda, e il guadagno è as sicurato. Qualche cineasta ha ceduto anche a questa tentazione. Un esempio molto chiaro di una tale scelta presenta il film The baddest daddy in thè whole world, film-ritratto del pugile Cassius Clay. Gli ingredienti di questo lavoro sono: un po’ di brutalità, un po’ di scan dalo, un po’ di buon umore finto e tanta, tanta mistificazione. Chi non vor rebbe vedere un film sul campione mon diale del pugilato? Non importa se è fatto bene o male, il nome del protago nista assicura già un discreto successo. film speculativi è Il difetto di tali Alcune sequenze del film « Alfre do R. - Una vita e un film» di Georg Radanowicz che esaltano il « personaggio » come tale, non mettendolo in questione per niente e non cercando di analizzare il fenomeno che esso rappresenta. La stes sa cosa è successa con un film sul pitto re svizzero Hans Erni, rappresentante della cultura con la « C » maiuscola, e, peggio ancora, con il film Ruzo, finan ziato dal pittore stesso che sentiva il bisogno dì essere ampiamente ritratto su pellicola. Come fare allora un film-ritratto? E’ possibile fare un film su un personaggio senza lasciarsi completamente condizio nare da esso? Ci pare che Fredi M. Mu- rer abbia trovato una via valida con Passagen. Anche in questo caso ci è pre sentato un pittore. Ma Murer ha saputo evitare la piatta riproduzione della fac cia dell’artista e dei suoi oggetti. Innan zitutto il punto di partenza dell’autore sta nella coscienza dell’affinità tra il suo lavoro come cineasta e quello del personaggio ritratto. Murer proviene dalla fotografia e ha condotto nei suoi film precedenti un’indagine sistematica sul valore e l’uso dell’immagine. Girare un film su un pittore, per lui significa andare alla ricerca della genesi di un quadro, trovare gli stimoli che induco no l’artista ad esprimersi attraverso un determinato mezzo più che un altro. X 1 pittore H.R. Giger appartiene alla corrente del realismo fantastico. Nelle sue opere si riscontrano degli influssi estetici che vanno da Bosch a Dall, ma i contenuti, spesso apocalittici, prendo no sempre spunto da una situazione at tuale, contemporanea. Giger è un arti sta che vive nel suo tempo e che si capisce come elemento dialettico nella società. Traendo stimoli da esperienze private e ricordi d’infanzia riesce a fare il salto dall’ambiente privato verso l’in terpretazione di conflitti che riguardano la collettività. Murer analizza i mecca nismi psicologici e i processi creativi interpretandoli come elementi di lavoro non soltanto di Giger stesso, ma anche del lavoro creativo in generale. Riesce in questo modo anche lui a fare il pas saggio dalla soggettività ad un’oggetti- vità, passaggio che ha sempre tentato nelle sue opere precedenti. A questo elemento del passaggio accenna anche il titolo del film: Passagen, che è anche il titolo di un quadro di Giger. Il film si rivela altrettanto un ritratto dell’autore quanto del personaggio del pittore. Ed è ancora di più: durante la lavorazione Giger si è sentito stimolato da Murer e viceversa. Il film rimane dunque documento di un incontro dia lettico tra due artisti di categorie di verse superando in questo modo il con cetto limitativo del « personaggio ». Ci pare che questa sia la sola possibi lità di fare un film-ritratto oggi: non essere semplicemente riproduttivo come cineasta, ma cercare il confronto con l’altro superando la propria individua lità. I j n altro genere di pittura ci propone Richard Dindo nel suo film Naive maler in der Ostschweiz (Pittori primitivi nel la Svizzera orientale). Dindo ci confron ta con l’universo di pittori che non si fanno idee precise sull’arte, che non fanno dichiarazioni programmatiche e che non conoscono la storia dell’arte. Dipingono semplicemente ciò che ve dono o ciò che immaginano. Un’operaia, un operaio, un cameriere e un mano vale ci raccontano perché si sono mes si a fare della pittura, come vivono, quali sono i loro temi preferiti. Vivono più o meno isolati, di tempo in tem po ricevono la visita del solito collezio nista che ha scoperto il filone dei « pri mitivi » e gli sono devoti per i 150 fran chi che ottengono da lui per un quadro, ignorando che questi lo rivenderà per un migliaio di franchi. Non c’è com mento in questo film: i pittori e le loro opere parlano abbastanza chiaro. Il merito dell’autore sta proprio nel fatto di lasciare che questi pittori si presentino loro stessi, senza giudizio critico da parte sua. Ogni valutazione delle opere e degli artisti sarebbe risul tata paternalistica e prepotente. Nei pri mitivi non è il pittore che deve essere spiegato, è lo spettatore che deve sfor zarsi a capire il loro linguaggio, siamo noi che dobbiamo cercare un approccio, liberandoci da tutti i pregiudizi che im pediscono una comprensione delle cose più elementari. Richard Dindo ci aiuta rispettando i pittori presentati nelle lo ro dichiarazioni, senza valorizzare me diante un montaggio cinematografico certe frasi o minimizzarne altre: tutto ciò che dicono ci è riferito, la scelta la deve fare lo spettatore. E chi sa co gliere quest’occasione, chi sa ascoltare e guardare, scopre che questi quattro pittori cosiddetti primitivi hanno molto da dire. !P eter Ammanti, che l’anno scorso ave va presentato un film-inchiesta sui can toni svizzeri che hanno rifiutato il di ritto al voto per le donne, è tornato con il suo nuovo film a una tematica che aveva già trattato nel primo film: l’emigrazione. « Dopo Braccia sì, uomi ni no volevo fare un film che non trat tasse soltanto la situazione dei lavoratori italiani in Svizzera, ma che li mettesse in rapporto con il loro paese d’origine», dice Ammann. L’occasione si è presen tata durante le ultime elezioni generali, quando migliaia e migliaia di emigrati sono tornati in Italia per dare il loro per un cambiamento. Mentre però la leggenda è romanticizzata e sganciata dalla situazione presente, i viaggiatori verso l’Italia parlano della loro propria condizione reale. Questo contrappunto è molto efficace e funziona a lungo — finché il film abbandona gli emigrati e si concentra sempre maggiormente sul tema di Teli, riproposto in un montag gio parallelo di tre rappresentazioni del la leggenda: lo spettacolo folcloristico su Teli a Interlaken, una messinscena dell’opera omonima di Rossini al Teatro Comunale di Firenze e una farsa di un gruppo sperimentale italiano. A Soletta c’era anche un film girato e interpretato da un gruppo di emigrati italiani: Lo stagionale. Con molti ri chiami al neorealismo italiano, questo film racconta le difficoltà e i problemi che incontra il lavoratore straniero in Svizzera e le situazioni assurde che si presentano quando la legge viene ap plicata rigidamente. Non avendo il di ritto di portare la sua famiglia in Sviz zera in quanto lavoratore stagionale, il protagonista deve — dopo la morte del la moglie — o nascondere il figlio o lasciarlo solo in Italia. voto. I treni speciali che li portano a casa sono chiamati « treni rossi » perché il rosso vi domina: da qui il titolo del film, Treno rosso. Il film inizia con un montaggio affa scinante: sul treno contrappone i lavo ratori agli allievi di una classe di una scuola elementare svizzera in gita verso i luoghi storici della leggenda di Gugliel mo Teli. I lavoratori parlano di op pressione, di ingiustizia, di necessità di un cambiamento, e anche la mae stra racconta ai bambini come Teli lot tò contro l’oppressione e l’ingiustizia, Molto bello, anche se potrebbe essere più conciso e differenziato. Il guaio è soltanto che Ammann lascia perdere gli emigrati completamente, cedendo al fascino delle sfumature della leggen da di Teli. Non vediamo così il ritorno del treno rosso dopo le elezioni e non sappiamo più nulla dei lavoratori. Una bellissima idea, quella di seguire con la cinepresa un treno di emigrati italia ni dalla Svizzera fino in Calabria con trapponendo quest’esperienza con la si tuazione svizzera; peccato sia stata svi luppata soltanto a metà. Da quando esistono le Giornate cine matografiche svizzere di Soletta, Michel Soutter vi ha presentato i suoi film: La lune avec le dents, Haschisch, La pomme, James ou pas, e ora Les arpen- teurs (I geometri), che l’anno scorso rappresentò la Svizzera al Festival di Cannes. Anche in questo nuovo film, Soutter approfondisce il suo tema dominante: la difficoltà dei rapporti tra gli uomini, l’inafferrabilità dei sentimenti i quali, appena definiti, sfuggono; l’isolamento di persone che si distaccano dal mondo attuale per una ricerca di sentimenti e rapporti autentici. Non ci racconta una storia, presenta delle situazioni che na scono in una casa della campagna gine vrina tra un gruppo di persone che si incontrano casualmente. Uno di loro è geometra, cioè l’uomo che misura le di stanze e i rapporti tra le diverse di stanze, come l’autore, Soutter, misu ra le distanze e i rapporti tra gli uo mini, i suoi personaggi. A questo geo metra capita di conoscere per caso una ragazza della quale si innamora. Ma do po il primo incontro non la ritrova più. La casa dove l’ha vista appartiene ad un’altra ragazza. in trecciano e si confondono, cercano di ritrovarsi o ingannarsi con trucchi e bugie. Tutto è invertito, la verità si fa bugia, la bugia diventa verità. Amore e amicizia si dissolvono alla superficie del le apparenze, niente è afferrabile, tutto rimane nel vago. Eppure, i personaggi continuano a incontrarsi senza punti di riferimento precisi. Alle volte nasce un contatto, fragile come i personaggi stes si, bello perché unico, irripetibile. Tutto questo è reso con immagini estrema- mente sobrie, senza alcuna ricerca for male, con una straordinaria cura per il I personaggi si gesto, valorizzato nella sua durata e nel suo spazio, inteso come elemento auto nomo di comunicazione. Abbiamo detto che il lungometraggio è stato finora un dominio della sviz zera francese. Quest’anno si è visto a Soletta il primo lungometraggio del la parte italiana della Svizzera, Storia di confine, del ticinese Bruno Soldini. Realizzato con mezzi di produzione considerevoli, questo film racconta la storia di una giovane guardia di con fine svizzera che, dopo aver sparato su un contrabbandiere, ha dei rimorsi e finisce per essere ucciso a sua volta. Della Svizzera tedesca si sono visti ben tre nuovi lungometraggi. Due di essi sono stati co-prodotti dalla televi sione — anche e soprattutto in Svizzera la televisione è un fattore determinan te nella cinematografia — dato che il Sopra: un’inquadratura del film di Richard Dindo « Pittori primi tivi nella Svizzera orientale »; a sinistra, Ingrid Caven in una sce na di « Stanotte o mai » di Daniel Schmid. paese è piccolo, un film non può mai sperare di incassare nelle sale i soldi impiegati per la produzione. Il sostegno della televisione è necessario. Non vogliamo soffermarci su Hannibal, film lunghissimo su un ragazzo sviz zero che naufraga su un’isola greca e vi conduce una lotta per la sopravvi venza. Più interessante ci pare Alfred R. - Ein Leben und ein Film (Alfred R. - Una vi ta e un film) di Georg Radanowicz. Du rante 100 minuti vediamo un solo perso naggio (interpretato da Xavier Roller, regista di Hannibal) in pochi ambienti. Lo vediamo nelle ultime ore che prece dono il suo suicidio. Delle cause che lo inducono a tale gesto ne sappiamo po chissimo: depressione morale, difficoltà di comunicazione, impossibilità di adat tarsi alle esigenze della società moderna, rifiuto della gara al successo. Il perso naggio è ridotto ai rapporti con gli og getti che lo circondano e il film non fa altro che seguirlo nei suoi gesti stanchi che evidenziano l’apatia e la rassegna zione totale. La continua presenza sullo schermo di questo solo personaggio svuotato diven- ta un’ossessione e rimane impressa nel la mente dello spettatore anche giorni dopo la visione. Il merito del film sta soprattutto in questa forza sensitiva. Non mettendo però il personaggio in rappor to con il suo ambiente sociale, i condi zionamenti concreti, il film non va oltre un bellissimo esercizio formale senza dati informativi aldilà dell’espressività. Il film più singolare prodotto l’anno scorso in Svizzera è senza dubbio Heute Nacht oder nie (Stanotte o mai) di Daniel Schmid. Il giovane regista ha realizzato questo lavoro in due setti mane in un solo ambiente: il salotto dell’albergo « Schweizerhof » di Flims, dove è nato e cresciuto essendo figlio di alberghieri. L’idea-base del film è originalissima e prende spunto da una tradizione della famiglia Esterhazy, la quale per duecento anni di seguito or ganizzò una festa annuale in onore di San Giovanni Nepomuceno. In quel le serate i padroni di casa e i servi si scambiavano le loro funzioni per quat tro ore, dalle otto a mezzanotte. I servi si mettevano a tavola, e i padroni ser vivano loro la cena. Daniel Schmid ha sviluppato quest’idea aggiungendo una troupe di commedian ti che rappresentano davanti ai servi brani scelti di melodrammi, canzonet te degli anni 30, tanghi languidi, imi tazioni di divi del cinema, ecc. Da vanti ai servi-padroni sfila così un ricco programma di cultura borghese. Gli spettatori rimangono passivi, stanchi, incapaci di reagire a qualsiasi stimolo. E quando uno dei commedianti pronun- Suggestiva inquadratura di « Tre no rosso » di Peter Ammann. eia prudentemente le parole: « Ed ora, credo che sia giunta l’ora della rivolta », anche il suo discorso è inteso — sia da parte dei servi che dei padroni — come elemento del programma, come scherzo da consumare ed applaudire. A mezzanotte, padroni e servi si danno la mano e l’ordine è ristabilito. L’intero rituale viene eseguito con ge sti e movimenti estremamente lenti, co me se fossero filmati col rallentatore; nella prima scena si potrebbe perfi no avanzare questa ipotesi, ma sareb be troppo facile: non è la cinepresa che trasforma il comportamento dei per sonaggi, sono i personaggi stessi che hanno assunto un atteggiamento tal mente passivo che ormai non sono più capaci di muoversi normalmente. Stan chi, flosci e anemici, sono i rallenta tori della storia, coloro che impedisco no uno sviluppo attivo. Attraverso il film soffia un’aria di de cadentismo e di nostalgia. I colori mor bosi e raffinati (curati dal bravissimo Renato Berta, uscito dal Centro Speri mentale di Cinematografia) accentua no questo elemento inteso dall’autore come citazione critica. Un genere di critica ambigua: troppo spesso il tenta tivo di denuncia fa posto al gusto e al fascino proprio di ciò che vuole es sere denunciato. Per giunta, il film è fondamentalmente pessimista. Per i ser- vi non c’è via d’uscita. Condizionati dal la mentalità dei loro padroni, non riu sciranno mai a provocare un cambia mento della loro situazione. L’unica oc casione che il gioco offre loro, la soli darietà dell’artista eversivo, i servi non la capiscono. Vogliono proprio ri manere come sono: oppressi e sfruttati. Una critica per niente costruttiva. Anzi: disfattista, rassegnata, per non dire qualunquista. Il merito del film sta piuttosto su un altro livello: nella brillante descrizione dei personaggi, nell’uso dell’ambiente, nel rigore formale. Tutti quei gesti ral lentati fino all’insopportabilità costrin gono lo spettatore a sviluppare un rap porto diverso con lo schermo, inducono a una ricerca di un modo diverso di guardare l’immagine cinematografica. Anche se il film è discutibile dal punto di vista contenutistico, questa qualità è innegabile e lo rende degno d’essere visto. Oltre la vasta informazione sul cinema svizzero che Soletta offre ogni anno, la manifestazione di volta in volta permet te anche di fare una verifica della si tuazione politico-culturale in Svizzera riguardo al cinema. I temi più discussi tra giornalisti e cineasti sono infatti la partecipazione statale nel cinema, lo sviluppo di strutture distributive alter native, il rapporto tra cinema e televi sione. Spesso non si giunge a conclusio ni definitive, ma si creano delle basi che servono come punto di riferimento per l’anno seguente. Robert Schar Q U A D R I E N N A L E f i g u r a t i v a L u ig i L a m b e rtin i e n o 157 Finalmente, e a sette anni di distan za dall’ultima edizione, la Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma ha preso il via ed è ormai una realtà che si svi lupperà in tre distinte ma collegate ras segne fino al maggio prossimo. Le ra gioni di una così lunga gestazione sono numerose e rispecchiano il travaglio in cui, in questi anni, si dibattono le gran di mostre alla ricerca di una più dina mica struttura. Quindi, per quanto con cerne la Quadriennale, si doveva uscire dalle secche dell’antico salon; era ne cessario insomma un taglio nuovo, ade rente ai tempi. E’ stato pertanto nomi nato un comitato consultivo che, insie me al consiglio di amministrazione del l’Ente, ha affrontato il tema alle sue radici. E’ stata così abolita la tradizio nale ammissione d’opere d’arte attra verso il giudizio di una giuria di accet tazione (tale metodo di ammissione è previsto unicamente per una futura mo stra di artisti giovani), sono stati abo liti i premi ed i premi-acquisto ed è stato soppresso anche l’ufficio vendite, che è stato sostituito da un semplice servizio di segreteria per facilitare i contatti fra gli eventuali acquirenti e gli espositori. Le proposte più signifi cative del comitato