MENSILE DI SPETTACOLO - ANNO LUI - N. 3-4 - APRILE-MAGGIO 1977 - LIRE 2.000 S p e di z o n e i A b b o n a m e n o t P o s t a e l - G r u p p o I I I ( 7 0 %) / t e s t i i n t e g r a l i ^ d e l t e P g r o g r a m m i e s t i v r u p p o A l i t a l i a - A T i I e regolar « Puntualità ^e"'regolarità » è 10 slogan dell’Alitalia pef il 1977, l'anno del rilàncio. Infatti i dati di traffico dei primi mesi sono più che confortanti; basti pensa re che nel silo mese di marzo, l’Alitalia ha trasportato 533.000 passeggeri con un incremento dell'11,5% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Pun tualità e regolarità poi, sono tor nati ai livelli medi monliali, su perando talvolta quellPburopei: 11 98% la puntualità sulle rotte nazionali, il 75% su quelle internazionali. Lo sforzo maggiore che l'Ali- talia sta compiendo riguarda la sua attività internazionale e in tercontinentali Stati Uniti, Ca nada, Medio Oriente e Austra lia. Si tratta di notevoli inve stimenti in termini di maggior la regolarità, l’80% numero di voli e di posti pas seggeri. Per gli Stati Uniti i voli sa ranno compiuti tutti con B-747 (17 corse contro le 16 del 1976). Per il Canada le corse setti manali passano da 8 effettua te con B-747 a 12 utilizzando il DC-10, permettendo così di articolare meglio le frequenze da Roma e Milano dirette sui due scali di Montreal e Toron to. Sarà riaperto lo scalo di Filadelfia con corse settimana li DC-10 sulla direttrice Boston- Filadelfia (nel 1976, 4 corse DC-10 limitate a Boston). Le innovazioni riguardanti I' Africa sono: da 3 a 4 frequenze su Algeri, da 7 a 9 su II Cai ro, con le due corse aggiuntive che proseguono su Kartoum che passa così da 1 a 3 frequenze settimanali. In due anni l’Alitalia ha rad doppiato i servizi e gli scali nella zona orientale ed ora ser ve: Teheran (sei frequenze set timanali), Baghdad fre quenze), Damasco fre quenze), Beirut (due frequen ze), Jedda (tre frequenze), Ku wait (due frequenze), Daharan (due frequenze), Amman (due frequenze), Dubai fre quenze), Larnaka (una frequen- (due (due (due C Û L in e e A e r e e I t a l ia n e za), oltre naturalmente Tel Aviv (cinque frequenze). Per quanto riguarda l'Austra lia, si passa dalle 3 corse set timanali, effettuate con DC-10, a 3 corse settimanali con B-747 con un incremento del 30% dei posti offerti. Inoltre, l'operativo estivo del 1977 prevede in Italia un gene rale aumento della capacità offerta sull’intera rete: un au mento di frequenze ed un mag gior numero di collegamenti di retti. I dati di maggior rilievo per le singole Regioni sono i se guenti: maggiore offerta del 18,1% sulla direttrice Torino- Roma per quanto il Piemonte. riguarda Per la Liguria, sulla Genova- Roma e vv. i servizi passano da 3 a 4 con una maggiore offerta del 61,6%. Per quanto riguarda la Lom bardia, maggiore offerta di po sti ( + 11,3%) sulla direttrice Roma-Milano, mentre i voli giornalieri tra Milano e Naooli sono saliti a 6. Per la Sicilia è stata aumen tata l’offerta sulla direttrice Palermo-Roma e vv.; migliora ti anche gli orari per Pantelle ria e Lampedusa da Palermo e Trapani; inserito anche un col- legamento giornaliero Palermo- Bologna via Napoli. Infine, per la Sardegna sono stati portati a 7 i voli Cagliari- Roma e vv. con orari ottimali e ripristino del volo a tariffa notturna; i voli Cagliari-Milano sono saliti da 2 a 3; sono sta ti istituiti i voli diretti Alghero- Milano e vv.; Alghero-Genova e v.v. e Alghero Bologna e vv.; per ultimo, i voli settima nali Olbia-Genova e vv., ope rati con DC-9 al posto dell'F-27. N u o v a s e r i e I L D A Piazza in Campo Marzio, 5 - 00186 Roma A M M R L a r i v i s t a c h e d a o l t r e 5 0 a n n i r a p p r e s e n t a l a v o c e p i ù l i b e r a d e l T e a t r o ____ ; ; . I i i . j inv s.'9-8-M3 P°W j i i i ! V m ; ; i l i i i i i i i i M i i ; ; i : i i i M _J i i “i i - O i n M è 5 i i 2 E i J < o 3 2 : | i i i c 5 < l o “ i i § 2 ° i i o q s i - i i 5 ri JS i £ I i i g - M | I i S « c 5 S i ri Z 9- E T3 •“ o o> O ® O O o SC O -8! r- O : : .t: c ó — M !2 Z < u o 3 o 5 Sì SS - O —I w w o t p i - i i i i M i i i i i M ! : ---1« : : | : | i i ° S „ : M £ .5 i I uj 4$ s i i s | g 2 2 £ ; i i-5 i.° i s o il l ¡-2 E li Z . '■ |5 i 3 ° i i 5 8 ; g I § « i , V « £ ì / 0 « ° 1— — & / o 1. y m Sf c 2 g ì C f l \ \ \ 0 2 I Z | = - i i : ■ v . A i i i i » i i | i i : □ J £ ' § < f “■tri t z l B2s c M « Z o o i \ o) .= -j i i Ì i i i | • ■ i i i i M | i i i i i : ! " ¿ y n : i B J i ; 8 < 9 i i 5 5 I 2 « : : o o i5 i i \ g d l i i a * ! ; i -g s | ; ; z g. i o § £ o £ fi "5 £ : O tx> 2 3 o 5 8! g vi v> s v a i | ; i Ì i ò $2 ! I o o r I i i i £ ! i ® i i i ì : S ; • | I | « ; s i - O e _____ Ì B. - S i i v & £ s ^ 3 S i “ l J ^ : 5 V : m / l v ^ ----^ | ! " “ 1 i I N u o v a s e r i e - 1 1 < S a 2 E ~ 5 2 * < " E ^ 2 « 2 c SE > ? := Q _ — > 5 " •8 — ¿1 — • . i h i | I a 2 ^ o I C 3 SS m * l 5 i | « : i u lÌ ¡ 8. * g a c n «> jO *a s 5 n " 2 3 < 5 Sl s 2 • • i c S a ì i I ‘s i z : : : : i ! i i : : : : : : cn co S w : : d. c £ : y i o i S ' i ° 15 o 3 £ ; § « « : « : £ o ® Ì ■ - Q. o ! I I i I I | | i I l i I I I I 1 \ \ | / . / [ \ l V / ^-----------| i | i I I i r f & s * ^ _ E 5 o-r | 13 I * S “ ì i ! i s § ! f 1 5 S s a | | l < g ^ =1 3 1 g i s ; j m = s S ò 8 13 C ~ t> 8 — Ui t: I o O a c 2 . 1 S i f Z i S i feé ° “ £ o~ o • • o „ = « r: O i -S “ 3 -« 1/1 *2 O 3 -O Q- r ^ O _ •-§ =5 e S i i - “ s j ] s § 1= COaJ K o -g o°- 5 8 |à 5 - o S £ O p !^ « c ~ y - . _ >_D } » i S S “ < o i j > s ? S " ! S .5 » S z d S s i .! i . .a - t* - x ^ - c o u j“ o ._ 1- - « * - c 8 T’ 3 £ -E J 3 O Z u < g 5 ” | 1 J3 « 2 ■< ! < Ss s i SS’ -2 v O u U Q. ì: V u z = f f s ■“= O ° S 5 UJ0- « £ E c mZ™S I- J E CC £ « uj E •- -a “ < 2 E > 1 i s ! l < i ^ f | ^ .E a S E j e ì tirt4> 5 -9 c « -5 s > I I I | I | I i 9UB:;ei| aiR'jciQ 1WV I I Il D I L A Piazza in Campo Marzio, 5 - 00186 Roma A M M R A b b o n a m e n t i I t a l i a __________________________________ a n n u o I L . 1 5 . 0 0 0 I I s e m e s t r a l e L 8 . 0 0 0 E s t e r o ______________________________ a n n u o L . 2 0 . 0 0 0 s e m e s t r a l e L . 1 0 . 0 0 0 u n a c o p i a L . 1 . 5 0 0 Scrivere nella causale in STAMPATELLO il nome, cognome, dell’abbonato, e l’indirizzo con il CAP. L MENSILE DI SPETTACOLO - ANNO LUI - N. 3 4 - APRILE-MAGGIO 1977 LIRE 2.000 MARIO GUIDOTTI SPECIALE CECOSLOVACCHIA JIRI PELIKAN VAOLAV HAVEL VACLAV HAVEL FABIO STRELLI VITALIANO BRANCATI RENZO NISSIM ADOLFO LIPPI U.R. SILVANA GAUDIO LORENZO BOCCHI UGO RONFANI UMBERTO BONETTI UMBERTO BONETTI ALBERTO TESTA MAURIZIO LIVERANI FRANCO SCAGLIA SPECIALE TV COLORE UGO RONFANI TONINO DEL COLLE S O M M A R I O 4 Critica e pubblico 6 La riscossa dell’autore 9 Quando gli intellettuali hanno coraggio 11 La decadenza dopo la normalizzazione 17 Autoritratto di Havel 18 Resistiamo tutti insieme 20 Anticodici 21 Albergo di Montagna (commedia) 41 Un inedito di Vitaliano Brancati 43 Le nozze difficili (commedia) 61 La prosa - recensioni (a cura di Odoardo Bertani, Mario Guidotti, Angelo Libertini, Dante Cappelletti e Maurizio Liverani) 96 L'albero di Eduardo 98 Perché piace agli inglesi 101 Alla ricerca di un nuovo ruolo (intervista a Bruno D’Alessandro) 104 La Biennale tra russi e indiani 106 Ararat un viaggio affascinante 109 L’avventura di Guglielminetti 111 Adamov e Cocteau: due grandi ritorni 114 Situazione di Adamov 116 Siy Fox: farsa della cupidigia 118 Tennessee Williams sempre attuale 121 Balletto in Italia: una stagione di successi 125 Casanova e Fitzgerald: solo dannati 127 Teatro in Tv: Molto di nuovo; talvolta di buono 129 Un linguaggio tutto da inventare 135 Breve intervista a Antonello Falqui e a Sandro Bolchi 138 Macbeth da collezione. Schweitzer suona Bach 139 Libri (a cura di Dante Cappelletti) Comitato di direzione: Odoardo Bertani, Diego Fabbri, Mario Guidotti, Maurizio Liverani, Ugo Ronfani. Di rettore editoriale: Carlo Fuscagni. Condirettore editoriale: Angelo Libertini. Responsabile: Diego Fabbri. Segreteria: Anna Maria Menna. 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Cosicché spettacoli che la critica ha lodato raccolgono scarso consenso e a ltri che sono stati fieramente stroncati fanno teatri zeppi. E ci si liscia le mani soddisfatti come a dire : « lavo reremo in pace tenendo conto solo del giudizio del pubblico che è quello che conta ». Sarà o non sarà vero — ognuno è pronto a elen care una sfilza di casi che avvalorano la verità di questo nuovo corso — fatto sta che, se fosse vero, ci sarebbe poco da fregarsi le mani : vorrebbe dire che un grave processo di dissociazione sta ulterior mente corrompendo il corpo delicato del teatro. Che vuol dire che il pubblico accorre a vedere e ad applaudire proprio ciò che la critica ha biasi mato, mentre diserta annoiato quel che invece è stato indicato ad esempio di buon teatro? Che vuol dire che la « ragion pratica » la fa da padrona nei confronti della « ragion pura »? Che la critica non rappresenta più che se stessa anziché la maggio ranza del pubblico ; che le « guide », se non vogliam proprio dire i « maestri » — quali dovrebbero essere i critici — non persuadono che pochissimi lettori i quali intendono non farsi guidare che da se stessi e al suggerimento del,proprio giornale antepongo no l ’istinto, il fiuto, l’impressione irrazionale di un proprio gusto oscuro? G li allievi rifiutano, anzi igno rano quelli che fino a ieri venivano accettati quali « maestri »? G li anni dei D ’Amico, Simoni, Bernardelli, Pal m ieri non sono poi così lontani! I tempi in cui un giudizio di Simoni poteva riempire o vuotare un teatro milanese li abbiamo vissuti anche noi. E il caso di D ’Amico che dopo aver m altrattato uno spettacolo di Dina G alli torna a vederlo per ren dersi conto dei m otivi che spingono il pubblico a dissentire dal suo giudizio, e scrive un secondo a rti colo nel quale, pur senza cambiare sostanzialmente parere, spiega le ragioni della diversa valutazione, è fatto che ci ha visto testimoni. Che cosa è successo, in questi u ltim i lustri, da far sì che tra critica e pubblico si sia interrotta quella comunicazione fiduciaria che faceva della cri tica la rappresentante autorizzata del giudizio del pubblico? Poiché se il critico non rappresenta il pubblico o quantomeno quella parte di pubblico che rappresenta oltre se stesso? La verità di un giu dizio oltre le contingenze del momento, potrebbe ri- spondere con qualche arroganza il critico. Che non sarebbe, dunque, il rappresentante autorizzato e con sapevole del pubblico bensì di una verità teatrale che può essere in tuita in anticipo sui tempi e sulle mode. Quanto di più avrebbe faticato Pirandello ad imporsi se un Tilgher o un D ’Amico non avessero spezzato in suo favore, anche contro il pubblico, le loro lance di critici illum inati. E’ vero. Ma comun que, allora, c’era pur sempre tra critica e pubblico una continua, e profonda, comunicazione (forse pu re di contesa) che rendeva pubblico e critica una sola cosa, un mondo solo, il mondo di chi riceve uno spettacolo e lo giudica. Ma se il pubblico non sente più di essere rappresentato dalla critica, anzi vuole rappresentarsi da solo in nome di una libertà personale di giudizio che, alla lunga, diventa sprez zante, irrazionale, anarchico, il tessuto globale del teatro, il « gioco » dell’evento teatrale e delle sue componenti si straccia pericolosamente. E se la cri tica a sua volta non si preoccupa seriamente dell’iso lamento in cui rischia di essere lasciata, paga della sua quotidiana esercitazione non più convalidata dall’assenso del pubblico, ma dalle proprie ragioni estetico-critiche, il male diventa anche maggiore, la dissociazione delle parti può essere esiziale. A lla capricciosa anarchia del pubblico va oppo sto un segno di maggiore responsabilità — e anche di um iltà — da parte della critica che non può rassegnarsi a parlare da sola, con un suo linguaggio e con un suo gusto. Non che la critica debba ade guarsi al gusto del pubblico, ma chiedersi almeno i perché di certe disparità di giudizi, di certe mas sicce diversità di comportamento; e non appagarsi aristocraticamente della persuasione che il consenso del pubblico sarebbe l ’adesione al facile mentre la preferenza della critica sarebbe volta al nuovo e al più difficile. Dimenticando che il teatro, sempre, 0 si afferma come fatto popolare o rischia di sna turare se stesso. Ad ogni modo quanti si compiacciono di una crisi di credibilità o di attenzione che corroderebbe ormai la critica dimostra di non volere il bene del teatro. E la critica a sua volta deve dimostrare di saper ancora sedere nello scanno eminente da cui il teatro è giudicato e proposto come una realtà di poesia popolare in cui il pubblico ha una sua parte di comprotagonista. I l critico non deve solo fare 1 conti (o far l’esame) con l ’autore, il regista e gli interpreti, ma innanzitutto con il pubblico in mezzo al quale autorevolmente siede come portavoce. Il Dramma Recentemente un noto critico ha scritto un articolo intitolato « La riscossa dell’attore ». L’ar ticolo sembra essere al centro di un movimento di ribellione o se vogliamo di rivalutazione del ruolo dell’attore nell’avvenimento teatrale. E la riscossa dell’autore quando si avrà? Nessuno ne parla ep pure a dar retta a certi sintomi non dovrebbe essere lontano. Sono troppi anni, forse qualche decennio, che l’autore viene mortificato e, anzi, gli si è data la colpa della crisi del teatro quando si parlava di crisi (e temiamo che se ne debba ri parlare ancora). 'Per un lungo periodo l’autore è stato spodestato delle sue creazioni; anzi: non è stato più nemmeno considerato un creatore. E tutto è cominciato quando si è incrinato uno dei concetti fondamentali della filosofia dell’arte ap plicata al campo teatrale. E’ vero: un’opera tea trale non è come un romanzo, una poesia, un quadro, una scultura, una architettura. Essa esi ste in quanto rappresentata, acquista forma e movimento quando dalle pagine del copione sale sul palcoscenico, quando le parole diventano suoni, movimento, azione, gesti. L ’opera letteraria o di arte visuale non ha bisogno di intermediari con il pubblico, quella teatrale ha bisogno degli attori e, da quando è stata realizzata la grande rivoluzio ne del primo ’900 ha bisogno anche del regista. Il regista « additus artifici » è diventato il demiur go della rappresentazione, soprattutto con l ’avven to di Stanislavski. In questi ultimi tempi da de miurgo è stato promosso Dio della rappresenta zione teatrale soffocando l’attore e l ’autore insie- A causa dello sciopero dei tipografi siamo costretti a saltare il numero di Marzo e a uscire ancora con un numero doppio. Chiedia mo scusa a'i ¡lettori. Il iprossiimo numero sarà in edicola il 15 giugno. me. La polemica non è nuova e sappiamo di non dire cose nuove. Tuttavia se molto si è parlato dello strapotere del regista, niente si è detto sulla necessità di una reintegrazione dell’autore nel suo ruolo naturale per la buona salute dello spettacolo. Le fasi dello spodestamento dell’autore sono sta te due: dapprima come ho detto c’è stata la cre scita eccessiva del regista; il regista si è impa dronito della creazione artistica dell’autore, che era la creazione individuale, e l ’ha ricoperta dei suoi supporti, della sua cultura, della sua sensi bilità, del suo mondo morale. Invece di interpre tare le intuizioni estetiche e le idee del creatore ha ri-creato l ’opera consegnandola con precise disposizioni agli attori, i quali a loro volta hanno rinunciato a parte delle loro intuizioni per obbe dire al regista. Chi ci ha scapitato più ancora degli attori è stato però l’autore. Egli aveva inventato personaggi, vicenda o antipersonaggi e antivicende, significati o « non-sense » in piena autonomia, con un atto di assoluta libertà, pen sando però alle immagini e ai suoni. Un regista rispettoso della libertà dell’autore avrebbe dovuto pensare alla trasposizione di queste immagini e di questi suoni senza lederne la verità e la natura. In tal modo l ’autore sarebbe rimasto pienamente e unicamente responsabile del risultato spettaco lare, o se vogliamo dirla in gergo, del prodotto finito. Il regista di oggi, invece, si è servito del testo come di un canovaccio, ha manipolato la materia, ha mescolato le carte, a volte ha addirittura cambiato parole e frasi e parti, ha fatto di un comprimario un protagonista e di un protagonista un personaggio secondario, ha qualche volta mu tato il finale. La scusa è stata quella, tuttaltro che peregrina, deH’« adattamento alla sensibilità con temporanea », dell’« aggiornamento ». Come se un’opera d’arte potesse essere aggiornata e non fosse invece eterna e immutabile! E’ forse ag- giornabile una poesia del Leopardi? Si obietterà che il teatro non è arte pura; e sarà una menzo gna; il teatro, quando è tale, è prima di tutto arte, anche se è firmato da Brecht. E la recita zione, quando non è un fatto oratorio o politico, è arte. E la regìa è un atto di mediazione nella esplicitazione scenica dell’opera d’arte. La seconda fase dello spodestamento dell’autore è cominciata con l ’affermazione dell’awenimento teatrale come fatto assolutamente collettivo, con l ’attribuzione di un’importanza superiore a quella che hanno realmente, agli attori, agli scenografi, ai costumisti e a quanti collaborano alla rappre sentazione. Ebbene: non vogliamo considerare trascuratili questi « collaboratori ». Tutt’altro! Ci sdegnamo, anzi, quando il regista mortifica anche loro, soprattutto gli attori degradandoli a robot, ad automi. Tuttavia crediamo che neanche debba no interferire nell’opera, né nella sua nascita né nella sua rinascita. Viviamo in piena retorica del collettivo. E in teatro il collettivo può essere utile solo in casi eccezionali, in rappresentazioni di massa auto-drammatiche, ma guai a farlo inter ferire nella creazione! E neanche nella « ri-crea zione », nella quale si realizza un altro atto, di natura individuale, personale, appunto quello del l ’attore che si cala nel personaggio. Alcuni sintomi ci fanno pensare che la moda del collettivo sia al tramonto; esso può essere giustificato come preparazione, in un momento pre-artistico ; ma non può più essere considerato legittimo nel momento della evidenziazione estetica. (So che questi ter mini faranno sorridere i teorici delTimpegno po litico ad oltranza, i quali non riflettono che un’ope ra d’arte è politica quando è veramente tale, quando, cioè, è un risultato innanzitutto estetico). Alcuni sintomi, dicevo, fanno presagire una crisi latente in questa stessa stagione teatrale, in cui pure si registrano tante e tante compagnie e tante rappresentazioni (con poche novità, però). Le dis sacrazioni reggono finché sono poche e ad un certo livello, di una certa avanguardia, originale, ohe non scopiazza altra. Le « letture in chiave di », piacciono sempre meno. Il pubblico, pur drogato da certa critica e dai mezzi di comunicazione, comincia a dare segni di insofferenza. Le rappre sentazioni « d’autore », come il vino d’annata, riscuotono preferenze o nostalgia a seconda dei casi. Se ci si vuole salvare, si dovrà ritornare per forza a questa rivalutazione dell’autore. Qualcuno obietterà: « Ma dove sono gli autori? ». Gli autori, forse, sono più numerosi di quanto non si creda; e del resto, chissà che non siano stati scoraggiati proprio da questa invadenza dei registi e dei col lettivi e dalla mortificazione e svalutazione! Na turalmente occorre tutto un ripensamento della na tura dell’autore, che non può più essere quello di un secolo fa, della commedia borghese, per esem pio. Ma questo rientra nello stesso ripensamento della natura dell’uomo ; e l’autore è un uomo, che vive, oggi, partecipando alla vita della società, non avulso da essa; e pertanto, in virtù di questa sua partecipazione, non rimarrà chiuso nella torre d’avorio del proprio « io », e in questo senso, solo in questo senso, il suo sarà un teatro sociale e politico, e al tempo stesso personale. La « per sonalizzazione » non è stata mai in contrasto con la « socialità ». Naturalmente questo auspicio riguarda gli au tori militanti, creanti. Per quelli del passato, non c’è che da ripetere quanto abbiamo detto sopra: è necessario, diremmo che è funzionale, il rispetto. Rispetto per le loro opere che furono, in fondo, anche esse partecipi del loro tempo e pienamente storicizzate, in quanto, appunto, opere d’arte. Rispetto non vuol dire rinuncia all’approfondimen to; e l’approfondimento, in una opera d’arte, è infinito; non è detto che un regista ripeta quanto ha fatto un predecessore; ma l’approfondimento non vuol dire stravolgimento; e meno che mai tradimento. Mario Guidotti P e s a r o « p i ù c o s e i n u n a s o l a v a c a n z a » p e r in fo r m a z io n i: A z ie n d a A u to n o m a d i S o g g io rn o - P e s a ro P ia z z a le d e lla L ib e r tà - te i. (0721) 69341 L a « C h a r t a 7 7 » è l a v o c e d e l l a c u l t u r a Q u a n d o g h l i i n t e l l e t t u a l i a n n o c o r a g g i o di Jiri Pelikan Della Charta 77 si è parlato molto nei giornali italiani. Si sa che ella rappresenta una piatta forma comune delle personalità cecoslovacche di varie opinioni e tendenze; dai comunisti ai socia listi; dai cristiani ai liberali e ai rappresentanti dei vari gruppi sociali — intellettuali, operai e giovani — con lo scopo di chiedere il rispetto dei diritti civili che sono garantiti dalla Costituzione cecoslovacca e anche dagli accordi internazionali come i principi di Helsinki. Principi che lo stesso governo cecoslovacco ha sottoscritto, ma che so no invece sistematicamente violati e calpe stati. Tra i diritti, che rivendica la Charta 77 c’è anche « la libertà di esprimere pubblicamente il proprio pensiero » ma che è — come nota la Char ta 77 — « soppressa dalla direzione centrale di tutti i mezzi di comunicazione e di tutti gli orga nismi culturali e giornalistici. Nessuna idea poli tica, filosofica, e scientifica e neppure alcuna espressione artistica, che differisca solo un po co dalla stretta cornice dell’ideologia o dell’este tica ufficiali, può essere pubblicata » Già da 8 anni esiste in Cecoslovacchia un’oppo sizione molto articolata all’occupazione dèlie trup pe sovietiche e alla «normalizzazione»; un’oppo sizione politica e culturale che ogni tanto viene colpita dalla repressione molto dura (processi politici, purghe, liste nere di autori, emarginazio ne della vita pubblica, espulsione di lavoro e di scriminazione dei figli nelle scuole) ma che nono stante questo ha saputo resistere fino a oggi. Un posto di rilievo in questa opposizione occupano i migliori intellettuali: scrittori, artisti, scienziati, giornalisti etc. Non si limitano a protestare con tro la repressione e la censura; scrivono anche se non possono pubblicare nel suo proprio paese. Da molti anni esiste una casa editrice non autoriz zata, la « Edice-Petlice », che ha già pubblicato 90 libri di prosa, poesia, dramma e scienze so ciali tutti di qualità superiore rispetto a quanto è stato pubblicato dalle case editrici del regime. Non sorprende dunque che tra gli iniziatori a firmatari della Charta 77 siano molti i rappresen tanti della cultura e che essi si trovino anche tra le prime vittime della repressione scatenatasi subito dopo la pubblicazione di questo documento. Tra le numerose personalità arrestate tre sono uomini di teatro: Vaclav Havel, giovane scrittore e commediografo, che lavorava come dramma turgo ad uno dei migliori teatri di Praga « Na Zàbradli ». I drammi di Havel come « Zahradni slavnost » (La Festa di giardino) appartengono già al fondo d’oro della letteratura ceca. Un altro firmatario arrestato, Ota Ornest, già direttore del Teatro di Municipalità di Praga è noto regista e traduttore di testi inglesi. Frantisek Pavlicek, an che lui ex-direttore'del Teatro Na Vinohradech a Praga e autore drammatico molto impegnato. Era anche membro del Comitato centrale del Partito comunista da cui è stato espulso, con 480.000 altri, nel 1970. Il quarto arrestato è il giornalista Jiri Lederer, collaboratore dei giornali « Literarni Listy » e di « Reporter ». Tra altri firmatari che sono oggetto di fermi di polizia, delle interrogazioni, delle perquisizio ni e di una campagna di calunnie nella stampa ufficiale sono, per esempio, il più grande poeta cèco Jaroslav Seifert, gli scrittori Pavel Kohout, Ludvik Vaculik, Jan Topol, Jiri Kolar, Alexander Kliment, Dominik Tatark e molti altri. Ma tro viamo qui anche il nome di un’attrice molto fa mosa, Vlasta Chramostova, che era, nel 1968-69, presidente deH’Unione degli attori; allontanata dal teatro per il suo impegno politico in favore delle idee della «Primavera di Praga»; poi l’at tore del Teatro « Cinoherni klub » Vaclav Landov- sky e la grande cantante Marta Kubisova che a causa delle sue idee sul regime non può più appa rire sui palcoscenici. Si può dire, senza esagerazione, che il meglio della cultura ceca si trova impegnato nella lotta per i diritti civili, nel movimento Charta 77; e questo meglio della cultura è condannato dal re gime al silenzio assoluto. Molte personalità politiche e culturali italiane hanno già espresso la loro solidarietà con i fir matari della Charta 77 e la condanna della repres sione. Di questo noi cecoslovacchi amanti della libertà siamo loro molto grati, perché solo la solidarietà e le proteste dell’opinione pubblica occidentale possono evitare una nuova ondata repressiva di tipo staliniano. Queste loro prese di posizione sono anche di incoraggiamento mo rale per tutti coloro che in Cecoslovacchia si bat tono per la libertà d’espressione e i diritti civili. Ma si deve fare ancora di più! Tutto il mondo del teatro italiano deve unirsi per chiedere la libera zione immediata dei loro colleghi Vaclav Havel, Ota Ornest, Frantisek Pavlicek. Deve esigere la fine delle persecuzioni in Cecoslovacchia! Dalla commedia « Gatta sul binari » di Josef Topol, messa in scena dal regista Otomar Krejca « Le maschere di Ostenda » di M. de Ghelderode, messa in scena dal regista Otamar Krejca / / t e a t r o c e c o a o t t o a n n i d a l l ' in v a s io n e s o v i e t i c a L a d e c a d e n z a d o p o l a « n o r m a l i z z a z i o n e » Chi ricorda la « primavera di Praga », sa quale contributo è stato dato ad essa dal teatro e dal cinema. Chi era a Cannes nel maggio del 1968, pochi mesi prima cioè che i carri armati sovietici soffocassero sul nascere il « socialismo dal volto umano », ha viva nella mente alcune immagini di film cechi ricchi di umori anticonformisti e irridenti il potere. Era la prima volta che in un paese del l’Est comunista si registrava una fioritura di opere così irriverenti. La « normalizzazione » si accani sce, da allora, soprattutto contro il teatro e il cinema cui Dubcek aveva concesso piena libertà. L’ar ticolo che pubblichiamo illustra come al teatro di Praga sia stato messo il bavaglio. L'autore è un critico cecoslovacco; vive a Praga, e ci ha chiesto dì non rivelare il suo nome. Considerando come inizio del tentativo siste matico di normalizzare la vita e la cultura in Cecoslovacchia l’estate 1969, il momento cioè in cui Gustav Husàk è diventato capo del gruppo di rigente, è lecito domandarsi quali siano i risul tati della politica di « normalizzazione » nel cam po della cultura e quale sia la produzione c'he questi otto anni ci offrono. Ci interessa prima di tutto il teatro di prosa ceco. Possiamo constatare subito che, nonostan te tutti gli sforzi « normalizzatori », il potere non è riuscito a decimare il teatro nella stessa misu ra in cui ha soffocato ad esempio il cinema. Una delle ragioni di questo fatto è che la ricca e di ramatissima rete teatrale non poteva essere cen tralizzata di colpo, così strettamente come la pro duzione cinematografica, e che la sostituzione dei direttore qualificati con ubbidienti funzionari di ogni sorta avveniva solo gradualmente, a diffe renza del cinema dove il cambio di personale è stato effettuato in un breve lasso di tempo. Nei teatri invece, dove per un certo periodo hanno resistito persone qualificate e di cultura, è stato possibile frenare le epurazioni e tenere sotto con trollo i carrieristi ambiziosi e di scarso talento ma consapevoli dell’eccellente occasione di arri vare che offriva loro la poltica husakiana di « nor malizzazione ». Sventolando la tessera del parti to e proclamando ad alte voce il loro consenso aH’intervento militare sovietico del 1968, essi in trapresero -con accanimento la conquista di posti importanti nel teatro ceco e nella sua ammini strazione. Cerchiamo adesso di vedere nei tratti princi pali qual’è la situazione e il livello del teatro ceco d,i prosa dopo otto anni di questa «norma lizzazione ». I dati statistici concernenti i teatri, le prime e il numero di spettatori ci saranno di poca utilità. La notevole diramazione della rete teatrale sul territorio della Boemia e della Mo ravia infatti non è opera dell’ultimo decennio Per quanto riguarda la pubblicazione di opere e di riviste teatrali troviamo invece che essa è sta ta completamente soffocata dopo il 1969 tanto che oggi non esiste nemmeno una rivista teatra le ceca. Il numero delle prime è spesso regolato più dalla necessità di sostenere l’andamento del teatro che non da iniziative culturali. Per quel che concerne l’affluenza del pubblico, non abbia mo la minima intenzione di accusare i direttori di teatro di falsificazione delle statistiche sul nu mero degli spettatori (come accade invece nei cinema, dove, dal momento che alcuni film di produzione sovietica e cecoslovacca attirano un bassissimo numero di spettatori, viene dichiara to il 100% in più -di biglietti venduti). Il teatro ceco offre senza dubbio un maggior interesse e una migliore qualità della produzione televisiva e cinematografica cosiddetta « impegnata » e go de quindi a ragione di maggior attenzione da parte degli spettatori. Queste osservazioni però non ci illuminano ancora molto sul vero livello della nostra produzione teatrale, né ci permetto no di fare paragoni con il periodo precedente o con la produzione internazionale. Gettando un rapido sguardo nelle sale dei tea tri si potrebbe pensare che tutto sia in ¡perfet to ordine. I teatri funzionano, gii spettatori so no molto più numerosi che per i nuovi film ce chi, si scrivono nuove commedie che vengono allestite, ogni anno si svolgono vari festival tea trali, vengono indetti concorsi e distribuiti pre mi, e tutto questo sembra testimoniare il conso lidamento del teatro e il successo degli otto an ni di «normalizzazione». Ma andando a vedere più da vicino le troupes teatrali, gli studi degli autori e le riunioni dei direttori si rimane colpi ti da assoluta assenza di qualsiasi atmosfera di creatività e di lavoro. E infine, valutando sen za eccessive pretese le più importanti messe in scena, confrontando la produzione attuale con quella anteriore al ’69 e notando l’abisso tra gli ambiziosissimi programmi e la loro successiva realizzazione, non possiamo non essere profon damente preoccupati. Si sta dimostrando infatti che la situazione attuale della cultura teatrale ceca non viene determinata dalle esigenze della vita culturale, né dalla continuità della tradizio ne, né dalla normale prassi quotidiana dell’atti vità teatrale e tanto meno dalla potenza creati va dei più grandi autori, bensì viene influenza ta e determinata in maniera decisiva dalle con seguenze dei cambiamenti di personale che si so no verificati e si verificano ancora [dato che le epurazioni continuano] negli ultimi otto anni. Di quali cambiamenti si tratta? Prima di tut to sono state allontanate dai posti chiave del tea tro tutte le personalità di primo piano. Circa il 95% dei direttori di teatro sono stati licenziati, rimossi dalle cariche o messi in pensione. In un secondo tempo è stata notevolmente limitata l’in fluenza dei più produttivi e innovatori rappre sentanti della regia teatrale ceca. Nei primi quattro anni della « normalizzazione » a una gran parte degli autori è stata inflitta la « multa » per aver espresso precedentemente opinioni progres siste: sono stati messi da parte nei teatri e con temporaneamente è stato loro precluso il lavoro nel cinema, in televisione e alla radio. Negli ul timi tempi questi provvedimenti amministrativi vanno attenuandosi e al giorno d’oggi gli attori cechi colpiti da queste repressioni sono « solo » quattro-centocinq-uanta; a molti di loro viene im pedita ogni possibilità di lavoro in teatro. Un altro fattore importante nella « normaliz zazione » del teatro è la produzione di testi. E’ vero che anche prima del 1969 gli autori dove vano spesso scontrarsi con l’imposizione di pre giudizi ideologici e idee dogmatiche sulla funzio ne sociale, la necessità e i bisogni del teatro, ma ciononostante in alcuni periodi essi sono riusciti ad affermare un repertorio aperto a tutti valori importanti e accessibili del teatro mondiale e, concentrandosi intorno ad alcuni gruppi teatrali, a creare lo spazio per una più ricca produzione di testi teatrali. Di questa ricca attività degli anni sessanta rimane oggi appena qualche bri ciola. Nella stragrande maggioranza dei casi, i programmi teatrali vengono stabiliti in base alle direttive del partito e degli organi amministrati vi, dato che il teatro è considerato -uno -dei setto ri dell’ideologia e della propaganda; i teatri sono sommersi da -commediol-e sempliciotte da quat tro soldi provenienti da altri paesi dell’EuroDa Orientale, la cui funzione è manifestare la lealtà nei confronti degli alleati della Ce-cpsl-ovacchia. Dopo venticinque anni -fanno -il loro ritorno stille titoli di triste fama degli anni -cinquanta, mentre quasi nessuno spazio viene concesso alle dìù grandi opere del teatro -dei paesi non socialisti. E -anche quando un teatro -decide di mettere in scena un autore occidentale, vengono preferiti te sti non nuovi già rappresentati in- -Cecoslovacchia. Analogamente a quanto -successe sotto roccupa- zione nazista, la base -del repertorio -del teatro -ceco è oggi eosti-tu-ita dai -classici -cechi e stra nieri. Ma dobbiamo constatare che -anche qui, persino le opere di alcuni classici cechi che era no riuscite a passare per le -maglie -della cen sura -del « Protettorato » nazista, vengono boccia te dagli odierni -tutori -della purezza ideologica. La sp-iegazone -che viene fornita in proposito è che il pubblico potrebbe interpretare queste ope re tendenziosamente. [Il popolo ceco dovette in passato combattere duramente per il diritto a un’esistenza libera -e autonoma e questa nota -com battiva, oggi ben poco gradita alle autorità, ri suona in molte opere classiche]. Tutto sommato possiamo però dire -che il -teatro classico sembra paralizzante: le messe in scena di 0. Krejca, L. Pistorius, J. Pleskot, 0. Ornest, M. Machàcek. V. Hudecek e di alcuni registi più giovani rap presentano l’unico legame con la ricca produzio ne teatrale degli anni ’60. Il teatro classico -anche in passato era una delle componenti principali del repertorio del teatro -di prosa ceco. La s-ua sp-i-na -dorsale Dorò era costituita dallo stretto legame -fra 1-a pro grammazione e la produzione contemnoranea di autori cechi. Visto che, per ragioni di spazio, non possiamo qui dimostrare quanto abbiamo detto sopra -con esaurienti elenchi di spettacoli messi in scena né con dettagliate analisi, né possiamo occuparci di spettacoli allestiti in oc casione dei vari anniversari -dello stato e -degli avvenimenti del partito (prassi questa, che sta diventando un’abitudine), faremo almeno il qua dro -della situazione per quanto concerne la pro duzione contemporanea ceca e la sua sorte sul palcoscenico. E’ generalmente noto di fatto che tre quarti dei -circa quaranta autori -cechi che negli ultimi 25 anni si sono dedicati -pienamente 0 saltuariamente al teatro, non possono -già da sette anni pubblicare le loro -opere in Cecoslo vacchia. (E non è -un caso il fatto -che tra questi trenta nomi -troviamo -tutti i più grandi a-utori). Il divieto non vale -solo per i loro nuovi lavori, al ban-d-o sono tutte le loro -opere; le loro com medie sono state tolte -dalle biblioteche -e distrut te, i manuali di letteratura ceca -dove si trova vano -i nomi non graditi so-no spariti dalla circo lazione e sostituiti con altri in cui -non si fa nessun -cenno alla maggior parte d-i scrittori, poeti, teorici e critici -cechi viventi. A questo destino non sono sfuggiti nemmeno i -cosiddetti autori operai che già er-ano stati istruiti e in trodotti -nella vita culturale -dallo -stesso partito e la -cui opera veniva -dichiarata dalla -critica ufficiale « pietra angolare della cultura socialista ceca ». Il criterio principale di tutte le epura zioni e scomuniche era -(ed è finora) la presa di posizione nei confronti dell’intervento militare sovietico in Cecoslovacchia -del ’68, la disponi bilità -o meno -di rinunciare alle -proprie -convin zioni e di fare una pubblica autocritica -per le posizioni -e idee -manifestate allora. I risultati di -queste repressioni -sono noti. Una 'delle -conse guenze -che ne derivano è un’interr-uzione della produzione teatrale ceca senza precedenti