IN L I B R E R I A Gabriel Marcel, Tea tro Con quello di Jean Paul Sartre e Albert Camus, ben noti ai let tori e spettatori italia ni, il teatro di Gabriel Marcel completa il pa norama della grande drammaturgia esisten zialista Ignoti nostro Paese, i capolavori di un Marcel, rivelano drammaturgo di rara forza espressiva, de gno dei maggiori com mediografi del Nove cento. francese. nel A B E T E D E C o rs o V itto r io E m anu ele , 39 - R O M A I O I Z N I p r e s e n t a L A P IÙ C O M P L E T A E A G G IO R N A T A C O L L A N A T E A T R A L E D E L L ’E D IT O R IA I T A L I A N A : L ’ E V E N T O A E T Direttore: G iovanni A n to n u c c i T R L E A D I P R O S S IM A P U B B L IC A Z IO N E A C H IL L E R IC C IA R D I: IL TE ATR O DEL. COLORE, a cura di S ILV A N A SIN ISI. G IO V A N N I M A R C H I, A N T O N IN AR- IL TE ATR O D E LLA CRU TA U D E D E L T À ’ Il G IO V A N N I A N TO N U C C I, LA R E G IA TE A TR A LE IN IT A L IA N E G LI A N N I SETTAN TA. M A R IA N G E L A M A ZZO C C H I D O G LIO , STO R IA D E L TE ATR O SIM B O LIS TA . JE A N -M IC H E L G A R D A IR ,P IR A N D E LLO M artin Esslin, Teatro dell’Assurdo Finalmente anche in edizione italiana, que sto « classico » della moderna saggistica tea trale costituisce il più ampio e aggiornato ma nuale sulle nuove espe rienze del teatro del secondo dopoguerra. Beckett, Jonesco, Ge- net, Adamov, Pinter, Albee, Mrozek, Arra bal, Grass sono studia ti da Martin Esslin in questo saggio esempla re per ricchezza di in formazione. Frutto di una Cronache del teatro futurista, a cura di Giovanni Antonucci lun ga, difficile ricerca nel terreno inesplorato dei quotidiani e delle rivi ste specializzate degli anni Dieci e Venti, il volume offre al lettore una documentazione articolata su un capi tolo tra i più signifi cativi del teatro italia no del Novecento, in giustamente ignorato dalla storiografia « uf ficiale ». Premio Silvio D’Amico 1975. SS MARTIN ESSLIN DEL.L’A S S U R D O IL T E A T R O l'evento teatrale EDIZIONI ABETE MENSILE - ANNO CINQUANTUNESIMO - N. 11 - NOVEMBRE 1975 - L. 1.800 s o m m a r i o IL GIUDA DELL’AQUILA I BARELLIERI DELLO STABILE 3 4 7 LA VERITÀ’ HA LA TESTA DURA 8 ALLA LARGA DA CIRINO! 11 LA COLITE MUSICALE 13 CON LA MENTE AL CREMLINO 17 TIVÙ’, FATE LUCE 19 IL «CENTRO» INSPERIMENTALE 20 ATTORI A FUMETTI 22 PERSE - POLI 24 ...E FANNO MALE ! 25 LAMENTO E RABBIA PER I GATTI (Radiodramma) Carlo Castelli 33 L’ESEMPIO (Due tempi) 51 LA VERGINE E LA CITTA’ 55 « ACQUA CHETA » RINGRAZIA LA BORA 61 PERCHE’ NON SEI VENUTTAA 63 UTO-POP 65 NON ARRIVANO I « NOSTRI » 69 MAKAROVA SODDISFATTA 75 L’AVVOCATO COMPOSITORE 81 DANZANDO SOTTO LA PIOGGIA 83 SALVATAGGIO IMPOSSIBILE? 85 IL «DRAMMA» TV IL «DRAMMA» A TEATRO 86 92 SE E’ FRANCO DICO SI’ 9H T.A PAGINA DF.T CAD Giovanni Antonucci II Dramma Michael A. Ledeen Cla.Sco. Maria Fotia II Dramma Fernando Bevilacqua Enrico Fulchignoni Italo Alighiero Chiusano Barbara Nunez del Castillo Sandro Paparatti Gica Bobich Claudio Scorretti Cla.Sco. Giacomo Carioti Irene Freda Pitt Franco Mannino Alberto Testa G.Car. Silvana Gaudio In copertina: « Shakespeare » - Collage di Paola de’ Caverò. Foto: Le Pera, International Press, La Verde, Dufoto, De Rota, Caglierò, Mark & Smith, Nanni, Spati, Swope. DIRETTORE RESPONSABILE: MAURIZIO LIVERANI Direttore Editoriale: Enrico Fulchignoni - Redattore Capo: Enzo Carra - Redazione e Amministrazione: Piazza di Campo Marzio 5 - Tel. 657307 - Roma (00186) - « Romana Teatri » S.r.l. Editrice - Regi strato . presso il Tribunale di Roma al n. 15230 il 22 ottobre 1973. Un numero L. 1.800. Arretrato L. 2.300. Abbonamento annuo L. 20.000; Estero ’25.000 (IVA compresa). Spedizione in abbonamento postale Gruppo III - 70%, C.c.p. n. 1/69881 intestato a * Romana Teatri » s.r.l. 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ROSSI MASSA ORVIETO OS1MO PADOVA PAVIA PERUGIA PISA RIMINI ROMA ROMA ROMA ROVIGO SIENA SULMONA TERNI TREVISO VENEZIA TEATRO GUGLIELMI TEATRO MANCINELLI TEATRO LA FENICE TEATRO VERDI TEATRO FRASCHINI TEATRO MORLACCHI TEATRO VERDI TEATRO NOVELLI TEATRO DELLE ARTI TEATRO QUIRINO TEATRO VALLE TEATRO SOCIALE TEATRO DEI RINNUOVATI TEATRO COMUNALE TEATRO VERDI TEATRO COMUNALE TEATRO MALIBRAN IL PIÙ IMPORTANTE CIRCUITO DI TEATRI IN ITALIA D R A M M A I L G I U D A D E L L ’ A Q U I L A di G iovanni Antonucci ì , a s to ria d e lla precocissima morte de I l Q uinto Evangelista di M ario Pomilio, rea lizzato dal Teatro Stabile dell’A quila per la regia di Orazio Costa, è come poche emble matica della degenerazione politica e ammi nistrativa dei teatri a gestione pubblica, fi nanziati cioè dalla collettività. È una storia lunga e tortuosa, che merita di essere non solo conosciuta ma anche attentamente me ditata, se nel nostro Paese la libertà d’espres sione ha ancora un avvenire. I l Q uinto Evangelista, il dramma che con clude uno dei più straordinari « romanzi » degli u ltim i vent’anni, I l quinto evangelio, divenuto contro ogni previsione (data l ’altez za del suo tema e la raffinatezza della scrit tura) un vero e proprio best-seller, è stato li quidato, in fatti, dopo 23 rappresentazioni in piazza per lo più periferiche, nonostante l ’in discutibile successo di critica dello spettaco lo e il notevole interesse della parte esigua di spettatori, che hanno avuto la possibilità di vederlo. Il prim o dato che occorre sottolineare per rilevare in tutta la sua ampiezza la portata dell’operazione di boicottaggio del Teatro Stabile dell’Aquila, è costituito, appunto, dalle piazze in cui lo spettacolo è stato con finato. Il suo debutto avviene il 19 settembre a San M iniato, in occasione dell’annuale ap puntamento teatrale dell’Istituto del Dram ma Popolare, che ha contribuito finanziaria- mente alla sua realizzazione. Dal 19 al 28 settembre II Q uinto Evangelista viene rap presentato con evidente concorso di pubbli co nella Chiesa di San Francesco della cit tadina toscana. Poi lo spettacolo ha due rap presentazioni a ll’A quila nel Teatro dove ope ra lo Stabile, anche se si parla di un tenta tivo di spostarlo in una Chiesa, l ’ I e il 2 ottobre. Il 3 ottobre è a Sulmona, il 5 di nuo vo a ll’Aquila, il 6 ad Avezzano, il 7 a Ca serta. L ’8 e 9 ottobre, a Napoli, I l Q uinto Evangelista ottiene un grande successo. Dal 10 al 12 viene presentato privatamente, per i dipendenti del Banco di Roma (che ha pa gato le repliche con generosità), nella Chiesa delle Stimmate di Roma. I l 14 è la volta di Assisi, il 15 (data in cui scade il contratto degli interpreti) muore ad Ancona. La nudità delle cifre vale più di qualsiasi commento: I l Q uinto Evangelista è stato bruciato (anche come novità italiana ai fin i della sovvenzione m inisteriale), senza che gli spettatori delle città che contano a livello teatrale (esclusa Napoli) abbiano avuto la possibilità di vederlo. Lo sforzo finanziario del Teatro Stabile dell’Aquila, che ha sostenuto il maggior one- re, dell’Istituto del Dramma Popolare di San M iniato e dell’Ente Nazionale del Turism o, il cui apporto è stato decisivo per il varo del- l ’impresa, è stato, di fatto, inutile, se è ser vito a produrre uno spettacolo come questo che non ha avuto alcuna circolazione e che si è auto-emarginato dai circuiti principali, che l ’avrebbero certamente accolto con grande interesse. È chiaro che nei nostri Stabili fatti come questi non avvengono per caso o per una ca rica eccessiva di masochismo: esistono sem pre dei moventi che, tuttavia, raramente ven gono divulgati dalla stampa. Questa volta, il caso Pomilio è talmente clamoroso che è dovere morale, oltre che giornalistico, inform are i lettori delle cause che hanno condotto al sabotaggio di una opera, rea soltanto di esaltare la libertà del cristiano di fronte a tu tti i totalitarism i e a qualsiasi imposizione del Potere che tocchi l ’essenza della sua fede spirituale. La prim a causa, quella più a monte di tut to il problema, è costituita dal complesso di inferiorità nei confronti dei m arxisti, dalla mancanza di consapevolezza culturale e da una concezione del tutto pragmatica del po tere, che è propria dei cattolici che operano negli Stabili e che è esemplata a ll’A quila dal Presidente dello Stabile, Luciano Labiani. Tutta la storia dello Stabile abruzzese con ferma la nostra asserzione, dal velleitarismo della prim a « gestione » Calenda-Proietti al l ’incredibile (è difficile trovare un altro ag gettivo) presenza di Cobelli nelle ultim e sta gioni con spettacoli fastidiosamente in u tili e costosi come La fig lia di Jorio, La pazza di Chaillot, L ’Am inta, l ’Antonio e Cleopatra, che hanno segnato il momento più basso del la pur generale mediocre esistenza dello Sta bile aquilano. La totale mancanza di un lega me culturale di qualche significato con la Regione abruzzese è, infine, la dimostrazio ne più evidente del sostanziale fallim ento dello Stabile, anche a livello locale. Il Q uinto Evangelista di Pom ilio, nono stante un’opzione di Labiani (mai concretiz zatasi in un regolare contratto, fino a poco tempo prim a della realizzazione dello spet tacolo) in seguito al suo successo al Premio Ennio Llaiano 1974, (e forse anche, una vol ta tanto, per coinvolgere uno scrittore nato in Abruzzo qual è Pom ilio), era un testo del tutto estraneo alle scelte pseudo-avanguar- distiche che hanno caratterizzato, particolar mente negli ultim i anni, il Teatro, dell’Aquila, non certo dal punto di vista del repertorio quanto da quello della messinscena. Per un direttore che, Italia, aveva creduto fermamente nelle fatuità e morbidez ze registiche di un Giancarlo Cobelli, un testo come I I Q uinto Evangelista francamen te non poteva essere fonte almeno di per- forse unico in I B A R E L L I E R I Con i l cappello di « Teatro di Roma : gestione democratica, decentramento e parte cipazione » sfilano al Belli i responsabili del caos teatrale romano, le riserve e i barellieri. In comune hanno tutti lo stesso guardaroba di parole, la falsa semplicità comiziesca dei loro percorsi mentali, lo stesso decoro forma le impiegatizio. La goffa matassa di finzioni provoca le risa di qualche attore in sala mentre si scaricano le colpe, gonfiano un po’ di baruffa tra loro per riversare poi accuratamente tutto il bro do sulla DC (che in sala fa tribolare un con testato signore agitato nel « prescindendo »). PCI e PSI, con il loro scatolame vario, continuano il gioco dei digiunatori, sbrodo lati indecorosamente di potere, ripetono che loro non hanno ancora mangiato, che prima devono fare la comunione. Sulla classifica dei temi più venduti tro viamo quest’anno il decentramento e l’anima zione, la gestione democratica: Enriquez per de qualche punto (ormai sono anni...) e la poltrona stabile traballa, il PCI intanto in calza con tutto il suo corpo di ballo mentre il PSI para come può, con l’affanno del più « datato » breviario. « Enriquez non è inamovibile », — dice il responsabile del PSI, « ma non ci state sem pre ad accusare di clientele », loro se hanno aperto qualche negozio di divani e poltrone al centro lo hanno fatto « a fin di bene » e se ci fanno accomodare qualche opaco compa gno stanco, rotto dal contratto dei conservie ri, soddisfano pure i succhi gastrici del PCI. plessità, politica di « cattolico ». indipendentemente dalla sua fede Tutto ciò spiega le perplessità dell’Aquila, durante alcuni mesi, prima di varare uno spettacolo che si presentava impegnativo sot to l ’aspetto economico, oltre che sotto quel lo artistico. Perplessità, incertezze, rin vìi più o meno giustificati, che, non casualmente, rimandarono una definitiva decisione a dopo le elezioni, benché fossero passati quasi due mesi dal momento in cui Fabiani e i suoi collaboratori avevano trattative con Pomilio e Orazio Costa. iniziato le Ma è Enriquez che non va, lui sta a Palaz zo Argentina, esce poco e « fa cultura » (sic), non ha spettacoli popolari nel cassetto ecc. Questo Teatro Argentina poi lo vuole pu re qualche giovane, con le idee chiare, come il responsabile culturale di Avanguardia Ope raia, novità di rilievo sul carnet degli inviti (l’extraparlamentare contestato è ormai la DC) che ha proprio bisogno di un posto così per condurre il teatro alle masse. Ancora in anticamera invece le femmini ste, le più sveglie, con i cronometri puntati contro e fatte sloggiare dopo i cinque minu ti, che si rifanno però con una bella strillata, reclamando che nessuno ha interrotto gli al tri che hanno abbondantemente ingombrato il podio senza nessun pendolo alle spalle. Ma molto indicativo di come vanno le cose nel «clan di Teatro di Roma» è il fatto che il «Teatro-Scuola» (sul cui andamento infor mammo in un breve corsivo del 7/1975), no nostante le «pesanti» riserve sui metodi e sui contenuti tirate fuori anche da parecchi altri giornali, si è visto assegnare 350 milioni che, aggiunti alle spese del decentramento, diven tano mezzo miliardo per l’animazione nelle circoscrizioni. Una cosa assurda considerati i metodi usati, il campo occupato senza prendere misure spe cifiche ed il prezzo pagato a questo ristretto convento di animatori. Non aggiungiamo neanche il solito «qui i casi sono due» perché in effetti è uno solo, ammuffito e rancido. I l Dramma Il 15 giugno, con i suoi traumatici risul tati, o ffrì al democristiano Fabiani l ’oppor tunità di liberarsi di uno spettacolo che avrebbe potuto essere pericoloso per le sue fortune personali di fautore del « compro messo storico ». Ma ormai il progetto era troppo avanzato, anche se nell’attesa alcuni attori di prim o piano avevano dovuto rinun ciare per precedenti impegni, e, poi, il con tributo dell’E N IT era giunto a risolvere il problema finanziario. Cadute tutte le possi b ilità di rischio per lo Stabile dell’A quila (che, invece, in passato aveva dimostrato ben altro sprezzo del pericolo), l ’operazione era varata, ma si trattava di svuotarla d a ll’inter no, di fare in modo che il Teatro Aquilano apparisse meno coinvolto possibile. E così Fabiani (non certo dissuaso dal nuovo e più stretto collaboratore, il comunista Centofan- ti) pensò bene di occultare lo spettacolo, portandolo in piazze periferiche e non offren dolo né a ll’E T I, che certamente l ’avreb be inserito nel suo cartellone, né addirittu ra al Comitato per le celebrazioni dell’A n no Santo che non avrebbe potuto trovare di meglio per i pellegrini giunti a Roma. Per evitare, infine, qualsiasi rischio, gli at tori furono impegnati improrogabilmente fi no al 15 ottobre. Il gioco era fatto: I l Q uinto Evangelista, dramma troppo scomodo nel l ’Italia di questi anni e particolarmente dopo il 15 giugno, era convenientemente neutra lizzato. Eppure mai, come in questa occasione, il Teatro dell’A quila aveva realizzato uno spet tacolo di tale livello da non sfigurare con Stabili di ben maggiore prestigio e mezzi, grazie a ll’esemplare regia di Orazio Costa e alla prestazione collettiva di un gruppo di attori di pur diverso livello. Costa aveva il merito di credere fino in fondo nella teatralità del dramma di Pomi- lio, che, tuttavia, alla lettura aveva suscitato qualche perplessità proprio sulla sua tenuta scenica: una teatralità tutta interna, priva di qualsiasi effetto scoperto, che lo induceva a eliminare « la rappresentazione nella rappre sentazione », con gli Evangelisti cam uffati con i paramenti delle Confraternite e con il Q uinto Evangelista con il volto coperto da un ampio cappuccio fino al momento in cui, alla fine, scoprendosi, rivelava il volto di Cristo. Con questa rigorosa operazione di esemplificazione del testo, da una parte, e con la creazione di un retroterra umano dei personaggi nel prologo scritto dallo stesso Pomilio per lo spettacolo, dall’altra, Costa dava a I I Quinto Evangelista una saldezza e unità interne che il testo non possedeva. M a altrettanto fondamentale era il ruolo nello spettacolo di due intuizioni-chiave di Costa. La prim a era costituita dalla sottoli neatura che il vero m otivo della riunione dei personaggi era politico, come dimostravano due battute, quella del capitano nazista Klammer: — Non siamo mica qui per di scutere di politica! — e quella, di risposta, dello Studente Topfer, non a caso assegnata da Costa al Quinto Evangelista: — Perché, le fa paura? — La seconda era l ’introdu zione, tra i partecipanti al dibattito, di un quartetto di esecutori e di un musicista che ha composto della musica per l ’occasione: la R E P E TITA JU V AN T: A C H I ? Ci segnalano da Genova che quanto è successo a Napoli ( vedi Numero 12 | de IL D R A M M A - Dicembre 1974, pag. 76) si è ripetuto a Genova. Certificato medico, in cui si comprova che il D iret tore A rtistico e Direttore Stabile del- l ’Ente Autonomo Genovese, a causa del- la malferma salute, non può accogliere l ’invito scritto dal Sovrintendente Doti. Ugo, di rientrare in sede per svolgere le sue mansioni. | i I Intanto, nel periodo che era malfer mo, il « malato » dirigeva per la R A I a RO M A. Se la notizia, comunicataci telefoni camente, da un componente il Consiglio di Amministrazione Genovese, e ripetu ta dalla stessa persona anche al Maestro Rubino Profeta non fosse esatta, chie diamo fin da ora scusa; se invece fosse | esatta, secondo noi sarebbe degna di in- I teressamento del Procuratore della Re- I pubblica. le tutte musica in funzione di una espressiva delu cidazione della tematica del testo. Una musi ca seriale, spregiudicata stilisticamente e contestataria nella Germania che aveva ban dito come degeneratore forme di espressione più avanzata. I l ruolo della mu sica, composta da un giovane musicista di grande talento, Sergio Prodigo, ed eseguita da quattro eccellenti esecutori, finiva così per diventare particolarmente significativo ai fin i del discorso scenico. Ma neppure da dimenticare è l ’intervento di Costa sul ruolo del sacerdote che, a differenza del testo, vie ne arrestato, anche lu i, dal capitano Klam mer: soluzione acuta per il personaggio che ha proposto il dibattito sul Q uinto Evange lio e che ha creato le premesse per il dram matico finale. G li interventi di Costa sul te sto, discreti, com’è il suo costume, e concor dati con l ’autore, erano al servizio dell’ope ra di Pomilio e non viceversa, come succede oggi nel nostro teatro. E dello stesso genere era la recitazione, di un’omogeneità e di un livello generale almeno inconsueto sui pal coscenici italiani. Orazio Costa resta, in Italia, uno degli u l tim i registi attenti alla personalità dell’inter prete e capaci di sollecitare le sue corde più nascoste e, ciò che ancora più conta, di concertare con rara misura attori delle estra zioni ed esperienze più diverse. Così Andrea Bosic è un sacerdote m olto convincente con una leggera punta di umorismo, Alberto Man- cioppi è un Toepfer-Giuda di interiore in tensità, perfettamente in equilibrio tra esa sperato razionalismo e bruciante passionali tà, Piero Biondi incarna con grande incisi vità l ’Avvocato Schimmel, M ico Cundari è un D ottor Ehrart di notevole prestigio, G io vanna G alletti è un’intensa Signora Kuiper, Gabriele Carrara è un convinto, appassiona to Q uinto Evangelista. G li altri, Giampiero Fortebraccio, Claudio Trionfi, Em ilio Capuc- cio, Aurelio Pierucci, Sergio Salvi, A ttilio Corsini, Raffaele Uzzi, per citare i più degni d’elogio, dimostrano, pur nelle diverse pos sibilità interpretative di avere attentamente seguito le indicazioni registiche di Costa. Un merito non certo da poco. G iovanni A n to n u c c i IN I T A L I A P U R T R O P P O , G L I S T O R IC I SONO A N T IS T O R IC I L A V E R I T À H A L A T E S T A D U R A di M ichael A. Ledeen Michael A. Ledeen, è nato nel 1941 in Los Angeles, California. Laureato a ll’Università di Wisconsin, ha studiato con George L. Mosse e W illiam A. W illiam s. Docente d i Storia Contemporanea alla «Washington University» di St. Louis, dal 1967 al 1974. Adesso è do cente di storia americana presso l ’Università di Roma (Istituto di Storia Moderna). Autore di numerosi saggi sul fascismo e della storia degli ebrei. In italiano: L ’Intemazionale fa scista (Laterza, 1972) D ’Annunzio a Fiume (Laterza, 1975). Sta scrivendo un libro: G li ebrei dell’Italia fascista. Ha collaborato con la R A I-T V per il ciclo: Dove va l ’America ? S i È p a r la to moltissimo in questi u lti m i tempi del «caso De Felice», che è esplo so con la pubblicazione della Intervista sul fascismo curato da me per la casa editrice Laterza. Che questa intervista avrebbe su scitato molte polemiche si sapeva già in partenza, ma non credo che nessuno di noi — né De Felice, né V ito Laterza, né io — si aspettasse l ’intensità dell’attacco provoca to da questo volumetto. Quando uno storico serio come Nicola Tranfaglia può temere che l ’intervista «possa fare tra i giovani e tra quelli che non hanno seguito... una nuo va storiografia sul fascismo... guasti assai gravi...» si è di fronte ad un fenomeno im pressionante. Quali guasti può provocare un libro che non è che un riassunto di circa quindici anni di ricerche, di opere ben conosciute in tutto il mondo, e di un continuo lavoro sul fascismo ? La risposta di Tranfaglia — e di m olti altri, anche se non così esplicitamente — è che De Felice ha tentato «una completa ria bilitazione del fascismo.» Come tale, il li bro andava combattuto, e l ’autore doveva essere screditato. Lelio Basso fu d’accordo: «Se Renzo De Felice si proponeva di ten tare una riabilitazione politica del fascismo, ha raggiunto perfettamente il suo scopo...». Per Leo V aliani, non solo erano false le tesi di De Felice, ma lo storico avrebbe cercato di minimizzare i delitti fascisti. Secondo Paolo A la tri, si era addirittura «alla più completa scomposizione degli ele menti unitari che il più elementare buon senso coglie e stabilisce quando pensa ai re gim i di M ussolini e di H itler. » E così via. * ^ * Leggendo questi interventi polemici di tanti «esperti» italiani, uno potrebbe pen sare che De Felice avesse scritto delle cose del tutto inaudite, se non delle pazzie. Ma invece — ed è questo che più m i colpisce di tutto l ’episodio — si tratta di cose am piamente documentate, non solo nei quattro grossi tomi della biografia di M ussolini fi- nora scritti da De Felice, ma dalla stragran de maggioranza degli studiosi del fascismo in America, Francia, Germania e Inghilter ra. Tanto per prendere tre esempi, George L. Mosse (uno dei più illu s tri storici del nazismo, il cui volume La nazionalizzazione delle masse e recentemente uscito in Italia, ed ha vinto il premio «Aqui storia»), Irving Louis H orow itz (sociologo americano, stu dente di C. W right M ills, autore di nume rosi studi sulla sociologia politica, e di un libro fondamentale sul pensiero di Sorel), e Stanley Payne (probabilmente il maggiore interprete del fascismo spagnolo e la guerra civile in Spagna) hanno recentemente scrit to recensioni dell’Intervista, condividendo in gran parte le tesi di De Felice. Non solo, ma erano in grado di citare numerosissimi altri studi che dimostrano le stesse tesi de- feliciane. Queste tesi, tanto contestate qui, sono spesso dei luoghi comuni a ll’estero. Per capire le polemiche, bisogna esami nare le tesi di De Felice, anche molto bre-. veniente. Fra le tante che il libro contiene, le tre che più hanno, suscitato le ire e le per plessità dei c ritic i sono queste: che il fa scismo fosse nato tra ceti medi emergenti in Italia, non ceti medi minacciati dalla pau ra della proletarianizzazione; che fasci smo, almeno per un certo periodo negli anni trenta, conquistasse un largo consenso fra gli italiani, un consenso che in parte si ba sava su una componente rivoluzionaria che si rallaccia alla tradizione della rivoluzione il A L L A L A R G A D A C I R I N O ! Sergio F antoni alla prima regia e Bruno C irino alla seconda bracciata nel mare delle polemiche; vedremo il Lo- renzaccio d i De Musset — versione Coo perativa Teatroggi -— , per Cirino inve ce occhi alla cronaca. A lla « tradizionale conferenza stam pa » Sergio Fantoni presenta « le chia vi di lettura », Bruno Cirino invece, da capoclasse, « la lista dei cattivi ». Dalla lista: Paola Pitagora « leggera, irresponsabile, sostituibilissima » colpe vole d’aver abbandonato a ll’improvviso la Cooperativa; segue Francesca Bene detti che, pur non avendola mai abbrac ciata, «ha firm ato e dopo due giorni ha disdetto» e, in ordine sparso secondo le colpe, «tanti a ltri a tto ri» (subito sep p e lliti dal citatore «ufficiale» sotto la monumentale « minima », assegnata a Strehler, de « Nessuno è indispensabi le »). La nota se la piglia però il Teatro Stabile di Roma con la motivazione: « letale ad ogni iniziativa, disattento, assurdo, indecente, fa lettere false e spet- tacolacci al Tuscolano e al Brancaccio» e — soprattutto — è colpevole d’aver tenuto alla larga Cirino. « È vergognoso questo finto decen tramento romano », insiste C irino; ma dove tende parare è ormai ovvio: il de centramento lo farà lu i il prossimo apri le quando, riposto Lorenzaccio, sbar cherà alla V II circoscrizione e conqui sterà Centocelle. « Ma basta col teatri no di Centocelle », è ancora Cirino che parla, « voglio spazi grandissimi — ci sono o non ci sono ottocentomila per sone — ci vediamo quindi in piazza, nelle strade a far casino, bloccheremo il traffico, vedremo se... » titolo », reclamano impazienti, « Il « il titolo... » « Il maestro di Pietralata fermato a Centocelle per schiamazzi notturni », è im proponibile visto che l’hanno preso tu tti terribilm ente sul serio... « Non c’è ancora titolo », continua Cirino, « ma è un lavoro di Dacia M aram i sulla situa zione sanitaria italiana... » Fantoni, estraneo a questa cooperati va (non si sa mai con Cirino...), pensa tranquillo al Lorenzaccio, lu i è salvo, « è rotto a tutte le cooperative ! » francese; e che fra fascismo italiano e na zismo tedesco ci fossero delle enormi diffe renze,. ta li da rendeer m olto problematico un modello per il «fascismo» che cerca di comprendere ambedue i fenomeni. La prima tesi — quella dei ceti medi ’’emergenti” — chiama in causa la storio grafia marxista in Italia, che ha quasi sem pre sostenuto che la piccola borghesia, spa ventata dalla prospettiva di una imminente proletarianizzazione, si faceva strumentaliz zare dalla grande industria per combattere la rivoluzione rossa. M a la più recente sto riografia e sociologia — non solo sul fasci smo italiano, ma anche sul nazismo — r i vela che i ceti medi che senz’altro costitui rono una parte importantissima dei ranghi fascisti e nazisti erano in effetti nuovi par tecipanti nel gioco politico. Non erano quel li che avevano già trovato un posto nella società prebellica, e cercavano a tu tti i co sti di difendersi dai rivoluzionari. Erano, invece, dei nuovi arrivati, settori che stava no avanzando (’’emergenti” come vuole De Felice). Bisogna dire che molte ricerche ri mangano da fare, e ancora non abbiamo un quadro definitivo della situazione. Ma la più recente ricerca tende in questa direzio ne, e se teniamo presente quello che De Fe lice ha detto ben tre volte nel corso della Intervista — che oggi non si può tentare che un prim o bilancio provvisorio sul fa scismo, dato' lo stato delle ricerche — la sua ipotesi mi sembra ineccepibile. La seconda tesi — sul consenso e sulla componente « rivoluzionaria » del fascismo — aveva già suscitato un certo dibattito al tempo dell’uscita del quarto volume della biografia, M ussolini: il Duce. Però si deve distinguere fra quello che ha detto De Felice, e quello che gli hanno fatto dire certi suoi critici. Ad esempio, De Felice non ha detto che il fascismo fu « rosso » o che creò una rivoluzione del tipo francese in Italia. Ha detto, invece, due cose in grande importanza. Primo, che il fascismo, in quanto fosse un movimento e un regime che cercarono di mobilizzare le masse, costituì un fenomeno rivoluzionario nella storia politica del pae se. Prima del fascismo, la politica italiana fu fatta da una élite più o meno ristretta, e non cercava assolutamente di basarsi sul consenso (genuino o strumentalizzato che fosse) delle masse. Secondo, che una par te del consenso — la parte che egli ha chiamato fascismo-movimento credeva che il fascismo avrebbe creato una nuova so cietà e un « uomo nuovo ». M olto si è det to di questo « fascismo rivoluzionario », ma Giorgio Amendola ha bene capito De Felice — e, per quanto possa sembrare stra no, evidentemente condivide inter pretazione: la sua Nel blocco di forze eterogenee raccol te nel fascismo... si manifesterà un mo vimento di ’ sinistra ’, portato a vede re il fascismo come rivoluzione nazio nale e corporativa. Questo movimento ebbe origini lontane... ed una sua per sistente influenza, alta in certi momen ti... soprattutto tra la gioventù. Ma es so non riuscì mai ad assumere nel fa scismo una fu più spesso utilizzato da M ussolini qua funzione egemone, e tesi, che io avevo proposto le strumento di copertura politica. Questa in parte nel mio libro L ’internazionale fascista qualche anno fa, è una delle più significa tive de De Felice, perché dimostra come il fascismo ha ingannato una parte non ir r i levante del popolo italiano, e come c’è più nel fascismo che un semplice regime rea zionario e repressivo. De Felice, in una in tervista su La Fiera Letteraria, ha detto be rte che « si tratta... di capire cosa i fascisti, cosa gli italiani che a vario livello di ade sione seguivano il fascismo, si aspettavano che il fascismo realizzasse... » Infine, c’è la famosa terza ipotesi, secon do la quale bisogna fare una netta distin zione fra fascismo e nazismo (anche se esi- scismi ». Si tratta di penetrare sotto la fac ciata, di scoprire cosa sono stati i vari mo vim enti detti « fascisti ». In questo campo, le opere di De Felice dovrebbero costituire una utile spinta agli studiosi italiani, per fa rli partecipare nel dialogo. Invece, si sen te sdegno, polemiche e tentativi di scredi targli. Perché? tutto » De Felice stesso dice che la polemica de in riva dalla « politicizzazione di indub Italia. Credo che abbia ragione. È bio che oggi in Italia non si può tentare una semplice ricostruzione dei fa tti del re cente passato italiano senza essere accusato di qualunquismo, o peggio. Dà fastidio, dunque, il fatto che De Felice vuol scrivere una storia veramente obiettiva, senza con dannare né applaudire a priori. Sia ben chiaro: egli condanna lo condanna sulla base di una minuziosa ri- costruzione dell’epoca fascista, non perché « sappiamo il male che è stato ». fascismo, ma il invece, tutto è già i m odelli. Per Quello che i suoi critici non sopportano nel lavoro di Renzo De Felice è il suo at teggiamento scientifico. Prima, egli dice, dobbiamo scavare gli archivi, ricostruire gli eventi, e poi sviluppare i suoi critici, fatto, già compreso. I l fatto stesso che De Felice sta ancora facendo delle ricerche — ricerche che potrebbero eventualmente capovolgere posizioni tenute con grande passione — da fastidio. Sembrerà incredibile che De Feli ce sia stato criticato perché fa delle ricer che, ma ecco le parole di Tranfaglia: « c’è da chiedersi se è produttivo discutere ri méttendo ogni volta in dubbio punti ferm i che ricerche originali, documenti statistici, analisi interpretative hanno acquisito già da molto tempo o far finta che esistano sol tanto i propri lib ri... A meno che, s’inten de, tout court politica, e con la storiografia abbia assai poco a che fare...». Questo atteggiamento non è sol tanto di Tranfaglia, e in fatti è così larga mente diffuso che Amendola lo ha critica- l ’operazione sia ste un certo m inimo comun denominatore). La distinzione, secondo De Felice, viene i due movimenti dai diversi concetti che avevano della natura umana. Il fascismo voleva cambiare l ’uomo e creare un nuovo tipo di italiano, mentre i nazisti credevano che l ’uomo ariano fosse sempre esistito, e che si trattasse soltanto di liberarlo dal pe so della modernità. Questo giudizio di De largamente condiviso da moltissi Felice è mi studiosi di alto livello, quale Bracher nella Germania, Talmon in Israele, Mosse ed H orow itz negli Stati U n iti, ecc. In Ita lia, invece, questa è apparsa la tesi più ere tica di De Felice. La spiegazione delle ire suscitate da questa idea risiede, al mio pa rere, nel fatto che la resistenza fu fatta con tro nazisti e fascisti, e nelle guerre si deve dare una faccia unica ai suoi avversari. Per m olti anni dopo la seconda guerra mondia le, gran parte della storiografia occidenta le-marxista e non-marxista -— insisteva nel mettere fascisti e nazisti nello stesso sacco metodologico, insieme ai governi di Fran co, Salazar, Horthy ed altri. Man mano, questo modello è crollato sotto il peso di tante differenze nazionali, e così siamo ar rivati ad una interpretazione che mette in i vari « fa rilievo le grosse diversità fra to duramente: « Accogliere o respingere le tesi di De Felice, non vedo come possa far si senza inoltrarsi in quella ricerca storica del fascismo, in quello studio delle sue va rie componenti e contraddizioni che a m ol ti critici di De Felice sembra ancora m oti vo di ripugnanza ». v<- I critici di De Felice non vogliono che si faccia ricerche sul fascismo, e credo che dobbiamo dire che non hanno un grande amore per la verità. In questo, purtroppo, vanno d’accordo con un gruppo di giorna listi e saggisti che credono che sia più im portante scrivere cose politicamente u tili che non cose vere. M i viene in mente, ad esempio, una conversazione che ho avuto con un noto giornalista a ll’epoca del caso Watergate in America. Si parlava del ruolo che ne ha avuto la stampa americana, e egli mi disse che « noi in Italia potremmo far cadere il governo da un giorno a ll’al tro. Conosciamo tu tti tanti di quegli scan dali... ». G li ho chiesto perché, allora, non li pubblicava? « Perché noi giornalisti sia mo uom ini politici. Siccome non vediamo per ora una alternativa a questo governo, non lo facciamo cadere ». A l mio parere, questo vuol dire venire meno alla propria re sponsabilità verso i suoi lettori, che non gli hanno chiesto di decidere per loro quali ele menti della verità possono leggere. I lettori in una società libera hanno il diritto di deci dere da soli come dovrebbero comportarsi, e se la verità è tale da in durli a rovesciare il governo, ben venga. Ma a parte questo, fo r se la menta lità di questo giornalista (e ripeto, si tratta di un ben noto scrittore) è quella dei critici di De Felice: « tanto », dicono, « decide remo noi quello che le masse sapranno ». troppo drammatico esempio, M i pare molto importante il fatto che De Felice veniva attaccato proprio quando è uscito, per la prima volta, un suo volume che sembrava destinato ad un larghissimo pubblico. Prima della Intervista, i suoi to m i erano di una tale mole che difficilm ente L A C O L I T E M U S I C A L E Due psichiatri tedeschi — Fuhemeister e Wiesenhiitter — hanno cercato di stabilire in quale misura una certa musica, detta d’a vanguardia, può compromettere l’equilibrio delle persone e soprattutto degli orchestrali che la suonano e, a questo scopo, hanno in terrogato un totale di 208 musicisti di tre orchestre sinfoniche. L’orchestra A, specializ zata nella musica di avanguardia, suona solo quella; l’orchestra B consacra solo un terzo della sua attività a questa musica; mentre l’orchestra C non la suona mai, ma lavora in condizioni sociali, finanziarie e materiali peg giori di quelle delle altre due orchestre. Dal l’esame di questi gruppi di musicisti è risul tato che, nell’orchestra A, il 45% degli or chestrali soffre di malattie di cuore e della circolazione, mentre i componenti l’orchestra C ne soffre in percentuale assai minore: il 32%. Quanto alle malattie interessanti il si stema digestivo si ha il 32% nell’orchestra A e solo il 10% nell’orchestra C. Il 36% de gli orchestrali della A deve curare il proprio psichismo e il 22% soffre di insonnia grave e ben il 36% di fortissimi dolori di testa. Nessun orchestrale dell’orchestra C lamenta disturbi di questo tipo. Non è la difficoltà delle partiture della musica di avanguardia che opprime questi orchestrali, in quanto, molte opere ultramo derne, non presentano particolari difficoltà di interpretazione, oppure chiedono cose co munque irrealizzabili, ciononostante, un mu sicista dell’orchestra A confessa di essere os sessi onato da idee suicide durante un perio do di intensa attività professionale e altri dichiarano che, questa musica, li perseguita persino nei loro sogni. Il musicologo tedesco