consultivo, sancite dal consiglio, riguardano l’accettazione di funzioni e finalità didattiche; un’at tività espositiva e culturale continua, organica e programmata nel quadrien nio entro i limiti del bilancio. Inoltre si è puntato sull’adozione di criteri sto rico-critici in maniera tale da evitare mostre puramente espositive e si è ri conosciuta piena validità a tutte le for me dell’arte contemporanea. Le maggiori discussioni sono nate al lorché s’è dovuto decidere se la mo stra andava strutturata in un’unica ras segna o in tre mostre immediatamente successive « a guisa di tre capitoli di un unico libro ». Quest’ultima tesi è prevalsa di misura per una serie di ra gioni anche di carattere pratico. Si vo leva evitare, proprio per i criteri sopra illustrati, che gli invitati partecipassero con una sola opera e quindi si doveva contemporaneamente tener conto anche di problemi di spazio. Non sono man cate d’altra parte (fra critici, artisti e rappresentanti di sindacati, etc.) altre ragioni da ricercarsi essenzialmente in prese di posizione di carattere critico poetico per non dire addirittura di di fesa delle proprie posizioni o di nega zione di altri tipi di realtà estetiche. Vista pertanto nel suo complesso e sot to simili prospettive, la decima Qua driennale era assai vicina ad una so luzione ottimale ma purtroppo le ten sioni cui accennavamo hanno favorito quella tripartizione che, stando per lo meno alla prima manche, lascia piut tosto perplessi. Infatti la prima mostra è dedicata a quelli che vengono defi niti come gli « Aspetti dell’Arte Figu rativa Contemporanea » ed alle « Nuo ve Ricerche d’immagine » e sotto tali i illustrati etichette vengono presentati artisti dalle poetiche più diverse, accomunati senza alcuna distinzione dall’ambiguo termi ne di « figurativo ». E l’equivoco è chiaramente ribadito da una carenza di carattere didattico, poiché neppure in catalogo si spiega al destinatario della rassegna, cioè al visitatore, che non sempre è addentro alle cose dell’arte, quali siano ad esempio le differenze tra un’opera di estrazione realistica ed un’altra di carattere fantastico-surreale, sia pur ottenuta con il ricorso ad ele menti « figurativi », ma che per la loro collocazione entrano in una dimensione del tutto diversa. Parleremo, più in là, della rassegna sul la « Situazione dell’Arte Nonfigurativa » (31 gennaio - 18 marzo 1973) e resta da vedere come sarà articolata quella dedicata alla « Ricerca Estetica dal 1960 al 1970 » che si aprirà il 26 apri le per concludersi il 27 maggio. Sa rebbe sufficiente che, proprio sul piano didattico-documentativo, venisse ro chiaramente termini delle scelte e si procedesse ad uno studio analitico per illustrare caratte ristiche e posizioni dei principali atteg giamenti estetici. Tutto ciò manca nella mostra di cui stiamo parlando e perfino la dichiarazione sottoscritta dall’appo sita commissione di studio congiura in tal senso. Riferendosi alla sezione « Nuove Ricerche d’immagine » si af ferma infatti che « sono presentate ope re di artisti, in prevalenza giovani, che più direttamente testimoniano della cul tura e della problematica odierne ope rando nell’ambito della figuratività ri volta ad una oggettivazione del mo mento estetico ». E questo è tutto, sen za essere neppure troppo chiaro. Comunque una soluzione per evitare ripartizioni troppo drastiche la si po teva trovare — ma fino a che punto i dissidi, le tensioni e gli interessi di gruppo od individuali lo avrebbero con sentito? — assegnando alla prima mo stra un carattere storico-commemorati vo che, scendendo fino ai nostri giorni, comprendesse anche i maggiori espo nenti, tuttora operanti, di qualsiasi ten denza (figurativa, astratta, non-figura- tiva etc.). In tal modo su di un piano storico-critico la rassegna avrebbe avu to una sua dialettica. Nel caso di qual che rifiuto, al catalogo, strutturato in maniera veramente didattica, avrebbe potuto essere demandata la documen tazione della lacuna espositiva con ri- produzione di opere ritenute fondamen- In apertura: Scipione « Cardinal decano » (1930). Nella pagina pre cedente: Carmelo Cappello « For ma, luce, spazio » (1912). Nella pagina seguente: Gentilini « Ada mo ed Èva» (1972). tali per la compiutezza del discorso. Ma si poteva correre un rischio del genere date le animosità? E’ indubbia mente difficile rispondere * a priori a tale quesito. Accettata per buona que sta soluzione, le altre rassegne avreb bero potuto essere dedicate, sempre su di un piano di comparazione storico critica, alle giovani generazioni. A parte queste considerazioni di fondo, nelle quali abbiamo ampiamente tenuto conto delle obbiettive difficoltà incon trate, e con l’auspicio che l’Ente possa svolgere, com’è nei suoi disegni, un’at tività espositiva e culturale continua per la durata di ciascun quadriennio, liberandosi in tal modo di certe remore che una rassegna a largo respiro com porta, vediamo come la prima « punta ta » di questa Quadriennale è stata rea lizzata. / l d accogliere i visitatori — quanto mai numerosi —- in cima all’ampio sca lone del Palazzo delle Esposizioni vi sono due sculture di Agenore Fabbri che raffigurano un uomo ed una donna dal ventre squarciato. Questi personag gi sono seduti su alte sedie che paiono trespoli e che si trovano ai lati dell’in gresso. Una volta entrati non resta che seguire i propri passi e visitare i vari saloni nei quali sono disposte le opere dei 119 artisti partecipanti su invito e le rassegne storiche. A pianterreno, nelle sale prospicienti l’entrata, sono state col locate le sculture e la bella retrospettiva dedicata a Mirko Basaldella. Nelle altre sale, accanto alle mostre che ricordano due giovani di talento, purtroppo pre maturamente scomparsi, Domenico Gno- li e Bepi Romagnoni, sono state dispo ste le opere degli invitati, ciascuno con un massimo di sette pezzi. Le retrospet tive di Massimo Campigli, Mario Cava- glieri, Gino Severini, Carlo Carrà ed Achille Funi sono state allestite al pia no superiore del palazzo e, nonostante non superino le venti opere ciascuna, offrono una visione quanto mai com prensiva dell’arte di questi pittori. Ol tre a quelle di Campigli, Severini e Carrà, assai intense, un cenno parti colare merita quella di Mario Cava- glieri, un pittore liberty poco cono- sciuto, originario di Rovigo, morto in Francia all’età di 82 anni nel 1969. E’ un pittore di estro e di una leggiadria sensuale, di una partecipazione pregnan te alle sottili vicende di istanti colti a volo che in un colore quanto mai vi brante trovano un’autentica esaltazio ne, una testimonianza. Il senso del tem po e delle cose che in esso si pongono — un tempo-spazio, dunque — è un’al tra delle caratteristiche di questo arti sta che ebbe praticamente una risco perta meritoria nella mostra presen tata da Carlo Ludovico Ragghianti nel 1967 a Firenze: « Arte Moderna in Ita lia 1915-1935». Sempre seguendo l’itinerario dell’espo sizione diremo che accanto a queste retrospettive è collocata la rassegna sto rica intitolata « La linea della ricerca figurativa in Italia dal Verismo dell’ul timo Ottocento al 1935 », che, ferman dosi appunto al 1935, ripete la discu tibile limitazione della rassegna fioren tina dianzi citata. A parte questo va sottolineato che si tratta di una panora mica quanto mai articolata anche se si sono incontrate notevoli difficoltà nel reperimento delle opere. I capolavori sono numerosi. Menzioneremo il Riposo di Giovanni Fattori, Il bambino presso l’asilo del boccone di pane di Medardo Rosso, Alle cucine economiche di Por ta Nuova di Attilio Pusterla. Quest’ul timo dipinto costituisce un’autentica ri scoperta. Purtroppo del Pusterla non si possiede molto e poco si conosce. E’ un pittore che racconta storie di umile gente ed evidenziandone i caratteri rie sce ad esprimere quel senso di pacata e sofferta acquiescenza ad un destino quanto mai triste. E’ un quadro insom ma che non si dimentica. Vanno ricordate inoltre le opere di De Nittis, Boldini, Segantini, Previati, Po lizza da Volpedo e Galileo Chini ed anche le sculture di Bistolfi e Canonica. Ma c’è dell’altro e si tratta di incontri quanto mai stimolanti e suggestivi, co me La fantesca di Modigliani e opere di Balla, Boccioni, Arturo Martini (il famoso Tobiolo), De Chirico con le sue enigmatiche e fondamentali Muse In quietanti e poi Sironi, Casorati, Rosai, Savinio, Guidi, Morandi e Tozzi. Per quanto concerne il settore degli « Aspetti dell’Arte Figurativa Contem poranea » sono in sicura evidenza scul tori come Venanzo Crocetti, Emilio Gre co, Giacomo Manzù e Marcello Ma- schermi, il quale, in particolare, ci ha fatto conoscere opere intimamente ani mate nella loro ieratica e stilizzata com postezza. Per la pittura sono da sotto- lineare i drammatici Occhi nello spazio di Virgilio Guidi, gl’impetuosi racconti densi di colore di Ennio Morlotti, l’ari stocratico equilibrio pieno di umori del le composizioni di Bruno Saetti ed inol tre i dipinti di Arnaldo Ciarrocchi, Fran co Gentilini e Carlo Mattioli. A proposito delle « Nuove Ricerche di Immagine » (che assai opportunamente in sede di allestimento non sono state tenute isolate in un unico gruppo) pos siamo citare come particolarmente si gnificative le presenze di Adami, Baj, Bertini, Biasi, Stefania Bragaglia Guidi, Cagnone, Calandri, De Vita, Finotti, Gaiani e Guerreschi ai quali si aggiun gono i sempre bravi Fieschi, Marotta, Titina Maselli, Pozzati, Vangi e Schi fano. In linea di massima, per quanto riguarda sempre la selezione di questa parte della prima « puntata » della de cima Quadriennale, va posto in risalto che, a parte le diverse personalità e posizioni poetiche, prevalgono da un lato — se è pur giusto ridurre sotto co muni denominatori individualità distin te — una sensualità qualche volta cosi ovvia e banale da nemmeno disturbare, dall’altro un atteggiamento che, rical cando luoghi comuni politici, cade in una convenzione a suo modo confor mistica. menticati i quadri di Tino Vaglieri, cru deli e feroci come i soggetti che raffigu rano. In un clima surreale, che non si può certo confondere con la non-figura- zione, rientrano le grifagne immagini di Gianni Dova mentre per Roberto Crip- pa la realtà vista da un angolo diverso diviene visione fantastica in un gioco astrattivo di rapporti e suggestioni par ticolari: a voler essere sintetici in Dova si ha il sogno rivisto, in Crippa la visione reinventata. Un rapporto ancora più immediato e diretto con il reale lo troviamo in Edoar do Devetta dai poetici paesaggi filtrati tramite colori dolci e suadenti; in Re nato Bruscaglia le cui finissime acque- Qui sotto: Dino Basaldella « Alfa Centauri» (1967). O enza alcun dubbio, e senza voler essere sostenitori di una sia pur larga tendenza più che di un’altra, si può ben dire che la seconda puntata della Qua driennale sia assai più stimolante di quella precedente. Certo che i limiti e le contraddizioni, legati all’impostazio ne generale della rassegna nel suo com plesso — ci riferiamo alla tripartizione ormai nota e della quale abbiamo già scritto — sono risultati evidenti in ma niera quanto mai palese. Sarebbe però fuor di luogo infierire oltre misura tan to più che si conoscono bene quali sia no i condizionamenti di vario genere che — come sempre accade in manife stazioni simili — hanno ostacolato ed anche sviato le pur buone intenzioni dei responsabili dell’Ente; tuttavia non si possono tacere determinati aspetti. Pren diamo in esame, ad esempio, il termine « ncn-figurativo » che si ritrova nel ti tolo della mostra che stiamo trattando. Non è nostra intenzione perderci in que stioni di carattere terminologico tanto più che gli « ismi » e le etichette, so vente fuori luogo, nella critica d’arte non mancano di certo; comunque la chia rezza di idee sul significato delle pa role non guasta, specie in questa disci plina e proprio per le ragioni di cui so pra. Ora, riteniamo che « non-figura- tivo » abbia assunto un significato pre ciso, cioè proprio di un’opera eseguita senza che l’artista interpreti una realtà a lui esterna, meglio, intesa come il pro dotto dell’artista la cui intuizione o in venzione è autonoma, non legata ad un fatto vissuto o visto: si pensi, ad esem pio, a Mondrian. Tutto questo non deve essere confuso con la cosiddetta arte astratta, definizione quanto mai ampia e se si vuole anche imprecisa. Qual cuno potrebbe obbiettare infatti che qualsiasi opera d’arte è in fondo pur sempre un’astrazione. In senso lato essa abbraccia le diverse forme di astrazione dal reale che rimane pur sempre il punto di partenza dal quale l’artista si muove e che logicamente può avere diversi gradi. La mostra di cui stiamo scrivendo, dedicata alla « Situazione dell’arte non figurativa », contrariamente a quanto avrebbe dovuto essere, presenta nume rose opere la cui impostazione è tutto fuorché non-figurativa. Si prendano co sì i dipinti di Giacomo Soffiantino che interpretano con notevole trasporto l’esistenziale viaggio all’interno dello studio del pittore al punto che il sogno diventa spleen; non vanno neppure di- forti riescono ad essere una lirica e con temporaneamente drammatica annota zione di stati d’animo, quell’annotazio ne di stati d’animo che in un altro inci sore di notevole valore, Francesco Fran co, diventa movimento e dialettica, addi rittura ritmo di spazi. Giorgio Celiberti, da parte sua, presenta le ormai note ar cheologie nelle quali una metafisica d’insieme compendia il senso del tempo e del divenire mentre una particolare dimensione spazio-temporale, mediata da un acuto senso dell’esistere quale esperienza pagata quotidianamente, la si ha nei drammatici dipinti di Bruno Pulga. Simona Welter d’altro canto pro pone con le sue opere un ritorno alla infanzia che solo a prima vista però ap pare tale. Le immagini infantili e le pa role, buttate giù come su di un qua derno di brutta copia, posseggono infatti tutto il lancinante senso dell’esistere che in nessun modo una verifica ed una constatazione riescono, nonostante la li rica allusione che posseggono, a risol vere. Proseguendo nella visita alla mostra che, come la precedente, è stata allestita nel Palazzo delle Esposizioni di Roma, possiamo notare come questo essere in un particolar modo nel tempo, ed avere quindi una collocazione nello spazio, trovi in numerosi pittori ed anche in alcuni scultori differenti formulazioni delle diverse desinenze di estrazione vuoi spaziale, vuoi di discendenza an cora, sia pur alla lontana, informale. In Edmondo Bacci ciò si esprime attraver so una solare esplosione di colori, in Luciano Gaspari è libera ed accesa flut tuazione; in Gino Morandis diviene di namica giustapposizione di piani. Esi stono però artisti che seguono altri indi rizzi avendo come filtro non più il sen timento o la memoria bensì un partico lare vigore intellettuale. Citiamo quin di, fra i primi, i nomi di Carlo Batta glia, di Gastone Biggi, di Franco Gri- gnani, di Claudio Verna, di Riccardo Guarneri, di Guido Strazza, di Antonio Calderara e Mario Deluigi. In ciascuno di questi pittori — come già abbiamo detto — è il rigore intellettuale a do minare, a prevalere, sia che svolgano un’indagine sul colore e sullo spazio, oppure sul colore-luce o sullo spazio quale dialettica posibilità di forme e di situazioni. Sono queste indubbia mente le sale più rigorose dell’inte ra rassegna ed è un vero peccato che (volutamente o meno) ci si sia dimen ticati di invitare un artista della por- tata di Eugenio Carmi, la cui poetica è pur sempre improntata ad un aspetto essenzialmente di indagine razionale. Altre presenze che ci paiono veramen te qualificanti sono quelle di Ermanno Leinardi, di Carla Accordi e di Piero Dorazio che espone tre dipinti a prima vista aggressivi, ma poi suadenti per il calibratissimo ritmo di colori che in una festosa accensione sono organizzati sul la tela. Per non dilungarci troppo dobbiamo limitare a poche parole la menzione dei quadri di Arturo Bonfanti che merite rebbero ben di più. Una dolcezza che è rigore e fatto squisitamente tonale or ganizza in essi spazio e forma. Cosa dire inoltre di Mario Radice i cui di pinti sono una palpitante testimonianza di una letizia e di una seconda gioventù che il Maestro comasco affida alle sue composizioni? E cosa aggiungere che non sia già stato scritto a proposito di Mauro Reggiani che si rinnova conti nuamente riprendendo tuttavia e di vol ta in volta quel personale discorso che da anni porta avanti? Anche le opere di Luigi Veronesi sono caratterizzate da una notevole misura cui non è disgiunto un particolare lirismo come pure, in ma niera diversa, nei dipinti di Giovanni Korompay e di Bice Lazzari, una pittri ce che meriterebbe una notorietà ben più ampia per la sua lunga ricerca, d’al tronde molto bene documentata in una personale che tiene in questi giorni, sempre a Roma, allo Studio SM13. Prima di passare agli scultori vor remmo soffermarci sui dipinti di Giu seppe Santomaso, che sono architetture di spazi animate dal colore, e sulle drammatiche tensioni dei quadri di Emi lio Scanavino. Ad altra generazione ap partengono Valentino Vago, Claudio Olivieri, Mario Raciti e lo « sconcertan te » Lucio Saffaro che riesce con inven zioni geometriche dalla rinascimentale desinenza ad esprimere l’ambivalenza e l’ambiguità dei