nella nostra storia. E’ sparito dalle scene quasi tutto quello che è stato scritto negli ultimi venticinque anni e -il teatro di prosa ceco è stato costretto a prendere altre vi-e. Cerchiamo di vedere q-ual è questo nuovo orientamento. Per ragioni di spazi-o ci limitere mo ai teatri praghesi, -crediamo nero che que sta « pars -p-ro t-oto » si-a un campione rappre sentativo. In -uno stato in cu-i la cultura è am ministrata rigorosamente dal -centro e messa sot to -controllo ideologico, la vita tea-tra-l-e dei cano- luoghi di provincia e -di regione riflette con -mag giore o minore -successo gli avvenimenti del-la ca pitale. In un’atmosfera di stretta subordinazione al partito nessuna deviazione regionale e -nessun tentativo di specificità Jo-cale sono approvati. Praga ha oggi 17 teatri, di cui 3 di mario nette e uno specializzato per bambini. Nel ’76. da gennaio a -marzo, vi abbiamo potuto vedere 1 seguenti 9 allestimenti di nuovi spettacoli (di cui quattro per bambini) che rappresentano il frutto di due stagioni teatrali: Jan Jilek, « San Silvestro », Teatro Vinohrady — Otto Zelenka, « Boomerang », Teatro ABC — Jan Oteenàsek « Week-end a metà settimana », Teatro da Ca mera — Eduard -Petisk-a, « La brigantessa », Tea tro da Camera — Marie Ku-bàtovà, « La rivolta di hastrman », Teatro S. K. Neumann — Vàelav Ctvrtek, « La piccola maga cattiva ». Teatro J. Wolker — Jan Jilek, « Il grande mistero ». Tea tro J. Wolker — Jan Jilek, « L’Alto, il Largo e il Tuttovedo », Teatro J. Wolker — V. Postulka- B. Ulrych, « Dinamite 18 », Teatro J. Wolker. fa sbalordire. Prima del 1970 non costituiva un’ec cezione il triplo della produzione odierna. Forse la scarsità quantitativa è controbilanciata da una superiore qualità della produzione? Putroppo è vero il contrario. Anche essendo più che bene voli non potremmo indicare nemmeno una delle commedie come avvenimento di grande rilievo. Dopo tutto, gli stessi amministratori e direttori di teatro si esprimono '(naturalmente al di fuori dell’attuale commediografia. insieme di rappresentazioni non Questo A parte i più recenti lavori qui riportati, nel repertorio dei teatri di prosa praghesi troviamo ancora '8 opere teatrali scritte negli ultimi de cenni. Ma tra di loro una sola — «La notte di cristallo » di Hrubin — rappresenta un testo letterario di indubbia qualità poetica; la messa in scena di questo spettacolo risale però agli inizi degli anni Sessanta e al gruppo 0. Krejca- K. Kraus, colpito anch’esso dalla ondata di re pressioni. Qual è il quadro intero della produzione tea trale cecoslovacca? ¡Secondo un bilancio ufficio so, durante la stagione 1974-75 si sono scritte e messe in scena 51 opere teatrali ceche e slovac che, compresi gli spettacoli per bambini e i testi per teatri di marionette. (Non siamo riusciti ad accertare quanto, dell’intera produzione, sia di lingua ceca). Dobbiamo decisamente ammettere che tutto questo non è poco. Ma questa grandez za inizia a diminuire nel momento in cui cer chiamo di verificare la qualità di queste opere. Considerando il fatto che nemmeno le due mi gliori rappresentazioni praghesi sono superiori alla media mentre le altre oscillano tra allesti menti alla buona e fallimenti assoluti, dietro al numero imponente di 51 spettacoli non possiamo più nascondere l’amara constatazione che gli otto anni di teatro « normalizzato » non sono tra quelli più ricchi. L’invito a passare dalla quan tità alla qualità che la critica ufficiale non smet te di ripetere, non fa che confermare questa constatazione. E, per completare il quadro, pos siamo ancora aggiungere che la maggior parte delle 51 novità è il frutto dei concorsi obbliga tori indetti dalle regioni per il teatro, la prosa e il reportage, in occasione del trentesimo anni- versario della liberazione della Cecoslovacchia, e che, nella maggior parte dei casi, i premi so no stati distribuiti solo perché l’attività nel cam po della politica culturale mostrasse qualche ri sultato agli occhi dei burocrati del partito. Al cune opere nate in questo modo sono state alle stite da un solo teatro di provincia, e il numero di rappresentazioni si poteva contare sulle dita di una mano. Questo è dunque il quadro di « una delle più ricche stagioni del teatro ceco e slovacco » (co me afferma la propaganda ufficiale ohe oggi sostituisce quasi completamente la critica). E ci viene in mente una barzelletta.degli anni Ses santa che racconta come Chruscov in una delle sue brillanti improvvisazioni visionarie /(nel con testo della parola d’ordine « raggiungere e suoe- rare gli USA ») decise di sfidare il presidente americano in una corsa campestre. Il giorno successivo la TASS così diede notizia dell’incon tro: «in un ’impor tante gara, dove tra gli altri abbiamo avuto per concorrenti gli Stati Uniti, siamo riusciti a conquistare l’eccellente secondo posto. Gli Stati Uniti sono finiti al penultimo posto ». Non vorremmo suscitare l’impressione che la colpa della stagnazione e della decadenza del teatro ¡ceco sia tutta degli autori « permessi » dalla politica attuale. Non è escluso neanche il fatto che, negli ultimi otto anni, siano apparse sulle scene sotto nomi falsi anche opere interes santi di autori « proibiti ». Ma, a nostro parere, neanche queste rare imprese sono riuscite a diventare importanti avvenimenti artistici nel ve ro senso della parola. Dove cercarne la causa? Probabilmente soprattutto nello Stesso -clima po litico e culturale della Cecoslovacchia. Le conse guenze della « normalizzazione » hanno gettato l’intera cultura ceca in uno stato di anormalità in cui ogni tentativo artistico vero, ossia libero, ogni opera e ogni spettacolo sono resi impossi bili a priori. E quando, nonostante -tutto, qual cosa nasce, interviene immediatamente un rigo roso controllo ideologico. Interventi sui testi, cen sura -di passi scomodi, rinvìi di prime e chiusure anticipate di spettacoli che incontrano un’eco non desiderata non sono un’eccezione. Possiamo ri cordare un unico avvenimento di valore : « La quadriennale praghese 1975 ». -una grande mo stra dedicata alla scenografia mondiale che -do cumentava Falto livello di lavoro scenografico e la ricchezza di impulsi e di idee con cui esso contribuisce allo sviluppo del teatro. Nella misura in -cui questi ultimi otto anni il teatro -ceco si trova impoverito di avvenimenti artistici, si è arricchito invece di « avvenimenti » che oggi difficilmente sarebbero possibili in un contesto diverso dalla Cecoslovacchia degli anni Settanta. Perché in quale altro luogo potrebbe assumere dimensioni così mostruose l’intervento della polizia e della parte più reazionaria dell’ap parato di partito contro la rappresentazione del l’Opera del mendicante di Vàclav Havel. uno spettacolo allestito da amatori nel novembre 1975 in una sala della periferia praghese con il bene stare degli organi amministrativi locali Alla rappresentazione — sottolineiamo approvata hanno partecipato sì e no trecento spettatori. La Pubblica sicurezza non solo non ha esitato a impiegare ingenti forze d’ordine per impedire questa « provocazione diretta contro lo stato » ma è riuscita addirittura ad ottenere il licen ziamento di alcuni spettatori colpevoli di avervi partecipato, mentre altri, compresi alcuni attori di grande valore, aspettano la lettera di licen ziamento da un giorno all’altro. A un’eccellente attrice ceca che, per volontà degli « a-pparatniki », era rimasta per più anni senza lavoro, è stata rifiutata anche una « scrittura di carità » in un teatro di provincia con il quale aveva già fatto il contratto. Molti altri partecipanti vengono co stretti a produrre dichiarazioni in -cui si con danna lo spettacolo e l ’autore. la rappresentazione Un altro « avvenimento » non meno -incredi bile è costituito dal fatto che secondo l’ordine dell’apparato -di partito della città, a Praga, ven gono censurati spettacoli di autori sovietici, rap presentati ogni giorno in tutti gli altri posti, con il pretesto che durante il pubblico potrebbe avere « reazioni non deside rate ». La messa in scena di alcuni testi di com mediografi sovietici inviati in Cecoslovacchia nel l’ambito degli scambi culturali è stata proibita perché secondo il parere dei burocrati politici, « lo spettatore ceco non è ancora maturo per poter recepire in maniera giusta lo spirito cri tico di queste commedie » -(che, detto tra noi, è alquanto scarso), e per giunta manca in Ce coslovacchia -« il solido retroterra della società sovietica ». -« Avvenimenti » di questo genere sembrano l’unica -cosa -che ci si possa aspettare da un ambiente diretto da persone prive di istruzione, di cultura, di moralità e -di respon sabilità, e che per di più sono convinte che l’arte vada amministrata -come un territorio -ne mico conquistato -con le armi. Non possiamo aspettarci nulla di positivo neanche da chi ha influenza « all’interno » della cultura, -cioè da quei registi, commediografi e attori che devono la loro -posizione non alle loro capacità e al loro -talento bensì al loro servi lismo e alla disponibilità di fare qualunque cosa purché sia ben pagata. E se oggi in Cecoslovac chia -viene ogni tanto sottolineata ufficialmente la funzione sociale del teatro, con essa si inten de soprattutto il dovere di contribuire con mezzi teatrali all’efficienza della poco intelligente pro paganda politica. E gli appelli invocanti la rina scita della funzione di ricerca (appelli d’al-tron- L a m o rte d i P a to c k a I l f i l o s o f o d e l l a « C h a r t a 7 7 » Il filosofo cecoslovacco Jan Patocka, uno dei principali esponenti della nuova dissidenza e firmatario di « Charta 77 », è morto. Aveva settantanni. Il noto studioso era ricoverato da dieci giorni, all’indomani di un estenuante in terrogatorio. Gli inquirenti volevano scoprire co me si era svolto il recente colloquio tra l’an ziano professore e il ministro degli esteri olan dese Max Van Ber Stoel, venuto in Cecoslo vacchia in visita ufficiale, senza che i servizi di sicurezza incaricati di sorvegliare i dissi denti riuscissero ad impedirlo. Tra le altre accuse, che avevano turbato moltissimo Patocka vi era quella di « simpatie per i nazisti » du rante la seconda guerra mondiale. La stampa, in proposito, aveva scatenato anche una in credibile campagna diffamatoria. Il professore si era riproposto, tra l’altro, un’azione giudi ziaria per ottenere soddisfazione contro questi attacchi, che si inquadrano nella campagna diffamatoria in atto in Cecoslovacchia contro gli esponenti del dissenso. Con la morte di Jan Patocka, i firmatari di « Charta 77 » si trovano virtualmente senza portavoce. Nel frattempo al drammaturgo Vaclav Havel è stata prolungata la reclusione di un altro mese. La morte di Patocka, in ogni caso, rientra nel quadro del linciaggio morale e psicologico cui vengono sottoposti gli intellettuali dissidenti cecoslovacchi. Jan Patocka era nato nel giugno del 1907, aveva svolto i suoi studi nelle maggiori univer sità europee (Berlino, Parigi, Friburgo). Era stato allievo di Husserl e Heidegger. Dopo aver avuto la cattedra di filosofia all'Univer sità di Praga, ne venne estromesso nel ’48, con l’avvento al poter del partito comunista. Riabilitato al tempo della « primavera di Pra ga », fu nuovamente messo in disparte e pri vato della docenza dopo la « normalizzazione » comunista del ’68. Nel mondo della cultura era conosciuto per aver curato la pubblicazione, in Cecoslovacchia, delle opere di Hegel e Hei degger. Sono' famosi anche i suoi studi su Maritain. Con Patocka scompare una delle voci più significative del pensiero filosofico europeo. F. Husak, P. Cepek e J. Hrzan in « La mandragola » di Machiavelli, messa in scena dal regista Jiri Menze de sempre più rari), altro non sono che la ripe tizione di una vecchia mistificazione. Lo spazio per una rcerca è qui determinato come quello ad esempio di cui godono i ragazzini delle medie inferiori quando possono infinite volte e secon do un piano prestabilto « scoprire » come immer gendo un oggetto di metallo in una soluzione di vetriolo appaia il rame Probabilmente nessuno ci invidierà le conqui ste del teatro ceco « normalizzato ». Nemmeno le prospettive sono promettenti, cerchiamo tutta via di non essere pessimisti. L’attuale situazione del teatro ceco, più che testimoniare una dege nerazione interiore e organica dell’arte teatrale, rappresenta un sintomo della crisi generale del sistema di potere e illustra lo stato morale in cui si -trova la società. Comprendere questo stato di cose e prenderne atto può già costituire un presupposto per i cambiamenti futuri. In fin dei -conti non c’è ragione per essere troppo pessi misti. Accanto alla scarsa produzione ufficiale, glorificata pubblicamente e denigrata in privato dagli stessi funzionari del regime, esistono in manoscritto più di due decine di testi teatrali che superano di gran lunga il livello della pro duzione ufficiale e i cui autori sono -quelli -co stretti al silenzio. Come preventivo per il futuro non è poco — e non è poco nemmeno come -prova del fatto che la vera arte non si può comperare né liqui dare -mettendole una museruola. Non è senza interesse il fatto -che molte volte a fornire l’im pulso a queste opere manoscritte è stato proprio il clima in cui vive oggi la società cecoslovacca, il clima di slogan e di programmi in cui, nel momento stesso della loro proclamazione, non credono neanche i capi del partito e dello stato, e tutta quella infinità di avvenimenti incredibili ma reali -che si depongono in noi come una espe rienza empirica. Il teatro -ceco oggi -esiste -e si sviluppa in -una società n -cui la produzione artistica (la lotta -cioè per scoprire la verità) è permessa solamen te a coloro che sono disposti a scrivere e ad agire contro le proprie convinzioni (disorientan do quindi il pubblico). L’attività teatrale si svol ge in un sistema in cui capita ad esempio che un membro del governo notoriamente alcoolizza- to si faccia promotore della campagna contro l’alcoolismo, in -cui un personaggio pubblico co nosciuto per le sue clamorose avventure si fac cia profeta -di una nuova morale civile. L’odier no teatro ufficiale ceco non può -essere diverso da ciò che lo determina. E’ alla fine, anche se non fosse minacciato dal ristagno causato da un lato dall’imposizione ideologica e -dall’altro dal l’appoggio della parte corrotta dei suoi rappre sentanti ufficiali, il teatro ceco non -potrà esiste re e svilupparsi pienamente finché anche -un solo artista ceco, la -cui voce risulta sgradevole a coloro che detengono il potere in Cecoslovac chia, sarà costretto al silenzio. A d u t o r i t r a t t o i H a v e i facoltà maturgia alla teatrale, ma non venni accettato. Feci allora il macchinista nel teatro ABC; un anno dopo sono passato, sempre come macchinista al teatro Na zabradli (Alla ringhie ra), dove mi trovo ancora oggi, dapprima come elettricista, poi come segretario, poi come let tore e infine come drammaturgo. Nel 1961 ave vo fatto di nuovo domanda per essere ammesso alla facoltà teatrale, ma nemmeno questa volta ero stato ammesso. Soltanto nel 1962, quando ero già drammaturgo al teatro Na zabradli, venni ammesso a studiare drammaturgia per corrispondenza. Posso dire pertanto di aver com pletato la mia educazione preparandomi agli esa mi di ammissione alle varie facoltà; è un siste ma che posso senz’altro raccomandare, ma deb bo mettere in guardia contro il pericolo di ve nire alla fine accettati da qualche parte. Passiamo ora alla mia opera. Fin da quando avevo sedici anni ho cominciato a scrivere so prattutto poesie, oltre a considerazioni teoriche di vario genere, vizio che mi è passato soltanto durante il servizio militare. Per mia grande for tuna a quell’epoca i debutti poetici non venivano accolti col favore con cui sono accolti oggi, co sicché ora non mi tocca vergognarmi di fronte ai frequentatori di rivendite di libri usati per le profonde esplorazioni da me condotte nei mondo dei sentimenti. Soltanto durante il servi zio militare ho cominciato a interessarmi di teatro, perché là il far parte del complesso filo- Sono nato a Praga nel 1936, ho finito la scuo la elementare durante la guerra e la scijola me dia nel 1951; quando volevo proseguire al liceo gli studi che avevo iniziato non troppo brillante- mente, sono stato invece inviato a imparare il mestiere di aiutante di laboratorio farmaceutico e come tale ho lavorato quattro anni Intanto fa cevo il liceo seguendo dei corsi serali. Poi ho chiesto di essere iscritto alla facoltà di chimica, un po’ perché la clinica m’interessava abbastan za e un po’ anche perché, dato il lavoro che avevo svolto fin’allora, non potevo entrare in nessuna altra facoltà. Non sono stato accettato. Un anno più tardi ormai la chimica non m’interes sava più, ma riuscii a farmi ammettere a soste nere gli esami di ammissione alla facoltà di sto ria dell’arte. Ma non venni accettato neanche lì. Provai poi con la facoltà di filosofia, ma sic come non mi vollero, andai a studiare econo mia del fa coltà dove acconsentirono a prendermi. Speravo ingenuamente che finito per interessarmi. Resistetti due anni, poi riconobbi di aver commesso una leggerezza e cercai di passare alla facoltà cinematografica. Però non venni accettato. Andai poi a fare il servizio mi litare dove, con mia grande meraviglia, venni accettato immediatamente. Ciò accadeva nel 1957. Quando, due anni dopo, avendo raggiunto il gra do di soldato semplice, venni smobilitato, feci domanda per essere ammesso a studiare dram- trasporto automobilistico: l’unica la cosa avrebbe drammatico del reggimento offriva la possibili tà di sottrarsi ogni tanto alle esercitazioni mili tari. Ho impersonato la figura del tenente Skro- vanek nelle - « Notti di settembre » di Pavel Ko- hout, e anzi recitavo con tanta convinzione che, per la mia partecipazione alla rappresentazione della commedia, sono stato severamente giudi cato dal comandante di compagnia, nonché pri vato delle funzioni di carrista e di presidente della sezione della gioventù comunista in seno alla compagnia; Skrovanek infatti è un perso naggio negativo, che ambisce alle funzioni di comandante di compagnia. (Questo raro caso d’immediato e spontaneo accostamento della vi ta al teatro si è effettivamente verificato). In seguito ho impersonato la figura del caporale Trojan (anche questa è una figura negativa, evi dentemente era quella la mia vocazione) nella commedia di ambiente militare « Una vita da vanti », che ho scritto in collaborazione con l’amico K.B. per uso e consumo del nostro com plesso tale che potesse recitarvi il maggior numero possibile di compagni. Pare che ancora oggi i competenti circoli dell’esercito discutano sul reale signifi cato di questa commedia. filodrammatico, costruita in modo Testo d i un messaggio d i H avel le tto a lla radio cecoslovacca in una trasm issione clandestina del 22 agosto 1968 Dopo il servizio militare e quando sono sta to finalmente ammesso alla facoltà di dramma turgia, il teatro ha cominciato a interessarmi seriamente e da allora pubblico ogni tanto degli articoli teorici o critici sulla rivista « Divadlo » (Il teatro). Ho cominciato anche a scrivere delle commedie, di cui ho fatto leggere qualcosa a Ivan Vyskocil che, sulla base di queste letture, mi ha fatto assumere al teatro Na zabradli. In collaborazione con lui ho scritto la commedia « Autostop », e in collaborazione con Milos Ma- courek « I migliori rock and roll della signora Hermanovà»; quindi, da solo, «Festa agreste» e « Memorandum ». Ho scritto anche una rac colta di poesie tipografiche intitolata « Antikody » (Anticodici). Il mio lavoro attuale si svolge so prattutto con la compagnia di prosa del teatro Na zabradli che. soito la direzione di Jan Gross- man, ha secondo me buone possibilità di fare del buon teatro. Questo è tutto. Non molto tempo fa uno scrit tore cèco, in una sua confessione al pubblico, ha ostentatamente ripetuto il verso di Neruda: « Sono felice di essere stato tutto quel che sono stato». Io questo non posso dirlo: infatti mi è capitato di fare tante cose che mi hanno bensì arricchito di una preziosa esperienza, ma che non mi piacevano né m’interessavano. L ’impor tante è che m’interessa ciò che faccio ora. Cari amici, quella che stiamo vivendo in queste ore in Cecoslovacchia è certo una singolare occupazio ne. Forse è proprio questa una delle occasioni in cui le mitragliatrici e i carri armati si dimo strano impotenti contro il pensiero e la forza morale dell’uomo. In Cecoslovacchia ci sono mi gliaia e migliaia di carri armati e soldati stra nieri armati fino ai denti e ne arrivano in con tinuazione di nuovi. Nonostante il fatto che la occupazione duri ormai da quarantott’ ore e no nostante il fatto che neppure un soldato armato si sia levato — ed evidentemente non poteva nep pure levarsi — a difesa della nostra sovranità contro gli occupanti, tuttavia questa occupazio ne non ha potuto ancora registrare un solo si gnificativo successo a proprio favore. Fino a questo momento il presidente della Repubblica non ha rinunciato all’esercizio delle proprie fun zioni, né ha riconosciuto la legalità dell’occupa zione. Il Parlamento ha condannato l’occupazio ne e attualmente siede in permanenza e prende provvedimenti. Si sta addirittura riunendo il con gresso del partito comunista. Finora nessun organo dell’amministrazione statale si è messo a disposizione degli occupanti. Le tipografie stampano liberi giornali, appelli e volantini; so no in funzione delle libere emittenti radiofoni che e — quel che più conta — il popolo non ha accettato lo statuto di occupazione. Il popolo rico- nosce esclusivamente gli organi e i funzionari legali e liberamente eletti e si è posto all’unani mità dalla loro parte. Sembra che gli occupanti non sappiano che pesci prendere. E’ evidente che in questo momento stanno cercando dispe ratamente qualcuno che sia disposto a tra dire il proprio Paese e a formare un nuovo go verno. E’ vero che — a quanto si dice — alcuni funzionari del partito comunista avrebbero tra dito, ma il popolo li ha già condannati e in pub bliche riunioni ha chiesto ai rappresentanti della giustizia di arrestarli per alto tradimento. Ma insomma, cos’è successo? La nostra terra è piena di migliaia e migliaia di ragazzi del l’Ucraina o del Kazachstan che non sanno nep pure in che razza di paese si trovino, non capi scono la lingua che vi si parla e non compren dono assolutamente perché mai, dovunque pas sano, la gente mostra loro minacciosamente i pugni e incolla sui muri dei manifesti che l’invi tano a tornare a casa. Ho il sospetto che il si gnor Breznev in questo momento se ne stia al Cremlino con un bicchiere di vodka davanti, ro dendosi il fegato. Manda in Cecoslovacchia di visioni su divisioni, ma non gli serve a niente. L’emittente delle truppe occupanti, che si è auto battezzata « Moldava », fino a questo momento non è riuscita a trovare un solo cèco o slovacco disposto a leggere i notiziari con un accento cèco o slovacco almeno decente. Si direbbe che in tutte la tutti le banche, proclamassero questo caso sia stata imperdonabilmente sotto- valutata la forza dell’intelligenza e della morale umana. Resistiamo! Resistiamo insieme! Non arrendiamoci neppure al nostro sconforto! Diamo il nostro riconoscimento soltanto agli or gani legalmente eletti. Cosa ci possono fare? Anche se occupassero tutti gli uffici, chiudes sero legge marziale in tutte le città, non farebbero niente altro che screditarsi ancora di più davanti a tutto il mondo. Possono proibire, distruggere, abbattere, arrestare e uccidere a volontà, ma non sono in grado di svolgere un lavoro costrut tivo. Questi ragazzi del Kazachstan non sono in grado di dirigere i Comitati Nazionali, e nep pure di riempire i giornali e le riviste di arti coli e di poesie, e neppure di leggere alla radio dei comunicati del comando di occupazione, e neppure di organizzare il lavoro nelle tipogra fie. Il successo sta nelle nostre mani. Se non ci sarà neppure un traditore, agli occupanti non resterà altro da fare che andarsene. Ciò che vogliono lo possono ottenere solo a condizione che ottengano il concorso attivo di collaborazio nisti. Pertanto ci appelliamo a voi perché non impegniate una lotta aperta contro gli occu panti; le nostre armi dobbiamo cercarle altrove: nella fedeltà alla nostra patria. Siate fedeli e non tradite. Vaclav Havel 20 - IL DRAMMA « A n t i c o d i r i » M a n ia d e lle c ita z io n i Il compagno A si trova su posizioni ostili poiché a pag. 59 ha citato Lenin e com’è noto « il nostro più grande nemico è la mania delle citazioni » (Lenin, voi. 24, pag. 198, terza riga dall’alto) D e c lin a z io n e d e l n o m e p o p o lo Il nostro popolo non permetterà che le conquiste Del nostro popolo siano strappate Al nostro popolo o che qualcuno inganni Il nostro popolo 0 popol nostro! Sul nostro popolo che decidano coloro che vanno Col nostro popolo! invocando: L 'a lfa b e to d e lla s o c ie tà m o d e rn a L 'a lfa b e to d e ll'u o m o m o d e rn o A! B! C! D! E! A? B? C? D? E? F! G! H! I! J! K! L! M! N! O! P! Q! R! S! T! U! V! X! Y! Z! F? G? H? I? J? K? L? M? N? O? P? Q? R? S? T? U? V? X? Y? Z? (dal volume « Anticodici » di Havel) A l b e r g o d i m o n t a g n a ( B e r g H o t e l ) d i V a c l a v H a v e l PERSONAGGI Dr. Josef Kubik, scrittore Conte Sergej Ilijc Orlov Josef Titz Josef Dlask Rachel Vilem Pechar Pecharova Milena, donna di servizio Liza Josef Drasar, direttore dell’albergo Josef Kraus, vice-direttore dell’albergo Kotrba Kunc Vàclav Havel è nato a Praga nel 1936. Come racconta egli stesso nell'« Autoritratto », la sua vocazione per il teatro, anche se precoce, si è affermata dopo un periodo d'incertezza e an che di tentativi di superare certe difficoltà og gettive. Dagl'inizi degli anni sessanta è dram maturgo al teatro di Praga « Na zabradli » (Alla ringhiera), e per quel teatro ha scritto — dopo due lavori composti in collaborazione — le sue prime tre commedie: « Festa agreste », del 1962 (n. 270 di « Sipario »), « Memorandum », del 1965 (n. 248 di « Sipario ») e « Difficoltà di con centrazione » del 1968 (n. 288 di « Sipario »). Ha anche pubblicato un volume di poesie (1966). Havel è stato uno degl'intellettuali più impegnati del « nuovo corso » dubcekiano e gli eventi del l'agosto 1968 lo hanno visto in prima fila tra gli oppositori dell'occupazione sovietica. Nel '69 gli è stato ritirato il passaporto, quindi è stato espulso da!l'« Associazione degli scrittori » e da quell'epoca egli è rimasto in patria nella con dizione di discriminazione e di esclusione da ogni forma di partecipazione alla vita lettera ria, condizione comune alla stragrande maggio ranza dei suoi confratelli nella Cecoslovacchia « normalizzata ». Anche in questi anni tuttavia Havel ha continuato a scrivere. Le sue comme die, proibite nel suo paese, sono state pubbli cate, rappresentate e radio o teletrasmesse in Italia e altrove: « La commedia dello straccio ne », del 1973, l'atto unico « Udienza », del 1975, l'atto unico « Vernissage », anch'esso del 1975 e finalmente con « Albergo di montagna » dell'anno scorso. Havel ha continuato a occuparsi di po litica pur nella situazione di dura e capillare repressione di ogni opposizione democratica at tuata dal regime attuale, e certe sue prese di posizione hanno spesso fatto notizia. In parti colare ricordiamo la coraggiosa « Lettera aper ta » al presidente della Repubblica Cecoslovacca Gustav Husàk, la denuncia della speculazione ordita dal regime sulla rappresentazione semi- clandestina di « L'opera dello straccione » in un teatro nelle vicinanze di Praga e soprattutto la sua partecipazione al movimento della « Charta 77 », del cui documento programmatico egli è uno dei tre estensori, partecipazione per cui egli Si trova attualmente in carcere sotto l'accusa di spionaggio e tradimento. Versione italiana di Gianlorenzo Pacini L’azione si svolge in un albergo di montagna, ai giorni nostri. Ci troviamo in un paese sociali sta, come si comprende — senza che si faccia nulla per evidenziarlo — da qualche particolare di secondaria importanza. Comunque l’azione e il significato della pièce non sono specificamente legati ad un ambiente socialista. La commedia è in sostanza una parabola sulla vita umana, parabola il cui senso è che tutti, di volta in volta, ricordiamo nostalgicamente il pas sato, speriamo nell’avvenire e siamo delusi del presente. E così la vita passa e la realtà — cioè il presente — ci sfugge tra le mani senza che ci accorgiamo di perderla. La trama è praticamente inesistente: si tratta di un insieme di situazioni appena abbozzate in cui tutti i personaggi, di volta in volta, si cer cano e si respingono, si offrono al dialogo e vi si sottraggono, in un gioco vuoto che il lungo caro sello finale, in cui tutti si scambiano le parti, scopre nella sua inanità. Il dialogo è quello solito delle commedie di Havel: divertente, spesso paradossale e talora imprevedibile, con le consuete, volute ripetizioni. Praga, 1976 - Novità ATTO PRIMO Dopo tanta prepotente egemonìa del regista e degli attori Auspichiamo il ritorno a un teatro d’autore (La scena è costituita dal giardino dell’« Albergo di montagna ». Sul fondo si vede una veranda rialzata collegata con il vestibolo dell’alber go da un grande ingresso scoperto. Una scala di pochi scalini mette dal la veranda nel giardino che occupa la parte anteriore della scena. Sul la veranda ci sono due tavolini da caffè con le sedie; in giardino sul la sinistra c’è un tavolino riparato da un ombrellone e circondato di se die da giardino; a destra c’è una panchina. Quando si alza il sipario, al tavolino di sinistra sulla veranda sta seduto Kubik che legge il gior nale; al tavolino di destra sta se duto Kotrba il quale non dice una parola per tutta la commedia, pur seguendo col più vivo interesse ogni cosa. Al tavolino in giardino sta seduta Rachel che sta facendo la maglia; sul tavolino davanti a lei c’è una borsetta con dentro il go mitolo della lana. Sulla panchina a destra sta seduto Orlov. In mezzo alla scena, seduto su una coperta, con addosso solo degli shorts e un cappello di paglia in te,sta, circon dato da vari oggetti, tra cui si vede un thermos, uno specchietto tasca bile, un pettine, ecc., sta Pechar, che è tutto intento a cospargersi il corpo di crema abbronzante, mentre canta a mezzavoce il motivo principale del film « Il dottor Zi vago »). Pechar: (cantando) Sol presso alla [tua riva è bello vivere, bello è sognare là dove anche tu al mattino sogni. Avess’io l’ali volerei come il vento, avess’io l’ali a gara volerei verso di te. (Il canto di Pechar sfuma in un sommesso mormorio che accompa gnerà come un sottofondo il dia logo. Dopo qualche istante da sini stra arriva rotolando sulla scena una palla; dietro la palla arriva anche Titz che la raccoglie, dà un’occhiata agli astanti e, scorto Orlov, gli si avvicina). Titz: Dov’è stato tutto il pome riggio? Orlov: Ho schiacciato un pisolino. Titz: Di pomeriggio? Che scioc chezza! E di notte cosa farà? Di nuovo non riuscirà a prender sonno. O rlov: Prenderò una pillola. Titz: Questo se lo levi dalla te sta! O forse preferisce rovinarsi i reni? (Titz si siede sulla panchina ac canto ad Orlov, con la palla in grem bo. Pechar smette dì canticchiare. Una pausa). Bé, com’è andata stamattina? (Or lov ha un gesto sconsolato) Niente neanche stavolta? (Orlov scuote il capo). La colpa è sua, perché non mangia frutta cotta. (Dna pausa; quindi Pechar, con tinuando a cospargersi di crema ab bronzante, si rivolge a Kubik, sen za peraltro guardarlo in faccia). Pechar: Dica un po’, dottore. Kubìk: (alzando gli occhi dal gior nale) Sì? Pechar: Forse lei penserà che non è affar nostro. Kubìk: Cosa? Pechar: Eppure è una cosa che ci tocca un po’ tutti quanti. PecharovÀ: {chiamando fuori sce PecharovÀ: (a Pechar) Ah, sei qui! Perché non rispondi quando ti chiamo? Pechar: E’ successo qualcosa? PecharovÀ: Ti ho portato la giacca. Pechar: E che me ne faccio? PecharovÀ: Così fuori non ti ci Kubìk: Non capisco di cosa intenda lascio. na) Vilém! parlare. Pechar: Vede, in fin dei conti si tratta pur sempre del compleanno del direttore, no? Organizziamo la festa per ingraziarcelo, no? In fin dei conti, tutti quanti abbia mo bisogno di lui, non è forse vero ? PecharovÀ: (chiamando fuori sce na) Vilém! Kubìk: Evidentemente lei vuol di re che da parte mia sarebbe sta to più saggio non andarci. (Da destra arriva Liza con le brac cia piene di fiori. Orlov la scorge e si alza immediatamente). Orlov: Liza. Lìza: (fermandosi) Sì? (Orlov le si accosta) Orlov: {sottovoce) Non posso cre dere che abbia dimenticato tutto! Lìza: Le ho pur detto che si trat ta evidentemente di un equivoco: io non sono mai stata a Parigi... (fa per andarsene) Permette? Orlov: (sbarrandole il passo) E al lora quel nostro primo incontro nel negozio di antiquariato di Vrubecky sul boulevard St. Ger- main? Quelle nostre care letture dei Canti di Maldoror e di Na- dija? Non ricorda nulla? Lìza: Sono spiacente, conte. (Liza evita Orlov ed esce da si nistra. Orlov la segue in fretta). Orlov: (fuori scena) Lìza! Lìza! PecharovÀ: (chiamando fuori sce na) Vilém! (Pechar ha finito di cospargersi di crema abbronzante e vuota sul l’erba il contenuto del thermos). Pechar: Per lei è proprio lo stesso andarci o no, e allora perché pro vocarlo? Questo lei dovrebbe ca pirlo da sé e non complicare inutil mente la situazione. (Da sinistra entra Pecharovd con in mano una giacca di maglia). Pechar: Ma se fa caldo. PecharovÀ: Questo sole inganna, Vilém! Non dimenticare che è già settembre; il sole è ancora cal do, ma dalla terra vien freddo! Ricordati dell’anno scorso: anche allora hai voluto far l’eroe, ma poi l’hai pagata cara. Su, met titela. (Pecharovà s’inginocchia accanto a Pechar e l’aiuta a indossare la giacca). (Sottovoce) E allora? Pechar: Gliel’ho detto stamattina nella serra. Pecharovà: Le hai detto anche della pensione? Pechar: Hm. Pecharovà: E lei? Pechar: Niente. Pecharovà: E’ un buon segno! (Pecharova aiuta Pechar a infi larsi la giacca; quindi dà un’occhia ta al thermos. Nel frattempo rien tra da destra Orlov che con aria avvilita torna a sedersi sulla pan china accanto a Titz). Ti porto del tè. Pechar: Non ne voglio. Pecharovà: Ma se non ce n’è più! (Pecharovà rientra in fretta in albergo con il thermos in mano. Dna pausa). Orlov: Penso che presto me ne andrò. Rachel: (alzando lo sguardo dal lavoro a maglia) Non. le piace qui da noi? Orlov: Io non resisto a lungo in nessun posto... sono fatto così. Rachel: Sarà triste qui senza di lei. (Pechar si toglie la giacca, la pie ga accuratamente e la depone accanto a sé; quindi ricomincia a cospar gersi di crema. Dna pausa; a un tratto si ode in lontananza il fischio del treno e tutti i presenti guardano simultaneamente l’orologio. Poco do po esce dall’albergo Dlask portando in una mano una bottiglia di vino e nell’altra due bicchieri. Si guarda in giro e, scorgendo Kubìk, si ac costa al suo tavolino). Dlask: Posso? Kubìk: (alzando lo sguardo, mera vigliato) Ma naturalmente... la prego. Kubik offre una sedia a Dlask e s'immerge nuovamente nella lettura del suo giornale. Dlask si siede e riempie di vino i due bicchieri). Dlask: Questo è per lei. Kubìk: (alzando gli occhi) Prego? Dlask: Dico che è per lei. Kubìk: (con imbarazzo) Per me? Ma... (Dlask avvicina sorridendo un bic chiere a Kubik; questi mette via il giornale e prende il bicchiere; Dlask tocca leggermente i bicchieri per un brindisi). Dlask: Sa a cosa beviamo? Kubìk: A cosa? Dlask: Così, a tutto! Kubìk: Grazie. (Bevono entrambi. Dna pausa. Quindi Dlask tira fuori di tasca un mazzo di carte e si mette a mesco larlo con perìzia e a farlo schioccare guardando Kubik e sorridendo con aria invitante). Mi dispiace, ma io non gioco. Dlask: Davvero? Kubìk: Purtroppo. Dlask: Peccato, (con aria delusa Dlask ripone le carte in tasca. Dna pausa) Sta bene oggi? Kubìk: Io? Perché? Dlask: Ma non stava male? Kubìk: Quando? Dlask: Ieri, quando c’è stata la festa per il compleanno del di rettore. Ho chiesto come mai lei non c’era e mi hanno detto che non stava bene. Kubìk : Ah, così. Dlask: Poteva farsi vedere almeno un momento. Kubìk: Penso che sia stato meglio così. Dlask: E io invece, fossi stato in lei, ci sarei andato apposta! (una pausa) Ha scritto stanotte? Kubìk: No. Dlask: Ma aveva la luce accesa. Kubìk: Non riuscivo a prender son no e così ho letto un po’. Dlask: E allora perché non si è messo a scrivere, dal momento che non riusciva ad addormen tarsi? Kubik: Così... non ne avevo voglia. Dlask: Non aveva idee? Kubik: Forse no. Dlask: E del resto perché poi do vrebbe sempre averne, dico bene? Perbacco, scrivere non è mica co me zappare la terra! Per scrivere ci vuole l’ispirazione, dico bene? Kubik: Elm. Dlask: E l’ispirazione una volta c’è e un’altra invece no, non gli si può mica comandare! Io sono una persona qualunque, natural mente non le arrivo nemmeno al calcagno, eppure certe cose le ca pisco benissimo! Del resto ci ho provato anch’io qualche volta. Kubik: A scrivere? Dlask: Sì, ma solo sciocchezze. Kubik: Ma forse non erano scioc chezze. Dlask: Ma sì {dall’albergo esce