Nùma F. Tetaz ri leva che è quasi certo che la musica di a- vanguardia può rendere malati, almeno per uno dei suoi aspetti: il rumore che produce. Aggiungendo l’amplificazione elettronica agli strumenti abituali, introducendo sirene e rom bi di motori, scatenando tutti questi rumori con una calcolata, improvvisa asprezza, mol ti compositori perpetrano delle vere aggres sioni sonore che, non solo assordano nel significato medico del termine, ma alternano e scombussolano il funzionamento del siste ma nervoso, del cuore e degli intestini. il l ’Avanti] hanno discusso sarebbero stati letti da larghi settori della pubblica italiana. L ’Intervista, però, era ben diversa: appena 120 pagine, scorrevo le, abbastanza a buon mercato, sembrava di invadere un mercato culturale che era ege monizzato da un certo tipo di giornalismo marxista-radicale. ( Il marxismo ufficiale, di partito, non si è comportato così. Sia l ’U ni tà, che libro scientificamente, come del resto fece anche La discussione della DC). Come ha notato De Felice, i grandi giornali e riviste d’in i più accaniti nei suoi formazione erano confronti, e anche i più la pena ascoltare De Felice un po’ a lungo: ..nelle varie interviste che io ho rila sciato fino ad oggi, l ’unica che rispec chia pienamente quello che io ho det to è quella che io feci al Giornale di M ontanelli. in uno in particolare, di una lunga inter vista, anche abbastanza argomentata, è venuto frammento del tutto incomprensibile che non ha nes sun riferim ento con il complesso del discorso che era stato fatto. È l ’inter vista uscita su ’ Panorama ’. tu tti gli a ltri casi, fu o ri solo un inesatti. Vale In Non si può leggere queste righe senza pensare alla intervista che Siniavski ha ri lasciato ad Enzo Forcella della R A I-T V , che è andata in onda — in forma abbre viata — in settembre. Quello che lascia per plesso dell’episodio di Forcella, come le in terviste rilasciate da De Felice, è che in nes suno dei casi l ’intervistatore ha parlato de- IL CU M U LO D E I S IC IL IA N I I l m in is tro La M alfa in questi gior ni si è occupato degli stipendi degli im piegati del Senato etc. Ma il M inistro non si occupa del cu mulo dei S iciliani ? Parlo d i quelli che controllano la musica — e che musica! LA SCALA - LA R A D IO - LA TELE V IS IO N E - SAGRA M U S IC A LE U M BRA — insomma un impero ! E quanti interessi sgorgano da questa FON-TE ! (Fonomeccanici e Teatri). tagli con gli eventuali l ’intervistato. Ma questo sembrerebbe il m inimo che il pro- fessionalismo richiedesse. Ancora una vol ta, hanno deciso, « tanto decideremo noi quello che le masse sapranno ». M o lti italiani credono che queste forme di censura e di strumentalizzazione siano dovute ai partiti, e alla classe dirìgente. Io certo non sto ad elogiare questi, ma in que sto caso credo che si abbia sbagliato mira. Esiste in Italia una forma di autocensura, che funziona al di sotto (o al di sopra) dei partiti e del governo, una forma di confor mismo ideologico che rivela un disprezzo pressoché assoluto per la democrazia e per la il popolo. Un giornalista che nasconde verità, una rivista che non riporta le pa role di un’intervistato, un’intervistatore che taglia un nastro televisivo senza nemmeno chiedere il parere dell’intervistato, tu tti di mostrano lo stesso disprezzo che Nixon di mostrava più volte per il popolo americano. È impressionante che questi stessi giorna listi sono i prim i a protestare contro il più m inim o tentativo dalla parte dei « padro ni » o del governo di manipolare le notizie o di sopprimere le inform azioni. In queste circostanze hanno pienamente ragione, ma si può chiedersi se l ’Italia sta meglio sotto una censura esercitata dai singoli scrittori. Questa autocensura fa parte di quella che De Felice ha chiamato « la mentalità fasci sta che il fascismo ha lasciato in eredità ai non fascisti... alle generazioni successive ». Egli ha parlato di intolleranza, e di squali ficazione dell’avversario per poi distrugger lo. Siamo d’accordo. Ci vuole, invece, una vera tolleranza, una mentalità — se mi è permesso un po’ di campanilismo — jefferso- niana. Nei prim i anni dell’Ottocento, Tho mas Jefferson, abolendo delle leggi che m i nacciarono la libertà di stampa e di espres sione, così riassumeva la posizione dell’uomo civile: « Se fra noi ci stanno quelli che si oppongono a questo governo e le sue fo r me repubblicane, lasciamoli stare in pace, come un monumento a quella società dove errori di opinione vengano tollerati, perché la ragione è libera a com batterli ». M ic h a e l A. Ledeen V A L IT U T T I, L A M A L F A E L A C R IS I D E L M A R X IS M O C O N L A M E N T E A L C R E M L I N O di M aria Fotia 1) N e lla sua Intervista politico-filosofica apparsa sulla New Left Review (luglio- agosto 1974) e pubblicata recentemente da Laterza, Lucio C olletti dice che il marxismo si è diffuso in Italia nel do poguerra, ad opera di Togliatti, come il proseguimento e lo sviluppo dello sto ricismo di Vico e Croce, senza effetti ve rotture, quindi, con le posizioni pre cedenti. G li elementi di fondo sarebbero rimasti, cioè, quelli della filosofia cro ciana, della quale si sarebbero rifiutate solo le proposizioni più scopertamente idealistiche. Una verniciatura, insomma, di marxismo su polverose impalcature borghesi. Non crede che questa sia an cora oggi la posizione della maggior par te dei m arxisti italiani, fatta eccezione, ovviamente, per i piccoli gruppi del l ’estrema sinistra ? 2) il I l carattere superficiale e sovrapposto del comunismo italiano è messo ancora in risalto dal Colletti nel confronto fra Togliatti e Gramsci, per quanto riguar da rapporto politica-cultura. « Per Gramsci — dice Colletti — l ’indagine conoscitiva era essenziale a ll’azione po litica. Per T ogliatti la cultura era sepa rata e giustapposta alla politica. To gliatti sfoggiava una cultura tradiziona le di tipo retorico e la sua politica non aveva alcun legame organico con essa. In Gramsci le due cose sono fuse e sin- tetizzate in modo genuino. Il suo studio della società italiana era davvero un modo di prepararsi a trasformarla ». Mancanza di organicità e perdurare del la secolare piaga nazionale dell’accade mismo. Non crede che si tra tti della for mula ideale per neutralizzare sia co muniSmo che cultura? 3) Per Colletti « il marxismo è in crisi e può uscire da questa crisi solo ricono scendone l ’esistenza. Ma è proprio que sto riconoscimento ad essere eluso da ogni marxista piccolo o grande », non solo, cioè, dai tanti « intellettuali apo litic i e apologetici che stanno nei partiti occidentali e che hanno la sola funzione di decorare con una patina di marxismo la pratica non marxista di questi partiti, ma da intellettuali di indiscussa leva tura, come Baran e Sweezy, che preten dono di asportare le fondamenta su cui poggia la costruzione teorica di M arx e di mantenere al tempo stesso in piedi tutto l ’e d ificio .» Paradossalmente . per dei m arxisti, manca la verifica della storia. M olte delle previsioni contenute nel Capitale non si sono avverate (e si continua ad « opporre puri e semplici assiomi a prio ri a ll’evidenza dello svi luppo storico effettivo. » Come spiega tutto questo e in che misu ra pensa possa avere un peso sulla realtà culturale e politica italiana? S A LV A TO R E V A L IT U T T I Io non credo che sia esatto quello che il 1) Prof. Colletti afferma nella sua Intervista, che cioè il marxismo diffuso in Italia nel se condo dopoguerra, ad opera di Togliatti, non sia che la continuazione e lo sviluppo dello storicismo di Togliatti, non sia che la conti nuazione e lo sviluppo dello storicismo di Vico e di Croce. In prim o luogo, secondo me, bisogna distinguere tra il marxismo divulgato catechisticamente per fin i di propaganda po litica e il marxismo rielaborato o tesaurizza to in sede speculativa e storiografica. Sup pongo che il Prof. Colletti si riferisca a que sto secondo marxismo nell’interpretarlo co me marxismo ripensato e presentato in ver sione crociana. Quello che c’è di vero nella tesi del Prof. Colletti è che il marxismo italiano, nel se condo dopoguerra, specie in sede culturale, è stato largamente influenzato dalla lettura degli scritti di Gramsci che aveva studiato profondamente Croce, sia pure per criticarlo, e in genere tutta la filosofia idealistica hege liana e post-hegeliana. C’è chi ritiene che Gramsci nello sforzo di confutare le obiezio ni di Croce alla filosofia defila prassi abbia finito con l ’assorbire per cui il suo pensiero sarebbe più crociano che marxistico. Nep pure questo secondo me è vero. Bisogna piut tosto riconoscere che in ogni Paese che ab bia una valida tradizione culturale, il mar xismo, come d’altronde ogni altra filosofia, è stato, per così, dire tradotto nella cultura del Paese stesso. Antonio Labriola, ad esem pio, lesse e tradusse il marxismo in Italia differentemente da come lo lesse e tradusse Giorgio Sorel in Francia. In Italia c’è stato un pensiero, ispirato o influenzato da M arx, che è andato via via svolgendosi e che ha come suo capostipite proprio Antonio Labriola. Questo pensiero ha avuto riflessi, fuori della politica, anche nella filosofia e nella storio grafia. A lcuni concetti della filosofia crocia na, ad esempio il concetto dell’utile, non possono ricostruirsi storicamente, nella loro genesi e nella loro formazione, senza tener presenti gli studi del giovane Croce su M arx. Non credo che si possa imputare ai comu nisti di essersi voluti ricollegare anche ma non soltanto a questa tradizione di pensiero che d’altronde aveva in flu ito sulla formazio ne intellettuale di alcuni di essi. Ma non si può dire che perciò essi sono diventati cro ciani. Un tratto distintivo della cultura neo marxista in Italia in questo dopoguerra, è viceversa proprio il suo anticrocianesimo, per così dire, pregiudiziale, forse dovuto anche alla persistenza della polemica di Croce con tro M arx e il marxismo. Gramsci, turbato dalla critica di Croce al la filosofia della prassi, avrebbe voluto che il neomarxismo italiano avesse fatto i conti con Croce, cioè avesse ripensato e appro fondito la filosofia della prassi, involgarita dai suoi usi propagandistici, in contrapposi zione ai concetti della filosofia crociana. Co me il marxismo nacque nello scontro polemi co con la filosofia di Hegel, egli avrebbe vo luto che il neorealismo rinascesse in Italia nello scontro polemico con Croce. In realtà questo scontro non è avvenuto. Il neomar xismo, rifiutando l ’invito di Gramsci, non ha voluto fare i conti con Croce. Perciò se mai è vero proprio il contrario di quello che afferma il Prof. Colletti, che, cioè, il neo marxismo fio rito in Italia in questo secondo dopoguerra, disattendendo il suggerimento di Gramsci, non ha voluto approfondire nep pure polemicamente i suoi rapporti con Cro ce bastandogli di negarlo e respingerlo. Io non m i spiego la stagnazione attuale della cultura marxistica in Italia come con seguenza della posizione assunta come cul tura m ilitante a servizio dell’azione politica del partito. La sua incidenza pratica è stata ed è notevolissima, ma essa ha avuto ed ha assai più valore politico che culturale. 2) Le vicende della vita di Togliatti sono state assai differenti da quelle della vita di Gramsci. Togliatti non ha mai smesso l ’atti vità politica. Gramsci fu invece violentemen te sottratto a ll’azione politica. Per anni egli potè solo leggere, pensare e scrivere. Abbia mo perciò da lu i oggi soprattutto la testimo nianza del pensiero che fru ttificò nella chiu sura della lunga prigionia. È vero che Togliatti si compiaceva di cita re i poeti e di scrivere anche su questioni linguistiche. Ma era una civetteria. In realtà Togliatti fu un compatto uomo politico. La sua cultura, pur se si concedeva l ’esibizione di alcuni ornamenti, era intimamente legata a ll’azione politica. Come ho già detto, a Gramsci, negli anni più fruttuosi della sua vita, mancò proprio l ’azione politica. Confrontati con quelli di T ogliatti i suoi interessi intellettuali erano assai più ricchi e più vari. Sotto questo aspet to fu davvero crociano perché non rimase estraneo a nessuna manifestazione dello spi rito e della cultura, esattamente come il filo sofo napoletano. Tuttavia è vero che la sua cocente e dominante passione fu quella del l ’azione del partito comunista italiano al di là del fascismo. Questo asssillo fu tanto più dominante quanto più gli mancò la possibi lità delTazione diretta. Egli tutto lesse, pen sò e scrisse per fornire concetti e chiarimen ti intellettuali valevoli per l ’azione. Ma sem pre manifestò il suo disgusto per il pragma tismo, cioè per le concezioni che riducono il pensiero a strumento utile per l ’azione prati ca negandogli ogni intrinseco valore di ve rità. Un problema che sempre ritornò nei suoi appunti e lo tormentò fu quello del rapporto tra struttura e soprastruttura nella filosofìa della prassi, cioè fra i modi di produzione della vita materiale e il pensiero teoretico. Egli non accettò mai il concetto del pensie ro teorico come un riflesso passivo e mecca nico dei modi di produzione della vita mate riale e si arrovellò nello sforzo intenso a con ferirg li un certo grado di autonomia e di in flusso sulla stessa vita pratica. Egli era con vinto che il pensiero teoretico influisca sul la vita politica e pratica ma alla condizione che sia davvero un pensiero teorico e non, esso stesso, una diretta espressione della v i ta pratica. È pensabile che se leader del partito co munista nell’Italia post-fascista fosse stato Gramsci e non Togliatti la politica culturale del partito sarebbe stata più rispettosa della autonomia della cultura non in omaggio alla idea della sua neutralità ma nella convinzio ne che l ’azione politica si giova assai di più dei fru tti di una cultura seriamente autono ma che dei servigi di una cultura resa subal terna e perciò stesso sterile. innegabile stagnazione 3) La spiegazione che il Prof. Colletti dà della crisi della cultura marxistica e della sua in occidente è duplice. Egli, da una parte, afferma che la cultura marxistica è in crisi perché non ha saputo e né sa risolvere il problema del suo rapporto con la scienza, a cominciare dalle scienze della natura, e, d a ll’altra, afferma che è in crisi perché il marxismo è diventato un fenomeno semplicemente culturale e ac cademico, cioè si è separato dalla pratica del movimento operaio. Per quanto riguarda la prim a spiegazione il Prof. Colletti precisa che il marxismo non riesce più a padroneggiare conoscitivamente la società del nostro tempo e a capire la stessa ragione del fallim ento di alcune previsioni marxistiche per la vecchiezza del suo arma mentario intellettuale, costruito con i mate ria li dell’arcaico materialismo dialettico, e per il rifiu to di accertare e adoperare i me- incerto e onestamente iodi della conoscenza scientifica che hanno i loro modelli in quelli della scienza natu rale. Invero su questo punto il Prof. Collet ti appare m olto lo ammette. Esclude che possa sussistere una omogeneità di fondo tra le scienze della na tura e le scienze della società in cui rientra il marxismo, ma conscio del pericolo di am mettere due forme di conoscenza scientifica e convinto tuttavia che la scienza è il solo modo di apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il mondo, confessa di essere in certo sull’argomento e di non avere alcuna soluzione già pronta. Per quanto riguarda la seconda afferma zione il Prof. Colletti cita le opere: La que stione agraria di Kautsky, L ’accumulazione del capitale di Luxemburg, Lo sviluppo del capitalismo in Russia di Lenin, come testi monianza di una cultura marxistica viva e valida proprio perché hanno tanto un valore effettivo di conoscenza quanto un fine stra tegico operativo. Egli dice che la crisi del marxismo in Occidente è dimostrata dal fat to che non riesce più a produrre opere sim ili. Dobbiamo riconoscere che il Prof. Col le tti si riferisce a due differenti concetti del marxismo, al marxismo come scienza sociale che studia e spiega i fenomeni della società, e al marxismo come dottrina, anch’essa inter pretativa della realtà sociale, con Eintento di fornire armi intellettuali al movimento ope raio. Per quanto riguarda il marxismo come scienza sociale non è inibito a nessuno e perciò neppure al Prof. Colletti di desidera re che esso riveda e arricchisca i suoi concetti esplicativi pur se non si vede la ragione per cui il marxismo dovrebbe effettuare quésta operazione di rinnovamento separatamente e non nel contesto di tutta la moderna scien za sociale in cui Oggi è dominante proprio la riflessione sul problema dei metodi. Per quanto riguarda il marxismo come dottrina del movimento operaio è evidente che se essa è sterile ciò significa che il movimento ope raio dell’Occidente europeo si trova di fron te a problem i e a bisogni che non postulano tale dottrina. A l Prof. C olletti bisogna riconoscere merito di essersi coraggiosamente il liberato dal dogmatismo trionfalistico e di aver te stimoniato nella sua intervista un alto grado di libertà critica. Ma secondo me egli non può e non deve fermarsi a ll’esercizio di que sta libertà. Egli, in fatti, si fermerebbe non in un chiaro pensiero ma in un groviglio di contraddizioni pur se assai stimolanti. UGO LA M A LFA P re m e tto che Colletti discute i proble m i del marxismo prevalentemente da esperto professionale di studi filosofici quale egli è, e questo io non posso farlo. A me sembra, comunque, che vi sia molto di vero in quello che egli dice a proposito dell’influenza del « crocianesimo » sul marxismo italiano, così come questo si è diffuso nel secondo dopo guerra. D ’altra parte, il crocianesimo era stata la filosofia, diciamo così, del risveglio della cultura italiana nei prim i decenni del secolo, ed era quindi forse inevitabile che i comunisti italiani si rivolgessero ad esso, co me grande filosofia « borghese » da confuta re e ánche da proseguire. Inevitabilmente, ma, m i sembra, non del tutto positivo, — e qui sono d’accordo con Colletti: ma poi di vergo da lui, perché penso che sarebbe stato assai più fecondo, per l ’evoluzione del pen siero della nostra sinnistra, se piuttosto che allo storicismo più o meno crociano il mar xismo dei comunisti avesse rivolto la sua at tenzione alle nuove grandi esperienze della economia e anche della sociologia e della po litica inglese e americana. Ignorando, o sot tovalutando la portata di ¡queste esperienze, il marxismo dei comunisti italiani si è sot tratto a ll’incontro con la più viva problema tica economica e sociale del mondo occiden tale,. che è quello in cui si trova ad operare politicamente. Avvenne così che noi repub blicani, che cercavamo di rinnovare la cri tica alla realtà italiana e alle forze politiche che essa esprìmeva alla luce della cultura economica e sociale più avanzata (si veda in proposito il volume in corso di pubblicazio ne presso M ondadori « L ’altra Italia », nel quale l ’evoluzione del pensiero repubblicano, T I V Ù , F A T E L U C E La censura che ha colpito Andrej Si- niavskij, le cui dichiarazioni a Enzo For cella sono state pesantemente eliminate nei loro temi più qualificanti, non è certo un infortunio della nostra monopolistica Tele visione, ma l’inevitabile prodotto di una si stematica strategia di difesa delle mirabili conquiste del Paradiso sovietico tanto caro ai comunisti italiani. I lettori de « Il Dram ma » sono tra i pochi del nostro Paese che hanno avuto il privilegio (negato a quelli della grande maggioranza dei quotidiani e periodici « democratici » e « pluralisti ») di essere costantemente informati sulle menzo gne, le distorsioni, le reticenze della nostra Televisione sulla situazione politica, sociale, religiosa, economica dell’URSS e dei suoi sa telliti. Dal non casuale silenzio sul Cardinale Mindzenty e le sue documentatissime Me morie alla manipolazione e alla censura del l’intervista televisiva di Solzenicyn rilasciata alla Televisione svizzera, dalle sistematiche falsificazioni della realtà russa nel Placido Don diretto da Vittorio Cottafavi alle inter viste ai falsi esponenti del dissenso sovie tico (agenti del KGB) di « G 7 », fino alla recentissima Russia allo specchio di Sergio televisivi Giordani, è stata sempre caratterizzata da quella strate gia del silenzio e della manipolazione con cui i mezzi di comunicazione di massa nella loro grande maggioranza « tendono ad affo gare le dure realtà del l’Est che si scontrano con certe situazioni politiche italiane »,’ come ha scritto con la consueta acutezza Enzo Bettiza. la politica dei dirigenti in modo indolore Ed è sorprendente come solo ora, dopo la clamorosa denuncia di Siniavskij, la classe politica democratica (con la significativa as senza dei socialisti) si sia accorta che sugli schermi monopolistici e monopolizzatj do mina incontrastata una « cultura populista e egemonizzata dai comunisti », secondo le di chiarazioni del liberale Franco Compasso, membro del Consiglio d’Amministrazione del la RAI. Una cultura si fa per dire, caratte rizzata dal più grossolano zdanovismo, che aggredisce le democrazie occidentali giungen do alla falsificazione dei fatti e dei proble- mi, come si- dimostra spregiudicata in una sola direzione e sempre nei confronti del l’Occidente, ma che diventa stranamente re ticente quando si tratta dei Paesi del Terzo Mondo, che possono essere utili alla causa del proletariato, anche quando i dittatori so no del genere Amin, e che, naturalmente, si chiude nel silenzio o nella deformazione quando si alza il velo sugli sconfinati Arci pelaghi Gulag del proletario impero sovie tico. È una informazione dominata dal poco casto connubio del clericalismo di sinistra e del dogmatismo marxista, i cui obiettivi — lo dimostrano i programmi di ogni giorno — sono ormai gli stessi. Così non può e non deve stupire che la « catena di montaggio » in Occidente è una catena di schiavitù del proletariato indifeso contro la prepotenza del Capitalismo, mentre in Russia — ce l’inse gna Sergio Giordani in Russia allo specchio, — è lo strumento di liberazione del fortuna to operaio sovietico, sorridente e soddisfatto del suo lavoro ad edificazione del comuni Smo. Così non si può e non si deve stupire che la corruzione e la delinquenza in Occi dente sono prodotto del sistema capitalistico e della depravata civiltà •occidentale, mentre in Unione Sovietica (dove, Dio ce ne scam pi !, delinquenza e corruzione sono irrilevan ti) essa è solo l’eccezione, la deviazione da un ordine sociale perfetto e che ha eliminato gran parte delle loro cause, come, del resto ha recentemente riaffermato con la sua nuo va autorità morale Enrico Berlinguer. E di esempi se ne potrebbero citare tanti da riem pire un intero numero della nostra rivista. Questa è la « completezza » dell’informazio ne « democratica » e « antifascista » che dal 1968 almeno domina incontrastata sui tele schermi, senza che, eccetto rarissime eccezio ni (come « Il Giornale» di Montanelli che ha sollevato lo scandalo Siniavskij), nessu no abbia levato la sua voce contro una situa zione intollerabile per un Paese formalmen te democratico e, quindi, pluralista. illuderci per il futuro: L’eco della censura a Siniavskij in Parla mento e sui pochi giornali non conformisti il nostro non deve è un Paese che ha la memoria stranamente corta, anche quando si tratta di fatti che riguardano la sopravvivenza delle sue stesse . libertà. La sola speranza è che qualcuno me diti sul commento amaro di Siniavskij: «Li berarsi da una censura per finire sotto un’al tra — che strano destino ! » IL DRAMMA to che per Gramsci l ’indagine conoscitiva era essenziale a ll’azione politica, mentre per To gliatti la cultura era separata, giustapposta alla politica. In effetti, la scarsa conoscenza del come si sono svolti i fatti storici e sociali nell’Occidente, rispetto a ll’esperienza della Russia sovietica, ha impedito ai m arxisti ita liani, e per m olti anni ai comunisti, di com prendere la realtà complessa del Paese in cui vivevano, al di là dell’esperienza e del mo dello offerto dalla Russia sovietica. Proba bilmente Gramsci avrebbe compreso questo prima di quanto non l ’abbia compreso To gliatti, se quest’ultim o poi l ’ha veramente compreso quando ha tracciato il cosiddetto memoriale di Yalta. Da questo punto di vista può anche soste nersi che Gramsci fosse più rigoroso di To gliatti, e che il suo impegno teorico implicas se maggior aderenza tra cultura e politica di quanto non avvenisse in Togliatti. D ’altra parte, il ruolo personale di Gramsci fu, per tragica necessità, assai lim itato, quanto alla attività politica pratica, nella quale Togliatti ebbe invece parte grandissima. È difficile svi luppare tra i due un confronto valido. Il ri chiamo a Gramsci mi pare, comunque, assai utile e importante, e del resto m i sembra che vi sia oggi, anche nel PCI, una forte ripresa d’interesse per Gramsci, meno strumentale di quella che vi fu nell’immediato dopoguer ra. Per il resto, è vero che v ’è una tendenza a ll’accademismo nella cultura comunista, ma questa può essere vinta solo dall’impegno di quella cultura, aperto e spregiudicato, sui problemi reali della società italiana. Non si può far risalire solo a Togliatti quell’acca demismo; si tratta d’un fenomeno più vasto. La sinistra ha perso mordente non tanto per ché abbia l ’analisi rigorosa del marxismo, quanto’ perché, mentre trascura va questa non affrontava con prospettiva suf ficientemente ricca e moderna i problemi veri. Insomma, è rimasta a metà. Intendia moci, ciò può essere in parte inevitabile quan do una cultura si lega organicamente a mo vim enti p o litici e sociali di massa; perciò il compito delle minoranze politiche e intellet tuali resta sempre fondamentale per il pro: gresso culturale e la dinamica politica. trascurato fummo in grado d’identificare nei confronti dei problemi di una società in dustriale avanzata, è posto in chiara luce) e perciò i problemi reali del nostro Paese, avemmo sì una posizione di minoranza nella sinistra ma di minoranza critica mentre il marxismo co munista, fortissimo, restò per molto tempo lontano dai problemi reali e legato alla espe rienza storica della Russia del 1917 e dello stato guida. Oggi v i è uno sforzo notevole di aggior namento e di ripensamento, tra i m arxisti italiani ed in particolare fra i comunisti an che se non sempre nel senso indicato dal Colletti. Colletti colpisce nel segqo quando coglie la differenza fra Gramsci e Togliatti nel fat I L C.S.O. Y A A L L A D E R IV A T R A C E N T IN A IA D I M IL IO N I I L I N S P E C R E N T R O I M E N T A L E di Fernando Bevilacqua A l l a fin e d i giugno il nuovo Commis sario Straordinario del Centro Sperimentale Consigliere di Stato Corrado Calabro ha convocato la « Commissione di ristruttura zione » insediata dal suo predecessore e ha gettato un grido di allarme sulla sorte im mediata del Centro: rassegnazione del fon do annuale del M inistero dello Spettacolo è insufficiente, non è ancora pervenuta nel le Casse del Centro, si profilano oneri in genti per l ’applicazione della legge del pa rastato ai 50 attuali dipendenti, le autorità impongono lavori di sicurezza a ll’impianto elettrico per almeno 80 m ilioni: in defini tiva la dotazione annuale è già tutta ipote cata da esigenze im pellenti prima ancora di poterne disporre... D i conseguenza — rin cara il subcommissario Laura — ogni in i ziativa che il Centro volesse prendere è bloc cata per mancanza di fondi. fare un passo Sarà forse opportuno, per comodità del lettore, indietro e spiegare perché al Centro Sperimentale esiste una gestione commissariale ed una « Commis sione di ^ristrutturazione »: occorre illustra re brevemente gli avvenimenti che hanno caratterizzato la vita dell’Istituto dal 1968 ad oggi. Dal fatidico anno della contesta zione (appunto dal 1968) e fino alla metà di settembre 1974, il Presidente del Con siglio di Amministrazione è stato Roberto Rossellini che instaurò una originale con duzione del Centro-da noi ampiamente il lustrata (« Il Tempo » del 24-5-1974 e del 24-8-1974)... Si sviluppò inoltre una pole mica serrata tra il critico teatrale Prosperi e il regista Rossellini, mentre altre numero se voci si levavano ad annunciare la pro gressiva paralisi del Centro Sperimentale di Cinematografia: si giunse infine allo scio glimento del Consiglio di Amministrazione ed alla sostituzione del suo « benemerito » presidente con il Commissario Straordinàrio Paolo Salvatore. La gestione Salvatore (13-9-74 — 31-4- 75) è stata caratterizzata da un indiscusso elemento di novità: e cioè — indetta il 20 novembre 1974 una prim a assise allargata a tutte le forze culturali del cinema — si passò poi alla costituzione della cosiddetta « Commissione di ristrutturazione », forma ta dai rappresentanti dei p a rtiti po litici e dalle forze culturali e sindacali. Questa avrebbe dovuto elaborare in tempi brevi un nuovo progetto di Statuto del Centro, il che è stato puntualmente realizzato con un la voro durato dal dicembre ’74 a ll’aprile ’75... E pertanto il Commissario Straordinario ha potuto (al termine del mandato) presentare al M inistro dello Spettacolo il nuovo pro getto di Statuto, debitamente appaiato al precedente, quello cioè risalente alla fam i gerata gestione Rossellini. Ora questo Statuto si trova a ll’esame di una commissione appositamente istituita dal M inistero dello Spettacolo Sarti, perché giu- 20 - IL DRAMMA A T T O R I E T T I F U M A Abbiamo appreso che finalmente anche il fumetto Italiano riuscirà ad avere il suo rap presentate nell’Olimpo del cinema; ossia, verrà realizzato dal vero, con attori e paesag gi. Si tratta dell’ormai cosmicamente famo so « Corto Maltese », l’avventuroso capitano di Hugo Prati. L’iniziativa ci è stata illustrata dallo stesso Prati e dal regista del film in preparazione. Luigi Scattini. Sembra che la tragica esperienza di altre trasposizioni avvenute dal fumetto al cinema negli anni scorsi (Barbarella, Modesty Blaise, ecc.) non debba costituire un precedente de gno di nota: infatti Scattini ha affermato di avere compreso e superato tutti i motivi che hanno determinato gli insuccessi precedenti. Auguriamo a Scattini e a Pratt (che ci è comunque sembrato assai più prudente del regista), di riuscire nel loro intento, anche perché renderebbero felici le centinaia di mi gliaia di fans del Corto. Almeno in teoria. Poiché a nostro modesto avviso, tutto il pre- car\a\e pur gigantesco fascino del personag gio‘‘sdì* Pratt. sta proprio nel suo essere sim bolo' immobile, evocatore, présente più nella psiche e nelle aspirazioni dei suoi lettori, che non negli occhi. Comunque, per dimostrare la serietà della iniziativa, Scattini e Pratt ci hanno fatto vedere due provini, girati su at tori sconosciuti e pur definiti bravissimi, ma la cui presenza nel personaggio potrebbe es sere da Fantozzi definita « catastrofica ». Del resto, i due autori hanno affermato di avere pensato a tutte le facce più interessanti e più note in campo internazionale, senza averne trovata nessuna che si attagli a Corto Malte se. Chissà come mai non è venuto loro in mente quell’attore cui — a nostro avviso — sembrerebbe addirittura ispirato il personag gio di Pratt. se non fosse, come è, del tutto originale: Elliot Gould, che sembra un Cor to Maltese sparato, nei tratti del volto fin nel le pieghe delle labbra e degli occhi, nelle mol te espressioni come negli atteggiamenti cor porei, e, dulcís in fundo, proprio in quella « presenza di un passato indefinibile », cui hanno fatto preciso riferimento Pratt e Scat tini. Chissà che questo nostro suggerimento non serva: tanto più che non ci sono diffi coltà finanziarie. dichi sollecitamente della eventuale bontà del contenuto e v i apporti quelle modifiche che riterrà opportune. Nel nuovo Statuto v ’è qualcosa di buono (aumento degli anni di corso, ampliamento della base culturale, maggiore presenza di allievi stranieri, seminari e corsi speciali di aggiornamento) accanto a form ulazioni am bigue e pseudorivoluzionarie, secondo le qua li il Centro Sperimentale dovrebbe essere scuola in misura quasi irrilevante e sostan zialmente un luogo di produzione cinemato- fica !!! A parte il fatto che in tale caso il Centro diverrebbe un doppione degli Enti di Stato per il cinema preposti a tal compito, non si vede come gli ambiziosi programmi di ricerca e sperimentazione « ...mediante in i ziative produttive » previste dall’art. 1 let tera d del nuovo Statuto possano conciliar si con l ’attuale stato di indigenza del Cen tro Sperimentale, denunciato nel giugno scorso dal nuovo Commissario Straordina rio Corrado Calabro, in carica dal 1 maggio 1975. Ci si perdoni un po’ di matematica: l ’as segnazione annuale da parte del Ministero dello Spettacolo al Centro Sperimentale è di 358 m ilioni per l ’attività didattica e di 60 m ilioni per la Cineteca; gli arretrati ai 50 dipendenti e i nuovi stipendi « tipo pa rastato » comportano 230 m ilioni circa, 30 m ilioni sono impegnati dalla Cineteca, altri 80/90 m ilioni sono richiesti da opere im prorogabili per la sicurezza dell’impianto e- lettrico: ecco dunque delinearsi una situa zione di stallo per il Centro che — presumi bilmente — non potrà indire il bando di concorso e tanto meno sostenere le spese delle discutibili iniziative proposte dagli al lievi... Questi, in fatti, autonominatisi « U ni tà Produttiva 2 /K » avevano intenzione di realizzare un film sperimentale su « J. M. Keynes », partendo da un seminario da te nersi in luglio, ma la velleitaria iniziativa del costo di 5 m ilioni è ormai bloccata dal la grave situazione finanziaria del Centro, pur essendo stata sostenuta — come al so lito — dalle forze congiunte della sinistra, dei sindacati confederali e da taluni sinda cati interni. Il Commissario Calabro ha precisato inol tre che il Centro Sperimentale nel caso do vesse realmente assumere com piti di produ zione cinematografica, avrebbe bisogno di opere generali di m iglioria e i costi annua li aumenterebbero fino a portare il bilancio sui 600/700 m ilioni per il Centro e sui 200/ 250 per la Cineteca: insomma poco meno di un m iliardo a ll’anno. È concepibile davvero che l ’erario dello Stato debba sopportare un simile onere per soddisfare le am bizioni di un piccolo grup po di ex allievi che — senza aver dimostra to alcuna particolare genialità -— vuole sem plicemente assicurarsi la possibilità di pro pagandare il verbo marxista per mezzo di film s pagati dall’intera collettività ? Perché in definitiva si tratta di questo: procurare a 32 allievi tu tti registi o sedicenti tali una sinecura: poiché sono stato diplomato regi sta ora lo Stato deve finanziare le mie idee e trasformarle in pellicola cinematografica... M a questi giovani non hanno mai pensa to di sottoporre le loro b rilla n ti elucubrazio ni a dei produttori privati ? Non ambiscono di dimostrare a se stessi di sapersi far lar go affidandosi alla loro effettiva capacità ? A questo punto non possiamo non men zionare una proposta organica di vera « ri strutturazione » avanzata proprio dal Comi tato Spettacolo del P L I e da altre forze cul turali in occasione del Convegno per una « Università dello Spettacolo », tenutosi a Roma ai prim i di dicembre 1974: si deli neo allora una larga convergenza di pareri espressi da personalità del cinema e del tea tro (gli atti sono a disposizione di chi voglia consultarli) sulla possibilità di unificare a breve scadenza Centro Sperimentale e Ac cademia d’Arte Drammatica, mentre si a- vanzò l ’ipotesi di giungere a raggruppare l ’intera istruzione artistica supe fascia di riore in prosieguo di tempo, includendo cioè in un eventuale Istituto Superiore dello Spettacolo anche l ’Accademia di Danza, il Conservatorio di Musica e l ’Accademia di Dal fatidico anno della contestazione e fino alla metà del 1974, il Presidente del Consiglio di Am ministrazione è stato Roberto Rossellini che in staurò una «originale conduzione del Centro...». Nella fotografìa, Roberto Rossellini a Venezia. Belle A rti (vedi « La Tribuna » del 17-1- 1975). Se si potesse intanto unificare le due scuo le dì cinema e di teatro, utilizzando le at trezzature del Centro Sperimentale, già si sarebbe fatto un notevole passo avanti nel la direzione di una sistemazione organica delle scuole con finalità artistica, e solo in tal caso sarebbe lecito parlare di aggravio di spesa e avrebbe una logica destinazione l ’ingente