nostri giorni. Un’artista trentina infine, Cesarina Seppi, che pre senta dipinti ed anche serene e gaie sculture luminose in acciaio e cristallo, in cui la materia diventa un pretesto per liriche allusioni, ci offre la possibilità di passare direttamente agli scultori, la cui selezione a dire il vero pecca un po’ troppo di perbenismo. In linea di massima infatti sono stati chiamati nella rosa delle generazioni nomi piuttosto consueti e — mentre ciò non si è avu to, entro certi limiti, per i pittori — pare proprio che sia mancato il coraggio di uscire da un simile schematismo. Ma non si può pretendere tutto anche se sarebbe stato assai più interessante apri re la selezione, con un più attento do saggio, a qualche ulteriore giovane ar tista. J j e presenze attraverso le quali si è avuta una conferma di valori nell’ambito di una logica evoluzione si aprono con Alberto Viani, le cui sculture posseggo no come sempre un’aristocratica ed ele gante stilizzazione geometrizzante. A queste si possono contrapporre per la loro tematica struttura quelle in pietra di Lorenzo Guerrini. Per quanto con cerne Andrea Cascella va sottolineato un senso della struttura più conciso se 10 si raffronta a quello che troviamo nelle sculture del fratello che alludono ad una dinamica interna dovuta ad aperture ed incastri. Una dinamica del tutto diversa l’abbiamo invece con le lineari e leggere volute di Carmelo Cap pello ed in un certo senso anche nella ferrigna scultura di Umberto Mastroian- ni ove si nota come il ritorno alla geo metria sia particolarmente felice per l’animata allusione a strutture che han no qualcosa di meccanico; sono quelle strutture — per antitesi — che Franco Garelli apre con brucianti lacerazioni di lamiere. Gino Bogoni con i suoi bron zi affronta due temi: in alcuni si ha come una lievitazione mentre in altri esiste una crescita di elementi. Nelle sculture di Costantino Nivola ed anche in quelle di tutt’altra estrazione di Quin to Ghermandi si trova una sottile ironia, un voler irridere tradizioni e storia la cui presenza anima un sicuro senso della forma. Con Amelio Roccamonte si giunge più apertametne ad una satira: la forma e la struttura sono gli elementi costitutivi di robot pronti a mettersi in marcia implacabili ed anonimi. Giochi che assomigliano a note mu sicali sospese nello spazio, e che ci in troducono in una dimensione del tutto diversa nonostante il rigore mentale che 11 contraddistingue, vengono proposti dal Canone variato I di Fausto Me loni. Ricorderemo inoltre per la formu lazione di strutture o di pure forme ar tisti come Cannilla, Carrino, Santoro, Legnaghi, Lorenzetti e lo stesso Spa- gnulo, i cui cerchi o forme spezzate posseggono però un’allusione quanto mai chiara ed evidente. Passiamo ora a Nino Franchino ed a Edgardo Mannucci ai quali va dato il merito di avere ampiamente contribuito allo sviluppo ed alla affermazione della scultura italiana per i loro apporti che risalgono ad oltre una ventina di anni fa. Franchino presenta una grande scul tura-personaggio, tutta ritmi e vibrazio ni, tutta spazi sottintesi da un metallico situarsi nello spazio. Pure per Man nucci, in altra maniera tuttavia, la scul tura consiste essenzialmente in una crea zione di forme che disegnano l’aria e che vi s’inseriscono partendo magari da un nucleo centrale con una afferma zione appunto dì spazio. Entrambi que sti scultori figurano anche nella mo stra storica, pardon, nella rassegna « Li nee della ricerca nonfigurativa in Italia dal 1930 al 1965 ». Tale mostra infatti, che grosso modo ha pur sempre la caratteristica di una carrellata storica, stando alle intenzioni della commissione ordinatrice, ha inve ce una portata più ristretta, cioè di sti molo per un ulteriore approfondimento del tema. E questo concetto è chiara mente espresso nel testo introduttivo di Nello Ponente. Nulla da eccepire al proposito, tanto più che in tal modo si vengono ad evitare affrettate storicizza- zioni — non è infatti possibile definire in un ambito storico esperienze ancora troppo vicine — che per di più aggra verebbero quelle inevitabili accuse che, come sempre accade, possono essere le vate per certe presenze o peggio per certe assenze. Tutto questo in via indi retta conferma ciò che abbiamo già af fermato sulle linee generali della ras segna, scrivendo degli « Aspetti dell’ar te figurativa contemporanea e delle nuo ve ricerche d’immagine », cioè della pri ma mostra di questa Quadriennale. La tripartizione tra figurativi, non-figura- tivi e la cosiddetta « Ricerca estetica dal 1960 al 1970 » fa sentire ora più che mai il suo peso. Infatti con tali separa zioni non è stato possibile offrire — a parte le incongruenze di cui si vedrà e che nulla hanno a che spartire con quan to stiamo dicendo anche se inficiano il criterio che ora si critica — una visione dialettica e comparativa della situazione dell’arte di casa nostra. Nonostante le dichiarazioni circa la portata didattica e storica dell’intera Quadriennale ben poco di storico e di didattico è stato fatto e poco contano i pannelli espli cativi esposti in mostra. Pare proprio che ci si sia dimenticati che l’arte di questo secolo è un insieme di tendenze e di movimenti quanto mai vari, dai quali è impossibile prescindere se si vuol fare un discorso d’insieme. E que sto aspetto per nulla marginale va ad aggiungersi all’equivoco del titolo « non figurativo ». Si prendano ad esempio gli otto arti sti del gruppo astratto-concreto, formato da Lionello Venturi nel 1952 e che fu così chiamato dallo studioso con quella chiarezza d’idee che al giorno d’oggi pa re che non sia più di moda: ebbene, gli otto sono diventati sette. Manca infatti Morlotti, ritenuto troppo legato al suo naturalismo! Ma gli altri pittori come Moreni e Birolli erano forse disancorati dal reale? E poi, per inciso, l’esclusione di Morlotti in sede « storica » non con trasta apertamente con le presenze dei Celiberti, Bruscaglia, etc. che vediamo nella mostra degli artisti invitati? E’ il caso a questo punto di prendere in considerazione le caratteristiche del la rassegna che si apre con Mercurio passa davanti al sole (1914) di Balla e con Peinture n. 0531 (1915) di Magnel- li. E’ un doveroso quanto ristretto ac cenno ai cosiddetti precursori dell’arte astratta e non-figurativa. Quanto a Bal la si può rilevare che avrebbe potuto essere ricordato anche con le sue com penetrazioni iridescenti... La rassegna vera e propria si apre con le selezioni dedicate agli artisti che negli anni trenta operarono a Milano e a Como. Sono incontri veramente indi menticabili. Citeremo le opere di Bo- gliardi, Fontana, Ghiringhelli, Licini, Melotti, Reggiani, Soldati e Veronesi; poi menzioneremo le illuminanti pre senze di Carla Badiali, Mario Radice e Manlio Rho. Molto sostenuta anche la sala dedicata all’opera di Alberto Ma- gnelli, dal 1953 al 1956. A parte tale parentesi riservata all’opera del pittore fiorentino che viene circoscritta appunto a circa undici antri dopo la fine della guerra, la rassegna, chiusa la vicenda dei pittori lombardi degli anni trenta, salta per forza di cose al dopoguerra, dal momento che nulla di nuovo, o pressoché, accadde in Italia sul fronte astratto non-figurativo in questo torno di anni; tuttavia non vengono documen tati certi episodi salienti per quanto av verrà subito dopo la Liberazione. Ci si riferisce fra l’altro a « Corrente » in aperta opposizione al Novecento. Lo stesso accade per il periodo successivo, per l’epoca in cui Paimiro Togliatti, con lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia su « Rinascita » ruppe nel 1948 il Fron te Nuovo delle Arti che si divise tra astrattisti e realisti, questi ultimi capeg giati da Guttuso. Di tali roventi anni è documentato soltanto il passaggio dal neocubismo al « gruppo degli otto » e la parentesi vitale di « Forma 1 » (Ac cordi, Consagra, Dorazio, Maugeri, Pe- rilli, Sanfilippo, Turcato, Attardi, ma quest’ultimo non figura per gli analo ghi motivi che hanno portato all’esclu- sione di Morlotti). Insomma, siffatti li neamenti o linee di storia sono stati trac ciati a senso unico e per saperne di più sul realismo sociale il visitatore dovreb be andare con la memoria alla prima mostra di questa Quadriennale. Per quanto concerne altre lacune, per il MAC (Movimento Arte Concreta, 1948 e segg.) mancano ad esempio Galliano Mazzon e poi Lattes, Davico, Scroppo e Galvano nonché Sottsass. Il movimen to « spaziale » è rappresentato soltanto da Dova e Crippa mentre quello « nu cleare » (e vi facevano parte personaggi come Baj, Dangelo, Biasi) non figura neppure. Per quanto riguarda il cosid detto gruppo romano di « Origine » manca Ballocco, firmatario e fondatore del movimento stesso. Inoltre la rassegna è priva di una do cumentazione chiarificatrice dell’infor male o di quella situazione che venne così catalogata a suo tempo. Invece la esposizione si dilata fuor misura, anche con ripetizioni e presenze sovente di scutibili, nella sua parte terminale, e ciò senza documentare, tanto per citare due situazioni particolarmente interes santi, né quella spoletina né quella bo lognese. Tuttavia, se ciò va sottolineato per necessità di precisione, si deve pur anche ammettere che rimangono come consolazione le bellissime sale come quella già citata di Magnelli, di Tram polini, di Fontana e di Capogrossi e tre autentici capolavori di Alberto Burri. Luigi Lambertini « I Jmie va l’avanguardia? », così suo nava il retorico interrogativo, tema di un dibattito promosso dal Teatro di Ro ma nello scorso mese di dicembre; « al l’Argentina e ritorno », verrebbe voglia di rispondere, sicuri che nessuno penserà al Sud America. Inutile parlare di quel pomeriggio risoltosi — dopo un’introdu zione di Italo Moscati e due coraggiosi interventi di Roberto Alemanno e Fran co Cordelli — in un grande scambio di insulti tra Leo de Berardinis e Armando Pugliese — ma quant’è bello il napole tano per litigare! — ; solo raccolta qua e là qualche frase gridata in quell’oc casione: « Io allo Stabile prendo solo dei soldi, e mi avevano detto che sarei stato condirettore! », ha detto Giancarlo Nanni; « Il patto con lo Stabile è stato una truffa», parole di Leo de Berardinis, anch’egli accolto, con Mario Ricci, nel l’organismo romano. Quella che alla fine dell’estate era forse la novità romana più interessante — la partecipazione di tre complessi sperimentali al cartellone di Franco Enriquez — prima di Natale T E A T R O A L L ' O M B R A n u T E A T R O I N O M B R A è già in crisi, né si, può dire, per ora, come si risolverà; così ancor prima di vedere i suoi frutti — tranne uno spet tacolo di Ricci, i gruppi avevano ripro posto spettacoli degli altri anni — la buona armonia era già infranta per mo tivi ancora non del tutto chiari, ma fa cili da intuire. Peccato; e speriamo che non ne vadano di mezzo più o meno in direttamente un po’ tutti i gruppi spe rimentali e il buon successo che alcuni di loro stanno riscuotendo in questi mesi a Roma. Il lungo viaggio di Ulisse di Mario Ricci, il primo spettacolo nato sotto l’egida del Teatro di Roma, è il naturale svolgi mento di quanto già fatto dall’autore in Re Lear e in Moby Dick; anche qui sa gome di cartone e attori che emettono suoni inarticolati e su cui si proiettano immagini cinematografiche, qualche sug gestiva trovata scenografica ed alcune intuizioni felici. Lo spunto — ma, co me sempre è solo il punto di partenza — è naturalmente Omero, ma anche Joyce, il desiderio di conoscenza e la sete di avventura dell’uomo di tutti i tempi. Uno spettacolo, tutto sommato, che non aggiunge molto a quanto già detto da Ricci, e che risulta meno interessante, più lento, a disagio, forse, nella lun ghezza inconsueta di due tempi. j^^-1 teatro Argentina lo Stabile del l’Aquila ha presentato La pazza di Chail- lot, ultima opera di Jean Giraudoux, in giustamente dimenticata in Italia dopo una prima importante al Piccolo di Mila no nel 1954 diretta da Strehler. Giancar lo Cobelli, regista dello spettacolo, ha gio cato tutto sulla fantasia insistendo più sul meraviglioso e l’utopico, che sulla prospettiva politica del testo; del resto Giraudoux non è Brecht, e la pazza di Chaillot non è la Giovanna dei macelli; la pazza, ben interpretata da Piera degli Espositi, è figura infinitamente più sem plice, dove il bene e il male sono vissuti al livello puro, di effetto più che di causa; la storia ha tutto l’andamento di una favola; la vecchia folle, che ha saputo di alcuni speculatori che vogliono distruggere il suo rione di Chaillot per cercarvi il petrolio, li convoca con uno stratagemma e li fa annegare nelle fo gne di Parigi, aiutata da una variopinta corte dei miracoli, composta dal cen- ciaiolo e da altre vecchie matte, dal sor domuto e dal garzone. Il finale, soprat tutto, è fiabesca utopia senza rimorsi, con i cattivi capitalisti che cadono nella trappola brindando felici ed ingordi al petrolio: tutta la regia accentua con gran senso poetico l’atmosfera di fiaba, come anche i costumi irreali di Paolo Tommasi e la sua scenografia formata da un incubo di pareti di mattonelle bianche. -^^.1 teatro delle Arti il « Teatro Uomo » ha presentato II ventinove luglio del mil lenovecento, vita e morte di Gaetano Bresci, una sorta di affresco, più che una biografia, del tempo in cui il fa moso anarchico compì il regicidio di Monza, del clima di tensione sociale, degli arresti indiscriminati che seguirono l’attentato, dei sospetti e degli echi del la stampa, fino alla morte misteriosa del l’anarchico in carcere, quasi certamente assassinio, anziché suicidio come era tesi ufficiale. Il tema, dunque, di questi otto fogli volanti per nove attori, come defi niscono il testo i due autori Emilio Jona e Sergio Liberovici, è lo stesso di quel W Bresci di Tullio Kezich visto un paio d’anni fa al Piccolo di Milano; ma in In questa e nella pagina prece dente due scene da « Il lungo viaggio di Ulisse » di Mario Ricci: a sinistra l’attore Claudio Previte- ra, qui l’attrice Mariella Laterza. questo caso i vari materiali ( articoli di giornali, manifesti murali, deposizioni giudiziarie e canti popolari) non vengo no sintetizzati in un’opera drammatica compiuta, ma presentati quadro per qua dro, spesso simultaneamente, dal regista Virgilio Bardella, che talora riesce a creare scene suggestive, ma che non sempre padroneggia con ritmo sufficien te i vari elementi. I l teatro Belli ha aperto la sua seconda stagione con una piacevole novità di Ro berto Lerici, L’educazione parlamentare, che è una sorta di carrellata umoristica della nostra storia dalla presa di Roma al la prima guerra mondiale; tutta l’azione si svolge nell’aula del nostro parlamento, dove sfilano ministri, primi ministri e sot tosegretari: da Quintino Sella a De Pre- tis, al generale Pelloux, da Crispi a Gio- litti, e per colpa loro si va di male in peg gio, i bravi notabili fanno una sciocchezza dopo l’altra, sempre attenti alle loro spe culazioni private; perdono guerre, batta glie ed elezioni, ma rimangono sempre lì, sempre loro, tutti sempre d’accordo a tener chiusa la porta dietro cui vocifera il popolo che cerca di entrare in parla mento. In una girandola di mozioni, in terpellanze e votazioni, si cambiano coa lizioni e si sciolgono leghe; la destra passa a sinistra, e questa va al governo, tutti si parlano addosso e si sa che la col pa è sempre loro. L’autore non risparmia nessuno, sono tutti cattivi, o almeno pasticcioni, e con questo esagera un po’, perché tra tanti un onest’uomo ci sarà pur stato; del resto la storia non interessa poi troppo, il testo è un buon soggetto di cabaret più che una commedia, poiché dopo un po’, capito il trucco, ci si stanca e alla fine le due ore di spettacolo sono troppe, va riate soltanto da divertenti — ma anche qui ci si annoia, dopo un po’ — scene di vita coniugale di un parlamentare. In alto e in basso: due scene de « L’educazione parlamentare » di Roberto Lerici, che ha come in terpreti principali Magda Marca tali e Antonio Salines. Nella pa gina accanto: cinque scene de « La folle di Chaillot » per la re gìa di G. Cobelli. Valerio Valoriani dirige l’azione con un gran ritmo, trovando in Antonio Salines e Magda Mercatali ottimi protagonisti, ma tutti quanti — lo ripetiamo — avreb bero avuto risultati migliori al cabaret. ncora teatro comico al Centrale e al Sistina con prodotti ben confezionati, ri spettivamente di marca londinese, Il mal loppo di Joe Orton, e proveniente da Broadway, I prigionieri della seconda strada di Neil Simon. Joe Orton è un autore inglese trovato massacrato a colpi di ascia appena tren tenne accanto ad un suo amico suicida; a questa fine orribile non potevamo fare a meno di pensare vedendo la sua com media dove in un serrato girotondo di personaggi si cerca di far sparire un ca davere ed una grossa refurtiva, mentre un troppo logico commissario di Scotland Yard svolge serratissime deduzioni, che si risolvono sempre in bolle di sapone; tutti i più sottili meccanismi dell’umori smo inglese si ritrovano qui insieme ad una sfumatissima satira per i pubblici poteri rappresentati dalla polizia; un pez zo di teatro, insomma, ben cucinato, cui Mario Saccia, diretto da Sandro Sequi, presta tutte le sue inesauribili tisorse comiche, impersonando il superintelligen te ma ingenuo commissario, con