Milena vestita da cameriera por tando un vassoio con dei bicchie ri di succo di frutta. Dapprima offre a Kotrba). Milena: Prego. (Kotrba prende un bicchiere con un cenno di ringraziamento. Quindi Milena offre a Dlask e a Kubik). Milena: Prego, signori. (Dlask si limita a un cenno di diniego; Milena allora scende in giardino e offre a Rachel, che pren de un bicchiere). Rachel: Grazie, Milena (Milena passa ad offrire a Titz e a Orlov; Titz prende dal vassoio due bic chieri). Titz: (a Orlov) Prenda. Orlov: Non ho sete. Titz: Ma lei ha bisogno di vita mine (alla fine Orlov prende il bicchiere; Milena quindi offre a Pechar, il quale però continua a cospargersi di crema ostentando di non accorgersi dei lei. Pausa imbarazzata). Milena: Non vuoi bere? (una pau sa; Pechar non risponde) Non parli più con me? Pechar: Vattene. Milena: Ma che ti prende? Pechar: Ti ho detto: vattene! Milena: Sei arrabbiato con me? Pechar: Non mi hai sentito? (Dna pausa). Milena; Ora non posso più nem meno parlare con un cliente? Pechar: Siete stati più d’un’ora soli nella serra, e io so benissimo cosa ti ha detto quello là! Ti comporti come una puttana. Milena: Vilém! Pechar: Che ti porterà via di qui! Ma va’! Che ti farà frequentare una scuola alberghiera! Ma va’! Che divorzierà per amor tuo e che poi insieme metterete su una pensione! Delle bugie così sfac ciate! Proprio lui! Se lo sanno tutti che quello non scorreggia neppure senza il permesso della moglie! Scommetterei che perfi no per farti la corte ha dovuto prima chiedere il benestare alla sua signora, e chissà che non sia proprio lei a suggerirgli tutte le storie che ti racconta per arrivare prima che può dove vuole senza impegnarsi a nulla! Milena: Ma tutto questo io lo so già, Vilém! Questi suoi discorsi mi entrano da un orecchio e mi escono dall’altro. Pechar: Se tu non lo prendessi sul serio non saresti rimasta nel la serra un’ora intera ad ascol tarlo! Ma ricordati: se capita un’ altra volta tra noi due è finita! M ilena:,E allora voglio dirti una cosa: può pure essere un mascal zone, ma certo si comporta me glio di te; anche se mi ama e sa benissimo della nostra relazio ne, tuttavia finora non ha mai detto una sola parola cattiva con tro di te. Pechar: Ma è naturale! Io gli fac cio un gran comodo! Lui conta sul fatto che, quando si sarà stu fato di te, gli sarà molto più fa cile scaricarti se ci sarò qua io. Ma io non sono mica il secchio della spazzatura! E per questo te lo dico per l’ultima volta: o lui o io! E’ chiaro? Milena: (con asprezza) E va bene! (con passo deciso Milena rientra in albergo col vassoio. Pechar è un po’ imbarazzato-, scuote il ca po con aria incerta e si guarda intorno fissando gli astanti con un sorriso sciocco. Nessuno gli bada, eccetto Kotrba che scuote il capo anche lui con un sorriso sciocco. Dna pausa). Titz: (a Orlov) Com’è andata la passeggiata? O rlov: Non sono stato a passeggio. Titz: Come, non c’è stato? Orlov: No. Titz: Una giornata come questa, non si vede una nuvoletta, sof fia un venticello primaverile e lei se ne resta tappato in casa! Que sto proprio non lo capisco! Sta mattina io sono già stato alla chiusa di sopra a vedere se si trovano pinaroli, poi ho un po’ aiutato il giardiniere, ho preso il sole per un’oretta sul tetto e da dopo mangiato praticamente fi no ad ora ho giocato a calcio con il cuoco! Lei fa del male a se stesso evitando così ostinatamen te di fare del moto! E poi si me raviglia di star sempre male! Stamattina, per esempio, cos’ha fatto? O rlov: Stamattina? Titz: Sì. O rlov: Ho letto un po’. Titz: Magari delle copie di vecchie lettere, eh? Orlov: Hm. Titz: Eppure ormai dovrebbe ■ sa perle a memoria, che diamine! (Dna pausa; poi Rachel interrom pe il suo lavoro a maglia e alza gli occhi su Orlov). Rachel: Lei è mai stato a Namest’, Sergej Ilijc? Orlov: Dove ha detto, scusi? Rachel: A Namest’, in Moravia. O rlov: Mai, purtroppo. Rachel: Io ci sono nata. Orlov: Proprio a Namest’? Rachel: Sì. O rlov: Non lo sapevo. Rachel: Mio padre era capo-guar daboschi nella tenuta del conte Haukwitz e io ho trascorso lì pra ticamente tutta la mia infanzia, in una specie di simbiosi con il bosco, gli animali selvatici, gli stagni... ero la più piccola di otto fratelli, un affarino piccolo così, e s’immagini che stavo sempre se d’altra parte... Dlask: D’altra parte cosa? Che c’entra qui l’altra parte? Kubìk: Volevo soltanto dire che lei dovrebbe anche pensare un po’ a se stesso. Dlask: Stia a sentire, dottore: io certo non sono un eroe, sono una persona qualunque come tante al tre, ma non sono neppure un vi gliacco! E sono sempre pronto a rispondere delle mie azioni, sem pre! (Una pausa; quindi Orlov si ri volge a Pecbar, che ha già ricomin ciato a cospargersi di crema). Orlov: Posso farle una domanda? Pechar: Certo. O rlov: Non le capita mai di aver Pechar: Io? E di che? Orlov: Ma cosi, in generale. Pechar: Ma mi faccia il piacere, che razza d’idee! (Pechar smette di cospargersi di crema, chiude e ripone la scatola di crema, si to glie il cappello e comincia a pet- . tinarsi. Intanto canticchia sotto paura? voce la solita canzone). (canta) . Avess’io l’ali a gara volerei verso di te. (Cala il sipario). in giro con i miei fratelli... credo che proprio a quegli anni vado debitrice del mio carattere indi- pendente. O rlov: La prima infanzia ha una grande importanza per la forma zione del carattere. Rachel: E’ molto giusto quello che lei ha detto, Sergej Ilijc! Sì: la prima infanzia ha una grande importanza per la formazione del carattere! Eppure certe volte mi dico: a che cosa m’è servita poi nella vita la mia indipendenza se in realtà non sono mai stata fe lice? O rlov: Perché pensa di non es sere mai stata felice? Rachel: E’ vero che ho avuto suc cesso con gli uomini, ma mai con quelli a cui tenevo veramente. (Rachel rimane assorta per qual che istante, poi sospira e ripren de il lavoro a maglia. Una pausa). Dlash: ( a Kubik) Non le dispiace che mi sia seduto accanto a lei? Kubìk: No. Dlask: Magari avrebbe preferito starsene da solo. Kubìk: No, no. Dlask: Prima di sedermi ho esi tato un po’; mi dicevo: che vuoi che gliene importi di te, avrà già abbastanza pensieri per conto suo; ma poi mi son detto: in fin dei conti è un cliente come te, perché non dovresti sederti accanto a lui! Kubìk: E’ molto gentile da parte sua. (Una pausa; poi Rachel interrom pe il suo lavoro a maglia e si mette a guardare fissamente Titz. Questi coglie il suo sguardo e lo ricambia; quindi, senza smettere di guardarsi fissamente l’un l’altro, Rachel met te da parte il lavoro a maglia e Titz porge meccanicamente la palla a Arlov, entrambi si alzano lenta mente e senza staccarsi gli occhi di dosso entrano nell’ albergo. Una pausa). Dlask: Vede, io non sono per la tattica! Quando qualcuno mi è simpatico e ho l’occasione di at taccar discorso, mi butto senza stare a pensarci tanto. Kubìk: E’ certamente giusto, anche Pechar: (sta in ascolto per qual che istante) Le api, eh? O rlov: Le api, gli uccelli, i boschi, i fiumi, gli uomini... proprio come laggiù. Pechar: Laggiù dove? (Orlov rimane assorto per qual che istante con lo sguardo fisso nel vuoto; poi una lacrima gli rotola lungo la guancia. Una pausa). Titz: (a Kubik) Ma almeno avrà preso un po’ di sole, spero. Kubik: Vede, il sole io non lo sop porto. Titz: E così non è stato neanche un po’ sul tetto a prendere il sole? Kubik: No. Titz: E allora non può stupirsi di avere l’aspetto che ha! Kubik: Perché, che aspetto ho? Dlask: Quello di un cadavere! Kubik: Non le pare di esagerare? Titz: Dopo ci mettiamo tutt’e due davanti allo specchio nella hall, così lo vedrà da sé! (prende il giornale di Kubik) E’ di oggi? Kubik: Mi pare di no. (Titz rimette il giornale sul ta volo. Dlask tira fuori di tasca un mazzo di carte e si mette a mesco larlo con perizia e a farlo schioc care guardando Orlov e sorridendo con aria invitante). O rlov: Mi scusi, ma io non gioco. Dlask: Davvero? Orlov: Purtroppo. Dlask: Peccato (con aria delusa Dlask ripone le carte in tasca). Titz: (a Kubik) E per il resto? Kubik: Per il resto, cosa? Titz: Come si sente psichicamente? Direi nulla di eccezionale. Kubik: Non mi lamento. Titz: Magari ora mi dirà che que sta è la sua giornata allegra! Kubik: Questo non posso dirlo, ma certo mi sento meglio dell’al tro ieri. Titz: Be’, se lei si regola secondo il suo umore dell’altro ieri. (Da sinistra arriva Liza con le la braccia piene di fiori. Orlov scorge e si alza immediatamente). O rlov: Liza! Liza: (fermandosi) Sì? O rlov: (sottovoce) La scongiuro di ATTO SECONDO (Quando si alza il sipario Kubik e Titz stanno seduti sulla veranda al tavolino di sinistra, su cui sta la palla di Titz e il giornale di Ku bik; al tavolino di destra sta sedu to Kotrba. Al tavolino in giardino sta seduta Rachel intenta al suo la voro a maglia; sulla panchina a de stra stanno seduti Orlov e Dlask, entrambi con un bicchiere di vino in mano; per terra ai loro piedi sta una bottiglia. In mezzo alla scena — esattamente come nel primo at to — Pechar sta seduto su una coperta guardandosi attentamente in uno specchietto; ogni tanto fa delle smorfie allo specchio. Un lunga pausa). O rlov: Sente? Pechar: Cosa? O rlov: L’estate. finirla una buona volta con que sta commedia! Liza: La prego di scusarmi, conte, ma non so proprio di cosa parla... (fa per andarsene) Permette? O rlov: (sbarrandole il passo) E al lora quelle nostre lunghe passeg giate notturne per il Quartiere Latino, in cui le raccontavo della mia corrispondenza con Lev Tro- ckij? E quelle sue visite dome nicali alla mia mansarde di stu dente in rue Jacob? Neppur que sto le dice più nulla? Liza: Nulla {Liza evita Orlov ed esce in da destra. Orlov la segue fretta). Orlov: (fuori scena) Liza! Liza! (Una pausa; quindi Pecbar, che continua a fare le sue smorfie allo specchio, si rivolge a Kubik, senza peraltro guardarlo in faccia). Pechar: Se lei s’immagina, dotto re, di aver fatto bene, ebbene le dico subito che si sbaglia di grosso. Kubik: Lei parla della festa di ie ri? Eppure tutto è andato beno ne... nessuno mi ha fatto capire che forse la mia presenza. Pechar: Ma via, dottore! Lei sa perfettamente che nessuno le po teva dire niente semplicemente perché lei ci aveva messi davan ti al fatto compiuto e così ci siamo trovati in una situazione artatamente falsata, in cui non potevamo far altro che tacere. Ma il fatto è che lei aveva contato proprio su questo! Kubik: Questo non è vero. Pechar: Come no? Lei ha appro fittato della nostra cortesia, pur sapendo benissimo quali conse guenze potevano derivarne per noi. Lei ha praticamente eserci tato una sorta di violenza mo rale! Kubik: Questo poi! (Intanto dall’albergo è uscita Pe- charova con il thermos in mano, si è silenziosamente avvicinata a Pechar e ora versa del tè nel co perchio del thermos). Pechar: Se uno è storpio non ha per questo il diritto di costringe re la gente sana a tagliarsi una gamba per amor suo! Lei si è comportato senza il minimo ri guardo! (Pecharova porge a Pechar il co perchio del thermos pieno di tè; Pechar beve e poi getta il coper chio sull’erba. Quindi Pecharova prende la giacca ripiegata e aiuta Pechar a infilarsela. Da sinistra rien tra Orlov che con aria avvilita va a sedersi sulla panchina accanto a Dlask). Pecharova: (sottovoce) Vilém. Pechar: Che c’è? Pecharova: Quella scenata è sta ta perfettamente inutile. Pechar: Quale scenata? Pecharova: Lei non sente pro prio nulla per lui e non prende affatto sul serio quei suoi di scorsi nella serra. Tu le fai torto. Pechar: E allora perché lo sta a sentire? Pecharova: Solo per cortesia. Cre dimi, Vilém, tu non fai che com plicare inutilmente la situazione. Dovresti chiederle scusa. Pechar: Ma va’! Pecharova: O almeno falle capire che non sei più arrabbiato con lei! (Pecharova ha infilato la giac ca a Pechar, quindi chiude il thermos', lo poggia sulla coperta e rientra in fretta in albergo. Una pausa). O rlov: Penso che presto me ne andrò. Rachel: (alzando lo sguardo dal lavoro a maglia) E’ davvero ne cessario, Sergej Ilijc? Orlov: Io amo i cambiamenti, pro prio come l’uccello migratore. (Pechar si toglie la giacca, la pie ga accuratamente e la depone ac canto a sé; quindi ricomincia a fare le smorfie allo specchio. Una pausa). Dlask: (a Orlov) Soffre di nostal gia, eh? O rlov: (accenna di sì col capo) Io non sono molto per i ricordi. Sono un tipo che guarda piut tosto in avanti che indietro. Ve de, il passato non m’interessa, e infatti non ricordo quasi nulla, né della mia infanzia né d’altro. Insomma, queste cose non mi hanno mai interessato. E così non saprei neppure dirle molto di me. Io guardo piuttosto al presente. O rlov: Lei ha un carattere for tunato. (Una pausa). Dlask: Non l’annoio per caso? Orlov: No. Dlask: Vede, io faccio molto vo lentieri conoscenza con gente nuo va, ma c’è gente che invece non è interessata a questo. Non s’im magina neppure quanti addirit tura non lo sopportano. Per que sto preferisco sempre chiedere prima. (Una pausa). Anche lei fa volentieri conoscenza con gente nuova? Orlov: In genere si. Dlask: Evidentemente allora sia mo dei tipi simili. Perbacco, ma lo sa che noi due potremmo in tenderci! Vede, io sono un tipo assolutamente comune, quanto a cultura non le arrivo nemmeno al calcagno, ma in compenso con me c’è sempre da divertirsi. A lei piace scherzare? O rlov: Secondo. Dlask: Io ho anche un certo fiu to. Con la gente, voglio dire. Penso di capirla abbastanza. In fatti m’interessa, di chiunque si tratti. Ed è anche per questo che faccio volentieri conoscenza con tutti, come ho già detto. (Dall’albergo esce Milena portan do un vassoio con dei bicchieri di succo di frutta. Dapprima offre a Kotrba). Milena: Prego. (Kotrba prende un bicchiere con un cenno di ringraziamento. Quindi Milena offre a Titz e a Kubik; Titz prende dal vassoio due bicchieri). Titz: (a Kubik) Prenda. Kubik: Non ho sete. Titz: Ma lei ha bisogno di vi tamine. (Alla fine Kubik prende il bic chiere; Milena allora scende in giar dino e offre a Rachel, che prende un bicchiere). Rachel: Grazie, Milena. (Milena passa ad offrire a Dlask e a Orlov) Prego, signori. [Dlask si limita a un cenno di diniego; Milena allora si rivolge a Pechar, che però si sta guardando allo specchio e non si accorge di lei; Milena ha un momento d'in certezza, poi sì avvia verso l’al bergo). Pechar: E io? Milena: (arrestandosi) Mi scusi, pensavo che — (Milena torna verso Pechar e gli presenta il vassoio. In quel momento Pe char, ridendo, la fa cadere sul la coperta accanto a sé; il vas soio con tutti i bicchieri vola sul- lerba) Ma è matto? Guardi co s’ha combinato •— (Pechar strin ge a sé Milena). Pechar: E allora? Partiamo in sieme? Milena: E sua moglie? Pechar: Questo è affar mio, no? Milena: Devo pensarci su... così aH’improvviso... e poi qui ho de gli impegni. Pechar: E così le ha fatto una scenata di gelosia, eh? Milena: Hm. Pechar: Cosa le ha detto? Milena: Sapeva tutto. Pechar: Tutto che? Milena: Tutto quello che lei mi ha detto là nella serra... della scuola alberghiera... della pen sione. Pechar: E come poteva saperlo? Milena: Non so. Ma ha parlato molto male di lei... diceva che son tutte bugie... diceva che lei non vuole altro che arrivare al più presto al suo scopo... che lei non lascerà mai sua moglie e che anzi lei gli ha dato il per messo d’intrattenere una relazio ne con me. Pechar: E lei cosa gli ha risposto? Milena: Che lei non parla mai così male di lui. Pechar: Lei pensa che sia stato ragionevole... buttare olio sul fuo co in questo modo? Milena: E sa cosa mi ha rispo sto? Ha detto che lei fa di tutto per tenere in piedi il nostro rap porto, per potersi poi più facil mente sbarazzare di me. Pechar: E’ interessante vedere qua li assurdità possono nascere in finito. Pechar: Definitivamente? Milena: Ne ho abbastanza di que ste continue scenate. Pechar: La capisco. D’altronde do vremmo sforzarci di capire an che lui... è geloso perché l’ama. Milena: E a lei non gliene im porta? Pechar: Me ne importa. Ma allo stesso tempo mi fa pena, giac ché so bene anch’io cosa l’amore può fare di un uomo. Sostanzial mente è un infelice... e già sol tanto per questo — se lei vuole veramente farla finita — dovreb be perlomeno farlo con delica tezza... gradatamente... senza scos se... per quanto è possibile con le buone. Milena: Ho l’impressione che lei abbia quasi più comprensione per lui che per me. Pechar: Ma io lo dico nel suo stesso interesse! [Milena si stacca da Pechar, per qualche istante fissa lo sguardo as sorto nel vuoto e poi dice sottovoce). Milena: Vilém. Pechar: Sì? Milena: Lei non è affatto geloso? Pechar: Ma certo, anch’io! Solo che cerco di dominarmi. Milena: Mi sembra che le riesca anche troppo bene. Pechar: Questa è soltanto una sua impressione. [Milena rimane assorta ancora per qualche istante, quindi improvvi samente si alza con decisione; Pe char cerca ancora di attirarla a sé, ma lei si libera bruscamente) Pechar: Cosa le prende? E’ suc cesso qualcosa? [Milena piuttosto eccitata rientra di corsa in albergo. Pechar è un po’ imbarazzato; scuote il capo con aria incerta e si guarda intorno fissando gli astanti con un sorriso sciocco. Nessuno gli bada, eccetto Kotrba che scuote il capo anche lui con un sorriso sciocco. Una pausa; quindi si ode in lontananza il fischio del treno e tutti i presenti guardano simultaneamente l’orologio). un cervello ossessionato dalla ge losia! E lei cosa farà? Milena: Penso che ormai tutto sia Titz: Perché non prova, per esem pio, a scrivere le sue memorie? Kubik: Le mie memorie? E per ché? Titz: Almeno si distrarrebbe un po’. [Una pausa; Pechar ha ricomin ciato a fare smorfie allo spec chio). Titz: Oppure perché non scrive un diario? Osservazioni... idee... im pressioni. Kubik: Ma via. Titz: Se solo avessi un po’ più di tempo mi metterei subito a scrivere le mie memorie! Di an no in anno ogni cosa mi torna sempre più nitida alla mente. [Una pausa) Titz: Posso dirle la verità, dot tore? Kubik: Naturalmente. Titz: Ho come l’impressione che lei abbia semplicemente rinun ciato. Kubik: A che? Titz: A tutto: alla salute... a una vita regolata... a scrivere... a un aspetto decente... evidentemente anche alla sua posizione in so cietà! Perché poi domenica non è stato a quella festa? Kubik: Nella mia situazione? Titz: Proprio nella sua situazione avrebbe dovuto andarci! Lei così ha perso un’occasione che non le si ripresenterà tanto presto-, Kubik: Occasione di che? Titz: Ma naturalmente l’occasione di uscire un po’ dal suo isola mento... di stabilire dei contatti con la gente... di dissipare certi equivoci! Creda pure che in cer ti casi non c’è nulla di meglio di un contatto diretto! Kubik: Questo lo so. Titz: Lo vede! Spero almeno che verrà alla festa di domani per il compleanno del direttore! [Da destra entra Kunc. Nessuno dei presenti fa mostra di accor gersi di lui, eccetto Kotrba che gli fa subito un amichevole cenno del capo e gli sorride. Anche Kung sorride a Kotrba, va direttamente verso di lui, si piega sulla sua spal la e per un pezzo gli sussurra qual- cosa all’ orecchio. Kotrba sembra molto divertito e ogni tanto scop pia a ridere. Quando finalmente Kunc smette di parlare all’orecchio di Kotrba, entrambi continuano per un po’ a ridere insieme, poi si scam biano delle amichevoli manate sulle spalle, dopodiché Kunc esce in fret ta da destra. Una pausa; quindi Ra chel interrompe il suo lavoro a ma glia e alza gli occhi su Orlov). Rachel: Sergej Ilijc. Orlov: Sì? Rachel: Una volta o l’altra lei do vrebbe andare a Namest. Orlov: Volentieri. Rachel: E un angolo incantevole! Mio padre faceva il professore di scuola media... un classico eru dito di villaggio, un topo di bi blioteca che scriveva cronache po polari... io ero figlia unica, i miei genitori mi avevano avuta piut tosto tardi e, come può immagi nare, io ero sempre il centro di tutto! Non potevo neanche so gnarmi di correre in piazza come gli altri bambini... tutte cose che non ho mai conosciuto! Può darsi che proprio nell’innaturale isola mento in cui ho trascorso qui i miei primi anni affondi le sue radici quella ritrosia che nella vi ta mi è costata così cara. Orlov: Perché le è costata cara? Rachel: In realtà non sono mai riuscita a vincere dentro di me la timidezza che m’impedisce di dire a voce alta le cose veramen te importanti... e forse proprio per questo sono eternamente con dannata ad evitare coloro insie me ai quali aspirerei a percorrere il cammino della vita (Rachel ri mane assorta per qualche istante, poi sospira e riprende il lavoro a maglia. Una pausa). Dlask: Ci si potrebbe vedere più spesso, che ne dice? O rlov: Hm. Dlask: Eh, ce ne vuole del tempo prima che due persone possano dire veramente d’intendersi! Non è mica uno scherzo! Son cose che richiedono una lenta evoluzione, come si dice. Non è vero, forse? O rlov: Ma certo. Dlask: Ma forse noi due potrem mo completarci a vicenda, che ne dice lei? Orlov: Forse. Dlask: Lei è un tipo piuttosto so litario. Orlov: Be’, in fondo. Dlask: E anch’io, se ci penso be ne, in fin dei conti di veri amici non ne ho mica tanti. Di cono scenti sì, ne ho parecchi, perché io sono un tipo che fa amicizia vo lentieri, gliel’ho già detto del re sto... per il resto, se ci si pensa bene... quanto a età siamo li mi pare, eh? Orlov: Press’a poco. Dlask: Ecco, vede. {Una pausa; poi Rachel interrom pe il suo lavoro a maglia e si mette a guardare fissamente Dlask. Que sti coglie il suo sguardo e lo ricam bia; quindi, senza smettere di guar darsi fissamente, l’un l’altro, Ra chel mette da parte il lavoro a ma glia e Dlask porge meccanicamente il suo bicchiere a Orlov, entrambi si alzano lentamente e senza stac carsi gli occhi di dosso entrano nel l’albergo. Una pausa). Titz: (a Kubik) Eh, caro il mio dottore, la vita è breve e ogni lasciata è persa! (Titz prende la palla dal tavolo). Giochiamo un po’? Kubik: Mi dispiace, ma io non gioco. Titz: Davvero? Kubik: Purtroppo. Titz: Peccato. (Titz rimette la pal la sul tavolo. Una pausa). O rlov: Sente? Pechar: Cosa? Orlov: L’estate. Pechar: (Sta in ascolto per qual che istante) Le api, eh? Orlov: Le api, gli uccelli, i boschi, i fiumi, gli uomini... proprio co me laggiù. Pechar: Laggiù dove? Orlov: [sottovoce) A Voronez. (Or lov rimane assorto per qualche istante con lo sguardo fisso nel vuoto; poi una lacrima gli rotola lungo la guancia. Pechar fa una smorfia scimmiesca allo specchio. Cala il sipario). ATTO TERZO (Quando si alza il sipario al ta volino di sinistra sulla veranda stanno seduti Orlov e Titz e sul tavolino c’è la palla di Titz; al ta volino di destra sta seduto Kotrba. Al tavolino in giardino sta seduta Rachel e lavora a maglia; sulla pan china a destra stanno seduti Kubik e Dlask, entrambi con un bicchiere di vino in mano; per terra ai loro piedi sta una bottiglia. In mezzo alla scena — come negli atti pre cedenti — sta seduto Pechar che si fa la barba con un rasoio elettrico da cui parte un filo che, con più ag giunte, va a finire nell’albergo; Pe char canta a mezza voce la solita canzone). Pechar: (canta) Sol presso alla tua [riva è bello vivere, bello è sognare là dove anche tu al mattino sogni. Avess’io l’ali. (Il canto di Pechar sfuma in un sommesso mormorio che accompa gnerà come un sottofondo il dia logo). Dlask: (a Kubik) Lei non deve aver avuto una vita facile, eh? Kubik: Dipende. Dlask: No, no, certo non l’ha avu ta facile, lo confessi! Ma del re sto neanch’io! Eppure tutt’e due — per quanto la nostra sia stata una vita da cani — l’abbiamo sop portata con dignità. Dico bene? Kubik: Per quanto mi riguarda, io mi sono sforzato. (Pechar smette di cantare). Dlash: Ecco, ci siamo sforzati, questa è la parola giusta! Ci sia mo sforzati nella misura del pos sibile relativamente alla nostra si tuazione. Naturalmente capita a chiunque di scivolare qualche vol ta, ma questo in fin dei conti è umano; l’importante è considera re globalmente tutto l’insieme. Da questo punto di vista si può so stanzialmente dire che noi due ci siamo battuti e quindi non abbia mo di che vergognarci e possia mo tranquillamente guardarci ne gli occhi. Che ne dice lei? Kubik: Mah, forse sì. Dlask: E ora che abbiamo fatto tanta strada sul cammino della vi ta e siamo arrivati, per così dire, in vista del traguardo, ebbene bi sognerebbe proprio che il diavolo ci mettesse la coda perché non arrivassimo a tagliarlo! Special- mente se noi due riuniremo le nostre forze! Che ne dice? Kubik: Hm. (Rachel interrompe il lavoro a maglia e alza lo sguardo su Orlov). Il giorno che visiterà il Rachel: castello di Namest si ricordi di me. Orlov: Lei ha vissuto al castello di Namest? Rachel: E’ là che ho trascorso la maggior parte della mia infanzia; solo per l’estate ci recavamo a Sitzberg, che si trova quasi sulla frontiera italiana; un tempo era proprietà del ramo austriaco degli Haukwitz, ma lo zio non ci an dava mai... mi pare che adesso appartenga a un attore di sinistra. O rlov: Non sapevo che nelle sue vene scorresse sangue blu. Rachel: Perché crede che non mi sia mai sposata? O rlov: Ma lei può ancora spo sarsi. Rachel: Sergej Ilijc, l’unico no bile al mondo con cui avrei vo luto vivere. (Rachel rimane as sorta per qualche istante, poi sospira e riprende il lavoro a maglia. Pechar, che si sta ancora facendo la barba, si rivolge a Kubik, senza peraltro guardarlo in faccia). Pechar: Con quella faccenda della festa, caro dottore, lei si è messo definitivamente fuori gioco. Pecharova: (chiamando fuori sce na) Vilém! Pechar: L’hanno condannato per fino quelli che fino all’ultimo mo mento si sono battuti per lei. Pecharova: (chiamando fuori sce na) Vilém! Pechar: E’ chiaro che lei stesso ha capito benissimo di avere or mai chiuso, e così non sa fare altro che dei dispettucci meschi ni a cui si attacca con la forza della disperazione, illudendosi al lo stesso tempo di essere un eroe o un martire. Comunque, per fortuna, non le resta più molto tempo per le sue smargiassate. Pecharova: (chiamando fuori sce na) Vilém! Pechar: Vedrà che presto le fa ranno passare la voglia! (Da destra entra Pecharova con il termometro in mano). Pecharova: Ah, sei qui! Perché non rispondi quando ti chiamo? Pechar: E’ successo qualcosa? Pecharova: Devo misurarti la tem peratura. Pechar: Non ce ne bisogno. Pecharova: E’ ora che la smetti di scherzare con la salute! Se tu non hai cervello, bisogna che ce l’abbia io anche per te. (Pecha rova s’inginocchia accanto a Pe char e gl’infila il termometro sot to l’ascella) (sottovoce) Vilém! Pechar: Che c’è? Pecharova: Lei ha l’impressione che non t’importi molto di lei. Pechar: Credi? Pecharova: Lo so. Pechar: E cosa dovrei fare? Pecharova: Non potresti, per esem pio, mostrarti un po’ più geloso di quell’altro? A lei dispiace che di quella loro relazione a te non importi niente. (Pecharova toglie il termometro da sotto l’ascella di Pechar e legge la temperatura). Ecco, lo vedi: trentasei e sei! (Abbassa il termometro scuoten dolo) Ti porto un’aspirina. Pechar: Non la voglio. Pecharova: Vedrai come ti farà bene! (Pecharova rientra rapida mente in albergo col termometro in mano). Titz: (a Orlov) Questo pomeriggio voglio andare alla chiusa di so pra a vedere se si trovano pina- roli. Viene con me? Orlov: Penso di no. Titz: Ha qualche altro programma per il pomeriggio? Orlov: Volevo leggere un po’. Titz: Delle vecchie lettere, eh? O rlov: Hm. Titz: Dovevo immaginarmelo! Pos sibile che per lei non esista nien- t’altro che il passato? Lei non fa che affliggersi, ricordare, sospi- rare e sprecare così il suo tempo, mentre le si offrono tante inte ressanti possibilità d’ impiegarlo utilmente! In fondo, basta ogni giorno stabilire un determinato programma e poi attenervisi! Io davvero non la capisco: dal mo mento che non è capace di co stringersi a un lavoro serio o a un qualunque esercizio fisico, per ché almeno non si procura ogni tanto un po’ di spasso? Le capita mai di concedersi un buon bic chier di vino, o di fumarsi con voluttà un sigaro pregiato, o ma gari di cantare una canzone? E’ capace insomma di desiderare dav vero qualcosa? Lei, in fondo, vi ve veramente? O rlov: Eppure alla festa di ieri ho cantato. Titz: Sì, per mettersi a piangere subito dopo! (Dall’albergo esce Milena portan do un vassoio con dei bicchieri di succo di frutta. Dapprima offre a Kotrba). Milena: Prego. (Kotrba prende un bicchiere con un cenno di ringraziamento a Mi- lena. Milena offre a Titz e a Or lov; Titz prende dal vassoio due bicchieri e ne porge uno a Orlov). Titz: Corvi, divoratemi! Ecco il suo credo. Il credo di un cadavere! Se davvero ormai non le importa più nulla della vita non so pro prio che cosa ci sta ancora a fare qui. (Milena intanto è scesa in giardino e ha offerto a Rachel, che prende un bicchiere). Rachel: Grazie, Milena. (Milena rivolge un’occhiata inter rogativa a Dlask, il quale si limita a scuotere il capo; quindi Milena offre in silenzio a Pechar, che pren de un bicchiere). Pechar: Grazie. (Milena fa per andarsene) Pechar: Milena. Milena: (Fermandosi) Che c’è? Pechar: Sei molto arrabbiata? Milena: Queste continue scenate ormai mi hanno proprio stancata. Pechar: Eppure tu mi conosci... sono capace di saltar su per una sciocchezza, ma poi me ne pento per una settimana. (Una pausa) Del resto io capisco benissimo che tu non puoi ignorarlo... tan to più che lui è evidente che ti ama. (Una pausa) Sostanzialmen te è un infelice, e già soltanto per questo mi sembra giusto che tu respinga queste sue profferte col massimo tatto. {Una pausa). E del resto, perbacco, chi potreb be capirlo meglio di me, che so meglio di chiunque che cosa può fare di un uomo l’amore per te! (Una pausa). Del resto, se lui te le facesse seriamente queste pro poste — come quella della scuo la alberghiera e così via — eb bene, chissà che non valga la pe na di approfittarne! Per lui sa rebbe una gioia e per te un van taggio... e questo non cambiereb be nulla nella nostra relazione. Del resto si dice: sciocco chi dà, ma due volte sciocco chi non prende! Dlask: (a Kubik) Lei cosa pensava di fare domenica? Kubik: Perché? Dlask: Perché potremmo andare insieme a una festa. Kubik: A una festa? Come sareb be a dire? Dlask: Un amico di mio fratello ha una trattoria a meno di cin quanta chilometri da qui, e do menica fanno una festa. Milena: Mi sembra di essere sta ta proprio scema. Pechar: Perché? Milena: Perché ho creduto a quel le tue scenate di gelosia. Ora ca pisco che si trattava soltanto di una commedia. Pechar: Ma non è vero. Milena: Siete tutti uguali! {Milena rientra di corsa in alber go col suo vassoio. Pechar è un po’ imbarazzato; scuote il capo con aria incerta e si guarda intorno fissando gli astanti con un sorriso sciocco. Nessuno gli bada, eccetto Kotrba che scuote il capo anche lui con un sorriso sciocco. Dall’albergo arriva Liza con le braccia piene di fiori. Orlov la scorge, si alza im mediatamente e le si avvicina). O rlov : Possibile che non siano mai state pronunciate tutte quelle te nere, delicate, innocenti parole che le sussurravo all’orecchio da vanti a quel salon de modes su gli Champs-Elysées dove lei la vorava, e il cui lusso sfarzoso con trastava in modo così stridente con l’ambiente proletario della casa popolare dove lei viveva con sua madre e i suoi fratelli? Pos sibile che non siano mai stati giovani? Lisa: Che cosa lei abbia fatto in gioventù, conte, io non lo so. So soltanto che io non c’ero. Per mette? {Liza evita Orlov, scen de in giardino e va verso sinistra, ma Orlov la oltrepassa e le sbar ra la strada). O rlov: Ma se lei non c’era, que sto vuol dire che non c’è stato nulla! Si rende conto di cosa vorrebbe togliermi? E, pensare che basterebbe una sua parola e io saprei che ho vissuto... che vivo... che sono proprio io... Li za, la mia identità è nelle sue mani! Mi salvi! Liza: Mi scusi, conte, ma non posso mica salvare la sua identità negando la mia! Debbo pregarla di farmi la cortesia di non par lare più di queste cose con me. {Liza evita Orlov ed esce da si nistra. Orlov la insegue dispe ratamente). O rlov: {fuori scena) Liza! Liza! {Una breve pausa). Kubik: {a Dlask) Mi scusi, ma quel l’amico di suo fratello. Dlask: Ebbene? Kubik: Lui l’ha invitata a quella festa? Dlask: Signore Iddio! Ma se è amico di mio fratello! {Da destra entra quasi di corsa Liza con i suoi fiori e si dirige verso l’albergo, seguita da Orlov). Orlov: Liza! (.Entrano tutt’e due nell’albergo. Una breve pausa). Tubik: (a Dlask) Sta bene... ma quanto a me. Dlask: Quanto a lei, cosa? Lei viene con me e basta! Kubik: Ma non si può. Dlask: E perché non si potreb be? Ma lo sa lei che avvenimen to è una festa di villaggio come quella? Sa quanta gente nuova ci sarà? E noi dovremmo — pro prio noi due — lasciarci sfuggire una tale occasione? Ma lei è matto! {Da sinistra entra quasi di corsa Liza con i suoi fiori e si dirige ver so destra, seguita da Orlov). O rlov: Liza! (Escono entrambi da destra. Una breve pausa). Kubik: {a Dlask) Io ci verrei vo lentieri, ma lei deve capire che... Dlask: Ma se forse ci sarà anche mio fratello! Kubik: Lo so. Dlask: E lei non vuol conoscere mio fratello? Spero che non lo dica sul serio! Ho già visto che treni ci sono. {Da sinistra entra in fretta Liza con i suoi fiori e si dirige verso l’albergo seguita da Orlov). O rlov: Liza! (Entrano tutt’e due nell’albergo. Una breve pausa). Kubik: {a Dlask) Lei non deve of fendersi... ma io credo che... in considerazione della mia situa zione. Dlask: Per quel che riguarda la sua situazione, mi sembra di aver le già detto quel che ne penso, no? Kubik: Ma qui non si tratta sol tanto di lei! Io so che lei non ha paura... ma qui c’è di mezzo an che suo fratello... quel suo amico padrone delPosteria...' e una quan tità d’altre persone... e non pos siamo mica mettere tutta questa gente davanti al fatto compiuto! Possibile che non lo capisca? {Da destra entra Orlov, attraversa lentamente la scena, sale sulla ve randa e si siede pesantemente al suo posto accanto a Titz). Dlask: (sottovoce) Questo non avrebbe dovuto dirlo. Kubik: Perché? Dlask: Ha offeso mio fratello! {Pechar ■intanto ha ricominciato a radersi. Una breve pausa; poi si ode in lontananza il fischio del tre no e tutti i presenti guardano si multaneamente l’orologio. Foco do po escono dall’albergo Drasar e, die tro di lui, Kraus. Si fermano en trambi sulla veranda. Immediata mente tutti i presenti si alzano). Pechar: Buongiorno, signor diret tore. Titz: Salve, Pepik. (Drasar non reagisce in nessun modo al saluto confidenziale di Titz. Accenna appena con la mano che i presenti possono sedersi; quando tutti si son seduti, comincia a fru garsi in tasca cercando qualcosa, finché tira fuori un pezzetto di car ta sporca; gli dà un’occhiata e quin di si rivolge ai presenti). Drasar: Ci fa piacere che stiate in giardino... (dà un’occhiata al fo glietto) Il regolamento dell’alber go vale per tutti senza eccezione... (dà un’occhiata al foglietto) Per la colazione del mattino vi ab biamo assicurato una maggiore quantità di te... (dà un’occhiata al foglietto) Come uno si fa il letto, cosi si corica... (dà un’occhiata al foglietto) Qui noi non discri miniamo nessuno... (dà un’occhia ta al foglietto) Abbiamo messo la luce al gabinetto... (dà un’oc chiata al foglietto) Dipende da ognuno di noi. (Sembra che Dra sar intenda continuare; osserva il foglietto da una parte e dall’al tra, ma vede che non c’è scritto nient’altro e se lo rimette in ta sca. Segue un applauso un po’ sforzato. Quindi Drasar accenna con la mano che intende continua re la sua allocuzione; tutti fanno silenzio; Drasar riflette intensa mente per qualche istante. Come siamo arrivati fin qui, così andre mo avanti (manifestazioni di ri spettoso consenso; una pausa; Drasar riflette). Ogni cosa a suo tempo (manifestazioni di rispet toso consenso; una pausa; Dra sar riflette). La vita continua manifestazioni di rispettoso con senso; una pausa; Drasar riflette, ma evidentemente non gli viene in mente più nulla, e allora co. mincia a fare il giro dei presenti stringendo la mano a tutti). Titz: Magnifico, Pepik! (Drasar non rileva l’osservazione di Titz, e al contrario non stringe la mano unicamente a lui. Si arresta invece, tra la silenziosa meravi glia dei presenti, accanto a Kubik). Drasar: Tu sei scrittore? Kubik: Sì, signor direttore. (Drasar approva più volte col ca po, poi dice). Drasar: La letteratura è importan te. Drasar ci pensa su ancora qual che istante poi improvvisamente assesta un’amichevole pacca sul sedere a Kubik; quindi si volta verso Rachel e le fa un cenno col capo di seguirlo; fa un gesto di saluto agli altri e rientra rapida mente in albergo, seguito da Ra chel. Distensione generale. Kraus dà un’occhiata verso l’albergo per assicurarsi che Drasar sia già fuo ri vista, quindi si rivolge con un sorriso a Kubik). Kraus: Che pagliaccio, eh? Kubik: Non è poi così cattivo. Kraus: Ma fammi il piacere! Quan do penso che da direttore forse mi comportavo come lui, mi vie ne la nausea! Eh, caro mio, è davvero terribile specchiarmi in lui così dal basso! Ti dico fran camente, Josef, che non lo farei più per tutto l’oro del mondo. Titz: (a Kraus) Pepik. Kraus : (guardando Titz) Desidera? freddamente Titz: Io