patrim onio in im m obili del Centro stesso valutato a circa 6 m iliardi... L ’Italia crediamo sia l ’unica nazione ad avere un Istituto assolutamente anomalo co me il Centro Sperimentale, dipendente dal M inistero dello Spettacolo, mentre tutte le altre analoghe fanno capo alla Pubblica Istruzione ! Dunque, ristrutturare sì, ma con criterio di razionalità e puntan do ad una finale riunione delle scuole che istituzioni debbono accertare la vocazione artistica. E poiché alla critica amiamo far seguire specifiche proposte, ripetiamo ciò che abbia mo avuto occasione di proporre in sede di « Commissione di ristrutturazione »: la di cotomia tra Accademia d’Arte Drammatica e Centro Sperimentale va sanata al più pre sto: non è certo ipotizzabile togliere l ’Acca demia Silvio D ’Am ico alla Pubblica Istru zione per assegnarla allo Spettacolo, quan do si vocifera addirittura di una destinazio ne del Centro e dell’Ente Gestione Cinema alle Partecipazioni Statali (vedi interroga zione del Senatore liberale V a litu tti dell’ 11- 12-1974). La soluzione ottimale a noi sem bra quella di fare confluire le scuole di ci nema e teatro al M inistero dei Beni Cultu rali, per le seguenti ragioni: a) la -Cineteca del Centro Sperimentale dovrebbe per sua natura andare ai Beni Cui turali: è infatti l ’equivalente della Biblioteca Nazionale; b) Cineteca e Centro Sperimentale for mano d’altro canto un tutto inscindibile per ovvie ragioni didattiche: tanto vale allora assegnare l ’intero organismo al neo M in i stero dei Beni Culturali; c) l ’Accademia d’Arte Drammatica è stata notoriamente svilita dai Decreti dele gati e nel « mare magnum » della Pubblica Istruzione — assillata dal problema di or ganizzare la scolarità di 10 m ilioni di stu denti — non può ricevere le cure che m eri ta: assegnarla ad un organismo che ha fi nalità Istruzione, senza la sua elefantiaca dimensione, non può che giovarle; identiche alla Pubblica d) la creazione infine di un « Istituto Superiore dello Spettacolo » con le due se zioni iniziali per il cinema e il teatro costi tuirebbe un sicuro avvio per la soluzione globale del problema dell’istruzione artisti ca superiore, con^ relativa razionalizzazio ne dei . corsi e sgravio di spese, nonché con l ’effettiva utilizzazione delle attrezzature del Centro Sperimentale che, solo in tal caso, ripetiamo potrebbe a buon diritto pretende re una revisione del suo appannaggio an nuale. Fernando B e v ila c q u a P R E S T IG IO D E I T E A T R I D ’O R IE N T E P E R P O S L E I di Enrico Fulchignoni fu tanto Persepoli con uno di quegli squarci lirici che erano suo costume Paul Claudel scriveva, all’ini zio del secolo: « Il teatro orientale conquisterà il mondo !» E la sua non era voce solitaria. Poeti come Ezra Pound, drammaturghi come l’irlandese Yeats, registi come Eisenstein o Reinhardt, tutti concordemente avevano levato alle stelle le diffe renti forme conosciute di spettacolo cinese, giap ponese o indiano. in Oriente Che aggiungere di più ? Antonin Artaud ha fon dato tutta l’intera sua celebre teoria della « crudel tà » su un’unica rappresentazione, neanche vista in loco, dai danzatori dell’isola di Bali, e Bertolt Brecht, il quale, dopo qualche settimana del suo soggiorno impressionato da quelle ribalte da costruire il suo « Cerchio di ges so », su modelli di pantomima locale... La verità è che di queste profezie la sorte s’è fatta beffa. Siamo sinceri: a distanza ormai di qua si un secolo, dopo tante generose speranze gli scambi fra la cultura orientale e quella occidentale sono oggi, nel campò del teatro, quasi ridotti a ze ro. È vero che non mancano qua e là saltuarie vi site di troupes per l’uno o l’altro Festival d’Europa c d’America. Ma quello che assolutamente difetta, nell’esperienza popolare è il commercio vivo, è la conoscenza approfondita dei temi e delle linee di forza che caratterizzano lo spettacolo al di fuori dell’Occidente. Si verifica così il paradosso di cui accennavamo all’inizio: in un epoca in cui non c’è cittadino del mondo che ignori l’esistenza del thè, del caffè o delle spezie (un tempo appannaggio dei privilegiati) sul piano dei prodotti culturali gli scambi sono infinitamente più ridotti, se non ad dirittura inesistenti. Tanto più è paradossale questo stato di cose, in quanto il teatro orientale ha realizzato da secoli quello che con eroici furori l’occidente ricerca at traverso la sua cosiddetta avanguardia. Il « teatro totale » (composto cioè di musica, te- sto, danza e pantomima) il « teatro di strada », il « gestuale », l’abolizione della barriera fra ribalta e platea, sono tutte conquiste che, in Asia, sono antiche di secoli qùando non di millenni. Ma altre caratteristiche dovrebbero interessare, di carattere tecnico od economico, per esempio. Il fatto che la maggior parte degli spettacoli siano a titolo gra tuito, o che gli attori, salvo rare eccezioni, non siano professionisti, ma semplici cittadini che traggono le loro risorse da altre sorgenti che non la recita se rale... La creazione in Iran, nove anni or sono, del Fe stival di Persepoli rispondeva a questa lacuna. Con saggezza tutta orientale, gli organizzatori si sono ben guardati dal proclamarsi detentori di non si sa quale superiorità o egemonia. Tutt’al contrario ave vano fraternamente chiamato a confronto tutti i Paesi d’oriente e d’occidente, d’ogni colore e ten denza politica, col proposito di meglio conoscersi. Da quel lontano settembre del ’67 molte cose so no avvenute nel campo dell’arte (e della politica...). Ma immutato è restato il filo conduttore del Fe stival, che, forte di eccezionali risorse organizzative resta oggi l’occasione unica e privilegiata, per gli uni e per gli altri, di conoscer forme di spettacolo che la distanza 0 altre difficoltà logistiche quasi sempre precludono a critici e spettatori della no stra parte del mondo. Qual è dunque il bilancio di questo nono incon tro ? D’un estremo interesse, appunto per le pos sibilità di verificare in vivo la portata di opere tan to diverse l’una dall’altra e dal misurare il loro ade guarsi all’evoluzione del pubblico. Scendiamo ad esempi concreti. Uno dei problemi essenziali della contemporanea ricerca teatrale è quello del linguaggio. Come l’ha risolto l’Oriente ? Attraverso un duplice percorso: e anzitutto l’ap- oello a temi noti alle moltitudini, temi mitici o re ligiosi. Così nel Ramayana, che è la grande epo pea di tutto il sud-est asiatico, ispirata al testo dei Veda, dall’India al Cambodge e al Vietnam, dalla Malesia all’Indonesia non c’è partecipante del pub blico, grande o piccino, povero o ricco che, ignori la trama favolosa che narra gli amori di Khrisna e di Shita, la lotta con i giganti, l’alleanza col popolo delle scimmie, fino alla vittoria finale. Così nei Ta’ zieh di tutti i popoli di religione mussulmana sciita, la vicenda della persecuzione e morte del nipote del Profeta, Limano Hussein, dal Libano all’Irak, dalla Persia al Pakistan, dall’Egitto alla Siria è nota quanto poteva esserlo per i nostri Misteri medie vali la passione di Cristo. Potremmo citar diecine d’altri esempi, per tutto il Medio e l’estremo Oriente, di cui in questi anni abbiamo visto i più validi esempi a Persepoli. E il oroblema. anch’esso essenziale del linguaggio vero e Droprio, è risolto con un secondo esoediente: duel lo della eventuale trasformazione della varola in ge sto. Nel Ramayana, ad esempio, molta parte del te sto cantato è sanscrito antico,.assolutamente incom prensibile alla maggioranza del pubblico. Ebbene, in tali momenti della trama una azione mimica dei protagonisti integra e rafforza i valori del canto. E, in generale, per tutto lo spettacolo d’Oriente i modi d’espressione gestuale, elaborati attraverso i secoli sono preminenti: come a testimoniare l’interesse costante che, da sempre, hanno avuto i suoi arte fici di non isolarsi dalle grandi collettività di spet tatori. In questo senso è di grande interesse il con fronto con quello che va accadendo in questi anni con l’avanguardia teatrale in occidente. Che notia mo, infatti ? Ricerca del mito collettivo e gestua lità sono i due non plus ultra dei vari Living, Bread and Puppets, Open, Manhattan... E che va dimostrando Persepoli ? Qualcosa di molto semplice: che il percorso è identico e solo variano i modi d’arrivare ’alla mèta. Gravi le diffi coltà dell’occidente, nel quale la civiltà nata dal l’Umanesimo ha esiliato, da cinque secoli, il Mito religioso sperimentando (gloriosamente, è vero...) nello spazio teatrale unicamente la casistica delle passioni umane. Abbiamo prima citato gli entusia smi di Claudel per il teatro orientale: il poeta fran cese credeva, per quel tràmite a una rinnovata epi fania del divino. Caduta, negli anni che traversia mo, questa prospettiva, col prorompente ateismo proprio alle civiltà della tecnica, vediamo qua e là sopravvivere - soltanto la dubbiosa efficacia, alla ri balta, dei miti politici che convincono solo chi è già convinto... La rivincita viene, però al teatro occidentale da un diverso orizzonte. Che è quello della richiesta di nuovi contatti con un pubblico che non appar tenga a questa o a quella nazione, a questa o a quella struttura sociale, a questo o a quel codice ideologico, ma a una umanità più ingenua e più schietta. (Da qui l’immenso successo della danza, oggi, sopra ogni altra forma di spettacolo, in Eu ropa e in America). tradizione Se questo, nelle sue linee essenziali è il panorama d’insieme, le tendenze, ovviamente si pongono spes so alla linea di confine fra Luna e l’altra pratica scenica. Così, per esempio, quest’anno, di grande profitto è stato il confronto fra gli spettacoli a struttura «chiusa» come i No giapponesi, legati da sette secoli a una immutabile, e gli spettacoli invece come quelli africani, provenienti dall’Uganda o quelli persiani di Busher, nei quali ad opera sovrattutto di giovani autori e registi si va compiendo l’innesto di temi contemporanei su for me dell’antico folklore locale. Anche in questo ca so gli spettacoli presentati al Festival, nella presti giosa cornice del palazzo di Dario, a Persepoli, o nei giardini arabi di Shiraz sono stati eseguiti da un pubblico di varie migliaia di persone. Una delle caratteristiche infine che dai suoi ini zi hanno contraddistinto il Festival iraniano è quel lo delle opere appositamente allestite come « pri ma » assoluta. Enrico Fulghignoni . . . E F A N N O M A L E ! di Italo A lighiero Chiusano in una storia della nostra G li ita lia n i tendono a dimenticare due cose: la letteratura del Ganton Ticino; e il radiodram ma. E fanno male. Perché a Lugano, a Bellinzona, a Locamo, ad Ascona e via elencando non ci sono soltanto bei paesaggi, una vita civile, cioccolata o- rologi benzina che; un tempo (un tempo!) conve niva andare ad acquistare. In quella piccola plaga ridente vivono anche o vivevano scrittori italiani ai quali non sarebbe assolutamente consigliabile rinunciare letteratura che non si arresti alle barriere doganali e politiche ma s’interessi, com’è giusto, al fattore decisivo del la lingua e della civiltà comune. Chiesa e Zoppi, Orelli e Filippini, tanto per fare quattro nomi, hanno portato e portano alla nostra civiltà e cul tura un apporto xhe solo con molta sicumera e stupidità potremmo considerare poco rilevante. Di scorso analogo per il radiodramma. L’Italia lo con sidera una forma fossile o poco meno, un campo di esperimenti dilettantistici dei tempi della radio a galena o giù di lì, palestra di rumori, di effetti sonori e basta. Invece il radiodramma — e lo sa il resto dell’Europa e del mondo — è una delle forme più vive e originali del Novecento, una for ma veramente nuova, perché legata a un mezzo tec nico prima inesistente, e insieme una forma che, per sua natura, ha dovuto legarsi a quanto c’è di più antico e primordiale nell’uomo: la parola, la pura parola. A questa cenerentola, (per gli italia ni) delle forme letterarie e spettacolari si sono de dicati scrittori come Bertolt Brecht e Dylan Tho mas, Paul Claudel e Archibald Mac Leish, Max Frisch e Friedrich Dùrrenmatt, Samuel Bèckett e Eugène Ionesco (ma anche da noi, ad 'esempio, un Diego Fabbri, un Pratolini, un Chiarelli, un Sa- vinio, un Angioletti e tanti altri). Ebbene, Carlo Castelli ci dà modo di riparare a due distrazioni in una: Egli è infatti cittadino svizzero, ticinese, e per anni ha diretto i programmi del « parlato » presso quell’emittente per più riguardi esemplare che è la Radio Svizzera Italiana, forse più cono sciuta come Radio Monteceneri. Alla letteratura svizzera di lingua italiana Castelli ha dato un pre gevole contributo con racconti e romanzi pubbli cati anche tra noi e cui, pur nella loro vigilata e puntigliosa tensione di scrittura, non è nemmeno mancato il consenso di un vasto pubblico, certo perché, sotto quelle forme spesso tormentate, di una fragilità che però scopre un’anima d’acciaio, il lettore sentiva delle storie vere, talvolta delle Storie « grosfe », con sentimenti, azione, conflitti, tutta quella roba, insomma, di cui oggi si ha tanta paura, tranne che a livello di volgarità semianal fabeta. Racconti come Storie d’amore e Le coinci denze, romanzi come Lettere dai lunatici hanno detto una parola sorprendente anche ai lettori e ai critici di casa nostra. forma del E tuttavia Castelli non rinnega, ché sarebbe in radiodramma' alla gratitudine, quella quale deve i suoi primi e consistenti successi di autore, fino al massimo traguardo mondiale in que sto campo: il Prix International Italia, conseguite nel 1956 con Ballata per Tim pescatore di trote, un testo che, con alcuni altri suoi (Gli innamorati lettera a Linda. dell’impossibile, Scriviamo una Tra.nseuropà Express), s’inscrive in un’antologia anche severa del radiodramma europeo. (E non parliamo dei suoi originali televisivi, trasmessi an che dalla RAI, delle sue commedie teatrali per non allungare troppo questa breve nota). Vive, in tutti questi dialogati radiofonici di Castelli -— e anche in questo che presentiamo, scelto’ dalla Svizzera per il più recente premio Italia — un’umanità pro vinciale, apparentemente assonnata é afflitta da piccoli problemi, tra spettatori e comprimari pet tegoli e curiosi. Ma poi, sotto la prima scorza, ap pare un fondo di coscienze in crisi, di moralità ’contorte o folgoranti, di pudori bellissimi nascosti con l’anelito a una purezza che può essere quella di un bambino o di un gatto; o quella, ancora più difficile, del santo, un personaggio che Castelli non osa mai affrontare in pieno, ma di cui va sempre Segreta- mente, ostinatamente in cerca. ispida ritrosia. E, quasi sempre, C A R L O C A S T E L L I L E A M E N T O R A B I A B A P E R I G T T I R a d i o d r a m m a Now, we come to discover that the moment of agony (Whether, or not, due to misunderstanding, Having hoped for the wrong things or dreaded the iwrong things, Is not in question) are likewise permanent With such permanence as time has. T.S. Eliot « Four Quartets » CARLO CASTELLI C a rlo C a s te lli (12 marzo 1909) origina rio di Melide (Ct. Ticino). È direttore dei programmi parlati della Ra dio della Svizzera Italiana. Ha al suo attivo parecchi volumi di romanzi, novelle, raccon ti, drammi per il palcoscenico, la radio e la televisione. Buon numero di essi (radio e te ledrammi) hanno girato il mondo, tradotti in tedesco, francese, svedese, giapponese, polacco e così via. Collabora a giornali e riviste letterarie. Bibliografia essenziale : radio e Narrativa : SOLE NEG LI OCCHI, romanzo (1942) SATURNINO E LE OMBRE (1947) G LI U O M IN I SONO T R IS TI (1950) STO RIE D ’AMORE (1959) LE COINCIDENZE (1967) LETTERE D A I LU N A T IC I, roman zo (1971) LE A R M I PIETOSE, romanzo (1971). Teatro, innamorati dell’impossibile (1947) La porta aperla — l ’altra vita (1954) Premio Svizzera Italiana. Ballata per Tim pescatore di trote (1956-57) P rix Italia. Scriviamo una lettera a Linda (1959) Trans Europa Express (1967) La not te che verrà (1969) I l compagno di viaggio (1961) Un omicidio imperfetto (1963) I l te nente Corrado (da Spittelerì (1965) La scom parsa di Leslie Howard (1968). teleteatro : G li I.E VOCI: del pittore W illi del medico, della governante, dell’impresario Kaufmann e del suo bambino, della moglie del pittore W illi (Un ragazzo che piange forte e borbotta fra sé nel rumore di traffico stradale). W illi : Hoplà. (Pausa) Scusa, figliolo, ma mi sei Ragazzo: (Interrompe il pianto, tira su dal naso) arrivato che non ti aspettavo. Perché non guardi dove butti la panza? W illi: La... la panza? Mi meraviglio. Veramente, io non ti avrei potuto scansare. Prima di venir fuori così, a pesce dai portoni dovresti avvisare che stai arrivando. Ragazzo: (Riprende a singhiozzare): Non mi fai W illi: Vedo. Spero almeno di non averti fatto neanche ridere. male. Ragazzo: Mica caragno per questo. W illi: Bravo. E allora, cosa ti succede? Ragazzo: E allora niente. W illi : Se credi che mi importi. Uno è libero an che di piangere. È libero di tutto. Noo? Ragazzo (Secco): Si. W illi (Indifferente, tanto per dire): Che hai den tro il sacco? Ragazzo: Un accidente. W illi (Più che perplesso): Ohe! dico, mi pare che si muova, la roba, lì dentro. Come no, certo che si muove. Come mai? Ragazzo: Lasciami il braccio, mi fai cadere il sac co, porca miseria! W illi (grida): Ragazzo (Uno strappo): Oh! (Il trafico aumenta): Io voglio sapere, capisci? Ci ho il gatto. Il mio gatto. che non passa aria? W illi: E te lo tieni li, chiuso nel sacco di plastica Ragazzo: Che se ne fa dell’aria? Lo vado a but tare nel fiume. W illi (quasi un urlo): Ma è una carognata, che stai facendo! Toh... e toh... (lo prende a schiaffi) (Lo strepitio delle auto sta per sommergerli). Fermati. Fermatii... ti farai arrotare... attento... aspetta... dallo a me... vendimelo... (Le voci sono travolte da clackson motori frena te, nel silenzio che nasce, uno scorrere di fiume. Indi, chiaro, Il Tonfo del sacco nell’acqua e, lontanissima, La voce affannata di Willi: « Caro gna... carognetta... » Squillo di campanello. Porta che si apre. Governante (Querula): Si accomodi, signor Willi. Mi dia il cappotto. A quest’ora! Il dottore sta ce nando, come si sa. È urgente? (Tra sé). La gente è fiforra al giorno d’oggi. Tutti presumono di a- vere importanti malattie. Così un medico non ha neanche il tempo di mangiare in santa pace. A- spetti lì in salotto e lo lasci finire. Medico (Da lontano): Fallo venire qui, Teresa. Governante (Indignata): Medico: E allora comincia a visitarlo tu. Governante: Bene. Avanti. (Quasi tra sé) Se poi ha una malattia infettiva, s’arrangino, io me ne lavo le mani. In sala da pranzo? Medico (Voce in avvicinamento): Ecco, brava, la vati le mani. Governante: È lui che lo dice. È lui che coman da. Entri. Un giorno o l’altro da questa casa me la batto. Torno da mia sorella. Medico: Bugiarda. W illi (La sua voce è arida): Perché? Medico: (Intanto mastica, beve): Perché non ha alcuna sorella. È una sua vanità, caro signor... W illi: Willi.' Ugo. Al telefono... Medico: Si segga. (Mangia) Vuole favorire? È un minestrone di verdura. Teresa è famosa. D’inver no bollente e d’estate con una patina di gelatina. Non ci rinuncerei. W illi: Ah. Medico: Assaggi, su. Per la compagnia. Nel pesce diviso non ci sono spine. (Masticando) Democrito. W illi: Capisco. Posso farle una domanda, mentre finisce? Medico: Sono gli ultimi cucchiai, non si impazien tisca. Poi andiamo di là. Non mangio quasi altro, di sera. W illi: Ma è una questione, come dire? che po trei tralasciare. Medico: E allora perché la fa? Politica? Questo W illi: No. Vorrei sapere se esiste la rabbia dei nòstro quartiere è forte, in politica. gatti. Come esiste quella dei. cani, dico. Medico: È stato morso? W illi: No, no... Volevo sapere... Medico: Provi a chiederlo a un veterinario. Io cu ro cristiani. E si fa per dire. Non gatti. W illi: Appunto, io... E si può guarire? Come la rogna, il cimurro e questa roba nota... In fondo, oramai... Lo chiedevo così. Medico: Suppongo. • W illi: Medico: Del resto, una polpetta e la bestia soffre W illi : Io non potrei farlo. E neppure annegarlo, direi. sólo quell’attimo. 0 con la siringa. Medico (Beve): E allora se lo tenga con la rabbia. W illi: Io non ho gatti. Medico (Interrompe la bevuta): Ah. Sta parlando di gatti e non ha gatti. W illi: È una fortuna, non avere gatti. Quando si ammalano, intendo. Medico: Sa che le dico, signor... già, signor Ugo Willi? Fa il pittore, lei, sì. Andiamo di- là in am bulatorio. Così la visito da cima a fóndo e tol go i gatti dalla sua vita. Queste sciocchezze. Lei fa il pittore. Mmm. Mestiere tranquillo. W illi: Sì. Medico: Uno se ne sta solo e dipinge. Qualche voi- WiLU (Pensieri, come parole): ta riesce e qualche volta no. Ma, capisco che si possono avere gatti per la testa. Il mio vizio è di girare al largo. Mai che riesca una volta a indi care i fatti per come sono. Sarà perché i fatti non sono mai come credo di vederli. Eppure, qui, dovrebbe essere semplice cominciare. Anche se grave, e penoso: lei, dottore, quell’uomo, quello impresario Kaufmann... Macché. Dovrei starme ne zitto. Nel mio guscio. A dipingere su tele bian che. Su maledette tele bianche. Anche questa è una storia come una tela bianca, sulla quale si vomita l’anima. Pochi, in tutto il quartiere — e non certo quelli tra la folla ma appena gli in timi, diciamo casa mia — ne sanno qualche co sa. Del resto, Ugo, non farti illusioni: gli uni e gli altri, conoscendolo, valuterebbero con una al zata di spalle quanto è accaduto. Il medico? Si svesta, ha detto. La rabbia dei gatti, che era un modo per aprire la porta, non lo sfiora. Un’al zata di spalle: ecco che cos’è, per chi ci sta ac canto, la nostra più sottile angustia. Giusto. Con un’alzata di spalle — si svesta — ecco com’è riassunta la mia storia da te, la tua storia da me. E restiamoci quieti, il compianto — dico il con forto, che è parola di ben altro impegno — non darebbe frutto diverso. Neppure lo farebbe matu rare. Si, lo so. Bisognerebbe pregare per il prossimo; per l’impresario Kaufmann che oggi è il mio prossimo più prossimo. Ma so bene quant e dif ficile. Voglio dire essere soltanto altruisti. Ho po co tempo da spendere e quel poco mi sembra più importante, caso mai, dedicarlo alle mie perso nali memorie, a quelle memorie che mi stanno alle calcagna. Dico « caso mai » perché anche qui ci sarebbe da ridire: si prega per noi stessi co me ci si fa la barba. Non come si dovrebbe, vale a dire per essere più puliti. Questo io affermo. E se non fossero pensieri ma parole potrebbero sembrare un vaniloquio, un cappello sopra la fac cenda... La quale faccenda, questa, eh già, questa, alle altre penserò più tardi, ha avuto inizio — ma inizio sarebbe improprio visto che certamente non avrà mai fine, nessuna faccenda finisce e nessu na comincia — domenica mattina... Anche le do meniche sono spesso maledette come le mie tele bianche. Incombono. Ecco cosa mi fanno, incom bono. Fuggirle? Sì, ci provo ogni tanto. Mi butto in macchina, ingrano la quarta. E quando ho guardato le facce degli altri che mi sorpassano, e la mia nello specchietto — facce d’automobi listi, che altro? — ho voglia di tornare. Sia pure alla messa delle undici. A ll’aperitivo. Alle paste... cannoli alla cioccolata, una meringa alla panna... BREACK (o tormentone, dentro il quale brulicherà la scena con il ragazzo ). W illi: Ma dunque: domenica. Come sempre avrei comperato due cannoli alla cioccolata per i bam bini; una meringa alla panna, ma grossa, per la suocera (mia moglie non mangia le paste, prefe risce guardare, con occhi un po’ sacrificati). In fine un dolcetto qualunque, ma grosso, per la domestica a ore, che se lo ritrovi al lunedì. Di questi impegni non ho assolto che il primo, la messa delle undici, e probabilmente male. Che ho fatto? Vediamo: quattro passi; poi altri quattro lungo il caseggiato. C’era qualche pen nellata di sole sui muri, qualche pattinatore a ro telle leggiero leggiero e ronzante sull’asfalto; del le bolle di sapone uscivano da una finestrella a inferriata. 0 ingrano la quarta sulle autostrade 0 resto a piedi dentro il quartiere che talvolta è un mondo discreto. Sono uno che non ha vie di mezzo. A un certo punto dello stretto marcia piede, tra un bar aperto e un negozio chiuso (saracinesca e tutto), ecco: sono andato a sbattere contro un ragazzo che sbucava di corsa da un por tone. E piangeva — ma non me ne accorsi su bito, e teneva un sacco fra le braccia, un sacco serrato da una corda. Un maledetto sacco; avrei dovuto tirar via e pensare all’aperitivo e alle pa ste riposanti. Credono, e anch’io non ci fatico, che sia un tipo un po’ ostrica ma gentile, tut tavia... Ragazzo (Voce inferiore): Ecco, è fatta. Va bene cosi? Il pa’ dice che non si soffre ad annegare, che è la morte più migliore per un gattino. Pe rò dentro il sacco non c’è acqua, non c’è aria, non c’è da mangiare, ne avesse voglia. Si va sotto e addio. La corrente lo porterà chissà dove. E chis sà dove sbatte ancora per uscire, contro le chiglie dei barconi per la sabbia, contro i sassi del fiu me... E i sassi gli fanno un gran buco e lui esce... Sapeva che sarebbe finita così quando il pa’ l’ha messo dentro il sacco di plastica della spazzatura. Chissà. Forse ce la fa a uscire. I gatti non sanno nuotare. Perché i gatti no e i cani sì? Che mi stero. Avessi almeno slegato la bocca del sacco. Ma non dovevo. Proibito. Poteva dunque farla lui ’sta porcata, mio padre, che quando parla con 1 suoi sul cantiere ha la voce che si sente in tutto il mondo; lui non si fa mettere sotto da nessuno. Poteva andarci lui al fiume. 0 anche... o anche guarirmelo, il mio gatto, che ci sono i dottori dei gatti, io lo so. Sarebbe stato più e più meglio. Tu devi ubbidire come un soldato, dice. Va be ne, pa’. Intanto io non gli dirò che quello mi ha sonato due schiaffoni. Ma ci penserà la gente che ha visto, tutti lo conoscono, mio padre, tutti, e quello non sa cosa va incontro, proprio non sa che io ho ubbidito come un soldato anche se piangevo... Ma non è detto che i soldati non pian gano quando ubbidiscono, e anche i soldati hanno gatti e dolori. Se ne accorgerà, quello, quando si vedrà davanti la voce di mio padre, e i suoi muscoli delle braccia; se ne accorgerà se fa tante storie! Sgrida e prende per la camicia i suoi del cantiere anche i capomastri che sono tutti omo- ni, figurati con quel ficcanaso... Che poi se gli mollavo il sacco, e il gatto, il gatto sarebbe anco ra vivo, uscirebbe fuori dal sacco, andrebbe per boschi, forse mi tornava guarito perché devono mangiare certe erbe che solo loro sanno. Mio pa dre dice che non c’è più niente da guarire. Chis sà. Alle volte si sbagliano anche loro. (Un accen no di pianto) Si può piangere anche a essere sol dati. Si può piangere per un gatto malato, e an cora se me ne dà un altro che non è il mio mi- ciogatto. Ho una voglia, ma una voglia di tor nare giù al fiume perché quando l’ho buttato ho chiuso gli occhi e sono scappato. Forse galleggia. Avrei dovuto slacciare la corda del sacco che for se il micio trovando un sasso fuori dell’acqua s’arrampica. Sarei stato più... (vorrebbe dire lea le) con il gatto. Ma non con il padre! E il gatto non parla, non mi può rimproverare, dunque so no stato più... meno... col gatto... W illi: La maledetta corrente. Se l’è succhiato den tro subito, a mulinello, dal di sotto. E addio. Poi... poi cosa? Sono entrato in un caffè. Certo che mi guardavano. Chi entra lo si guarda. Qualcuno cercava di farsi un’opinione. Gli altri fuori si erano indignati per gli schiaffi e intanto avevano ritardato il mio inseguimento, bel risultato. Ma al fiume, a vedere che andava sotto, nessuno! Eh! Poi appunto sono entrato in un caffè, ho cercato un posto ma mi sono rialzato subito, c’era chi mi guardava. Ho preso a camminare. Ho var cato la soglia di una chiesa perché era domeni ca, ma senza andare più. in su dell’acquasanta. Sono tornato fuori piuttosto stanco... A casa... Senza paste. E a casa ho dovuto dire qualcosa. Non mi fossi dimenticato delle paste, avrei ta ciuto, come sempre faccio, queste cosucce mie. Del resto, non basta tacere per farla finita. Due schiaffi al mio Dino: gli costeranno cari. Mi hanno detto che è quel pittorucolo, magro co me un baccalà, che abita qua vicino, dentro una casa che sta su per scommessa e se crolla è gente che se la prenderà col municipio, è gente di que sto tipo, disordinata. Passa spesso davanti al mio portone e poi torna carico di giornali e di ri viste; chissà come fa a vivere, mangerà carta. Dicono che un quadretto da niente, grande così, se lo fa pagare... Ma questo proprio non mi ri guarda, s’arrargi. Dev’essere un estremista; da come guarda gli altri quando passa è sicuramente un estremista. Però non è certo il presidente del la protezione degli animali, e vorrei vedere an che questa, picchiare un figlio per proteggere una bestia non lo potrebbe neanche il presidente. Pensieri dell’Impresario Kaufmann W illi : A me pare che l’avventura, finita la do menica, ricominciata la settimana, stesse pren dendo il colore dei ricordi solo fastidiosi. Si, c’era ancora il gatto qua in testa e il ragazzo, ma mi sembra che, più che pietà per il gatto, e forse per il ragazzo, i ricordi suscitassero irritazione e niente più. E alle irritazioni sono abituato, an che se in casa taccio. Forse sono nato così, con le irritazioni mute. La gente mi avrà trovato ri dicolo. Certe scene di film di questa natura sono giudicate grandissime. Intanto per due giorni me ne ero scordato. Solo un piccolo rigurgito, come fa la saliva ai dispeptici. Avevo da fare intorno a un quadro, promesso e pagato, non avevo che le ore della notte per pensare al fatto... Il gatto nel sacco. Siamo noi il gatto nel sacco. Pensieri Impresario Kaufmann: Mio figlio ha ubbidito come un uomo. Certo, quel problemino del gatto malato (problemino! con quel che c’è sui giornali...) avrei dovuto risolverlo io. Ma, a parte che non me la sentivo molto, io con le bestie non ci so fare. Datemi un uomo, un cri stiano, e me lo lavoro come si deve. Ma un gat to... Questo a parte, il ragazzo mio deve impa rare, magari con le lacrime, che nella vita non ci sono soltanto bestiole. Così cresce come suo padre, che gli schiaffi li restituisce con gli in teressi ad ogni impiccione e si fa la strada da solo e l’avvenire. W illi: Poi è arrivato il mercoledì; una mattina, livida, il cielo un piombo solo, senza cerimo nie, il vento gelido sulla faccia come piace a me. Per questo sono uscito di casa, non tanto per i giornali, che me li legge per intero soltanto la suocera e comincia dai necrologi; tanto meno per i colori, ne ho ancora in ogni cassetto e mia moglie dice che spendo più in tubetti che in bistecche, e ci ha ragione perché le bistecche mi schifano mentre i colori... Be’, andiamo, ri schiara, precisa i tuoi pensieri, si direbbe che hai paura dei fatti. E non di chi li muove... Naturalmente camminavo strusciando i muri per via delle raffiche. Nel mezzo del marciapiede c’erano bidoni rovesciati e il pattume fuori e gatti alle prese. Mi venne anzi l’idea, un lampo e basta, di afferrarne uno e di portarlo dentro nel portone, ci ero vicino. Ma era un’idea ba lorda, il ragazzo aveva pianto sul suo, non per un gatto qualunque. Ecco. Arrivato davanti al portone, nel vuoto del portone aperto, mi sento toccare da una mano. Abbasso il bavero del pal tò quel tanto e vedo ch’è un tale, un impresa rio, che ha sempre il faccione superbo di salute, roseo, un uomo ben piantato sulle gambe corte. Il faccione, per via del freddo, in quel momen to non era più roseo ma verde. Io mi stavo meravigliando della manona confidenziale che mi invitava a entrare dentro e dentro dirmi, gridar mi che proprio me aspettava. Pensieri d e ll’Impresario Kaufmann: E dun que qui l’aspetto, dentro il portone perché fuori tira un vento indiavolato. Qui me lo lavoro, lon tano dai curiosi, non amo le piazzate. Glie l’ho detto al mio Dino. E è voluto venire. Vuole go dersi la scena. Non l ’ha detto a parole ma è come se. Non volevo, ma ormai... Va bene, se la goda. Sta lì; nel buio del sottoscala, mi par di vedere i suoi occhi luccicare. Lui non dice « bah » da un pezzo, da quando è andato per quel mestiere non parla quasi più e l’altro ieri l’affare degli schiaffi me l’ha raccontato un ca mionista mio che passando ha visto la scena; lui niente. E neppure mi ha detto che ha arri schiato di farsi prendere sotto dalle macchine. Niente. Quasi muto. Solo, non mi molla. Mi tiene per la giacca. Io ne avrei fatto a meno di un testimonio, se debbo dire. E mi pare che avrei tralasciato anche la bega, perché se si tratta di ragionare ho le parole conformi. A menare non ci tengo troppo, a che serve fare il rozzo? Certo, adesso che il ragazzo è lì, e forse ancora una riserva di lacrime nel rubinetto suo, quel pittore me lo debbo affrontare. Sono il padre di un ragazzo che ha il padre forte. E poi, non avessi volontà di picchiare... che è sempre... be’, il ragazzo ha rischiato di finire sotto le mac chine per fuggire da quel tanghero di salvatore di gatti, adesso è lì nel sottoscala che aspetta, lui ha buttato nel fiume un gatto chiuso nel sacco, sono cose coraggiose in un certo qual sen so, anche se ci ha pianto su. Proprio perché ci ha pianto- sono cose coraggiose... WlLLl: Cominciai a capire. Cominciai quando lui, l’impresario edile, invece di accogliere la mia iro nia straripò a parlare. Franò con una valanga di parole ad alta voce come fossimo in una piazza invece che in un silenzioso atrio antico. Con qual cosa di cauto, se dico giusto, come di chi arrangi la mira; ma -poi sempre più violento, precipi toso, mentre dal sottoscala un’ombra si era mossa ed era il ragazzo del gatto e di suo padre. Lo intuii dalle parole a lavina e dall’intenzione ma nifesta, adesso, proprio manifesta, poiché io ero immobile, perplesso, di picchiare. Le sue mani mi passeggiavano su e giù intorno al bavero del cappotto e io cercavo di levargliele... No che non sono un bullo. Sono il contrario di un bullo. Anche se timido non sono. Accetto spes so di essere persuaso. Però fuggo la lite come i gatti fuggono i cani. Cioè fin dove c’è un muro che mi difenda le spalle. Oppure la tronco quasi subito se mi pare definitivamente oziosa. Questa non era oziosa, nossignore, il pensiero della be stia chiusa dentro il sacco mi venne su dal fondo degli intestini. Naturalmente mia moglie... Io lo difendo? Mi pare di no. Io lo conosco. Come dice la mamma, è solo un Martimpiccio. Quando era rientrato, domeni ca, era senza le paste. Dunque qualcosa doveva essere successo, anche se ha fatto tutto, o quasi, come ogni domenica quando non scappa in mac china, come ogni altro giorno che sta in casa, ha infilato le pantofole, si è fermato in ascolto verso il sillabare dei bambini che fanno i compiti di scuola sul tavolo di cucina che è più largo e comodo. Poi mi ha intravisto. O piuttosto ha ascoltato il cigolare della macchina da cucire sulla quale sto La moglie (Interiore): sempre pedalando come Merckx ma senza mai vincere. Ha anche guardato la mamma, o meglio ha visto mezza suocera, come dice sempre, il re sto è nascosto dal Corriere. E poi, fatto più strano, ha raccontato, lui che non racconta mai niente e i nostri giorni sembra che passino in anticipo, di quanto gli era acca duto con un ragazzo e un gatto nel sacco. Allora ho dovuto alzare la, voce, non tanto per farmi intendere sullo stridore della mia macchina an tiquata, ma perché, una volta o l’altra con quel le sue improvvisate, andrà nei guai. E gli ho detto che si facesse gli affari suoi, e non badasse alle cosucce, ai ragazzi degli altri, che lui ne ha due tanto più cari, e ai gatti, che non ci riguar dano, c’è ben altro. E ho anche aggiunto, dal momento che qui in casa più che quieto è estra neo — per via della sua arte — ho aggiunto, fermando la macchina per essere più chiara, che mi meravigliavo: in genere lui è straniero in queste cose, non capisce la lingua... Mia madre è venuta fuori, invece, in modo sba gliato: con il suo detto popolare che lei pronun cia come una sentenza di morte, del Martim piccio morto per i fastidi degli altri. Anche se, a quella funesta avvertenza, è lei a non badare. E le seccature, gli affanni, degli altri, la incu riosiscono assai, anche un ragazzo e un gatto pur chessia... BREACK W illi (Interiore): Dunque mi sono appoggiato al muro. QueU’impresario, Kaufmann si chiama, lo scostai con la mano aperta, leale posso dire. Gli dissi che sì, era