scatti e gesti talvolta alla Jaques Tati, cui man ca forse una maggiore flemma britannica. Altro pezzo di buon artigianato teatrale è l’ultima commedia del più acclamato e pagato scrittore di Broadway, Neil Si mon, già noto in Italia e di cui è andata in scena I prigionieri della seconda stra da. Il bravo Renato Rascel vi fa la natte del leone come direttore artistico e come protagonista nei panni di Mei, un uomo della classe media, mezza età, cultura media; abita nella seconda strada, New York, in un appartamento in cui ■» con fluiscono tutti i rumori della città... »; Mei perde il posto e precipita di colpo nella disoccupazione e nella nevrosi. Su questo personaggio1 è centrata tutta la semplice storia comica del ménage fami liare; tuttavia si ride poco, perché spesso le battute sono troppo « americane », troppo epidermiche, il problema c’è, il personaggio è centrato, ma manca qual cosa, o forse, grazie a Dio, non siamo ancora così nevrotici come certo pubblico d’oltre oceano. ncora al Sistina abbiamo avuto final mente anche noi uno spicchio di questa famosa Jesus Christe Renaissance, an dando tutti in fiduciosa processione a vedere l’edizione francese di Godspell, il primo Vangelo musicato di New York, che ha dato poi l ’avvio ai tanti articoli e alle tante esegesi dei sociologhi, semio- loghi e psicologi, nonché critici teatrali, di Broadway, sempre pronti a scoprire il segno nuovo della società che cammina, la svolta decisiva della « cultura-del-no- stro-tempo » in ogni commedia che resti in cartellone più di sei mesi. Le musiche di Stephen Schartw, i bal letti e la regia di Nina Faso, sono bel lissimi, e tutta la concezione dello spet tacolo, che dobbiamo a John Michael Tebelak, un barbutissimo giovanotto americano che sullo spettacolo la deve sa per lunga, è senz’altro riuscita; tuttavia dobbiamo pure aggiungere, visto il chias so giornalistico che se ne è fatto, che In basso due scene di «Godspell», il primo Vangelo musicato di New York, andato in scena al Sistina per la regìa di Nina Faso. di neo-convertiti all’uscita del Sistina ne abbiamo visti pochini, che, insomma, un bel musical non va confuso con le cose serie. Gli attori di questa edizione francese erano bene affiatati e cantavano, recita vano, ballavano e facevano ginnastica molto bene; avevano solo un piccolo difetto: di essere francesi e per questo troppo scaltri, troppo latini; tante fan ciullaggini che sono troppo americane, tante gags che sono solo di Broadway, un certo slancio che hanno soprattuto i giovani negri, loro non ce l’hanno, né lo possono avere: è il jazz negro che si sovrappone allo spirito puritano degli antichi coloni; è il solito limite contro cui urtano (ricordate Hair) tutti i mu- sicals americani di stile rock; certe cose forse le possono fare solo loro. Maurizio Giammusso S H H Z I O U U I I L T E A T R O I T A L I A N O D E L N O V E C E N T O D opo aver aggiornato il proprio vo lume su II romanzo italiano del dopo guerra (1940-60) sino agli ultimissimi anni, con la raccolta di scritti Volti e risvolti del romanzo italiano contempo raneo, in modo non ugualmente orga nico, ma non per questo meno ampio o meramente occasionale, Giorgio Pulli- ni ristampa ora, ampliandolo e allungan dolo nel tempo, il suo volume Cinquanta anni di teatro in Italia. Il nuovo titolo è Teatro italiano del novecento (Cap pelli, Bologna 1972), sotto cui com paiono una cinquantina di pagine in più, oltre, finalmente, al preziosissimo indice dei nomi ed una più vasta e suddivisa bibliografia. Ci soffermiamo quindi principalmente sulla parte nuova del libro, il settimo capitolo: « L’ultimo decennio 1960- 70 », che arriva ai giorni nostri, al l’inizio del 1971 per l’esattezza, con cenni all’attività ultima di Dario Fo, agli spettacoli che hanno lanciato Nan ni, Ricci e Sepe. Per quel che riguarda il testo precedente, riveduto, una cosa sola vogliamo notare, l’inserimento di tre pagine dedicate al teatro futurista, aggiunte un po’ a forza nel capitolo « Da Pirandello al grottesco », di cui non esisteva alcuna citazione nell’edi zione del 1960. Il fatto non depone certo a favore del Pullini, studioso sem pre preciso, che solo entrando a contat to con la ricerca sperimentale degli ul timi anni e con il nuovo ruolo della regia si è reso conto del collegamento e dell’importanza del lavoro svolto dal l’avanguardia storica, anche se solo in parte, poiché non ne vede alcuni aspet ti e agli altri solo accenna. Manca in fondo sempre un discorso evolutivo e continuo sui collegamenti tra esperien za e esperienza, mentre si cerca di far ruotare tutto solo attorno alla figura di Pirandello. Si arriverà così a lodare sen za riserve l’operato tutto della Compa gnia dei Giovani, ruotante principal mente sui testi dell’autore siciliano, coi quali si è trovato il modo « di rispon dere al mito politicizzato e mitteleuro peo di Brecht », senza poi accennare mi nimamente al significato che ha ed ha avuto per tutto un certo filone del no stro teatro del dopoguerra la scoperta di quest’ultimo. Torniamo in ogni modo all’ultimo de cennio, che inizia subito dopo una nota pessimistica sulla vitalità del nostro tea tro, rimasta intatta dall’edizione prece dente. Pullini cerca il più possibile di fare dell’informazione, più che della sto ria critica, di costruire un manuale con tutti i punti fermi sul nostro recente e presente teatro, ma la materia è an cora scottante e l’impresa ardua. Così diventa assolutamente anodina anche la polemica sugli Stabili, mentre assume un’importanza eccessiva l’improvvisa vo cazione drammatica di alcuni nostri nar ratori. Nascono elenchi di nomi ed ope re, alcune con cenni alla trama e al sen so, scordandosi totalmente, per esempio, di Ambrogi, mentre ci si « attendono delle soluzioni positive per il teatro ita liano anche dalla collaborazione tra tea tro e giornalismo », citando le opere di Montanelli e di Barzini jr. D’altra parte troppa impossibile obiettività fa sì che Luciano Codignola abbia più o meno il posto dato agli effimeri, anche se stimolanti e divertenti, scritti di Arba- sino, mentre, sempre tra i critici e gli operatori teatrali, non si nominano nep pure Radice o Jacobbi, figure che chiun que può discutere come qualsiasi altra, ma certo centrali nel panorama presente. A smentire un certo pessimismo di cui si è parlato, appaiono le pagine sugli « sperimentalisti », da Carmelo Bene a Giancarlo Sepe, che rivelano l’attenzione con cui Pullini si è documentato sino alle ultime realizzazioni. Oltre al teatro ufficiale, generalmente d’evasione, e in ogni modo quasi sempre ridotto a parlare per cliché, i gruppi che operano oggi in teatro seguono due strade, quella del la voro politico, basato sul testo, e quella del teatro d’avanguardia, « plastico vi sivo ». E’ quest’ultimo, l’unico assoluta- mente vitale, pur nelle sue mille incon gruenze, nel suo sbattere la testa al muro, alla ricerca di un passaggio. E quando questo viene trovato, infilato magari di botto, nascono spettacoli co me Il risveglio di primavera di Gian carlo Nanni o I misteri dell’amore di Sepe. Ci sembra quindi assolutamente fuor di luogo parlare di prove « visive e fantastiche che hanno soprattutto sba lordito, non comunicato », poiché allo spettatore sfugge « la coordinazione non diciamo logica, ma persino intuitiva dei diversi ingredienti spettacolari ». Ciò po trà infatti accadere solo in futuro se un Mario Ricci si fisserà, come sembra, nei suoi attuali schemi senza più saper pro cedere, oppure se le capacità estetiche e culturali di De Berardinis rimarranno isolate e astratte sulla scena, prescinden do dal pubblico. Alla base dell’attuale inquietudine, scrive Pullini, sta il ten tativo di coinvolgere il pubblico; ma non si tratta di un’ansia odierna, egli manca di rilevare, ma del fine ultimo di quel complesso di cose, testo, regia, sceno grafia, spettacolo, che quando si amal gamano e fondono diventano teatro. Il Pullini, che a parte questa nostra di- versità di vedute, ha scritto alcune pa gine interessanti, si avvicina al teatro troppo da letterato, sebbene rimanga sempre un esempio da citare, quando compaiono storie della letteratura ita liana che del teatro sembrano dimenti carsi. Non esiste infatti altro lavoro pa ragonabile a questo dello studioso pado vano, ed è merito non indifferente. Spe riamo che il rinnovato interesse per il teatro, specie da parte dei giovani, dia un giorno i suoi frutti a tutti i livelli, smen tendo il persistente pessimismo del no stro autore che vede compromessi in gran parte, dalla nuova attività di Fo, di Nanni, e perché no, di Vasilicò, addi rittura « conquiste e raggiungimenti tan to auspicati, e finalmente intravisti ne gli anni ’50 ». Le compagnie stabili, i « piccoli » teatri, quando non sono crol lati, hanno raggiunto una loro statica e spesso squalificata « classicità » di cliché-, vedremo se dai palcoscenici « sot terranei » dei gruppi collettivi il teatro troverà la spinta a riprendere il proprio perenne cammino nella direzione giusta. Paolo Petroni wtmmmmmmmmmmmmmmmmmm S e s s a n t a s t u d i c r i t i c i i t a l i a n i e d e u r o p e i Giuseppe Tedeschi D omandarsi ancora se il critico sia anche un creatore sarebbe un po’ come domandarsi se i mistici siano di tempe ramento religioso o se i generali siano di temperamento militaresco. Il critico (se è un grande critico, beninteso) è sempre un creatore, al punto che non poche volte è capitato, e capita, che sia no risultati molto più luminosi e ricchi di immagini certi pezzi di critica che non l’opera che li ha provocati: cioè, il grande critico, che abbia consanguineità con un’opera, può rivelarsi addirittura più adatto e più capace dell’autore a scoprirne, indicarne, valorizzarne le qua lità, gli umori, i sottofondi. Tutto ciò dovrebbe essere chiaro e no to, eppure nelle occasioni pratiche di verifica e di riprova (pubblicazioni di consuntivi annuali, di almanacchi, di en ciclopedie), si deve constatare, in Ita lia, beninteso, che il critico è pressoché ignorato e, quando non lo è, viene li quidato con qualche riga superficiale e dispettosa, monca, errata. Per i balordi redattori di questi almanacchi o annua ri o enciclopedie, il critico è soltanto una specie di bracciante giornaliero dei patri campi letterari, mentre il più sciocco e vanitoso e servizievole dei narratori può ricevere una valutazione, in righe tipo grafiche, pari a quella di Alessandro Manzoni. I critici, per loro fortuna, ignorano il mi sero gioco né se ne lasciano impaniare, continuando per la loro strada, che è fat ta, certo, di articoli, interventi, spunti occasionali e a volte anche provvisori, e autore di varie altre opere di critica, oltre che di poesia, narrativa, varietà letteraria, Mario Stefanile pare voglia proprio dimostrare, con questo compat to e vario e esteso volume ( 435 pagine fitte fitte), che un critico, se ha conge nialità o, anche, un minimo rapporto di osmosi intellettuale con un autore, rie sce sempre a ricavarne giudizi e raffron ti pertinenti, chiari, efficaci, veri e, in più, destinati a durare nel tempo. Il primo giudizio positivo che il libro merita è questo: che è un libro di raf fronti culturali, di scandaglio di ideolo gie, di scomposizione e ricomposizione di poetiche, estetiche, etiche. Non è un libro di vecchie schede ricollegate e ag giornate, anche se non è neppure un li bro con pretese di opus organico e ulti mativo, di opera storico-letteraria teleo logica, finalistica, irreversibile. In effet ti questi 60 Studi di varia letteratura sono una sorta di diario di un lettore di professione, e di un uomo intensamente partecipe a quanto, buono e cattivo, ve ro e falso, gli ha offerto il suo tempo. Del resto è proprio in tale senso che hanno valore le splendide accensioni, au toironiche, amare, sagge, della prefazio ne-lettera « Sciavo in Babele », una sor ta di apologo sul mestiere del critico, anzi, dell’uomo di cultura d’oggi. Un altro aspetto da segnalare nel lavoro critico di Stefanile è la versatilità. Pra ticamente nelle sei sezioni che compon gono questo libro (« La rosa dei venti », « Momenti napoletani », « Occasioni », « In morte di... », « Un’idea del teatro», «Lo scaffale dei veleni » ) egli riesce a parlare con uguale competenza e lumino sità di poeti e saggisti, di narratori e giornalisti, di critici e di autori teatrali, e non soltanto italiani. La progressione è varia, mai pedante o schematica. Così agli ampi e articolati saggi su Alvaro, Si- Ione, Malaparte, Pomilio, Carripana, Car darelli, Salvatore Di Giacomo, seguono « occasioni » e riflessioni su Montale e Camus, Jimenez e Claudel, Quasimodo e Hemingway, Gide e Beckett, Stein- beck e Neruda. Seguono ricordi per la morte di Dos Passos e Dino Buzzati, Or- Mario Stefanile ma è fatta anche di giudizi che durano, a volte, più della stessa opera che li ha determinati. Vi sono critici, poi, che raccogliendo in volumi i loro interventi diventano gli unici testimoni di certi fenomeni e di certi autori, con vantaggi incalcolabili per tutti. Un unico esempio: quello di Enrico Falqui che con la sua fitta serie di volumi sul Novecento letterario è, da decenni, il critico italiano più consulta to, spigolato, saccheggiato. Altro esem pio, anche se con caratteristiche lavora tive diverse e meno sistematiche rispet to a quelle di Falqui, è Mario Stefa nile, del quale in queste settimane è usci ta un’ampia scelta dei suoi più recenti interventi critici (60 Studi di varia let teratura, Guida Editori, Napoli 1972). Critico letterario e teatrale di un gran de quotidiano, « Il Mattino » di Napoli, tega y Gasset e Ungaretti, Mauriac e Rosso di San Secondo, Huxley e Faulk- ner, Giovanni Ansaldo e Orio Vergani, Pasternak e Celine, e seguono tutti gli altri autori, spunti, studi, fino a contar ne sessanta, come è detto nel titolo del libro. La varietà delle indicazioni critiche la- scerebbe supporre una maggiore parte- cipazione per alcuni autori e argomenti, ed è probabile sia così nelle valutazioni personali di Stefanile; qui, però, si assi ste, pagina su pagina, a una sola parte cipazione, quella di scandagliare e ca pire certi fatti e di presentarli, in piena verità, al lettore. Egli stesso, del resto, lo dichiara nel saggio « La funzione del la critica » che è tra i più persuasivi e formativi di tutta la raccolta, insieme a « La moralità cristiana di Ignazio Silo- ne », « L ’Europa moribonda di Curzio Malaparte », « La coscienza di Mario Pomilio », « L’esistenzialismo di Ca mus » e, su tutti, forse per alcune affi nità personali, « Kafka in ciascuno di noi ». Giuseppe Tedeschi i n t e r v e n t i U u e s u l l V a n i m a z i o n e t e a t r a l e Maurizio Giammusso C hi volesse conoscere le esperienze di animazione teatrale finora svolte in Ita lia ha oggi due utili strumenti nel libro di autori vari curato da Giuseppe Bar tolucci II teatro dei ragazzi (ed. Gua- raldi) ed in quello di Sergio Liberovici e Remo Restagno Un paese - esperienze di drammaturgia infantile (ed. La Nuo va Italia). Sono due libri di esperienze di docu mentazione e del resto manca per ora, tranne alcuni articoli in riviste* specia lizzate, una vera sistematica dell’argo mento; in molti casi infatti non è an cora chiaro cosa sia animazione teatrale e cosa non lo sia, né sempre si perseguo no gli stessi fini. Nello stesso libro di Bartolucci le esperienze proposte varia no per metodi usati, per intenzioni po litiche, per ambiente ed età dei ragazzi; il minimo común denominatore, il cura tore del libro lo ravvisa nel mettere in discussione « ...la qualità del dramma turgo non necessariamente aristocratico produttore dell’opera teatrale e non ne cessariamente singolo organizzatore del materiale da costruire; rimettere paral lelamente in discussione la ’’forma” chiu sa del prodotto con l’intervento di ele menti interpretativi non professionali e non tecnici che ne scardinano le por te ai fini di un’unitarietà e di un’omo geneità di creatività di base; ed infine il pubblico, il destinatario, chiamato questa volta a collaborare, a partecipare alla stesura e all’interpretazione della azione teatrale, di cui esso diventa re sponsabile e non soltanto osservatore, promotore e non. soltanto consuma tore ». Distruzione del « prodotto » culturale, insomma, della «forma» artistica (co me, parallelamente, del « compito » sco lastico) per privilegiare il momento del la ricerca, dell’esperimento e del tenta tivo, l’improvvisazione sostituisce la co dificazione prestabilita del linguaggio. Il limite delle osservazioni di Bartolucci — a prescindere dal contenuto estetico filosofico di voler negare ogni forma all’arte risolvendola nel suo contenuto — ci pare quello di non aver dato suf ficiente risalto alle importantissime im plicazioni psicologiche e pedagogiche del l’animazione teatrale dei ragazzi: dal re cupero in prima persona dei mezzi espressivi, allo stimolo alla socialità, al la capacità di conoscenza fantastica del mondo e di se stessi, allo stimolo al l’invenzione personale sempre più atro fizzata dall’imperare dei mass-media. L ’aver escluso questo campo di osserva zioni è certo una questione di scelte e di ottica particolare — Bartolucci è uomo di teatro, non di scuola, né psi cologo — ma che forse rende incom pleto il libro per altri versi esaurientis simo nel presentare le varie