volevo soltanto... se non sai per caso... (Kraus ha un gesto di fastidio; quindi si rivolge a tutti gli astanti). Kraus : La festa di domani mi sem bra un’ottima idea. Anzitutto per ché ci permetterà finalmente di conoscerci un po’ meglio e forse anche di avvicinarci un po’ più. Infatti è davvero una vergogna: da tanto tempo ormai viviamo sotto uno stesso tetto, mangiamo gli stessi cibi, passeggiamo per gli stessi luoghi, eppure ci compor tiamo fra noi quasi come estra nei! Non è forse tempo di spez zare le barriere che si ergono tra di noi? Non è forse ora che im pariamo ad aprirci un po’ l’uno con l’altro? (Kraus tace assorto e per qualche istante resta a fis sare il vuoto davanti a sé; poi abbozza un timido sorriso a Ku bik e rientra in fretta nell’alber go. Dna breve pausa; quindi Or- lov si rivolge a Pechar che ha già ricominciato a radersi). O rlov: Posso farle una domanda? Pechar: Certo. Orlov: Non le capita mai di aver paura? Pechar: Io? E di che? O rlov: Ma così, in generale. Pechar: Vuol dire della morte? O rlov: Della vita piuttosto. Pechar: Ma mi faccia il piacere, che razza d’idee! (Pechar smette di radersi, ripone il rasoio, si to glie il cappello e comincia a pet tinarsi. Intanto canticchia sotto voce la solita canzone)... (cantando) Avess’io l’ali volerei come il vento, avess’io l’ali a gara volerei verso di te. (cala il sipario). ATTO QUARTO (Quando si alza il sipario, siedo no questa volta sulla veranda al ta volino di sinistra Kotrba e a quello di destra Orlov e Dlask che hanno davanti a sé una bottiglia di vino e due bicchieri. Al tavolino in giar dino, al posto dove prima sedeva Rachel, siede adesso Kubik. Sulla panchina a destra sta seduta Rachel intenta al suo lavoro a maglia, con la borsa accanto. In mezzo alla sce na, sulla coperta, come negli atti precedenti, se ne sta seduto Pechar che si sta cospargendo accuratamen te il corpo con crema abbronzante e intanto canta sottovoce la solita canzone). Pechar: (cantando) Sol presso alla [tua riva è bello vivere, bello è sognare là dove anche tu al mattino sogni. Avess’io l’ali. (Il canto di Pechar sfuma in un sommesso mormorio che nel corso del dialogo si va affievolendo, fin ché tace del tutto). Rachel: (a Orlov) Intorno a Voro- nez ci sono molti boschi? Orlov: Spiacente, ma francamente non glielo so dire. Rachel: Eppure lei aveva detto di esser nato lì. O rlov: A Voronez? No. {Una pausa). Dlask: (a Orlov) Non l’annoio per caso? O rlov: Io faccio volentieri cono scenza con gente nuova. Dlask: Evidentemente allora sia mo dei tipi simili. {Dall’albergo esce Liza con le brac cia piene di fiori. Appena scorge Orlov si arresta, rimane imbarazza ta per qualche istante, poi dice ti midamente). Liza: Lei voleva chiedermi qual cosa? O rlov: Io? No. Liza: Allora mi scusi... avevo pen sato che... mi scusi. {Liza esce in fretta da destra. Poco dopo da destra arriva rotolando sulla sce na una palla; dietro la palla arri va anche Titz che la raccoglie e dà un’occhiata agli astanti, finché scorge Kubik). Titz: Dov’è stato tutto il pome riggio? chezza. Kubik: Ho schiacciato un pisolino. Titz.: Di pomeriggio? Che scioc Rachel: {a Orlov) Comunque lei è nato in Russia. Orlov: In Russia? E perché pro prio in Russia? Rachel: Ma lei è russo. O rlov: Difficile dirlo. {Una pausa). Dlask: {a Orlov) Lei non deve aver avuto una vita facile, eh? O rlov: Dipende. Dlask: No, no, certo non l’ha avu ta facile, lo confessi! Ma del re sto neanch’io! O rlov: Eppure tutt’e due — per quanto la mostra sia stata una vita da cani — l’abbiamo sop portata con dignità. Dico bene? Dlask: Per quanto mi riguarda, io mi sono sforzato. {Da sinistra entra Liza con le braccia piene di fori. Appena scor ge Orlov si arresta, rimane imba razzata per qualche istante, poi dice timidamente). Liza: Quella sua domanda non si riferiva per caso a Parigi? Orlov: Parigi? Liza: Forse lei voleva sapere se, anni fa, noi non ci siamo... Orlov: Si tratta evidentemente di un equivoco. Per quanto mi ri cordo, non sono mai stato a Pa rigi. Liza: Allora mi scusi... avevo pen sato che... mi scusi {Liza rientra in fretta in albergo. Una breve pausa). Titz: {a Kubik) Una giornata co me questa, non si vede una nu voletta, soffia un venticello pri maverile e lei se ne resta tappa to in casa! {Pechar, che sta continuando a guardarsi allo specchio, si rivolge a Titz, senza peraltro guardarlo in faccia). Pechar: Se lei s’immagina di aver fatto bene, ebbene le dico subito che si sbaglia di grosso. Lei ha praticamente esercitato una sorta di violenza morale! Titz: Questo poi. {Pechar ripone lo specchietto, prende il rasoio elettrico e comin cia a radersi). Kubik: {a Titz) E per il resto? Titz: Per il resto cosa? Kubik: Come si sente psichicamen te? Direi nulla di eccezionale. Kubik: Non mi lamento. {Una pausa; quindi in lontananza si ode il fischio del treno e tutti i presenti guardano simultaneamente l’orologio). Rachel: {a Orlov) Mi scusi, ma. Orlov: Che c’è? Rachel: Posso chiederle allora do v’è nato? Orlov: Che ne so io. Rachel: Ma si $arà pure interes sato di conoscere la sua origine. Orlov: E perché avrei dovuto farlo? Rachel: Ma allora non è neanche sicuro che lei sia conte! {Una pausa). Kubik: {a Titz) Perché poi dome nica non è stato a quella festa? Titz: Nella mia situazione? Kubik: Proprio nella sua situazione avrebbe dovuto andarci! Lei così ha perso un’occasione che non le si ripresenterà tanto presto. {Una pausa). Orlov: (a Dlask) Soffre di nostal gia, eh? {Dlask accenna di sì col capo). Orlov: Io non sono molto per i ricordi. Sono un tipo che guarda piuttosto in avanti che indietro. Infatti non ricordo quasi nulla. Dlask: Lei ha un carattere fortu nato. {Una pausa). Kubik: {a Titz) Posso dirle la ve rità, Titz? Titz: Naturalmente. Kubik: Ho come l’impressione che lei abbia semplicemente rinun ciato. Titz: A che? Kubik: A tutto. {Una pausa). Orlov: {a Dlask) Naturalmente ca pita a chiunque di scivolare qual che volta, ma questo in fin dei conti è umano... sostanzialmente si può dire che noi due ci siamo battuti e quindi non abbiamo di che vergognarci. Dlask: E possiamo tranquillamen te guardarci negli occhi. Orlov: E ora che abbiamo fatto tanta strada sul cammino della vi ta e siamo arrivati, per cosi dire, in vista del traguardo, ebbene bi sognerebbe proprio che il diavolo ci mettesse la coda perché non arrivassimo a tagliarlo! Special- mente se noi due riuniremo le nostre forze! Dico bene? Dlask: Hm. {Una pausa). Kubik: {a Titz) Spero almeno che verrà alla festa di domani per il compleanno del direttore! {Da destra entra in fretta Liza con le braccia piene di fiori e subito, con'aria eccitata, si rivol ge a Orlov). Liza: E allora il negozio di anti quariato di Vrubecky? E le let ture dei Canti di Maldoror? E la sua mansarde di studente in rue Jacob? O rlov: Non so di che cosa parli. Liza: {gridando disperata) Sergej! (Dlask si alza con aria eccitata e si accosta d’un balzo a Liza). Dlask: Liza! Ma dunque è pro prio lei! Si ricorda dei nostri an ni di gioventù a Parigi? Liza: Mi dispiace, signor Dlask, ma io non sono mai stata a Pa rigi. Permette? (Liza evita Dlask ed esce da sinistra. Dlask la segue in fretta). Dlask: (fuori scena) Liza! Liza! (Una pausa; quindi in lontananza si ode il fischio del treno e tutti i presenti guardano simultaneamen te l’orologio. Poco dopo esce dal l’albergo Milena portando un vas soio con dei bicchieri di succo di frutta. Dapprima offre a Kotrba). Milena: Prego. (Kotrba prende un bicchiere con un cenno di ringraziamento. Quin di Milena si rivolge interrogati vamente a Orloy, ma questi si li mita a un cenno di diniego; al lora Milena scende in giardino e offre a Rachel, che prende un bic chiere). Rachel: Grazie, Milena. (.Milena passa ad offrire a Titz e a Kubìk; Kubik prende dal vas soio due bicchieri). Kubìk: (a Titz) Prenda. Titz: Non ho sete. Kubìk: Ma lei ha bisogno di vita mine. (Alla fine Titz prende il bicchie re; Milena offre a Pechar il quale però le volta ostentatamente le spalle continuando a radersi. Una pausa piena d’imbarazzo) Milena: Cosa le prende? Pechar: Se ne vada! Milena: Lei è arrabbiato con me? Pechar: Non mi ha sentito? (Una pausa). Milena: Ma se lei stesso mi ha consigliato di non gettare olio sul fuoco e di porre fine a quella relazione nel modo più delicato possibile. (Pechar ripone il rasoio elettrico e alza lo sguardo su Milena). Pechar: Ma con questo non inten devo che lei facesse il doppio gioco! Lei si comporta come una puttana! Milena: Vilém! Pechar: Lei pensa che io non sap pia come lui s’immagina che an dranno le cose? Secondo lui io la dovrei portar via di qui e man tenerla alla scuola alberghiera; poi lei spremerà soldi dalla nostra pensione e intanto ve la spasse rete a letto insieme! Questo gli farebbe proprio comodo: avere lei a sua disposizione, grazie a me, e intanto non doversi impe gnare personalmente a nulla. E lei ci starebbe! Milena: Come può dire una cosa simile? Pechar: Altrimenti non sarebbe sta ta ad ascoltare tranquillamente le sue proposte. Milena: Ma se mi entrano da un orecchio e mi escono dall’altro. Pechar: Le proposte mie sono one ste- ed io esigo onestà anche da lei! Le consiglio di pensarci bene prima che sia troppo tardi. O lui e io! E’ chiaro? Milena: (con asprezza) E va bene! (con passo deciso Milena rientra in albergo col vassoio. Pechar è un po’ imbarazzato-, scuote il capo con aria incerta e si guarda intor no fissando gli astanti con un sor riso sciocco. 'Nessuno gli bada, ec cetto Kotrba che scuote il capo anche lui con un sorriso sciocco. Intanto dall’albergo è tornalo Dlask che è andato a sedersi con aria avvilita al suo solito posto. Frattanto Orlov si è alzato, ha tirato fuori di tasca un mazzo di carte e si è accostato al tavolo dove siedono Kubìk. e Titz. Ora fa schioccare le carte e sorride a Titz con aria invitante). Titz: Mi dispiace, ma io non gioco. Orlov: Peccato. (Orlov si stringe con aria delusa nelle spalle, si ri mette le carte in tasca e si siede su una sedia libera accanto a Titz. Da sinistra entra Kunc. Nessuno dei presenti fa mostra di accor gersi di lui, eccetto Kotrba che gli fa subito un amichevole cen no del capo e gli sorride. Anche Kunc sorride a Kotrba; va diret tamente verso di lui, si piega sul la sua spalla e per un pezzo gli sussurra qualcosa all’ore'cchio. Kotrba sembra molto divertito e Kubìk: Andiamo a giocare un po’? Dlask: Mi dispiace, ma io non gioco (Kubìk sale sulla veranda, si siede acanto a Dlask e appog gia la palla sul suo tavolino). Kubìk: Lei fa del male a se stesso evitando così ostinatamente di fa re del moto! Orlov: (a Titz) Lei non stava male? Titz: Quando? Orlov: Ieri, quando c’è stata la festa per il compleanno del diret tore. Kubìk: (a Dlask) Cos’ha fatto poi stamattina? Dlask: Ho letto un po’ Kubìk: Magari delle copie di vec chie lettere, eh? Orlov: Poteva farsi vedere alme no un momento. Titz: Penso che sia stato meglio così. ogni tanto scoppia a ridere. Quan do finalmente Kunc smette di parlare all’orecchio di Kotrba, en trambi continuano per un po’ a ridere insieme, poi si scambia no delle amichevoli manate sul le spalle, dopodiché Kunc esce in fretta da sinistra. Kubìk si al za, prende dal tavolo la palla e si mette palleggiare in mezzo alla scena; quindi si rivolge a Dlask sulla veranda). Kubìk: (a Dlask) Possibile che per lei non esista nient’altro che il passato? Lei non fa che afflig gersi, ricordare, sospirare e spre care così il suo tempo... è anco ra capace di desiderare davvero qualcosa? Orlov: (a Titz) Lei cosa pensava di fare domenica? Titz: Perché? Orlov: Perché andremo insieme a una festa. Kubìk: (a Titz) Se davvero ormai non le importa più nulla della vita non so proprio che cosa ci sta ancora a fare qui. Pecharovà': (chiamando fuori sce na) Vilém! (Pechar, che intanto a ripreso a radersi, si rivolge a Titz, senza peraltro guardarlo in faccia). Pechar: Con quella faccenda del la festa lei si è messo definitiva mente fuori gioco! Per fortuna, non le resta più molto tempo per le sue smargiassate! PecharovÀ: (•chiamando fuori sce. na) Vilém! andrò. Dlask: Penso che presto me ne Rachel: (alzando lo sguardo dal lavoro a maglia) Non le piace qui da noi? Dlask': Io non resisto a lungo in nessun posto... sono fatto così. Rachel: Sarà triste qui senza di lei. PecharovÀ: (chiamando fuori sce na) Vilém! Pechar: (a Titz) Vedrà che pre sto le faranno passare la voglia! (da sinistra entra Pecbarovà con in mano una giacca di maggia. Va direttamente da Pechar, s’in ginocchia accanto a lui e l’aiu ta a indossare la giacca). PecharovÀ: (sottovoce) Vilém. Pechar: Che c’è? PecharovÀ: Se davvero ti piace tanto, perché non ci provi? Pechar: Avrà delle inibizioni. PecharovÀ: E tu inventale qualco sa... per esempio, che la porterai via di qui... che le farai frequen tare una scuola alberghiera... e che in seguito metterete su una pensione per conto vostro. Pechar: Ma quell’altro? PecharovÀ: Che fastidio può dar ti quello? Al contrario: quando ti sarai stufato di lei avrai alme no una scusa per piantarla. (Pecbarovà ha fatto infilare a Pe char la giacca, dà un'occhiata nel termos e rientra in fretta in al bergo con il thermos in mano. Pe char si toglie la giacca, la piega accuratamente e la poggia sulla coperta accanto a sé; quindi ri comincia a cospargersi il corpo di crema abbronzante. Una pau sa. Poi Kubik si rivolge a Orlov giù in giardino). Kubìk: Com’è andata la passeg giata? Orlov: Non sono stato a passeg gio. Ha scritto stanotte? Kubìk: Non riuscivo a prender son no e così ho letto un po’. Spero che almeno avrà preso un po’ di sole. O rlov: Lei sa che non sopporto il sole. E allora perché non si è messo a scrivere, dal momento che non riusciva ad addormen tarsi? Kubìk: Così... non ne avevo vo glia. E allora no può stupirsi di avere l’aspetto che ha! Orlov: Lei sa che non sopporto il sole. E allora perché non si è messo a scrivere, dal momento che non riusciva ad addormen tarsi? Kubìk: Non riuscivo a prendet sonno, e così ho letto un po’. Spero che almeno avrà preso un po di «ole. Orlov: Non sono stato a passeg gio. Ha scritto stanotte? Kubìk: Com’è andata la passeg giata? (Pechar, che continua a cospar gersi di crema, ricomincia a can tare sottovoce la solita canzone). Pechar: (cantando) Avess’io l’ali volerei come il vento, avess’io l’ali a gara volerei verso di te. (in lontananza si ode il fischio del treno e tutti i presenti guardano simultaneamente l’orologio. Po co dopo escono dall’albergo Kraus e, dietro di lui, Drasar. Si ferma no entrambi sulla veranda. Im mediatamente tutti i presenti si alzano). Buongiorno, signor direttore. Kubìk: Salve, Pepik. (Kraus non reagisce in nessun modo al saluto confidenziale di Kubìk. Accenna appena con la mano che i presenti possono se dersi; quando tutti si sono se duti, comincia a frugarsi in ta sca cercando qualcosa, finché ti ra fuori un pezzetto di carta spor ca; gli dà un’occhiata e quindi si rivolge ai presenti). Kraus: Ci fa piacere che stiate in giardino... (dà un’occhiata al fo glietto) Qui noi non discriminia mo nessuno... (dà un’occhiata al foglietto) Abbiamo messo la lu ce al gabinetto... (dà un’occhiata al foglietto) Dipende da ognuno di noi. (Sembra che Kraus intenda con tinuare, osserva il foglietto da una parte e dall’altra, ma vede che non c’è scritto nient’altro e se lo rimette in tasca. Segue un applauso un po’ sforzato. Quin di Kraus accenna con la mano che intende continuare la sua al locuzione; tutti fanno silenzio; Kraus riflette intensamente per qualche istante e finalmente rie sce a dire). La vita continua. (cala il sipario). ATTO QUINTO (Quando si alza il sipario sulla ve randa al tavolino di sinistra sta se duto Kubik che legge il giornale; a quello di destra sta seduto Kotrba. Al tavolino in giardino sta seduta Rachel che sta facendo la maglia. Sulla panchina a destra sta seduto Orlov. In mezzo alla scena — co me negli atti precedenti — Pechar sta seduto su una coperta cospar gendosi accuratamente il corpo di crema abbronzante, e intanto mor mora la solita melodia. Dopo qual che istante da sinistra arriva roto lando sulla scena una palla; dietro la palla arriva anche Titz che la raccoglie e dà un’occhiata agli astan ti, finché scorge Orlov). Titz: Dov’è stato tutto il pome riggio? Orlov: Ho schiacciato un pisolino. (Titz si siede sulla panchina ac canto a Orlov, con la palla in grem bo. Pechar si rivolge a Kubik, senza peraltro guardarlo in faccia). Pechar: Dica un po’, dottore. Titz: Forse lei penserà che non è affar nostro. Orlov: Eppure è una cosa che ci tocca un po’ tutti quanti. Rachel: In fin dei conti si tratta pur sempre del compleanno del direttore, no? Pechar: Per lei è proprio lo stesso andarci o no. Titz: E allora perché provocarlo? O rlov : Questo lei dovrebbe capirlo da sé e non complicare inutilmen te la situazione. (Dall’albergo esce Drasar, si fer ma sulla veranda e si rivolge con un sorriso a Titz). Drasar: Eh, caro mio, è davvero terribile specchiarmi in lui cosi dal basso! così dal basso! (Da sinistra entra Pecharova con un bicchier d’acqua e una pillola). Pecharova: (a Pechar) Ti ho por tato l’aspirina. (Pecharova porge a Pechar l’aspirina e questi la manda giù con un sorso d’acqua; Pecharova rientra in albergo). Drasar: (a Titz) Ti dico franca mente, Josef, che non lo farei più per tutto l’oro del mondo. Kubik: (a Drasar) Pepile. (Drasar ha un gesto di fastidio e rientra in albergo. Poco dopo esce dall’albergo Dlask; in una mano por ta una bottiglia di vino e nell’altra due bicchieri. Si guarda intorno e, scorgendo Kubik, si avvicina al suo tavolino). Dlask: Posso? Kubik: [alzando lo sguardo, mera la vigliato) Ma naturalmente... prego. {Kubik offre una sedia a Dlask. Questi si siede e riempie di vino i due bicchieri). Dlask: Non le dispiace che mi sia seduto accanto a lei? Titz: Quando qualcuno mi è sim patico e ho l’occasione di attaccar discorso, mi butto senza stare a pensarci tanto. Rachel: Eh, ce ne vuole del tempo prima che due persone possano dire veramente d’intendersi. Orlov: Capita a chiunque di scivo lare qualche volta. Pechar: L’importante è considera re globalmente tutto l’insieme. Dlask: Da questo punto di vista si può sostanzialmente dire che ci siamo battuti. Titz: E quindi possiamo tranquil lamente guardarci negli occhi. Rachel: Ormai che abbiamo fatto tanta strada sul cammino della vita. O rlov: Siamo arrivati, per così di re, in vista del traguardo. Kubik: Bisognerebbe proprio che il diavolo ci mettesse la coda per ché non arrivassimo a tagliarlo! Dico bene? Pechar: Vedrà che presto le fa ranno passare la voglia! [Da destra entra Liza con le brac cia piene di fiori. Appena Orlov la scorge, si alza rapidamente e le sbar ra la strada). Orlov: (sottovoce) Non posso cre dere che abbia dimenticato tutto! Liza: Permette? (Liza evita Orlov ed esce da sini stra. Orlov la segue in fretta). Orlov: (fuori scena) Liza! Liza! {In lontananza si ode il fischio del treno e tutti i presenti guardano simultaneamente l’orologio. Dall’al bergo esce Kraus, si ferma sulla ve randa e si rivolge con un sorriso a Kubik). Kraus: Eh, caro mio, è proprio terribile specchiarmi in lui così dal basso! {Da sinistra entra Pecharova con un bicchier d’acqua e una pillola). Pecharova: {a Pechar) Ti ho por tato l’aspirina. (Pecharova dà la aspirina a Pechar che la manda già con un sorso d’acqua; Pecha rova rientra in albergo). Kraus: {a Kubik) Ti dico franca mente, Josef, che non lo farei più per tutto l’oro del mondo. Dlask: (a Kraus) Pépik. {Kraus ha un gesto di fastidio e rientra in albergo. Poco dopo esce dall’albergo Orlov; in una mano porta una bottiglia di vino e nel l’altra due bicchieri. Si guarda in torno e, scorgendo Titz, gli si av vicina). ORlov: Posso? Titz: Ma naturalmente... la prego. (Orlov si siede sulla panchina ac canto a Titz, riempie di vino i due bicchieri, porge un bicchiere a Titz e poggia la bottiglia per terra da vanti a sé). Orlov: Non le dispiace che mi sia seduto accanto a lei? Kubik: Quando qualcuno mi è sim patico e ho l’occasione di attac car discorso, mi butto senza sta re a pensarci tanto. Titz: Eh, ce ne vuole del tempo prima che due persone possano dire veramente d’intendersi. Rachel: Capita a chiunque di sci volare qualche volta. Pechar: L’importante è considera re globalmente tutto l’insieme. O rlov: . Ormai che abbiamo fatto tanta strada sul cammino della vita. Kubik: Siamo arrivati, per così di re. in vista del traguardo. Dlask: Bisognerebbe proprio che il diavolo ci mettesse la coda per ché non arrivassimo a tagliarlo! Dico bene? Pechar: Vedrà che presto le fa ranno passare la voglia! {Dall’albergo esce Liza con le brac cia piene di fiori. Appena Titz la scorge, si alza rapidamente e le sbarra la strada). Titz: (sottovoce) Non posso cre dere che abbia dimenticato tutto! Liza: Permette? (Liza evita Titz ed esce da sinistra. Titz la segue in fretta). Titz: (fuori scena) Liza! Liza! (In lontananza si ode il fischio del treno e tutti i presenti guardano si multaneamente lorologio. Dall’alber go esce Drasar, si ferma sulla veran da e si rivolge con un sorriso a Dlask). Drasar: Eh, caro mio, è proprio terribile specchiarmi in lui così dal basso! (Da sinistra entra Milena con un bicchier d’acqua e una pillola). Milena: (a Pechar) Ti ho portato l’aspirina. (Milena dà l’aspirina a Pechar che la manda giù con un sorso d’acqua; Milena rientra in albergo). Drasar: (a Dlask) Ti dico franca mente, Josef, che non lo farei più per tutto l’oro del mondo. Orlov: (a Drasar) Pepik. (Drasar ha un gesto di fastidio e rientra in albergo. Poco dopo esce dall’albergo Titz; in una mano por ta una bottiglia di vino e nell’altra due bicchieri. Si guarda intorno e, scorgendo Orlov, gli si avvicina). Titz: Posso? O rlov: Ma naturalmente... la prego. (Titz si siede sulla panchina ac canto a Orlov, riempie di vino i due bicchieri, porge un bicchiere a Or lov e poggia la bottiglia per terra davanti a sé). Titz: Non le dispiace che mi sia seduto accanto a lei? Dlask: Quando qualcuno mi è sim patico e ho l’occasione di attaccar discorso, mi butto senza stare a pensarci tanto. Kubik: Eh, ce ne vuole del tempo prima due persone possano dire veramente d’intendersi. Pechar: Ormai che abbiamo fatto tanta strada sul cammino della vita. Titz: Siamo arrivati, per così dire, in vista del traguardo. Orlov: Bisognerebbe proprio che il diavolo ci mettesse la coda per ché non arrivassimo a tagliarlo' Dico bene? Rachel: Vedrà che presto le faran no passare la voglia! (Da destra entra Liza con le brac cia piene di fiori. Appena Pechar la scorge, si alza rapidamente e le sbarra la strada). Pechar: (sottovoce) Non posso cre dere che abbia dimenticato tutto! Liza: Permette? (Liza evita Pechar e rientra in al bergo. Pechar la segue in fretta). Pechar: (fuori scena) Liza! Liza! (Dall’albergo esce Pecharova por tando un vassoio con dei bicchieri di succo di frutta; offre a tutti i presenti, uno dopo l altro quindi poggia il vassoio sul tavolino in giardino, si siede sulla coperta di Pechar, si toglie il vestito e prende a cospargersi il corpo di crema ab bronzante e intanto canticchia la melodia di Pechar. Da sinistra entra Pechar con un bicchier d acqua e una pillola). (A Pecharova) Ti ho portato l’aspirina. (Pechar dà l’aspi rina a Pecharova che la manda giù con un sorso d’acqua; Pechar entra in albergo. Da sinistra entra Liza con la palla sottobraccio e si dirige verso destra. Kubik si alza imme diatamente e si affretta a seguirla). Kubik: Liza! (Entrambi escono da destra). Rachel: (a Pecharova) Non dimen tichi che è già settembre; il sole è ancora caldo, ma dalla terra vie ne freddo! (Dall’albergo esce Pechar; in una mano porta una bottiglia di vino e nell’altra due bicchieri. Si guarda intorno e, scorgendo Rachel, le si avvicina). la Pechar: Posso? Rachel: Ma naturalmente ... prego. (Pechar si siede accanto a Rachel e riempie di vino i due bicchieri. Da sinistra entra Liza con la palla sotto il braccio e si dirige verso l’albergo. Dlask si alza immediatamente e si affretta a seguirla). Dlask: Liza! (Entrambi entrano nell’albergo). Rachel: (a Pecharova) Non dimen tichi che è già settembre; il sole è ancora caldo, ma dalla terra vie ne freddo! (Da sinistra entra Kubik; in una mano porta una bottiglia di vino e nell’altra due bicchieri). Kubik: (a Pecharova) Ti ho portato l’aspirina. (Kubik si siede sulla coperta accanto a Pecharova e riempie i due bicchieri di vino. Da destra entra Milena con la palla sotto il braccio e si dirige verso sinistra. Orlov si alza im mediatamente e si affretta a se guirla). Orlov: Milena! (Entrambi. escono da sinistra). Rachel: (a Pecharova) Non dimen tichi che è già settembre; il sole è ancora caldo ma dalla terra vien freddo! (Da sinistra entra Liza; porta una bottiglia di vino in una mano e nel l’altra due bicchieri. Si guarda intor no e, scorgendo Titz, gli si avvicina). Liza: Posso? Titz: Ma naturalmente... la prego. (Liza si siede sulla panchina ac canto a Titz, riempie di vino i due bicchieri, ne porge uno a Titz e pog gia la bottiglia per terra davanti a sé. Da destra entra Dlask con le braccia piene di fiori. Si ferma da vanti a Pecharova e Kubik). Dlask: Se voi non avete cervello, bisogna che io ce Rabbia anche per voi. (Dlask sale sulla veranda e si siede al tavolino di sinistra. Da sinistra arriva Milena con un bicchier d’acqua e una pillola e si avvicina a Dlask). Milena: Dov’è stato tutto il po meriggio? Dlash: Ho schiacciato un pisolino. (Milena dà la pillola a Dlask che la manda giù con un sorso d’acqua; Milena si siede al tavolino accanto a lui. Da sinistra una palla arriva ro tolando sulla scena; dietro la palla arriva anche Orlóv che la raccoglie, dà un’occhiata agli astanti, finché scorge Pechar). Orlov: Perché non rispondi quan do ti chiamo? Pechar: Non dimenticare che è già settembre. (Orlov si siede accanto a Pechar e a Rachel e poggia la palla sul ta volo. Da sinistra entra Kunc. Nes suno dei presenti fa mostra di accor gersi di lui, eccetto Kotrba che gli fa subito un amichevole cenno del capo e gli sorride. Anche Kunc sor ride a Kotrba, si piega sulla sua spalla e per un pezzo gli sussurra qualcosa all’orecchio. Kotrba sembra molto divertito e ogni tanto scoppia a ridere. Quando finalmente Kunc smette di parlare all’orecchio di Ko trba entrambi continuano per un po’ a ridere insieme, poi si scambiano delle amichevoli manate sulle spalle e Kunc si siede accanto a Kotrba. Una pausa; poi in lontananza si ode il fischio del treno e tutti i presenti guardano simultaneamente l’orolo gio. Dall’albergo esce Drasar, si fer ma sulla veranda e si rivolge a tutti i presenti). Drasar: Non è forse ora di spez zare le barriere che ci separano? Non è forse ora di gettare la ma schera, liberarci dalle convenzioni e aprirci un po’ l’uno con l’altro? Non sembra, ma il tempo passa, la vita è breve e il tempo del vo stro soggiorno qui da noi scorre via rapido come l’acqua; prima ancora che ve n’accorgiate, alcuni di voi se ne saranno andati; poi coloro che resteranno cominceran- no a rimproverarsi — tardi, pur troppo — di essersi aperti cosi poco con chi è ormai irrimediabil mente partito e di esser riusciti così poco a fargli capire che — no nostante tutto — sentivano vera mente per lui qualcosa di più e di più profondo. (Dall’albergo esce Kraus e tutti i presenti si alzano; Drasar interrom pe la sua arringa e si fa da parte. Rachel: Naturalmente capita a chiunque di scivolare qualche volta. Titz: (a tutti) Ci si potrebbe ve dere più spesso, che ne dite? Drasar: Abbiamo messo la luce al gabinetto. (Nel corso del dialogo seguente tutti quelli che sono seduti, uno do po l’altro, si alzano e tutti i pre senti prendono a spostarsi qua e là per la scena, fermandosi tutti insie me, disponendosi per un attimo in varie costellazioni, per disperdersi poi subito dopo). Titz: (a Rachel) E allora? Partia mo insieme? Rachel: E sua moglie? Titz: Io guardo piuttosto in avan ti che indietro. Dlask: (a Orlov) Lei ha pratica- mente esercitato una sorta di vio lenza morale! Liza: (a Kraus) Bisognerebbe pro prio che il diavolo ci mettesse la coda perché non arrivassimo a tagliare il traguardo! Kraus: Dipende da ognuno di noi. Milena: (a Dlask) Tu sei scrit tore? Dlask: Ho schiacciato un pisolino. Drasar: (a Pecharova) Che pagliac Pecharova: La letteratura è impor Orlov: (a Pechar) Magnifico, Pe- Pechar: Vedrà che presto le fa ranno passare la voglia! Milena: (a Kubik) Lei ha offeso mio fratello! Kubik: Evidentemente allora sia mo dei tipi simili. Rachel: (a Pecharova) Sono sem pre pronta a rispondere delle mie azioni! Pecharova: (a tutti) Ci si potreb be vedere più spesso, che ne dite? Dlask: (a Titz) Abbiamo messo la cio, eh? tante. pik! Kraus accenna appena con la mano che i presenti possono sedersi; quan do tutti si son seduti, comincia a frugarsi in tasca cercando qualcosa, finché tira fuori un pezzetto di carta sporca; gli dà un’occhiata e quindi si rivolge agli astanti). Kraus: Il regolamento dell’alber go vale per tutti senza eccezione. [Kraus dà un’occhiata al suo fo glietto, lo rivolta e se lo ficca in tasca. Segue un applauso un po’ sforzato. Una pausa; poi in lonta nanza si ode il fischio del treno e tutti i presenti guardano simulta neamente l’orologio. Dlask tira fuo ri di tasca un mazzo di carte e si mette a mescolarlo con perizia e a farlo schioccare guardando Kraus e sorridendo con aria invitante’). Kraus: Mi dispiace, ma io non Dlask: Peccato. [Con aria delusa Dlask ripone le carte in tasca). Liza: [a Diti) Lei voleva chiedermi gioco. qualcosa? Titz: Io? No. [Una breve pausa). Pechar: Sono sempre pronto a ri spondere delle mie azioni! Pecharova: [a Kubik) 'Ci si potreb be vedere più spesso, che ne dice? Kubik: Lei non deve aver avuto una vita facile, eh? Kraus: Come siamo arrivati fin qui, così andremo avanti! (Una breve pausa). Orlov: Se solo avessi un po’ più di tempo mi metterei subito a scrivere le mie memorie! Di an no in anno ogni cosa mi torna sempre più nitida alla mente. Rachel: [a Kubik) Ma allora non è neanche sicuro che lei sia conte! Kubik: Vede, io non sono per la tattica! Drasar: Ogni cosa a suo tempo. (Una breve pausa). Titz: (a Milena) Ti comporti come luce al gabinetto. una puttana! Kubik: Perbacco, scrivere non è mica come zappare la terra! Kraus: La vita continua. (Una breve pausa). Titz: E per il resto? Dlask: Penso che presto me ne Kraus: (a Drasar) Non le piace andrò. qui da noi? Pecharova: La prima infanzia ha una grande importanza per la for mazione del carattere. Drasar: A che m’è servita poi la mia indipendenza se in realtà non sono mai stato felice? O rlov: (a Drasar) La colpa è sua perché non mangia frutta cotta. Liza: (a Pechar) Possibile che non siamo mai stati giovani? Pechar: Ho schiacciato un pisolino. Milena: (a Pecharova) Non le ca pita mai di aver paura? Pecharova: Io? E di che? Rachel: (a Dlask) Lei non vuol conoscere mio fratello? Spero che non lo dica sul serio. Dlask: Debbo pregarla di farmi la cortesia di non parlare più di queste cose con me. Milena: (a tutti) Siete tutti uguali! Liza: (a tutti) Ci si potrebbe ve dere più spesso, che ne dite? Kubik: La vita continua. (Nel corso del dialogo seguente l’orchestra comincia a suonare in. sorina il motivo centrale dal film « Il dottor Zivago ». A poco a po co la musica diventa più forte e tut ti i personaggi, pur continuando a dialogare e a muoversi per la scena, cominciano quasi inavvertitamente e automaticamente a ondeggiare a ritmo di valzer. Mano a mano che la musica si fa più forte, anche il loro ondeggiare si fa più accentuato ed evidente). Titz: (a Drasar) Ma lo sa lei che avvenimento è una festa di vil laggio come quella? Drasar: Per la colazione del mat tino vi abbiamo assicurato una maggiore quantità di tè. Pecharova: (a Dlask) Il regolamen to dell’albergo vale per tutti senza eccezione. Rachel: (a Titz) Ma lei è russo. Titz: Debbo pregarla di farmi la cortesia di non parlare più di queste cose con me. Orlov: (a Titz) Evidentemente al lora siamo dei tipi simili. Dlask: (a Orlov) La colpa è sua perché non mangia frutta cotta. Orlov: Lei ha praticamente eserci tato una sorta di violenza morale. Milena: Vedrà che presto le faran no passare la voglia! Titz: La vita continua. Liza: (a Kraus) E allora? Partiamo insieme? Pechar: (a Drasar) Ma allora non è neanche sicuro che lei sia conte! Drasar: Ogni cosa a suo tempo. Pecharova: [a tutti) Siete tutti tante. uguali! Pechar: (a tutti) Ci si potrebbe vedere più spesso, che ne dite? Kraus: Io non sono molto per i ricordi. Guardo piuttosto in avan ti che indietro. Dlask: Di anno in anno ogni cosa mi torna sempre più nitida alla mente. Titz: Qui noi non discriminiamo nessuno. Milena: Possibile che non siamo mai stati giovani? O rlov: Corvi, divoratemi... Ecco il suo credo! Drasar: Ci si potrebbe vedere più spesso, che ne dite? Liza: La vita continua. Titz: Possibile che non siamo mai stati giovani? Pechar: Di anno in anno ogni cosa mi torna sempre più nitida alla mente. Kraus: Siete tutti uguali! Orlov: Qui noi non discriminiamo nessuno. Pecharova: La letteratura è impor Milena: Ogni cosa a suo tempo. Liza: La letteratura è importante. Titz: Qui noi non discriminiamo nessuno. Pechar: Siete tutti uguali! Kraus: Di anno in anno ogni cosa mi torna sempre più nitida alla mente. Orlov: Possibile che non siamo mai stati giovani? Drasar: La vita continua. La musica suona sempre più for te, tanto che ora soffoca compieta- mente il dialogo. Il movimento dei personaggi sulla scena si trasforma gradatamente in una danza', dap prima comincia a ballare una cop pia, poi se ne aggiunge un’altra, e alla fine ballano tutti, compresi Ko- trba e Kung e i cavalieri che sono rimasti senza dama ballano insieme. La composizione delle coppie cam bia continuamente : i cavalieri si scambiano le dame o si alternano in coppia tra di loro. La danza si fa sempre più selvaggia, la musica suo na sempre più forte, finché tutto il palcoscenico si trasforma in un ine briante vortice di valzer. Quando quel vortice frenetico ha raggiunto il • suo culmine, ecco che la musica comincia a poco a poco ad affievo lirsi, la danza si fa più calma, le singole coppie passano gradatamente dalla danza al ritmico ondeggiamen to di prima e quindi si sciolgono una dopo l’altra e tutti i presenti tornano ad occupare il loro posto precedente. Finalmente la musica tace del tutto, ogni movimento sul la scena si arresta e tutti i perso naggi fissano la platea in atteggia mento sempre più rigido. Segue un lungo silenzio di tomba e lo sguardo dei personaggi assume una fissità ad dirittura spettrale, effetto che può venire messo in risalto anche dal l’illuminazione, giacché le luci sul la scena cominciano ad abbassarsi gradatamente. Quando questo spet tacolo allucinante di morte si va ormai facendo intollerabilmente lun go, ecco che il sipario comincia a calare lentamente; quando finalmen te si chiude del tutto, si ode in lon tananza il fischio del treno). FINE E n t e T e a t r a l e I t a i l i a n o I l p iù im p o rta n te c irc u ito d i te a tri in Ita lia ■ C ollegam enti re g io n a li con l ’Abruzzo-M olise: A T A M ■ Con il consorzio te a tra le calabrese 66 t e a t r i In iz ia tiv e per la sperim entazione: « T eatro da V o i » in collaborazione con l ’A T IS P 1 m ilio n e d i s p e tta to r i d u e m ila r e c ite l'a n n o In iz ia tiv e a lla P ergola d i Firenze per « E T I 21 » In iz ia tiv e in P u g lia per « E T I 2000 » In iz ia tiv e a Bologna - « Duse G iovani » ■ P rogram m azione concordata con i C om uni R a p p o rti con le Associazioni del tem po lib e ro A R C I- A C LI-E N D A S , con i l m ondo della scuola R a p p o rti con tu tte le com ponenti del m ondo te a tra le ita lia n o ■ In iz ia tiv e per valorizzare i l teatro ita lia n o a ll’estero l i t i i n e d i t o d i V i t a l i a n o B r a m a t i « d L e n o z z e i f f ì c i l i » Parlo con Antonia Brancati e con Aldo Grimaldi di questo ine dito di Brancati: «Le nozze dif ficili ». Qualche giorno dopo me lo sfoglio con una certa emo zione: le pagine battute a mac china fittamente su carta veli na — quella carta velina ingial lita del tempo di guerra che probabilmente sapeva più di cel lulosa, anche se autarchica, dei nostri fogli di extrastrong — pa gine dattiloscritte « in casa », ma pulitamente, con pochissimi er rori; corrette qua e là con in chiostro verde (per esempio spic ca curiosamente un « pentimen to » dell’A.: fa diventare figlia del sindaco una figlia del podestà inserita nel racconto, prova che tra scrittura e rilettura i tempi erano cambiati ed ai podestà erano subentrati i sindaci co munali!): comunque — e questa fu la mia nettissima sensazio ne — erano pagine vive, a loro modo parlanti. Domando ad Antonia se il Pa dre scriveva di getto, o me glio dire, se batteva a macchina direttamente un copione senza passare attraverso minute o pri me stesure scritte a mano. Ed Antonia mi conferma quanto ave vo intuito: che Brancati scrive va e riscriveva la sua pagina — drammatica o narrativa che fos se — su quadernetti da quinta elementare, ad un rigo, per in tenderci, e poi, alla fine del suo travaglio di autore, si batteva personalmente il