giusto, lui protegge suo figlio e fa bene. Ma io non potevo sapere, sul subito, che lui desiderava essere padre di figli capaci di annegare i gatti con la vigliaccheria di un sacco di plastica. E l’altro a urlare, persino troppo, che erano affari suoi e che lui rompe la faccia a chi si mette in mezzo. E che del resto il gatto era ammalato, aveva la rabbia dei gatti. E io, quasi quieto: può darsi. Debbo notare che esi stono veterinari. Ma, riattacca a urlare che i con ti poi li manda a me che magari non pago nep pure il macellaio; chissà cosa intendeva con que sta allegoria del macellaio. E che il ragazzo ha fatto cose sulle quali non debbo impicciarmi, fat te per ordine suo che è il padre. Io... è un po’ vero, avrei dovuto capirlo dome nica dalle lacrime del ragazzo. Il mio giudizio, e le sberle, e l’inseguimento erano giusti dal lato mio e sbagliati dalla parte sua del ragazzo. Con minore decisione — io che sono l’uomo più in deciso del paese, mi sarei salvato dal mio ran core, avrei capito il ragazzo e forse, continuando a parlarne... Non è vero che l’amore nasce da sensazioni misteriose, da naturali impulsi, se nes suno avesse mai sentito parlare d’amore l’amore non esisterebbe. Pensieri cretini. Appena ce l’ho fatta a trovare uno spiraglio nella , frana dell’impresario, gli ho chiesto se era pro prio sicuro che il gatto fosse inguaribile perché oggi con tutte le scoperte e le neomicine una ma lattia di gatto, che è? Petrolio sul fuoco. Il ra gazzo, dal sottoscala, era uscito con la faccia. E il padre: lei divaga, lei mi prende per i fon delli, qui non si tratta di gatti, le pare che un gatto mi possa preoccupare? E io: dipende, a me è successo. Ma me ne volevo andare. Sentivo una certa pietà per quell’omone violento e scoperto, tutto invettive, con la mano aggrappata al mio bavero, il faccione violaceo. E un certo amore, sentivo, se ho capito bene. Feci appena in tempo a dire: lasciamo perdere, dica al suo figliolo ' lì dietro che mi dispiace. Ma che mi dispiace anche per il gatto. E mi la sci il bavero che lo sciupa... Pensieri d e ll’Impresario Kaufmann: Ma il ra gazzo, il mio ragazzo, è li... Sono il padre di un ragazzo che ha il padre forte, non posso deluder lo! Non posso non essere quello che lui pensa che io sia... e che ammira come un Dio. Io... io non sono io di fronte a mio figlio... sono soltanto quel suo meraviglioso tipo di padre che crede di avere... W illi: Dopo, non so bene. Forse urlò per venir mi addosso, per far cadere quel pugno sempre in aria. Fatto sta che alzai il mio e lo toccai ap pena, mi pare. Posso appena averlo sfiorato. E lui s’è trovato giù, tra seduto e disteso, in una posi zione buffa, che mi venne quasi da ridere, come uno che scivola su una buccia di banana e a chi guarda viene proprio da ridere. Il figlio era immobile, fermo come la ringhiera delle scale, sotto la lampadina polverosa dell’a trio. Notai che c’erano degli stucchi, roba del settecento, sul soffitto... Mi parve, andandome ne, di lasciare dietro di me la statua rotta di un uomo forse straordinario. E forse grigio di paura nel buio di quell’atrio. Ma, in un certo senso, mi sbagliavo ancora... La moglie (Interiore): Martimpiccio, sì. Questo gli dissi io, così per dire, quando rientrò e si tolse le scarpe e ancora si mise le pantofole, e ascoltò il sillabare dei bambini in cucina (un giorno saranno grandi i nostri bambini e lui non ricorderà che il sillabario). Fu attento per un attimo anche al pedalare della mia macchina. Ma, siccome mi pareva serio serio, più di ogni altra sera, così lasciai perdere, non metto zizzania. Ho appena: hai capito? No, che non aveva capito, la sua testa è sempre lassù, appena a qualche nuvola di passaggio. Disse appena che ieri aveva avuto una spiegazione con il padre del ragazzo del gatto, il Kaufmann impresario edile. E che adesso era finita e non gli impor tava più niente, né del padre né del figlio né del gatto. Niente. E ha aggiunto, credendo che si volesse interrogarlo, ha detto sarcastico, e di ghiaccio: non facciamo il Martin Piccio. Così venne fuori mia madre, gongolante, inop portuna, da sotto il giornale: « Ci hai ragione, fece dalla sua poltrona. Tanto più che il Kauf mann è morto. Lo hanno trovato morto dentro il portone di casa ». (Pausa) E mia madre, ancora, che comincia a leggere ad alta voce il titolo « Come si muore ». E tutto l’articoletto della cronaca locale sul signor Kauf mann noto impresario trovato morto ai piedi del la scala di casa, e la polizia e l’inchiesta e il fi glio orfano. Poi, sempre mia madre, a ripren dere il commento che era il seguito di quanto avevamo discusso prima che lui arrivasse. E lui intanto si era chinato di nuovo, ecco che si stava rimettendo le scarpe che si era appena tolto, stra no uomo, lo vedevo dalla porta aperta dell’atrio, pareva non riuscisse bene ad annodare le strin ghe... Lentamente si era rizzato, lentamente si era rimesso il cappotto ed era uscito senza un amen, io avevo ripreso a pedalare, la nenia dei bambini usciva dalla porta chiusa della cucina, strano uomo. Medico: Niente. Lei ha quel che si dice niente; anche se il niente in medicina non significa. Un po scassato nei bronchi, fumi meno. Qualche tranquillante, se vuole, Serve a non vedere la vita com’è. Direi che questa visita fuori orario se la poteva risparmiare. Si rivesta. W illi : Dottore: quella faccenda del gatto e del ragazzo... Medico: Che significa? Ha solo i nervi un po’ consumati, andiamo! di là. W illi : Non glie l’ho raccontata per... Forse mi può dire... So che lei è stato chiamato dalla po lizia a costatare il... la morte del Kaufmann im presario. accanto al corpo. Medico: E poi? W illi: Era il padre del ragazzo del gatto. Medico: Be’? Infatti c’era un ragazzino in piedi W illi : E che ha detto? Medico: A me, niente. A quelli della polizia, an W illi: Ah. Medico: S’accomodi. La cravatta se la riannodi W illi (Stenta più di prima): Avevo avuto una di che meno, se ricordo. Fermo e muto. scussione. l’altra sera. diato dai risentimenti. lizia? Medico: Con il suo mestiere, era un uomo asse W illi : Crede che debba andare a dirlo alla po Medico: Non so. A me, no di certo. W illi : Urlava e mi si buttava addosso. Ho cer cato di scostarlo per andarmene. Uno spintone, appena. Niente più di cosi, le giuro. Lei... ha il secreto nvnfessionale, capisco. Medico: E reno male. Snero non vorrà anche leg- n-e-e il risultato dell’autopsia. Wll.U: Detto’'e, compatisca. Cerco le parole. For se era importante... in certi casi non si può giu- W illi: Medico (Interrompe): ... che la visita era una scusa. Si, mi pare. È il resto che non capisco. Che vuole da me? ...che io mi ero messo a inseguire un ra gazzo con un gatto nel sacco, dunque quel fatto io lo avevo reso meschino e importante. Adesso vorrei sapere se c’è una speranza per gli inno centi. Medico: Per quali innocenti? W illi : Voglio dire per i non colpevoli. Medico: Si accomodi! W illi: Vorrei sapere da lei medico, uomo, se si può, nonostante il segreto professionale, e la po lizia... se insomma la paura che ho dentro è vera o sragionata... Medico: Avanti... No, da quella parte, questo è dicare... e la polizia... Lei avrà capito... un armadio, non una porta. W illi: ...La paura di avere provocato la morte, se è morto in quel momento di rabbia, di un uomo al quale ho preso a sberle il figlio. La paura di essere come un assassino. Medico: Ah. Così. E allora: io la paura non glie la posso togliere, bisognerebbe aggiustare tutto, in lei, non soltanto la paura. Il Kaufmann l’ho visitato spesso anche prima, voglio dire da vivo: Non si curava. E aveva un’aorta così. Sarebbe morto anche con i nervi di un bue. Anche con un temperamento tranquillo. Di che si preoccupa io non capisco... (La voce sta dissolvendo). Infatti, di che cosa? Una W illi (che se ne va): volta, con il braccio al collo per una slogatura, ho incrociato un poveraccio con la manica vuota, penzoloni. Senza un braccio. Ci siamo guardati. E abbiamo reciprocamente valutato. Io, fin che ho dovuto girare con il braccio al collo ho avuto timore ad incontrarlo. Fesserie. Signore, proteggimi dagli altri. E pro teggi gli altri da me... (Cammina) Non voleva curarsi. Perché? Per via dei suoi uomini sul cantiere, che lo credevano un Comandante. Per via del ragazzo, che lo credeva un Ercole. BREACK (Schiaffi - Pianto ) W illi: Questo esserino con gli occhi lucidi che non so neppure come si chiama... Sì, certo, farò un largo giro per non incontrarlo. Forse spia dalla finestra. Forse lo incoccerò anche fuori del quartiere. In qualche cinema. Sui piroscafi. Sui treni. Sulle autostrade. Qui o in paesi stranieri. (I passi si fermano). Non mi sarà mai tanto facile vivere. Nota: Questo copione venne prescelto e presentato alla televisione svizzera al Prix Italia del 1973 a Venezia. © IL DRAMMA - 1975 B A R B A R A N U N E Z D E L C A S T I L L O L ’ E S E M P I O D u e t e m p i L ’esempio, dando ovviamente altri nomi ai personaggi reali che coinvolge, si rifà all'au tentica storia processuale d’un ragazzo condan nato a morte negli Stati U niti d’America per un atroce delitto da lu i commesso quando ave va appena quattordici anni. Con penetrazione psicologica e sensibilità poetica, l ’autrice tra scende i crudi fatti della cronaca e dei pro blemi giuridici e sociali che quel delitto su scitò in America e nel mondo intero, per in dividuarne le ragioni più profonde e segrete. Ne sorte così, chiusa tra le tenaci valve di un’ottusa e nevrotica difesa psichica, la vero simile e probabile personalità del giovanissimo delinquente pietrificato dalla totale frustrazio ne dei suoi impulsi d’amore in un mondo di sumanizzato dall’indifferenza, dal cinismo, dall’intolleranza e dalla violenza a tu tti i li velli. Soltanto un tempestivo atto di compren sione e di solidarietà avrebbe potuto sciogliere e riscattare il tragico abisso di disperazione in cui il ragazzo e caduto fin dalla primissima infanzia. P E R S O N A G G I DAVID JOE ALAN DIRK LA MADRE DI JOE IL MAGISTRATO IL SINDACO IL DIRETTORE DEL CARCERE LO SCERIFFO IL VECCHIO DIFENSORE DI JOE IL DIFENSORE DI-ALAN IL DIFENSORE DI DIRK UNA DONNA IL SECONDINO TRE HIPPIES BARBARA NÚÑEZ DEL CASTILLO Barbara Nunez del C astillo, discendente dai Governatori spagnoli di Cuba, è nata a Sanremo da padre americano naturalizzato italiano. Dal 1943 al ’44 debutta come radio-writer in una Radio Ameri cana della P.W.B. (Psychological Warfare Branch). Nel 1946 pubblica negli Stati Uniti d’America un romanzo, Help us to forget (Aiutateci a dimenti care), la vicenda di tre donne, un’italiana, una fran cese e una russa, nella tempesta dell’ultima guerra. Nel 1961 vince un Concorso della Radio Svizzera con il radiodramma II tarlo (ovvero La paura) che, tradotto in molte lingue, va in onda, oltre che dalle emittenti elvetiche di Lugano, Ginevra e Zurigo, anche da quelle di Parigi, Bruxelles! Londra, Am sterdam, Saarbriicken, Vienna, Madrid, Toronto, Tel-Aviv, Praga e Brno. Col titolo tedesco di Angst (traduzione di Klaus Groth) questo radiodramma è prescelto nel 1965 per la Rassegna del Radiotea tro Europeo della Bayerischer Rundfunk. Scrive an che due drammi per la televisione, anch’essi realiz zati in vari Paesi europei: I nostri giorni perduti e I prati di cenere (quest’ultimo, una parodia dello sbarco americano sulla Luna, è tra i dieci lavori prescelti nel III Concorso per Opere Originali Te levisive bandito dalla Radiotelevisione Italiana nel 1962). Tra le sue opere teatrali vanno ricordate: / giorni della notte (ovvero La ragazza di Praga, o Dolci sere di neve, edita da « Il Dramma », Torino, III-IV , 1968) e Un attimo d’illusione (edita dalla « Dilia » di Praga nel 1969). Il dramma L’esempio, che qui pubblichiamo, è già stato messo in scena in Spagna nella traduzione di Adolfo Lozano Borroy. PRIMO TEMPO Una parete chiara occupa interamente il fondo della scena. Alla base di essa, per tutta la sua lunghezza, una lunga panca su cui siedono gli attori. Al centro della scena, verso la ribalta, due panche di quattro posti ciascuna. All’estremità della panca di destra, chiuso e in differente, siede Joe, un ragazzo di quindici anni in maglietta e blue-jeans; mastica chewing-gum. A ll’estremità dell’altra panca siedono vicini altri due ragazzi diciassettenni, anch’essi in maglietta e blue-jeans. Tulti i proiettori saranno puntati al centro del pal coscenico tanto da formarvi un’ampia isola lumi nosa ai margini della quale, specie sul fondo, vi sarà se non proprio un anello d’ombra diffusa al meno un’illuminazione indiretta e attenuata. L’im pianto delle luci è fisso fino alla fine. All’aprirsi del sipario, le persone sul fondo, pur sedendo compostamente, non sono immobili, come fossero anch’esse spettatori in attesa della rappre sentazione. I due ragazzi (Alan e Dirk) parlano sottovoce tra loro. Joe, isolato, guarda nel vuoto. Dopo un minuto, come ad un segnale convenuto, tutti si alzano in piedi ad eccezione di Joe. Dal centro della fila sul fondo un signore anziano vestito di scuro avanza alla ribalta tenendo in mano un foglio. Si rivolge al pubblico e legge: Magistrato: Secondo le leggi del nostro Stato, i Giurati di questa Corte di Giustizia, chiamati a giudicare i qui presenti Alan Peppard, Dirk Jameson e Joe Bain, li dichiarano colpevoli del delitto da loro commesso. Pertanto questa Corte di Giustizia commina ai suddetti Alan Peppard e Dirk Ja meson, colpevoli di concorso in omicidio, la pena di tredici anni ciascuno di reclusione da scontarsi in un penitenziario della Contea, e al suddetto Joe Bain, colpevole di omicidio di primo grado nella persona di Stephen Lynch, la condanna a morte, ordinando il suo trasferimento immediato nel penitenziario di Kamden in attesa di essere giustiziato. Che Iddio abbia pietà della sua anima. II magistrato volge le spalle al pubblico e torna tranquillamente al suo posto mentre sul fondo qual cuno siede per loro. Li abbiamo allevati , a non chiederci altro che denaro. E li abbiamo, spinti a considerare, questa, l’unica felicità possibile da ostentare agli occhi del vicino. La prosperità, l’efficienza, l’ottimismo, la gioventù a qualunque costo, come un mito perenne. Che cosa possono imparare i giovani, da noi, se noi stessi non sappiamo invecchiare? Siamo noi a scimmiottare la loro giovinezza. Non hanno esempi. E ci disprezzano per questo, ci odiano. Sono costretti ad imitarsi tra loro, a imbrancarsi, ad aggrapparsi a degli idoli posticci, se vogliono sopravvivere. Noi ; ei accontentiamo del cerone e del sorriso che 1’imbalsamatore imprime sulla nostra faccia prima di chiuderci nella bara. L’importante è sorridere, anche da morti. Ma siamo vivi, noi? Anch’io avevo un figlio. Vive a New York, e non mi ha più scritto, da anni, neppure a Natale. E a me resta il vuoto di tutti quei giorni della sua infanzia che io ho perduto, perché avevo troppo da fare: la mia carriera, capite? Credevo che fosse felice quando gli compravo dei regali, costosi. Ma troppo- spesso non ho visto il suo viso quando apriva i pacchi sotto l’Albero di Natale. Forse avrà avuto le gote arrossate dal freddo e dalla gioia. E come si muovevano le sue piccole dita quando scioglieva i nastri delle scatole colorate? Ma era felice? Forse no. Ed è per questo che oggi mi odia. 0, peggio, non sa cosa farsene di me. E temo che non mi abbia neppure dentro di sé, come immagine. Io, per lui, sono morto, oppure mai esistito. A me resta del denaro, una grande casa, il rispetto e la stima dei miei concittadini. Ma io sono il più povero di tutti. Sono l’immagine vuota di un padre che sei anni fa invitò invano suo figlio ad assistere alle sue quarte nozze con una ragazza che aveva poco più della sua età. Il magistrato resta seduto, si regge il capo e guarda a terra. Ad eccezione di Joe. il magistrato, il diret tore, escono tutti alla spicciolata, lentamente e nel massimo silenzio. I l direttore del carcere (al pubblico): Nel penitenziario di Kamden vi sono attualmente duemila duecento detenuti. Joe Bain è l’unico prigioniero che si -trovi nel braccio della morte. La sua è l’unica cella occupata, e tutto l’apparato amministrativo inerente a quel braccio è in funzione soltanto per lui. La luce elettrica è accesa giorno e notte nella sua cella. È il regolamento. Costante il servizio di custodia che obbliga due uomini a non perderlo mai di vista un solo istante. I pasti vengono confezionati appositamente per lui. II mese scorso, Joe Bain ha compiuto quindici anni. Non è stato un giorno di festa. Anche quel giorno c rimasto sdraiato sul suo materasso per ore, a fissare il suo cielo di ghiaccio. Interviene il secondino che regge un vassoio appa recchiato con una ciotola, posate e altre stoviglie. Si avvicina a Joe che resta disteso e indifferente. Secondino: M’hanjio detto che oggi è il tuo compleanno, Joe. Sei un vecchio ragazzo di quindici anni!... Guarda che oggi il pollo è fritto alla perfezione... Su, alzati!... Buon compleanno, Joe! Ti auguro di poterti portare il pranzo in questo giorno ancora tra un anno! ( una pausa di disagio ) Joe s’è levato a sedere e il secondino posa il vassoio sulla panca. Joe esamina il pranzo. Il secondino, do po un attimo di esitazione, esce. Il ragazzo brandi sce il cucchiaio e mangia avidamente la minestra nella ciotola: Mentre Joe continua a mangiare, il direttore riprende. D irettore: Mangiò avidamente come al solito, poi sedette sul materasso e cominciò a scrivere una lettera ai due compagni, Alan e Dirk, detenuti in un carcere minorile della contea. Nella lettera parlò del suo compleanno, del buon gelato che gli avevano portato quel giorno, ma si lagnò di noti aver ricevuto la tradizionale torta con le candeline che aveva sempre desiderata, e che ricordava di non aver mai avuto. Mi spiace di non aver pensato a questo particolare: non abbiamo l’abitudine di ospitare bambini in carcere. Anche perché è molto probabile che Joe non vivrà altri compleanni. (esce lentamente) Joe continua a consumare il suo pranzo. David avan za di qualche passo e si ferma a due o tre metri alle spalle del magistrato seduto. David: Perché è stato col più giovane dei tre che avete voluto dare l’esempio? M agistrato: Non siamo noi giudici a fare giustizia: applichiamo soltanto la legge: la giustizia è in mano ai Giurati. David: Perché era il più giovane M agistrato (immobile): La sentenza che portava la pistola? jb già stata pronunciata. David: Perché confessò Magistrato: Troppo tardi: David: Non ero presente al processo. sùbito d’esser stato lui a sparare, a uccidere? il processo è finito. Mi trovavo a combattere nel Vietnam. Sono tornato a casa da pochi giorni. E voglio sapere: devo sapere! Magistrato: A che scopo? David: Perché l’uomo che è stato assassinato era mio padre. FINE DEL PRIMO TEMPO SECONDO TEMPO A ll’aprirsi del sipario sono in scena Joe e David. David sta seduto a terra appoggiato alla panca di sinistra con le braccia intorno alle ginocchia e guar da Joe disteso nella sua solita posizione con le brac cia incrociate dietro la nuca e gli occhi al soffitto. David (dopo una pausa): Ma te l ’hanno fatta (pausa) la visita delle orecchie qui dentro? Ci senti o no? Possibile che non ti scocci a non aprir mai bocca? Forse sono io che mi sbaglio. Non eri tu quello. Doveva essere un altro quel battitore di baseball che mi pareva di ricordare... Dove giocavi? Non era quello spiazzo dietro il garage dei Perkins? No? Allora non eri tu... 0 lo eri? Joe non lo degna d’uno sguardo. David muove qual che passo, prende alcuni fascicoli di fumetti, li os serva. Fantascienza... Avventure del West... Uuuh! L’assalto al Forte Knox! Dev’esser bello questo, eh? (una pausa) David (riprendendo): Adesso che ci ripenso, eri proprio il più negato, non sapevi neppure tenere- correttamente la mazza. La tenevi come una paletta! (fa la mossa di tenere la piazza. Ride.) David, deluso, muove ancora qualche passo, poi gli si avvicina e lo guarda dall’alto, irritato e con tono volutamente offensivo. Credo proprio di essermi ammorbato, sai? di star qui a scornarmi contro un bidone di rifiuti come te! Ma me l’hanno detto, Alan e Dirk, chi sei! Un pidocchio con la tosse, un lattante che se la fa sotto se vede un piedipiatti lontano un miglio... Già, eri il loro schiavetto, ti facevano correre, eh? E quanti calcioni hai beccato da loro se osavi alzare il musetto da terra, eh?... Dicono che li mandavi in giro con certe scarpe lucide che ci si potevano specchiare per farsi la barba, loro che ce l’hanno, la barba! E hanno anche qualcosa d’altro che a te manca... eh? Quello che non capisco è come mai t’hanno preso con loro, anche se solo per cacciargli le mosche... Che ci stava a fare un paperino come te con due draghi come loro? Il capo. Il capo?! Joe (senza muoversi): David (fingendosi stupito): Chi? Tu? Quello che comanda!? Ah! Ah! Ah! Ah!... Joe: Quello che comanda. David: E come? Li facevi filare? Joe: Chiaro, no? Decidevo io. David: Proprio tu? Ma va’! E loro scattavano sempre quando aprivi bocca? E se non gli andava? Non si sono mai ribellati? Joe: Mai. Anzi, una volta ci provarono ma fu peggio per loro... Balza in piedi e si pianta con le gambe larghe. En trano Alan e Dirk. La scena seguente dovrà essere recitata col tono dei fumetti western. Alan (protestando): Non è giusto, Joe, lo dice an Dirk (esitante): Sì... Joe (con le mani sui fianchi, ironico): Ah, sì?... che Dirk! Vero, Dirk, che siamo d’accordo? Siete d’accordo, voi due? Alan: Si, il colpo alla banca, dopotutto, Joe (gelido): Anche tu, Dirk, l’abbiamo fatto tutti e tre insieme, abbiamo rischiato la pelle uguale, e non è giusto che tu ti prenda la metà... la pensi cosi? io... faccio come dici tu... Sei tu il capo... Ma Alan pensava che... Dirk (intimorito): Veramente... Joe con estrema calma e con gesti ” al rallentato- re ” sferra un pugno al mento di Alan che crolla lentamente a terra privo di sensi. Joe (a Dirk): Vai a prendere'uno straccio e pulisci quel sangue, raccogli quei denti. Lo sai che mi piace una pulizia da specchio, qui dentro. (L’altro, carponi, pulisce per terra) E ringrazia il tuo Segno che io so risparmiare gli amici anche se sono due bastardi come voi. (a David) Chiaro? E adesso, ciao: ho la ragazza che mi aspetta. (esce dondolandosi con sussiego). Gli altri due si rialzano come attori che abbiano terminato la loro scena. David si avvicina loro. David (agli altri due ragazzi): Sapete poi che cosa dice? Che lui era il vostro capo. Alan e Dirk scoppiano in una risata. Alan: Gli sarebbe piaciuto... David: Essere alla vostra altezza, vero? Dirk: Era un moccioso che poteva comandare solo a quel suo cagnaccio nero che si portava sempre appresso... Alan: Che roba! Ci aveva pure Un orecchio in meno, oltre alla rogna! sempre lui. David: Dice anche che la pistola la teneva Alan (ridendo): Gliela davamo solo la domenica... Dirk: Ci ha talmente supplicato che non se ne poteva più... bisognava farlo contento. David: Allora la tenevate voi, il giorno che fu ammazzato quell’uomo: era di giovedì. Alan e Dirk si scambiano una rapida occhiata e di ventano immediatamente guardinghi. Alan: No, no, fu Joe a sparare. David: Ma come, Dirk: Ci cadde, David: A chi di voi due cadde? Alan: Ma, insomma! se la pistola la tenevate voi!? e lui la raccolse. che razza di giornalista sei? Non dicevi di voler fare l’articolo bello su di noi? Mi pare che puzzi di piedipiatti... (rivolgendosi all’altro) Dirk: Io dico che lo è. Alan (a David): Se ti prude qualcosa, va’ a guardarti le carte del processo che lì c’è scritta tutta la verità, È stato Joe, e l’ha detto fin dal primo momento allo sceriffo. Gli ha sparato lui e l’ha ammazzato lui, quello! Dirk: Tanto è vero che sulla sedia è lui che ci va, mica noi! Alan: Su questo ormai non c’è più da dire niente! Dirk: Non vuoi sapere per quali squadre facciamo il tifo? Alan: Abbiamo formato un complesso super, qui dentro. Io sto alla batteria, (indica Dirk ) lui al contrabbasso. Dirk: Abbiamo intenzione di scrivere una canzone che l’America impazzirà per noi, e ci faremo un sacco di soldi! Alan: Di’ un po’, tu che sei giornalista, scriviamo un libro sulla mia vita? 10 te la racconto e tu scrivi, e della grana facciamo a mezzo. Un sacco di soldoni, ci stai? Dirk: Oooh! E io che sto a fare? 11 guardone della vostra grana? Ci voglio entrare anch’io nell’affare! C’ero anch’io al delitto! David: Mi sembra una buona idea. Alan: Vero?! David: Direi di sì. Però ci vorrebbe un inizio di miele per la bocca del pubblico. Questo è il filone che va adesso. Bisogna far piangere la mamma, tipo « Love Story »... eh, Alan? Dirk: Potrei parlare di Susan, David: Le donne... è roba sfruttata! Amore per qualcos’altro ci vuole! Un momento! Voi l’avevate un cane, no? Alan: Sì, ma era di Joe. Puzzava come una bestia. E poi lui ci dormiva e ci mangiava insieme, e ci parlava come fosse una persona. Dirk: Che c’entra? Possiamo dire che era bello e che era nostro. David: Allora Joe era un tipo dal cuore tenero. Alan: No, no. Era un « sadico ». L’ha detto anche il Procuratore. « Un mostro sadico », ha detto. Dirk: Per far quella cosa, poi, di ballare sul cadavere di quel poveretto! (comincia a saltellare) così... così... Alan: Di dargli i calci come a un pallone! (anche lui eccitato comincia a prendere a calci la la panca ) Toh!... Prendi!... (Entra urlando Joe e anche lui prende a calci fu riosamente la panca insieme con gli altri due). Joe (con voce stridula, rabbiosa): Così impari!... Così impari!... Cosi impari!... Tutti e tre, con eccitazione sadica e folle, ridendo e gridando, mimano la tremenda scena dell’oltrag gio al cadavere dell’uomo che hanno ucciso; saltano sulla panca, la rovesciano, la prendono a calci, fin ché Dirk e Alan escono di corsa. David si lancia su Joe e lo immobilizza mentre il ragazzo non grida più ma è in preda a un forte tremito isterico. David: Fermo, Joe!... Fermo!... Non aver paura! Non c’è nessuno alla porta che ti viene a prendere... Ci sono io, qui, con te! Calmati!... Su!... (lo conduce a sedere sulla sua panca dove il ragazzo gradatamente si calma. Gli siede accanto). Perché non hai neppure un po’ di fiducia, un po’ di speranza? Quanti casi ci sono stati in cui la pena di morte è stata commutata?! Perché non dovrebbe succedere anche a te? Tanto più, e tu lo sai bene, che a sparare non sei stato tu. Perché ti sei accusato? ( l’altro alza il viso e lo guarda senza rispondere). Joe: Perché... perché sono stato io. David: Non è vero! Joe: Che ne sai? David: Certe cose si sentono, e io le sento, dentro. Joe: Che cos’è il « dentro »? David: È come quando uno, che ha un amico molto caro, e questo è ferito e non si può muovere... E allora tu vai, mentre ti sparano addosso, a prendergli l’acqua per dissetarlo. Allora ti accorgi che la paura è andata via e il « dentro » si è fatto di neve sotto il sole e il silenzio. Io ho pensato, quand’ero in guerra, che Dio fosse questo, e stesse con me. Joe: Sei stato nel Vietnam? David: Sì. Joe: In che arma? David: Aviazione. Joe: Allora ne hai fatti fuori un bel po’, eh? ( Pausa ) Se potessi uscire di qui, mi piacerebbe un mucchio andare in guerra, perché lì, almeno, è legale ammazzare la gente. David, colpito, scoraggiato, si alza. Muove alcuni passi. Poi, dominandosi, gli si avvicina di nuovo. David: Joe, ti ricordi di tua madre? Joe: (con una smorfia alzando le spalle): Booh!... David: Ma almeno ad Alan e Dirk, che erano tuoi amici, volevi bene? Joe: E che si vuol bene agli uomini, adesso? David: Ma, una ragazza, ce l’hai avuta? Joe: Altro che una! David: Ma una, in particolare. Joe: Beh... David: Una che si ama per davvero, Joe: Mica servono per parlare, che gli si dice tutto... le donne. Alan, una volta, ci ha spento la cicca in faccia, a una. Così, sì, che si è veramente uomini! David: Se sei fatto in questo modo... vuol dire che non vuoi bene neppure al tuo più caro amico. Joe: Che amico? Io non ne ho. David: Eppure so che ne hai uno e che stavi sempre con lui. Joe: Chi te l’ha detto? David: Me l’ha detto lui. Joe: Lui, chi? David: Joe (emozionato, diffidente, tra i denti): Il tuo cane. Sei una carogna, David! Questo non dovevi dirlo. V attene. David: Va bene, se la prendi così... (fa per andarsene ) Joe (con cupa desolazione): Che ne sai, tu, del mio cane? Ora, che io sto qui, lui è morto. David: È vivo. L’ho incontrato. Joe: Dove? David: Per strada, all’angolo di Boston Street. Joe: E ti è piaciuto il suo bel pelo bianco? David: È nero, gli manca un orecchio e puzza forte. Joe si lancia verso David e lo afferra per il petto Joe: (gridando: ) Dov’è adesso?... Perché non me lo hai portato? David: Calma, calma... Non sai che i cani qui dentro non possono entrare? Comunque è al sicuro, a casa mia. E la sua zampa... non era rotta? Joe (ride singhiozzando): E come sta, come sta? David: No... sta bene. Joe: Non zoppica? David: Direi di no. Joe (eccitato e felice): Che bastardo che sei!... Ma perché non me l’hai detto prima?!... Aaah ! Se l’è scampata! Se l ’è scampata, almeno lui! E adesso sta a casa tua... Non è che ne hai già uno? tutto tuo? David: No. Joe: Ma non ne hai mai avuto uno, David: No, mio padre non li sopportava. Joe: Allora terrai il mio?! David: Promesso. Joe: Giura! David: Te lo giuro. Joe (placato. rasserenato): Adesso noi siamo co me fratelli. David: È quello che cerco di farti capire. Joe: Perché lo fai? David: Perché non si può abbandonare qualcuno solo come te. E che non ha fatto quello che dice, non ha sparato a quell’uomo, e non l’ha ucciso lui. (Joe lo guarda, non risponde ) Ora che siamo fratelli, Joe, dimmi la verità. sta’ verità! Joe: Ma a che ti serve David (riscaldandosi): Voglio sapere! Io ero in guerra, lontano da tutto, quando è successo quel fatto! Adesso, che sono tornato, mi sono messo in testa di scoprire la verità! ( con uno scatto di collera ) La verità è un mio pallino! Sarò padrone di averne uno anch’io, no!? Sei stato tu, o no? (si domina) Joe: No... Non sono stato io. David: Chi è stato? Joe: Non sono una spia. Volevi sapere la verità, ora la sai, basta. Senti, David, non arrabbiarti se ha le zecche, che mica s’attaccano a noi, sta tranquillo, hai capito? Ma tu ce l’hai i soldi per dargli da mangiare... Corre in un angolo e torna con un cartoccio che apre sotto gli occhi di David. Gli ho messo via questi ossi perché un po’ di speranza che non fosse morto mi era rimasta, sai? Con quelle cose che si sentono « dentro », vero? Dàglieli, eh? Digli clje glieli mando io. Senti, ma tu dove abiti? David: In campagna. Joe: Ah, benissimo! Gli piace molto la campagna al mio Sin, perché si chiama Sin, sai? David (sorridendo): Questo non me l’ha detto. Joe (serio): Sfido, io! Parla solo con me! Il suo vero nome, veramente, sarebbe Frank Sinatra Bain. David: Sinatra? E perché? Canta? Joe: Si, un pochino, di notte se c’è la luna, e poi gli assomiglia molto a Frank Sinatra, non trovi? David: Eh! In fondo, hai ragione. Joe: Aaah! Come gli piace la campagna! Facevamo certe corse... C’è una stradina lungo il fiume che va a finire proprio nell’acqua. Beh, Sin, aveva imparato a tuffarsi insieme a me! Vedrai come nuota! Sai che è capace di nuotare tenendo il pacchetto delle mie sigarette fuori dell’acqua per non farlo bagnare?!... Ah, dàmmene una. Da quando sono qui neppure di fumare mi andava più... > (David gli accende una sigaretta. Fumano). Forse perché ero così in pensiero per Sin. La sera che mi hanno preso ha corso per un bel po’ appresso alla macchina, P0Ì non ce l’ha fatta più, zoppicava... Un giorno eravamo... Un momento. Dimmi perché — ora me lo puoi dire, no? — perché hai sempre sostenuto di essere stato tu a sparare? David (lo interrompe)-. Senti Joe... Joe (imbarazzato): Beh... David: Perché volevi farti grande, volevi passare per il capo, e una volta tanto sfondare, avere il tuo nome sui giornali, è cosi? E sempre a sfottere perché io, con le ragazze, mica è come ti ho detto, sai? Joe (aggrondato): Mi hanno sempre tenuto indietro. Ma che ti frega?! Ormai quello non c’è più! ” quello” ?... Mio padre. Mi dispiace... David (dopo una pausa): Sai chi era Joe (resta per un attimo colpito, poi si riprende): (David siede triste e pensoso. L’altro, a disagio, non sa come consolarlo). (lo guarda. Gli si avvicina. Lo accarezza timida mente sulle spalle). Ma guarda un po’ che jella! mica è vero! Non mi hanno mai voluto, E quando facevo il furbo mi canzonavano pure dicendo che ero un lattante pisciasotto. Così gli ho fatto vedere chi ero! David: Un po’ salato, direi, con la condanna che ti hanno affibbiato! Joe: Beh, io mica lo sapevo che andava a finire in questo schifo... E poi... tanto, che ero stato io, se lo erano messo in testa... David: E non vuoi proprio dirmi chi è stato? Joe: A far che? David: A uccidere! Joe (spazientito): Oooh! David! Quanto rompi! David: Chi? Mio padre? Lo conoscevi bene? Beh... non avevamo molto da dirci perché lui era un contadino e io ero sempre via per i miei studi. Ma ci volevamo bene. Da ragazzo mi faceva filare, eccome! Joe: Te le dava? David: Qualche volta sì, mi picchiava anche con la cinghia dei pantaloni. Però si è consumato di lavoro per mandarmi all’Università. Con me non lo faceva vedere,, ma con quegli sbracati dei suoi amici si vantava di me, era contento... Diceva: « Mio figlio ne farà di strada, potrebbe diventare anche Presidente!...» Gli altri lo prendevano in giro e lui si arrabbiava e certe volte finiva a botte... Entra il secondino col vassoio del pranzo. Secondino: Beh, Joe? Come va, oggi? Joe: Cosa mi hai portato? (scoperchia un portavivande) Oooh! Tutti i giorni le stesse cose! Secondino: Le hai sempre mangiate! Joe: Beh, da oggi, mi andrebbero le bistecche, sai quelle che hanno quel bell’osso grosso che c’è tanto da rosicchiare... Dà qua, dà qua... (afferra il vassoio e lo posa sulla panca) Secondino: Proverò a dirlo al direttore, va bene? Joe: Con l’osso o niente! Secondino: O-Key! (Joe addenta qualcosa e offre del cibo a David) Joe: Prendi... è buonissimo, sai? David: Non mi va. Joe: Dài! Se te ló dico io che è buono puoi fidarti! (David scuote la testa in segno di diniego. Joe av vilito ). Ecco... Credevo di aver trovato un fratello... e invece non vuoi neppure mangiare con me... (assaggia la minestra) Uuh! Che delizia!... (spinge il cucchiaio colmo verso la bocca di Da vid): Mangia!... Se no mi arrabbio sul serio!... David accetta il cucchiaio di minestra. Joe conti nua ad offrire un cucchiaio a sé e un cucchiaio all’altro quasi compisse un rito. Poi divide il resto del pasto porgendolo su un piatto a David. Con tinuano a mangiare. Joe (mangiando): Guarda che l’hai giurato che il mio Sin lo tieni tu... e lo tratti bene. Però sta attento che non ti scappi: quello starà sempre a cercar me... E poi gli piace girare dappertutto, ci vuole poco che si metta in qualche pasticcio... E lo sai, in questa città di bastardi, cosa hanno inventato per i cani randagi. Li mettono nella camera a gas. E se è malato, lo curi. (Una pausa. Mangiano.) David (mangiando): Certo. Hai la mia parola. Joe: Sin ha buona salute, sai? È abituato a dormire con me all’aperto, anche col freddo... E pure al chiuso, a volte, dai muri viene l’acqua d’inverno, ma non si è mai preso la tosse, come l’ho presa io, invece. David: Sta benone, non preoccuparti! Joe: Sì, sì, però non lo tenere troppo chiuso in casa. Lui con me è abituato a camminare tanto, a correre, a veder passare i treni, a veder gente, e le ragazze che vanno a ballare di domenica. 