esperienze, descritte dagli stessi animatori co-autori del libro: Giuliano Scabia, Franco Pas satore e Silvio de Stefanis, Mafra Ga gliardi, Loredana Perissinotto, Bruna Uliano e Remo Rostagno, Franco San- filippo e, infine, dei doposcuola di quar tiere fiorentini. In Un paese, invece, Remo Rostagno, insegnante, e Sergio Liberovici, compo sitore etnologo e uomo di teatro in senso lato, presentano la loro esperien za nella scuola elementare di Beirfàsco, presso Torino, indicandone tutte le tap pe e i risultati anche psico-pedagogici sui loro ragazzi. Per un intero anno sco lastico una quinta elementare si è de dicata alla scoperta del suo ambiente, attraverso l’obbiettivo di una macchina fotografica, manovrata a turno da pic cole squadre, da un operatore e un se gretario assistente, che prende nota del le caratteristiche tecniche e del soggetto della foto; le varie spedizioni, infatti, avevano ciascuna un tema, suggerito, come l’idea dell’esperimento, dai ragaz zi stessi. La scuola, la gente di Bei nasco, la campagna, la fabbrica, il giuo co: questi alcuni dei temi dell’indagine, che mostra un desiderio di conoscenza della realtà e una notevole capacità di analisi proprio nell’uso dell’apparecchio fotografico non come rilevatore passi vo, ma come strumento di penetrazione attiva del reale. « Il viaggio dei ragazzi per le strade di Beinasco — osserva Gianni Rodari nella prefazione del libro — non è un viaggio tra superfici, ma dentro spessori (sociali, storici), pieni di stimoli a cui rispondono ricordi, os servazioni, altri interrogativi ». A questo punto l’esperienza poteva an che ritenersi conclusa; ma ogni imma gine, ogni foto scattata (una cinquanti na sono riprodotte fuori testo nel libro) crea degli interrogativi nuovi, stimola dibattiti in classe durante il doposcuo la. Nasce allora l’idea dello spettacolo, nel tentativo di voler comunicare anche ad altri le proprie scoperte, nel porre anche ai genitori e ai compagni le pro prie domande; un ragazzo suggerisce co sì di utilizzare il materiale fotografico e quello verbale registrato durante i di battiti, per preparare uno spettacolo- passeggiata. Il pubblico, prima di una altra classe, poi dei genitori, viene con dotto in una passeggiata guidata da vanti a una quarantina di cartelloni do ve sono disposte le fotografie più signi ficative, mentre alcuni ragazzi-guida a turno gridano i titoli delle immagini, le osservazioni, le domande. La secon da parte dello spettacolo-passeggiata, che è stato poi replicato alla Biennale del Teatro dei Ragazzi a Venezia e a Torino davanti ad un pubblico di esperti, è de dicata ad un dibattito tra pubblico e at tori, tra genitori e figli. Un’esperienza come si vede che può essere giudioata di volta in volta, un suggerimento didat tico pedagogico o teatrale, perché essa ha valore di provocazione e di stimolo solo a Beinasco con la gente che vive e conosce i problemi di cui si parla; altro ve Un paese non può parlare veramente del suo tema, ma solo della sua tecnica, del suo modus operandi. Maurizio Giammusso A l V i n s e g n a d i C a r d a z z o u n r o w n a n z o d i S a n L a z z a r o e u n a s e e l t a d i n o r e l l e d i M a n d i a r g u e s Giancarlo Vigorelli In un momento, come questo, di corri da editoriale, tra compra e vendita di case editrici maggiori e minori, sembra — ed è — un miracolo che sorgano nuove iniziative librarie, autonome e di sinteressate. E’ il caso, ad esempio, del l’impresa di Renato Cardazzo, con que sti « Libri Azzurri del Naviglio », inau gurati nel ’71 con L’aglio e la rosa di Gualtieri di San Lazzaro, portati avanti sulla fine del ’72 con una antologia di racconti di A. Pieyre De Mandiargues, Porta traviata, e con un altro libro di San Lazzaro, L’uomo meraviglioso. Senza stra fare, seguiranno altri libri, un po’ a ca vallo tra le arti e la letteratura, come è giusto e coerente da parte di Car dazzo. E prima, infatti, di parlare dei due libri appena usciti, voglio dire qualche parola su Renato Cardazzo, che non è soltanto gallerista e mercante d’arte, ed editore, ma che è sopratutto un intelligente ama tore e promotore d’arte, amico vero quanto rigoroso e discreto di artisti, uo mo d’una segreta poesia che gli viene dalla nativa civiltà veneziana e che sa nello stesso tempo andare incontro alla più estrosa ma mai gratuita mo dernità. Dopo la morte del fratello Car lo, che era stato il protagonista della promozione dell’arte moderna a Milano, ed il primo a gettare un ponte non sol tanto ideale tra Milano e Parigi e già tra Milano e New York, era sembrato a tutti che nessuno avrebbe potuto pro seguirne l’opera e neppure riprenderla. Allora Renato uscì dall’ombra, o forse è più esatto dire che per un certo perio do scelse di restare ancora nell’ombra per prepararsi più dal profondo a suc cedere a Carlo, con discrezione pari alla dedizione, con una circospezione che in parte gli è rimasta e dove nasconde e sopratutto trattiene le passioni che cova no sotto, raramente lasciandole manife stare se non con un lampo dell’occhio, un soprassalto di tenerezza, o un umore di savia ironia antica. Anche Carlo, e negli anni che già fiuta vano la guerra, e poi ne vennero som mersi, era stato editore; Falqui, che non perde d’occhio niente della nostra letteratura e di ogni sua manifestazione, particolarmente quelle più segrete e di screte, un bel giorno dovrà dedicare un capitolo del suo sterminato Novecento letterario italiano ai vari libretti delle Edizioni del Cavallino, dirette da Carlo Cardazzo. Io, qui a memoria, senza libro-per-l’estate, al di precipitarsi al best-seller, al libro- premio, al libro- strenna, insomma al libro di sicuro suc cesso mondano e prepagato, l’editore maggiore non pubblica più. Anche nella veste, a parte le copertine firmate da arti sti, sono libri d’aspetto semplice, cor rettamente impaginati, usualmente tela ti: questi « libri azzurri » sfidano il mer cato e il consumo, proprio per non es sere concepiti con programmazioni da marketing, con leggi forzate di facile consumo; ed il buon lettore avverte su bito che, questi, sono libri che possono durare, non libri alla moda o che balla no una sola estate. L eggiamoli un po’ insieme. Porta tra viata, intanto, è una scoperta. Non che Mandiargues non sia noto abbastanza da noi: Feltrinelli nel ’64 aveva lanciato il suo romanzo, La motocyclette, e già Lerici nel ’61 aveva anticipato quell’al- tro dal titolo stendhaliano, Vanina-, nel ’68 poi Bompiani aveva varato una prima raccolta di racconti, Museo Nero. Rimane ancora da conoscere il poeta, in tutto il suo lungo servizio surrealista, ed il critico della serie dei Belvedere, dell’album su Bomarzo, di non poche scoperte d’artisti contemporanei e del ritratto all’insegna di Skira di Bona l’amour et la peinture. Porta traviata, nella traduzione di Or nella Volta, è l’ultima raccolta di raccon ti, tratta da Porte dévergondée (Galli mard, 1965) e da Mascareis (Gallimard, 1971), ed emblematicamente può confi gurare l’intero lavoro di Mandiargues, l’arco preciso del suo discorso poetico e narrativo. Prendete il racconto Sa bina, che può persino apparire una storia, ironizzata e tuttavia dal vero, da presse du coeur-, l’ufficialetto fatuo, la ragazzina sentimentale, con tutto un ar mamentario ambientale d’albergo di lus so, di stanze lussuriose, ma d’improvviso la parodia viene capovolta, ed effettiva mente tutta 1^ storia è costruita e nar rata per dimostrare che non bisogna mai essere vittime di « sensazioni mediocri ». E’ la tragedia, che viene dal niente: ma tragedia è. Tutte le storie di Porta tra viata risultano « storie nate dalle assen ze del cuore », ed alla fine il lettore finisce a capire, dopo deviazioni invo lontarie o volute, che vale soltanto quello che sale dal profondo, dagli abissi, tutto il resto è gioco, finzione, inganno. Ed è a questo punto che il sesso nelle documentazione sottomano, ricordo un- Apollinaire e un Joyce del ’42-’43, e più tardi nel dopoguerra Blu turco di Car nieri, Noi futuristi di Rodolfo De Ange lus, Scrupoli di Campigli, La ragazza di fronte di Milena Milani, e un saggio di versione di Pinnegan’s Wake ad opera di Settanni, oltre ad alcune monografie d’artisti, Carrà, Gentilini, Capogrossi, Magnelli, Crippa, e le memorie di Peggy Guggenheim. Renato, che già nel ’69 aveva pubblicata la dirompente antologia di Luciano Cher- chi, La situazione poetica 1958-1968, più che plaquettes sembra deciso a dare libri veri, normali, benché scelti. So no libri, per intenderci, che potrebbe o dovrebbe pubblicare qualsiasi buon editore, ma che con l’attuale andazzo storie di Mandiargues prevarica; l’« ora della verità » infatti è una sola per ogni suo personaggio, e amore e morte si rincorrono lungo le calli di una Venezia vera, solcata da pantegane e visitata dal la follia. Venezia o Parigi, la porta da passare è sempre traviata, si scende sem pre più in basso, di botola in botola: eppure, la sua favola, spudorata come appare, è da ultimo innocente, inviola bile. Nella storia dell’eròtica surrealisti ca, alcuni di questi racconti fanno già data. iente in comune, nonostante la tema tica erotica o più esattamente amorosa, tra il libro di Mandiargues e L’uomo meraviglioso di San Lazzaro, anche se i due hanno in comune uno scambio del le parti: Mandiargues, da parigino, ama spesso trapiantarsi, e stavo per dire tra vestirsi, in Italia, alla stessa stregua che Gualtieri di San Lazzaro a perdu sa vie a Parigi. Da quanti anni San Lazzaro vive e opera a Parigi? Intanto bisogne rebbe domandarci da quanti anni escono a Parigi i favolosi quaderni di XX siede, la rivista e tutto il resto che Gualtieri dirige, promuove e realizza, in mezzo ai maggiori artisti europei del nostro seco lo. Guardando ancora alle date, vedo che il suo Cézanne risale al 1935, il Mo digliani al ’47; ma se ci inoltriamo sul terreno delle arti contemporanee diven ta impossibile tenergli dietro, da Cin quantanni d’arte moderna in Francia, al Klee, al catalogo generale di Mari no Marini. Accontentiamoci di andare incontro allo scrittore. Il primo libro è del ’47, Parigi era morta, e vent’anni dopo Parigi era viva-, è il suo doppio diario parigino, grondante d’avvenimenti, d’avventure, d’incontri; senza fare paragoni diretti, ma si pensi a un galoppo di memorie tra Anecdotiques di Apollinaire, i tre volumi di Souvenirs di Salmon, certe pa gine da Francis Carco a Léautaud. Poi, nel ’68, con Un inverno a Parigi, in edi zione di soli 145 esemplari, con lito di Gentilini, è l’entrata più scoperta sul campo della narrativa; e alla prima let tura, pur rinvenendo in ogni pagina un bell’impasto francese di « romanzo par lato », ricordo benissimo che mi sembra va a volte di trovarmi davanti a certe avventure raccontate alla Casanova. Nel ’71, seguì L’aglio e la rosa, che a Ron fani ricordò persino Giorni tranquilli a Clichy di Henry Miller, e senz’altro è un romanzo attraversato da una identica avi dità di vita, di amori, di scandali. Adesso, L'uomo meraviglioso, che in parte è un rifacimento di Un inverno a Parigi, e sopratutto è un altro capitolo autobio grafico di quel perpetuo romanzo vita- listico che continua ancora ad essere, pur « carico d’anni e di peccati pieno », come è detto in un sonetto di Michelan gelo, il vivere tuttora goloso di Gualtieri. Qualcuno, e sbaglia, potrebbe credere che tanto L’aglio e la rosa, quanto L’uo mo meraviglioso siano l’elegia di un li bertino; infatti c’è chi li ha letti con vinto che siano stati scritti in chiave di rimpianto, di congedo. Per me, credo il contrario. Sono due libri in attivo, non in passivo. Intanto, per Gualtieri, la vi ta è sempre stata, come è detto da Eluard, l’altra faccia dell’amore, e vice versa: « nous disions l’amour et c’était la vie — nous disions la vie et c’était l’amour » (ho citato a memoria). E que sti due libri non li ha scritti per ricorda re, per rievocare; ma come per dirsi, e garantirsi, che quelle sue avventure non tramontano, che gli amori dura no anche se la vita se ne va. Le sue donne, non esagero, sembrano di razza stendhaliana, il che vuol dire che sono dure a morire: e Gualtieri racconta la sua vita, non per giocarci su con la me moria, ma per prolungarsela con ogni scaramanzia, maliziosamente, innocente- mente: sopratutto meritatamente. Giancarlo Vigorelli Giuseppe Sibilla D o p o essere stato un grande affare da vivo, Totò è tornato a diventarlo adesso che se n’è andato. Con questa differen za: che allora, alla fine degli anni ’40 e durante i ’50, fu il pubblico popolare a morir dal ridere alle sue farse, intanto che i critici storcevano il naso; mentre adesso ridono tutti di comune accordo, e i critici spiegano quanto sia giusto far lo, e che grande attore e comico straor dinario è stato il principe De Curtis. Il revival di Totò è nato per caso nella pri mavera del ’71, quando a Milano e a Roma furono proiettate, si suppone per mancanza di meglio, alcune sue vecchie pellicole, fra le quali Totò a colori. La risposta del pubblico fu di imprevedibile consenso, e ciò che destò la maggiore meraviglia fu che il consenso non venne soltanto dagli anziani « amatori », ma anche e soprattutto dai giovani e dagli studenti. La voce, come sempre accade in questi casi, si sparse rapidamente. I produttori e i distributori andarono a scovare nei magazzini i vecchi negativi, i gestori aprirono le loro sale, corse il pubblico, i critici scrissero. Qualcuno di loro aveva incominciato a scrivere anche prima, ma trovando ben poche persone disposte a dargli retta. Ora, invece, il co ro si è subito composto ed è andato ce lermente aumentando per numero di componenti. Critiche, articoli, saggi. La TV, che arriva sempre in ritardo, que st’anno dedicherà a Totò un ciclo com prendente molti dei suoi film più celebri (ci ha pensato due anni, mai rischiare di precipitarsi). E incominciano ad arri vare i libri, come questo di Goffredo Fofi, critico dei « Quaderni piacentini » e autore di alcuni sferzanti libelli di re cente edizione. Il libro si intitola molto semplicemente Totò, è stato pubblicato da Samonà e Savelli, e costa 1500 lire. A non volerne fare per forza un mitG, come sembra sia indispensabile in questi tempi ogni volta che si scopre o riscopre qualcuno o qualcosa, Totò era davvero un attore straordinario, e davvero ebbero torto coloro che gli negarono, in vita, la soddisfazione di sentirselo dire. C’era beninteso chi lo sapeva benissimo: per esempio Rossellini, che lo volle per pro tagonista di Dov’è la libertà?, Grego- retti {Le grandi famiglie), Lattuada {La mandragola), e soprattutto il Pasolini di Uccellacci e uccellini, Le streghe e Ca priccio all’italiana. Non lo avevano ca pito affatto, invece, coloro che in tempi di neorealismo lacrimavano sull’incapaci tà dell’attore a farsi « uomo », a diven tare, come usava dire, rappresentativo di una condizione e di una realtà. Capitò di leggere autentiche sciocchezze: che le cose migliori di Totò stavano in Guardie e ladri, Totò e Carolina, o, salvognuno, in Yvonne la Nuit, film nei quali si po teva incontrare la sua versione « uma na », col cuore in mano. Sembra che questi giudizi li condividesse anche lui, ma chissà se è vero. Lo farebbero pen sare le sue poesie, « umanissime » per l’appunto, e grondanti di retorica malin conia. Ma quelle erano affari suoi priva ti, che certo non ne esaurivano per in tero la personalità: perché altrimenti egli non avrebbe potuto essere, nella sua ver sione pubblica, quello che è stato, un formidabile inventore e protagonista di meccanismi comici ispirati da estri ico noclastici, sbeffeggiatori, irridenti e quando necessario giustamente volgari, rivolti a quella porzione di umanità che se li merita da sempre. I membri di que sta umanità egli li aveva definiti « capo rali », e ne vedeva intorno a sé miriadi, dediti alle vessazioni, al sopruso, e so prattutto all’idiozia. Non ne risparmiò mai uno, piccolo o grande, meschino o potente che fosse. « In Totò vince la maschera e resta in second’ordine il personaggio », scrive Fo- fi nel saggio introduttivo al volume, « irriducibile comunque a uno schema puramente e semplicemente piccolo-bor ghese. La partenza è la maschera. I le gami immediati sono quelli offerti a Totò da Gustavo De Marco, uomo svita- bile e fantasista e macchiettista. Ma die tro, alle spalle di De Marco, c’è qualco sa di più e più forte, c’è tutta un’immen sa tradizione che è quella di Pulcinella, che giù giù è possibile far risalire sino ai fescennini e alle atellane della Campania Felix contadina, passando per Plauto e Aristofane. (...) In Totò si fondono così in modo meravigliosamente sincrético e con grande coerenza, rintracciabile a po steriori anche se non sempre lucida alla M a C a n l i o n c o g n i P A R L A M I , D I M M I Q U A L C O S A Un uomo che ama la famiglia. Una casa riempita da una moglie, due figlie, un nugolo di parenti e di animali. I trasferimenti estivi, i battibecchi, i tradimenti, gli abbracci, i rimorsi, le tenerezze e i rancori: tutto il lessico della vita vissuta insieme. « La Scala » lire 2700 R I Z Z O L I E D IT O R E coscienza dell’attore, i momenti migliori di una tradizione ricchissima ». Da Pul cinella vengono alla « maschera Totò » le caratteristiche di fondo, « le fami e le seti primarie » di cibo, di sesso, di benessere sempre sognato e