testo con estre ma attenzione. « Solo negli ulti mi anni, mi dice Antonia, passò il suo manoscritto ad una segre taria, per la copiatura: quando il suo successo ormai lo aveva portati a Roma e gli aveva dato una certa agiatezza ». Queste « Nozze », isolane a tutti gli effetti: Brancati le scrisse — le terminò di scrive re — il 5 luglio del 1943, a Via- grande e ne annotò la data pro prio alla fine del copione, pun tigliosamente. Domando se co- desto era un suo costume, ma non ottengo precise risposte per ché bisognerebbe consultare i manoscritti. invece, sono Passo alla lettura: inutile dire che mi divoro il testo. A lettu tra ra finita mi fermo e mi metto a pensare: e dato che non sono un « braneatologo » — come la mia amica Titti Palma — per un po’ brancolo nel buio. 0 me glio brancolo tra le mille idee che,- mi si affacciano, tra i r i cordi di tutti i discorsi— viva ci, approfonditi, seri — che fa cemmo Silverio Blasi, la Palma, appunto, ed io nella fase pre liminare della realizzazione tele visiva del « Don Giovanni in Si cilia »; le pallide memorie degli spettacoli teatrali di opere brancatiane — che po-i per me si riducono a due: alla « Gover nante » ed al « Don Giovanni in volontario » —¡ brancolo soprat tutto tra « intelligenze » e « sen sazioni », tra confusi suffragi critici e chiare intuizioni, di ciamo pure, extrasensoriali — e la cosa non faccia sorridere: è stato così —. Poi mi tiro fuori dalla nuvola, e mi decido:, la commedia mi piace. La comme dia mi piace, e questo fatto vuo le dire nulla o tanto: nulla, per ché può piacere a mesolo ed a tutti gli altri, no: ed allora de- mocraticamente hanno ragione gli altri; tanto, perché — inca ponitomi a pubblicare questo inedito — mi assumo una re sponsabilità che oltrepassa note volmente le mie capacità. Dovrei dire adesso perché mi piace. Ed allora sono costretto a fare un passo indietro, come nei ro manzi di appendice. Nelle arti plastico-figurative, soprattutto nella pittura, la sco perta di una « attribuzione » muo ve mari e monti di interessi cul turali. (Sempre sperando che gli interessi si fermino lì, e che sot to sotto non si ¡muovano invece mari e monti di interessi bassa mente commerciali). ¡Questo ac cade di meno nella letteratura: un « inedito » soffre qui di un doppio tipo di rianimazione: o questa è rigidamente filologica, di carattere accademico — sul genere delle pubblicazioni degli assistenti universitari nelle qua li uno stupidello qualsiasi, un minore tra i minori, per il solo fatto che diventa oggetto di un loro studio diventa una sorta di genio misconosciuto e bla, bla, bla — oppure — e potrebbe es sere il nostro caso — è una ria nimazione che poggia i suoi fon damenti su altri valori più sot tilmente culturali — più rispet tosamente culturali, vorrei di- re —; cioè può nascere dall’in tento di dare più spazio ad una voce, aggiungere note, suoni, co lori a ¡quella voce non necessa riamente dissacranti o esaltanti, ma come un « altro » contributo a fare di quella voce un insieme composito, cioè umano, di tutte le corde sulle quali la sua musa suonò e lo fece cantare. (Lui autore, si intende). E dico — sommessamente allora — per ché mi piace. Al di là della fedeltà dell’uo- mo — Brancati alla sua mitolo gia — fedeltà che mi pare in queste « Nozze » ampiamente ve rificabile, ciò che mi sembra di rinvenire in questa commedia è una maggiore esplicitazione del rapporto tra favola e realismo, che è il tema costante di tutta letterario, l’opera di Brancati. Questa fa vola non passa attraverso stra tagemmi simbolistici (e perciò questa favola non denatura il « corpo » ad una astrattezza fi ligranata senza spessore vitale): si concretizza al contrario in una realtà prossima alla dimensio ne quotidiana; per cui la favola (che è quel costante riferimento letterario — sì, in Brancati è profondamente lette rario, come letterario è il mito della « donna nordica libera e liberatrice », come è letteraria la «nebbia del porto siciliano»: quanto cinema francese vi è sin tetizzato! — dicevo quel costan te riferimento letterario ad un mondo esterno mai interamente vissuto se non nei singoli sogni dei personaggi, verificato, direi quasi assorbito nel più spicciolo gioco del presente: la fantasia) per -cui risulta, dunque, la fa vola, a tutti gli effetti reale e vissuta anche nei suoi aspetti paradossali, come in quelli me tastorici. In che cosa sono fantastici i personaggi? Lo sono nella mi sura in cui si costruiscono una favola a proprio uso e consumo; in cui tutti i loro conti di ter ragni isolani carichi di comples se e sfrenate libidini — e non solo di queste, ma di spazi an tichi, di etere volubile, di r i tualità pagana, di animismo re ligioso, di « logos » — questi lo ro conti debbano perfettamente tornare. Il -che vuol dire, in Bran cati e non solo in lui, siciliano, ricondurre illibatamente alle loro origini, -cioè a quell’ute ro materno che per definizione è sacro e purissimo e nel quale il cosmo costantemente si ricon cilia, annullando, nel -càos, le singole individualità — le sin gole storie — in una sintesi to tale. Ed in cosa sono realistici i i miti personaggi? Lo sono perché — a dirla con Miller — hanno realmente tutte le loro budella fuori, il loro io più segreto evidenziato all’espres sione più lampante. E non cer cano scuse e non accampano di- rit-ti per questa loro verità: lo sono davvero « concreti e fisici dalla testa ai piedi » perché ta le e non altrimenti è il loro de stino di uomini. La loro verità è quella di es il sere, singolarmente ognuno, -punto di contatto tra l’infinito del mito avanti a sé (la favo la) e l’infinito del concreto die tro di sé (la realtà); e di go dere, sissignori, di godere que sta estatica e filosofica dimen sione poetica. Tutto questo mi pare pun tualmente si verifichi in queste sue « Nozze » e che si muova su binari rigidamente brancatia- ni sin dalle prime battute con una secchezza di trascrizione e rapidità di passaggi veramente notevoli. Di tali linearità la - let tura del testo può soffrire, in cattivendo il lettore, o — al con trario — incitarlo ad una visua lizzazione di quel « corpo » che è il nucleo -centrale dell’opera. Per ultima, una nota storica. Brancati data la sua commedia: 5 luglio 1943. L ’ha composta, dunque, a Viagrande, in Sicilia. L’area, in cui tale commedia è circoscritta, è quella delle tre sceneggiature -cinematogr af iche ;(« Don Cesare di Bazan », « La bella addormentata » e « Gelo sia » — tra il ’42 ed il ’43) e le tre rappresentazioni teatrali de « Le trombe di Eustachio » (che è del ’42), «L’orecchio di Dioni sio» (che è del ’43) ma soprat tutto di «Don Giovanni involon tario» al teatro delle Arti a Ro ma, per la regia di Anton Giulio Bragaglia, che è del 1943. Bran cati aveva già scritto (a parte « Fedor » ed « Everest » tra il 28 ed il 31 — chiaramente giova nili e preliminari), « Piave » (del 32, rappresentato a Roma, Tea tro. Valle, dalla compagnia Ric ci) « Il viaggiatore dello sleeping n. 7 era forse Dio? » (che è del 1933) e «Questo matrimonio si deve fare » -che è del 1939. Le restanti ¡(« Raffaele », « La don na di casa », « La governante ») erano opere non ancora com piute. Fabio Storelli L e n o z z e d i f f i c i l i d i V i t a l i a n o B r a n c a t i C o m m e d i a i n t r e a t t i PERSONAGGI Agata Borrello Zia Carolina Rita (sorella di Agata) Ingeborg Kellermann Vladimiro Paladini Gildo Rapisardi Il Commendatore Il Forestiero L'usciere Due cameriere L’esordio teatrale di Vitaliano Brancati avvie ne con « Everest », nel 1930, al Salone Marghe rita, a Roma: Questo atto unico era d’intonazio ne ideologica, in armonia con quella dominante in quegli anni. Ma prima di approdare a Roma, lo scrittore siciliano, morto a Torino nel 1954, ad appena quarantasette anni, aveva pubblicato un « poema drammatico », « Fedor », cui seguì il dramma patriottico « Piave », che vinse un pre mio intitolato a F.M. Martini e messo in scena, nel ’32, dalla compagnia Ricci al Teatro Valle di Roma. Nel ’35 viene rappresentato a Genova un suo testo teatrale dal titolo singolare: « Il viaggiatore dello sleeping n. 7 era forse Dio? ». Man mano che veniva affermandosi come narratore, Vixa- liano Brancati purtroppo si allontanava sempre più dall’attività teatrale. Nel ’35 ripudiò in blocco le sue commedie e i suoi drammi per dedicarsi nuovamente al teatro nel ’42 con « Le trombe d’Eustacchio », nel ’43 con « L’orecchio di Dio niso » e con « Il Don Giovanni involontario » cui seguirono « Raffaele », nel ’48, « Donna di casa » nel ’50 e « Il tenore sconfitto » del ’50. Il testo teatrale di maggior successo di Brancati sono i tre atti « La Governante », messo in sce na da Anna Proclemer dopo aver sostenuto una aspra battaglia con la censura. Diviso tra la nar rativa e il cinema, lo scrittore, negli ultimi anni della sua vita, si era allontanato dal teatro al quale il suo gusto per la deformazione grottesca avrebbe potuto dare più di un’opera di rilievo. « Le nozze difficili » di Brancati, avrà il battesimo del pubblico anziché in teatro sugli schermi della televisione, li regista Aldo Grimaldi ha già ultimato la registrazione dei tre atti negli studi di Napoli. La trasmissione delia commedia è prevista prima dell'estate sulla Rete uno. Gli interpreti principali1 sono: Lia Tanzi (Ingeborg), Paola Borboni (Zia Carolina), Orazio Orlando (Gildo Rapisardi), Pupo De Luca (Il Commen datore), Bruno Vilar (Il Forestiero), Giovanna Grifeo (Agata), Guido De Carli (Vladimiro). ATTO PRIMO QUADRO I Scena I La casa di Agata. La zia Caro lina è seduta in un seggiolone, col bastone in mano. Fuori della scena, Ingeborg Kellemann e Rita inseguo no Agata che fugge . Voce di Rita: Fermati! Fermati! Ti prego: fermati! Voce di Ingeborg: (Straniera) Si gnorina, fermatevi! Ho il cuore debole, lo sapete! Potrei mourir! Scena II Passa Agata di corsa. Tak Carolina: (Protende il basto ne cercando di fermarla) Agata, fermati!... Corpo del diavolo, fer mati! (Ma Agata salta il bastone e fug ge via). Scena I II Entra la bionda Ingeborg Kel- lermann, sfinita, e si lascia cadere su una sedia. Ingeborg : (Parla stentatamente l’italiano) Non posso più... Mio cuore mi esce fuori del petto. Ecoutez! Carolina: (Appoggia il manico del bastone sul petto di Ingeborg) Non è nulla. Ingeborg: (Con un filo di voce) Come devo dirvi che io morirò, in questa maison? Carolina: (Irritata) Andatevene, per bacco! Nessuno vi trattiene. (Improvvisamente dolce) Ma che farete? Ingeborg: (Con un filo di voce) L’attrice. Carolina: (Irritata) Corpo del dia volo, l’attrice!... Fate pure l’at trice!... (Improvvisamente dolce) Ma dove, di grazia? Ingeborg: Voici. (Cava dal petto un gruppo di lettere) Mille pro poste... Scena IV Entrano- Rita e la cameriera, tra scinando per le braccia Agata rilut tante. Rita: L’ho presa in giardino! Cameriera: Sono stata io a pren derla. La signorina Ingeborg può dirlo. Ingeborg: Io non m’immischio in codeste faccende! Carolina: (A Rita) Si può sapere che diavolo piglia a tua sorella Agata? Perché va scappando co me una gallina? (Ad Agata) Ehi, alza gli occhi! (Agata tiene gli occhi bassi). Rita: Zia, non so. Dice che ha sa puto una cosa... Carolina: (Ad Agata) Che hai sa puto? (Agata scoppia a piange re) E’ morto qualcuno, pace a lui salute a noi? Agata: (Piangendo) Ah, io mi ver Io non voglio che sia gogno! così! Carolina: (A Ingeborg) Cosa non vuole che non sia così? Ingeborg: (Categorica) Una cosa che è stata toujours così, e sarà toujours così! Carolina: (Si alza e trae in dispar te Ingeborg;) Venite un po’ qui... Cosa ha saputo, mia nipote? Ingeborg: (A parte) Che i figli, la madre, non li trova davanti alla porta... Carolina: (c.s.) E chi è stato a spiegarle dove li trova? Ingeborg: (c.j.) Io! A diciotto an ni è giusto che la signorina Aga ta sappia!... Io sono una donna del Nord e non amo innocenze ipocrite!... (Cattedratica) Deve pure farsi una vita, una persona lità, una individualità!... Carolina: (Le dà un colpo di ba stone sulle caviglie) Rompiscato le! (Torna con le altre) Ingeborg: (Fra sè) Brutale donna del Sud! Agata: (Gridando) E’ troppo brut to! E’ troppo brutto! Io voglio morire! Carolina: Lascia stare! E’ un pe so che abbiamo sopportato tutte le donne. Agata: A me non piace! Carolina: (A Ingeborg e Rita) La sciateci un po’ sole. Rita: (a parte, a Ingeborg) Che peso è? Ingeborg: Venite ve lo dirò. (In- geborg, Rita e la cameriera esco no). Scena V Carolina: (Passeggia per la stan za) Che ci vuoi fare? E’ così!... E’ proprio così come ti ha det to la tua governante... Non so con quali termini si sia espressa la signorina Ingeborg... Agata: Ha parlato come un ra- gazaccio di strada! Carolina: Il guaio è che i ragaz zacci di strada usano, per insul tarsi, i termini che sono poi ne cessari a indicare cose molte se rie!... Agata: Ah, io ho voglia di mori re! {Pausa). Carolina: {Fermandosi) E’ possi bile che tu non avessi alcun so spetto di questo? Agata: (Scuote il capo in segno di diniego). Carolina: Non avevi, qualche vol ta, in sogno?... Agata: Io non sogno mai. Carolina: Male! Tu hai una salu- • te troppo buona! Ti abbiamo ro vinata con la vita igienica!... In ogni modo, le cose stanno come ti ha detto la signorina Inge borg. Vuoi vestirti a lutto per questo?... E poi dimmi: ti' senti offesa, tu? Agata: Da che? Carolina: Dal modo con cui gli uomini si comportano... Agata: Disgustata! Ho voglia di vomitare! Carolina: Ma quando si parlava di matrimonio, qui in casa, e del la scelta che dovevi fare di un marito; e quando mi leggevi le noiose lettere d’amore che ti man dano; e quando mi dicevi: « Zia, lo amo... zia, non lo amo... zia, mi batte il cuore... zia, sudo fred do... » che diavolo amavi, perché diavolo ti batteva il cuore, per ché sudavi freddo? Agata: Io credevo si trattasse di tutt’altra cosa! Carolina: E di che, se è lecito? Agata: Di amarci. Carolina: E che voleva dire amar Agata: (Sospira a lungo) Stare in sieme, darsi del tu... Carolina: Eh, si tratta anche di questo!... ci? Agata: (Con tre gridi nervosi) Ma quella cosa no, quella cosa no, quella cosa no! Carolina: Calmati, calmati, calma ti... Quella cosa no, va bene. Quella cosa, non la farai. Quella cosa non si farà. Non pensiamo ci più. Del resto, non è detto che si debba farla. Agata: (Piena di speranza) Ah, no? Carolina: No! Non è scritto in nessuna legge. Non c’è obbligo... Insomma sta calma! E parliamo da donne... Ho dato appuntamen to ad alcuni signori che, profit tando della nostra ospitalità, ti lasciano lettere nei libri, lettere nella borsa, lettere nelle scarpi ne; e qualcuna me la lasciano anche addosso, che il diavolo se li porti... questi marmittoni, e conoscere i loro propositi... Agata: E i miei, zia, non vuoi co noscerli? Carolina: Ma i tuoi, cara, devono essere molto confusi, specialmen te oggi... Tuttavia dimmi: chi ti piace di più, fra questi lumaconi? Agata: {Si copre gli occhi con una mano) Lascia che ci pensi! Carolina: {Si solleva la parrucca, come se le prudesse la testa, e ca va con sorpresa una lettera). {Fra sé) Guarda dove mi ficcano le let tere, questi asini scorticati! {Apre la lettera e legge la firma) Ti pia cerebbe forse il signor Alfio Ra- spagliese? Agata: {Sempre con la mano sugli occhi) No, zitta! Carolina: (Leggendo) Egli ti dice che ti ama col cuore in mano, e per giunta con un cuore scritto con la q. Agata: {Scoprendosi gli occhi) Mi .piace di più il professor Vladi miro. Carolina: E in verità, se hai quel la paura, è meglio che sposi lui... Ma se poi quella paura ti pas sasse?... In ogni modo, parlerò prima con lui. Va nell’altra stan za. (Agata esce dalla porta di si nistra). Scena VI Carolina va all' altra porta, e chiama. Carolina: Professor Vladimiro, fa vorite! Andiamo! La matita, po trete temperarla dopo! Scena V II Entra il professor Vladimiro Pa ladini, alto, magro, con le lenti a‘ pinzetta. Tempera la matita con una lametta di rasoio; tossisce spesso come per un tic. Carolina: Avanti, professore! Vladimiro: (Si taglia un dito) Ahi! Mi sono ferito! Avete dell’alcool, per favore? Carolina: Lasciatemi vedere!... Ma non è niente: è saltata appena la pelle. Sedete! (siede) Vladimiro: (Siede legandosi il di to col fazzoletto) Non vorrei pe rò che mi venisse un’infezione di tetano. Uno zio di mio padre è morto così. Carolina: Pace a lui, salute a noi!..-. Siete in grado di ascoltare un di scorso? Vladimiro: Sì, come no?... Solo, se aveste potuto, con un po’ d’al cool?... Carolina: {stizzita) Lo avrete do po!... Ascoltatemi dunque: quan ti anni avete? Vladimiro: Ah, che brutti tempi quelli in cui sono nato! Com’è infelice la mia generazione! La vostra è stata più fortunata. Carolina: Ma... insomma... quanti anni avete? Vladimiro: Due epidemie, una ca restia, cinque guerre... Carolina: Non potreste esprimer trenta, vi in cifre : quaranta, venti?... Vladimiro: Ve lo dico subito. Né quaranta, né trenta, né venti. Carolina: Quanti allora? Vladimiro: (Si guarda il dito) Carolina: Ma finitela di guardarvi il dito! Vladimiro: Egli è che la morte di tetano è molto brutta. Mio padre mi raccontava che lo zio si è pie gato come una canna di bambù, fino a toccarsi i calcagni con la nuca. Aveva solo trentadue an ni, l’età mia, di adesso. E’ un’età fatale per la nostra famiglia. Carolina: Dunque, avete trenta- due anni. Non è poco... ma non è molto... Posso domandarvi qua li sono le vostre intenzioni nei ri guardi di mia nipote Agata? Vladimiro: Le mie intenzioni nei riguardi di... (tossisce)... vostra ni pote... (è preso da un forte ac cesso di tosse, dovuto all’emozio ne)... Agata... (tossisce ancora). Carolina: Santa pazienza! Vladimiro: Ottime! Carolina: Volete sposarla? Vladimiro: Vorrei sposarla! Carolina: Che vuol dire: vorrei? Vladimiro: (Giungendo le mani) Posso parlarvi a cuore aperto?... Voi siete una donna intelligente. Quando fu eletta la presidente del Lyceum, io imposi a mia so rella di votare per voi. Ma poi ci fu il solito imbroglio. Le don ne sono più brave degli uomini nel combinare imbrogli! Carolina: Volete spiegarmi sì o no, quali sono le vostre intenzioni nei riguardi di mia nipote?... E non tossite tanto: trattenetevi! Lo vedete eh’è una tosse nervosa... Vladimiro: (Felice) Sì, è vero: una tosse nervosa. Non è una tosse di petto. E’ una tosse nervosa. (Le bacia una mano) Voi siete una donna di genio. Carolina: Parlate dunque, per l’ani ma dei vostri morti! Vladimiro: (Si alza e passeggia. Poi, come se parlasse fra sè, con giunge le mani) Io l’amo, io l’ado ro! Accanto a lei è come sedere vicino al fuoco: ci si scalda, ci si sente avvampare le guance. Ma... Carolina: C’è un ma? Vladimiro: Posso parlare?... Voi siete una donna di genio... Carolina: (Brontola). Vladimiro: Agata non è una ra gazza da sposare. Carolina: (si alza brandendo il bastone) Non è una ragazza da sposare... mia nipote!? Vladimiro : (riparandosi con le braccia) Vi prego, signora, vi pre go, donna Carolina! Non c’è nul la di offensivo, in quello che ho detto!... La ragazza è pura come un giglio... Ma... Carolina: Ma? Vladimiro: (A bassa voce) Ma l’avete guardata?... La natura l’ha fatta per l’amore. Spaventevoli so no i progetti che la natura ha im bastito su di lei... Ogni curva del suo corpo, senza che lei lo sappia, mormora inviti che fanno arrossi re. (Precipitoso) Osservatela: il suo respiro sta sempre per agitar si, il suo occhio sempre per ve larsi, la sua bocca sempre per storcersi, come se ella fosse sem pre sul punto di... Carolina: (Gli dà un colpo di ba stone sulle caviglie) Che ti spa rino al buio, figlio di un cane! Si può parlare così di una ragazza pura come l’acqua da bere? Vladimiro: Sul suo grembo sono scritti i nomi di mille uomini... {tristemente ispirato) « che ivi si aspettano! » Carolina: Che ne sai tu del suo grembo, candela consumata? Vladimiro: Ma volete che su quel grembo sia scritto soltanto il mio nome: Vladimiro Paladini? Ah, no! Si è visto mai scritto un solo nome su mille tombe di marmo? Può un solo morto riempire mille tombe? Carolina: Insomma, vuoi sposarla o no? Vladimiro: (Quasi piangendo) Vor rei sposarla! Lei è la vita per me! Ma temo... le corna! Carolina: Le corna da mia nipote, che ha un cuore come l’ostia con sacrata? Vladimiro: Agata non si conosce ancora, non sa quale triste fata lità le ha messo nel corpo il cielo! Ma osservate gli uomini, quando si va con lei per le strade! Carolina: Cosa fanno, questi pet tegoli? Vladimiro: Cosa fanno?... Tutti con gli occhi di fuori, tutti con la testa piena d’indecenze, di cat tivi propositi, di progetti audaci... Si voltano, parlano soli, le loro mani, senza che essi se ne accor gano, accarezzano l’aria. Le per sone più degne s’insozzano la fac cia di un rossore da ubbriaconi... Ah, no: io non posso sposarla; non voglio che i miei amici in- terrompano i loro. discorsi quan do io mi avvicino! Carolina: Agata, la piccola Aga ta!... Ma se è così magra, la mia piccina? Vladimiro: Che importa, se è ma gra? La carne di mille odalische è spremuta nella sua magrezza... Il suo sangue brucia! Carolina: Ma se ha le mani tanto fredde, la poverina, che gliele ri scaldo, io, la sera, stringendomele sotto il mento. Vladimiro: Che vuol dire? Anche Cleopatra aveva le mani fredde... Scena V ili Entra di corsa Agata, tutta agitata. Agata: Zia, zia Carolina! {Accor gendosi di avere interrotto la con versazione) Scusa, scusate!... {Ri presa dall’agitazione che la fa qua si gridare) Ma c’è un uomo che... {rapita) un uomo! Vladimiro: Ecco come ella pronun cia la parola uomo! Questa paro la conterà molto nella sua vita! Carolina: Chi è quest’uomo? Agata: Non so, ma è un vero uomo. Carolina: Che ha, di vero, que st’uomo? Agata: Non so... {precipitosa) Zia, forse vuole sposarmi!... Eccolo che entra! Eccolo! Voce di Rapisardi: Permesso? Vladimiro: Avanti, {a bassa voce) vero uomo! Scena IX Entra l’attore Gildo Rapisardi Carolina: {A parte, ad Agata) E’ anziano : avrà quarantacinque anni. Agata: {A parte, a Carolina) Non mi piacciono, i giovani. Gildo: Ho l’onore di conoscere la signora Carolina vedova Rossi? Carolina: Proprio quella. Venite avanti! Chi siete? Gildo: L ’attore Gildo Rapisardi che cerca di portare la gloria del l’arte nostrana in terra straniera per la gloria della Sicilia gloriosa! Vladimiro: Voi avete rappresen tato « Cavalleria rusticana », l’an no scorso? Gildo: A servirvi. La gloriosa « Ca valleria rusticana » del nostro grande e glorioso Verga. {S’avvi cina a 'Vladimiro e, scuotendolo per le braccia) « ...e quant’è vero Iddio vi ammazzerò come un ca ne per non far piangere la mia vecchierella ». Agata: {Battendo le mani) Bene, come fa bene! {A parte) Zia, se vuole sposarmi, digli di sì. Amo l’arte, adoro l’arte. Gildo: E purtroppo sono maleas- sortato... {tossisce) Questa tosse m’impedisce di mettere tutta la voce che vorrei nelle parole del glorioso Verga! Che farei casca re il teatro, se potessi... {si passa la mano rabbiosamente sul petto). Agata-, (A parte, alla zia) E’ ma lato! Io lo curerò. Ha bisogno di cure. Vladimiro: Anch’io soffro tanto per la tosse. Gildo: Ma voi avete una tossetti- na... La mia {Raschia con la go la), la mia è... è l’inferno qui (si batte il petto)\ Carolina: Si può sapere perché siete venuto da noi? Gildo: Devo parlarvi di una si Agata: (A parte) Di me, zia, di gnorina. me! Vladimiro : Abbiamo capito. Vi il disturbo. Buongiorno. tolgo (Esce tossendo). Scena X Gildo: E quella tosse di gattina la vuole mettere con la mia? Carolina: Agata, va di là. Gildo: La signorina può restare Agata: Sì, sì, zia: io resto. benissimo. (Pausa) Gildo: Io ho bisogno della colla borazione e dell’aiuto di una gen tile persona che vive qui. Carolina: Agata, va di là. Agatag Sì, zia (Si allontana lenta mente e di malavoglia) Carolina: Chi è questa persona? Gildo: La signorina Ingeborg Kel- lermann. (Agata si arresta delusa; torna vi cino alla zia) Agata: La mia governante? Gildo: Non so che ruolo occupi qui la signorina norvegese... Ma è una bravissima attrice. Io la porterò in alto... Gloria, gloria, gloria! Accanto a me, sarà come un gentile canarino vicino a una aquila! Agata: La chiamo subito. Gildo: (Cambiando tono; sconvol to dall’emozione) Come? Ella è qui?... Mi avevano detto ch’era in viaggio... {Si alza e si avvicina ad Agata) Signorina, signorina bella, convincetela voi che mi prenda nella sua compagnia!... Carolina: Ma come? E’ lei che deve portare voi... in alto? Gildo: (A Carolina) Signora, pre ziosa signora, signora bella, pure voi spendete la vostra parola, vi supplico!... Scena XI Entra bruscamente Ingeborg Ingeborg: Inutile fare tanto bacca no!... Io vi prenderei volentieri... Ma bisogna convincere il diretto re dell’impresa italo-norvegese che non vuole saperne di voi... Gildo: Ah, cuore ingrato, mente smemorata e disutile! Lui, il com- mendator Rosario Pattuglia, ami co fraterno di mio padre, Alfio Rapisardi, non vuole me, Gildo Rapisardi? Agata: (Gettandosi fra le braccia di Ingeborg) Cara, amica mia, io vi aiuterò. Conosco bene quel l’uomo. Parlerò con lui {A par te) Beata voi! Fortunata! Ingeborg: {A parte) Perché fortu nata? Agata: (c.s.; indicando Gildo Ra pisardi) Com’è simpatico! Ingeborg: (c.s.) Perché, simpatico? Agata: E’ timido, ha la tosse, sono sicura che pensa solo all’arte... Voi lo amate? Ingeborg: jc.r.) Ma che amare lui!... E’ un amico... Agata: (c.r.) E allora io posso amarlo? Ingeborg: (c.s.) Se vi fa piacere. Carolina: (Si alza, dà la mano a Rapisardi) Signor attore, vedo che non posso far nulla per voi. Vi saluto. Se recitate « Cavalle ria », mandatemi un biglietto. Gildo: (Inchinandosi) Oh, sarò onorato! Carolina: E voi, ragazze, avete capito o no che quest’attore non ha più nulla da dirvi? (Esce). Scena XII Agata, allacciata a Ingeborg, si avvicina a Rapisardi. Agata: Parlerò io per voi con quel commendatore. Gildo: (Inginocchiandosi davanti ad Agata) Signorina, figlia di Dio! (le bacia il lembo della veste) ■ Starò a testa giù davanti a voi come davanti alla Madonna. Agata: (Trepidante) Siete sposato? Gildo: (Con la testa curva) No, signorina. Agata: Siete fidanzato? Gildo: No, signorina. (Agata sviene fra le braccia di Ingeborg) Ingeborg: (scuotendola) Signorina, signorina Agata! Su, che avete? Aprite gli occhi! Gildo: (Alzandosi sconvolto) Che c’è, Madonna Santissima? Ingeborg: Non so. (Adagia Agata in una poltrona) Gildo: (Agitandosi smisuratamente) Signore Iddio, angeli del paradi so, questa bella ragazza è morta! Voleva aiutarmi, ed è morta! So no maleassortato! Ingeborg: Ma non fate così, agi tato uomo del Sud! E’ solamente svenuta. Gildo: (Contempla Agata) Oh, mie pupille, dove eravate? Mi pare di vederla per la prima volta!... Ma questa non è la Madonna: è Carmen, è Lola, è Cleopatra!... (a Ingeborg indicando Agata sve nuta) Signora? Ingeborg: Signorina. (Ad Agata) Avanti, su, coraggio: aprite gli occhi! Gildo: Proprio signorina? Ne sie te sicura? (Poco convinto) Può essere... E perché è svenuta? Ingeborg: Ma fate qualcosa piutto sto!... Credo che sia innamorata di voi. Gildo: (Con gesti larghi accenna a se stesso; quasi senza voce) Di me? Di me... (si scardaffa i ca pelli) Potenza della natura! QUADRO II Scena I Il gabinetto del commendatore Rosario Pattuglia. Il commendatore scrive e telefona. L’usciere, ubbria co, appoggiato a una porta, dorme in piedi. Usciere: (Svegliandosi a metà e dondolandosi sulle gambe) La fac ciamo entrare questa signorina, o non la facciamo entrare? (Erutta). Commendatore: Dove lo compri tu, il vino? Usciere: Quale vino? Commendatore: Quello che hai bevuto (annusa) Mi sembra di buona qualità: mia moglie, ieri, me ne ha fatto bere uno che era una peste. Usciere: Dove lo compro? Dove lo compro?... E chi lo sa dove lo compro?... La facciamo entrare questa signorina o non la faccia mo entrare? Commendatore: Ma quale signo rina? Agata Borrello? E’ una bambina. Usciere: (Spiccica a stento la lin gua) No... che non è... una bam bina... ». Commendatore: Sarà cresciuta in questi ultimi tempi... Falla en trare!... (L’usciere si avvia) Oh! Usciere: (Si ferma senza voltarsi). Commendatore: La zia era una donna!... Usciere: Com’era?... (Si volta; è sveglio, pieno d’interesse, ansioso) E voi? Eh, lo so: voi... (si met te a sedere davanti al tavolo). Rac contatemi almeno questa! Ieri ave te cominciato quel bel racconto della moglie del capitano, e poi l’avete interrotto... Commendatore: Su, su, su: alza ti! Non ho tempo oggi. Fa en trare Agata. Usciere: (Si alza lamentandosi) E va bene, e va bene!... Io credo che mi diciate delle bugie, perché poi le donne non sono così facili come voi volete far credere!... E prova ne è che una volta io guar davo dal buco della tenda, e non ho visto nulla, e voi dopo mi avete infinocchiato che ve la sie te mangiata. Commendatore: (irritato) Mangia ta? Chi? Usciere: La signora... Mangiata... dico per dire... Commendatore: Esegui immedia tamente il mio ordine! Usciere: (si avvia lentamente) Si suole dire così: mangiata... (esce; ed entra poco dopo Agata) Scena III Agata s’avanza timidamente ver so il Commendatore che le tende una mano senza levare gli occhi dal foglio. Agata mette la mano in quel la che le viene tesa. Il commenda tore, assorto dal suo lavoro, conti nua a scrivere tenendo sempre la mano di ■ Agata, della quale ogni tanto sbircia le gambe. Colpito bru scamente dalla bellezza di queste gambe, il commendatore striscia gli occhi su su per il corpo di Agata fino al viso. Commendatore: (piacevolmente sorpreso) Ma Agata? Agata: (timida) Commendatore, io sono venuta per ripetervi a voce quello che vi ho iscritto nella let tera. Commendatore: Siedi, Agata, sie di! Grazie. Agata: (siede davanti allo scrittoio) Commendatore: (jz pone a scrive re interrompendo di tanto in tan to il suo lavoro per contemplare Agata). Ma Agata? Agata: Ma cose c’è? Commendatore: Che, Agata, Aga ta, Agata!... (scrive) Agata: {????) Commendatore: (torna a fissare gli occhi sulla ragazza) Ma Aga ta? Agata: Madonna, .io non capisco! Commendatore: Eh, eh, Agatina... eh, eh!... D’altro canto, meglio così... Cogli la rosa quando ogni foglia spande! Agata: Che rosa? Commendatore: Meglio così, me glio così... Io t’approvo, t’appro vo, t’approvo. {pausa) Agata: Sono venuta per raccoman darvi l’attore Gildo Rapisardi... Commendatore: Rapisardi? Benis simo. Faremo quello che tu vuoi, Agatuccia bella... (si alza brusca mente e afferra Agata che si al za anche lei divincolandosi con tutta la forza) Agata: (si libera) Ma che avete; imbecille? Commendatore: Imbecille io? Im becille tu!... Cretina, sciocca, te sta di gallina! (va a sedere) Agata: M’insultate anche! Commendatore: Cretina!... Cosa credi, di darla a bere a me? Agata: Ma cosa vi do a bere? Commendatore: Oh, io me ne in tendo! Sono stato io a dire a mio nipote: « Levati dalla testa di voler sposare la figlia del pode stà perché quella ha passato il guaio! » E avevo ragione io!... I medici dicevano di no, ma ave vo ragione io! Si è saputo dopo... Io me ne intendo! Mi basta una guardata! E la tua faccia è qui e parla, cara Agata!... Agata: (alzandosi) Ma che faccia ho, che faccia ho? Dite! che fac cia ho? (ricade sulla sedia e scop pia a piangere). Commendatore: (rimane un istan te ad ascoltare; poi si avvicina ad Agata turbato) Agatina, andiamo, via: una donna non piange! pian gono gli uomini!... Apri gli occhi (la costringe ad aprire gli occhi, prendendola per il mento-, la fis sa) Che diavolo! Queste sono la crime di bambina!... Che mi sia ingannato? (forte) Il guaio è che, quando non ci sono queste lacri me, i tuoi occhi fanno pensare cose!... Andiamo, perdonami! (la accarezza) vuoi che il tuo amico venga assunto dalla compagnia italo-norvegese? Ebbene, sia: fa remo come tu vuoi (accorgendosi che sta di nuovo per commettere una sciocchezza, smette di acca- rezzarla) Però non si può stare accanto a te! (fra sè) Al diavolo la carne rossa, non devo mangiar ne più! (forte) E’ meglio che te ne vada, Agata... Ovvero: resta qui, vado io... 'Perdonami, eh?... Faccio entrare i tuoi amici. Li riceverai tu... Perdonami, non è vero?... (suona il campanello) Mi perdoni, Agata, eh? Scena IV Entra l’usciere. Usciere: Il vino l’ho comprato da Giuseppe Pelle di pulce. Ma voi non lo chiamate così perché si arrabbia. Però se dovete chiede re di lui, chiedete di Pelle di pulce perché Io conoscono solo così. Commendatore: Fate entrare la signorina Ingeborg Kellermann e il signor Gildo Rapisardi! L’usciere esce Scena V Commendatore: Mi perdoni, Aga ta? Agata: (fa un cenno vago) Commendatore: Addio, cara! (Vac carezza guardando dall’altra par te) Addio! Salutami tua zia. Per donami, eh? (esce) Scena VI Entrano Gildo Rapisardi e Inge- borg Kellermann. Agata siede a capo basso. I due s’avvicinano a lei impacciati; temen do una cattiva notizia. Agata: E’ una bestia, puzza di vi no, ha le mani lunghe, gli man cano i bottoni della giacca, suda, sputa quando parla, dice bugie, non si lava le orecchie, (si volge a Gildo con tono improvvisamen te felice) ma ha detto di sì, che tu sarai assunto dalla compagnia come primo attore e potrai par tire con la signorina Ingeborg. Gildo: (si inginocchia davanti ad Agata) Oh, mio angelo custode, A- gata bella! Ingeborg: -(stizzita) Ma smettete d’inginocchiarvi, toujours! E non fate gesti così larghi!... Dovete correggervi, se volete diventare buon attore! Io vi fascio mani e piedi per cinque mesi, come a un bambino lattante! Gildo: (a Ingeborg) No, signorina, mi correggerò: state certa che mi correggerò (si guarda le grosse mani che volano nell’aria) Male dette mani, oh! (se le morde) Agata: (a Ingeborg) E adesso che siamo soli: posso chiedervi an cora, signorina Ingeborg se lo amate? (accenna a Rapisardi) Ingeborg: (stizzita) Ma no, no, no!...- Quante volte devo dirlo? Le persone del Sud fate perdere molto tempo! 