10 ci sono andato solo a vedere, mica mi piace tanto... (Breve pausa) Di’ un po’ David: cosa si sente a star vicino alle ragazze? David: Beh... come bere una bella birra Joe (ride): Aaah!... fresca d’estate. E poi mandano un buon odore, vero? del tuo cane! David (ridendo): Eeeh! Un po’ diverso da quello Joe (ridendo): Perché? Che ci ha che non va? David (ridendo): Puzza da stordire le mosche! Joe (ridendo gli dà un pugno): Ma sarai tu che puzzi, brutta faccia da gatto!... David (ridendo e restituendogli il pugno): Bello tu! David (ridendo): Io direi che siete un bel paio Ridono. Joe: Lo sai che d’estate, quando abbiamo corso tanto e io mi sbatto sotto un albero a respirare un po’, 11 signor Frank Sinatra Bain mi lecca le dita dei piedi per cacciarmi via la stanchezza?! Poi di’ che non è intelligente! di maiali, tu e lui!... (Joe si fa una grossa risata) Ma .guarda che razza di soggetto! Pausa. Joe (tornato serio): Senti, David, tu che fai l’Università e sei stato militare, perciò i soldi non ti mancano, perché il giorno del suo compleanno non gli fai un bel regalo e la torta con le candeline, al mio Sin? io non ho mai potuto farglieli. David: E quand’è il suo compleanno? Joe: Non lo so perché io l’ho trovato da piccolo abbandonato in un cantiere, però noi lo festeggiamo insieme 10 stesso giorno mio. Ormai per quest’anno è passato, ma volevo dirtelo... per l’anno prossimo... caso mai... io... non ci fossi. (Una pausa. Si guardano. Joe si alza di scatto. A voce più alta, con improvvisa disperazione e ran core) E fagli anche l’albero di Natale! Perché lui non ne ha mai avuto uno in vita sua! Non ha avuto che calci dalla gente che non lo voleva tra i piedi! Ah! Sapessi! Come li odio tutti! Tutti. Dal primo all’ultimo! ’ (sempre più eccitato e convulso ) Ma mi vendicherò! Come mi vendicherò! Di tutti! E anche dei Giudici, degli Avvocati di quei luridi traditori, Alan e Dirk! Gli tirerò le bombe! Su questa schifosa città di bastardi! Bombe! E su quei porci di piedipiatti che hanno fatto correre 11 mio Sin che zoppicava... (con furore estremo grida) Ma quello l’ha pagato caro quel calcio...! (s’interruppe spaventati perché teme che l’altro ab bia capito tutto). Pausa. David (impietrito, con voce atona): Allora era vero. Sei stato tu. E tu, (siede annientato e piange sommessamente). David (gli si avvicina, triste, pacato): Non piangere... Perché piangi? Joe (con la voce rotta dai singhiozzi): David alle spalle lo abbraccia fraternamente mentre Joe continua a piangere. David; Non aver paura, (con enorme dolore) Io non lo voglio più. Perché non lo vedrò più... E non vedrò più neanche te... Joe. Non devi più aver paura. Mai più. F I N E per un calcio che ha dato al tuo cane, hai ucciso mio padre. Joe (annichilito, tremante): David... David... Hai giurato: non ti vendicherai sul mio Sin, vero? ( implorante ) Hai giurato... Hai giurato!... ( esasperato ) Vendicati! Ma su di me! Ammazzami! Cosa vuoi che me ne importi, ormai!? (David, con enorme pietà, 'scuote testa ). lentamente la Perché... non vuoi... vendicarti? Cosa vuoi che faccia!? Che cosa posso fare... io?! ( Pausa. Infantile, sconvolto) Senti, David... Ti regalo il mio cane... È tuo. © IL DRAMMA, 1975 C O R R A D O C A R T I A E D I T O R E E S T A T E C O N L A P O E S I A GENTLEMAN’S AGREEMENT FRANCESCO JÂTTA (palto di galantuomini) Il sequestre di persona diventa un gioco di socleci la cui alta posta tinge di sangue I predestinati, senta culminare pori In tragedia grazie all'azione cartia editore a n to lo g ia p o e tic a d a i fu tu ris m o a o g g i 1932 1975 g e p p o HE ' ..‘.. ~ t e d e s c h i - - ■ iviflinHHSMl Di prossima pubblicazione: M iranda Clementoni: « Pianto di Corallo » Antonio Caputo: « L ’ultim a rabbia » Ezio Zammarano: « I l segno e il grido » M ariella Bettarini: « In bocca alla balena » Adriano Ceri: « L ’Età dell’Acquario » Domenico Destito: « M ia Terra mio amore » lib ri sono Collana di P O E S I A diretta da Corrado Cartia. Questi in tro dotti da p r e f a z i o n i di Guglielmo Petroni, E. F. Accrocca, G. Barberi Squarotti, Corrado Cartia UN V O LU M E L. 2000 - R I C H I E D E T E a « EM - Distribuzione » - Via Cimarra 37/6 00184 R O M A - Tel. 4756072. EDITRICE MERIDIONALE CARTIA EDITORE - ROMA - Via Cimarra 37-38 - tei. 4756912/4756072 U N A C O L L A B O R A Z IO N E IN E D IT A T R A R E S P IG H I E D ’A N N U N Z IO L A V E R G I N E E L A C I T T À di Sandro Paparatti N am pio, stupendo salone, pieno di fio ri, di bellezze, di quadri, di fotografie, di luce, ed una Donna, ugualmente -stupenda nella sua maestosa apparizione, ci accolgo no per un incontro insperato, ma voluto da un giovane amico, poeta e pittore, che ci fece compagnia... Elsa Respighi, sorridendo apertamente, seduta su una poltrona, ci guarda con gli occhi azzurri, pieni di sole, ci sorride, ci parla. Questo incontro ci dà la misura di quel la che fu un’amicizia ed una collaborazione iniziata sotto i segni dell’illim ita ta ammira zione reciproca tra Gabriele D ’Annunzio e O ttorino Respighi. Le parole di Elsa Respighi, musicista in signe anch’essa allieva del Maestro, prima, e poi sua moglie, ci narrano con una voce velata di malinconia, calda, persuasiva, vel lutata, di quelli che furono i rari incontri tra D ’Annunzio e Respighi, negli anni in cui stava per nascere un’opera destinata al trion fo della poesia, della musica, della fede. D ’Annunzio — come scrisse poi ad Elsa Respighi, dopo la dolorosa scomparsa dei Maestro — aveva fatto una Promessa scrit ta, a ll’amico musicista ed a se stesso; ave va vergato con quella sua indimenticabile grafia le parole che, morto il Respighi, vol le offrire ad Elsa: « Elsa, quando salimmo a ll’O fficina, l ’ope in quella notte di ra si arroventava già, io ed O ttorino, mentre poesia e di musica, io scrissi la Promessa e ne avvolsi i due bronzetti dorati. Tutto fu custodito nel cofanetto d’argento, ove ogni parola pesava come nella bilancia del la volontà! » E la Promessa è quella che abbiamo la riproduzione ventura di pubblicare nella dell’autografo dannunziano. Elsa Respighi, parlando come di là da un sogno, ma con un sorriso che ancor og gi le illum ina il volto, ci narra dell’incontro tra i due creatori di bellezze. Ottorino Respighi con la moglie Elsa. 52 - IL DRAMMA j j j | j | | ^oiw lcl £/>A ~J di u ù - ,n lllovicb^/o- \\o H \t- e ( 3 m f / v t , ^ nL ¡0 a^ ?°l ‘jM if r t/6?- i^eAiato n tj- Co( /uro 31^0 <2- c^L /¿L /ólo>h'(<\ 1 f tuìd KWfTHie Js MANE HR ¿BIMVS ^||^pTIME llliv CóUi^d^Xo Acol'H^q^_ (j^' ^clt ^ctf\C U-_ • jc ’ £ c o ih r i / i ' j r f / c tcT 1° l'C1 io |V A it| ¿4 : iVloTi’ tlL~ LO . f ^ O [/tY ùlo J^q.l/i//^ otr 1/ *l/o J o l dcL 4 tóq jvW Z «W /w * - Z te /^ ^£f- | ('/n.cL 6\/e. /t?lc i- e n o ^ e 'Za hcyhd,- ^4 ecco cU ik i e b'wfo ^ K . £|il(2ÌÌa ^ nc^ |/^W o 4 /■ S (4 d i t e l lo w 4 ’ b ^ lU tte tò a i- fì& u o b t I^H feYW-^i'hA M . CtS^~ dsi_ h i odUty Aóìue ; itecelo n d ti ÌaIIiL_ fbìyCO'te'. 4 u i c \d t fl1^ ^ ■“ B HÌè 4).JjL tfiOLOie CoA bei C 00K. taZ, ^ 1 ' cfieM.ÒTx' ho&tn'ci t-^iC d t £~ ¿ i zpiOX due j i i HoW\tu{ J q , d d -ltiv d i 4 ( jW L . fto f&lho ¿ledete fino V h a c u liz ip ¡nfczc 4 o ltlQ - ' La lettera di Gabriele d'Annunzio ad Elsa Respighi all'indomani della morte del compositore. Respighi, nel 1911, quando già D ’A n nunzio camminava verso la gloria, sentiva questo nome che gli suonava nelle orecchie ma aveva, però, un vero timore di parlar ne, di pensare che un giorno potesse venire in cui avrebbe conosciuto il Poeta. Ma la sua rinomanza di musicista geniale, nuovo, promessa della Melodia e della Composi zione, lo avevano posto accanto a Lorenzo Sonzogno, il quale vagheggiava già un’ope ra su libretto del Poeta e musica di O tto rino Respighi. Questi, alieno dagli affari, dai chiassi, dagli effim eri e fa cili interes samenti dei giornali, respinse parecchie vol te l ’offerta di Sonzogno di portarlo da D ’A n nunzio e far sì che il Poeta scrivesse un libretto apposta. Il Sonzogno, che aveva già intuito le enormi possibilità del Respighi, le sue qualità illim itate di musicista che avrebbe potuto ben vestire delle sue melo die un’opera di D ’Annunzio, insistette ed il 15 aprile 1911 scrisse al Respighi: « P ri ma di rinunciare a un’occasione così ecce zionale, io credo necessario d’in vitarvi a matura riflessione... La nave è un bel qua- ’ dro e potrebbe essere fonte di grande ispi razione. L ’avete letta? » Ma Respighi, irrem ovibile nel suo rifiuto, negò ancora! Malgrado una certa collaborazione già fosse iniziata, poiché Respighi aveva musi cato alcune liriche di D ’Annunzio (noi ab biamo avuto la fortuna di avere in dono, il manoscritto del Maestro, donatoci dalla cara Elsa, della lirica I I sognol) malgrado la fama del Respighi andasse già fuori dei confini d’Italia, la modestia e la coscienza stupenda del Respighi che voleva assoluta- mente affinare l ’arte sua onde avvicinarsi a D ’Annunzio con una forza creativa degna di lui, fecero sì che un incontro non avve nisse! Elsa Respighi, con lo sguardo sperduto verso il cielo che quella sera era piovoso e triste, ci dice che fu un vero peccato il tem po passasse, e Respighi rimandasse di in contrare D ’Annunzio, poiché, quando l ’in contro finalmente avvenne, non ebbe tem po di maturare l ’evento, ed il Maestro cad de sul cammino della vita e l ’opera tanto agognata non ebbe inizio.., Elsa Respighi accanto al medaglione con il volto del Maestro scolpito da Francesco Messina. Verso la fine del 1932 Luisa Bàccara, la custode silenziosa del Poeta, scrisse a Re spighi che D ’Annunzio voleva vederlo per parlare con lu i di un lavoro che aveva idea to. Questa volta il Maestro sentì che dove va accogliere il richiamo del Poeta ed ac compagnato dalla sua Elsa, si recò al V it- toriale. Sentiamo dalla voce stupenda di Elsa Re spighi che rievoca l ’incontro per la nostra gioia: « L ’incontro fu assai bello e me ne richiamò alla mente un altro, con un altro ' poeta, Gerhard Elauptmann, quando a talu ni sembrò, per una certa somiglianza fisi ca, vedere a colloquio Goethe e Beethoven... Ma D ’Annunzio e Respighi parlavano la stessa lingua e pareva che si fossero sem l ’uno sapeva dell’al- pre conosciuti, tanto tro e sentiva e comprendeva quel che l ’al tro diceva e pensava ». D ’Annunzio parlava eccitato e commos so del suo nuovo poema e ne riassunse i m otivi e lo sviluppo: si trattava di un dram ma corale e sinfonico, da rappresentarsi in un vastissimo teatro aperto, una m oltitudi ne di gente che vive, crea, soffre, canta, in comunione con un’altra m oltitudine che a- scolta, guarda, segue con l ’anima le vicen de del dramma, che è suo parché profonda mente umano. Respighi ascoltava ugualmente commos so, infiammato già dall’idea di poter met tersi al lavoro creativo; avrebbe voluto a- iniziare a vere, almeno, un episodio per sentirlo dentro! Ormai tra D ’Annunzio e Respighi era nata quella collaborazione che il mondo si aspettava... Sandro P a p a ra tti E la morte Ma un viaggio di Respighi in America, una malattia del Poeta rimandarono tanto l ’inizio del Poema che il Poeta diceva già di avere iniziato a scrivere, finché la mor te troncò immaturamente la vena del Mae stro e la sua mano cadde sul pentagramma ove già pensava di fermare le prime note per il Poema dannunziano... fermò anche la Parola del Poeta im aginifico! Resta, a ricordo di que sta impresa che sarebbe stata degna di en tram bi i creatori, una lettera in cui D ’A n nunzio dice ad Elsa Respighi, da pari suo, il dolore per la morte del Maestro, il dolo re per l ’opera non compiuta, il dolore per la perdita dell’Am ico « una pura e ferma voce sopra questo confuso mondo di bal- bettatori ». Nel salotto di casa Respighi cala la sera; dai vetri lucenti per i riflessi delle fredde lampade sulla strada il suono della pioggia che cade sul selciato e sugli alberi i cui rami sbattono alle finestre per il ven to che s’alza dal Tevere vicino. filtra Ma una melodia arcana, fatta di note mai nate, mai udite; una melodia stupenda pas sa nell’aria di quel salone e fa di me un uditore attento, un silenzioso personaggio di quel gran teatro a ll’aperto che Respighi sognava con D ’Annunzio per l ’Opera mai nata! I I I F E S T I V A L I N T E R N A C I O N A L D E T E A T R O AHNEQ DE CARACAS-VENEZUELA 28 la ABRIL al 2 de MAYO 76 CONFERENCIA DEL TEATRO DEL TERCER MUNDO (ITI-UNESCO) Auspiciado por la Federación de Festi val de Teatro de América (FFTA) III FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL TEATRO ATENEO DE CARACAS 20 Aprile - 2 Maggio 1976 U N P R IM A T O D I T R IE S T E : F A S O P R A V V IV E R E L ’O P E R E T T A « A C Q U A C H E T A » R I N G R A Z I A L A B O R A di Gica Bobich L ’o p e re tta è veramente superata ? Dai programmi propinati dalla Televisione no strana ai suoi 13 m ilioni di pazienti abbonati nel 1974 sembra proprio di sì. Dopo aver sorbito No, no, Nanette, Acqua Cheta e A l Cavallino Bianco si arriva alla melanconica conclusione che l ’operetta, oggi, è virtual mente finita. G li spettacoli messi in onda dalla Televisione avevano tutta l ’aria di rie sumazioni di un genere del tutto superato, come un’esposizione di reperti archeologici offerti al pubblico a titolo di pura curiosità evocativa. Fortunatamente una visita a Trieste du rante il Festival d e ll’operetta, offre un qua dro completamente diverso. Ci si trova davanti ad uno spettacolo vivo e vitale al quale, insieme ai triestini, partecipano con travolgente entusiasmo spettatori da tutta Italia. in minima parte, A Trieste l ’operetta non è certamente un reperto archeologico ma una esperienza at tuale, uno spettacolo che non ha perduto nemmeno lo slancio e l ’originalità che lo caratterizzavano al’epo- ca d’oro sulle rive del Danubio. Ci si alza prima dell’alba per arrivare in tempo da vanti ai botteghini ed i biglietti per le recita (a teatro completo !) vengono venduti in po chi giorni. Come si spiega tutto questo en tusiasmo dopo 25 anni di repliche ? Quando fu lanciato per la prim a volta al Castello di S. Giusto, nel lontano 1950, nes suno poteva prevedere che il Festival del l ’Operetta sarebbe diventato in pochi anni una brillante manifestazione nazionale. Ba stano alcune cifre per darne un’idea: in una città che conta soltanto 300.000 abitanti, oltre 30.000 sono gli spettatori per un ciclo di tre operette, cioè per 21 reci te al Politea ma Rossetti durante i 35 giorni del Festival dall’ 11 luglio al 17 agosto ! che affonda triestina tradizione I critici hanno cercato di analizzare que sto strepitoso nonché im prevedibile successo. È stato scritto che ciò dipende da quel la le sue radici nella M itteleuropa di austriaca memoria. Dimenticano che la M itteleuropa come impostazione politica e culturale è fi nita da un pezzo e la sua generazione, anche a Trieste, è ormai quasi esaurita. I triestini, oggi, sono dei personaggi nuovi che con la tradizione tipicamente viennese non hanno nulla a che fare. Che l ’operetta sia stata un genere di spet tacolo tipico dell’Europa centrale (ed anche occidentale) è noto ed è comprensibile che m olti credano di poter spiegare il fenomeno di questo esuberante Festival rievocando la matrice della M itteleuropa della quale an che Trieste per vari secoli ha fatto parte. Ma tutto valida e non regge ad un approfondito esame. Certamente anche Trieste, come gran parte la spiegazione non è del vità perché fa rivivere l ’atmosfera europea dominante in America prim a che il folklore negro invadesse Broadway con i « musicals » degli anni ’30. Il Festival si avvale di un’orchestra di 70 professori e di un coro di 40 voci, ambedue del Teatro Verdi ed ambedue affiatatissim i, possiede un corpo di ballo eccellente che con i m igliori ballerini della Televisione raggiunge le 50 unità e può contare su di rettori d ’orchestra, registi e scenografi che soddisferebbero le esigenze di qualsiasi gran de teatro d ’Europa. D irettori, cantanti, at tori, una magnifica orchestra ed allestimenti di grande effetto scenico hanno fatto di que sto Festival un avvenimento elegante. E qui si può aggiungere « tradizionalmente ele gante ». Quello, infatti, che caratterizzò so pratutto l ’epoca d’oro dell’operetta prim a a Vienna e dopo la straordinaria cura posta negli allestimenti fatti con ricchezza di mezzi e nella scelta degli interpreti. Esattamente come fa Trieste oggi- il 1918 a Berlino, « Elegante » è il solo aggettivo che si ad dice a questo Festival i cui ingredienti non sono affatto miracolosi ma si riducono ad un solo, grande elemento: il rispetto per il pubblico al quale è stato offerto uno spet tacolo di alto livello artistico. fu La Contessa M aritza offre uno spunto in teressante che m olti ignorano e che è be ne ricordare. Nel prim o dopoguerra, col crollo della monarchia asburgica nel 1918, la scintillante atmosfera viennese im provvi samente si spense. Sembrava che l ’arte e la cultura tedesca si fossero trasferite a Berlino che soprattutto negli anni precedenti il na zismo, offriva un terreno più propizio al lancio di questi generi leggeri. Era in fatti il terreno sul quale Lehar e Kalman continua vano a mietere allori. Fritzy Massary, che fu forse l ’ultim a delle grandi stelle dell’ope retta degli anni ’20, brillava sulle scene del Metropol, teatro di Berlino. Vienna sembrava un lontano nel tempo, sembrava dimenticata. Sembrava che l ’operetta viennese fosse finita con la fine dell’impero d’Absburgo. « Sembrava » ma non lo era affatto e lo si vide perfettamente ricordo famoso il più La copertina del libretto de « Il paese dei campa nelli » dato al Politeama Rossetti di Trieste in occasione del prestigioso Festival dell’Operetta. il dell’Europa e non solo quella danubiana, ha sentito fascino dell’influenza « straussia- na » ma questo elemento non basta a spie gare il successo sempre crescente di questo Festival alla sua 25ma edizione). Ed allora ? A llora è più logico pensare che alla base di questo fenomenale succes so, ci siano due elementi di decisiva im portanza: la scelta dei lavori rappresentati e la qualità della loro realizzazione. tre stili, tre Il cartellone 1975 parla di per se stesso: la scelta dei lavori non poteva essere più felice. Tre scuole, ispirazioni la Contessa Maritza, capola tutte diverse: voro di Kàlman, offre il classico, intramon tabile filone ungherese, il Paese dei campa nelli di Ranzato e Lombardo è probabil mente la più gustosa farsa italiana e Rose M arie di Rudolf Frim l si può dire una no luogo al famoso quando nel 1924 Emmerich Kàlman decise di lanciare la Contessa Maritza, la sua nuova operetta, proprio a Vienna. Il debutto ebbe teatro « An der W ien » davanti ad un pubblico molto emozionato. L ’Ungheria m utilata dal Trattato del Trianon, aveva perduto gran parte dei suoi territori compresa la città di Varasdin dovuta cedere alla Jugoslavia. Un duetto nostalgico che parlava proprio di quella città perduta, fece balzare in piedi il pubblico in delirio, ma bisogna dire che sa rebbe balzato in piedi anche senza quelle note nostalgiche, sotto il fascino che si spri gionava dalla musica di Kàlman. La Con tessa M aritza era ed è sempre una delle m i gliori opere di quel filone ungherese iniziato da Strauss con il suo famoso Zingaro Ba rone che ebbe il suo debutto nello stesso teatro nel 1885 ! Con lo strepitoso successo della Contessa M aritza in quella memorabile sera di feb-' braio 1924, Vienna riconquistò il colpo la posizione di prestigio musicale che sembra va aver irrim ediabilmente perduto ed i vien- - nesi poterono nuovamente dire con orgoglio: « es gibt nur eine Kaiserstadt, es gibt nur ein Wien » ! (c’è una sola città imperiale, c’è una sola Vienna !). Ed è con questa bellissima operetta, af fidata alla bacchetta di un grande direttore, Oskar Dannon, che quest’anno, per la se conda volta, è stato aperto il Festival di Trieste. la dote della sorella Lisa La trama è vibrante di calore umano e di poesia campestre. L ’amministratore delle immense proprietà della Contessa M aritza è il conte Tassilo che è stato co in realtà stretto a prendere questo incarico per r i fare ignara del disastro della fam iglia. La Contessa Maritza, dopo la rottura di un fidanzamento fittizio col barone Zupan, si accorge di essere in namorata di Tassilo che è costretto a rive lare la sua vera identità. La sorella di Tas silo e la sua amica Ilka finiscono col cadere fra le braccia di due baldi gentiluom ini di Due tra i bravissimi interpreti del Festival della Operetta a Trieste. In alto, Aldo Bottion il cercato re d'oro di « Rose Marie ». In basso, Elena Baggio- re, stupenda Nela de « Il paese dei campanelli ». il la fuori teatri d’Italia. parigino, binom io Ranzato-Lombardo riuscì a creare delle graziose operette che sollevarono anche in Italia l ’entusiasmo del pubblico soprattutto per l ’interpretazione di un trio di soubrettes di alto livello: Nanda Primavera, Nella Regini e Ines Lidelba che furoreggiavano sui In quel l ’epoca d’oro di compositori fortunati e di deliziose soubrettes, balza trama assurda e fantastica del Paese dei Campa n e lli: nel porto di un’immaginaria Olanda, sbarcano da una nave u fficia li e m arinai in cerca di avventure. La loro offensiva verso le giovani donne disponibili viene bloccata da uno strano ordigno, un misterioso cam panello che esiste in ogni casa e che si mette a squillare non appena la v irtù di una don na è insidiata. Un gruppo di avvenenti non ché volenterose ragazze che approdano nel porto per consolare i m arinai delusi e frastor nati dai campanelli, finiscono fra le braccia dei m ariti olandesi che così rendono la pa riglia ai m arinai che avevano le loro donne. insidiato Alcune famose canzoni dell’operetta con una facile melodia nostalgica sono state an cora capaci di far scattare il pubblico du rante tutta questa divertente farsa. Una farsa, che è stata seguita da un dramma, perché la terza produzione, Rose Marie, è la sola operetta che raggiunga il « clima » per mezzo di un om icidio. Scritta da Rudolf Frim l nel 1924 in America, r i mase in cartellone a New Y o rk per ben due anni con 557 repliche ed ebbe tre versioni cinematografiche, una muta nel 1928, una seconda sonora con Jeannette Mac Donald e Nelson Eddy nel 1936 e la terza nel 1954 con Ann Blyth e Fernando Lamas. Frim l scomparso pochi anni or sono, nel 1972, emigrato in America da Praga, sua città na tale, aveva scritto varie altre operette di suc cesso ma la più viva, la più intensa, la più umana. indubbiamente questa è La storia si svolge nelle Montagne Roc ciose, in mezzo alle foreste ed ai laghi del Canada, nei saloons pieni di donnine allegre Un'altra prestigiosa interprete del Festival del l’Operetta: Mariana Niculescu de Santis, bra interprete della «Contessa Maritza ». vissima tzigani del il barone Zupan sposa Lisa e campagna: il conte Carlo Stefano impalma Ilka. L ’intreccio, naturalmente, non si lim ita a questo breve schema ma si snoda e si arti cola in mezzo a scene campestri, balletti di ringraziamento per il raccolto ed altri epi sodi di grande effetto scenico al suono dei famoso complesso di vio lin i Lajos Vlady. Questo è il capola voro di Emmerich Kàlmann (quello strano compositore la cui passione, dopo la musica, erano le scienze giuridiche !) nel quale la musicalità travolgente si alterna a toni di poetica malinconia. A 50 anni dal suo de butto, la Contessa M aritza suscita ancora gli stessi frenetici applausi che la salutarono a Vienna nel lontano 1924. Anche i triestini furono in preda al delirio per tutte le sette repliche della rappresentazione.1 forse Dopo questo pirotecnico inizio sembrava che il successo de I I Paese dei Campanelli fosse compromesso, invece, probabilmente per il contrasto delle due trame, anche l ’ope retta italiana fu travolta dagli applausi. A n che se il repertorio italiano dal 1910 al 1926 non potè gareggiare' con quello viennese o (e splendidamente vestite!), fra la mounted police del Canada, i pellirosse e gli avven turieri. Trama originalissima alla quale i m olti interpreti conferiscono una travolgente vivacità: un cercatore d ’oro di cattiva re putazione viene accusato delTomicidio di A quila Nera la cui moglie ha una tresca col ricco mercante Hawley. Dopo varie vicende drammatiche che portano il cercatore d’oro quasi al patibolo, per confessione della vera assassina che è la moglie di A quila Nera, l ’accusato viene innocente e può convolare a giuste nozze con l ’eroina, una debole ragazza indifesa che per poco non finisce nel talamo del ricco e antipatico Hawley al quale l ’aveva pro messa. riconosciuto fratello il Che cosa c’è di originale in questa ope retta che la rende ancora oggi attraente ? Non è difficile dirlo: innanzitutto il libretto è di Harbach e Hammerstein, la musica di Rudolf Frim l che era stato allievo di Dvo rak e già nel 1906 aveva presentato al Car- negie H a ll un suo famoso Concerto insieme alla New York Symphony Orchestra sotto la magica bacchetta del grande Damrosch. Frim l era un musicista boemo di alto li vello che insieme a Sigmund Romberg un gherese e a V ictor Herbert irlandese forma va quel trio di estrazione interamente eu ropea che per lunghi anni aveva dominato le scene americane affermandosi in maniera brillante. Ancora oggi è valido il giudizio dato da un critico di New Y ork dopo il de butto di Rose Marie il 2 settembre 1924: « In Rose M arie c’è dramma e melodram ma, commedia musicale, grande opera, ” ope la più estasiante mu ra comique... ” con sica che da lungo tempo io abbia ascol tato... » (canto d ’amore È vero tutto e tutto è ancora vivo co me le due canzoni « Rose Marie » e « Indian Love Cali » indiano) che Jean nette Me Donald incise con Nelson Ed dy e che furono dei « best-sellers » disco grafici in America per lunghi anni. Danze trib a li e propiziatorie, splendidi costumi, una serie di interpretazioni comiche di Mas- Edith Martelli, proveniente dalla Scala di Milano ha magistralmente interpretato «Rose Marie». sim ini nei panni di un amico balordo del cercatore d’oro e intensamente esotica di Frim l, fanno anche di questa ter za operetta un piccolo capolavoro. la musica teatrale della « Con un terzetto simile, il Festival ave va giocato una carta sicura » — dicono i critici. Certamente, ma bisogna aggiungere che senza lo spettacolo di grande prestigio che gli organizzatori hanno offerto il succes so non sarebbe stato così clamoroso. Che cosa si può dire, dunque, di questo favo loso Festival giunto alla sua 25ma edizio ne ? Ecco alcune considerazioni generali che non si possono trascurare: nel panora ma il Fe stival di Trieste occupa un posto d’onore. Critiche e testimonianze di spettatori non bastano a dare un’idea esatta del fenomeno. term ini « quantitativi », cita re i 30.000 spettatori che per 21 recite riempiono il Politeama Rossetti dando una solida base economica a ll’iniziativa, delle lunghissime file che si formano prima del l ’alba davanti ai botteghini, significa tocca re solo alcuni elementi marginali di questo fenomeno unico in Italia. Si può, in parte, riconoscere in esso la matrice della M itte- lirica « minore », Parlare in schemi oggi di moda sui palcoscenici no strani, in cui il trionfo delle trovate um ori stiche, delle « gags » licenziose riesce spes so a salvare anche produzioni scialbe e me diocri. Trieste ha trasmesso, rispettosamen te, qualche cosa che lì non era mai naufra gato e quindi non aveva bisogno di venire « recuperato ». È stata ricreata l ’atmosfera dei tempi pas sati e si è constatato che, presentata con fe deltà e intelligenza, essa era ancora perfet tamente valida e funzionante. I grandi nomi che hanno conferito a questi spettacoli la loro credibilità hanno perciò avuto il pie no consenso del pubblico. D irettori, cantan ti, attori, registi e scenografi sono riusciti ad esprimere, a rivelare a livello scenico tutto ciò che i testi originari possedevano senza deformazioni, senza le dissacrazioni oggi così in voga in tu tti i campi. Dal 1950 fino ad oggi, per 25 anni, il Festival ha v i sto crescere di sera in sera il suo pubblico composto in gran parte di giovani. A questo proposito è interessante notare come l ’abbi gliamento ” progressista ” di questi giovani sia poco rilevante in teatro perfino nel log gione mentre nella platea e nei palchi ab bondano graziose « toilettes » indossate so prattutto dalle più giovani. E per meglio comprendere la validità ar tistica di questa iniziativa è assolutamente necessario osservare con attenzione il pub blico, dalle file ordinate e silenziose davan ti ai botteghini, ai gruppi in attesa davan ti al Politeama Rossetti, in sala, negli inter va lli dello spettacolo e ascoltare commenti e reazioni. È una lezione di buon gusto tea trale nel senso più ampio della parola. A n che se in 50 anni c’è stato un ricambio to tale di generazioni, i giovani triestini di og gi si possono ideologicamente, culturalmente e, oserei dire, anche ” form al mente ” al passato perché questo non è mai affondato nella zona grigia dell’archeologia. con questo Festival Trieste ha l ’incontestabile prim ato di aver dato alle scene italiane una lezione di cul tura teatrale portando la « lirica minore » ad un livello altissimo. Conclusione ? Sì: ricondurre C ica Bobich Carlo Bini, il Conte Tassilo de «La contessa Maritza». leuropa danubiana e quel gusto raffinato per il divertim ento leggero ed elegante che ha sempre caratterizzato gli abitanti di que sta nostra bellissima città adriatica. importante. Innanzitutto Ma è fuor di dubbio che a dare fascino ed attrattiva a questa stagione non sono sol tanto questi elementi ma qualche cosa di ben più il « cli ma » dell’organizzazione creato dall’Ente Autonomo del Teatro Giuseppe V erdi in collaborazione con l ’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Trieste. Un « cli ma » permeato di tre elementi essenziali che stanno facendosi sempre più rari: intelligen za, serietà e distinzione artistica. In una so cietà ohe l ’asprezza dei tempi porta sempre più ad evitare quegli ingredienti insostitui b ili del vivere civile che si chiamano: gu sto, delicatezza e bellezza, gli organizzatori sono riusciti a tener testa a tutte Te difficoltà e a mantenersi fedeli ad un ideale. Un i- deale teatrale che è, alla base, ideale mo rale. A l pubblico non è stata offerta un’espo sizione di quadri a grande effetto ma opere teatrali vere, complete, fedeli. È stato o f ferto uno spettacolo che non rientra negli tranquillo, convinto d’aver fatto di tutto, anche a livello di « fatica fisica » per « agguantare » il pub blico, il non esserci riuscito non lo turba, signore com’è, conosce la persona giusta a cui rendere conto del fallimento. La Biennale senza sonde vaga così alla cieca per una sponda: si ritorna ai cronici « torsi di mela », ai vestiti smessi. fascino « Nulla da segnalare » e qual che critico ripiomba sul pettego lezzo « alla veneziana », scivola sul inesauribile del Pre sidente che proprio ora tira i re mi in gondola, da perfetto « tem poreggiatore », sulla laguna agi tata da un ritorno al calciobalilla tra PCI e PSI. regionali Ma la Biennale va considerata per quello che è e per quello che mostra, senza il qualcos’altro: ri cordiamo quindi i « particolari ». L’errore di fondo è stato quel lo di far convivere gruppi stra nieri altamente professionisti a gruppi italiani, spesso dilettanti, generando subito con fusione e disagio: come si può concepire un « laboratorio inter nazionale »; se lo si affianca ad un nostrano regionalismo folklo- ristico ? Odori di mentuccia, tril li agresti e fantini della scuola equestre dell’Unità in cambio di gestualità raffinata e « sottilissi mi » clown d’importazione: c’è L A F O R M U L A D E L C H IE R IC O A G G U A N T A T O R E P E R C H É N O N S E I V E N U T T A A di Claudio Scorretti spunterà con i primi freddi... Ma ha ragione I chierici intanto, reclutati dal conte Ripa di Meana, sono diven tati stalattiti, visto che la « social mondana società è evaporata »... il Presidente: spaccata la vetrina, un po’ alla volta è evaporato tutto: novità degli speattacoli, prestigio, pub blico e critica internazionale, ora si vive solo nell’attesa del pub blico di massa, di quel pensiona bile cavallo di battaglia di tutte le frasi-grimaldello della vigilia. Ma niente, ad oggi, è ancora ar rivato allo stato liquido: domani..., loro hanno tempi lunghi. Ripa di Meana, dunque, dorme Si va a lla biennale come ad un museo. Enunciati, slogans e programmi non sono bastati: la improvvisazione, nei panni del l’alibi, venne già fuori la scorsa stagione... s’era detto, Anche quest’anno la Biennale transita a luci spente e in ritar do, pro-loco e traslochi, spettaco li da prendere con il contagocce. Tanto meglio, siamo tranquilli. Sorvoliamo, come prenderla sul serio ? Ora anche il coro giornalistico « solitamente amico » tace o minimizza, qual cuno sniffa, parecchi con « qual intanto che riserva » e l’insegna di « laboratorio internazionale » affonda in laguna « a lume spen to ». Ovvia la domanda: è questa la « rassegna » che ci mancava ? li abbiamo avuti », insistono gli organizzatori, « la formula verrà... » « / nomi Ma questa formula non entra in crisi senza il presupposto del la creazione e dell’assaggio di primizie ? Non sta il festival rie- labofando linea espositiva o l’ingiustificabile mar ket della fretta ? Sorridono, c’è la consegna del la vocazione al chiac invernale, silenzio: chiericcio è un virus quella tipica Luca Ronconi durante l'al lestimento di uno spettacolo in lo zampino del MEC e un nuovo « sgarro alla francese » ! « Punto secondo: invitare certi gruppi stranieri », sottolinea la nostalgia da collezionista dei cu ratori della Biennale: la « linea del sessanta » (che non ha molto attecchito Italia) viene con confusione rappresentata ora che non offre più orientamenti indi cativi, qualora si consideri il ma lessere, le nevrosi e le angoscie accumulate da alcuni di questi riformatori ormai invasati e tra gicamente oscuri. Un esempio — non unico — è dato dal risusci tato Living Theatre che si morde la coda e sopravvive sui fasti del passato. Celebrazione da epopea invece per due papi dell’avanguardia del « sessanta »; ma il polacco Jerzy Grotowski e il pugliese-danese Eugenio Barba già sono di casa e transitano preceduti da chiara fa ma (si fa per dire) e da varie monografie, dalle quali siamo il lustrati su tutto compreso la loro estraneità ad ogni festival e a questo ambiente, l’inadeguatezza d’una struttura a contenerli e il grossolano errore che si fa nel sovrapporli ad altre ricerche. loro presenza « didattica » non può affidarsi all’abitino fuo ri stagione d’una struttura che la Biennale ha avuto in eredità: La Grotowski per adattarselo infatti ha preteso — ed ha fatto bene ad insistere nonostante i « pianti » degli organizzatori — di fuggire lontano dai luoghi teatrali depu tati per un « posto povero pove ro, isolato » che, identificato poi nell’abbandonata isola di San Giacomo in Palude, è stato reso agibile con un’allegra cordata di milioni (per investire anche gli spiccioli si è provveduto ad affit tare un castelletto isolato « tro vato » nel vicentino, per gli sta ges). Per meglio rappresentarsi, l’I talia, ricca di tanti « posti poveri poveri ed isolati », se ne fabbrica uno appositamente sul modello di Disneyland ! Per Barba invece hanno com prato una provetta interrompen do quella animazione in zone e- marginate condotta alla ricerca di un pubblico diverso (come quello della Barbagia e del Salento) che era il suo miglior vanto. Ovviamente Barba è complice, ma l’involuzione di questa ripro ducibilità in laboratorio era evi dente e non utile visto che ha mostrato il suo metodo e i suoi risultati un po’ dovunque, com preso alla televisione, gironzolan do da anni in Italia. Celebrità di casate quindi per dar vita a questo cartellone di Un momento di «Min fars us» dato all’Odin Teathret di Holstebro per la regia di Barba. Nella foto, Iben Rasmussen e Tage Larsen. terze visioni « raccat seconde e tate » IL ’Age d’or di Ariane Mnouckine, per altro piacevole anche se demagogico, viene in fatti da una collaudatissima sta gione parigina; « L’Eredità di Caino », la livida meditazione sul 6adomasochismo politico di Ju lián Beck, cerniera del Living, gira da un anno per le piazze d’America; la « Medea » de « La Marna » risale alle migliori tradi zioni spoletine e lo stesso « Apo- calypsis cum figuris » di Grotow ski ha la non indifferente età di due anni, per non parlare di Bar ba...) Un cartellone da stracciare (co sì come è stato compilato) che ha una gran voglia di strillare in italiano visto il carattere casuale, nominale e celebrativo di questa Biennale che favorisce « fuorimi sura » l’estero escludendo i gruppi italiani. E ciò è offensivo e pericoloso — dati i « noti » problemi finan ziari e di spazi — dal momento che questo « denaro pubblico » raramente si fiuta in Italia e che, se non è da feticizzare, è pur da iconsi'derare con un po’ di ri guardo. Scabia infatti non basta, anzi la sua esperienza di animazione, in trasferta a Mira, è una discuti bile « poca cosa » qualora la si porti al cospetto con quel « tra pianto-baratto » che è la cifra di Barba e il sempre pericoloso re gionalismo, qui fatto di « carne » veneta e lombarda, appare una sviolinata al casareccio, una con correnza « spietata » al folkrevi- val televisivo. Una Biennale alla moda, chiu dendo, che non è stata in grado di capire teatro, di operare scelte nuove (ove osa ci trascina in un dopolavoro polacco o al racco- CUT della Berkeley), di giere organicamente