mai raggiun to. Da De Marco gli viene la « snodata e surreale comicità da marionetta disarti colata, capace di fare del suo corpo tutto. Superiore al maestro, egli sarà fuoco d’ar tificio e banda dei bersaglieri, spaventa passeri e zombie, monumento e inerte ammasso di legni degno di Carrà come di Kleist ». Su queste basi, attraverso un processo di arricchimento che non si ferma e che mette a profitto, consapevolmente o per istinto, esperienze e apporti di prove nienza diversa ma sempre in qualche modo omogenea (l’esperienza di Vivia- ni, di Scarpetta, di Eduardo, di Petroli- ni, di Campanile, del primo Zavattini; e il contraccolpo del neorealismo, anche quello), Totò costruisce la sua defini zione, il suo se stesso cinematografico: un sottoproletario anarcoide nemico dei potenti prevaricatori, di necessità adde strato all’arte di arrangiarsi, litigioso op pure flebile, violento o vigliacco, eterna mente anelante a trasformarsi nel piccolo borghese che sta sopra di lui; ma non per questo disposto a rinunziare, in nes sun momento, alla felice libertà di farsi gioco della retorica e delle sicurezze dei benpensanti, e di capovolgerle in burlet ta con lo sberleffo e la piroetta del clown. Alla formazione e ai caratteri del per sonaggio-maschera Totò, Fofi dedica pa gine penetranti, polemiche e in vari punti discutibili (cioè vive, in quanto stimolo di discussione). Il volume, che l’autore ha curato in forma di antologia, con tiene un ampio profilo biografico, una scelta di scritti e interviste in cui Totò parla in prima persona di sé e dei di versi aspetti del proprio lavoro, esilaranti estratti dalle riviste da lui interpretate, un ampio florilegio di quanto è stato detto e scritto sul suo conto dai registi che hanno collaborato con lui, da scrittori e da critici cinematografici; ed è comple tato dall’elenco delle cento e più pellico le di cui è stato protagonista (vogliamo dire autore? ) con i loro dati filmografici essenziali, e da una buona scelta di fo tografie. Giuseppe Sibilla l m u s e o V i s i t a n d o i v i v e n t e d i U g o H o n f a n i Giuseppe Tedeschi I 1 titolo avrebbe potuto anche essere Visita al Museo Grevin, dal nome della famosa galleria di statue di cera, annun cia Ugo Ronfani, e per lui l’editore, nella prefazione alla raccolta dei suoi servizi dalla Francia ora pubblicati dalla Editri ce Pan. Ma sarebbe stato un titolo non in sintonia con il fervore colloquiale da cui sono sostenuti i vari servizi, né in sintonia con l’ideologia giornalistico-lette- raria di base, dolcemente romantica, dello stesso Ronfani, per il quale una certa pos sibilità di salvezza culturale l’uomo po trebbe ancora auspicarsela se riuscisse a ricostituire l’abitudine di riunirsi nei caf fè, nei circoli, nei salotti letterari: e Sa lotto parigino è il titolo di questa sua rac colta di interviste, profili e incontri con scrittori, registi, scienziati, filosofi. E’ un « salotto » che riunisce personalità diverse e a volte anche in contrasto reci proco molto acceso, ma sono personalità, tutte, va riconosciuto a Ronfani, di gran de rilievo e di grande incidenza giornali- stico-culturale. In alternanza di dialogo si incontrano e si allontanano Gaston Bachelard, il « gran vecchio », emulo di Bergson, che predica va un « razionalismo magico » e rivendi cava per la gioventù il diritto al sogno; il « biologo delle rane » Jean Rostand, che s’interroga sui rischi di un’apocalisse tec nologica e sulle risposte da dare ai pro blemi della droga, dell’aborto, dei tra pianti chirurgici; Simone de Beauvoir, che vent’anni dopo la battaglia del Deu- xième Sexe per l’emancipazione della donna, proclama la necessità di « decolo nizzare » la vecchiaia; Eugène Ionesco, indotto a meditare sui rapporti fra po tere e violenza davanti ai fantasmi di Macbeth ; il romanziere cattolico Julien Green, il quale ammonisce che la lette ratura edificante è spesso dettata dal dia volo; il grande attore Jean-Louis Bar rault, che cerca in Rabelais i consigli del « giusto vivere » per dimenticare le vi cissitudini politiche a causa delle quali è costretto a girovagare come gli antichi comici della Commedia dell’Arte; lo « scandaloso » Peyrefitte, che infilza i suoi detrattori con la lama di una pun gente ironia; il famoso critico Maurice Nadeau, che stigmatizza il « complesso di Narciso » degli intellettuali francesi e parla della letteratura italiana in Fran cia; il critico e mercante d’arte Gualtie ri di San Lazzaro, testimone degli « an ni folli » di Montparnasse; le scrittrici Nathalie Sarraute e Marguerite Duras (Hiroshima mon amour), impazienti di applicare nel teatro e nel cinema le tec niche del nouveau roman\ il pittore Ray mond Moretti rivelato da Picasso e Coc teau e divorato dall’ambizione di conti nuare all’infinito una stessa scultura che tutti chiamano « il Mostro »; Delphine Seyrig, l’eterea interprete de L’année dernière à Marienbad, che i critici han no definito « la Garbo di Parigi ». I nomi sono grossi, lo si vede, eppure in ognuno Ronfani è riuscito a scavare proprio fino a quelle profondità nelle quali solitamente si stratificano le veri tà. E’ anche vero che nelle convefsazio ni si esprime ciò che si sa piuttosto che ciò che si vorrebbe mostrare, ma se l’ascoltatore interessato sa condurre i temi, porgere le domande, sollecitare le confessioni, ascoltare e interpretare an che le mezze risposte, più della metà della strada che conduce a qualche verità è percorsa. E’ la posizione che ha rag giunto Ugo Ronfani in quasi tutti i suoi incontri, alcuni dei quali ebbero la pri ma pubblicazione proprio qui sul « Dramma ». Giuseppe Tedeschi l n u d o 6 iI n e l l a p i o g g i a 93 e a l t r i r a c c o n t i Paolo Mario Sipala L ’esordio letterario di Maria Coffàrc avvenne nel 1955 con un romanzo fe steggiato da Francesco Flora ed Arnaldo Bocelli, E' poco, sempre poco (Cappel li), in cui muovendo da una drammatica vicenda di vita vissuta, la scrittrice ri costruiva in sequenze al flash-back, al tri tempi ed episodi autobiografici. Era un romanzo nel senso in cui una narrazione, dopo Proust e Joyce, può es sere romanzo. E comunque esisteva in esso, proprio per la costante presenza autobiografica, un filo conduttore anche se labile, un tessuto unitario, anche se elastico. Ma i singoli capitoli di quel libro vivevano pure in una loro dimen sione autonoma che era la dimensione strutturale del racconto. Si comprende quindi come la linea della evoluzione della scrittrice, venendo me no l’urgere della suggestione memoria listica e la diretta pressione autobio grafica, si svolgesse in una direzione ob bligata, dal romanzo cioè al racconto. Misura quest’ultima più congeniale al respiro creativo della scrittrice ed insie me alla sua libera e vivace capacità d’in venzione. Un’ampia gamma di situazioni umane e di condizioni ambientali viene, infatti, còlta e rappresentata da Maria Coffàro nei racconti, ora pubblicati in volume da Mursia con il titolo di uno di essi, Il nudo nella pioggia. Non è, diciamo subito a scanso di facili equivoci, un nudo sexy; è un « nudo » nell’espressione folclorica, uno di quei « nudi » che in abito bianco e sciarpa rossa arrancano attraverso i paesini etnei nel pellegrinaggio a Sant’Alfio; è un ra gazzo che invoca il miracolo della paro la e l’ottiene in un paesaggio travolto dall’alluvione. Non è tuttavia in questo racconto la cifra del libro, che solo in altra occa sione ( Le candelore ) si accosta al fol l’onore clore catanese ma per inserirvi, in un contrappunto drammatico, la dispera zione di un vecchio che nella cordata bianca dei « cittadini » di Sant’Agata, patisce e cade per familiare perduto. Neppure i due, però, possono dirsi, in senso esclusivo, racconti folcloristici. E’ sempre l’uomo che conta, più della cornice e dello sfondo. E pure negli al tri racconti, l’ambiente non assorbe il personaggio, anche se talvolta ne condi ziona i riflessi e le reazioni. Ciò accade soprattutto ed ovviamente negli strati più umili della condizione sociale o in quelli più legati al costume della tradi zione paesana. Ma anche in questi casi, le soluzioni della Coffàro non sono ob bligate e costanti. Esiste un’alternativa tra l’epilogo tragico e violento e quello ironico, ma pur sempre amaro. Nel registro delle situazioni prevale il tragico e non solo per un calcolo sta tistico, ma come esito delle forti passio ni che, nell’ambito dei singoli racconti, operano e si scontrano. Una forza rude guida queste situazioni all’impatto con il tragico, in battute conclusive, rapide, ma non improvvisate perché coerenti con la logica interna della vicenda e dei personaggi. La preferenza affettiva della narratrice va alle situazioni conflittuali in cui l’indivi duo rivendica la propria vitalità pas sionale contro gli altri o l’ambiente che l’ostacolano e la bloccano oppure ai con flitti interni alla dimensione psicologica del personaggio. La prosa di questi racconti mostra le qualità stilistiche della scrittrice risultan ti dall’intersecarsi dei due moduli espres sivi: l’uno più diffuso, costituito da espressioni e modi del parlato quotidia no ed impiegato prevalentemente nelle battute del dialogo; l’altro da frammen ti lirici che tralucono nella prosa conti nuata: « il monastero gli veniva incon tro sventrato e pieno di cielo ». L’inten sità lirica del linguaggio si coglie soprat tutto nelle clausole di alcuni racconti: « Immensa, la montagna, era sfida alla notte », oppure: « Il giorno nuovo, già desto, meditava nuove cose ». E, fatto singolare, essa coesiste senza disarmonie con i toni scabri e nervosi di un discorso che conferma la maturità di Maria Coffàro. Paolo Mario Sipala I n t o r n o a l V e s t r o s o i i 3 I a r c o P o l o " d i S k l o v s k i j Gabriella Di Milia C hi sa perché il Marco Polo di Vik- tor Sklovskij, edito da II Saggiatore, non è corredato da una benché mini ma nota che informi il lettore dell’anno e delle circostanze in cui è stato scrit to. Eppure si tratta di un’opera che ri sale al finire degli anni trenta, periodo in cui ci sta molto a cuore la sorte di questo sorprendente scrittore. Sklov skij infatti era stato costretto a ritrat tare le sue idee sull’arte. Scrive per questo un’opera in tono minore? Direi di sì, ma un’opera per nulla deluden te, in cui non smentisce se stesso. Sem brerà strano, ma in anni di realismo so cialista imperante egli tiene fede al pro cedimento fondamentale della sua teo ria formalistica (rinnegata ufficialmen te), quello dello straneamento. Natural mente questo è possibile grazie ad uno stratagemma. Lo straneamento dell’oggetto, secondo Sklovskij, è l’artificio mediante il quale il poeta o lo scrittore opera una resur rezione dell’oggetto. Noi infatti abbiamo perduto la percezione degli oggetti che ci circondano, l’oggetto ci sta dinanzi, sappiamo che esiste ma non lo vediamo più, lo riconosciamo. In arte possiamo liberare gli oggetti dall’automatismo se non ci limitiamo a nominarli ma li de scriviamo come se li vedessimo per la pri ma volta, provocando così una rinnovata visione e percezione di essi. Sklovskij sceglie dunque di raccontare la storia di Marco Polo. Spesso scritto ri e poeti si sono ispirati a II milione quasi fosse un continente immaginario in cui potevano trovar spazio altre opere di letteratura. Basti pensare al Messag gio dell’imperatore di Kafka, al Deser to dei tartari di Buzzati o all’ultimo li bro di Calvino: Le città invisibili. Sklov skij, come dice nella prefazione all’edi zione italiana, è rimasto affascinato dal destino di un uomo che « ha dato una immagine breve ma precisa di tutta una serie di paesi asiatici, senza esprimere una sola volta la sua condanna di eu ropeo. Ha descritto ciò che ha veduto, non ciò che presupponeva ». Lo sfrata- gemma a cui Sklovskij è ricorso è dun que questo: Marco Polo ha applicato per ragioni storiche, oggettive la tecni ca dello straneamento. Che altro pote va fare, se non descrivere gli oggetti come se li vedesse per la prima volta, dal momento che era effettivamente la prima volta che li vedeva, e renderli con una tecnica prettamente visiva che escludeva la semplice agnizione del l’oggetto? Gli itinerari del mercante veneziano che arriva sino in Cina e visita come amba sciatore del kan Kubilai buona parte dell’Estremo Oriente, vengono a costi tuire, per bocca di Sklovskij, un viaggio in un universo letterario tangibile, in cui gli oggetti hanno un risalto ed un Da una miniatura di una delle prime edizioni del-«Marco Polo». colore tali da stimolare ed acuire la percezione del lettore. Un universo de scritto come appare e non come si sa che è, sembra contraddire la logica co mune, è un universo primordiale che elimina la possibilità di una introspe zione psicologica. Non è la realtà abi tuale ma l’« altrove », il regno del me raviglioso. Lo stesso kan Kubilai non è malinconico come il personaggio de Le città invisibili di Calvino. Questo vive il momento disperato in cui scopre che l’impero, che era sembrato la som ma di tutte le meraviglie, è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corru zione è troppo incancrenita perché il Il suo scettro possa mettervi riparo. Il te a tr o c o m e s p e tta c o lo e c o m e fa tto s o c ia le A T R E T Cesare Molinari - Lo spettacolo drammatico nei momenti della sua storia dalle origini ad oggi Arnoldo Mondadori Editore O C e s a r e M o lin a r i T E A T R O 250 illustrazioni a colori 200 illustrazioni in nero 324 pagine. Lire 8000 Di fronte al cinema e alla televisione il teatro non poteva che scomparire o riscoprire se stes so, ma non sul piano del linguaggio, bensì su quello della funzione sociale. Quale sia stata questa funzione nei tempi passati non poteva es sere chiarito da una storia del teatro che assu messe a proprio centro di interesse la produzio ne drammaturgica. Per questo, ma anche perchè nella maggioranza dei casi le storie del teatro si risolvono nell'esame proprio della letteratura drammatica, la prospettiva di questo libro è la rappresentazione, la messa in scena. A r n o ld o M o n d a d o r i E d ito r e 177 trionfo sui sovrani avversari lo ha fatto erede della loro lunga rovina. Il kan Kubilai di Sklovskij è invece sti lizzato come in una image d’Epinal. Lo immaginiamo con i tondini rossi alle guance quando leggiamo: « In quel giar dino fioriva, bianco e vermiglio come rosa, Kubilai ». Il fatto che l’impera tore si annoi non significa che egli ac quisti una dimensione interiore, signifi ca, semplicemente, che egli si sposta di continuo in tutto il grande impero e che perciò cambia continuamente il basso- rilievo multicolore delle piante, dei ser ragli, dei palazzi e delle stoffe che gli fanno da sfondo. Ecco come viene de scritta la portantina in cui egli viaggia, con una tecnica essenzializzata da arte popolare, che mette in risalto pochi particolari importanti: « Viaggia in una camera di legno, posta sopra a quattro elefanti. Più che camera è una casa fo derata di pelli di tigri ». Siamo nel regno del meraviglioso e non c’è posto per l’umano, il moralistico. L’atmosfera incantata di questi paesi ai confini del mondo conosciuto, che è poi il luogo della fiaba russa, non è mai increspata, nemmeno da considera zioni sul tipo di commercio esercitato dai veneziani e dagli altri popoli com merciali del tempo, commercio di tran sito, come asserisce fuggevolmente Sklov skij, che si basava sullo sfruttamento delle barbarie dei popoli produttori. Lo scrittore si sofferma sugli usi e costu mi di questi popoli con appena accen nata malizia, quando parla, ad esempio, dei costumi sessuali del kan o del paese in cui la migliore virtù che possa avere una ragazza da marito è quella di aver avuto il maggior numero possibile di esperienze amorose, fatto che faceva ac cogliere con entusiasmo l’arrivo di fore stieri. Non manca nemmeno una vena di sottile umorismo, ma che non con trasta la positività di quel vivere: « Quando il gran kan beveva tutti si mettevano in ginocchio e facevano un profondo inchino. Il kan beveva molto ». Il giudizio sulla personalità del kan e la civiltà dei cinesi si può scorgere, se proprio si vuole, nell’ultima parte del libro, in cui viene descritto il ritorno in patria e la morte di Marco Polo. A Venezia, nell’indifferenziato Occiden te, Marco Polo immalinconisce. Vive co me prigioniero con il suo schiavo tar taro Pietro. Il lungomare odora di mer ci orientali, di zenzero, di pepe, di tin te, di tessuti. Nel profumo, come riten gono i cinesi, vive il ricordo. E l’olfat to del mercante si è acuito, spesso nel la sua narrazione aveva messo in rilievo l’attenzione dei cinesi per gli odori. Ma perché è tornato? Se fosse ancora vivo il gran kan tornerebbe anche a pie di nel paese « delle molte credenze dove nessuna è creduta e dove sanno che il mondo è grande ». Vive in un progres sivo sdoppiamento della personalità: a- veva visto un’altra vita e non riusciva a dare il suo cuore a Venezia. Avviene così che una sera, in una mascherata (Marco Polo amava le mascherate, ne amava il chiasso; la seta, il velluto gli ricordavano il palazzo del grande kan) egli incontri il suo doppio: una masche ra con un mantello di seta cinese. La maschera racconta: « Tutti i sudditi del grande Cane prendono per le loro mer ci non denaro ma carte e con queste il grande Cane compra pietre preziose