'Dite sempre la stessa cosa! E’ buona amicizia la mia per lui! Gildo sarà vostro fidanzato, e poi vostro sposo. Al ritorno dalla Norvegia, vi spose rete! Gildo: (si arruffa i capelli) Ingeborg: Perché fate così? Gildo: Mi pare che mi trovi in Ingeborg: Agata, vogliamo darci paradiso! del tu? Agata: (abbraccia Ingeborg) Con tutto il cuore, mia cara! (si ba ciano ) Ingeborg: E ora vogliamo baciare Agata: Perché dobbiamo baciare lui? lui? Ingeborg: Ma perché io sono sua amica, e voi — tu — sua fi danzata. Io, il bacio dell’amicizia, e tu quello dell’amore. Gildo: (accomodante, vedendo la riluttanza di Agata) Niente, la sciate stare, lasciate stare! Ingeborg: Ma perché lasciare sta re?... Su, Agata, il bacio dell’amo re. (Spinge Agata che bacia timi damente Rapisardi sulla fronte) Ed io quello dell’amicizia. (Bacia in bocca è a lungo Rapisardi. Aga ta guarda spaventata). QUADRO I I I Banchina di porto a cui è attrac cato un piroscafo in procinto di par tire. Agata, Ingeborg, Gildo Rapisar di e il professor Vladimiro Paladini al limite della passerella che sta per essere ritirata. Folla che sven tola i fazzoletti, in mezzo alla qua le si distingue un forestiero che guarda continuamente Agata. Gildo: (Conduce in disparte Agata) Hai riflettuto bene? Agata: Sì, ho riflettuto. Gildo: Io, in verità, sono un po’ buffo. Non quanto dice l’attore Raspagliese che parla per invi dia... Ma un po’ buffo sono. Alzo troppo la voce; muovo le braccia come un mulino a vento. Vorrei cambiarmi, ma non ci riesco. For se lassù, fra quella gente, mi cam bierò un po. Però non c’è da con tarci. Agata: A me non importa nulla di questo. Ti amo perché ami l’arte e non pensi mai alle donne. Gildo: Poi ho la mia età... Qual che donna nella mia vita c’è sta ta... Una bronchite 'mi ha lascia to più nel no che nel sì... Insom- ma, non sono più un ragazzo di vent’anni. Tu sei fuoco, avresti bisogno di... tutta Agata: (Serrando i denti) Non di re questo. Anche tu dici questo! Gildo: Basta, basta... Non facevo mica per offenderti... Ci sposere mo, al mio ritorno. Se quella seppia sputa-nero dell’attore Ra spagliese parlerà male di me, di gli che sulla sua testa non mi ci pulirei nemmeno le scarpe. Posso baciarti? Agata: Sì. (Si baciano) Ingeborg: (gridando) Ohe, si parte! Agata: (La raggiunge di corsa, se guita da Rapisardi). Ingeborg: Addio, mia cara. Torne remo presto. (Rapisardi sale la passerella). Agata: Bada a lui, ti prego: è peg gio di un bambino. Ingeborg: Sarò come una sorella per lui. Arrivederci, arrivederci. Addio, professore. (Sale di corsa la passerella). Vladimiro: (Guardando verso In- geborg) Vita mia! Luce mia! Agata: Ma come? Voi l’amate? Vladimiro: Un giorno amavo voi!... (La nave s’allontana) Ma ora non più. Voi mi avete offeso. Agata: Offeso? Vladimiro: Sì, nella vostra natu ra, nella vostra esuberanza, nella vostra floridezza c’è un’aria di trionfo che insulta alla mia pi grizia, alla mia stanchezza, al mio bisogno di riposare. I nostri cuo ri potrebbero amarsi, ma i nostri corpi si odiano, come il povero e il ricco! Agata: Siete impazzito? Vladimiro: Lei no, invece! Qua le mitezza, quale grazia, quale purità, nei suoi occhi! Ella non mentirà mai! (Piagnucoloso) Sul la sua fronte, io avrei potuto scri vere il mio nome senza timore: ella lo avrebbe portato alteramen te... Non turbava i sensi, non ave va negli occhi la notte — e quale notte!... (Agata capisce che il pro fessore parla di lei e lentamente si accascia su un sedile). La nu dità più peccaminosa persino nel le mani »... Ho, che disperazione! (Si allontana in fretta). Agata: (Cava uno specchietto e si guarda, scuotendo dolorosamente la testa). Ma perdi?? Forestiero: (Si avvicina e le tocca una spalla). Agata: (Spaventata) Chi siete? Forestiero: Andiamo, piccina: non ti ricordi di me? (Picchiandosi la giacca a destra) Io ho molti soldi ci divertiremo, insieme! Agata: Ma dove ci siamo visti? Forestiero: Andiamo, cara... Ma in quella piccola casa con le per siane verdi, vicino al porto. Fui io che, la sera di Natale, portai lo champagne per tutte le ragazze! Agata: (Disperata) Andate via, via, via! Forestiero: Preferisci sempre i militari? Ciascuno ha i suoi gu sti. Io avevo intenzione di bru ciare qualche migliaio di lire con te. Se non vuoi, tanto peggio. (Si allontana). Agata: (Rimane come stordita. D’un tratto, si toglie una scarpi na■ e, correndo su un piede rag giunge il forestiero). Siete sicuro di avermi vista in quella piccola casa con le persiane verdi? Forestiero: Ma sì... (Osservando la) Tranne che... Ma sì: eri tu certamente... Tutti volevano te... Io in verità non ebbi mai l’occa sione di... Agata: E come mi chiamo? Forestiero: Questo non lo ricor do... (Dopo aver cercato con la mente) L’egiziana! Ti chiamava no l’egiziana... Agata: Ed ero io? Forestiero: (La osserva di nuovo; un po’ incerto). Mi pare. Agata: Ti pare, eh? (Gli dà un colpo di scarpina sulla testa). Forestiero: Ahi, che vi piglia? (.Appare da lontano la zia Caro lina che ha visto la scena). Carolina: [Gridando). Bene, dagli, forza! Negli occhi, dagliele! Acce calo, questo mascalzone! [Giun ta vicina al forestiero gli dà un colpo di bastone sulle gambe). Forestiero: Siete tutte pazze, qui, Carolina: (Abbraccia Agata) Mia tutte pazze! povera Agata! Agata: [Piangendo fra le braccia della zia) Che nord! A T T O S E C O N D O Scena I Casa di Gildo e Ingeborg a Oslo. Gildo Rapisardi, inginocchiato, si fa la croce rapidamente e recita un'Ave Maria. Entra Ingeborg. Ingeborg: Ecco: sempre la stessa Gildo: (Alzandosi) Ma io prego musica! la Madonna! Ingeborg: Questa è mania, non fe de! Baci il pane! Baci l’olio! Ac carezzi le macchie di vino sulla tovaglia! Quando pensi la paro la diavolo ti fai tre volte il segno della croce, e se non puoi fartelo metti le dita così [incrocia i me di), di nascosto a tutti — ma non a me che ti ho sempre gli occhi addosso... Gildo: [Debolmente) Non è vero. Ingeborg: Davanti alla prima por ta che incontri al mattino, ti in ginocchi e preghi. Già, voi del Sud, v’inginocchiate sempre! Non siete gli uomini del Sud che sta te in ginocchio davanti a un al tro uomo? Gildo: (Furioso) A chi? Ingeborg: Al Papa, che è un uomo! Gildo: Quello è Sua Santità... [Con altro tono) Ma poi tu, Ingeborg, non t’impicciare di queste cose! Chiedi sempre la libertà per te. Da quando siamo in Norvegia, mi dici sempre: « Io voglio tutte le libertà! ». E lasciala pure a noi, diavolo. Lasciaci inginocchia re anche a lingua strasciconi, se ci piace così! Che te ne importa? Ingeborg: [Parla sempre con la vo ce alta e stridula di chi fa la pre dica). A me importerebbe poco. Ma il fatto è che queste abitudini superstiziose influiscono poi sulla tua arte. A furia di farti sempre la croce, tu non sai stare con le mani ferme tu ti fai la croce, an che quando devi dire una battuta semplice come: (imita il gestire di Gildo) « Amica mia, devo usci re! ». E poi, a furia d’inginoc- chiarti, tentenni sempre come un bue che sta sempre per tomber sul pavimento. Non hai più forza qui!... [Gli batte i ginocchi). Gildo: Oh, santicristi, sentirsi cri ticare da mattina a sera! Che brut ta vita che sto facendo! Manco a li cani! Ingeborg: Cambiala! Gildo: [Lamentoso) Non posso, non posso! Qui è la mala sorte: mi hai piantato al muro di que sta casa con una coltellata che mi ha trapassato il cuore! Ingeborg: [Sinceramente stupita) Io, una coltellata? Gildo: Dico per dire. Mi hai fatto la magaria, che se avessi potuto cambiarla, questa vitaccia da ca ni, l’avrei cambiata quando seppi che lì, [Indica una porta) in quel la camera maledetta, hai ricevuto un mio amico stando a letto con uno sconosciuto. Ingeborg: Sconosciuto? Il primo Enrico della mia vita, scono sciuto? Gildo: Sì, con Enrico I, che non gli ho sfracellato la testa come una noce perché sono diventato un vile con te! E non so rom pere questa catena, e non so bru ciare quel letto del diavolo, ove mi rotolo nelle lenzuola ancora calde di disonore, e trovo i pen sieri degli altri nel cuscino. Ingeborg: Va a dormire fuori! Gildo: E qui è la magaria, qui! Che negli altri letti non so dor mire e resto sempre con gli oc chi aperti pensando a te. Ingeborg: Io non ho nulla da rim proverarmi. Non ho mai mentito. Ti ho confessato sempre tutto. Gildo: Sì, al diavolo, tu credi che basta pronunciare a voce alta mer da per non sentirne la puzza! Ingeborg: [Gridando) Se ti espri mi ancora così, me ne vado! [Gri dando sempre di più) Ti lascio! Sono io che non ne posso più! [Va alla porta) Fate le mie vali gie! Tutti correte a fare le mie valigie! Gildo: [Tremando) No, per carità, angelo mio, non mi lasciare! Stel la della mia vita, non ti stufare! Parlerò fine fine fine! Sentimi! So anch’io parlare fine. [Recitan do) Wissen Wirs, Freunde, wis- sen wirs nicht? Beides bildet die zbgernde Stunde in dem menschi- lichen Argensit. Ingeborg: Non Argensit! Ma: An- gesicht! Gildo: Ben, Bene: Angesicht! [sor ride) Dirò angesicht... Posso or dinare che non facciano le va ligie? Ingeborg: E sia! Vinci sempre tu! Gildo: [Va alla porta) Non fate le valigie della signora! Vi rompo il collo se fate una sola valigia! Ingeborg: Devo però confessarti una cosa... Gildo: [Si mette le mani nei ca pelli, senza voltarsi) Cosa c’è? Ancora confessioni? Ingeborg: La mia coscienza me l’or Gildog [Si volta) Ti supplico: non mi confessare nulla! Ingeborg Non posso. Devo libera re la mia coscienza. Ho fatto un sogno... Gildo: Che m’importa dei sogni? Non si deve confessare quello che dina! non si fa. Perché spesso noi sia mo puliti, ma i nostri sogni sono sporchi. Io, una volta, ho sogna to una cosa nei riguardi di un mio amico... una cosa!... (Si ri chiude gli occhi con la mano). Ingeborg: Vedi? Te ne vergogni ancora! Perché non gliel’hai con fessata... Ebbene, ascoltami: que sta notte, ho sognato di amare, di amare... Gildo: (Furioso) Chi? Ingeborg: Non ricordo! Gildo: E allora lascialo stare! Ingeborg: No, perché sento che que st’uomo esiste, che quest’uomo vuole venire alla luce della me moria, e non ci riesce, non ci rie sce!... E io non posso negare la luce! Chi mi chiede luce, l’avrà! Gildo: E io allora che ti chiedo luce, e invece mi dai la mia mala nuova? Scena II (Entra la Cameriera) Cameriera: La signorina Agata Ingebor: (Spaventata) Agata Bor Borrello. rello ! ? Gildo: (Con larghi gesti di orrore) Qui? Povera figlia. Io non ho il coraggio di vederla!... (La cameriera esce) Scena I I I Appare Agata e, dopo essersi fer mata un attimo sulla soglia, si lan cia a braccia aperte verso Ingeborg. Agata : Ingeborg ! Ingeborg: (Fermandola) Un mo mento!... Siamo marito e moglie. (Agata si lascia cadere le braccia. Dopo una pausa, si reca piano piano a una sedia, e vi siede). Gildo: (Farla con gli occhi chiusi dentro una mano, e voltando le spalle ad Agata) La colpa non è mia! E’ della mala sorte che mi tiene per i capelli! Mi hanno fat to la magaria. Ti chiedo perdono Agata! (Esce). Scena IV Agata e Ingeborg. Pausa. Agata: (Dopo avere inghiottito) Io non sarei venuta in Norvegia, se lui non mi avesse scritto... Ingeborg: Chi, lui? Agata: Gildo. Ingeborg: Mio marito! Agata: Se tuo marito, sì... (non può continuare per un nodo alla gola). Ingeborg: Avanti, Agata!... Ebbe ne, parlerò io per te: se mio ma rito non ti avesse scritto ch’era ammalato. Agata: (Fa cenno di sì, guardando per ter^a). Ingeborgì E in verità, era amma lato, e ben gravemente. Io l’ho curato, io stessa con le mie ma ni... Purtroppo non si sta vicino a un letto d’uomo senza finire per dormirvi... Agata: (La guarda meravigliata). Ingeborg : E’ inutile che mi guardi così! lei è la terra della verità, e non si riesce a fare un discorso ipocrita. lei ho di nuovo impa rato a parlare il mio linguaggio che avevo disimparato da voi. Agata: Mi dispiace per il povero Vladimiro! Ingeborg: Il professore? Agata: Ha voluto accompagnarmi. Fra poco lo vedrete. E’ innamo rato. Ingeborg: Di chi? Agata: Di voi. (Pausa) Ingeborg: Vuoi ridarmi il voi? Dia moci pure il voi... Siete passata da Roma? Agata: Sì. Ingebor: Vi siete inginocchiata da vanti al Papa? Agata: Sì. Perché mi dite questo? Ingeborg: Perché voi del Sud v’in ginocchiate davanti... Voce di Gildo: E voi del Nord v’inginocchiatè davanti al primo pazzo furioso che vi ordina di bruciare un villaggio o di ammaz zare uri bambino! Ingeborg: Mai inginocchiare! Ub bidire! Ubbidire! (Quasi fra sé) Il cane si lamenta alla catena... (ad Agata) Voi del Sud siete co sì: volete essere incatenati per potere uggiolare come cani; ma quanto a rompere la catena, no, non ne avete la forza. Io gli ho detto tante volte: « Vattene! Di vorziamo! ». Ma lui diventa bian co come la carta al solo pensiero che venga la notte senza che io sia accanto a lui.. . Scena V (Entra la cameriera) ro Paladini. (Esce). Cameriera: Il professore Vladimi- Scena VI (Poco dopo appare il professore con una mano reggendo una valigia e con l’altra aggiustandosi le lenti). Ingeborg: Bene arrivato, Vladimi ro! Come stai? Vladimiro: (Per l’emozione si la scia cascare le lenti, erra a casac cio per la stanza, e capita final mente vicino ad Agata) Mi dà del tu!... (Inforca le lenti) Sto bene, signorina Ingeborg. (Timidamen te) Sto bene, Ingeborg. E voi?... E tu? Ingeborg: Benissimo. Agata: (A Vladimiro) Sono marito e moglie. Vladimiro: Chi? Agata: Gildo e Ingeborg. Vladimiro: (Gli cascano di nuovo le lenti). Chi?... Come dite?... Perché? Ingeborg: E’ vero: ci siamo sposati. (Pausa). Ma non è un matrimo nio felice. (Pausa più lunga) Qui il ya è la legge del divorzio. Gildo: Ammogghia, Tanu! Ingeborg: (Inviperita, verso Gildo) Che vuol dire: ammoglia, Tanu? Gildo: Vuol dire: avvolgi il filo, Gaetano! Vuol dire smettila di raccontare alla gente le cose di casa! O devo rompere Posso del collo a qualcuno? Ingeborg: Rompere l’osso?... E’ pazzo!... Lasciate che gli dica una parolina ! (Esce). Scena V II Agata: Ebbene, che ne dite, del vostro sogno? Vladimiro: (Lamentoso) E’ più che mai un sogno, ora! Agata: No, dicevo di lei. Vladimiro: Oh, lei è pura, candi da, si direbbe ancorTuna ragazza di quindici anni; si direbbe che ha sposato il cielo, la luce, il pro fumo dei fiori e non quel sacco di patate... Agata: (Quasi fra sé, lentissima mente) Mi scrisse ch’era amma lato. Poi non mi scrisse più nul la. Io sono corsa qui. E lo trovo sposato... Cosa pensate di Agata? Vladimiro: Di voi? Agata: Di me. Vladimiro: Oh, voi troverete di che consolarvi. Ma io, io, che fa rò senza Ingeborg? Dove trove rò la forza per levarmi dal letto? Dove, la forza per parlare agli alunni? Per rincasare, per alzare il cucchiaio fino alla bocca, per allacciarmi le scarpe, per insapo narmi il collo? Dove? La mia vo ce, i miei gesti, i miei pensieri stanno sempre rintanati nel più interno di me stesso, come la tar taruga nel suo guscio; solo la speranza di aver lei risuonava co me una campana e li chiamava fuori. E adesso, adesso?... Voi troverete di che consolarvi... Agata: Se non vi dispiace, ditemi chiaramente cosa pensate di me. Vladimiro: Di voi? Lo sapete. L’ho detto a vostra zia che cer tamente ve lo avrà riferito. Agata: E della mia vita? Vladimiro: Volete che parli leal Agata: Ve ne prego. Vladimiro: Voi non siete più si mente? gnorina. Agata: Questo lo so. Vladimiro: Dunque, è vero? Agata: Non dico che sia vero. Di co che l’ho sentito da altri... E quale uomo si vanta di avermi reso simile alle signore? Vladimiro: Io non lo conosco. Ma non dev’esserci un solo uomo nel la vostra vita. Agata: Quanti ce ne sarebbero, se condo voi? Vladimiro: I vostri capelli dicono sei, le vostre guance dicono sette, i vostri occhi dicono dieci... Io non ne conosco nemmeno uno; o forse ne conosco qualcuno sen za saperlo. Una notte, un passan te mi fece trasalire per la forma delle sue spallacce. Aveva un man tello e parlava con un giovane basso. Sentii: « Agata... » e subi to pensai: questo qui ha fatto la festa ad Agata... Vi dispiace che parli così? Agata: No, continuate! Vladimiro: Gli ufficiali mi fanno antipatia. Perché? Essi difendono la Patria: dovrei amarli. Ma il fatto è che devono esserci molti ufficiali, nella vostra vita... E chi diavolo mi dice che non ci sia anche il nostro prefetto? Egli è molto galante, e una sera vi ha fatto un segno d’intesa al di so pra della testa del questore. Poi ci sarebbe il mercante di arance che abita nella casa vicina alla vostra. Egli per accendere il si garo, entra sempre nel vostro por tone, anche nelle giornate senza vento... E vi rimane lungamente... Chi mi dice che non s’incontra con voi?... Agata, andiamo: ci sono molti uomini nella vostra vita. In questi ultimi cinque anni voi non li avete dedicati alla Ma donna. Posso rivolgervi una do manda? Agata: Avanti. Vladimiro: Come state? La salute vi ha assistito? Da alcuni segni, mi è parso che siate diventata molto nervosa. Io vi consiglierei un poco di... tregua! Scena V ili Entra Ingeborg Ingeborg: Adesso il cane sta buo no... Vladimiro, va di là a par lare con lui. Io gli ho detto tutto. Parlatene insieme! Vladimiro: Dio mio, tutto? Ingeborg: Va di là! (Vladimiro esce) Io dico sempre tutto. Scena IX Ingeborg: Sarei contenta di sposa re anche Vladimiro pur di sepa rarmi da quel bruto! (Con altro tono) Agata, devo parlarti. Agata: Di che? Ingeborg: Della tua vita. Agata: E perché dovremmo parla re d’altro? Parliamo della mia vita! Avanti! Ingeborg: Troppe cose ballano nel la tua pentola. Levale il coperchio! Agata: Che vuol dire? Ingeborg: Ti sei seduta su te stes sa e ti schiacci come una ciam bella. Bisogna che tu confessi... Agata: Confessare cosa? Ingeborg: Non quello che hai fat to — perché tu, mia cara, non hai fatto un bel nulla, e uomini, nella tua vita, non ce ne sono — ma quello che vorresti fare, che i pensieri ti dicono di fare, e i so gni ti comandano di fare, e il destino ti ha scritto sulla faccia di fare! Tu non puoi così a lungo sederti sui tuoi istinti, come su un cagnolino per nasconderlo: fi nirai coll’essere morsicata in un punto troppo delicato. Mia cara, tu sei sale di desideri insoddisfat ti, macchiata di smanie notturne, e ancora madida di sudore per averla pensata troppo grossa. An diamo, Agata, confessa! Non cer to a un prete, come fate voi cat tolici, ma a tutti! Agata: Chiamiamo un po’ di gen te, salgo sopra un tavolo e con fesso a voce alta. Ma cosa con fesso? Ingeborg: I tuoi desideri! Ti sen tirai più libera! più pulita. E poi falla, quella cosa, andiamo, Aga ta. Meglio farla che sognarla! Dimmi, cara la notte, cosa sogni? Vele bianche, antenne, caproni, scimmioni, alti camini? Agata: [La guarda, fuori di sé dal la rabbia). Ingeborg: Ti mostrerò un libro che spiega i sogni. Aspettami! (Esce). Scena X Agata: (Salta in piedi come se le mancasse l’aria). Ah, la mia pa zienza sta per finire, la mia pa zienza mi lascia! Che devo fare? Come devo guardare, come devo parlare? Io mi metto a dire pa rolacce come mia zia! Non mi lavo più nemmeno la faccia! Non mi cambio le calze! Mi copro di cimici e di pulci! Mi appendo due topi alle orecchie! Mi calco un gatto morto sulla testa!... E quan do uno di loro di dice: « che bel le gambe, signorina! » Io mi al zo un poco la veste e gli rispon do: « Sì, ma guardate che rogna! » E se mi dice: « Buona sera », « A tua sorella! » gli rispondo, « Figlio di cane! »... Non ne pos so più, non ne posso più, non ne posso più!... (Comincia a buttare per terra quel lo che le capita). Scena XI Appare lngeborg e si ferma spa ventata. Ingeborg: (Guardando Agata) Iste rismo! Hai troppo compresso gli istinti! (Raggiunta da un libro, scappa via). Scena X II Appare Vladimiro e si ferma an che lui spaventato. Vladimiro: Esaurimento nervoso! Hai abusato troppo. (Schiva a stento un paralume e scompare) QUADRO II Scena I La stessa camera. E notte alta. Ingeborg, Gildo e Vladimiro sdraia ti su divani distanti. Sono stanchi, sonnecchiano, si svegliano, parlano, si riaddormentano. Da alcuni segni si vede che hanno molto bevuto e fumato. Agata, anche lei stanca, ma in piedi, passa da un punto all’al tro della stanza per parlare ora al l’uno ora all’altra. Agata: Eppure avete ragione. E’ così. Ne ho fatte delle belle! Ingeborg: (Con gli occhi chiusi) Fatte? Sognate. Agata: No, fatte! Vladimiro: Dimmi la verità, Aga ta: quanti uomini ci sono, nella tua vita? Agata: (Contando sulle dita) Due, tre... cinque... dieci... dodici! Vladimiro : C’ è il mercante di arance? Agata: No, quello no! Ti sei sba gliato, Vladimiro! Vladimiro: E chi è stato il primo? Agata: (Dopo un momento di an goscia) Un cocchiere! Gildo: (Balzando a sedere sul di vano) Diavolo! Che dici, Aga ta? Io non ci credo. (Torna a sdraiarsi). Agata: (A Gildo) Bisogna crederci! Il mondo è una stalla sudicia: non ci sono soltanto bugiardi co me te, ci sono anche donnacce come me. Gildo: Io non sono un bugiardo, Agata. Sono un vile a cui non ba sta l’animo di ribellarsi a una pulce. Ingeborg: (A Gildo) Se la pulce sono io, ti prego di ribellarti, e di lasciarmi libera di sposare Vla dimiro. Vladimiro: No, Ingeborg; io non posso più sposarti. Credevo che tu fossi un angelo: e invece sei una donna piena di energia e de sideri (piagnucoloso) E io ho paura delle donne piene di ener gia e di desideri, come un pesce piccolo ha paura di un pesce gran de. Una volta sola nella mia vita, ho passato un’intera notte con una donna; e verso le cinque del mat tino, non c’era, fra gli animali e gli uomini di tutto il mondo, un essere più triste di me. Io sono un debole, un uomo rovinato, un... Agata: (Gli mette una mano sulla bocca) Zitto! Vladimiro: Se non avessi avuto quella paura allora, avrei sposato Agata... Ti giuro, Agata, per la vista degli occhi, ti avrei sposata! Quanti hai detto che sono gli uo mini che ti hanno fatto del male? Agata: Dodici. Ma non mi hanno fatto del male. Mi hanno invece molto divertita. Ingeborg: (A Agata) Come lo dici! Voi del Sud, quando non siete ipocriti, siete sfacciati! Agata: La mia natura è questa! Voi la conoscete meglio di me. I sogni, che escono dalle finestre di una caserma, ecco il mio cibo preferito: me li respiro, me li mastico, me li mangio. Ah! (Ha una specie di singhiozzo, di cui nessuno si accorge) Dodici uomi ni, e mi sono tutti piaciuti. Che ve ne pare? Ingeborg: Anche il cocchiere ti è piaciuto ? Doveva puzzare di cuoio come uno stivale nuovo! Agata: E’ il mio primo amore. Gildo: Lèvati di là, Agata! Tuo primo amore, il cocchiere!... Non ci credo. Agata: (Si avicina a Gildo torcen dosi le mani) Devi crederci, Gil do! Te ne prego... Devi crederci! Ingeborg (A Agata) Perché non racconti qualcosa di piccante? Se vuoi, mandiamo via gli uomini. Gildo: (A Ingeborg) Lèvati di là! Chi mandi via? Io sono il capo di famiglia, qui! Ingeborg: Approfitti perché ho be vuto troppo. Agata: No; perché mandarli via?... Volete che vi racconti la cosa più sudicia che ho fatto? Ingeborg: Brava, proprio quella de vi raccontare! Agata: (Fra sé) Dio del cielo!... (Forte, a Ingeborg) Secondo voi, quale potrebbe essere la cosa più sudicia di cui una come me sia capace? Ingeborg: Una comune cosa su dicia, fatta però alla presenza di molte persone. Agata: (Si smarrisce) Non capisco! Vladimiro: Lascia stare, Agata: Rispondi piuttosto a me! Il pri mo fu un cocchiere, hai detto. E il secondo? Agata: Birraio. Vladimiro: E il terzo? Agata: Smacchiatore di cappelli. Vladimiro: E il quarto? Agata: Venditore di fichidindia. Vladimiro: E il quinto? Agata: Imballatore di fieno. Vladimiro: E il sesto? Agata : Strillone. Ingeborg: Tutta gente di basso bordo. Agata: Tutta gente di fango! Mi piacevano, non perché fossero po veri, ma perché erano sudici, e facevano poche cerimonie. Ho chiuso la porta anche in faccia a un operaio. Ingeborg: Ah, sì! E perché? Agata: Vestiva bene e leggeva dei libri! Ingeborg: Ma chi ti ha dato più felicità, dopo naturalmente il tuo primo amore? Agata: Un portatore di seggette di marmo. Gildo: Levati di là, Agata! Che diavolo dici, seggette? Agata: Sì. Un giovanotto che por tava dietro le spalle le seggette dei luoghi comodi. Gildo: Come poteva portarle die tro le spalle? Agata: Erano affidate a corregge di cuoio, e le portava come zaini dal negozio alla casa del cliente. La prima volta che c’incontram mo, ne lasciò una davanti al mio portone per stare con me nella scala. Ricordo che, mentre egli mi lasciava, qualcuno entrando nel portone inciampò nella seg getta e disse: « Ma che sconcez za è questa? ». Ingeborg: Bei ricordi! Chissà che nostalgia, quando sarai vecchia! Vladimiro: E chi era, quel signo re che disse: « Ma che sconcezza è questa? ». Agata: Non lo so. Non so nulla. So questo soltanto, e ve lo ripe to: mi sono piaciute sempre le persone di fango; l’oggetto che conservo più gelosamente è un lenzuolo sporco delle mani di lui. Da quando ho compiuto diciotto anni, non ho potuto più indossa re un abito bianco, perché i miei amanti mi avrebbero stampato le loro mani sul petto e sulle spalle. Ingeborg: E mai un pochino più giù delle spalle? Agata: {Dopo avere inghiottito) An che!... (pausa) I baci, che m’ave vano dato, li ho visti poi gal leggiare nel lavabo, quando mi son lavata la faccia. Nel tempo del mio primo amore, puzzavo di scarpa; nel tempo del secondo, puzzavo di spillatura; nel tempo del terzo, puzzavo di carburina; nel tempo del quarto, puzzavo di acetilene... E così via. Il giorno del giudizio, avrò addosso dodici cattivi odori... Che volete? Sono fatta così. La sporcizia mi fa gi rare la testa. Agata è capace di tutto. (Avvicinandosi a Gildo, a parte) Ma secondo te, Agata è anche capace di soffrire come un cane? Gildo: (Rivoltandosi sul divano) Non so nulla, io... {forte) Inge- borg, si va a dormire? Ingeborg: E lasceremo questa bel la compagnia? Vladimiro: Noi .possiamo dormi re qui. Tanto, fra poco sarà l ’alba. Ingeborg: Ma quello che racconta Agata m’interessa. E dimmi, Aga ta: in quale città ti sei sentita più felice, a Oslo o a Catania? Agata: Né ad Oslo né a Catania; ma in una città dove mi sono re cata a villeggiare. Ingeborg: E dove villeggiavi? Agata: In una casa da tè. Tutti insieme Gildo: Lèvati di là! Vladimiro : Madonna della Seg giola! Ingeborg: Per bacco! Agata: Sono rimasta tre mesi, in quella piccola casa. Mi chiamava no l’egiziana. La sera, nell’ora del tè, venivano molte persone senza cravatta e senza fazzoletto, che si asciugavano fi naso sulla spalla: così. Vladimiro: Nelpor| del tè? Ma Sf è quando mai, dàto il tè? Agata: (Confusa) In quella sì, si dava il tè, sicuro... E la sera tar di, si offriva lo champagne... O meglio si offriva lo champagne ai clienti di riguardo, ma agli al tri, a quelli che piacevano a me si dava da bere il vino di Pachi no... Sicuro, è così... {Avvicinan dosi a Vladimiro) Dimmi: sono molto pallida! Vladimiro: No. Perché dovresti essere pallida. Agata: Mi sento così male! Ingeborg: E ora voglio raccontarvi un fatto della mia vita. Gildo: (A Ingeborg) Ma va a cori carti! Ingeborg: Un fatto molto piccante. Gildo: Ma va a spararti! Ingeborg: Il fatto più sudicio che mi sia accaduto. Gildo: Ma va ad affogarti! Ingeborg: {A Gildo) Approfitti per ché ho bevuto molto... Ebbene vado a coricarmi {Si alza). Gildo: {Alzandosi premuroso) Ven go anch’io. Ingeborg: Buona notte! (Esce!. Scena II Gildo: (A parte, a Vladimiro) Cer te cose, un marito non dovrebbe dirle. Ma ti giuro, sul santo Ro sario, che quella donna (indica la porta da cui è uscita Ingeborg) mi dà delle soddisfazioni... (ri bacia da una parte e dall’altra la punta delle dita) Benedetta la ma dre che la creò! {Agata si sdraia sopra un divano) Scena I I I Riappare Ingeborg: E’ vero che gli uomini del Sud non si lavano i piedi? Gildo: Ma lèvati di là, Ingeborg! Sui piedi dei civili, da noi ci si può mangiare. Forse la gente bassa... Ingeborg: E allora, su, levatevi le scarpe e le calze! Voglio vedere coi miei occhi. Gildo: Vladimiro, falle vedere il piede! Vladimiro: Ma io... sono stanco... ho fatto un lungo viaggio... Può essere che abbia il piede un po’ affumicato. Tu piuttosto, Agata falle vedere il tuo piede. Agata: Il mio piede dovrei farlo... (si tura la bocca con la mano). Ingeborg: No, cara! Tu devi mo strare il piede! Lascia fare a me, se sei stanca {Le toglie la scarpa e la calza). Gildo: Che bel piedino! Ingeborg: Ah, è un bel piede dav vero! Vladimiro: E’ un piede perfetto!.., Dio mio, devo essere molto de bole e malato. Non posso vedere il piede nudo di una donna senza turbarmi profondamente. Gildo: {Con una strana fretta) An diamo, Ingeborg, andiamo a dor mire! Ingeborg: {A Gildo) Secondo te, il mio piede è meno bello del suo? Gildo: Non lo so... Andiamo a dormire! {Escono). Scena IV Scena V Vladimiro: (Contemplando rapito il piede di Agata) Senti Agata: devo farti un discorso serio. Agata: (Con gli occhi chiusi) Fallo. Vladimiro: (Fra sé) Che piede stu pendo! (Forte) Io ho ascoltato con molta attenzione quello che hai raccontato della tua vita. E la paura che avevo di te, mi è pas sata. (Fra sé) Che piede mirabi le! (Forte) Io temevo che i tuoi istinti si scatenassero dopo il ma trimonio; che tutta la fame, di cui il destino ti aveva caricata, spalancasse d’un tratto le fauci: e allora avresti fatto di me un so lo boccone. Ma se è vero quello che hai raccontato, tu devi es sere ormai sazia. Non è così? Non sei sazia? Agata: Sino al vomito. Vladimiro: E anche un po’ stan ca, no? (Pausa. Vladimiro con vo ce preoccupata) Non sei stanca? Agata: Da morire! Vladimiro: E allora ho pensato... (Fra sé) Che piede divino! (Forte) Ho pensato: perché non sposare Agata? Io sono un uomo di pen siero* e non ho pregiudizi. Il pas sato non conta. Del resto, il mio compagno di scuola Battiati ha sposato una donna da marciapie de... e gli è riuscita un’ottima mo glie: non vuole uscire mai di ca sa, lo cura, e quando è raffred dato, gli lava lei stessa i fazzo letti. (Fra sé) Che piede irresi stibile! (Forte) Però sono un uo mo di coscienza, e una questione me la pongo da tutti i lati. E mi sono anche domandato: amo io abbastanza Agata? E lei mi ama abbastanza?... Risposta : quanto a me, l’ho amata alla follia. Poi ne ho avuto paura, e i miei sen timenti, non che siano scompar si: si sono confusi. E’ stato per paura di te, Agata, che mi sono innamorato di Ingeborg. Il mio cuore si è rifugiato in lei come un agnello spaurito fra le braccia di un pastore... Ma quella crea tura è dolce in tutto, fuorché nel la vita dei sensi. Qui è sfrenata. A che vale allora la sua infinita dnlrp’7’7'3 2 Appare Ingeborg: Se volete cuscini, eccoli! (Tira violentemente un cuscino sulla testa di Agata; ed esce). Scena VI Vladimiro: Agata, acconsentite ad essere mia moglie? (Dalla porta viene lanciato un al tro cuscino che abbatte Vladimiro). \T t a nTA rm a ■ A'Itti A T T O T E R Z O QUADRO I Scena I La stessa scena del primo atto (primo quadro). La zia Carolina e Gildo Rapisardi. Gildo: E vi giuro, signora, che ho voluto, io stesso con le mie mani, prendermi le corna da terra e met termele sulla testa! Fio visto sor ci verdi, in quel maledetto paese! La tosse m’era passata, ma stavo peggio di prima, e ogni sera mi veniva la febbre... Oh, meglio le mosche, le pulci, le zanzare, gli scorpioni! Sono bestie riscaldate dal sole e, nel peggio dei peggi, portano, con rispetto parlando, la diarrea... E non quella nebbia pu lita pulita, bianca come un abito di prima comunione, ma scomu nicata da Dio, e piena di polmo nite, pleurite e tisi galoppante. Carolina: E avete divorziato? Gildo: Chi ci ha capito nulla... Ci siamo divisi... Signora bella, sono partito di qui onorato e a fron te alta, e torno a casa come un bue da macello. E ringrazio la sventura che si prese in tempo mio padre per non fargli vedere il di sonore della famiglia... oh, Dio, Dio! Se ci fosse stato quel san t’uomo, mi sarei ammazzato. Vi giuro, signora bella, mi sarei but tato in mare con una pietra al collo, come quel cane che sono! Carolina: E andiamo, Come la fa te tragica! Non siate voi il primo cnrrmfrv tip Uilf-imrU Gildo: Sì, è vero. (Quasi piangen do) Ma vedete? Nel sentirvelo di re, che sono un cornuto, io Gil do Rapisardi, figlio di Alfio Ra pisardi, mi viene voglia di spac carmi la testa su quello spigolo!... (Con altro tono) Ma sono stato castigato da Dio: avrei dovuto sposare vostra nipote, com’era giusto!... E che fa Agata? E’ fe lice? Carolina: Abita al piano di sopra, ma è bravo chi riesce a vederla. Vive tappata in casa. Gildo: Donna di casa... benedetta! E lui, il professore, è felice? Carolina: A vederlo, non è più quel piede di tavolino ch’era una volta: s’è ingrassato. Voce di Agata: Zia! Zia Carolina! Zia! Scena II Entra Agata pallidissima e s’ap- poggia allo stipite. Carolina: (Accorrendo) Agata! Fi glia di Dio! Che hai? Gildo: Signorina Agata!... Signora Agata, che avete? (La fanno sedere). Carolina: Ma si può sapere che hai fatto? Agata: Maschio. Carolina: Non fare la spiritosa! Agata: Ho fatto un figlio. Carolina: (Spaventata) Come, un figlio? Quando? Agata: Adesso. Carolina: Come, adesso?... Io mi sento presa dai turchi... Ma lo aspettavi, questo figlio? Agata: Certo: da otto mesi e cin que giorni. . Carolina: E dove lo tenevi ficca to, diavolo? Se davanti parevi una tavola!... Immagino il figlio che avrai fatto! Un sorcio. Agata: Un sorcio lo fece tua ma dre quando fece te! Mio figlio pesa cinque chili. Carolina: Non mi mancare di ri spetto, diavolo! (Passeggiando) Signori miei, le gran madri di questi tempi! Non respirano nem meno, per tenersi in dentro la pancia. E poi buttano fuori i fi gli come uno sternuto... (A Aga- ta) E chi diamine sarà questo bellimbusto che hai fatto? Agata: E’ bellissimo! Carolina: Bellissimo... Somiglierà a un gatto bagnato... Gildo: Se somiglia alla madre... Carolina: (Interrompendo) Zitto voi, bottiglione di rapè!... (A Aga ta) Bellissimo... Ammetto pure che non sia brutto. Ma che anima gli avrà soffiato Domineddio! Non sarà di quelli che portano infe licità, crudeltà, miseria? (Violen ta) In questo caso, tiragli il collo subito e fallo in brodo! (Cam biando tono e sedendo vicino a Agata) No, cara: dico per dire... Sono arrabbiata perché a tua zia dovevi dirlo che aspettavi un bam bino! (Premurosa) E com’è? Ha i capelli? E’ calvo? Somiglia a te? A me? Non gli manca nulla? Lo hai guardato bene in tutto il corpo? Spero che non somigli a tuo marito! Agata: E’ bellissimo, ti dico, buo nissimo e intelligentissimo! Ha delle mani più piccole di una zam petta di pulcino. Carolina: E se invece quelle ma nucce, più piccole di una zampet ta di pulcino, domani dovessero macchiarsi di sangue (Violenta) Tiragli il collo, subito! Agata: Oh, zia: tu mi fai piangere! Carolina: No, dico per dire. E’ che sono arrabbiata. Non mi da re ascolto! Agata: Ti giuro che è buonissimo. Carolina: Sì, lo vedo. Ma gli hai guardato la fronte? Dobbiamo aver paura di quanto ci verrà da quella scatolina, o dobbiamo ral legrarci? Agata: Zia, dobbiamo rallegrarci: dobbiamo vestirci di bianco per i bei pensieri che verranno da quella piccola fronte. Carolina: E se invece fosse nato uno strumento del male, e in que sto momento il diavolo se lo co vasse con gli occhi? (Violenta) Torcigli il collo, subito! Agata: Zia, mi fai morire! Carolina: No, cara, no: il fatto è che sono ancora arrabbiata. Il fat to è che se ci sono tanti farabut ti fra gli uomini di cinquantanni, se ne devono pur trovare fra i bambini di un giorno. Agata: Ma perché devo essere io la madre di un farabutto? Carolina: E perché deve essere un’altra? Agata: Quando ero incinta di lui, ho guardato sempre creature mi ti, con le penne bianche, che al lietano i luoghi in éui stanno e la notte, dormono. Ho guardato, le persone per bene. Sono andata a far visita a signore che cono scevo appena, solo perché in casa avevano un galantuomo d’ altri tempi, e volevo stamparmelo ne gli occhi. Se sentivo ridere uma namente o solo parlare cordial mente in un luogo lontano, io mi avvicinavo a quel luogo come una spia e spalancavo le orecchie. Ho stracciato le fotografie delle per sone accigliate e violente; mi son ficcata le dita nelle orecchie, quan do ho sentito urla e strepiti, ac compagnati da gesti minacciosi... Questa notte, due ore prima di es ser presa dai dolori, ho sognato una farfalla... Poi il dolore mi ha quasi accecato... Ma quando mi ritornò la vista, ce n’erano due posate sul cuscino. Carolina: Cosa, due? Agata: Farfalle. Gildo: Può essere, può essere... Carolina: Zitto, voi! (Esaltata da una gioia improvvisa) Agata, an diamo a vedere quest’angelo sce so dal cielo! Dio, come sarà bel lo! Come sarà piccino!... A que st’ora, avrà una fame da lupo (severa) A chi l’hai lasciato, tuo figlio ? Agata: Alla donna... Bisogna tor nare su! Carolina: Aspettami un minuto: vado a prendere il bastone. (Esce) Scena III Gildo: Signora Agata, mi avete perdonato? Agata: E di che? Gildo: Io avrei dovuto sposare voi. Agata: E io non voi. Gildo: Ma dunque non mi ama vate? Agata: Non lo so, caro... Sono sta ta una ragazza con la testa molto confusa.... E vostra moglie? Gildo: E’ qui da un mese, con la sua compagnia. Io non la voglio vedere nemmeno scritta sul mu ro. E la notte, strappo i manife sti col suo ritratto... Signora Aga ta, quella donna è padrona di di sonorarmi con chi vuole; ma se vengo a sapere che lo fa con uno di questo paese, quant’è vero Dio, lo scanno come un vitello!... E vostro marito vi ama? Voce della donna: Signora Agata, signora Agata! Scena IV Entra Donna: Oh, siete qui! Dio mio, che spavento! Ma come? Fanno i figli e scappano! Venite su, Ma donna benedetta. Agata: Vengo, vengo subito. (Si alza sostenuta dalla donna) Che fa, mi cerca? Donna: E’ uscito per cercarvi... Agata: (Sinceramente spaventata) Donna: Ma andiamo: scherzo! Uscito! ? (escono) Scena V Carolina: Dov’è mia nipote? Gildo: E’ andata di sopra con la donna. Carolina: E me, non m’ha aspet tato? Questa ragazza m’ha per duto il rispetto da quando è ma dre di quello stitico! Gildo: Perché stitico! Carolina: (borbottando) Il padre va avanti coi clisteri. Gildo: Allibisco! Scena VI Entra Vladimiro (è ingrassato) Vladimiro: Mio caro Gildo, mio carissimo Gildo! Come stai? Io ti sarò grato per tutta la vita. Gildo: Di che? Vladimiro: Buon giorno, zia: scu sate... (a Gildo) Se tu avessi spo sato Agata, io avrei perduto una moglie perfetta, (lo trae in dispar te) Ricordi il discorso scombina- to che ci fece, quella notte, a Oslo, nella casa di Ingeborg?... Quando ci raccontò che aveva avuto dodici amanti? Ebbene, io l’ho trovata pura come la mia sorellina di dieci anni. Gildo: Lo avrei giurato. Vladimiro: Per me fu una sor presa. Ma ormai era troppo tar di, e non ebbi il tempo d’inner- vosirroi- Così mi sono comporta to benissimo. Carolina: (a Vladimiro) Ehi, tu, alza la voce! Vladimiro: (alzando la voce) In una parola, Agata è una moglie all’antica, come tua madre, come mia madre... Gildo: {si commuove) Ah, sì! Ah, Carolina: {a Gildo) Perché pian gete come un vitello? Gildo: Io sono stato sfortunato!... Ma non voglio rattristarvi con le mie pene. Addio. sì! (esce) Scena V II Sta Carolina: Dunque, maschio! Vladimiro: Chi, maschio? Carolina: Tu cadi dalie nuvole! Non aspettavi nessuno? Vladimiro: Nessuno. Carolìna: Vieni un po’ Vladimiro: notte, dove di luceva il pelo? (confuso) Avevo di menticato la chiave di casa e, per non disturbare Agata, ho prefe rito dormire all’albergo. (scuote la testa) Non sai niente di quello eh’è accadu to ad Agata? Carolina: Vladimiro: (preoccupato) Santi numi, cos’è accaduto ad Agata? Carolina : Ma dunque non conosce vi le condizioni di Agata? Vladimiro: Stava male, forse? Non m’ha detto nulla! {pausa) Carolina: Tu, tua moglie, non la guardi? Vladimiro: Sì che la guardo. Ma lei è così pudica che non vuole essere guardata. Carolina: Ma lo sai quello che succede a tua moglie per opera tua? te? Vladimiro: Zia Carolina, voi sie te una donna di genio. Devo dir vi la verità: noi dormiamo in ca mere separate. Carolina: E perché? Vladimiro: Agata è una donna am mirevole, mi ama, mi vuole be ne... Ma come moglie... Carolina: Cos’ha, come moglie? Vladimiro: E’ candida e fredda come la neve. E io sono un uomo; posso dire, un uomo esuberante. Carolina: Tu, un uomo esuberan Vladimiro: Dentro di me, c’era un calore che non conoscevo. Me ne sono accorto, dopo il matri monio. Carolina: E che ne hai fatto, di questo calore? Vladimiro: (premuroso) Ah, un uso molto riserbato per non of fendere Agata che rispetto e amo. L’altra è l’amante; ma Agata sta più in alto: è la moglie. Carolina: Ma va al diavolo! {gli dà un colpo di bastone) Esci di qui! Vladimiro: Zia, siete molto ma nesca. Carolina: Fuori! Tira diritto e non ti voltare! Via! '{Vladimiro