trascorse tendenze, di aprire sugli indirizzi attualissimi... Nessuna « buca » da parte mia, sono qui con altri impegni: « l’età chiedeva un’immagine/della sua smorfia convulsa... » le il Claudio Scorretti I F R A N C E S I N O N A B B O C C A N O U T % O - P O P Una s tra d a , una passerella funereamente illum inata dopo una pioggia di ruggine-fan ghiglia: due grandi cavalletti, sipari m obili, scivolano e come lavagnette magnetiche cancellano i segni preesistenti. Apre un convoglio di le tti e le ttini sfat ti, rim boccati di corpi posseduti da un’ago nia di sonno: la strada s’allarga ai lati con gli abitanti-spettatori. A ffogati in panni senza tempo, gli attori, anch’essi attac cati da questa ruggine-fanghiglia (forza di gravità), alitano di sogni-ossessioni. Dopo questa immagine, in sé compiuta, vengono le stoccate verbali: siamo già alla fine. A l bivio tra Discorso Giusto e quello In giusto lievita la vischiosità di questa Uto pia, ottenuta dalla sovraimpressione di al cune commedie di Aristofane e composta in otto quadri e un prologo. I secoli scorsi sono a qualche decina di anni da noi. A rrivano i generali in alta uniform e per « intessere le trame » su una asmatica cor riera da manovra mentre la scassate, ango sciose autom obili-roulotte s’affannano in uno statico ingorgo circolare; Paflagone, al ti mone di una scrivania, abborda il Salcic- ciaio ed entrambi si gettonano nell’interes se sovrano del popolo. Le « note a margine » ad Aristofane si impossessano della scena. Partono in quarta le donne verso il pote re. Pluto fa i doppioni delle chiavi della di spensa. A rrivano le assemblee e via verso la città degli uccelli. A l capolinea si tra sborda. L ’Utopia incalza. Due « cittadini » sognano ’ un mondo dove poter volare ’. Ecco un traballante aeroplanino di tela a « riscaldarci » con una « bella metafora » e poi in ascensore verso l ’O lim po: il budino non è ancora cotto! Scade il tempo: è la fine. Cosa resta oltre ad un paio di quadri, alla bravura-fatica degli attori, alla comuni- cazione che viene da uno spazio aperto? Certo non dell’Aristofane « d’occasione », né del corpo letterario delle sue « Comme die » ma proprio dalle equazioni strada- movimento, popolo-borghesia, della stessa Utopia e di tutte quelle valenze che volevano essere il tessuto di questa «ce rim onia teatrale». polis-citta, Ronconi ha ridotto la rappresentazione a interpretativo dei suoi commerci rottame crepuscolari, del suo pessimismo intriso di ambiguità. Metà atlante ideologico e metà didascalismo sessantottesco (cito a caso dal programma un « velleità di riform e e fughe in avanti », affidata soprattutto al potere di novità della form ula (che nuova non è, co me vedremo) l ’Utopia consuma inutilm ente la fatica degli attori su un sunto di storia e filosofia, su un manuale di costruzioni. La strada, luogo aperto alla comunica zione visiva, orale, gestuale, quotidiana an tologia di uom ini, involucro di festa e di cronache, di vibrazioni sociali qui finisce per racchiudere i frequentatori di una bet tola, l ’aria è pesante, sorda come quella di una pensione restata a lungo chiusa, la cor sa-movimento diventa inutile, affannosa, cir colare, senza proiezioni. Può, quindi, que sta strada che non si apre e non decolla dar vita ad una festa, ad « una sagra tea trale » come vorrebbe Ronconi, o invece per questo funerale che gira a vuoto si de vono aprire i cancelli di un cimitero? Anche il rapporto polis-città, cifra di par tenza, non viene colto: ci si accorda subito a mezza strada, in un semiarredato rétro di provincia, con personaggi inutilm ente con form isti, vittim e alienate dal consumismo, assonnati e vaganti, l ’uno contro l ’altro con sporte di ragioni da mercato. L ’Utopia, l ’ac censione di una risalita, il distacco dal suo lo prende invece la via del sottosuolo, l ’an damento di una via crucis che, più che a- spirare ad un mondo nuovo, chiede una vernice per il vecchio. Una riesumazione di didattica, un regno verbale, una lettera s’attestano allora con tro l ’autonomia dell’immagine appena essa fa intravedere la sua reale possibilità di di- carica, come non ricordare un Claes Olden burg che, con il suo Autobodys (1963) mise in movimento, in un parcheggio di Los Angeles, una betoniera, varie autom obili, sedie a rotelle, persone sui pattini dissemi nando 1’asfaltQ di cubetti di ghiaccio. Cla.Sco. « U T O P IA » E « LE FIG A R O » La chiarezza è uno dei pochi doveri gra tificanti di un critico ma per avere chiarez za occorre anche un ’m inim o’ d’autonomia e d’indipendenza. Esempio illum inante ci viene dalla Fran cia, dal parigino Festival d ’Automne, do ve Ronconi incappa in disinteressati giudi zi severi. Tra questi il più autorevole è quello di Renaud M atignon che, su ’ Le Figaro ’ del 23 ottobre 1975 sotto il titolo ’ Aristofane in autobus ’, parla in questi term ini: « Ecco dunque Aristofane a ll’italiana. frase vagamente «Per scena, una strada sinistra, non più lunga di 100 m etri. Vecchie autom obili, un popolo a braccia nude, donne inbacuccate con barba e baffi; è il mercato alla milane se, alla bolognese, alla napoletana: un ve ro menu da pizzeria. Tra le autom obili (...) slitta una ispirata dagli ’ Uccelli ’ o dai ’ Cavalieri ’. E poi un car rello. U n’altra frase. Un aereo. Questa an tologia di trasporti comuni si lim ita a tra sbordare, da sobbalzo a sobbalzo, la com media greca in autobus. Luca Ronconi (...) s’è in garagista, per provare che il popolo aveva ragione (...) Il risultato è spaventoso per lentezza e scempiaggine. La città nuova, la speranza di una vita per fetta, le travi montate dagli attori per co struire la città di domani: come immaginare ’ les Compagnons de la Chanson ’_ interpre tando un’editoriale de (...) Fra un testo balordo e una realizzazione po veretta (gli attori) si occupano dei loro vei coli (...) » ’ l ’H u m an ité’. trasformato I l Festival d’Automne, comincia con un disastro e prosegue nella rotta. Zero per le idee, zero per la competenza. CHI HA VISTO IL GARAGISTA foto, la scena di «Utopia» di Ronconi. Nella latazione. Ma Ronconi non articola un di scorso, si esprime, scollato dal ’quotidiano’ e dall’immagine, con un disattento menu di bisogni e riattiva le tinte di una parabola brechtiana, navigando a fio r d’acqua negli anni Cinquanta. Una angoscia complessa, stratificata e di accumulo sale di rimando dalla nebbia di « una fatta però alla fiera del pop. tempo perduto », ricerca del Le m istificazioni, le illusioni, le fughe in avanti, tutto è scoperto a metà, un ’compro messo storico’ in m iniatura, i personaggi sta zionano nella solita intemperanza formale, la ricerca finisce sulle identità politiche, ma in funzione di verifica catastale e questo rimando a luoghi storici, carichi di signifi cati rilevati, cancella ogni possibilità di ’rito teatrale’, esaurisce il terreno di ogni utopia. Ripetiamo, per cronaca, i nomi che si fan no: Fellini, Visconti certo ma Fellini in 'm iniera, Visconti ad Flong Kong poi Brecht, « iperrealismo » e narrative art ma nel po steggio a ll’italiana, spazzato dagli stim oli dell’indeterminatezza dell’happening, senza L ’U N D IC E S IM O F E S T IV A L D E I CO M ICS A LU C C A N O N I « A N R R I V A N O O S T R I di Giacomo Cariotì videre, sia pure in modo eccessivamente sommesso ed inutilm ente prudente, dalla maggioranza degli autori e dei convegnisti presenti a Lucca, sotto il grande pallone- tendone della mostra mercato dei comics e negli androni del teatro del G iglio, sede del le proiezioni e degli incontri con la critica. l ’und icesim o anno consecutivo P e r i due mondi (paralleli o no ?) del cartone animato e del fumetto (ma non fatevi sen tire in giro con queste definizioni... incolte! bisogna dire invece « cinema in animazio ne » e comics: è come il sale che dà sapore alla minestra) si sono dati appuntamento a Lucca, sotto un’unica sigla accentratrice — « Lucca 11 » appunto — allo scopo rei terato di dare vita alla ennesima celebrazio ne dell’incelebrab ile-. Dal modo in cui si apre questo servizio si può subito dedurre che chi scrive ce Lab bia ferocemente nei confronti dell’animazio- ni e del comics. Ebbene, niente di più sba gliato: pur non arrivando a rosicchiarsi le unghie per la passione, il sottoscritto ama ed apprezza i due mezzi espressivi (artistici ? spesso sì) di cui parliamo, e non ha nessun interesse alla loro denigrazione gratuita. Ma come si fa a non porre l ’accento sull’atmo sfera illusoria e talvolta surreale che per vade l ’impostazione di questi, ormai ultra decennali, incontri internazionali lucchesi ? La sensazione che si tenda a mettere il puntino sulla i soltanto rispetto a qualche fattore marginale (vedi i « distinguo » sul le definizioni), non riuscendo ancora, mal grado la considerevole esperienza, a centra re i nodi fondamentali che ’’legano” e ’’im panano” invariabilm ente il contesto dell’a nimazione e del italiano, questa sensazione, dicevamo, non è soltan in fatti sentita condi to nostra. L ’abbiamo fumetto specie L A PRESENZA IN T E R N A Z IO N A L E Il programma di Lucca è stato assai den so, ed ha indubbiamente fornito un pano rama interessante della produzione interna zionale. La Rassegna si è in fatti articolata in una mostra antologica dedicata a ll’U nio ne Sovietica, curata da Claudio Bertieri con la collaborazione della Sojuzm ultfilm di Mosca, nella quale, insieme a molte cose di lim itato rilievo, si sono visti eccezionali documenti storici, alcuni dei quali risalenti addirittura al tempo della rivoluzione; in un profilo della animazione svizzera; in una personale di Gisele ed Ernest Ansorge, i due autori che si servono della sabbia per elaborare tecnica particolare ed interessantissima di animazione; in una sin golare ed affascinante ” lanterna magica ” , curata da Laura M inici; ed infine nel pa norama internazionale 1974-75, in collabo- tutta una l'automobile con Una coincidenza associa il fumetto: l'epoca della loro nascita, sul finire del- I'800. Ma un altro fatto unisce questi due protago nisti del mondo contemporaneo: dell’automobile — e delle sue possibilità grafiche e di essere per sonaggio — si è subito appropriato il fumetto per inserirlo nelle sue storie. Né lo ha mai abbandonato in tanti anni di comics e ne ha accompagnato l’evoluzione con intelligenza, con gusto, con humour, spesso con straordinarie anticipazioni. Da questa vicenda fatta dall'incontro tra due sto rie parallele è nato un volume curato da Claudio Bertieri che racconta come sono andate le cose. in fatti razione coi festival di Annecy e Zagreb, e nel panorama della Produzione italiana. C ir ca la produzione italiana diremo più oltre. Per il panorama internazionale, c’è da dire che si è trattato della fase più interessante del Salone di Lucca, dalla quale sono scatu rite delle indicazioni reali e stim olanti. Si è avuta la dimostrazione, grazie a film s quali Great dell’inglese Bob Godfrey, M iracle of flig h t di Terry G illian, il lungo- metraggio Belladonna di Eiichi Yamamoto, ed anche Thanksgiving dell’esordiente cana dese Ken Wallace, che il cinema di anima zione può costituire, insieme a tante altre cose, un vero e proprio completo spetta colo, senza il m inimo complesso di inferio rità rispetto al cinema recitato. Anzi... Ma qui il discorso comincerebbe a farsi troppo lungo. LE IN IZ IA T IV E PA R A LLE LE Fra le iniziative parallele di « Lucca 11 », quella maggiormente degna di nota ci sem bra la retrospettiva di Felix thè cat, di Pat Sullivan, con antichi cortometraggi degli an ni ’20-’30, che hanno fatto rivivere in sala intram ontabili emozioni poetiche ed esteti che. Da segnalare, per la- ricchezza di alle stimento, anche se si imporrebbe qualche riserva sui contenuti ideologici, il Comicar, salone dell’auto a fum etti, curato dalla F IA T al Baluardo San Paolino, suggestiva e de terminante cornice. Le mostre del cartoon polacco, arabo, inglese, l ’underground USA, nonché l ’incontro con la editoria italiana al ternativa, sono stati di indubbio interesse, anche se generalmente lim itato ad una ri stretta schiera di addetti ai lavori e di fer venti amatori, analogo discorso si può fare circa le mostre personali di Bovarini, Brec cia, Palacios e Quino, la mostra della scuo la argentina e gli « spazi aperti » delle due autrici italiane Loredana Baldi e Patrizia Solazzi; per quanto concerne invece la mo stra « No al fascismo », dobbiamo dire che ci è sembrata quanto meno pretestuosa e priva di spunti reali che la giustificassero su un piano concreto, artistico, o anche stret tamente documentativo. Un fotogramma di « Berceuse-Lulluby » (Altatò) di Gyorgy Csonka per la Hungarofìlm di Budapest. IT A L IA E N O N IT A L IA la validità fondamentalmente Fin qui, nulla da eccepire — come si ve ” catalizzatrice ” de — circa del ” salone ” di Lucca. Le critiche invece, riguardano l ’assenza di un carattere finalizzante e di un indirizzo organico della manifestazione. Uno dei p rin cipali m otivi di contrasto nei confronti del l ’organizzazione, da parte degli autori della animazione e dei mercanti ed editori dei comics, è quello che si può sinteticamente riassumere come « questione italiana ». rappresentanze Spieghiamo in cosa consiste. Per quanto concerne l ’animazione, la critica fondamen tale è stata questa: a Lucca si ha un atteggia totale ossequio e deferenza nei mento di confronti delle straniere, mentre gli italiani vengono sempre ospitati in un angolino, quasi fossero degli intrusi da tollerare. In effetti un’atmosfera del ge nere si è potuta diffusamente avvertire al teatro del G iglio. Le presenze e le manife stazioni dedicate agli stranieri sembrava dessero sempre un senso di felicità a ll’orga nizzazione, mentre la rassegna dedicata al la produzione italiana è stata addirittura relegata in un angusto « tempo morto » di una mattinata, senza nessun apparato di contorno che tendesse a porre in rilievo il fatto. Nessun incontro con gli autori, nes suna pubblicizzazione supplementare. Pur troppo c’è anche da dire che la produzione nazionale di quest’anno non avrebbe potuto fare in ogni caso una grande figura nel con testo internazionale, sia per numero (otto soli cortometraggi) sia per qualità media. Ma proprio questa constatazione avrebbe dovuto indurre ad escogitare dei momenti di sensibilizzazione e di presa di coscienza dello stato pauroso in cui attualmente versa l ’animazione italiana e a tentare di fare di « Lucca 11 » il punto di partenza per una seria autocritica. Tutto questo non c’è stato, ci si è forse voluti ancora una volta illudere di non sa pere come stanno realmente le cose, aspet tando — chissà — che si aggiustino per grazia ricevuta. Ma non sarebbe giusto che le grazie si scomodassero per salvare il cor tometraggio e l ’animazione: per cui, è bene convincersi definitivamente che di questo passo siamo prossimi soltanto ad una deca denza senza ritorno. Sul fronte dei fum etti il discorso assume altre angolazioni: il comics italiano da col lezionista e da amatore si regge in effetti su presupposti molto vaghi e spesso tenden- rando l ’impegno sincero e la dedizione che abbiamo dovuto modo di constatare da par te degli organizzatori tu tti, con in testa R i naldo T raini e Claudio Bertieri, Max Mas- simino Garnier e Massimo Maisetti, e tanti altri. Come mai, quindi, tante disfunzioni di . coordinamento, tanti disguidi, tanti quipro- quo ? A nostro avviso, ciò è avvenuto prin cipalmente per effetto delle dimensioni che la manifestazione di Lucca ha ormai rag giunto col trascorrere degli anni. Dimensio ni cui non ha fatto chiaramente riscontro l ’allargamento di una struttura e di una di sponibilità. Con l ’effetto ulteriore di una certa perdita di controllo delle finalità e de gli indirizzi. In una situazione simile, è inevitabile lo affacciarsi di aneliti dubitativi, contestativi, denigratori, ed infine distruttivi. Già dallo scorso anno fermenti di questo genere ave vano fatto capolino. Quest’anno ci sono sembrati già molto più decisi. Siamo anche convinti che gli animatori del Salone, im briglia ti giorno e notte nel loro occhio del ciclone, non si rendano perfettamente con to di alcuni processi degenerativi. N oi cre diamo di fare il nostro dovere, per di più con sincero sentimento di amicizia e di so loro attenzione e lidarietà, additando alla i germi della dissoluzione meditazione in atto. Ed evitiamo anche $i esercitarci in profezie che potrebbero anche sembrare fa cili: poiché preferiamo puntare sulla fidu cia che gli organizzatori di Lucca in ogni caso meritano. Purché senza isterismi ma con profondo senso autocritico si accingano ad afrontare l ’impegno futuro con la deci sione necessaria: pensando innanzitutto che, a partire da « Lucca 12 », se si vorrà poi realisticamente pensare ad un « Lucca 13 », l ’attenzione non dovrà essere soltanto rivo l ta al rimpinzamento contenutistico di una settimana di Salone: l ’impegno principale dovrà consistere nella sua reinvenzione. Con tutto l ’appoggio che un simile coraggioso atteggiamento dovrà prevedere, con tutta la comprensione, nostra, degli appassionati e degli addetti ai lavori; con tutto l ’apprez zamento e l ’affetto che « Lucca », in ogni caso, merita. G iacom o C a rio ti ziosi; il collezionismo italiano è quasi tutto impostato sulla nostalgia dell’infanzia, delle sue prime esperienze visive ed emozionali. 'Non esiste, o quasi, un indirizzo amato riale legato alla produzione contemporanea, salvo rare e spesso fortuite eccezioni. A Luc ca questo senso dell’esclusività nostalgica (non deprecabile in sé, ma condannabile quando è univoco) viene ancora di più ac centuato dall’atmosfera di festa e di baratto che si sviluppa dentro e fuori il tendone. E tutto si risolve, a nostro avviso, in un cla moroso gonfiamento speculativo, che fa de generare sovente nella truffa ideologica. C’è qualche autore e qualche editore serio cui questa presa in giro non piace; ma man cano gli strumenti per fare un discorso ap profondito, mancano i contatti, mancano gli intenti comuni. E purtroppo non si può dire che Lucca si sia troppo impegnata nel for nire gli strumenti adatti al problema. L ’O R G A N IZ Z A Z IO N E D I « LUCCA 11 » L ’organizzazione di questo « Lucca 11» ha infine mostrato i segni di molte carenze. Dispiace dire questo, specialmente conside- L ’IN T E N S A S T A G IO N E A M E R IC A N A D E L B A L L E T T O M A K A R O V S O D D I S F A T di Irene Freda P itt A T A del Bolscioi sono venuti quelli di Stoccarda, seguiti dalla prim a visita in America del com plesso lirico del Bolscioi, che ha dato sei ope re, di cui ne ho viste quattro, due date alla Scala nel 1963 e una nel 1973, l ’altra una re cente novità del direttore della compagnia, K iril Molchanov, intitolata Q ui le albe sono tranquille. Malgrado l ’impegno dei cantanti (il basso Eizen con un gruppo di donne),- quest’opera propagandistica concernente un episodio della guerra, si è rivelata tanto noio sa quanto di stile antiquato. Invece è stato molto piacevole rivedere sia Guerra e pace di Prokofiev che il sempre seducente Onie- ghin; inebriante il Boris. I l direttore d ’or chestra Simonov è stato giustamente lodato da tu tti. A completare i programmi c’erano il quale a rre b b e la pena di recarsi a New Y ork solo per visitare il m agnifico, penso unico, complesso teatrale e musicale denominato Lincoln Center, (completato nel 1974) unisce il nuovo M etropolitan - 3.788 posti, il New Y o rk State Theater (sede del New Y ork City Ballet e della New Y o rk C ity Opera) - 2.729 posti, la sala dei concerti Avery Fisher H a ll (sede dell’Orchestra Filar monica di New Y ork) - 2.836 posti, due tea tri, un’altra sala dei concerti, un parco com prendente il Guggenheim Bandhshell dove si danno concerti a ll’aperto - 2.500 posti, e l ’in vidiabile Biblioteca e Museo delle A rti dello Spettacolo, che possiede una vasta scelta di lib ri e dischi che si possono prendere in pre stito, nonché m olti cim eli; contiene anche una piccola sala dove si offrono programmi gratuiti di musica, teatro sperimentale e dan za. Come se non bastasse tutto questo, ac canto ai teatri si trova la famosissima scuola, musicale Juilliard e a due passi dall’altra parte, la Fordham University. A l M etropolitan negli u ltim i mesi si sono susseguite tutta una serie di compagnie dopo la fine della stagione lirica (il complesso sta bile si è però esibito nel mese di luglio in qualche esecuzione gratuita nel Central Park, con la partecipazione di artisti come Renata Scotto). È quasi sempre l ’organizzazione del recentemente defunto impresario S. H urok che presenta i più famosi complessi stranieri negli Stati U n iti; quest’anno dopo i Balletti il Giocatore di Prokofiev e la Dama di Picche di Ciaicovski. C’è stata una fioritura eccezionale nel campo della danza a New Y o rk quest estate, dal più grandioso balletto classico ai piccoli complessi più efimeri. N e ll’im possibilità di parlare di quello che ho visto, m i lim iterò a qualche cenno generale. Il New Y ork Ballet ha chiuso la stagione alla fine di giugno con la versione (non m ol to felice) di Balanchine del Songo di una notte di mezz’estate. È risaputo che Balan chine non predilige i balletti narrativi, e in questo caso si... libera in quattro e quattro otto dell’argomento della commedia shake speariana per abbandonarsi con sollievo ad un lunghissimo divertissement, sempre su musiche di Mendelssohn. È nel pas de deux principale di questo divertissement che si concentra la coreografia più ricca. Brave le due coppie che ho visto: Suzanne FarrelE Jacques D ’Amboise e Violette Verdy con un Jean-Pierre Bonnefous tristemente appesan tito. Delle due Titanie ho preferito l ’incan tevole Kay Mazzo (che doveva venire a Spoleto per l ’annullata serata Robbins). Subito dopo la partenza del New Y ork City Ballet è arrivata al New Y ork State Theatre per una lunga serie di « esauriti » — 41 rappresentazioni in sei settimane — la compagnia « rivale », American Balliet Theatre, la quale ha dato durante questa stagione, ritenuta da m olti la m igliore dei suoi trentacinque anni di vita, dei program m i straordinariamente varii, comprendenti due novità assolute nonché le prime rap presentazioni in forma integrale da parte di una compagnia americana della Raymonda di Glazunov/Petipa, messa in scena dalla onnipresente Rudolf Nureyev. Mentre il New Y o rk City Ballet in teoria sdegna le « stelle » (affidandosi alla celebrità di Balanchine e dei suoi due collaboratori Jerome Robbins e John Taras — ma malgra do la linea ufficiale anche qui, per forza, scap pano i beniamini del pubblico quali Suzan ne Farrell, Patricia McBride, Helgi Tomas- son, Edward V ille lla ed altri ancora), Am eri can Ballet Theatre se ne nutre in abbondan- danza. Durante la stagione estiva hanno bal lato (non insieme) i tre grandi « fuggiaschi » dal K irov, l ’ospite Rudolf Nureyev, Natalia Makarova (con la compagnia da quasi cin que anni) e M ikhail Baryshnikov (con la com pagnia da parecchi mesi), che qualche mese fa ha ballato nel Don Chisciotte al San Carlo di Napoli con esito molto positivo. Natural mente, la compagnia possiede anche dei p ri mi ballerini più stabili, quali il molto m iglio rato Ted K iv itt, l ’elegante e simpatico Ivan Nagy (che abbiamo visto qui con la Maka- ‘ rova), il giovanissimo ed irruente Fernando Bujones (che in una splendida rappresenta zione della Baiadera è stato quasi altrettanto impeccabile della Makarova); da parte fem m inile, Cynthia Gregory, Eleanor D ’Antuo- no, M artine Van Harnel e Gelsey Kirkland. Quando la K irkland ha fatto il suo debutto europeo a Parigi con M ikhail Baryshnikov .verso la fine di aprile, sono rimasta un po’ delusa, avendo letto m olti elogi sul suo conto, ma ora che l ’ho rivista, in altre cose, capisco che La Baiadera era una scelta infelice per la sua'presentazione al pubblico dell’Opéra. (A Una suggestiva inquadratura del Royal Bal let del Covènt Garden. (Foto Leslie E. Spatt) Venezia, invece, ha avuto un vero trionfo quando si è esibita a luglio nella cosiddetta « Serata a Quattro » con Baryshnikov, Fracci e Bortoluzzi). La K irkland (22 anni) si è tra sferita in modo clamoroso un paio di anni fa dal New Y o rk City Ballet, un trasferimento che i più accaniti seguaci di Balanchine le rimproverano ancora, ma m i sembra com prensibile che essa desideri ballare anche nei grandi balletti classici. In fa tti, ha tu tti i nu meri per diventare una grande danzatrice, purché non le si affretti troppo la carriera. A New Y o rk m i ha colpito soprattutto nel nuo vo balletto del famoso coreografo d’origine inglese Anthony Tudor, da decenni stabilito si a New Y ork e adesso condirettore della compagnia. Nel passato Tudor si è specia lizzato in balletti a sfondo psicologico, spes so tragico, qualche volta di difficile com prensione a prim a vista. Invece, The Leaves are Fading (Le foglie stanno ingiallendo) è un balletto di puro lirism o, senza trama a parte una vaga nostalgia. Le danze melanco niche si alternano a quelle gaie, eseguite da una serie di quattro coppie principali e un piccolo corpo di ballo. La coppia costituita da Gelsey K irkland e Jonas Kage è insieme tec nicamente fortissima e dolcemente espressi va, mentre fra gli a ltri solisti, tu tti bravi, ha fatto spicco Marianna Tcherkassky. Questo balletto rassomiglia piuttosto ad una versione tudoriana delle Dances et a Gathering di Rob- bins, ma purtroppo le musiche poco cono sciute di Dvovoràk scelte da Tudor, pur es sendo gradevoli non rimangono nella memo ria, a differenza dai pezzi celebri di Chopin più spavaldamente adoperati da Robbins. Ad ogni modo, paragoni di questo genere valgo no poco, soprattutto quando si tratta di due coreografi tanto dissim ili. La novità di Tu dor ha riscosso un enorme successo, e m i è molto dispiaciuto vederla una sola volta. L ’altra novità, il pas de deux Epilogue, sul famoso Adagietto dalla Quinta Sinfonia di Mahler, ha avuto per coreografo il gio vane americano John Neumeier, attualmen te direttore del Balletto dell’Opera di Stato di Amburgo. La sua compagnia (55 artisti) ha fatto la sua comparsa con tre programmi al Festival di Danza di Venezia alla fine di Natalia Makarova ed Erik Bruhn in «Epilogue», novità assoluta, coreografìe di John Neumeier sull'Adagietto dalla Quinta Sinfonia di Mahler. giugno, e anche allora la sua predilizione per la musica di M ahler si è fatta notare. Il nuo vo pas de deux, che sembra dipingere la fine di un amore intenso, è stato fatto su misura per i due eccezionali interpreti Natalia M a karova ed E rik Bruhn, il grande danzatore danese da poco tornato sulle scene. Neu meier ha fatto di tutto per valorizzare la qua si incredibile plasticità della Makarova, la quale supplica da tempo i coreografi di crear le dei ruoli veramente moderni; degli sforzi di Neumeier si è dichiarata soddisfatta. E rik Bruhn è stato un partner d ’in finita sensibi lità. La stagione si era aperta con un lavoro ben diverso. In Italia la Raymonda (adesso annunciata di nuovo al San Carlo) è stata vista a Spoleto nel 1964, quando Nureyev l ’ha allestita per la « seconda compagnia » del Royal Ballet. In repertorio, però, causa il libretto confuso e poco persuasivo, è rimasto solo il terzo atto, quello più spettacolare, il quale è entrato e rimasto, con molto succes so, anche nel repertorio della « prim a com pagnia » al Covent Garden. I l balletto intero Nureyev l ’ha poi rifatto, sempre basandosi sulla coreografia originale di Petipa, che si esegue ancora al K iro v di Leningrado, per il Balletto Australiano e per quello di Zurigo. Adesso ha semplificato ulteriormente il li bretto, senza però riuscire a renderlo del tut to convincente. Manca soprattutto un vero senso di lotta fra i due principali personaggi maschili, l ’eroe Jean de Brienne e il saraceno Abdul-Rakhman, che non è « cattivo » ma semplicemente un innamorato più esotico e sensuale. Ciò che invece convince appieno è l ’iniezione forza e di brio che ha dato alla compagnia la preparazione di un lavoro così impegnativo da un punto di vista tecnico. È di questo tipo di spinta che hanno bisogno le compagnie italiane: se la direzione della iScala riuscisse a persuadere Nureyev ad al lestire a M ilano il terzo atto, quello m igliore anche da un punto di vista musicale, farebbe un grande servizio agli artisti (e al pubblico, s’intende), anche se la prova si dovesse di mostrare un po’ aldilà delle loro forze. E vi dentemente, il corpo di ballo dell’American Ballet Theatre partiva da una posizione net tamente superiore a quella della Scala (non può essere diversamente, poiché il complesso americano, che come il New Y ork City Bal let non dipende da un teatro lirico e ha la propria orchestra, lavora senza sorta per un dici mesi a ll’anno, parte a New Y ork, parte in lunghe tournées), ma anche alla Scala si farebbe tanta strada semplicemente facendo di più, in particolare nel campo classipo, do ve le approssimazioni non sono accéttabili. N ella Raymonda si sono alternate varie cop pie, cominciando da Cynthia Gregory e Ru- •dolf Nureyev, con E rik Bruhn nel ruolo del saraceno. Ho trovato la Gregory elegante e precisa, se non proprio emozionante. Nure yev non si trovava nella forma m igliore, per via di un infortunio alla caviglia, ma era sempre lui. Bruhn, quasi in una parrucca nera, m i sembrava un po’ spre cato. Ho visto anche la coppia D ’Antuono- irriconoscible Edith Brenner E d ith B renner, ungherese, parteci pa alla vitalità della pittura naïve con un sentimento ed un’anima che recano i segni evidenti della sua terra d’origi ne; i colori, i costumi, la vitalità, la bellezza della vita. I suoi sogni, le sue speranze, i suoi amori vengono tu tti glorificati in queste sue tele che hanno una caratteristica par ticolare: le sue attese, la speranza ! I tito li stessi dei .suoi quadri ne fan no testimonianza; sono poesie della vita, sono incanti trasognati che la pittrice realizza con estrema bellezza: tu non il passare dei secoli sul senti, quasi, mondo; lo vedi, quasi, così come è nato dalla mano del Creatore, nella più lucente purezza... e la Brenner sa vedere questo mondo con i suoi occhi incantati, con il sorriso puro, con le sue invenzioni magiche. tu Per lei si deve davvero parlare di pittura naïve, poiché tutto ciò che sa di scienza, di artifizio, di cultura non incide sui sogni di questa pittrice: tut to ciò che lei crea, che lei inventa, si e- sprime come narrazione genuina e po polare per la gioia dell’ammiratore, che tocca con mano, diremmo, la vita sem plice e verginale dell’Uomo, quella che ormai noi non conosciamo più, perduti come siamo nella corsa alla luna ! S. P. K iv itt nei ruoli della fidanzata Raymonda e del cavalier cristiano Jean de Brienne. Più tardi dovevano entrarne in possesso anche Gelsey K irkland e M ikhail Baryshnikov. Que sti si trovava in Italia durante la mia perma nenza a New York, perciò l ’ho visto solo in- un film sovietico concernente i concorsi di Mosca del 1969, quando, appunto, Barysh nikov vinse la Medaglia d’Oro, soprattutto per il suo strabiliante assolo Vestris (che ha ballato a Londra nel 1970 e che ha ripetu to per una serata di gala a New Y ork alla fine di luglio). A parte la presenza di Baryshni kov, stella del film , è stato particolarmente interessante vedere la giovane Ludm illa Se- menyaka, che ha avuto molto successo a New Y ork durante la recente stagione del Bolscioi. M i ha fatto una ottima impressione; spero che potremo vederla in Europa. Se American Ballet Theatre si reggesse esclusivamente sulla presenza di grandi bal lerini, sarebbe in una situazione molto pre caria. Invece, si regge anche su un vasto re pertorio, formato quasi esclusivamente di balletti di coreografi di chiara fama, quali (a parte i classici) Tudor, Robbins, Balanchine, Ashton, Tetley. Si parla di una tournée eu ropea nella primavera del 1976, lim itata però a Parigi e Londra. E l ’Italia? Si capiscono le difficoltà economiche, ma sarebbe un gran peccato lasciar sfuggire l ’occasione. Balanchine e Robbins, li ho ritrova ti (le lo ro creazioni, cioè) a Saratoga Springs, una cittadina non troppo lontana da New York, dove, in uno dei grandi parchi, il New Y ork City Ballet fa una stagione estiva da dieci an ni. Il teatro, una costruzione permanente, è aperto solo ai lati cosicché gli spettacoli non sono soggetti ai capricci del tempo. A Sara toga vengono anche la Philadelphia Orche stra, qualche compagnia di prosa, qualche cantante, ma l ’unica compagnia di danza è quella d i Balanchine, che si ferma qualche settimana, con un buon numero di program m i. Ne ho visti due, la Coppèlla nella revisio ne di Danilova e Balanchine, con la scintil lante coppia Patricia McBride e Peter Mar- tins, e uno dei programmi del Festival Ravel, composto di due offerte di Balanchine e tre di Robbins. D i quello che ho visto mi è pia ciuto di più il balletto di Robbins sul Con certo in sol per pianoforte e orchestra, con la partecipazione di Suzanne Farrell e Peter M artins. Questo è fra i balletti del Festival Ravel che entreranno a dicembre nel reperto rio del Balletto dell’Opéra di Parigi, dove spero di vedere il meglio di quello che ho perso negli Stati U niti, anche se tutto avrà un accento francese assai diverso da quello americano. L ’Opéra di Parigi sarà così fra gli u ltim i teatri liric i a segnare il centenario della na scita di Ravel. Mentre a New Y ork si erano viste due nuove versioni del capolavoro di Ravel, Daphnis et Chloé, nessuna delle qua li è stata lodata, ho avuto la fortuna di rive dere al Covent Garden di Londra nel giorno del centenario la musicalissima versione di Frederick Ashton, che porta benissimo i suoi ventiquattro anni, anche se Margot Fonteyn ha lasciato un’im pronta indelebile sul ruolo di Chloé che nessuna riesce a cancellare. A l Covenf Gar-den quest’estate non ci sono state novità: due riprese (Les Noces di Stravinsky/N ijinska e Symphony di Scio- stacovic/M acM illan) e una serie di rappre sentazioni (tutte sotto la direzione musicale di Y u ri Ahronovic) del Romeo e G iulietta nella consueta versione di M adM illan, con qualche m odifica alle scene e costumi di Giorgiadis. Ho visto nel ruolo di G iulietta M erle Park (molto lirica e passionale, non tanto fanciullesca), Lynn Seymour (per la quale questa G iulietta fu creata — danzatri ce drammatica difficilm ente superabile) e la sfolgorante Natalia Makarova che in questi mesi sostituisce Antoinette Sibley, la quale aspetta un figlio. La Makarova continuerà a ballare col Royal Ballet, prim a al Sadler’s W ells, poi di nuovo al Covent Garden in au tunno, quando tornerà finalmente a Londra M ikhail Baryshnikov, che ballerà due ruoli, sempre affiancato da Merle Park, Sigfrido nel Lago dei cigni e Romeo nel Romeo e G iu lietta, ruolo per lu i nuovo. Il Mercuzio sarà David W all, che ho visto al suo debutto nel ruolo, del quale dà un’interpretazione davvero notevole. Quest’estate Londra ha certamente ceduto a New Y ork la palma del centro mondiale della danza, che dopo la chiusura del Covent Garden non ha offerto grandi emozioni. Il piccolo New London Ballet, al Sadler’s W ells, ha attratto gli am miratori di Gaiina Sam- sova, la quale però aveva pochi ruoli soddi sfacenti, anche se fra le novità l ’altrim enti poco chiara versione di Ashley K illa r di Washington Square (L ’Ereditiera) le dava qualcosa d’originale da interpretare. Ma non si possono condensare le sottigliezze di Hen ry James in un breve balletto. Per la stagione estiva al Festival H all, il Festival Ballet ha ripiegato su due classici, Giselle, nel giustamente celebre allestimento di Mary Skeaping e il Lago dei Cigni, non ché una serata « mista » composta di tre clas sici moderni di Lifar, Fokine e Massine. Nella Giselle ho visto Èva Evdokimova con Peter Breuer, tutti e due raffinati ma un po’ freddi, e Elisabetta Terabust con Patrice Bari, una coppia più passionale e perciò più credibile nel prim o atto. A l New Victoria Theatre, la Terabust ballerà anche nello incantevole vecchio divertissement danese Napoli. Fra le prime ballerine del Festival Ballet si trova da pochi anni (prim a stava col Ro- yal) Patricia Ruanne, che ha così intrepida mente acconsentito a ballare il Lago dei Cigni senza prova, in via d’emergenza, alla Scala a settembre, quando ha riportato un meritato successo trionfale. Ecco una vera professio nista, che a ll’ultim a replica ho trovato molto espressiva e musicale. Nel campo della musica (per la stagione dei « Promenade Concerts », ad esempio) e del teatro di prosa, penso che Londra sia rimasta senza pari per la quantità che offre onche nei mesi di luglio e agosto. Notevole il numero di pièces di autori contemporanei sparsi fra i quaranta teatri del centro: Pin- ter, Stoppard, Orton, Charles W ood, Simon Gray e Alan Ayckbourn — del quale si davano ben cinque commedie, la « trilogia » The Norman Conquests, che fra poco si vedrà in Italia, al Globe, l ’irresistibile Ab- surd Person Singular al Vaudeville e Absent Friends al G arrick. Finalmente parecchi tea tri londinesi hanno l ’aria condizionata, es senziale durante questa caldissima estate, e certo la soluzione m igliore (adottata dap pertutto a New Y ork), da preferire a qual siasi approssimazione, a ll’aperto, anche negli stupendi ambienti diffusi in Italia. Dipende dal punto di vista fondamentale: ha più importanza lo spettacolo, o la cornice? Ire n e Freda P it t Da sinistra: Karena Brock, Rudolf Nureyev, Charles Ward, Cynthia Gregory, Erik Bruhn, Clark Tippet e Martine van Hamel in «Raymonda» una novità per il bravissimo «American Ballet Theatre». R IC O R D O D I C E S A R E B R E R O L ’ A V V O C A T O C O M P O S I T O R E di Franco Mannino Un nome che direttamente e indirettamente ha onorato la musica e i musicisti italiani nel mondo S u l l o s c r it to io del mio studio, davan ti agli occhi, ho una foto: io che stringo per un braccio Cesare Brero. Fu scattata sul monte degli U liv i e sullo sfondo si distingue perfettamente la vecchia Gerusalemme: e- ravamo in Israele nel luglio 1969 per inaugu rare l ’importantissimo festival con uno spet tacolo curato dall’Opera da Camera di M i lano di cui Brero era il fondatore, il presi dente, l ’animatore. Lo spettacolo, che ebbe un enorme successo, era « L ’incoronazione di Poppea » di M onteverdi e fu rappresen tato con una magnifica compagnia di can tanti, con la regia di Sandro Sequi, le scene di Peter H all, i costumi di Marcel Escoffier e Franco Z e ffire lli. Io ero il direttore e con certatore e, soprattutto, facevo parte della ristretta schiera di amici che adoravano Ce sare. O ltre Alfredo Silbermann (scenografo e collaboratore diretto di Brero per l ’Opera da Camera di M ilano), che ha convissuto con trent’anni, questi amici erano i maestri M ario Rossi e Goffredo Pe- trassi, la signora Adriana Panni, attuale « presidente » della Filarmonica Romana, il regista Giancarlo Sbragia e pochi altri. Ma oltre a noi tu tti gli volevano bene, non si poteva fare altrim enti. lu i per oltre Nato a M ilano il 20 dicembre 1908, mo rì, sempre a M ilano, il 18 dicembre 1973. Studiò musica nella sua città e nello stesso laureò tempo, per volontà paterna, si in legge. Delacchi, Paribene e Anfossi furono i suoi maestri di musica e di pianoforte. Brero era un ribelle e un anticonformista per eccellenza. Durante il ventennio il suo antifascismo non derivava solamente da una questione di razza, ma era una scelta ben definita. Non aderendo al sindacato dei mu sicisti e non facendo parte delle associa zioni d’obbligo imposte dal fascismo, a Bre ro non restava che andarsene oltre frontie ra, dopo aver assistito ai tum ulti studente schi che caratterizzavano l ’ambiente m ila nese di allora, incluse le manifestazioni alla Scala. Fra le sue prime composizioni di succes so figurano le « Tre liriche » nella versione per canto e pianoforte o con piccolo com plesso orchestrale, eseguite per la prima volta dal famoso soprano Pia Tassinari al Festival di Varese nel 1933. Nel 1934 Brero si reca a Parigi per per fezionarsi a ll’Ecole Normale de Musique sotto la guida di Paul Dukas. Dopo la m or te di questo insigne compositore studiò con A lbert Roussel del quale diventò fedele al lievo ed amico: da lu i fu introdotto nella vita musicale e artistica di Parigi dove Bre ro è considerato compositore della scuola francese. Ma le influenze musicali proveni vano da diverse direzioni: era, fra l ’altro, amico di Hans Eisner, il collaboratore di Brecht, che si nascondeva di tanto in tanto a Parigi. Brero era convinto della necessità di comporre della musica che provenisse dal popolo — dal fo lk — e che fosse acces sibile al popolo: la ritm ica incisiva a tem po di marcia della musica di Eisner lo af fascinò molto. E questa influenza eisneria- na appare chiara nelle sue composizioni del periodo parigino. Brero in quel periodo la vorò parecchio tempo alla composizione di un balletto su un tema dichiaratamente me diterraneo: « Altisidora » dal « Don Q uijo te ». Quando presentò la partitura al D iret tore artistico del Maggio Fiorentino si sentì dire in tono dispregiativo che la sua musi ca era bolscevica e che avrebbe fatto meglio a portarla a Mosca. I l suo « T rio » per flauto, clarinetto e fa gotto vinse il premio della Revue Musicale di Parigi nel 1936. Nello stesso anno M a nuel Rosenthal presentò il suo « Concerti no per' archi N. 1 » e A dolfo Odnoposoff, allora allievo di Casals a ll’Ecole Normale, presentò la sua «Suite per violoncello solo» e D inu Lipati i « Preludi per pianoforte » ai Concerti del Tritón. Nel 1936 strinse amicizia con il rifugiato tedesco A lfred Silbermann che, come ab- Cesare Brero e Franco Mannino in un’im magine dell’estate 1969 a Gerusalemme. biamo detto, divenne poi un suo fedele col laboratore negli anni dell’esilio sudamerica no. A llo scoppio della guerra, m unito di raccomandazioni di Cortot e di Ibert, Bre ro giunse in Argentina con l ’ultim a nave uscita dal porto di Marsiglia, rischiando di essere buttato a mare dai m arinai in fu ria ti contro gli italiani per le bombe gettate sul la loro città dopo la « pugnalata alle spal le ». Cancellato dal registro dei passeggeri e nascosto in uno sgabuzzino giunse finalm en te a Buenos Aires nel giugno del 1940. Sbarcato in questa m etropoli sulle rive del Rio de la Piata dove non conosceva nes suno, il suo editore Ricordi rifiu tò di aiu tarlo, sostenendo che sarebbe stato suo do vere combattere per il Duce. Così Brero cer cò una rapida via d’uscita per procurarsi i mezzi necessari ad inserirsi in un ambiente a lu i estraneo. Disponendo di naturali doti vocali e di uno squisito gusto per l ’interpre tazione di canti popolari e di canzonette e conoscendo repertorio di Charles Trenet, si presentò alla maggiore stazione radio della capitale argentina per o ffrirsi come interprete delle canzoni di Trenet. Fu assunto ed iniziò questa attività, ben remu nerata, con lo pseudonimo di Jacques Mon- ny, di origine corsa, accompagnato da Dajos Bela e la sua orchestra. Intanto prese con- tutto il tatto con la intensissima vita musicale, fa cendo amicizia con i più rinom ati musicisti locali e stranieri: i compositori Castro, De Falla, il soprano Conchita Badia e fu pre sto coinvolto nella attività organizzativa della vita musicale. La sua doppia persona lità come Jacques Monny e Cesare Brero di ventò sempre più difficile da sostenere fin ché un giorno scoppiò la bomba: negli stes si studi radiofonici si effettuava un concer to omaggio a Manuel De Falla diretto da Ca stro con Conchita Badia come soprano so lista; questa in onda da uno studio di fronte a quello dove Bre- ro-Monny trasmetteva « Quand mon coeur fait boum ! » accompagnato da Dajos Bela. Che sorpresa quando la Badia e il Castro v i dero attraverso la « spia » un cantante che rassomigliava tanto al Brero ! E che sor presa per Dajos Bela quando alla fine della trasmissione vide che Jacques Monny veni va salutato cordialmente da De Falla e Ca stro ! Questo episodio convinse il Brero a chiudere la sua doppia carriera, abbando nando quella di chansonnier. trasmissione andava In seguito, durante gli anni vissuti a Bue nos Aires, divideva la sua attività fra quel la del compositore, dell’organizzatore e del l ’insegnante. Collaborando con la Società Wagneriana per l ’inserimento nei program mi di concerti di musica contemporanea e di Una scena de « Il conte Ory » data a Trieste nel 1969 per la direzione del maestro Franco Mannino e la regia di Giancarlo Sbragia. italiana, spettacoli d’opera da camera, contribuendo alla formazione di una nuova società, « A- migos de la Musica », con una sua orchestra da camera, Brero iniziò un’attività che gli permise di far rinascere la stima per l ’arte e la musica totalmente profanate negli ambienti intellettuali argentini a cau sa dell’attività fascista che condizionava la politica italiana. Organizzò concerti radio fonici e pubblici con artisti argentini di ori gine italiana e con programmi popolari per raccogliere aiuti per l ’Italia, in quel momen to in una situazione terribilm ente precaria, Brero è riuscito a creare un nuovo clima di stima per l ’arte italiana, creando le premes se, oltre che per aiuti m ateriali da spedire in patria, anche per invitare artisti italiani nell’America del Sud: si recarono per suo invito in Argentina Nino Sanzogno, Aldo Ciccolini, Benedetti Michelangeli, V ictor De Sabata, Goffredo Petrassi, introducendo co sì nelle lontane terre sudamericane questi grandi interpreti e musiche di compositori di varie tendenze come Ghedini, Fuga, Ma- lipiero, Daliapiccola, in quell’epoca cono sciute solo da pochi esperti. Erano gli anni fra il ’45 e il ’55. Organizzò le prime rap- italiani dal titolo « Porto presentazioni di opera da camera con musi che di Jacques Ibert e di Darius M ilhaud e balletti da camera in collaborazione con Margherita W allm ann che collaborò anche al balletto composto da Brero su temi po polari felice », ispirato ai m arinai di tutte le regioni d’Ita lia che approdano con le loro canzoni e le loro danze. Più tardi indusse Clotilde e A- lessandro Sakharoff a creare per la prima volta un gruppo di ballo, curandone le co reografie. Alessandro Sakharoff volle che Brero componesse un balletto su temi italia ni: nacque così «B eatitudes» d’ispirazione mistico-religiosa con temi e parole del ribel le Savonarola. Questa sua attività organizzativa di spet tacoli musicali trovò finalmente uno sboc co nella creazione del gruppo che poi girò per il mondo sotto il nome di « Opera da camera di M ilano »: il nome fu imposto da un impresario argentino senza consultare nessuno, avendo necessità urgente di stam pare dei dépliants di propaganda per la p ri ma tournée sudamericana. Brero era tornato più volte in Europa e prese contatto con un gruppo di giovani can tanti, i Cadetti della Scala: li portò con sé creando degli spettacoli minuziosamente preparati in ogni settore, chiamando il mae stro Ennio G erelli per la direzione musica le, Sandro Bolchi per la regia e anche dei giovanissimi, come Pier Luigi Pizzi per le scene e i costumi. Il repertorio era allora totalmente sconosciuto, specialmente a ll’e stero: la « Rita » di Donizetti, « Signor Bruschino » di Rossini, « Il segreto di Su sanna » di W olf-Ferrari ecc. Questi spetta coli ebbero un memorabile successo al Tea tro Colon di Buenos Aires, al Sodre di M on tevideo, al Comunale di Santiago de Chile e a Conception de Chile; inoltre gli procu rarono un invito per una nuova tournée su damericana che doveva portare la compa gnia fino in Messico attraverso tutte le ca pitali del continente latinoamericano, esclu so il Brasile, comportando però uno sforzo organizzativo ed esecutivo notevole. Fu in questo momento che l ’amico Silbermann decise di collaborare a ll’iniziativa di Brero, occupandosi delle questioni tecniche e dei problemi organizzativi. Dopo questi inizi così promettenti vennero nuovi allestimen ti: per il Festival di Spoleto con « L ’isola dei pazzi » di D uni e per il Festival di Baal- beck con « L ’incoronazione di Poppea » che fu poi replicata a Roma, a Trieste, a Pari gi, a Wiesbaden, a Cesarea, a Gerusalemme e a Taormina. I l Festival di Versailles in vi tò Brero a preparare T«Orfeo» di Monte- verdi, per il 1964 ripreso poi al Festival di Osaka, a Roma ecc. Versailles vide anche a ltri allestimenti come i « M adrigali in for ma rappresentativa » di M onteverdi e « La cenerentola » di Rossini. Schwetzingen chie se « I l Conte O ry » per il suo Festival, r i preso poi a Trieste, Cagliari, Bologna; « Don Pasquale » e « Così fan tutte » e altri allestimenti fanno parte del repertorio or mai assai notevole dell’Opera da càmera di M ilano. Uno dei pregi più im portanti del Brero era il suo entusiasmo nel trovare voci gio vani, nel dedicarsi alla loro educazione e nel presentare questi giovani in occasioni pre stigiose. Così è stato per Angelo Romero nella parte di Orfeo a Roma, per Lucia Va lentin! come Cenerentola al Téàtre Royal di Versailles, per Claudio Strudthoff come Ottone a Baalbeck e ad Atene, per Carmen Gonzales come Isoliero a Schwetzingen, per G iorgio G atti nel « Filosofo di campagna » ad Angers ecc. Come compositore Brero ha lasciato una quantità di partiture im portanti. Non ha mai sposato una tendenza precisa nel modo di comporre. Essendo di carattere tim ido non ha mai lottato per la promozione della sua musica, disprezzando tutto ciò che aves se sentore di propaganda o di giornalismo pubblicitario. Pur essendo divenuto paren te acquisito dell’insigne maestro E rick Klei- ber, quest! ignorava la profes sione di musicista del Brero. Per il teatro ha composto le opere « Novella » dal Decame- rone di Boccaccio, « La madrina » dalle no velle di Lubiez M ilosz, « Porto felice », bal letto folkloristico, « Beatitudes » su temi ri nascimentali e « Le roi de Gourmets » da musiche inedite di Rossini e dedicato al totalmente L'« Orfeo » dato ad Osaka 1965. Al centro, da destra, Cesare Brero, Sakharoff, Gerelli, Sequl e Sllbermann. Antonio Janigro e tanti altri furono gli in terpreti delle sue prime esecuzioni. grande cuoco B rillat de Savarin. Due con certi per archi, vari concerti per orchestra sola, per orchestra e pianoforte, orchestra e violoncello, canto e orchestra, contrabbas so e orchestra, opere per coro, solisti e or chestra come «C antata» su testi di S. Te resa D ’A vila, « Hai-Kai » su tèsti giappo nesi tradotti da Paul Claudel, « Sette quar tine » su versi di Omar Khayyam, diverse trascrizioni e parecchia musica da camera, oltre ad un numero elevato di musiche per il teatro, per la televisione e per il radio teatro e collaborazioni per versi e prosa, co me la commedia « Musica e Lazzi », costitui scono il cospicuo materiale spirituale che Brero ci ha lasciato in eredità. Manuel Ro- senthal, Nino Sanzogno, M ario Rossi, il sot toscritto, Stanislav Scrovacevski, Aldo Cic- colini, D inu Lipati, Pia Tassinari, Madelei- ne Grey, Alessandro e Clotilde Sakharoff, Margherita W allm ann, Adolfo Odnoposoff, Jean Babilé, Friz Lehmann, Carlo Franci, Brero era di carattere estremamente in quieto, nervoso, di grande sensibilità facil mente eccitabile, anche se intimamente me lanconico. Predestinato a soffrire per una buona parte della sua vita per un’ulcera duodenale, sopportava il dolore, a volte lan cinante, senza mai farlo pesare sul prossi mo e chiunque l ’avvicinò lo ricorda pieno di slanci, pronto alla battuta scherzosa, iro nico, ma sempre aperto a ll’entusiasmo crea tivo e costruttivo. Una complicazione car diaca stroncò la sua vita dopo una stancan te giornata passata a registrare le sue musi che di scena per la versione radiofonica del la commedia di Shaw « Cesare e Cleopa tra »: ultim a sua fatica. G li avevo parlato, da Roma al telefono, il giorno prim a: era felice ed euforico, pieno d’entusiasmo per i impegni, pur essendo consapevole che l ’ora dell’ultim o sipario era vicina. futu ri Franco M annino A B B O N A T E V I , . D R A M M A IL VOSTRO AB B O N A M E N TO PER A IU T A R C I A R IM A N E R E LIB E R I A V E R O N A L A «N O N A » D I B E E T H O V E N - B E J A R T D A N Z A L A N P D O S O T T O I O G G I A di Alberto Testa ^ J o n c i e ra mai capitato di assistere ad un intero spettacolo sotto la pioggia. È suc cesso a ll’Arena di Verona in occasione della attesissima « prima » della Nona Sinfonia di Beethoven nella trasposizione coreogra- * fica di Maurice Béjart col suo Ballet du XXèm e siècle e i rinforzi di un secondo e anche di un terzo corpo di ballo, quello del l ’Arena, già riunito per gli spettacoli liric i appena conclusi. Tanto attesa che gli spalti areniani apparivano gremitissimi un’ora p ri ma dell’inizio dello spettacolo quando reite rati scrosci piovaschi non avevano di certo dato grandi speranze sull’effettuabilità del la rappresentazione. La quale aveva avuto inizio regolarmente e il prim o impatto, come sempre in ogni spettacolo béjartiano, era stato imponente con l ’intervento delle per cussioni quasi ad apprestarci al rito, secondo le note aspirazioni di Bejart, e con il decla mato ampio e solenne di alcuni frasi niciane riguardanti in maniera esaltante. Tutto era stato dunque predisposto nel m i gliore dei modi e il maestro André Vander- noot aveva dato il via a ll’orchestra e al p ri mo movimento della sinfonia, quando inco m inciò a cadere una pioggerella fitta e in sistente. Ebbene, da quel momento, cinque m inuti dopo l ’inizio, sino alla fine, la piog gia non smise di cadere e i danzatori, ca parbi anch’essi come gli spettatori, non smisero di danzare e gli a ltri di voler ve dere lo spettacolo ad ogni costo. Si aprirono gli om brelli, ci furono imprecazioni e d iffi la danza de, ci si coperse alla beH’e meglio ma si continuò per cui quando gli artisti vennero a ringraziare l ’applauso era indirizzato non solo alla bravura ma alla costanza e al co raggio dimostrati. G li astanti meritavano pure essi un plauso e furono perciò applau diti, come s’usa fare, dai danzatori stessi. Nessuno era caduto o scivolato durante l ’ese cuzione tanta era stata la tensione a tenerli in piedi, ma qualcuno, durante la corsa ai ringraziamenti, perse l ’equilibrio e cadde. Organizzazione perfetta: appena gli stru mentisti, nell’im possibilità di proseguire a suonare, cessarono, si inserì la registrazione su nastro e così si andò sino alla fine men tre la massa corale non si allontanò e r i mase ferma al proprio posto a guardare l ’in consueto spettacolo. Del quale spettacolo resta un po’ difficile parlare quando si pen si alle condizioni in cui è stato visto. Co munque, ci è bastato conoscendo altri lavori di Béjart per poterlo giudicare uno dei me no inutilm ente preten zioso. Già è stato detto in varie occasioni dello straordinario talento teatrale e del fiu to di Béjart, della presa che un suo spetta colo esercita sempre sul pubblico. Un suo spettacolo non può non avere successo spe cie di fronte ad un grande pubblico al quale egli suole proporre i suoi più poderosi ed ambiziosi lavori. La partenza è sempre o tti ma, i danzatori sono stupendi, tutto funziona alla perfezione, rodaggio di lunga lubrificazione; egli riesce a creare un frutto di un felici, forse il più passi banali, spesso casuali che ripercorrono il repertorio béjartiano più trito (seconde posizioni allungate, attitudini a terra, pugni chiusi di stampo espressionista e un po’ di tutto dal folclore magiaro a posizioni yoga, atteggiamenti orientali, « modera dance » e danza negra); c’è di tutto ma tutto buttato a vanvera, niente è fuso, solo giustapposto, sco pertamente applicato, manca uno stile omo geneo, compatto, un linguaggio che tutto pla smi e sublim i come se si ascoltasse un identi co testo redatto in varie lingue, in sanscrito, in ungherese, in lingua indù e così via, con differenti linguaggi si procede in un unico discorso. tutta Ci si è preoccupati eccessivamente del manifesto, dell’ideologia e poco di quella cosa oggi da più parti disprezzata, trascu rata, quando non vilipesa, che è la coreo grafia, cioè [’architettura della composizione di danza. Perché Béjart si rifiu ta di ricercare un discorso conseguente, originale e nuovo ? Evidentemente perché per lu i è più comodo agire così, affastellare e colpire esteriormen te piuttosto che selezionare il suo materiale creativo, distillarlo per arrivare non solo alla purezza formale della rappresentazione visiva mai ad una commozione inte riore. Eppure, qualche volta il gioco gli è riuscito, per esempio in Bakhti. Tutto som mato: i programmi si leggono volentieri ma si vedrebbe anche volentieri l ’attuazione di essi attraverso una dimensione coreografica chiara, la quale dovrebbe l ’essenza dell’opera d’arte come unità del segno e del senso che è appunto rivelazione dell’opera d’arte. La superiorità dei segni dell’arte su tutti gli a ltri sta appunto in questa immate rialità mentre tutto il gioco béjartiano è di una schiacciante materialità, non arriva ad una « sine materia ». Dal principio alla fine è troppo evidente la fatica con la quale il disegno coreografico è stato condotto attra verso i luoghi comuni di un consumato me stiere che allontana l ’ispirazione poetica per accogliere tea trale e non specificatamente coreutica (si è detto, si è ripetuto « teatro totale », ma il termine è logoro e l ’applicazione non perti nente in questo caso). leggibile, fondo determinare l ’enfasi della declamazione inequivocabile, in Figurino di Paola de' Caverò per « I due genti luomini di Verona» di William Shakespeare. clima e a mantenerlo, ma se tu analizzi le cose che fa o che vuol esprimere ti accorgi ben presto che è tutto nell’apparenza di ciò che si vede e non nella sostanza, vogliamo dire che egli non scava, non penetra in pro fondità nel tessuto compositivo. Qui poi più la data del che 1964) le cadute di gusto frequenti. la confusione è macroscopica e lavori (esso reca in altri Innanzitutto c’è una coreografia che non appartiene alla musica e che la stessa pare rifiutare tanto l ’una e l ’altra vanno indipen denti per la loro via. Sappiamo che Béjart non è costruttore deliberato di edifici coreo- grafici che corrano paralleli sul filo della musica (come suole fare, tanto per intender ci, Balanchine) ma in un’opera sinfonica co me quella beethoveniana egli ha trascurato completamente il contrappunto visivo e na turalmente non si parla solo di ritm o ma di costruzione interna della musica. Sin dalle prime battute si procede con figurazioni e Lo spettacolo, lette le premesse della pa ce e della fratellanza tra i popoli, della gioia attraverso il dolore, scorsi i temi certamen te im portanti attraverso i singoli movimenti musicali dal grido prim igenio alla gioia del la vita a ll’ebbrezza dell’amore e al senso cosmico dell’esultanza fra le genti pecca di demagogia, è leggermente tronfio e retorico per cui questo saluto a ll’artista geniale e agli artisti può sembrare singolarmente e forse ingiustamente avaro quando non si applaudisse alla straordinaria bravura e alla compatta fratellanza del complesso. Cosa che ci affrettiam o a fare subito scusandoci se non possiamo abbracciarli tu tti nell’elogio e lim itandoci a lodare ancora una volta Jorge Donn per il suo m irabile gioco plastico e gli a ltri fedelissimi Daniel Lommel, Niklas Ek, Rita Poelvoorde, Yvan M arko, l ’ospite Luciana Savignano, Dyane-Cray-Cullert. Siamo tornati alla casa di G iulietta tra una schiarita e l ’altra. Una schiarita agli um ori, in un contesto di uggia e di melan conia, costituiva per noi anche la visita alla mostra « Arte come teatro » di Paola de’ Caverò allestita per l ’appunto in questo luo go di convegno per turisti dal cuore e dalla credulità facili. Conoscevamo già la de’ Ca verò. Avevamo visto sue mostre a Spoleto e a Torino e ci aveva colpito la sua adesione al teatro tanto da auspicarle per il futuro collaborazioni in quell’ambito e il balletto sembra che le piaccia, che lo senta e che tutto il suo mondo si agiti a ll’intorno. A b biamo anche notato un passo avanti da quelle esposizioni nell’approfondimento del le concezioni e nell’originalità distributiva dei m ateriali. Sono collages m aterici e im magini fotografiche sovrapposte che evocano rappresentazioni di teatro scespiriano dal Coriolano al T roilo e Cressida, da Timone d ’Atene ai Due gentiluom ini di Verona. La Mostra è stata inserita nel cartellone della Estate il pubblico di questa sagra dell’opera lirica ha potuto così prolungare sogni e fantasie inseguendo gli uni e le altre sulla traccia indicatagli d a ll’ar- teatrale veronese e S A L V A T A G G I O I M P O S S I B I L E I l cinema a cortometraggio italiano è grave mente malato: più che in se stesso, nelle strutture che ad esso ruotano attorno e che, bene o male, sono determinanti al fine della sua sopravvivenza e della sua crescita quali tativa e quantitativa. Tutti sanno che, per i motivi più disparati (dalla crisi vergognosa delle Commissioni Mi nisteriali alla disfatta dei produttori grandi e piccoli, dall’arrembaggio di molti personag gi privi di troppi scrupoli alla resa progressi va della gente di buona volontà) il mondo del cortometraggio, in animazione e dal ve ro, si sta rapidamente disgregando: con il ri sultato di un abbassamento pauroso della produzione del suo livello qualitativo medio. In questo panorama desertico apparente mente senza speranza, si è recentemente le vata la voce del Sindacato nazionale dei Gior nalisti Cinematografici Italiani che, in senso costruttivo, ha voluto sinteticamente richia mare (in occasione della attribuzione dei Na stri d’Argento 1975) l ’attenzione sui punti nodali della crisi. Questo è stato, infatti, il tono del suo recente verbale di giuria: «La Giuria del SNGCI per i ’’Nastri d’Ar gento” ai cortometraggi, composta da Gia como Carioti, Laura Gemini, Vinicio Mari- nucci, Renato Portoghese, Nazareno Taddei, all’unanimità vuole sottolineare ancora una volta la funzione culturale e sociale che il film di cortometraggio può e deve esercitare, e constata la necessità di non svilire nella qualità e nel numero la realizzazione di tali opere; e pertanto invita i produttori, gli au tori ed i pubblici poteri a superare con rin novato impegno la fase critica attuale. La Giuria 1975 assegna il premio per il miglior regista a Bruno Bozzetto, per ” Self Service ” ; il premio per il miglior produttore all’Istitu to Luce, per la ” Enciclopedia dell’Arte at tribuisce inoltre una menzione ad Aldo Rapa- relli per l’impegno realizzativo e la dedizione all’attività nel campo del cortometraggio ». Chissà che il serio e composto richiamo di questo sodalizio professionale non sia il pri mo passo verso una più efficiente collabora zione fra categorie, ed una rinascita cultura le e produttiva del cortometraggio: da parte nostra, ce lo auguriamo e ci contiamo. G. Car. tista. La quale è presentata nello splendido catalogo (edito da Cappelli) da Licisco Ma gagnato che sul finire della sua prefazione dice testualmente: « É stato più volte sot tolineato che Paola de’ Caverò rilegge quasi sempre anche le tragedie e le commedie in chiave di balletto: ed è questo un altro ca rattere specifico delle sue visioni teatrali; i personaggi emergono evidentemente nella sua fantasia già in azione, e quest’azione si svolge in un ritm o, inconfondibilm ente, di danza drammatica ». È ciò che è sembrato anche a noi. là dove l ’artista anche In più, specie alcuni fig u rin i (come quelli per I due gentiluom ini di Verona) sono go vernati d a ll’eleganza, un’eleganza che non abbandona mai il segno si fa più drammatico, incisivo, violen to e cupo, dove (in T roilo e Cressida) il cavallo di Troia sembra aleggiare su perso naggi ed eventi con una grazia musicale, danzante, proprio come volevasi dimostra re. Né si può dimenticare la buona, compa gnia di una solida cultura che sorregge la de’ Caverò nei suoi sentieri lastricati di lustrini, di piume e di stoffe preziose, di pizzi come di tela greggia, di cartone, di vetro o di mica. Su tutto domina il grande ritratto di Shakespeare il quale sta in mez zo a questi pannelli come un buon padre tra i fig li; il suo volto è ripetuto quattro vol te tra pizzi e piume e sbuffi, solcato da linee come spade, quasi proiezioni di una volontà suprema. E si applaude anche al titolo della mostra per cui una pittrice inventa un « modus » di fare del teatro, dello spettacolo, al di fuo ri di esso, in alcune sale (a Verona, certa mente rispondenti alla bisogna, in una casa scespiriana, si fa per dire, con il modellino del Globe Theatre, ove si rappresentavano le commedie del grande drammaturgo), ri trovando i f ili sottili ma saldi che legano l ’arte al teatro. A lb e r to T e s ta Un momento della «Nona Sinfonia» di Beethoven-Bejart sul palcoscenico dell'Arena di Verona. I L D R A M M A » T V Parlare male di sceneggiatori che non si cono scono non sarebbe educato e poi Costanzo, Simo netta, ^ Falqui,, Villaggio, ospiti fissi dell’Ospizio Bellavista, hanno una vita mica facile: stare a ro vistare negli ’atti ufficiali’ del successo per rici clare tutto il già visto, in blocco, senza aggiungere niente di nuovo è impresa da titani televisivi. Dove si mettono scene usate, brani di films famosi, mac chiette scucite, situazioni crollate, giochetti freschi di mezzosecolo se non si ha tra le mani un docile gestore del luogo comune? Avercela con Villaggio poi...! _ Allevato ruspante, arrivato al « paese » per ec citare a rate la frustrazione domenicale dei lettori, da anni nutre urbane « vocazioni » inedite e, fuori dalla grammatica del consumo plateale, si conside ra un capolavoro da 600 mila copie, « uno scrittore costretto a in tempi bui con le forbici di Damocle sulla testa, preoccuparsi della pensione oltre il logorio televi sivo, e d’una mamma pietosa della sera è veramente doveroso. fare 1 attore... » D’altronde siamo Lui puntuale ligio intanto mette le marchette, sta attento agli scatti, cronometra la marcia, studia le penitenze a casa prima di infilarsi nella miniera d occhi del sabato sera, fa le dichiarazioni giuste... Mai una stecca dalla sua ’fabbricherà’ e soprat tutto niente sprechi: per il marketing basta un ca sereccio « servizio opinioni »; per i suoi Fracchia e Fantozzi niente cassa di risparmio vanno portati televisive s’intende). in Svizzera (in piccole dosi La svalutazione colpirà solo Gianni Agus? « Senza misura » nello squallore un mio amico esagitato mi lascia un cachet, una serie corsara sempre al sapor di vittima, che brutto applicarsi! E così ancora nel luogo comune, sale « il gelo in una stanza ». INIZIAZIONE ALL’IMBECILLITÀ I l sabato, eterno luogo comune del Creatore, incrociato al villaggio, a sua volta tragicamente le gato allo scemo, formano un’organico corpo tele visivo: fracchia, il poket della line popolare. Fracchia formato Villaggio, ipnotico per venti- due milioni di telespettatori, public relation del l ’avanspettacolo magazziniere delle gags smesse andrebbe consegnato alla pietà dei patronati sco lastici più che essere affidato, con l’incarico di vit tima, alla sbronza televisiva di fine-settimana. I collezionisti di bottoni televisivi, esausti di ma gre e di veline incrociate, scatenano così la ripresa economica televisiva con una inondazione di travet nazionali (il Fracchia) e d’importazione (i surgelati di Dostoevskij) per il diluvio finale della disoccu pazione. Sbarca in famiglia il santone invadente con la ventiquattrore di rinuncia ed estraniamento, seque stra la famiglia in raccoglimento televisivo, la calza di mezzemaniche domenicali, trasforma l’angoscia in catarsi, libera e sistematizza la confusione e la frustrazione. Dai travet stagionati vuole « iniziato », con la « chiave » della scrivania, un figlio televisi vo, mentre il lavoro va in pensione chiede una frullata di Ragioneria, una incartata di inchini e sorrisi, un corredino di « colletti bianchi ». Il tele gaudente fa il suo turno di frustrato in ginocchio vicino ai guru di Stato, ai mezzisatelliti senza carburante mai decollati dalle scrivanie e alle mam mole parlamentari a cui è rimasto, tra i programmi in frigorifero, i numeri a colori girati al Colosseo. il Sull’autobus facsimile si scioglie in lamenti alla Fantoz zi, al cinema arriva un’acuto commento di Fracchia, l’iniezio ne d’imbecillità ha centrato il nervo giusto: l’esibizionismo della vittima. Ora è di moda il ballo del l’attendente. La «noia mortale» dilaga in eccitazione: anch’io ho un for micolio sotto un piede... Corpi come fantocci: evviva cerchiam le lucciole... Paolo Villaggio, il Fracchia televisivo, ripreso a Roma | in compagnia della moglie. I 86 - IL DRAMMA I L « D R A M M A » A T E A T R O FIORI BIANCHI E TELEFONI ROSA Quando, a Roma, si dice « Ba gaglio » è come dire satira, ma satira con la « esse » maiuscola. Ed anche in questa apertura di stagione il « Bagaglino » non ha assolutamente deluso gli spettato ri. Castellaci e Pingitore questa volta se la prendono con il «com promesso storico », un « compro messo storico » già avvenuto, in un’Italia 1986, dove i « rossi » sono al potere e dove, come una delle tante conseguenze, un nu mero imprecisato di persone è co stretto a vivere in un miniap partamento di un casamento-ca serma succubi di un capofabbri- cato membro del KGB e tanto SS. Situazioni paradossali e me no si svolgono ad un ritmo in credibile sostenute da un eccel lente Pippo Franco che si inte gra perfettamente con Gianfran co D’Angelo, anche lui nella for ma migliore. Ma, bisogna aggiun gere, che quest’anno il « Bagagli no » presenta anche un risvolto serio che vuol superare il gusto della battuta pura e semplice: fa pensare, e molto, ed alla fine la scia anche un gusto un po’ ama ro. Il « compromesso » avvenuto, infatti, non è che un sogno, un brutto sogno dal quale i protago nisti della vicenda si svegliano per destarsi in pieno 1975 nella real tà: rapine, rapimenti, corruzione, malcostume dilagante... Tra quella « dittatura » e questa libertà c’è ben poco da scegliere... Tutto, in Italia, è caos e la dimostrazione ce la dà il secondo tempo dello spettacolo dove vengono, poi, per fettamente puntualizzate buona parte delle situazioni deleterie di questo nostro povero Paese. In- somma uno spettacolo tutto da ve dere. Di Pippo Franco e di Gian franco D ’Angelo abbiamo detto: sono tutti all’altezza della situazione, a co minciare dalla deliziosa Evelin Hanak, a Marina Marfoglia, a Laura Trochei che ogni volta ci appare migliore, al simpatico Pie ro Santi. Una parola a parte per « Bombolo » un attore preso dal la strada ed al suo debutto: si è trovato disinvolatamente a suo agio tra tanti calibri. Le musiche, ottime, di Gribanovski sono state eseguite al piano da Flavio Bocci. Coreografie di Daniel Sander. S. Fat. inimitabili ! Gli altri, tica satira romanesca, punteggiata da sonetti ed ottime canzoni. Bravissimo Raf Luca e positive Delia d’Alberti e Olimpia di Nardo. foto, Raf Luca, Landò Fiorini, Delia D’Alberti e Olimpia di Nardo. Nella Mar. Gig. senza riserve, sviluppandosi su te mi d’attualità economica e politi ca; mentre gli altri rimangono in telligentemente provocatori, ma non altrettanto comici. Intatta, comunque, è rimasta la bravura di Fiorini, che ha impo stato lo spettacolo su una simpa IL COMPROMESSO STITICO In un momento favorevole quale quello che sta attraversando il teatro cabaret, ci è parso op portuno porre l’attenzione ad uno di essi, che ci sembra particolar mente emblematico di un succes so costante negli anni, non deri vato certo né dalla casualità, né da una moda corrente: il Puff di Landò Fiorini. tali precedenti, il cabaret romano ha riaperto i battenti ITI di Novembre con lo spettacolo: « Il compromesso stitico » di A- mendola e Corbucci, i cui testi, tuttavia, hanno tradito quel 'en- plein umoristico ad esso usuale. Solo pochi sketches, infatti, ap paiono veramente esilaranti e Su TEATRO POPOLARE E POESIA NEL SALENTO Lu striu miu me fice sta [dummanda « cce be’ Ila dittatura? » Cec nia [dire? Statu a du nc’è ’nu fessa ca [cumanda e’nu populu ca, cittu, l’ha [ubbidire. « Democrazia è mègghiu? » Se [capisce! L’autorità ’llu pòpulu è rimessa, tutti cumàndanu. « E ci [ubbidisce? » leu, tie... e quarche àutru fessa. Questa è la voce di Raffaele Protopapa, un poeta leccese, au tore di una serie di commedie, che oggi sono quasi tutto il ripertorio del Piccolo Teatro di Lecce. Quasi tutto, perché c’è stato anche un altro autore, oggi mor to, Angelo Sarquegna, la cui com media: « Lu tastu chiù impupan te » è stata rappresetata postuma, nel 1973 all’Anfiteatro Romano di Dramma — Qual è il carattere del tuo teatro, caro Protopapa? Protopapa — Le mie commedie riflettono la realtà sociale del l’ambiente popolare e borghese nella nostra provincia. Raccon to fatti strettamente collegati al la società familiare del mio tem po, i cui protagonisti sono sem pre figlio. Dramma — Qual è il tuo pub tre: padre, madre, blico? Protopapa — I giovani, per e- semjsio, si interessano