e perle, e le paga con monete di carta e i mercanti le prendono volentieri ». La gente ride. La moneta cartacea sarà introdotta in Europa cinque secoli più tardi, Marco Polo non è creduto dai veneziani perché, afferma Sklovskij, è un uomo del futuro. Perché non pensare che tra Sklovskij e Marco Polo ci sia stata una segreta identificazione? Gabriella Di M ilia L a L i g u r i a l e t t e r a r i a d e l 99 0 0 L a piemontese Gina Lagorio, diventata ligure per motivi di lavoro (insegna a Savona da molti anni), sembra abbia scoperto più affinità culturali e senti mentali e umane con la regione d’ado zione che con quella di nascita. E’ pro babile che l’osservazione risulti troppo categorica e negativa nei confronti della patria « ripudiata » eppure gli elementi di devozione alla ligusticità che la La gorio fornisce nell’esile ma serrato vo lumetto intitolato Cultura e letteratura ligure del ’900 (Sabatelli Editore) non lasciano dubbi. La rassegna che la Lagorio fornisce del la cultura e della letteratura liguri di questo secolo, oltre a essere totalmente esatta e utile nella progressione docu mentaria dei dati e dei fatti, anche con una essenziale sinossi bibliografica, risul ta ugualmente esatta e utile nello svi luppo culturale, nel taglio storico, nella impostazione ideologica. A scatti rapidi e precisi, e fin dai più remoti antefatti storico-geografici (la vi cinanza con la Francia, il periodo napo leonico, l’annessione al Regno di Sarde gna, la vicenda risorgimentale e i con tributi datile dai liguri Mameli, Mazzini, Garibaldi, Bixio, i Ruffini e De Amicis e Barrili e Abba), si assiste alla crescita di una civiltà culturale tra le più fecon de d’Italia. Questi antefatti storico-geo- grafici sono, naturalmente, appena ac cennati, come pure quelli relativi al pre stigio e alla enorme incidenza di forma tività di alcuni grandi docenti universi tari nelle discipline più disparate, prime fra tutte, però, dato l’aspetto specifico della monografia, quelle umanistiche, in centrate sui nomi di Ernesto Giacomo Parodi, Alfredo Galletti, Achille Pelliz- zari, Alfredo Schiaffini, Umberto Albi ni. Ma è a tali humus, sostiene la Lago rio, che bisognava riportarsi per situare logicamente il senso e le benemerenze della cultura ligure esplosa via via, nei nomi e nelle opere di Giovanni Boine, Piero Jahier, Ceccardo Roccatagliata Cec- cardi, Camillo Sbarbaro, Angelo Barile, Adriano Grande, Eugenio Montale, Carlo Bo, Giorgio Caproni, e dei più giovani Giovanni Giudici e Cesare Vivaldi. Le trattazioni più ampie la Ligorio le dedica, in effetti, ai poeti e alla poesia, con alla testa i Novaro, e la loro ormai famosa rivista « La Riviera Ligure », e poi Sbarbaro e Barile, Grande e Capro ni e, naturalmente, Montale. Tra i pro satori, precisi riferimenti sono dati di Giovanni Boine, anche sulla scorta della riedizione di Tutte le Opere di Giovanni Boine, curata nel ’71 per Guanda da Giancarlo Vigorelli. Né mancano notizie e curiosità sugli intensi rapporti di pit tori e scultori con la Liguria: di Aligi Sassu, Bruno Munari, Arturo Martini, Francesco Messina, Lucio Fontana, Age nore Fabbri e altri. In pieno clima di tanti fervori regiona listici, spesso fumosi e balordi, uno dei modi di dare contributi seri alla cono scenza delle nostre regioni è proprio questo scelto da Gina Lagorio. G. T. ■ [-'! I i g L ^ f I | 1 - I I uirenon: U m berto Frugiuele Ignazio Frugiuele m i x S _________________________________ M A T P A (L'Argo della Stampa: 1912 - L'informatore della Stampa: 1947) J U F F IC IO D I R IT A G L I D A G IO R N A L I E R IV IS T E F O N D A T O N E L 1901 VIA G. COMPAGNONI, 28 - 20129 MILANO - TELEFONO 723.333 Onrri<»n ■ CacoMi» Pn<ìtiilp Telegrammi: Ecostampa i W T S o c i e t à A z i e n d a T i p o g r a f i c a p .a . p i ù m o d e r n o I l d e l c e n t r o s u d s t a b i l i m e n t o R o t o c a l c o g r a f i a R i v i s t e a c o l o r i - S t a m p a t i p u b b l i c i t a r i L i t o g r a f i a - - T i p o g r a f i a - V o l u m i - C a l e n d a r i Via T iburtina, 1292 - T elefoni 0 6 -6 1 .9 0 .1 4 1 -2 -3 -4 00131 Rom a la s v i l u p p a t r i c e ( v e r a m e n t e ) in t e r a m e n t e a u t o m a t ic a L O - 2 4 A • riproduzione di alta qualità e di alta costanza • rigenerazione dello sviluppo e fissaggio integrata • dispositivo LogEsaver per il risparmio di acqua ed energia elettrica nei periodi improduttivi della macchina • accensione e spegnimento automatico secondo il programma 7 giorni (LogEtimer) • robusta costruzione metallica • facilità di accesso a tutti i dispositivi di funzionamento, pompa magnetica ad alta potenza senza manutenzione Rappresentanza per l'Italia B A G L I N I 20098 S. Giuliano Milanese via dei Mille, 12 telefono 9846831-2-3-4 • predisposta per qualsiasi tipo di pellicole e prodotto chimico • eccezionale costanza delle caratteristiche del rivelatore grazie alla capacità della vasca: 64 It • LogElasor: rigenerazione completamente automatica (opzionale) Qualsiasi modello LogEflo scegliate, la LogEtronics Vi garantisce il massimo affidamento, grande economicità e risultati eccezionali. C o u p o n X Senza impegno siamo a disposizione per: □ materiale informativo □ offerte □ colloqui personale sulle LogEflo □ LD-18 (per pellicole lith fino a cm 46) □ LD-24A (per pellicole lith fino a cm 61) □ LD-42 (per pellicole lith fino a cm 107) □ LD-24AL (per pellicole lith fino a cm 61) automatica □ LD-31 (per pellicole lith fino a om 79) □ C-24 (per mezze tinte fino a cm 61) Nome: Indirizzo: Telefono: A l M u s e o T e a t r a l e d e l l a S c a l a l e c a r t e p o p o l a r i d e l l ’ o p e r a l i r i c a T ra le mostre ordinate in que sti ultimi anni nelle sale supe riori del Museo Teatrale della Scala, questa dedicata a « L’ope ra lirica nell’iconografia popola re » pur senza offrire colti con tributi ma scivolando piuttosto su un terreno emotivo dove mol to vi è di candido e di ingenuo, risulta una delle più suggestive. Attraverso un bagaglio di oleo grafie sempre pittoresche, di cu riose cartoline a soggetto, di non meno curiosi calendarietti da barbiere e figurine Liebig, illu stra con così largo ventaglio di testimonianze « minori » ( mino ri fin che si vuole ma pur es senziali anch’esse), quanto il me lodramma, in casa nostra, fosse popolare in quegli anni che, grosso modo, vanno dagli ulti mi bagliori del genio verdiano alla voce nuova di Pizzetti. E si dice Pizzetti perché fra i calendarietti profumati che i parrucchieri erano soliti offrire quale strenna ai loro « avvento ri », anche se ne trova uno riser vato a Fedra. L’opera di Pizzet ti aveva avuto il suo battesimo il 20 marzo del 1915 e il calen- L ’ o c c h i o p e r p e t u o darietto è dell’anno successivo. Segno a un tempo che si voleva stare al passo con gli avveni menti artistici e che il melo dramma godeva di una sua fre sca popolarità. Lo stesso calen dario, poi, è interessante perché l’anonimo vignettista coglie la vicenda non con disegno super ficiale, come capita di vedere spesso, invece, per altri melo drammi, ma riesce a rendere con singolare intuizione il torbido e disperato amore della protago nista per il bellissimo Teseo. Non si vorrebbe esagerare, ma son forse proprio questi calenda- rietti messi sotto bacheca (fra le ditte specializzate, in testa, la milanese Vaisecchi e Morosetti che, con l’autorizzazione di Ca sa Ricordi, sfornava uno dietro l’altro i melodrammi in auge al momento) che costituiscono la parte più pittoresca della mo stra. Osservandoli, particolari sorprese possono ricavarsi. Capi ta di accorgersi, ad esempio, co me non sempre i vignettisti fos sero ligi alla successione crono logica del melodramma. Così ca pita di registrare una Gioconda dove la famosa scena del rosario appare preceduta dal duetto fra Laura ed Enzo. Solo svista? Ma altrettante sorprese può ri servare il settore dedicato alle cartoline. Fu una moda, questa delle cartoline «liriche», che at tecchì, come sottolinea Giorgio Lise nel catalogo della mostra, soprattutto nel primo decennio del nostro secolo quando da tea tro era più d’abitudine uscirsene non come adesso con il pro gramma di sala ma appunto con la o le cartoline-ricordo. La pro duzione fu abbastanza vasta e curiosa, quasi del tutto mono polizzata da tre ditte specializ zate, la Alterocca di Terni, la Pini di Bologna e le Officine Grafiche Ricordi di Milano, que ste ultime « sfornanti » soprat tutto cromolitografie a cui dava no il loro apporto anche artisti di vaglia. Si veda, al proposito, la bellissima serie di cromolito stampate per Tosca, piccolo ca polavoro di stile liberty dovuto al pittore Leopoldo Metlicovitz. Varia e curiosa non soltanto per- In apertura, una scena del terzo atto della « Carmen » in una figu rina Liebig del 1895. ché i vari Duca di Mantova e Lohengrin del tempo ( ma la coppia più immortalata si direb be sia stata la Stagno-Bellincio- ni, i primi protagonisti di Ca valleria, almeno alla pari con quella Hericlée Darclée che fu la prima interprete di Tosca al Costanzi), ritornano a noi un po’ tutti, ma perché acquistano un indiscusso valore documen tario proprio per il gusto di co stume imperante, un gusto ra sentante il grottesco perché non sempre intonato all’essenza stes sa e all’epoca del melodramma. L’iconografia di Traviata ne è l’esempio più lampante e vi stoso. Il capolavoro verdiano, infatti, vede i suoi protagonisti vestiti né più né meno dei per sonaggi dei Promessi sposi o se si vuole, per quelli maschili, da veri « moschettieri ». Ma la ra gione sta forse nel fatto che i nostri bisnonni non volevano saperne di cantanti in scena ve stiti come loro. La caduta del l’opera alla Fenice di Venezia in parte non fu determinata an che da questo fatto, almeno stan do alle cronache? Così ritrovia mo i vari papà Germont paludati come signoretti del seicento e Alfredo non solo è truccato con il pizzetto ma porta sui polsi e al collo un trionfo di merletti. E’ un Alfredo che ritroviamo ag ghindato così anche nella serie delle sei « cartine » della Liebig ( le classiche sei « cartine » tanto care ai collezionisti di mezzo se colo fa ), appunto dedicata al l’opera. Ma di queste figurine che ebbero tutta una storia, qui alla mostra, forse più che questa singolare serie o le altre dedi cate ad altri capolavori di Verdi, di Mozart o di Wagner (la tria de di compositori più illustrata), sono quelle, nelle 34 serie espo ste, relative alle opere oggi defi nitivamente scomparse dal re pertorio che più destano sor presa. Chi si ricordava del Cid di Massenet, àtWAsrael di Fran- chetti o della Regina di Saba di Goldmark? Eppure furono melo drammi popolarissimi. Ma in questa rassegna icono grafica, è indubbio, il pezzo for te è costituito dalle oleografie. Quelle oleografie dal disegno elementare ma significativo, dai colori vivaci, che invasero, per qualche decennio, e prima che la « grande guerra » spazzasse via i miti del vecchio mondo eu ropeo, i « salotti buoni » e le sale dei ristoranti, o anche erano appese, bene in vista, nelle più umili osterie fuori porta di al meno sei nazioni. Diciamo sei nazioni perché delle oleografie qui esposte (tutte con la comu ne indicazione « Printed in Ger- many - Deposé G.B., e in que sto G.B. sta la sigla della ditta produttrice e fornitrice) i titoli figurano in altrettante lingue. Esposte ne troviamo trentasette (tutte del medesimo formato, dimensione centimetri 72 per 54), sufficienti ad esemplare i moduli della illustrazione. C’è il gusto tutto ottocentesco per il monumento fine a se stesso, tipica quella oleografia di Nor ma che porta sullo sfondo una dimora tutt’altro che druidica, anzi dovremmo dire pompeiana, e c’è altresì il bisogno tutto sem plice, elementare di « comuni care » i fatti più salienti del melodramma. Lo spiegano assai bene quelle dell 'Amleto di Tho mas e di Carmen. Talvolta però, si registra un salto espressivo, qualcosa di meno semplicistico: è il caso di una briosa oleografia del rossiniano Barbiere, oleogra fia dovuta, come le precedenti citate, al pennello vivace e co lorito di Fabio Cipolla, pittore accademico non citato dalle sto rie dell’arte ma pure attivissimo. Come attivissimo fu il suo col lega Luigi Morgari, pennello più intimista, presente qui con un paio di oleografie ispirate a Bohème che l’occhio del visita tore si gode proprio come le cose del « buon tempo antico ». Buon tempo antico, già. Ma per dirla con Byron « tutti i tempi, quando sono antichi, sono buo ni ». E quello del melodramma è antico. La mostra lo testi monia. Domenico Bigotti La giuria composta dai criti ci: Alberto Blandi, Gian Maria Guglielmino, Roberto De Mon ticelli, Carlo Terron, Carlo Mar cello Rietmann, Paolo Emilio Poesio, Massimo Dursi, Renzo Tian, riunitasi a Borgio Verezzi per la designazione dell’attore o dell’attrice che si sia distinto per impegno di testo e capacità di interpretazione, ha assegnato il Premio Veretium 1972 ad An namaria Guarnieri (nella foto), « per la sua antitradizionale in terpretazione del personaggio di Mirandolina nella Locandiera di Carlo Goldoni. Nell’originale messa in scena di Mario Missi- roli l’attrice rende con singola re penetrazione il realismo in sieme aggressivo e malinconico di una condizione femminile che si fa specchio della crisi e della trasformazione della società set tecentesca ». Judith Magre e Robert Hirsch hanno ricevuto dal Sindacato della critica drammatica france se le « palme » quali migliori attori protagonisti per la stagio ne teatrale 1971-72. E’ il secondo anno consecutivo che Judith Magre riceve questo premio. Mentre quest’anno la attrice francese è stata premiata per l’interpretazione di Eugé nie Kopronime, lo scorso anno aveva ricevuto la « palma » per Les Prodigues di Jean Vauthier. Robert Hirsch è stato invece premiato per l’interpretazione del Riccardo III, lo spettacolo presentato dalla «Comedie fran çaise» anche al recente Festival di Avignone, che è stato giudi cato il migliore tra quelli pre sentati in Francia nella scorsa stagione. Come miglior regista la « palma » è stata assegnata al brechtiano Guy Retore per la messa in scena di Santa Gio vanna dei Macelli. (Nella foto: Robert Hirsch ). R A B E L A I S d e i f r a t e l l i V e r d o n e a l g r u p p o T e a t r o - A r t e L ’esordiente gruppo « Teatro- Arte », formato da studenti e diretto da Luca Verdone, ha pre sentato per alcune sere nel pic colo scantinato romano Al Ce nacolo, uno spettacolo intitola to Il mondo di Rabelais, una sorta di ricognizione, tra il di vertente e l’istruito, nella vita e nell’opera dello scrittore fran cese. Rabelais, creatore dei per sonaggi di Gargantua e di Pan- tagruele, è tra gli esempi più interessanti della narrativa lai ca del Cinquecento francese, le gesta grandiose e a volte comi che, immaginifiche e realistiche dei suoi personaggi fanno parte del gusto di un’epoca, tra la no vella e lo sberleffo di Boccac cio, e la raffinata immaginazio ne di Ariosto. Lo spettacolo montato da Luca Verdone, del quale son'o anche le traduzioni, parte con intento quasi didatti co, quando ci presenta l’autore stesso, Rabelais, a dialogare col pubblico e ad illustrare la sua epoca, le sue personali vicende, i suoi libri. Ma poi sul filo delle avventure dei suoi eroi, riaffio rano gli scherzi, gli incontri, le battute dei suoi romanzi. Panta- gruele e il compagno Panurgo se ne vanno per una Parigi go liardica, laica e pronta allo sber leffo, alla satira fantasiosa, ed è proprio quando si dà maggior posto 'alla fantasia, al ritmo e alla scioltezza che i giovani at tori danno le prove migliori e lo spettacolo raggiunge i suoi momenti più felici. Nella foto: Carlo e Luca Ver done durante il prologo del Mondo di Rabelais. M. G. L A R I A C C O P P I A T A B A R D O T - V A D I M Brigitte Bardot a quarant’ anni ha deciso di ritirarsi dal cinema. « E’ un peccato — ha commen tato Roger Vadim — perché B.B. ha ancora un forte potere di at trazione sulle folle ». Vadim che è stato il profeta di Brigitte Bar- dot con « Dieu créa la femme » ha diretto l’ultimo film della più acclamata vessillifera del sex-ap peal francese nel dopoguerra. Si intitola « Don Giovanni » e narra le imprese galanti di una grande seduttrice. Nella foto: B.B. e Va dim sul set del « Don Juan ». T a n t i p r e m i a l “ L a c e n o R i s o r g d ’ o r o ” t r a a n e g i l n e o r e a l i s m o e l i e c h e r u b i n i on è morto, il neorealismo. Ne perpetua con entusiasmo la sopravvivenza un professore di Avellino, noto critico e saggista cinematografico, direttore della rivista « Cinemasud ». Quest’ul timo vessillifero del cinereali- smo si chiama Camillo Marino. Quattordici anni fa ideò una sin golare manifestazione internazio nale apparentemente a scopo tu ristico (per ottenere scarse sov venzioni ) ma fondamentalmen te con fini culturali. Era un fe stival provinciale, quello delle prime edizioni, ma poi man ma no, col passare degli anni, assun se proporzioni sempre più im pegnate ed impegnative, all’in segna del « Laceno d’oro », tan to da ottenere quest’anno la col laborazione della Mostra inter nazionale d’arte cinematografica di Venezia. Perché « Laceno d’oro »? Per ché la prima edizione si svolse fra l’altipiano Laceno (territo rio del comune di Bagnoli Irpi- no) ed il capoluogo Avellino nell’ormai lontano 1959, anno in cui il neorealismo cinemato grafico era in pieno boom. Per celebrare dunque i « fasti » del neorealismo italiano, ogni anno, pur fra enormi difficoltà tecni co-organizzative, Camillo Mari no e i suoi collaboratori irpini sono riusciti sempre a mantener fede ai loro impegni premiando prestigiosi cineasti, o giovani pro messe in seguito affermatesi, con l’avallo di giurati di chiara fa ma, fra cui quest’anno: Cesare Zavattini, Luigi Zampa, Carlo Lizzani, Giuliano Moni aldo ed altri. Nel quadro di un avvicen damento al vertice, quest anno Zavattini ha sostituito Domenico S e rg io L o ri Rea come presidente della giu ria; una giuria che aveva già in signito del « Laceno » ( una tar ga d’oro sulla quale è raffigura to appunto l’altipiano Laceno) registi come Michelangelo Anto nioni, Francesco Rosi, Gillo Pon- tecorvo e Pier Paolo Pasolini. Quest’anno sono stati premiati con le targhe d’oro: Alida Valli ( per « una vita dedicata al ci nema»), Sergio Copogna (per la regia del film Diario di un italiano), Elda Tattoli (per il film Pianeta Venere), Leonide Moguy (omaggio alla carriera), il regista Kiril Cenevski (auto re della pellicola Seme nero), Magdalena Vassilieva (nuovo volto del cinema europeo), il regista cecoslovacco Jaromil Ji- res (per il film Saluto alle ron dinelle), Dragovan Ivanovic (re gista del film La ragazza di Ko- smas), Nino Zanchin (vincitore del minifestival per ragazzi con la pellicola I bambini chiedono perché). Altri premi (troppi, in veri tà) sono stati assegnati al gio vane regista Massimp Antonelli (autore di Tema di Marco, la più interessante e discussa tra le opere presentate al « Lace no » ), alla piccola Susanna Me landri (ha appena otto anni ed è la protagonista dei Bambini chiedono perché), ad Antonio Bertini (per il documentario di guerra Sconfiggeremo il cielo ), al regista messicano Rafael Kor- diki (per Angeli e cherubini), al regista macedone Branko Kapo (per Tempo senza guerra) e a Bedy Moratti (protagonista di Pianeta Venere). Apertosi ad Avellino con una interessante conferenza di Giu- Sopra: « Diario di un italiano » di Sergio Copogna; sotto: « Tempo senza guerra » di Branko Kapo. In apertura: « Angeli e cherubini » di Rafael Kordiki. In chiusura: Alida Valli; sotto, « Seme nero >: _________di Kiril Cenevski.