esce) Carolina: (con voce adirata) Vla Scena V ili Scena IX dimiro1. Riappare un figlio! Vladimiro: (preoccupato) Carolina: (in tono sbrigativo) Hai Vladimiro: (quasi senza voce per lo stupore) Un figlio?... QUADRO SECONDO La camera di Ingeborg Keller- mann in un albergo di Catania. In- geborg si pettina seduta davanti allo specchio. Ovunque cesti di fiori con biglietti da visita. Qualcuno bussa. Scena I Ingeborg: Se sono fiori, lasciateli dietro la porta! Scena II Agata apre la porta Agata: Non sono fiori: sono io. Ingeborg: (si volta trattenendo i capelli al di sopra della testa) A- gaia! Agata: state? (richiude la porta) Come Agata: (entra accigliata) Ebbene, Agata? Agata: Dov’è mio marito? Ingeborg: Poco fa, è entrato in una di quelle rose, e non ha voluto più sortir. Agata: Non sono venuta per ri dere né per farti ridere. Ingeborg: Dobbiamo darci di nuo vo del tu?... Bene. Agata: Dov’è mio marito? Ingeborg: E’ stato qui, ieri sera. Poi è andato via. Agata: Cos’è venuto a fare qui? Ingeborg: Nulla che t’interessi molto. Agata: Tutto quello che fa mio marito m’interessa. Ingeborg: (alzandosi solenne) Aga ta, io non mentisco agli altri nè permetto che si mentisca a me. Conosco minutamente i tuoi rap porti fra te e -tuo marito. Agata: Ti ha raccontato anche que ste cose? Che sciagurato! Ingeborg: Sciagurato un bel nul la! Un uomo sincero... Ma Agata, quando amerai la verità? io Agata: Ebbene, vuoi un po’ di ve rità? Eccola: ti picchio, ti strappo i capelli e gli occhi, ti pe sto come un grappolo d’uva, ti sbuccio coi denti come un’aran cia e ti spunto — se tu non la smetti con mio marito! Ingeborg: Ma cara, perché io la smetta, bisogna che tu cominci. Agata: Comincerò. Sono affari miei! Ho smesso, quando mi sono ac corta che aspettavo un figlio. Ora il bambino è nato... Ingeborg: Perché? Aspettando il - figlio, tu non potevi?... Proprio come gli animali. Agata: Sì, per non essere peggio di loro — come sei tu! Ingeborg: Agata! Agata: Ingeborg! Ingeborg: (ridendo le tira un cor doncino appeso al collo e le fa saltare dal petto Un grande cro cefisso) Ma dunque è vero? Agata: Cosa, è vero? Ingeborg: Che stai parata come un altare maggiore. E anche la not te; questo è il peggio. Agata: Chi te l’ha detto? Ingeborg: Cara, vuoi un consiglio? Un uomo sensibile si spaventa vedendosi davanti un crocefisso così grande e così noir — a par te che il crocefisso può mettersi di traverso come un pugnale e lui blesser al petto! Bisogna che tu lo tolga, dopo aver recitato le preghiere serali. Agata: (per ripicco) No! Non lo toglierò mai. Hai capito? Mai... (con altro tono) Ma chi ti ha rac contato queste cose?... Lui!... Ah, io lo ammazzerò {piangendo) Ma io gli voglio bene! Ti prego, In- geborg: smettila con lui! Ingeborg: Malvolentieri lo farei. Perché mi piace, quell’uomo! Mi sa di canna di zucchero. Agata: Ma è mio marito! Ingeborg: Agata, tu non lo ami. Egli non ti piace due volte: co me uomo, perché non ti piacciono gli uomini; e come Vladimiro, perché in modo particolare non ti piace un tipo come lui. E in ve rità ci vuole una donna fatiguèe come sono io per trovare amabile Vladimiro. Tu non sei affatto fa- tiguée! Tu, se pure è vero che maintenent apprezzi quelle cose, cominci solo maintenent. Agata: (gridando) Smettila di par lare di me! E’ da anni che tutti parlate di me. Centomila parole avete detto sul mio conto. Se io dovessi giudicare te, me ne ba sterebbe una sola! Ingeborg: E qual è, codesta parola, s’il vous plait? Agata: Non la posso dire. Ingeborg: Perché? Agata: Perché non è una parola. Ingeborg: E cos’è dunque? Agata: Una parolaccia. Ingeborg: (arrabbiata) Agata, tu rompi la misura! Agata: (dominandola con una rab bia maggiore) Ingeborg, io ti rom po la faccia! Ingeborg: Voi del Sud siete feroci! Io chiamo gente e ti faccio cac ciar via. Agata: (saltandole al collo e ba ciandola) Cara, ti prego! Io ti voglio bene, malgrado tutto. Ab biamo1 passato alcuni anni insie me. Ci siamo tante volte sedute sugli scalini della mia terrazza al lume di luna. Tu mi hai letto nella mano che sarei stata felice. Io leggo benissimo la Ingeborg: mano. Agata: E perché allora non hai let to che tu stessa mi avresti fatto infelice? Ingeborg: Ma io credevo di farti felice togliendoti quel peso d’ad- dosso. Agata: Quale peso? Ingeborg: Il peso di tuo marito. Perché, quando un uomo non rie sce aimable, anche se è magro, pesa. Agata: Ti prego, non scherzare! Ingeborg: (decisa) Agata, tu non ami tuo marito non mentire a te stessa! Agata: (consentendo per rabbia) Ingeborg, è vero: io non lo amo! Io non amo nessuno. Io odio tut ti! Ma più di tutti odio te! Con piacere ti vedrei la faccia piena di sangue. Ingeborg: Feroci siete. Agat>.: ...I capelli per terra... Ingeborg: Feroci. Agata: ...Gli occhi bianchi e senza vita... Ingeborg: Ferocissimi. Agata: I denti nella gola. Ingeborg: Bestie feroci. Agata: (calma) Ma alla fine non m’importa di nulla, e ti auguro cento anni di salute... Ingeborg: Grazie. Agata: (fra ì denti) ...In un cantuc cio di camposanto! Ingeborg: Feroci. Agata: (commossa) Sii felice con lui, se vuoi esserlo, e che ti fac cia buon pro’... Ingeborg: Grazie. Agata: (fra i denti) ...E veleno! Ingeborg: Feroci. (pausa) Agata: Dimmi la verità: gli vuoi bene? Ingeborg: No. Agata: E lui ti vuol bene? Ingeborg: No. Agata: E allora? Ingeborg: Lui mi piace e io gli piaccio. E’ un’altra faccenda. Agata: Io non capisco tutte que ste faccende che finiscono allo stesso modo. Ingeborg: Quale? Agata: Che andate a letto insieme. Ingeborg: Non vuol dir nulla anda re a letto insieme! Agata: Per me vuol dir molto. Ingeborg: Sei una barbara. Agata: Sei una donnaccia! Ingeborg: Agata, questa volta non tollero più!... Agata: (con tono pietoso) Ma non vedi che tremo tutta? Perché non ti faccio un poco di pena? Scena I II Zia Carolina s'affaccia dalla por ta. Carolina: Agata, addio. Sono stan ca di aspettare in questo corridoio. C’è in giro troppa gente in mu tande che cerca la cameriera. Ad dio. Ingeborg: Potete entrare qui, si Carolina: La puzza del palcosce nico mi dispiace, fraulein. Agata: (con un grido di rabbia) Zia, lasciami il tuo bastone! Carolina: No, cara: tu me lo rom pi. Addio, (esce) gnora. Scena IV Ingeborg: Che volevi fare del ba stone ? Agata: Spaccarti la faccia. Scena V Riappare zia Carolina sulla porta. Carolina: Guarda che ammazzano tuo marito. Agata: (saltando su) Vladimiro! (corre alla porta, ma in quel mo mento entra Gildo sorreggendo Gildo: 'Vladimiro pallidissimo) Me l’hai ammazzato, me l’hai ammazzato! (collocando Vladimiro su un divano) Ammazzarlo avrei do vuto, questo traditore dell’ami cizia! Ma è svenuto solo col ven to della mia mano! {fa il gesto di sollevare la mano per colpire) Agata: {gridando) No! Gildo: E via che nulla gli faccio, nulla! Agata: (sedendo accanto al ma nto e prendendogli la testa) Vla dimiro, caro: che ti hanno fatto? Sangue mio, che ti hanno fatto? Dimmi, dici qualche cosa!... Oh, come è pallido! Dio mio, chiude gli occhi! Gildo: Agata, state tranquilla. Vi ripeto che non gli ho .fatto nulla. E’ che lui è peggio di un passero! qua! Ingeborg: Dagli un bicchiere d’ac Agata: (fra i denti) Zitta, tu!... (guardando Vladimiro) Madonna, come somiglia al bambino! Ingeborg: A quale bambino? Agata: (vivacissima) A mio figlio!... Nessuno somiglia quanto lui al bambino... (con slancio) Io lo a- mo, io lo adoro! Ingeborg: Lo ami... Anche a quel modo? Agata: modo! (violenta) Anche a quel Ingeborg: Oh, che lieta notizia pour tout le monde!... Gildo: (timidamente ad Agata) Ma perché?... prima, non lo amavate? Agata: Prima, non so. Ingeborg: Come siete, le donne del Sud! Vi sposate senz’amore! Oh. Gildo: Agata, a quel disgraziato (indica la testa di Vladimiro che sta sulle ginocchia di Agata), io dovrei schiacciare la testa col pie de e spargerla per terra come uno sputo. Ma per rispetto a voi, non lo toccherò con un dito. Perché voi, Agata, vi rispetto e venero ch’é ve ne hanno dette di tutti i colori, e invece siete pura come la Madonna addolorata... E non ci avete fatto mai caso, e non li avete degnati di una risposta. E io vi bacio la veste {s’inginocchia e bacia la veste di Agata). Ingeborg: (alzando le braccia al cielo) Oh, toujours in ginocchio! Gildo: (si volge lentamente verso Ingeborg) Crepa! Viagrande, 5 luglio 1943 FINE p o s a L ' a n i t r a s e l v á t i c a di Henrik Ibsen. Traduzione di Mar cella Rinaldi. Regìa di Luca Ron coni. Interpreti: Claudio Gora, Omero Antonutti, Ferruccio De Ce- resa, Eros Pugni, Lucilla Morlacchi, Paola Daneri, Miriam erotti, Al fonso Sntagata, Ugo Dettori. Scene di Gae Aulenti; costumi di Vera Marzot, Compagnia del Teatro di Genova. di Odoardo Bertani Un ambiente tutto nero e buio: gli oggetti vi si distinguono a sten to, in un loro informe conglome rato, tranne tre luminose fotogra fie d'opifici; gli uomini vi si muo vono a tentoni, gli uni ora da ri- devoli e ignare marionette, altri come cercando nervosamente una via d'uscita: siamo propriamente in una camera oscura. Ed ecco pre cisata, così e subito, ima cifra di regìa, da decodificare a seconda dei responsi che si vogliono avere. Questa tenebra è, anzitutto, le gata ad un approccio strutturalisti- ca, che insegue ed evidenzia i se gni fondamentali di questa ibse- niana «Anitra selvatica», della quale Luca Ronconi, sotto l’egida dello Stabile di Genova, presenta una edizione dal severo «plafond» culturale, rigorosamente pensata: si deve ben dire, un allestimento che porta idee e si costituisce in assoluto espressivo, in modulo ori ginario e unitario, che rintraccia una legge e l’applica sino all’ulti mo dettaglio. Il buio, dunque, che è la cecità fisica incombente nel vecchio in dustriale Werle e sulla dolce, in nocente Hedvig, colei che potreb be essere una figlia natagli dalla relazione con la serva Gina, poi frettolosamente sposata a Hjalmar — si parla di quindici anni addie tro — il fotografo declamatore è sempre alla ricerca dell’invenzio ne che ne sveli il genio di cui si crede provveduto. Il buio, che è la ottusità di fronte alla realtà e la coscienza messa a tacere e, ancora e più, è la situazione in sé di ignoranza della verità. Siamo in una camera oscura, si diceva; e allora andiamo a sviluppare la lastra, a conoscere gli uomini e i fatti. Ecco, al secondo atto, la sce na mutare affatto e divenire una scansione euclidea dello spazio. Qui si inserisce un’idea scenografica, che poi diventa metafora da un la to e, dall’altro, modulo stilistico. L’idea deriva dalla professione di Hjalmar, e dall’invenzione cui egli predica — mentendo — di atten dere. Quale poteva essere, andan do con la mente all’anno di nascita della tragicommedia, il 1884, que sta scoperta? Il Cinematografo, per esempio, coi suoi fotogrammi e le sue sequenze. Vi allude lo stesso manifesto dello spettacolo, rallen tato fissaggio di un movimento, os sessionante persecuzione visiva del semplice 'gesto di una -donna — an zi di un corpo ■— che scopa. La scena, pertanto, ora è tripartita in tre stanze egualmente arredate — vi domina il bianco — nelle qua li i personaggi agiscono fuor di ogni rapporto convenzionale: si parlano, magari, stando ciascuno in un amibente diverso, ma come se fossero insieme; tè una scompo sizione — allusiva di una incomu nicabilità di fondo — di cui viene chiesto alla mente dello spettato re di operare la sintesi. Ed è an che ricerca formale, che investe la possibilità di realizzare una sin tassi ed una « consecutio » da pun ti diversi di emissione. Dinanzi a questo ambiente iner te di colori, ma dotato di una sua ferocia — lo spazio è ora stringen te ossessione, ora. vuoto emble matico — è sciorinata l'apparec chiatura del laboratorio fotografi co, febbrilmente consultato. Il ri sultato è un forte contrasto plasti co, allineato con le recenti propo ste figurative dollegate, per esem pio, alle sculture mobili. La registrazione aggredisce poi le costituenti psicologiche dei sin- goli ■— immersi in una reazione acida — e le ¡traduce in gesti e valori fonici, in una intassi feno menologica basata sulla essenziali tà del segno, quindi su una ripeti tività, che estrae e blocca il signi ficato, l'attribuzione specifica, la connotazione storica -di ognuno e che la parte, e le armi, nel conflitto tutti investe. Il tema deU'introspe- zione trova così una straordinaria applicazione figurativa: il regista si fa chirurgo -ed esercita una impla cabile, raziocinante arte maieutica. tutta Questo spazio tripartito non è un dato, ma un momento. Le pa reti sono retrattili, ed esso tè mo dificabile secondo le presenze, le situazioni, gli stati d’animo. Ve dremo, così, scomparire questi fo togrammi e il palcoscenico tutto farsi la famosa soffitta, dove il passato si è fossilizzato, dove il vecchio Ekdal e il -figlio Hjalmar si rifugiano a medicare infantil mente le ferite dell’esistenza e a giocare ad una virilità inesistente. Questo è pure il luogo dove giace l'emblematica anitra selvaggia dal l’ala ferma e dalla zampa incerta: simbolo che racchiude un’intera parabola, nonché memoria di un tempo di libertà e di natura, che, conculcato, vorrà essere risarcito con la morte dell’innocente, iden tificatosi con la creatura prigionie ra e ferita. Si è creato, dunque, un ambiente astratto, metafisico e minaccioso, nel quale si ribalta l’analoga du rezza della casa che non ha angoli di riposo e odore di umano inse diamento, ma sembra un provvi sorio accampamento (i mobili so no coperti di teli), assediato dagli odiati strumenti di lavoro di Hjal mar. In questo ambiente senza va rianti, le voci non possono più es sere dell’impasto consueto, il dia logo non può più avere le cadenze quotidiane. E Ronconi esercita, in fatti, gli attori a un dettato sovra il rigo, spigoloso, breve e secco denudato e graffiante direi da co stretto, ognuno alla propria svela ta condizione. L’intonazione scor pora la parola, la rende si-gnifi- Giancarlo Dettori, Lucilla Morlacchi, Eros Pagni, Omero Antonutti ne « L'anatra selvatica » di Ibsen. eante in sé, febbrile proiezione di sincarnata dell’io individuale. In questa, «eccentricità», però, nulla va perduto dello scandaglio itose- niano nelle varie conformazioni ¡psicologiche: il regista, semmai, razionalizzando, incattivisce i con notati e ci offre personaggi giudi cati nella loro imbecillità, nella lo ro ambiguità, nella loro pochezza. Con 1 queste premesse, la morbi dezza del sentire, il piccolo riscon tro degli atti e degli affetti, l’uso ovvio delle cose non ha campo. E se già Ronconi aveva, di quando in quando formato sagome e ge sti in « flash » di suprema elegan za grafica (alternandovi non cer to casuali violenze cromatiche, ge stuali e vocali), così filtra il fina le, trattenendo ogni nota di pietà sul cadavere di Hedvig, l’agnello sacrificatosi. Egli ci propone, di nuovo, una gelida soffitta tripar tita come la casa di Hjalmar, con la quale ore si identifica, e qui il dialogo è un rimbalzare di frasi in cui non si raggruma alcuno sgo mento viscerale, e si viene -a smen tire l’ipotesi di un corso diverso della vita, almeno per Gina e Hjal mar. E’ un’aggiunta di pessimi smo? Forse, qui va perduto qual cosa. Da questo tentativo di resoconto si arguirà la portata di una gene razione totalizzante, i diversi ma teriali di uno spettacolo, e che è esemplare ricerca di nuove qualità linguistiche. Ossia, ristabilisce il primato della forma, formulando una proposta di essa consona a un tempo che, nelle varie arti, ha spezzato gli specchi, ha ben oltre passato il realismo. E direi, che proprio così vivisezionando e rit- mando, i contenuti ibseniani sono trasmessi con una panoramica che li attualizza e drammatizza, evi tandoci di scivolare nel compiaci mento facile per il capolavoro. Il capolavoro è frugato nelle giuntu re e ne rapporti interni, ¡è colto nelle sillabe e nei rimandi, con una aggettività caricata di tensione rap presentativa. Il secondo nome da citare è quello di Gae Aulenti, cui si deve ¡’apparato scenografico, che anche tecnicamente è importante per le soluzioni che ha imposto di adot tare. E le macchine hanno obbe dito. E quindi gli attori, impegnati a tradurre le intenzioni ¡di un re gista nuovo per tutti loro o quasi, e a dare una versione distanziata di personaggi intrisi di naturalità. Su Omero Antonutti il peso di ri cavare il massimo di repellente idealismo in Gregers Werle; la sua recitazione nevrotica ha reso assai bene tale malato fanatismo. E si è imposto via via Eros Pagni in Hjal mar, di cui ha reso con efficacie progressiva, cioè, con consapevolez za crescente, la inconsistenza e la ambiguità. Lucilla ¡Morlacchi ha fondato la grezza fisicità, la po vera dote -di casalinga di Gina con tratti assai incisivi e mostrando la disperazione radicale del perso naggio, che frequentemente si sta glia con classico profilo e suggesti va dimensione sul biancore dello sfondo, acquisendo emblematicità alla propria pesante fisicità. Fer ruccio De Ceresa ha maneggiato con mestiere sicuro la figura di Ekdal. Claudio Gora è stato un di gnitoso Werle senior. Miriam erot ti ha disegnato con accurata vi vezza e sottile -fermezza la figura della signora Sorby. La piccola Pao la Daneri (12 anni, onde un adatta mento di date) è molto brava. La sua Edvi-ge, peraltro, resta una di dascalia del personaggio; né, d’al tra parte, l’impianto tollerava che, con essa, s’insinuasse l’inevitabile emotività connessa con la sua sor te. E’ tutto sommato, la vicenda vuole appena il suo tenero motivo, come ipotesi non incarnata di al terità. Giancarlo Dettori, nel ruolo del dottor Reliing, si è assai impe gnato fuor dagli schemi, con bel furore, ma anche con qualche strappo. La impostazione del suo così interessante personaggio esi geva una maggiore e più pacata positività. P o l e m i c h e p e r l ' a n a t r a Polemiche a Prato, in occasione delle rappresentazioni de « L’anatra selvatica», sul costo (500 milioni circa) del «Progetto d’intervento culturale di tipo interdisciplinare » gestito dalla « Cooperativa Tusco- lano », sotto la direzione di Luca Ronconi, in convenzione con il Comune. Il segretario del partito socialista cittadino, Marco Mazzoni, in una lettera al sindaco ha chiesto esplicitamente se, con l'austerità e tutto, sia proprio il caso di spendere mezzo miliardo per finanziare gli esperimenti d’un gruppo teatrale d’avanguardia. Replica Goffredo Lohengrin Landini, sindaco di Prato: « Non si può reagire alla crisi mortificando i valori nuovi che possono aiutarci a superarla ». Da parte sua la « Cooperativa Tuscolano », per bocca del « ma nager » Paolo Radaelli, insiste sull’importanza delle iniziative intra prese: Ronconi, Eco, Marami, Aulenti; ora Luigi Nono e Claudio Abbado: « Tutto questo non vale mezzo miliardo? Tra l’altro, poi, 250 milioni circa li forniamo noi con l’incasso dei biglietti e la vendita degli spettacoli, con i contributi ministeriali e di altri enti ». Però osserva Mazzoni: « Buona parte dei cittadini ha l’impres sione che si tratti d’un esperimento negativo, non portatore di effetti culturali precisi nel nostro territorio, rispetto al quale l’investimento di danaro pubblico non appare giustificato ». I l m is a n t r o p o di Molière Cooperativa Teatro Franco Paren ti. Traduzione e regia di Franco Parenti. Interpreti: Franco Paren ti, Raffaella Azim, Simona Con cia, Bab Marchese, Bruno Noris, Renata Biserni, Ricardo Peroni, Sandro Quasimodo. Scene e co stumi di Giammaurìzio Fercioni. Franco Parenti, che guida la sua « troupe » al Salone Pier Lom bardo di Milano — dove si svolge un’attività a più rami, nessuno dei quali casuale o distraente —, affronta il grande ruolo di Al ce ste nel « Misantropo » di Molière. Le doti e la carriera giustificano un’ambizione, e, del resto, è tem po che gli attori italiani — e dico d giovani — mostrino di avere un poco più di audacia: si sono la sciati troppo a lungo intruppare ed hanno perso il gusto del cimento coi grossi persnaggi. E’ proprio un vantaggio per »1 teatro e per loro stessi questa forma di autoridu zione? Parenti giovane non è, però è da tanti anni che gioca carte perso nali e coraggiose. Tanto che que sta parte, prima di essere un fatto interpretativo, è fors’anchc una confessione, una presa di po sizione, ima testimonianza di in quietudini e di amarezze dell’uo mo e dell’operatore di cultura: ma. gari di fronte a certo conformismo strisciante in quel di Milano. Che ci sia un poco d’Alceste in lui, è naturale; che l’incontro sia di mentalità, di costume, persino ideologico, risulta chiaro. Il mo vimento della commedia è: lotta e fuga. Non una resa interiore, ma un’emarginazione sì. Nel pro porre « Misantropo », evidente mente, Parenti rifiuta di abban donare il campo. E ci consegna — nel suo severo abito di società, una macchina scura •— un eroe umanissimo e moderno, il cui ‘giu dizio etico si è mutato in una disperazione e, infine, in una scel ta non così inusitata, da non ri trovarsi nella cronaca contempo ranea. L’opera di Molière — que sto punto di incontro della com media con la tragedia — è anche, per non trascurabili aspetti, una storia di ideali dovuti ripiegare, è « il dramma della nostra gio ventù », come si legge in un re centissimo saggio di Pierre-Aimé Touchard, la quale « ha creduto di poter cambiare la società con la fede e l’impegno personale e che si rifugia in un’amara misan tropia ». I casi personali di Molière, e gli stessi precedenti propri e altrui in fatto di tema e di carattere, tornano negli archivi eruditi, di fronte alla novità di un’opera in sieme ridente e triste e di un personaggio, che si eleva solita rio con i propri convincimenti e si butta in un combattimento sen za speranza, anzi cronisticamente pazzesco perché la misura dell’ec cesso è data dalla congiura dei conformisti : di un personaggio che vediamo, alla fine, allontanar si chaplinianamente, verso un ipo tetico paese dove sia possibile vi vere da uomo libero. Ma l’ultima parola non è sua, è di Philinte, l’amico prudente, saggio, retto, e tuttavia tra il ras segnato e l’ignavo, tuttavia pron to al compromesso, almeno per quanto riguarda le forme; un li berale che intende lasciar vivere, lasciar fare. E questo è, certa mente, l’altro « io » molieriano. In questa commedia a sketches, in questa passerella di conversazioni —- suprema liberazione dai canoni drammaturgici —, è incastonato il dialogo segreto dell’autore con se stesso, si avverte forte l’eco delle domande che egli poneva a se stesso, l’orgoglio e le perplessi tà dell’autore del « Tartufo ». Commedia fatta di mille picco le meraviglie. Di sottili sapienze psicologiche. Senza intrigo e così serrata, quasi a suspense. Così frivola nel concerto salottiero e così in allarme, perché ogni cosa vien pesata da Alceste. Un’opera rivoluzionaria, ma non a tesi. Calda d’amore per l’eroe — e che induce ognuno di noi a condividere la sofferenza —, ma non sorda alle ragioni di tesa e Riccardo Peroni, Bruno Noris, Raffaella Azim, Sandro Qu asimodo, Franco Parenti, Renata Biserni ne « Il misantropo » di Molière '(foto di Pietro Privitera). Oélimène (per tacere del finissi mo ritratto di Eliante, la giovane serena e limpida), di questa ve dovella dalla quale forse Alceste pretende troppo — oltre la since rità —, e che dirà alla fine la propria commovente giustificazio ne : « la solitudine spaventa un’ anima di vent’anni ». Il rigore di Alceste esige un’eguale e rarissi ma tensione morale. Egli è un uomo del deserto, anche se non siamo poi sicuri che egli abbia risolto — come ì Padri, cioè in positivo — dentro di sé, il pro blema della solitudine. Il « Misantropo » viene ora pro posto al Salone Pier Lombardo da Franco Parenti. Il quale, per cominciare, ha curato la traduzio ne, in versi e a rima baciata. I versi sono sostanzialmente mar telliamo per eco e rispetto del l’alessandrino originario, ma sono tante le licenze ; né la qualità è sempre sopraffina. La motivazio ne è una volontà di creare una lingua flessibile, da teatro ; niente da obiettare su un’operazione anti accademica e vitalizzante, solo che ci sembra debba l’operazione esse re condotta avanti, allo scopo di creare un ritmo interno un’armo nia di sillabe corte e 'unghe. La versione tende poi, senza strafa re, e con una disinvoltura arguta, a introdurre elementi, casi, figure della vita contemporanea, surro gando la datata « contemporanei tà ’ del testo, osia i suoi riferi menti alla realtà secentesca. Le nuovissime citazioni, che non stra volgono certo il contenuto, na scono soprattutto da un atteggia mento polemico verso alcune fo me di malcostume politico e cul turale, o altrimenti si giustificano con la necessità di dare un equiva lente in 'fatto di annotazioni. E’ il caso dei riferimenti fatti in quel girotondo di maldicenze, che tan to spiace ad Alceste. I tipi bersa gliati hanno ora assunto conno tati fruibili. Per il resto, fa ef fetto sentir parlare di aerei, n di un certo Avvocato, ma Pa renti ha inteso adottare termini e giri di frase spregiudicati non per avventuristico ammodernamen to, bensì per presentarci una so cietà « critica », per offrirci uno specchio, e una mappa riconosci bile subito del mondo in cui an che noi dobbiamo scegliere come comportarci. Quello di Parenti è forse il più discreto e persuasivo degli adattamenti. Ed è, quindi, naturale che la corte diventi il « palazzo », e che una « prefettura » ci ricordi il po tere. Del resto, l’ambiente del « Misantropo » non è borghese : raccoglie gente di quello che oggi si dice il « jet set », vi si compie l’esercizio molto da intellettuale dello sparlare. Altri è andato an che più avanti nel vestire di pan ni moderni il « Misantrono » ; Pa renti, con la collaborazione per le scene e i costumi di Gianmau- rizio Fercioni, ha scelto una via di coinvolgimento e di astrazione insieme, per contraddittoria che possa apparire la cosa. La cifra unificante è forse proprio in que ste bellissime scene di nuova figu ratività, dove luci e colori e for me si collocano secondo una pura esigenza lirica e allusiva, e nei costumi che filtrano e ironizza no una moda corrente, piacevol mente assembleando i pezzi. Da vanti a un fondale bianco di astrat ta classicità, e su una pedana inchinata dove il distendersi di un drappo suggerisce un’idea di salotto, vestiti di costumi di alta ed elegante ironia, l’agone verba le può dipanarsi senza distrazioni. E come regista, Parenti ha lavo rato a togliere per così dire, i precedenti, e a lasciare fluire la frase con le sue giunture e i suoi toni, come se nascesse immedia ta sulla bocca. Niente di saputo e di sottolineato. E’ un « levare » che si traduce in semplicità di pronuncia e in incisività e fre schezza di espressioni. Il tutto si colloca in un quadro d i1 grande raffinatezza : la colloquialità man tiene tutto il rispetto per l’« alta commedia », ma la scioglie dai lac ci della letteratura e del prontua rio recitativo. E’ un Molière fat to nostro, anzi siamo noi in Mo lière. Franco Parenti dà al suo. Alce ste una determinazione franca, una impavidità senza vanteria. Non si ringiovanisce, e con questo vie ne a porre in campo — con sot tile misura —• anche un proble ma generazionale: è un po’ l’uo mo adulto che non riesce più a capire la gioventù. La somma, e ben nota difficoltà di individuare il tono giusto per una commedia che ne intreccia due, è sostanzial mente vinta attraverso l’accentua zione espostiva, resa pregnante da un ricorso all’ironia. In sede di bilancio, è il riso a prevalere, sen za arrivare al ridicolo; un riso freddo, leggermente sinistro, qua si sforzato dentro lo stridere del le cose ; la pena è lasciata intuire attraverso la fedeltà alla parola che la contiene o la richiama. Una Célimène senza smancerie e sen za trucco, coi gesti non calcolati ma già un poco viziati di una ragazza della buona società, è Raf faella Azim. che con molto gar bo e con molta vigilata finezza compone una figura d’idolo a me tà consapevole del male che può fare, con la sua inevitabile forza di attrazione. Ella è una giovane tutta d’oggi, i cui problemi di Alceste risultano incomprensibili, legati a schemi e modelli che non le si addicono, così come il suo corpo risulterebbe ridicolo, se ve stita in una foggia, non rivisita ta, di ieri. Eccellente Arsino è la Simona Caucia, per la sottilissima misura tartufesca del suo perso naggio : davvero un risultato arti stico. Bob Marchese, Bruno Noris, Renata Biserni, Riccardo Peroni, Sandro Quasimodo, con gli altri, contribuiscono notevolmente al li vello di uno spettacolo senza or pelli, molto comunicativo, di ser rato dibattito, di alta qualifica zione stilistica, di severo impian to e di suggestiva pronuncia. O. B. I l p a d r e di August Strindberg. Traduzione di Luciano Codignola. Regia di Gabriele Lavia Interpreti: Massi mo Foschi, Angiola Baggi, Valen tina Montanari, Mario Bussolino. Luigi Antonio Pistillo, Vanna Pol verosi, Pino Luongo. Scene di Gio vanni Agostinucci; costumi di Ga briele Lavia; musiche di Giorgio Gaslini. Compagnia G.S.T. ricordo »: intrinseco, ma alla Metto August Strindberg fra gli la autori del « buon menzione non si riferisce al loro merito loro più o meno fortunata presenza sul palcoscenico. Dal 1970 in qua, ec co « Il sogno » con Ingrid Thulin a Torino, e poi una « Danza di morte » con le splendide Interpre tazioni di Gianni Santuccio e Lilla Brignone, e una intelligente e sti listicamente acuta edizione di « IT pellicano » dovuta a Mina Mezza dri, e ora « Il padre », dovuto a un gruppo che fa capo a Gabriele Lavia. E’ la compagnia, sostanzial mente, che esordì la scorsa sta gione con un « Otello » molto ef fettistico; un allestimento, rispet to al quale il presente costitui sce un notevole passo in avanti. Lo spettacolo, infatti, si distin gue per la compattezza di una cifra stilistica e per la fermezza recitativa che sostiene un’impo stazione registica a prima vista in contrasto con l’assetto naturali stico di « Il padre ». Ma è una diversità benefica, perché maieu tica di ciò che Strindberg voleva dire, e di ciò che egli potè solo sentire, e i semi e le ragioni della propria contemporaneità perenne. in questo ponendo D’altra parte, la misura natura listica e borghese è un vestito stretto per un dramma che si svolge sì in un salotto, ma in un salotto assediato dai fantasmi. La terza dimensione è doppiamen te indicata negli spiriti che l’in in visibile Norma presume di vocare. Né riduci bile al i tra sessi, e alla misoginia dell’auto re, magari sollecitata dal caso per sonale, come il protagonista — il Capitano — ha bene gli stessi trat ti psichici di Strindberg. « Il pa dre », dunque, innesta, come il ti tolo preavverte, il tema della pa- resto è lotta tema della il ternità in quello dell’eterno con flitto tra l’uomo e la donna. Il che porta subito a osservare che que sta lotta è data, ma non motivata, né in termini biologici, né in ter mini storici. E, presenta come guerra per il potere, oltre che soffrire di un’angolatura esclusi- vavamente mascolina, par bene che concorra da sé a bloccarsi ogni apertura verso il superamen to dell’.« impasse ». E’ tutto in arretrato, quanto a concezione di rapporti e a distri buzione di compiti e finalità nel matrimonio. La virilità resta la debole idea fissa del Capitano, agli occhi dal quale la donna si pre senta come il Vampiro. Sbuca poi, elemento primario del processo verso la tragedia, il tema della paternità, e della sua non raggiun gibile certezza. Anche qui, l’esal tazione dei cromosomi è privile giata, in partenza, rispettò al tes suto degli affetti, e alla pater nità spirituale. Che poi il Capita no soffra di complessi, e che viva sempre nell’utero materno è ben chiaro e ben degno di una rico gnizione secondo il metodo psi canalitico. Non a caso egli cer cava in Laura, la moglie, una Ma dre, e falliva con essa come ma schio amante, e non per nulla la sua morte è esattamente un ritor no al ventre materno. La forza — e l’umanità — del dramma strindberghiano risiede appunto in questa condizione patologica del protagonista, nella morbosità ma cerante dei suoi rapporti con la donna, magari metaforicamente in tesa come simbolo del prossimo- La figlia, Berta, è la ragione oc casionale, ma perspicuamente em blematica del contendere. Si tratta di come educarla. Ma qui, educa re non significa per nessuno dei due porre in atto gli strumenti per una liberazione della persona lità. Significa, invece, ripetersi e specchiarsi in un altro, afferman do la validità vittoriosa del pro prio essere. Questa è l’ambizione viscerale di Laura, ma per il Ca pitano si tratta di una questione, che investe la giustificazione del suo rimanere al mondo. C’è una frase (che non so se è rimasta, in questa edizione, che sortisce da uno sfondamento del testo) molto interessante: « Per me, che non credo in una vita futura — dice il Capitano — la bambina costi tuisce la continuazione di questa esistenza terrena ». Si va oltre un Angiola Bafggi ne « Il padre » di Strindberg. deltà dialogica dell’americano, e vivente, Albee (.« Chi ha paura di Virginia Woolf? »). Ma, con Strind berg, il ferire è un cercarsi, l’in vettiva è un grido di pena, e la bufera viene da dentro e da lon tano. Gabriele Lavia ha immaginato lo spettacolo come rappresenta zione di una tragedia che si con suma nell’animo del protagonista, se bene intendiamo la scena ap prontata da Giovanni Agostinue- ci: una pedana, quasi un ring, circondata da un’inferriata che la muta in gabbia. E poi i personag gi che stanno acquattati ai bordi, ed entrano per provocazione e evocazione; e poi le luci a cono che sagomano le apparizioni. Sia mo come in un circolo magico. Nulla di naturalistico, dunque, e per contro una ricostruzione tut ta razionalistica, tesa a essenzia- lizzare i contrasti e a sottolineare una problematicità che ci riguar da, una la quale tematica con dobbiamo confrontarci. A questo fine, il regista ha eletto certe soluzioni espressionistiche — ad es. i volti ridotti a maschera — per indicare una condizione di fissità e un certo straniamento. Inoltre, i personaggi sono nudi sotto le lunghe vesti, anche i pie di. Quasi per una condizione ma nicomiale, o piuttosto per alludere a un soffocato erotismo e ad imo scontro di sessi. D’altro canto, ha affascinato il regista la figura del Capitano, in particolare per le sue nevrosi e psicopatie, di cui Massimo Foschi è un eccellente interprete; l’atto re perviene qui a controllare — ih una « performance » che lo qua lifica come non mai — una gam ma assai ficca di espressioni, per sino toccando un avveduto livello istrionico; la sua è una presenza piena, che coinvolge lo spettatore sia nella dialettica, sia nella tra gedia individuale. Il taglio e la resa del personag gio ci propongono un Capitano smarrito e irretito, che i dubbi sulla paternità conducono a inter rogativi più generali e ad uno stra zio esistenziale, elevando al tragico puro il livello dell’opera. E ottima, per incisività e per una tal quale ombra di mistero e di ambiguità data a Laura è Angiola Baggi, ancorché il suo per sonaggio risulti inevitabilmente un poco ridotto, quanto a peso dia lettico, Mario Bussolino, Vanna Polverosi, Valentina Montanari, L. A. Pistillo e Pino Luongo parteci pano al dettato intenso e forte dello spettacolo che ha limpidi movimenti di scoperto strazio e che realizza con Foschi, nel Capi tano, una struggente follia, non più clinica. E non è un male, vista la coerenza linguistica dell’ allestimento, che sia stato disat teso il consiglio di Strindberg a semplice disconoscimento o rico noscimento di paternità in base alla fedeltà o al tradimento della moglie (e, in realtà, il dramma non dà una risposta inequivocabile aH’interrogativo), e par bene che risuoni qui la nota di un’altra me ditazione, di una inquietudine esi stenziale. Il disegno drammaturgico esige il progressivo svelarsi e sviluppar si della perfidia femminile e il fa tale morire da sé del Capitano. Una sconfitta inevitabile. Ma la rigidità della tesi, lo schematismo dovuto al pregiudiziale odio verso l’altro sesso sono superati dall’ autenticità di un dolore, che ab batte la casistica biografica e so ciologica, per divenire forma di una coscienza, arrivata a conclu dere che « della vita non sappia mo nulla ». E’ in questa angoscia dilatatasi nello smarrimento da vanti all’intera vita, nella dispe razione non medicata dalla don na cercata a completare un esse re geneticamente dimidiato, che l’avventura umana del Capitano si conclude: con un suicidio morale, se vogliamo; e con una confes sione d’impotenza ben altro che fisica, com’è adombrata. la donna, indicazioni la società, L’uomo, la famiglia, i figli, la vita: le lam peggianti strindber- ghiane si consolidano nel valore autonomo del discorso dramma tico, che prelude persino alla cru- il recitare August Falck, attore e direttore del Nya Teater di Stoccolma, nel 1888, di testo come qualcosa tra la tragedia e la com media: molte delle situazioni qui private e accennate sono oggi esplose in pubblico. E il ‘risultato, qui, è di limpida suggestività, di alta qualità. q g L a c o n v e r s a z io n e c o n t in u a m e n t e i n t e r r o t t a di Ennio Flaiano. Regia di Luciano Salce. Scene e costumi di Bruno Garofalo. Interpreti: Giorgio Al- bertazzi, Gianni Bonagura, Mario Maranzana, Loredana Solfisi, Fran ca Tamantini, Elisabetta Pozzi, Ga briele Antonini, Sergio Di Giulio, Antonio Iodice. Roma, Teatro Ar gentina. Se lo spettacolo dello Stabile di Roma ha voluto essere un omaggio allo scrittore pescarese spentosi due anni orsono, dopo quello a Pier Paolo Pasolini, potremmo anche rinfoderare le armi, per rispetto ad Ennio Flaiano e per non coinvol gerlo in questo tipo di operazioni, che lasciano perplessi quanto alla materia e quanto alla forma. Il fi ne non può essere l’autore, in que sto caso, a meno di non sottoporlo ad un’azione d'ingrandimento, che 10 ridicolizzerebbe, anziché fame riconoscere i meriti, pur sufficienti. 