moltis simo al mio teatro e interven gono numerosi alle mie com medie, ma il mio teatro, direi, interessa tutti a Lecce. Dramma — Dove agite, di solito? Protopapa — Il Piccolo Teatro Leccese non ha ancora una ve ra e propria sede, anche perché il massimo teatro della città, il Paisiello non è stato ancora ulti-, mato. Abbiamo poi intervistato il dot tor Mario Durante, amministrato re della compagnia. Dramma — Quali sono i vostri scopi operativi? la stampa, Durante — Cambiare la realtà per mezzo del teatro e non solo nel teatro — Ampiare i nostri rapporti, usando l’arma dei massmedia: la ra dio, la TV. Perciò abbiamo pre so contatti con il Sindacato na zionale scrittori a Roma, che pubblica un bollettino: « Pro duzione e cultura », con la ri vista quindicinale: « Salento do mani », e con gli uffici della TV via cavo di Lecce. Alla TV di Lecce abbiamo a- vuto il piacere di presentare: Kitsch, la commedia pubblicata in questa rivista nel mese di otto bre, e di parlare ancora con Pro topapa e Durante di teatro popo lare e del linguaggio, anche a pro posito del Convegno « Dialetto e Scuola », cui hanno partecipato docenti universitari e rappresen tanti del mondo della scuola. A Calimera, abbiamo sentito un moderno rapsòdo cantare la pas sione di Cristo in un greco pu rissimo, molto simile al neo elle nico, ma infiorato di alcuni neo logismi romanzi. La canzone dice: « Ce Calimera e ’una sas’ po’ nu s’a cuntezze ti passiuns ca possa patezze Kristomma cusete oli na devoziuna. « Son venuto a Calimera per dirvi e raccontarvi la Passione: quanto ha sofferto Nostro Signore, ascoltate tutti con devozione »... Ma per dirla in breve, dopo il racconto della Passione, si passa alla celebrazione liturgica della Pasqua per mezzo delle uova ri tuali. Dei canti grecanici esiste una ampia pubblicazione: « Ta trau dita tis Kalimera ». Fra questi è per noi interessante soprattutto un arcaico testo parateatrale del XVI secolo, scritto in forma epico dram matica per la morte di una fan ciulla detta Caterina. Calimera dista da Carpignano pochi chilometri. A Carpignano VOistros, il Gruppo Teatro Uni versitario di Lecce, che prende nome dal pungiglione della taran tola, ha elaborato con YOdin thea- tret di Holstebro di Eugenio Bar ba e la popolazione locale, nel l’estate 1974, uno spettacolo spe rimentale: « Emigrazione è... », eseguita poi 35 volte in varie piaz ze d’Italia per tutto il 1975, dove assumeva volta per volta una iden tità culturale diversa. Il Centro di ricerca e di speri mentazione « Oistros » è in contat to con la cattedra di Teatro diret ta da Ferdinando Taviani ed è attivo dal 1969. Il suo 1° spettacolo: « Per esempio », rappresentato dopo una ricerca organica di sei mesi sul linguaggio, fu firmato da G. Pres- sburger, che si servì per tale spe rimentazione di una novella di Kafka: « Una relazione accade mica ». Poi, il Gruppo ha svolto un la voro di animazione nelle scuole elementari e medie della provin cia. Questi esperimenti sono stati avvalorati dalla esperienza di Al- tamura, nel 1973, dove per una settimana gli attori del Gruppo hanno lavorato coi bambini di un collegio agostiniano, in genere fi gli di emigranti e orfani, fungen do da collegamento con la realtà politica esterna, scambiando con loro una produzione culturale. il paese » Analogamente lo stesso gruppo ha fatto a San Cesario l’esperimen to: « Riscopriamo in collaborazione con tutti i bambi ni del luogo, che poi hanno aiu tato gli attori a socializzare i ri sultati del lavoro compiuto attra verso la elaborazione di cartelloni murali da esporre in piazza. Nel 1974, poi, il Gruppo Oistros è stato in Danimarca, ospite dell’O- din Theatret. C.S. FRANTOIO E LATTE MATERNO Frantoio e la tte materno è una raccolta di canti, filastrocche, ninnenanne, richiami solitari e grani di « buonsenso » della cul tura popolare del Salento. terracotte, dorsali di Gli oggetti sulla scena — fran toio, legno per mulo, mortaio di pietra, setac ci, trapano di legno, orcioli, giare, cupe-cupe ecc. ci offrono, nel si lenzio dell’attesa, punti d’appoggio visivo per una lettura del pro gramma e un orientamento sulle tradizioni pastorali e contadine del Salentino. L’immagine che sopravviene, af fidata agli attori, ci indica subito i segni « sopravvissuti » di quegli « atti reali e significativi insieme » che venivano compiuti durante il lavoro agricolo e che ora, non abitando più i corpi, si affidano al ricordo delle parole onomatopei che, dei canti, dei ritmi... Le cadenze sono saggiamente travolte da rabbie e calibrate e, gioie improvvise, riescono anche a renderci la dimensione esisten ziale dei singoli attori-corpi, ma soprattutto è il quadro d’insieme, la complessità di questi gesti « semplici », il naturale suono del lavoro « cantato », la povertà del corpo denudato e ricoperto di stracci, la memoria dei canti del l ’esistenza senza tempo che con solano lo spettatore con l’aliena zione dell’immagine. l’unico Il merito è di Marcello Sambati (al quale rimprovero è quello « formale » del titolo che una qualsiasi dialettale strofa dei canti avrebbe reso più rappresen tativo). Marco Attanasio, Spartaco Buccalli, Mapi Melchiori, Saturni no Primavera e lo stesso Sambati danno corpi e voci alla rappresen tazione che meriterebbe qualche paio di occhi in più. 3 MARITI E PORTO 1 Cla. Sco. Nonostante l’esilità del testo e la fragilità della trama la commedia brillante « 3 mariti e porto 1 » attualmente in scena al ridotto dell’Eliseo sta ri scuotendo un notevole successo di pubblico. Buona parte di questo successo, è doveroso riconoscer lo, si deve a Silvio Spaccesi ed alla sua compagnia del teatro comico. Spaccesi riesce infatti a tampo nare brillantemente i « buchi » del copione e le sbavature della trama, salvando interamente l’ef fetto comico. La storia di Aimone Adolfo Strippel- lini, piccolo industriale della caciotta, di Amelia, paesino in provincia di Terni, coniuge sfortunato di Claretta Stevenson « lady » inglese con la mania dell’uxoricidio per motivi pecuniari, è di per se stes sa già sufficiente a creare una serie di possibilità sceniche di indubbio effetto comico. Continuiamo però a sottolineare che queste possibilità rimar rebbero l’apporto, di Silvio Spaccesi e dei suoi attori. lettera morta senza Quando il testo diventa impraticabile, neanche gli attori riescono a salvare totalmente la comme dia ed il pubblico avverte una certa stanchezza. Veramente bravi: l’intramontabile Giusi Raspani Dandolo, Gino Donato, Eva Ricca, W illi Moser, Fernando Cerulli, Giulio Donnini, Andreina Fer rari e Sergio Di Giulio. Un applauso particolare, naturalmente, a Silvio Spaccesi. Nella foto, Silvio Spaccesi e Giusy Raspani Dandolo. Jap TUTTO PER RENE il ritmo Su questo « Tutto per bene » pirandelliano che si da al teatro Eliseo di Roma, in effetti c’è ben poco da dire. Perfetta la regia, mi surato teatrale, efficace l’interpretazione di tutti gli attori. Eppure questa commedia non è tra le più consuete del drammaturgo siciliano. Benché ricalchi, nelle sue linee essenziali, il meccanismo tra gico del teatro pirandelliano, essa se ne discosta nelle conclusioni, lasciando intravedere una sia pur grottesca e postuma ipotesi di giu stizia purificatrice. « Tutto per bene » è infatti la storia di Martino Lori, consigliere di Stato in pensione che trascina gli ultimi anni della sua vita tra 'l’incomprensione della figlia e de gli amici più prossimi e lo strug gente ricordo della moglie morta. tutto ciò con rassegnato fatalismo, rinunziando, nella sua masochistica ansia puri ficatrice, a chiedersi persino il per ché di un siffatto atteggiamento de gli « altri ». La spiegazione egli la Martino affronta scopre tardivamente e la verità, in tutta la sua evidente tragicità gli si para davanti paralizzandolo. 11 disprezzo di cui lo gratificano tut ti è infatti dovuto ad un equivoco. Essi pensano che egli sappia che sua moglie lo tradì con il senatore Manfroni, da lui creduto suo ami co e protettore, e quello che è più avvilente, suppongono che egli ab bia accettato questa penosa situa zione per avvantaggiarsi nella car riera, condotta infatti all’ombra del ■ potente uomo politico. Lori scopre così che sua figlia è in realtà figlia del Manfroni e che tutta la sua vi ta è stata segnata da questo ingan no della moglie. Impazzito di dolore Martino Lo ri, recupera, però, una sua dimen sione tragica che lo riscatta agli oc chi dei suoi precedenti detrattori e nella verità finalmente svelata e nel conseguente dolore riesce a re cuperare interamente la sua dignità. A suo tempo, Pirandello definì « Tutto per bene »: « La rappre sentazione momentanea d’una com media ed insieme d’un dramma, che non hanno però ragion d’essere, perché il dramma è passato da gran tempo e la commedia non può più seguitare ». Ottima, come dicevamo, l’inter pretazione di Mauro Avogadro, A- nita Bartolucci, Mino Bellei, Gian na Giachetti, Isabella Guidotti, An tonio Meschini e Gianrico Tondi- nelli. Eccellente, sotto ogni aspet to, fornita da Romolo Valli. Nella foto, Anita Bartolucci e Romolo Valli. la prova NON SAREMO LA MORELLI-STOPPA MA... « Non saremo la Morelli Stop pa... ma » è una commedia, per la verità godibile e spigliata che va in scena in questi giorni al teatro centrale di Roma. Interpretata da Cristiano ed Isabella essa costitui sce una divertente presa in giro, a volte sorniona, a volte graffiante, di un certo intellettualismo peloso, venato da riflessi esistenziali che alligna soprattutto in alcuni settori della borghesia italiana. « Non saremo la Morelli Stoppa ma... » è infatti una divertente pa rodia dei complessi freudiani e del le crisi politiche di una giovane coppia di attori di sinistra, afflitti, sì, dall’incomunicabilità, ma anche da concreti problemi economici e da difetti tipicamente reazionari quali la voglia di arricchire, una smodata ambizione ed un certo sno bismo bovarystico (il gatto di casa si chiama Ho Ci Min). «Vedi» di ce lui « io, in fondo ...alla fine... in un certo senso... In ultima analisi... Ecco, posso definirmi marxista. Però, come dire... Insomma la pro prietà privata mi piace. Se potessi avere un bel casale in Toscana non mi dispiacerebbe affatto ». Da que sto contagio borghese neanche lei è del resto immune. « Il giorno che potrò permetter melo » dice «userò profumi da ot tantamila lire. Perbacco ! ». Le uto pie ed i sogni di una rivoluzione, in realtà molto poco desiderata, fini scono, insomma, per liquefarsi e stemperarsi nel crogiolo delle uma ne debolezze e delle quotidiane dif ficoltà. Cristiano ed Isabella con ducono la commedia con una note vole dose di bravura ed una certa padronanza della scena, riuscendo, più di una volta, a far divertire onestamente il pubblico. Nella foto, Cristiano e Isabella. Jap■ CONCERTO PER VIOLINO, TROMBA SASSOFONO E ALTRI... ruspe) Su una scena completamente spoglia (che è poi una città « can cellata » dalle ritroviamo « ...i pruriti erotici insoddisfatti, i desideri di evasione, le nostalgie per mondi che non esistono, lembi proustiani ed infantili di perso naggi prigionieri del proprio ruolo standardizzato da secoli di usi e convenzioni »... così come ce li an ticipa sul programma Rita Picchi, curatrice di questo Concerto per violino, tromba, sassofono ed al tri... dato alla Comunità. Lo spettacolo parte bene su fo togrammi gestuali ma subito si coagula intorno all’esibizione vo lutamente a cliché di questi « ma rito», «moglie», «amante», «tra vestito». Non riesce poi ad an dare oltre (un po’ anche per la fragilità del teorema di fondo) e ANTIGONE Questa « Antigone » in scena al teatro dei Satiri a Roma, rivisi tata e reinterpretata da Maricla Boggio è una delle cose più depri menti che ci sia occorso di vedere in questo faticoso inizio di stagio ne teatrale. La tragedia, a causa di un’infe lice intuizione della Boggio, non si si finisce trainati, complice anche un involontario didascalismo di qualche attore e attrice, sui minuti fatterelli proprio contro la direzio ne assurda e comico-grottesca che il testo rivendica. Francesco Archibugi, Gianni Camponeschi, Massimo de Paolis, svolge nella Grecia Classica ma ai nostri giorni in un paesino dell’Ita lia meridionale. La « trovata », a nostro avviso, riesce a rendere con un colpo solo scarsamente credibili sia la Grecia antica che l’Italia mo derna. Adattamento dunque, que sto dell’Antigone, realizzato con una deprimente confusione lessica le ed una ancor maggiore confu sione mentale. Nell’ansia di «modernizzare» ed « intellettualizzare » la Boggio rie infatti a confondere allegra sce mente ogni cosa, riuscendo, sì, ad avvicinarsi allo spirito del mondo greco, ma, beninteso, no a quello di Atene bensì di Bisanzio. « Il con flitto tra Antigone e Creonte se condo la logica di Hegel che non amo, ma che condivido per con cretezza», afferma saputella la Bog gio, « Rimane come inevitabile tensione tra le leggi che devono riguardare gli uomini al di sopra di determinazioni contingenti, e le leggi codificate, stabilite da chi deve governare giorno per giorno in un preciso momento storico. Ma Creonte scopre la corda quan Romeo Falasco, Graziella Ferraris, Federico Wirne, Victoria Zinny sono gli strumenti. Agostino Raff alla musica e Federico Wirne ai costumi. La regia è del giovane e bravo Aldo Donfrancesco. Cla. Sco. to rifiuta la derivazione del suo potere dal popolo, durante il con citato confronto con il figlio E- mone ». Anche se Maricla Boggio si defi nisce «modernamente marxista», per la verità questo «Antigone» ci è sembrato un revival paleomarxi sta neanche molto originale. Insom- ma l’«Antigone» di Maricla Boggio, versione femminile di Mario Ca panna, non ci ha convinto nean che un po’, e non certo per fa ziosità o settaria preclusione ideo logica, ma semplicemente perché certi discorsi e certi atteggiamenti culturali stanno diventando non so lo vecchi come il cucco, ma anche tremendamente banali. Dobbiamo onestamente riconoscere che di fronte ad un testo così devastato gli attori hanno fatto del loro me glio. Buona la prova fornita da: Saverio Moriones, Saviana Scalfì, Teresa De Sio, Antonia Forlani, Fi lippo Alessandro, Domenico Chia- nese, Renato Campese e Carlo Co solo. Eccellente l’interpretazione di Corrado Olmi. Jap IL DRAMMA - 91 precisa da comunicare appieno il suo dramma di donna. La Mangano aveva un grosso scoglio da superare: molti, spe cialmente i più anziani, ricorda no ancora perfettamente Titina De Filippo e in terpretazione, per cui il paragone veniva spontaneo. la sua magistrale Lo scoglio è stato brillante- mente superato: al termine dello spettacolo gli applausi e i com menti all’uscita dal teatro Parioli ce lo hanno vieppiù confermato. Ancora due parole per gli altri attori, primo fra tutti Luigi De Filippo: ha magistralmente dise gnato il personaggio di Bebé, il gaudente e sciocco fidanzato di una delle in perenne al figlie, terco col suocero. Proprio questi duetti tra Pep pino e Luigi De Filippo sono ri sultati di una comicità indicibile. Precisi e misurati hanno dato una lezione di alta scuola teatrale, di mostrando che il loro amore per il teatro è un continuo sacrificio ed una continua ricerca di perfe zione per dare sempre il meglio di loro stessi. Renata Biserni, Mimma Monticelli, Stefanella Mar- rama e Ivana Giordan (le quat tro sorelle di Sesella), Elio Berto- lotti (il giornalista), Salvatore Gincardi fidanzato di Car mela), Aldo Alori e Adriana Pac chetti (gli amici di famiglia) com pletano il « cast » della comme dia che sta ottenendo un merita- tissimo successo. (il S.Fat. QUARANTA... MA NON LI DIMOSTRA troppo Ancora una volta, e non ave vamo alcun dubbio, Peppino De fatto centro ! Non Filippo ha riproponendo, dopo solo, ma, forse tempo, la comme dia Quaranta... ma non li dimo stra (scritta nel lontano 1933 in sieme alla grande Titina), De Filip po è riuscito a colpire addirittura più bersagli contemporaneamente: dà, ancora una volta, una « lezio ne di Teatro», presenta una giovane, ma già grande artista e, infine, tra mite il suo « teatro umoristico specchio di una dolente umanità », ci ricorda, nonostante la profon da crisi che attraversa, il proble ma della donna e della famiglia. La storia è semplice: Sesella, zitella quarantenne, invecchiata e intristita per badare al padre, ri masto vedovo, e alle quattro so relle più piccole, alle quali ha dovuto inna mora di un giovane giornalista che frequenta la casa e che è in vece innamorato di Carmela, una delle sue sorelle. Il padre, accor tosi del fatto, fa del suo meglio per aiutare come può figlia prediletta. Per una serie di co mici equivoci, il giornalista crede fare da madre,, si la che gli si offra la giovane amata e invece si ritrova fra le braccia Sesella, sempre più innamorata. La ragazza cerca allora di rigua dagnare il tempo perduto tentan do di mettersi al passo con le sorelle, ottenendo il risultato di apparire, logicamente, più goffa che mai. Poi, tutto si chiarisce, tut to torna nella logica delle cose, ma per Sesella questa esperienza non rappresenterà una sconfitta, ben sì la chiave di volta per prendere piena coscienza della sua dignità di donna, che può essere realiz zata surrogando il matrimonio con altri affetti ed umanità che renderanno la sua vita ancora valida. Per una volta, ora, permette teci di non parlare del grande Peppino De Filippo (d’altra parte non sapremmo quali altri agget tivi coniare !) ma di soffermarci sulla protagonista. Ci ha profon damente meravigliato quanto la giovane attrice abbia saputo fare nei difficilissimi panni di Sesella: complessata e goffa, isterica e pa tetica, Lelia Mangano ha vestito alla perfezione e con grande mae stria i panni della protagonista dandoci un personaggio « reale », una zitella in una dimensione così Nelle foto: a sinistra Lelia Man gano, splendida Sesella, a destra, Luigi De Filippo, bravissimo Be bé. In alto, Peppino De Filippo e le sue « figlie ». L E S C E LT E D I F R A N C E S C A B E N E D E T T I S E È F R A N C O D I C O S Ì di Silvana Gaudio improvvisamente Disponibile e ambigua, gene rosa e sinistra, appassionata e fu rente, sprizza scintille se la guar di appena, se ti lasci accecare dal suo casco di capelli rossi: se in vece le punti gli occhi addosso, ti appare fragile. La sua principale prerogativa, che potrebbe essere ravvisata nel desi derio di stupire, è piuttosto quella di andare controcorrente. Sì, è più forte di lei andare controcor rente: deriva da un bisogno di reazione e di polemica mai appa gati, da carenze alle quali cerca di reagire con i mezzi a disposi zione. « Il giorno in cui dovessi espri mermi più armoniosamente cesse rei di farlo »: questa è Francesca Benedetti. Una attrice dotata che ha visto nel teatro un mezzo di rottura per superare, senza riuscir si, un rapporto di amore-repulsio- sione con un contesto borghese, quello al quale appartiene. Lo sottolinea persino come osten ta il proprio stato di coniugata, dicendo a ogni piè sospinto « mio marito », ma per rilevare che gli schemi impostile da bambina han no provocato in lei una ribellione suggerendole, adolescente, confron ti stimolanti. S’intuisce nella casa di Urbino, in cui è nota, la figura del padre al quale, imitando in consciamente Gianna Manzini, fa un « ritratto in piedi »; si percepi sce la conflittualità latente, pun teggiata da attrazione e rimorsi, nei riguardi della madre. Quella che si immagina, con altrettanta chiarezza, è Francesca la quale, meno appariscente di quanto non sia adesso, decide di iscriversi al la Facoltà di Medicina e subito dopo si accorge che non è suffi ciente per la demolizione propo stasi di finti valori e che non serve a placare la sua voglia di sberleffi. Che sciocca a non avere capito che il veicolo per realiz zarsi, sottraendosi al disagio del la vita di provincia, sarebbe stato il teatro. Ma è ancora in tempo, e col teatro non esita a stabilire un approccio furente. « Io non mi ritroverò in nes suno dei riti che il teatro impo ne »: urlerà con la forza del pro prio narcisismo e, allo stesso tem po, con dolore. Il narcisismo, per nutrirsi, ha bisogno di cose importanti. Tutta l’apprendistato di Francesca via, è assolutamente convenzionale: l’Accademia, lo Stabile di Napoli con Franco Enriquez, quello di Fi renze con Beppe Menegatti, la Cometa con Diego Fabbri. Però, molti lo hanno dimenticato (ma lei no, anzi tiene a ricordarlo) an cora fresca del tirocinio fatto alla « Silvio D’Amico », pensò bene di « sverginarsi » prendendo parte, passerella inclusa, a una rivista di Dapporto: Il diplomatico. Comunque, il fatto che avesse tutti gli elementi per essere desti nata ad un teatro di rottura è fuori discussione. L’underground no ha ancora codificato la recluta tra le proprie file. E i registi e/o gli attori coi quali le riesce di a- prire un discorso si chiamano Ca lenda, Proietti, Gazzojo. Ronconi la seduce addirittura, scoprendo le gli orizzonti di un nuovo tipo di intesa, dopo averla fatta reci tare nei « Lunatici » di Middle- ton. A far parte delle sue scelte, operate tra rinunce e sacrifici, en trano Guicciardini e Cobelli. Fin ché, Patrice Chéreau acquisisce di diritto un « trono » sul palcosce nico rincorso da Francesca Bene detti, la quale, con voluttà, si la scia dirigere da questo ragazzo terribile del francese che urla e si strappa le unghie, fa biz ze ma se lo fa perdonare con i suoi exploits geniali, nella Finta serva di Marivaux. Il pubblico, quello del Festival dei Due Mon di, le procura un’ebbrezza e un piacere così necessari al suo nar cisismo che esige di essere colti vato come una pianta. Francesca Benedetti non ha più dubbi, se mai qualcuno l’avesse sfiorata fi no a quel momento, su quella che si chiama « vocazione ». Però « vo cazione » è un termine che le si addice poco: per questo è più giusto parlare di violino sul qua le può toccare alcune corde ed e- strarne i suoni congeniali per ri trovarsi ogni volta, dopo essersi annullata o « mascherata ». teatro in un in Ma il violino di Francesca fi nisce spesso ripostiglio, mentre lei ci pensa e si tormen ta, urla con la chioma rossa che manda guizzi, assicura, senza for mularla termini precisi, una vendetta, quindi si rassegna e a- spetta. Una delle attese è stata « premiata » da un incontro de terminante per il suo modo di es sere attrice che si rifiuta di par tecipare ai riti: quello con Fran co Parenti. « Un attore eccezio nale. Un rispetto al teatro »: la voce di Francesca si fa intensa, i suoi risvolti sinistri si dissolvono rapidamente mentre pensa al Macbetto di Giovanni Te- ’’outsider” stori che Parenti le ha offerto la chance di interpretare. « Per me è stato come toccare il, cielo e per qualsiasi altra attri ce sarebbe significato raggiungere il vertice della carriera »: sostiene, non si sa fino a che punto invo lontariamente polemica contro co loro che nel teatro inseriscono il « birignao » o che per fare teatro si basano sul bel recitare. « Ma dico! E’ un grande urlo di dolore inarticolato quello della Lady Macbeth di Testori; un ur lo contro la vita stessa che trae origine dal rapporto odio-amore che la pervade ». Ma all’« esperienza ecceziona le », sia pure con rammarico pro fondo, Francesca ha detto basta. Ha risposto al richiamo di Mario Missiroli, che ha pensato a lei per la Elmira del suo Tartufo. l’Accademia e, « Con Mario abbiamo fatto in sieme frequentan dola, avevamo creato una sorta di complicità tra noi, cedendo reci procamente a un istinto. Forse ci univano, attraendoci, le comuni estrazioni borghesi; più ancora, quel bisogno di rompere con gli schemi sapendo perfettamente co sa ci fosse dietro e dentro. Poi il piacere dello sberleffo. Sono certa che sia stata una concezione di erotismo macabro, con la giarret tiera viola, a indurre Missiroli a pensare a me ». A vedermi in un posto niente- affatto scomodo, o scomodissimo (dipende dall’ottica) affidandomi il ruolo di Elmira. Una Elmira non tanto prudente e saggia, quan to piuttosto perversa e sadica, più disposta a punire il perbenismo del marito fingendo di accondi scendere alle voglie di Tartufo che a rivelargli la verità a fin di bene. Insomma una Elmira che si vendica, soggiogata dal piace re di essere abbietta e che, a mo do suo, ingaggia una crociata con tro il buoncostume, si fa per di re, della borghesia allevata al l'ombra di Luigi XIV ». Il personaggio di Elmira l’ha at tratta immediatamente. Né le ha fatto meno gola la prospettiva di fare lo « sberleffo » sul palcosce nico di un teatro come l’Argenti- IL DRAMMA - 93 durre le cose alla loro semplicità, alla quale per troppo tempo ab biamo abdicato. Occorre creare un rapporto non autoritario tra palcoscenico e spettatore. Se la so cietà riuscirà a superare gli scom pensi che la turbano e la sconvol gono, allora potrà anche fare a meno di alimentare la propria ne vrosi con il teatro. Non avrà più bisogno di specchiarsi in un simu lacro ». In questo caso Francesca tro verebbe la maniera per ” provo care ” col suo violino in altri mo di, soffrendo. La sola prospettiva na di Roma, padrino Franco En riquez, anzi lo stabile capitolino. Ma cosa importa ? L’importante è tirar fuori il violino dallo sga buzzino (e non è facile). « Il teatro è nevrosi »: sostiene Francesca Benedetti. E spiega co sì che in un momento in cui tutti siamo afflitti, in misura più o me no grande, da questo male, il tea tro sia agitato da tanti fermenti. Dopo un attimo di meditazione, afferma che è arrivato il momen to di « semplificare ». Anche a rischio di apparire scialbi e modesti, occorre ricon- la fa apparire dolente, dimessa, in una parola sola, sconfitta. Ma un lampo attraversa gli occhi che ri- fiutno la punizione o che, valutan dola, cercano di prevenirla, costi quel che costi. Costa molto, per ché anche ammesso che la gente non sappia fare a meno del tea tro, fare teatro sopra le righe non è facile, anzi difficilissimo, spe cie se si è capito che la codifica zione ha privato l’avanguardia del suo significato. « A ll’affermazione delirante che in Italia non ci sono attori, mi oppongo. Sostengo, al contrario, che di attori con talento ce ne so no moltissimi ma tutti condanna ti a una vita breve quanto l’és- pace d’un matin. Se a fagocitarli è un teatro pubblico, con tutte le sue implicazioni coi partiti, è fa tale che l’attore venga handicap pato nel processo di maturazione. Bisognerebbe restituire le funzioni dirigenziali di questi teatri, che tecnicamente hanno una loro fun zione, a persone competenti ». « Ma tu non hai accettato di recitare con l’etichetta di uno Sta bile ? ». « Io ho detto sì a Mario Missi- roli. E avrei potuto dire sì anche a Franco Enriquez: non è que stione di persone; di sistemi. Con le persone si può patteggiare. Con le strutture, oltretutto mostruose, è impossibile ». Silvana Gaudio G io rg io C a p p e lla appartiene alla nuova generazione dei p itto ri aquilani. I l suo spazio culturale è dunque quello più propriamente della provincia e, tuttavia, l ’aspetto tematico affronta ar gomentazioni critiche che appartengo no al più vasto mondo sociale in cui si incontrano (e si scontrano) la realtà culturale della nostra tradizione e quel la contemporanea marcatamente consu mistica. Cappella attinge dalla società pasto rale e contadina. E non già con l ’atten zione di chi voglia semplicemente esal tare un certo tenore di vita. Piuttosto con la volontà di intervento critico e chiarificatore. Poiché la crisi che ha colpito la società contadina e pastorale fornisce l ’ulteriore riprova di una de cadenza dei costumi nella società con temporanea ormai pianificata dall’at teggiamento consumistico. La riproposta di immagini pastorali (dei simpatici « zampognari ») signifi ca anzitutto necessità di riscoperta di uom ini semplici, profondamente umani. In tutte le opere campeggia un gran de tondo: potrebbe essere un pianeta qualunque, magari una luna. M a sareb be certo più giusto vedere questi «ton di » nel loro valore simbolico, definen doli dei soli, ovvero fo nti di vita pe renne. Em idio D i Carlo G IO R G IO CAPPELLA « IL SALTO » Collezione privata L A P A G I N A D E I G A D Agisce al Teatro dei Dioscuri in gestione alla FITA, in via Pia cenza, Roma. libero, Il GAD « Il Medaglione » è nato in seguito ad un referendum che il Dopolavoro ATAC orga nizzò tra i dipendenti per cono scere quali iniziative, per il loro tempo fossero più gradi te. Dal referendum risultò che i più desideravano la costituzione d’un Gruppo d’Arte Drammati ca. E così il 2 marzo 1967 si ebbe una prima riunione per discutere il problema e ne sortì un co mitato provvisorio composto da Leopoldo Alimelli (che ben presto diventò il Direttore artistico del GAD), Pietro Del Savio, Franco Lirolli, Alberto Evangelista e Mario Alessi. Sostenuti dai diri genti del Dopolavoro, i compo nenti del comitato si misero al lavoro per reperire iscritti, tecni ci, attori e attrici e, nel frattem po, iniziarono le prime letture di testi drammatici per nutrire il repertorio. Con l’ingresso di Ma ria Pia Zeppieri (diventata poi Presidentessa del GAD) e di Ni no Bagnoli (regista), dopo un an no di preparazione, « Il Meda glione » debuttò il 23 marzo 1968 con La notte del 16 gennaio di Dopo aver presentato nei numeri scorsi i Gruppi d’Arte Dram matica « Gaetano Salvemini » di Pistoia, «Teatro Popolare Salernitano», « O. Calabresi » di Macerata, « Piccolo Teatro della Città di Arezzo ». « Voci Nuove » di Milano, « Renato Simoni » di Verona, « Comunità Teatrale » di Firenze, « La Barraca » di Vicenza, « Il Siparietto » di Roma, e il « GAD di Porto San Giorgio », in questo fascicolo pre sentiamo « Il Medaglione» di Roma. Ringraziamo per la collabora zione che vorranno offrirci gli Amatori inviandoci una breve, com pleta ed esauriente « relazione » della loro attività. Per ragioni di or dine e completezza, preghiamo i nostri gentili corrispondenti di in dicarci: Q Nomi dei dirigenti, registi, scenografi ed esatto indirizzo del GAD; © Dati e date sulla sua fondazione, suo sviluppo e orientamenti ar © Teatri e attrezzerie a disposizione, scene e costumi; © Numero degli attori, attrici, scenografi e tecnici del Complesso Artistico; I titoli (con relativi nomi degli autori) di tutte le opere (italiane indispensabile; e straniere) rappresentate. Questa © © Notizie sull’eventuale partecipazione a Festivals e Rassegne; © Due o tre belle foto di scena per illustrare la presentazione di ogni Gruppo la cui attività, a turno, sarà documentata su « Il Dramma ». indicazione è tistici; sidente della FITA Provinciale sin dalla sua costituzione) e di Fran co Lirolli (Direttore Tecnico). At tualmente il Gruppo si avvale di tre registi: Maurizio Ballesio, Al berto Barrai e Francesco Della Fede (pseudonimo di Franco Ro sato), e un Complesso artistico di 15 attori, 6 attrici e 6 tecnici. « IL MEDAGLIONE » DI ROMA tratto che ha 16.000 I l gad « Il Medaglione » è una Sezione del Dopolavoro ATAC (Azienda Tram Autobus Comu nale) iscritti. L’ATAC ne sostiene l’onere finan ziario, in massima parte dalle quote che i soci della Se zione pagano mensilmente. Pre sidente del Dopolavoro ATAC è Vittorio Missimi, segretari: Leo nardo Chiappini e Carlo Baroni. Leopoldo Alimelli è il Direttore del GAD; « responsabile unico », sceglie il repertorio e i registi, so- vraintendente alla organizzazione e alla realizzazione degli spetta coli. Il Direttore si avvale della collaborazione di Gabriele Sol (che ha avuto sempre fanelli rinnovato il mandato di rappre sentante legale del Gruppo e che, in tale veste, è stato eletto Pre tina foto' di scena del Gruppo GAD «Il medaglione». ATAC di Roma. Ayn Rand, al Teatro Don Orio ne. Questo lavoro fu ripreso nel 1968 per la Rassegna « Bona ventura Tecchi » di Viterbo e nel 1971 per la Rassegna «A. Perugini » di Macerata. Dopo questo debutto, il GAD fece la sua prima apparizione al Concorso ENAL del 1968 con Il nemico di G. Giannini e si terzo posto. Nello classificò al stesso anno si cimentò in uno spettacolo d’arte varia e, poi, con tre atti unici: Il ponte di Fratti, Lumie di Sicilia di Pirandello e Don Vincemmo di Marotta e Randone. Il 10 maggio 1969, al Teatro dei Servi, « Il Medaglione » pre sentò una novità italiana assolu ta di E. Urban (/ vivi non sanno) con cui conquistò il secondo po sto al Concorso Provinciale. terzo anno di attività, Nel marzo del 1970 allestì Dio salvi la Scozia di N. Manzari. In aprile Cecè di Pirandello e La gabbia vuota di M. Cimpa- nelli. Al il Gruppo volle iniziare un discor so critico su certi aspetti dell’at tuale società. Venne così allestita un’opera sul fenomeno della ma fia e dell’omertà: Il muro di si lenzio di Paolo Messina (regia di Maurizio Ballesio), che ebbe mol- Ancora una scena di un'opera presentata dal GAD «Il Medaglione». to successo e conquistò il primo posto al Concorso Provinciale dell’ENAL per cui fu ammesso al Festival Nazionale del Teatro d’Amatori di Pesaro. Tutti e sei gli interpreti furono premiati con medaglie d’oro e d’argento, me daglia d’oro per la regia e meda glia d’oro per la scenografia. Fu inoltre messo in scena (nel 1971) L ’italiano geloso di R. Mazzucco (regia di Nino Bagnoli e di Leo poldo Alimelli) che al Festival di Pesaro fu classificato al ter zo posto e fece guadagnare al l’attore Maurizio Ballesio la me daglia per il miglior attore e la segnalazione per « Piccola Ri balta Televisiva » alTattrice Paola Locci. Lo spettacolo fu portato a Macerata (Rassegna « A. Peru gini ») e a Mantova (X Festival del Teatro Comico). Il Gruppo fu inoltre invitato al Festival di Monaco cui, però, non partecipò. Purtroppo, per dissapori e ri valità nel suo seno, il GAD at traversò un periodo di crisi (nel 1973). Fu tuttavia allestito Per non morire di R. Mainardi e due atti unici di scadente livello. All’inizio del 1974, Leopoldo Alimelli fu chiamato di nuovo alla direzione artistica de « Il Medaglione ». Fu così rappresen tata La grotta di Anouilh. Vin cendo con esso il Concorso pro vinciale della FITA, il GAD fu di nuovo ammesso al Festival di Pesaro. In seguito tre furono allestiti in atti unici: L’uomo dal fiore bocca di Pirandello, Di là dal ponte di E. Urban e O Dia Se guirne di F. Rebello (regie di Riccardo Della Monica, Alberto Barrai e Maurizio Ballesio). con fondersi Nel 1975, « Il Medaglione » ha tipo di teatro voluto tentare un i caratteri dell’avanguardia ove potessero quelli classici. In questo contesto dram maturgico è stato allestito E za e za e za, novità italiana di M. S. Codecasa nell’adattamento dei re gisti Maurizio Ballesio e Francesco Della Fede, con cui il Gruppo è stato ammesso al Festival di Pesaro di quest’anno. L 'im p o r ta n z a d i p ia c e r e : a za d i e s s e r e c o n s id e r a t o u n a m ic o d i a m ic i: s e m p r e . U n a m ic o c h e n o n s c e : c h e tu tti. L 'im p o r t a n in c a s a t r a d i l'a m ic o . L 'im p o r ta n z a d i a v e r e u n n o m e s ig n if ic a p r e s t ig io . q u a lità , g e n u in ità , l ’ i m p o r t a n z a d i c h i a m a r s i M O U N A R I 1 0 n o n c a p i s c o , s i g n o r R o s s i , p e r c h é t r e n o è s e m p r e c o s i a f f o l l a t o ! ' 11 “Buongiorno, dottore, quando è arrivato?” "Ieri, in auto. Al casello... una coda ; di chilometri. Pòi, per molti tratti, tutti fermi 0 a passo d'uomo. Al ristorante, ho aspettato un’Ora per mangiare. Ma eccomi qui: siamo all'ombrellone 728. E Lei, signor Rossi?" “lo? In treno. Una folla... da impazzire!" “lo proprio non capisco, .signor Rossi, come mai questi treni sono sempre così affollati!”. Scagli la prima pietra chi, pur sopportando le code in autostrada, le attese al ristorante, il “mi spiace, il volo è chiuso” all'aeroporto, non si è mal scagliato contro l’affollamento in treno. E' vero, il treno è spesso affollato, e nei periodi di punta lo è ancora di più. Ma è anche vero che il treno non lascia mai nessuno a terra e trasporta tutti - magari scomodamente - a destinazione. Col Programma di interventi straordinari jn fase di attuazione, le FS dispor ranno di più treni: nei periodi di punta, però - a Ferragosto, a Natale, a Pasqua - ci sarà sempre folla. Perché, se !e FS spendessero i “vostri" | J soldi per acquistare del materiale da usare poche-settimane all'anno, - sareste voi i primi a criticare. ,______;___________ E, in quel, caso, avreste anche ragione. rauca esegua

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Il dramma : rivista mensile di commedie di grande successo. - Torino : Grandi firme, 1925-1992.

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