__________________ lio Cesare Castello, sul tema « Neorealismo e sue prospettive storico-umanistiche », il festival vero e proprio si è svolto quin di al cinema Ideal del vicino1 co mune di Atripalda, dove in set te intense giornate sono stati proiettati quattordici film, i più importanti dei quali già presen tati all’ultima Mostra di Vene zia. Intanto, parallelamente, si svolgeva nel capoluogo irpino il primo « Festival per ragazzi » del Sud con pellicole provenien ti dall’Unione Sovietica, dalla Jugoslavia, dalla Francia, dalla Cecoslovacchia, oltre che dal l’Italia. Al termine di ogni proie zione si sono svolti animati di battiti. Quelli più vivaci sono stati provocati dalle proiezioni del Tema di Marco, di Massi mo Antonelli, e del Pianeta Ve nere di Elda Tattoli. L’ex collaboratrice numero uno di Marco Bellocchio ha ten tato col suo film, com’è noto, di aprire un discorso sulla eman cipazione della donna inserita nell’attuale società italiana, tra speranze e delusioni, certezze e dubbi, nel contrasto fra la vita privata e quella pubblica. « Af francata dalla schiavitù quoti diana dei figli, delle stoviglie, le della casa — ha detto Elda Tat toli, — la donna potrebbe esse re meglio valorizzata se tutti i suoi problemi quotidiani fosse ro collettivizzati in famiglia. An che l’uomo, marito o compagno, dovrebbe cioè contribuire a svol gere faccende domestiche. In tal modo la donna si sen tirebbe alla stessa stregua del l’uomo ed avrebbe la possibili tà di dedicarsi meglio ad altre attività più costruttive ». Tutto sommato, anche quest’an no il « Laceno d’oro » ha offer to spunti stimolanti ed intensi saggi di nuovi valori sociali in una vasta ma alquanto eteroge nea gamma di soggetti ed am bientazioni che hanno posto in luce, sul piano del linguaggio e- spressivo, differenze e contra sti tra varie produzioni. Neorealismo o no, il « Laceno d’oro » continua così ad essere un trampolino di lancio per nuo vi cineasti, non tutti forse anco ra capaci di esprimere il meglio di loro stessi, ma che comunque possono fornire evidenti indica zioni sulla validità (o meno) di certe scuole e tecniche, anche d’avanguardia, e di varie ten denze estetiche. Sergio Lori Sopra: Vinicius de Moraes con Maria Cruenza e Toquinho hanno fatto lina tournée in Italia. Eccoli durante la esecuzione di alcune nuove composizioni del poeta cantante brasiliano. Sullo sfondo: Bondotti e Leone Piccioni. Sotto:! piccoli angeli del Medio Evo sono ragazze di appena dieci anni, giunte dalla Corea con il Balletto Nazionale Folcloristico del loro paese. Nella foto: le ballerine coreane mentre si esibiscono all’Olym- pia di Parigi. S i è soli quando la realtà che ci circonda si mostra impenetra bile. Si è soli quando si ha co scienza di un proprio limite, che può significare chiusura e dispe razione nell’impotenza. L’imma gine che più di frequente ci pro viene dal mondo sardo è quella di uomini chiusi nella loro soli tudine, nel loro dolore. Maria Carta, nata in Sardegna trenta anni fa, da qualche tempo va proponendo a quanti ascoltano la sua voce dai timbri sonori e morbidi, quella solitudine, quel l’impotenza, quella rassegnata e contenuta disperazione, proprie della sua gente. I testi dei can ti parlano di rimpianti di interi sogni di dolce affetto; raccon tano desideri rabbrividiti di do lore tra i brandelli morti della M A R I A C A R T A l a v o c e d e l l ’ a l t r a S a r d e g n a speranza. A lei interessa far co noscere tutto ciò. che non è af fatto * antico », « passato », per ché nonostante il formarsi di cer te punte turistiche, quel mondo è ancora vivo. « Oggi la Sarde gna — mi dice la Carta — si co nosce per la Costa Smeralda, per un certo turismo internazionale che ha portato ad uno sventra mento dell’isola. Ora essa sta diventando di tutti, meno che nostra. C’è l’altra Sardegna, quel la della miseria secolare, ed io presentando i suoi canti antichi, intendo comunicare a tutti le emozioni, le sofferenze degli iso lani ». Sono emozioni che possono na scere da una semplice contem plazione di « mani vecchie / pog giate sui calzoni rattoppati... / stanche / d’una vita allucinante di miseria... / mani già piene di freddo / con un groviglio di vene / che avevano scaldato i fi gli »; contemplazione di un be ne passato: « ricordo il mio amo re senza male / vedo lontanissi mi in casa / i mobili pieni di stracci / e i visi grigi di dolo re / E lo spavento gesticola nel silenzio ». Esprimendo questo anche con dei versi — e qui li ho tratti dalle poesie Gonario Ruiu e Efisio Concas — Maria Carta mostra di portarsi « den tro » ancora per intero il pro prio mondo, che pure da bam bina la spaventava. « Io ho cominciato a cantare per difendermi dalla paura — dice infatti. — Da bambina sentivo delle ombre intorno a me, e allo ra avevo paura. Paura di quel mondo invisibile che non riusci vo a sapere in effetti cosa fosse di preciso. Paura dei silenzi. Ho poi scoperto che quelle ombre erano i morti. Ancora oggi io ho con loro un ’’dialogo psicolo gico” per domandare un aiuto, una forza interiore. Sono essi ad aiutarmi ». Ci sarebbe da sorri dere per la semplicità con cui di ce queste cose, ma la sua serie tà lascia pensare che ormai tut to ciò faccia parte delle sue con vinzioni, delle quali non si può avere che rispetto. Ma alla pau ra di quelle sue antiche ombre e di quei silenzi spaventevoli propri del Sud, altre se ne sono y aggiunte. « Sì — conferma lei — e la paura più grande che provo giorno per giorno è quella di incontrare gente insincera. Cre do sempre che tutti siano fatti allo stesso modo, sul mio mo dello. Invece mi sbaglio. Ho paura del mondo perché non ho ancora capito bene cos’è in fon- I do l’uomo ». Non chiede poco! Ma per il mo- • mento è contenta di avere ca pito il suo uomo, il marito Sal vatore Laurani, sceneggiatore. « Sì, per lui ho una profonda stima ed una sorta di venera zione. So di avere accanto un uomo vero, che mi ha dato so prattutto molta comprensione. Il più grosso regalo che mi fece appena conosciuti, fu quando mi disse: ’’Beh, da oggi devi legge re 50 pagine al giorno fino ad arrivare a 150”, e mi indicò al cuni testi. Ciò per me è stato molto bello perché fino a 18 an ni ero vissuta nel buio più as soluto. Il primo libro che lessi fu Umiliati e offesi di Dostoiev- skij ; ebbi uno shock, piansi per una settimana! Sono entrata co sì nel mondo della cultura at traverso un’emozione, un dolo re... Per tornare a mio marito, è stato lui a volere che ricomin ciassi a cantare. Avevo cessato di farlo al momento del matri monio, e allora avevo diciotto anni ». Prima di quella data si era esi bita sulle piazze dei paesi sardi, accompagnata alla chitarra da suo nonno. Il primo suo debutto avvenne a dodici anni, e subito i sardi, vecchi e giovani, le si af fezionarono. Ma lei credette sem pre che quelle sue esibizioni fos sero qualcosa di dilettantesco. Non così pensò suo marito. Do po il matrimonio e per ben otto anni, parallelamente all’opera di inculturazione della sua Maria, si preoccupò di farle studiare con serietà i canti antichi della Sardegna. Si trattò di mettere a punto alcuni di essi essenzial mente liberi nel ritmo e senza accompagnamento (e cioè senza armonizzazione dei suoni) e di studiare per degli altri un ac compagnamento che mantenen dosi nei giusti limiti di una di screta armonia, non contraddi cesse né la linea melodica né la flessibilità ritmica, e riuscisse pertanto utile alle possibilità espressive della cantante. Ma ria riuscì a definire il proprio stile in cui trova rilievo la so brietà e la discrezione; la voce acquista una notevole capacità di modulazione su ritmi che tec nicamente richiedono un gran numero di sfumature espressi ve. « Non dimentichi — mi dice in proposito — che le origini del canto sardo affondano nel mo dale gregoriano! » Passando dal sacro al profano, le chiedo scherzosamente se da rebbe l’anima al diavolo per ar rivare al successo internazionale. Risponde decisa: «No. Non da rei l’anima né al diavolo, né a Dio perché non so se la mia fe de in essi possa dirsi certa. No, l’anima non la darei perché non so se essa esiste. Darei la mia vi ta perché è qualcosa di preciso. Ecco, se avessi dieci anni e due giorni da vivere, io prenderei due giorni per me e dieci anni per la pace, o per la scomparsa della miseria... Della miseria ho un ricordo tragico: mio padre a causa di essa si ammalò grave mente. Io ricordo che la prima volta che lo andai a trovare in clinica, ero bambina, poverino stava legato. Mi ha riconosciuta e mi ha sorriso. Sì, io darei die ci anni miei, senza finzione, per ché gli uomini avessero più co raggio e più onestà ». E’ come dire che un giorno for se il vento cesserà di seguire le angosce che scivolano sui diru pi e una « certezza » nuova rive stirà di colori i minuti degli uo mini, sardi e no. Forse soltanto allora si cesserà di usare il canto solo come mezzo per ricordare, per pregare. Angelo L. Lucano O R S O N i / E L L E S k A C M A G G I O R E G I S T A D I H A R L I E C H A P L I N Orson Welles prepara il colpo più sensazionale della stagione cinematografica ’73-’74: ha scritturato per il suo prossimo film Charlie Chaplin. Le trattative tra Welles e Chaplin si sono svolte nella più assoluta segretezza. Dallo stretto riserbo che avvolge questo progetto cinematografico sono filtrate soltanto poche notizie. Chaplin si è sempre rifiutato sino ad oggi di essere diretto da altri: ha accettato la proposta di Orson Welles perché Io giudica il più grande talento cinematografico. Dopo il suo. Al terzo posto, è noto, pone Federico Fellini. t r e n t a n n i d o p o Per commemorare Humphrey Bogart è stata organizzata a Holly wood una serata in memoria del grande attore scomparso. Alla commemorazione sono intervenuti registi e attori che hanno lavo rato con il divo degli anni quaranta. Nella foto, Ingrid Bergman alla presentazione del film « Casablanca », nel quale fu accanto a Bogart. Con la Bergman c’è il regista del film, Anatole Litvak. E N R I Q U E Z E I L “ R O M A T E A T R O ” Lola Falana è tornata in Italia per partecipare a uno spettacolo televisivo accanto a Gino Bramieri. La nota cantante ballerina debuttò in Italia in una edi zione di « Canzonissima ». Il titolo del varietà televi sivo del sabato sera è « Hai visto mai? ». E uscito il primo numero del mensile « Romateatro », foglio di informazione del Teatro di Roma, diretto, come l’istituzio ne stessa, da Franco Enriquez. L’interessante iniziativa di dare vita a questo bollettino è stata accolta con favore e giudicata positivamente dai molti appas sionati frequentatori dello « Sta bile » della capitale ai quali il periodico viene gratuitamente di stribuito. Questo primo numero si apre con una intervista con il regista teatrale Benno Besson, tedesco, noto soprattutto per le esperien ze felicemente svolte nel perio do fra il 1960 ed il 1970 al « Deutsches Theater », al « Ber- liner Ensemble » e al «Volksbù- ne», di cui è attualmente diret tore. Besson è venuto a Roma, su invito di Franco Enriquez, per portare sul palcoscenico del lo Stabile L’anima buona di Sezuan, vecchia passione del regista, allestito per la prima volta a Berlino nel 1955 e por tato poi in varie città, fra cui in Italia, a Torino, Milano e Firenze. Il dramma di Brecht è questa volta interpretato dal la brava Valeria Monconi, nei confronti della quale Besson ha espresso un lusinghiero giudi zio: « La presenza di Valeria Monconi mi dà la possibilità di accentuare certe caratteristi che di Sezuan che, per l’in- nanzi, non avevo approfondito, quali una latente comicità inter na... ». Inoltre, a proposito di Brecht, Besson ha affermato: « ...per me Brecht non ha sol tanto un valore descrittivo nei confronti della società borghese, ma ha anche un valore poetico conoscitivo; la sua drammatur gia in questo senso è più sottile di quanto non la si voglia in tendere da parte di parecchi in terpreti, ed è anche più profon da di quanto non pretendano altri interpreti tedeschi e di tut to il mondo ». Un altro interessantissimo argo mento affrontato in questo pri mo numero di « Romateatro » teatro-scuola. è quello del Il tema viene compiutamente in trodotto da un intervento del professor Ferruccio Marotti, del l’Università di Roma, che ha passato sinteticamente in rasse gna i vari aspetti del rapporto fra il teatro e la scuola oggi in Italia, fornendo, dopo una in troduzione apparentemente pes simistica, alcuni esempi confor tanti di ottime realizzazioni tea trali effettuate per il pubblico scolastico o attuate in sintonia con esso. Inoltre, per rendere incisiva l’azione di penetrazione del teatro negli ambienti scola stici e universitari, Marotti espo ne, per il Teatro di Roma, al cune proposte originali, di fon do e di organizzazione. Il pro blema del teatro nella scuola è sorto in maniera pressante per il Teatro di Roma, in seguito ad un incontro che Enriquez, in sieme a Giovanni Gigliozzi, Giu seppe Bartolucci e Maria Teresa Canitano, ha avuto con un cen tinaio di presidi e di insegnanti di scuole elementari, medie e superiori di Roma e provincia. Per concludere questa nostra se gnalazione, accenniamo all’inter vento editoriale di Franco Enri quez, il quale, a proposito dello Stabile da lui diretto, afferma: « L’attività del Teatro di Roma, al suo primo anno di vita, in negabilmente si presenta all’in segna dell’intelligenza e del con fronto... »; dopo aver dichiara to che funzione di un organi smo teatrale pubblico deve es sere di fornire e rappresentare i momenti più significativi del teatro italiano professionale, in modo da incoraggiarne la ricer ca e favorirne lo sviluppo, Enri quez ha confermato che proprio in questa linea intende muover si il Teatro di Roma, e così per tanto conclude: « ...Tale politica del Teatro di Roma richiede una partecipazione dello spettatore, dell’abbonato, non soltanto nei confronti degli spettacoli ma an che delle loro scelte; i modi e le finalità di queste scelte sa ranno stabiliti nei mesi che pre cederanno la prossima stagione. Al momento del bilancio della attività di questo primo anno gli spettatori e gli abbonati ver ranno infatti chiamati a colla borare con iniziative per il mo mento allo studio ». Giacomo Carioti L ’ A m b l e t o A tro c e e um anissim o, bece ro e p o e tico , b a rb a ric o e sublim e. U no s tra o rd in a rio A m le to ru s tic o e lo m b a rd o , in cui si fo n d o n o e si rin n o va n o le p re ce d e n ti e sp e rie n ze le tte ra rie d e llo sc ritto re . C O M U N I C A R E C O N T U T T O I L M O N D O I N O G N I M O M E N T O telegrafia telex telefonia fototelegrafia trasmissione dati servizi cablografici, radiotelegrafici e radioelettrici s.p.a. Roma . via Calabria 46/48 tei. 47701 . telex 62146 / \ . ■ IL T E - Industria Libraria Tipografica Editrice ■ Spedizione in abbonamento postale - Gruppo III/70 L. 1300

Documenti

Tipologia

Il dramma : rivista mensile di commedie di grande successo. - Torino : Grandi firme, 1925-1992.

Fondi collegati

appartiene a