11 fine dovrebbe essere Roma, una esplorazione di viscere culturali e di realtà poetiche ed esistenziali, di livelli drammatici e di nodi pro blematici. Ma disponiamoci ?.d accettare la presente passeggiata, valutando che nella costellazione letteraria italia na, Flaiano è venuto, 'erede di una affilata tradizione romana di disin cantamenti, a collocarsi con quella che direi una sua « coscienza di ca mera». Il suo occhio ha preceduto ogni scuola dello sguardo nell’anno- tare le quotidiane variazioni di co stume, il giornaliero mescolarsi di mode e di chiacchiere, di ambizio ni e di tics, soprattuto seguendo la mutevolezza meteorologica del mondo cinematografico ¡e teatrale. La sua predisposizione era alla mo ralità di rimbalzo, sull’occasione che ridestava umori e che richia mava dal profondo una sentita esigenza di libertà. Libertà di intel lettuale, troppo spesso merciata sulla bancarella degli slogan; il che non si riferisce certo a Flaia no, ma chiarisce il mondo stretto e specifico in cui operò, vivendone le avventure e lottando per non es sere preso dalle sue spire. Il gusto deH’irrisione non nascondeva pe raltro un atteggiamento di vendet ta, ma era una confessione. Il grondante autobiografismo della sua opera è, come scrisse Valerio Volpini «un travaso del cinismo e della malinconia, dello scetticismo e della ripulsa », cioè il racconto di ima inquietudine, che un innato pudore schermava con i segni gar bati dell’Ironia. Ironia identifica- trice e, anche, limitatrice. Di que sti tremori dello spirito, di questa sensibilità trattenuta, e di una pen sosità non tutta esaurita sul con tingente sono, ad esempio, una in dicazione nell’Intermezzo di « La conversazione continuamente inter rotta », singolarissimo « a parte » non degli attori, se non tecnica- mente, bensì deH’autore, che in realtà viene in primo piano a dirci, in versi, un disgusto che sale a sof ferenza, un sottrarsi dalla immon dezza e oscurità del reale per una solitudine veggente, nella quale fi nalmente sentirsi disponibile a do mande vere. E allora, dopo una fe licissima serie di immagini nel qua dro di un amaro dismagamento, ec co, dentro il silenzio, le parole: « C'è un limite al dolore / in quel limite un caro conforto / un’im provvisa rinunzia al dolore. / Il pianista cerca un ¡fiore nel buio / e lo trova, un fiore che non si ve de / e ne canta la certezza. / Il gioco è questo: cercare nel buio / qualcosa che non c’è, e trovarlo ». 'Questo è un punto d'arrivo, ma è altresì un assolo. Vale a dire, che se deve trattenere dal mettere Flaiano sullo scivolo del puro in trattenitore, non deve peraltro in durre ad avvolgere in carta grigia e spessa la sua opera, allegandole inclinazioni e intonazioni impro prie. Prendiamo, dunque, in esame l’allestimento che della .« Conversa zione » il Teatro di Roma presenta con inizialmente piuttosto riottosa, del regista Lu ciano Salce. I sette quadri di una opera da considerarsi « aperta » erano già stati rappresentati al la mediazione, Festival ■ di Spoleto, nel 1972, con Paolo Bonacelli e Rie e Gian: dal « cast » si deduce subito l’accento di queU’allestimento. Il nuovo, vo lendosene discostare, ha preteso troppo da Flaiano; si direbbe che l’abbia voluto imparentare con Pin ter, gravandolo di una tematica esistenziale, di un senso doloroso di impotenza e di disfacimento. Il risultato è uno solo; scollamento tra contenuto e forma; e un pro gressivo calare di un velo di noia. I personaggi, anziché essere cam pioni del blabla-bla, esemplari del la fauna romana legata al mondo dello spettacolo, e sottoporre cosi la loro nullità intellettuale e mo rale alla satira, che nella « conver sazione » permanente denuncia un motore in folle, tendono a farsi al lusivi e problematici. Ora, il diver timento proposto da Flaiano non è sguaiato, e una tristezza delle co se trapela: ma per l’osservatore. In scena; portatori non ne sono con sapevoli, e l’assurdo in cui sono immersi è quello banale del loro analfabetismo culturale, della loro condanna ad avere idee a coman do. Angosce e crisi reali sono fuori del loro tiro, della loro sensibilità attutitasi. La chiacchiera è la loro unica ri sposta alle domande della vita. E’ anche la chiave stilistica di un'ope ra, che si coglie come attento eser cizio inventivo da parte dell’autore, che affronta e svolge un tema con variazioni. All’infinito. Il carattere di opera aperta della « Conversa zione » ci espone questo lato di la voro letterario ed esclude, nello stesso tempo, la possibilità di za vorrare il lavoro di contenuti esor bitanti. Ad essere maligni, si direb be che Salce, regista di farse fil mate bene spesso corrive, tenti in teatro di rifarsi un « pedigree »; ma la sua espiazione poi la paghiamo noi. E, soprattutto, non si accorge che, dando questa compunzione ai personaggi, fornisce loro un alibi, una possibile giustificazione. I tre, giocano sia con l'arte, sia con la vita : e sono « out » da entrambe. II regista Salce dice che la com media « è soltanto superficialmente improvvisata, svagata e casuale». E sta bene l’aver fatto emergere i rimandi, gli anelli della struttura. Sta pure bene l’avere evitato la co micità pura (come fece Vittorio Caprioli nell’edizione del ’72) ; e persino diamo atto di una finezza, di un fascino esangue, di una eoe- Gianni Bonagura, Mario Maranzana e Giorgio Albertazzi ne « La conversazione contìnuamente interrotta » di Flaiano. La battaglia perduta è, renza e misura della rappresenta zione. Ma è sufficiente, per consi derare l’allestimento un approccio critico? La conversazione è una confessione: tutta reticente, e che andava quindi popolata di doman de nostre e di risposte loro (dei personaggi). Tenendo conto della loro non consistenza umana, del loro essere le figure di un gioco ironico e disperato, dolce e cattivo, condotto dall’autore con sotteso in vito a fornire nostri e ulteriori documenti. Anche sul tema del teatro (e del cinema) che non si può fare. forse, anche contro una possibile incer tezza del testo, che sfugge il reali smo ma subisce la doppia tenta zione del grottesco e del simboli smo (e forse di un'ambizione mag giore, .filosofica) e a sua volta — per un fatto d’orecchio' e d’eco del la drammaturgia d’avanguardia contemporanea — mette in tenta zione di trovarvi quello che non c’è, e di svoltar l’angolo alla chia mata di correo. Lo spettacolo in doppiopetto è recitato dalTAlbertazzi, che ben il suo spiritualizza e aggronda scrittore, dall’ameno e incisivo Gianni Bonagura, da un sobrio Ma rio ' Maranzana, nonché da Franca Tamantini, Elisabetta Pozzi, Ga briele Antonini, Sergio Di Giulio e Loredana Solfizi. Quanto a « La donna dell’arma dio », uno scherzo che sembra un adattamento domenicale di un te sto del « teatro della minaccia », e che Salce, uomo assai impressiona bile, trova essere « un gioco nero, viscido e ripugnante », vien tradot to poi in termini di farsa, ma qua si trascurando la ricerca delle pro prietà del genere. L’argomento è la curiosissima indagine di un com missario nella casa di un giovane poeta sospettato d’assassinio (e la giovane uccisa è appunto dentro l'armadio) ; e certo vi è la satira, ma soprattutto e meglio c’è il pia cere di inventare « contro » : contro il linguaggio corrente e contro il genere (il «giallo») che vi corri sponde. Il testo è una reinvenzione spassosa di metodi inquirenti e di dialoghi, e la clamorosa finale sba dataggine dei poliziotti >è un guizzo fantastico godibile in sé. La rap presentazione, poi, di quel nero e di quel viscido non sa nulla. Nean che ci fossero mille esempi del trattamento grottesco e dei segni della satira, si affida alla generosa e puntualissima carica comica del tempratissimo Bonagura, mentre chiede invano all’Albertazzi di usci re da sé e di fare l’attore comico. Si vede troppo, che egli è 'qui di passaggio, per contratto. Le scene, naturalmente astratte, sono di Bruno Garofalo. Ma, abo lendo la targa dell’ambiente, la sa tira non trova il destinatario. O. B. U n a m a d r e di Massimo Gorkij. Regia di Lam berto Puggelli. Interpreti: Gabriel la Giacobbe, Alarico Salaroli, Um berto Ceriani, Ivana Monti, Anna Goel, Rinaldo Porta, Maria Teresa Letizia, Riccardo Mantani. Scene e costumi dì Paolo Bregnì. Milane, Teatro Uomo, 4 febbraio. teatrali, Autore di diciassette drammi e porgitore, con i suoi racconti e ro manzi, di moltissime occasioni per trasposizioni la notizia corrente di lui, tra noi è ferma a « Piccoli borghesi » e a « Bassifon di » : d’altra parte, le sue opere drammatiche sono inaccessibili, perché, tranne una, di lontanissi ma edizione. Tale la fortuna, piut tosto amara, di Aleksej Maksimo- vic Gorkij (anzi: Peskov), del quale ora si recupera — al Teatro Uomo — l’aspro copione conclusi vo del suo primo ciclo di lavoro rivolto con particolare interesse alla scena. Un’attenzione ed una inclinazione, che risaliva al Gorkij adolescente, e che lo vide via via comparsa negli spettacoli di ñera e poi attore, regista e organizza tore e critico. Il testo che ora vien dato al Teatro Uomo è « Una madre », che è poi il. sottotitolo di « Vassa Ze- leznova », dal nome delia protago nista Di una madre. Gorkij si era occupato nel 1906, con un ro manzo che ehbe ottima sorte an che in una riduzione per la scena: là, il personaggio della proletaria Nilovna era seguito nelle fasi at traverso le quali, per amore del figlio, idealista rivoluzionario, pren deva coscienza della realtà e si inseriva nella lotta sociale. la Di tutt’altra specie questa Vassa Zeleznova, nella quale il senso del la maternità si sviluppa per linee singolarissime, onde si crea un personaggio unico, che mette in secondo piano quello che poteva essere un quadro di,costume, ima critica all’egoismo di un ambiente borghese. La denuncia di classe è così indiretta e sfumata, che Gor- kij sentì il bisogno, nel 1936, di mettersi al passo coi tempi, e di « La madre » fece una seconda stesura, ideologicamente allineata, ma certamente non di altrettale qualità. E opportunamente la pre sente edizione si attiene al copione del 1910. La vicenda di « Una madre » si svolge nel giro di circa due mesi. Siamo in casa Zeleznov: moribon do; in attesa sono la moglie, che dirige autocraticamente fami glia e l’azienda, ’ tre figli, il fra tello dell’ammalato, l’amministra tore che è schiavo di Vassa, con la quale probabilmente ha una re lazione. La figura più sana è forse quella di Ljudmila, sposata allo storpio Pavel, e che è divenuta l’ amante dello zio Prochor; in realtà, essa è una giovane che ha bisogno d’amore, e che sbatte do vunque le ali come un ucoello ina bituato alla gabbia. Gelosie, ran cori, brama di denaro, frustrazio ni, impotenze scatenano i perso naggi in un gioco al massacro; è tutto imo spiarsi, un litigare, e ac cadono episodi turpi e criminosi, e altri sono rievocati. Delitti che sono una specie di necessità, per evitare la rovina. Al centro, ad ad dossarseli, Vassa, la madre, con la sua intelligenza fredda e con la sua impassibilità. Inesorabile nel valutare i vantaggi di un atto e impietosa nel misurare la qualità (e la redditività) delle persone. Tesa al sommo bene della conser vazione di un’ asse ereditaria, e quindi decisa a qualsiasi somma ingiuria. Ma non così asciugata dentro, non così talmente demo niaca, da non aprire spiragli su interni cedimenti, da non lasciarsi andare a secche confessioni di una fatica che si fa improba, da non svelare la motivazione di un agire vola, dato che il carattere è fog giato da frasi brevi, da reazioni fulminee, da interventi improvvisi, da un entrare e uscire incessanti, da un rompere e un tessere che procede per accenni. La Vassa scritta è la punta di un iceberg. Il discorso vale anche per gli altri personaggi di questo dramma con centrato ed irto, dove niente si di spiega e tutto va capito, dove la tragedia incalza sotterranea tra al lusività e colpevoli attese dell’even to di cui profittare. Del che si mostra ben consape vole Lamberto Puggelli, che ha ideato una rappresentazione ane lante e nervosa, esaltando il tema della inquietudine morale, e per così dire braccando ogni personag gio dentro un incubo generale. Cattiveria, smarrimento e dolore si presentano per « flashes », in scene di ritmo rapido e di toni acuti. In sintonia, la suggestiva, e importante scena di Paolo Pregni offre un ambiente funereo (ci so no tre morti nel conto, posto che una serva è indotta a impiccarsi), trasforma tutta la casa in una ca mera ardente che è altresì un in ferno sartriano, che viene sciabo lato da fasci di luce cruda, di effi cacissimo accanimento nel rintrac ciare i volti dei singoli. Neri anche i costumi di tutti, sicché lo spet tacolo emana appieno un sentore di eventi sinistri, e ci immerge in un girone di lividi spettri. In que sto ambiente, si esalta un ritmo cinematografico di movimenti, ed ha la crudeltà di un obiettivo. E’ un allestimento severo che via via trova una giustificazione anche per armoniosità e completezza di elementi. Vedi la musica di Fioren zo Carpi e il tubare dei colombi raccolti alla base del palcoscenico (anche in questo Gorkij c’è un’em blematica soffitta). Ricordiamo infine l’apporto degli attori: Umberto Ceriani (un Pavel di buona carica drammatica), Ala rico Salaroli (un ispido e naif Prochor), Ivana Monti, Anna Goel, Rinaldo Porta, Rossana Bassani, Riccardo Mantani e Maria Teresa Letizia. La ineccepibile traduzione del testo si deve a Milli Martinelli. O. B. Dunque : assurdo e anche mostruoso, ma che vuol essere l’applicazione di un’idea della maternità: essere madre, dice, significa essere gran di peccatrici e anche grandi mar tiri, ossia fare i cani da guardia della casa e farlo sino in fondo. E qui si coglie la distanza tra Vassa e la Arma Petroxna di « I signori Golovlev ». il capo di casa, con qualche aiuto, muore ; e morirà, dopo una serie di arrabbiature for se provocate, lo zio Prochor ; un testamento non impugnabile, ma di sospetta fattura, darà ogni be ne in mano a Vassa; Pavel lascerà la moglie e andrà in un convento; il figlio Senjou non conterà nul la, come sempre. Vassa chiama accantò a sé la figlia Anna e la nuora Ljudmila: è stanca, riflette («...niente miracoli... per noi don ne non esistono miracoli., dobbia mo faticare e costruire sempre da sole... »), e sogna che le due don ne le diano nipoti sani. La conti nuità della stirpe è un’esigenza vi scerale e la ragione dell’ essere donna. Come si vede, il carattere di Vassa è molto complesso, ha le bivalenze, la ricca ambiguità dei grandi personaggi, la feconda con traddittorietà di ciò che vive, an che nell’arte. E’ una figura fuori dagli schemi, intimamente dram matica, volutamente disperata e anelante sotto la maschera impas sibile. E qui risiede una contem poraneità, che è nell’incontro con la profondità dell’uomo di sempre. Di questa Vassa, Gabriella Giacob. ■ be ha inciso i tratti più persuasivi, con una bellissima limpidezza di disegno ed una vigorosa investiga zione psicologica. La determinazio ne, l’antiveggenza, la secca efficien za della madre sono state da lei penetrate del senso di ciò che sta dietro la maschera, ossia di una sottile inquietudine e dell’ ombra data dai sussulti della coscienza. Il personaggio, proposto con luci da potenza di mezzi, ha acquistato uno spessore ed una assolutezza di raro pregio. Esemplarmente cri. tica è la conclusione, quando un momento visionario viene ad in dicare una lacerazione dell’essere, uno scatto tragico dell’ambiguità di fondo, il gesto ultimo di una flebile nostalgia di un paradiso voluto perdere. Il personaggio non può essere salvato, ma può essere lasciato al suo mistero. E tanto più valida è l’interpre tazione, perché il testo non l’age Lorenza Guerrieri e Regina Bianchi in « Roulette » di Ko hout. R o u le t t e di Pdvel Kohout. Traduzione di Giorgio Pressburger. Regìa di Ro berto Guicciardini. Scene e costu mi di Lorenzo Ghiglia. Musiche di Benedetto Ghiglia. Interpreti: Lo renza Guerrieri, Paolo Graziosi, Giorgio Vailetta, Mimmo Lo Vec chio, Regina Bianchi, Daniele Grig- gio, Clara Gatto, Anna Carni. Trie ste, Politeama Rossetti, 25 febbraio 1977. La provveduta ricognizione nelle drammaturgie mitteleuropee da parte dello Stabile triestino con tinua, e i 'temi si radunano in una significativa affinità: l’intellettua le, il potere, gli altri. L’anno scorso «L’Opera dello straccione » di ,Va- clav Havel; quest’anno, '«L’ideali sta » di Ivan Cankar mieli’adatta mento di Fulvio Tomizza, e adesso « Roulette » di Pavel Kohout. Die tro le opere, gli autori, a loro vol ta avvicinati da una propensione all’autobiografismo problematica mente filtrato, e magari da vicen de analoghe. 'Prendiamo i due ce coslovacchi Havel e Kohout: il pri mo ha il vuoto intorno a sé, e dal 1969 non gli rappresentano più nulla, in patria. La firma alla Char. ta ’77 è stata apposta da entrambi. E Kohout, come Havel, lo scorso anno, non è presente a questa edi zione italiana del suo ultimo lavo ro; per un drammaturgo, non ve dersi rappresentato è come lavo rare al buio, senza il fecondo rap porto col palcoscenico e col pub blico. « Roulette » sembra recare, tra le pieghe, il senso di un inter rogarsi in solitudine, di una diffi coltà di ordinare idee e vita quan do si 'è psicologicamente avviliti e storicamente emarginati. Vi si av verte quasi ima rinuncia ad inol trarsi verso soluzioni; la vicenda è troncata di qua dalla formulazio ne di una speranza di sintesi, da un accenno di rispetta positiva; l’eroe negativo è insieme vittima e colpevole della mancata autoreal- lizzazione, e sembra rivolgere allo spettatore la domanda: «'Che fa re? ». In «Roulette», Kohout ■— cui si ascrive un nutrito numero di co pioni e che si è esercitato anche come regista e come autore di film — elabora una novella di Andrejev, e pone in essere un conflitto poli tico ed esistenziale insieme. La f avola è quella di Alexei, un anarchico, che, alla vigilia di com piere un attentato, e per sfuggire alla polizia, si reca in una casa di piacere, e qui conosce Ljuba. Alexei è un puro e un fanatico, credo che la ragione basti a realizzare l’ar monia del mondo, vive di assolu tezze e si sente' un eletto. Il suo odio per il tiranno .non è compen sato dall’amore per il prossimo. Anzi, egli nemmeno vede gli altri, tutto preso dal gesto che lo subli merà come individuo. Non li fre quenta e non li sa. Andrà in crisi, quando Ljuba gli opporrà l’altra faccia della terra, cioè la realtà piagata e miseranda, ma viva, del la creatura, la sua sofferenza con creta, la sua caduta. La salvezza di Alevei sarebbe la sua -«assun zione in terra», l’evangelico farsi sale, l’assumere con amore l’uomo com’è. Un impegno ohe va oltre quello di sporcarsi le mani, aristo cratica degnazione che trattiene nella sfera meramente politica; qui si tratta di caricarsi dei peccati degli altri, di tutti i limiti umani. I tentativi di Alexei per accostar si alla verità non riescono; anzi egli resta spaventato del reale, egli si scopre fatto più di inibizioni che di convincimenti, e viene tra volto dal male; disarmato della propria astratta moralità, Alexei non può opporsi al fiato vischioso e ai torbidi inviti del mondo che non si attrezzò a fronteggiare. Su bentra una caduta di volontà, una voluttà d’annientamento, scandita in un’ora d’orgia. L’ultima spinta, dopo la messa in crisi, gli è ve nuta dal rifiuto di Ljuba di conce dersi. Ed eccolo sancire, con un rito disperato, la propria sconfitta prima che i poliziotti arrivino ad arrestarlo. Potrebbe fuggire, ma egli è -ormai un assente, un corpo inerte, e Ljuba, impadronitasi della K o h o u t : « R i v i v o a o g n i m i a p r i m a » Pavel Kóhout, invitato dallo Stabile del Friuli-Venezia Giulia a pre senziare a Trieste alla prima del proprio lavoro Roulette, così ha dichiarato, commentando il divieto delle autorità cecoslovacche a lasciare il proprio paese: « quando mi rendo conto che la Cecoslo vacchia mi ha vietato ogni tipo di lavoro, mi ha tolto il telefono, la patente, il libretto di lavoro, la carta di identità e proprio in questi giorni mi ha ritirato l’assicurazione sociale e la casa, ho la sensazione di essere già morto. Ma quando mi rendo conto che do mani, come tra una settimana o tra un mese, avrà luogo la prima di un mio spettacolo, so di vivere ». Kohout è tra i firmatari di « Charta 77 ». Il suo lavoro teatrale è tratto dal racconto Oscurità, dello scrittore russo Leonid Andreiev, datato 1907. La traduzione di Roulette è di Giorgio Pressburger; la regia dello spettacolo di Ro berto Guicciardini. sua rivoltella, con quella lo uccide. Un gesto non esente da melodram- maticità, che lo salva dal ludibrio dell’impiccagione, e che ■— ma un po’ al limite — segnala il percorso della giovane prostituta lungo una strada di consapevolezza e di lenta riaoquisizione della dignità confe rita ad ogni essere umano. Il dramma è a tinte forti e assai animato; l’ambiente stesso si pre stava e l’esperto commediografo di Praga ora quarantanovenne — non si tira indietro nell’altemare gli aspri dialoghi tra Alexei e Ljuba a scene di colore o di grande ef fetto, come quella in cui Alexei, fattosi credere diplomatico inglese, e uno degli ufficiali frequentatori della « maison », si sfidano alla «roulette», quella Tussa, cioè la sfida alla morte esercitata portan dosi alla tempia una pistola a tam buro, con una pallottola forse in canna e forse no. Tutto il primo tempo ha una vita intensa, e ri sponde bene a un’idea di teatro po polare; il secondo, che conduce Alexei dalla frustrazione alla di scesa negli inferi dello smarrimen to della coscienza e della perdita d’ogni identità, è più faticoso e ostentativo, benché il dramma ar tigli la coscienza di Alexei; vi è qualche nebulosità dialettica e una raffigurazione intrisa d’allusività subentra ad una conflittualità ra zionalizzata. Non tutti i passaggi dello scontro tra Alexei e la don- na sono chiari, tuttavia l’arco pro blematico ha pietre sufficienti per reggere, anche se viene saltata 1’ occasione di un dialogo condensa tore tra Alexei e il commissario, la cui figura attiene più al pitto resco, che al minaccioso. « Roulette », dietro il suo disin volto disegno e il suo effettismo d’intreccio, esprime dunque una problematica variamente decodifi cabile; quella politica, del rivoluzio nario assoluto e della sua funzione e della sua efficacia in una società di cui non assume i problemi e sulla quale tende ad imporre sé e il proprio gesto; quella, etica, dell’idealista, deU’intellettuale, che cerca di forzare una situazione e di cambiare il mondo, ma dal l’esterno, a sua insaputa e quindi senza la sua partecipazione. Sono domande che, evidentemente, in una certa area socio-politica hanno un’incidenza e recano implicazioni di ben maggiore risonanza, che non nella nostra; e direi, anche, domande abbastanza vecchiotte, quasi non sincronizzate coi tempi, quasi segnaletiche di un « impas se», di un fuorigioco. Il sapore migliore è forse dato dal velo d’ironia che accompagna la figura, sostanzialmente patetica, del protagonista maschile, e che Roberto Guicciardini, allestendo il copione per il teatro stabile trie stino, ha accentrato sino alle soglie dell’esagerazione. Il suo Alexei — personaggio fervido, ma un poco sommario e « raccontato » è, infat ti, un Tetore enfatico, quasi un manichino rigido, un’ipotesi di sta tua alla ricerca della posa più elo quente. E Paolo Graziosi con ener gico, duro, limpido segno scolpisce il rivoluzionario che insegue l’arte per l’arte; e le sue lente appoggia ture sono calcolatamente critiche. Franche virtù espressive, un volto intenso e mobile mostra Lorenza Guerrieri (Liuba), e Mimmo Lo Vecchio, Giorgio Valletta, Daniele Griggio e Regina Bianchi sono i colleghi onorevolmente più in vi sta, in uno spettacolo che si svol ge in un nitore di tableuax, in un clima di conflitti scanditi e lucidi, dentro la stupenda scena floreale di Lorenzo Ghiglia. Anche le mu siere di Benedetto Ghiglia sosten gono bene il tono di raffinatezza e di emblematicità scelto dal regi sta per quest'opera, di cui tutta via vien fatto di pensare possibile una versione tutt’affatto diversa, cioè grottesca, cioè più amara, me no « distanziatrioe », più rivelatri ce di fragilità. Che è poi un pro blema che si riferisce anche alla traduzione, dovuta qui a Giorgio Pressburger, e giudicare la quale — di là dal suo ineccepibile tessu to stilistico — occorrerebbe una collocazione, con esperti al seguito. O. B. Carola Stagnaro e Giancarlo Zanetti in « La fantesca » di Della Porta. L a f a n t e s c a di Giovan Battista Della Porta. Adattamento e regia di Alessandro Ferseu. Scene di Emanuele Luzzati. Costumi di Santuzza Cali. Inter preti: Gualtiero Zanetti, Olga Ghe- rardi, Virgilio Zernitz, Franco Gia cobino, Torivio Travaglini, Antonia Carbonetti, Carola Stagnaro. Tea tro Stabile di Bolzano. Il Cinquecento teatrale appare, nell’area meridionale, sguarnito di autori. Là, dove era fiorita la far sa cavaiola e stava per nascere la maschera di Pulcinella, l’elenco dei commediografi fa appena due pas si: Giovan Battista Della Porta e Giordano Bruno. La qualità 'com pensa l’esiguità numerica. E il Del la Porta (a differenza dell’autore del solitario «Candelaio») fu ben prolifico, posto che sono dette sue ventinove commedie, tre tragedie ed una tragicommedia. Di tutte, ri mangono quattordici commedie, ma solo otto di esse ripubblicate in questo secolo (da V. Spampana to, nel 1910) e solo un paio facil mente attingibili, perché apparse nelle recenti antologie del Borlen- ghi e del Borsellino. Questa attività creativa, condot ta dal Della Porta (nato a Napoli nel 1535) sino alla vigilia della morte, avvenuta nel 1615, è tutta via solo un aspetto di una perso nalità dai molti interessi. E se il suo teatro ebbe traduttori e imi tatori in varie nazioni, non man candovi l’attenzione del Goldoni giovane, una fama europea egli s’era conquistata appena venti treenne con un volume intitolato « Magiae naturalis ». Ecco il primo tratto di uno scienziato, quale si poteva andar configurando in quel secolo, con le tare ereditarie del l’alchimia e dell’astrologia, ma an che di un uomo nuovo, curioso del la natura. Gli si attribuisce l’in venzione della camera oscura; fu in contesa col Galilei circa quella del telescopio (che, comunque, era olandese): e sono appena due pa ragrafi di un’attività scientifica as sai varia, che vale al Della Porta — gran viaggiatore e dunque spi rito aperto e aggiornato — un po sto nella storia della chimica e della fisica. Lo scienziato Della Porta non era tutto rigore e metodo. Indagava la natura, ma con una propensione per l’occulto palesata già in quel primo volume, onde ebbe noie giu diziarie, ancorché escludesse dal mondo della magia il demonico. Il meraviglioso lo attraeva, e fu, forse, per questa vivacità di fan tasia, che egli trasmigrò in un di verso campo, dove pur giocano cau se ed effetti, ma si dà anche l’im- previsto, il caso; dove ci si inoltra nei meandri dell'umana psicologia, e dove si spalanca l’estro creativo: il teatro. Non ci entrò da dilettan te, posto che scrisse un « De arte componendi comoedias » e conside rando che, nell’arco della sua pro duzione, la sudditanza al maestro di tutti, Plauto, si attenua via via, per accogliere spunti dalla novelli stica e dalla drammaturgia con temporanea e, infine, per dar vita a drammi di forte contrasto e di intenti morali. Il teatro di Della Porta appare percorso da molte vene: annovera ancora il piacere di lingue (come lo spagnolo e il turco) e dialetti diversi, reca un gusto per il ro manzesco e per la passione, do mina razionalmente l’intreccio più complicato, oltre che disporsi ad una vocazione mimica, ossia di fa vorire l’intervento e il gioco del l’attore. Sicché il Della Porta, vol gendosi al nuovo secolo con una eredità che non lo ha appesantito, può consegnare figure (come quel la del Capitano, presso di lui mil lantatore e spagnolesco) e schemi comici di cui farà subito tesoro la Commedia dell’Arte, trasforman do in scenari alcune sue comme die: uno scambio con la sua opera normatrice. Maestro dell’intrigo e scrittore colorito (il suo dettato tende a farsi, nei punti salienti, di una fa stosa estrosità, presaga e pronuba di altrui secentesche ridondanze, ma qui sottilmente intinta d’iro nia e anche sostenuta da una foga, che si potrebbe definire par tenopea), il Della Porta recupera spesso un senso del reale, e se ne lascia felicemente condizionare per una scrittura arguta e svelta; lo stampo erudito (le farse cavaio- le non hanno lasciato traccia nel la sua opera) conosce l’immissione di un interesse umano coordinato ad un interesse per il fatto tea trale come espressione bastevole a sé, a una disponibilità, che fa persino di questo teatro una ricer ca, e un fatto « aperto ». Con la tradizione letteraria e col teatro passato e presente, l’opera del Del la Porta fu insieme ricettiva e reattiva, fece da ricapitolazione e da nesso. E « una delle più gioconde e sca pigliate » (Sanesi) commedie sue è «La fantesca», di datazione non precisabile, come tutte le conso relle. In essa l’« epigono entusia sta » (Bersellino), da un lato ci delizia con un procedere di sor presa in sorpresa attraverso equi voci, arrivi improvvisi, raddoppi e agnizioni fasulle, ma dall’altro, •e soprattutto, gode a rifinire per sonaggi eccentrici, di rilievo auto nomo, come quello del pedante Narticoforo, del parassita Morfeo, dei due Capitani, entrambi spa gnoli, identificati da un linguag gio che « asseconda questa levita zione grottesca dei caratteri ». I servi ci sono e si danno utilmente da fare, ma la loro evidenza è minore, ossia equilibrata, in un con certo di tipi diversi, di personaggi obbedienti alla commedia che s’ha da fare, leggera e corposa, ilare e avveduta. Per « La fantesca », bisogna poi lasciar la parola all’Apollonio, che sul Della Porta ha scritto le pa gine più sensibili e acute, non su perate: «Bellissima farsa, mirabil mente varia e pur serrata in strut tura fermissima; fantasiosa e ar dita, ma esatta come un bel con gegno... ». E ne coglieva il tono, giudicando che in essa « il riso è lirica disposizione d’animo, energia nativa, intima vita della fantasia », in una circolazione di motivi. Ed eccoci all’edizione curata da Alessandro Fersen per lo Stabile di Bolzano. Fersen ha anzitutto lavo rato di scure, e son cadute alcune teste e sono sparite intere scene. Così scorciato, il testo resiste nel la prima parte, mentre nella se conda precipita, tralasciando per fino di chiarire tutti i rapporti. Lo spettacolo dura due ore, senza intervallo. L’avremmo preferito più generoso e diviso in due tempi, con recupero di brani anche in luogo del tempo sciupato (e con inopportuna scivolata ideologica) nelle appiccicate scenette degli straccioni. Ciò premesso, ricono sciamo un impianto fluido e vivo, e la giusta sottolineatura del fat to -teatrale come tale, e la ric chezza di garbatissimi segni co mici. L’erotismo di taluni quadri non provoca eccessi (anche se c’è un nudo di troppo), e la favola è sviluppata con equilibrata incisivi tà. Buona la compagnia, vigile ed efficace in ogni momento. Gual tiero Zanetti giostra sottilmente il suo doppio personaggio di Fio- retta-Essandro; Olga Gherardi è una Santina davvero eccellente, e diremmo che ha conquistato un ruolo per il futuro; Alvise Battain dà accorto sapore a Gerardo e Franco Giacobino ci diletta con un Narticoforo che balanzoneggia, mentre Torivio Travaglini si sca tena in una brillante autodefor mazione; Virgilio Zernitz è un Pa- nurgo di limpidi tratti, e offrono puntuali lepidezze Antonia Carbo- netti, Carola Stagnaro, Massimo Milazzo, Claudio Spadaro e Renato Montanari. La scena di Luzzati è un felicissimo montaggio di piani e di sagome lignee, supporto e cornice ai costumi di bel taglio e di bel colore. O. B. V e s t i r e g l i i g n u d i di Luigi Pirandello. Regia di Mas simo Castri. Scene e costumi di Maurizio Baiò. Interpreti: Anna Maria Lisi, Salvatore Landolina, Aldo Engheben, Ruggero Dondi, Er mes Scaramelli e Delia Bartolucct. Compagnia della Loggetta di Bre scia. Rischiosa, ma concettualmente ineccepibile è l’operazione condotta da Massimo Castri su « Vestire gli ignudi ». Lo spettacolo della Log getta di Brescia si contrappone ad un tipo di rappresentazione che coltivi la formula e consuoni con la cadenza pirandelliana. In alDe parole, si deve trepidare per Er silia Drei e predisporci alla com mozione quand’ella, ingoiata per la seconda volta — e definitiva — il veleno, dirà la famosa, lunga bat tuta finale, con l’immagine della « vestina decente » che la creatura non si riesce a dare? Pateticamen te bella in sé, l’immagine è pe raltro sotto tono, evasiva rispetto al fatto che si sta consumando: un suicidio, davanti a tutti. Cerca, si direbbe, una pietà ovattata, an ziché l’orrore; uno sgomento del cuore per una vicenda di sogni fal liti, di vita inattinta, anziché una lettura approfondita e generale deH’emblematicità, delle posizioni di questi sei personaggi, schierati cinque contro uno. L’irrinunciabile tenerezza verso i personaggi sofferenti, i battuti — portatori involontari del mistero del male — sembra quasi giocare Pirandello contro Pirandello, cioè indurlo a non compiere il passo verso l’estrema verità, pur avendo posto le premesse, magari anch’es- se attutite, però reali, per una sentenza finale. « Vestire gli ignudi », infatti, ha per essenza una serie di scontri intesi a rimuovere la menzogna; notò Roberto Alongé, che l’opera, rispetto al titolo, « va in direzione opposta: a svestire coloro che cer cano di nascondere le proprie ver gogne ». Si può aggiungere che la finzione di Ersilia, appena scam pata al primo tentativo di suicidio (motivato con una delusione amo rosa), si riscatta alla luce dell’in tenzione espressa nel finale — e cioè l’umanissimo desiderio di « fa re una bella figura », rispetto alle diverse menzogne, che via via tra spaiono: in Ludovico Nota, lo scrit tore, dalla compassione eticamente dubbia e interessata; in Franco Laspiga, incostante l’innamorato (non per caso è un marinaio), che crede di agire secondo una nuova coscienza, mentre in effetti appli ca un codice sociale; nel console Grotti, prigioniero della propria sensualità; nel giornalista Canta- valle, tutto preso da una curiosità malsana e dalla propria vanità. In effetti, un fuoco di erotismo, anche in forme torbide, circola per il dramma. Che, svolgendosi nel chiuso d’una stanza, ha un anta gonista a tratti violento: la stra da, da cui irrompe la vita; una strada minacciosa e fangosa, dove si muore, si traffica, si cantano canzoni oscene. S’insinua, con es sa, una specie di polemica con l’ambiente perbene, con l’interno borghese. Essa ne è la smentita, e da essa ci viene il suggerimento a pren- Delia Bartolucci, Ruggero Dorrdi, Salvatore Laudolina, Ermes Scaramelii in «Vestire gli ignudi» di Pirandello. dere le distanze da questi bei di scorsi: la realtà è in ciò che accade sulla strada, e anche Ersilia Drei ne fece oscura esperienza. Inoltre, c’ è nell’ opera il tema della laidezza, che giunge all’ulti ma pagina con precisa indicazione terminologica, allo stesso modo che il monologo Conclusivo di Ersilia contiene, di sfuggita (troppo tar di, dal punto di vista di una strut tura drammaturgica), ma chiaro, un’indicazione della cattiveria di un prossimo, che ha le sembianze di cane aggressivo, subito seguita dalla confessione d’essere stata im brattata « da tutte le miserie più basse e più vili ». E’ uno scandaglio nell’animo e nell’agire umano più approfondito e meno reticente che nei « Sei per sonaggi », commedia appena pre figliastra cedente; questa Ersilia del mondo svela ciò che attorno alla Figliastra (figura frutto di un’autocensura) era coperto. Terzo tema è quello della casa dello scrittore come luogo di in cubi, dai quali si vorrebbe fuggire; un incubo generato, dice lo stesso scrittore, «da tutte queste cose lerce qua », con frase piena di schifo e di basso stile. Il regista Castri si è impadro nito di questi punti di diferimento nell’impostare una rappresentazio ne che maieuticamente li fa emer gere e in discorso compiuto. Ma « Vestire gli ignudi » è anche, scrive Franca Angelini, li organizza la «più drastica analisi e il più drastico rifiuto di una società nel la quale non riescono a salvarsi nemmeno le vittime, coinvolte, in sieme agli oppressori, nella stessa complicità di ipocrisia e di falsi tà ». Il che è abbastanza vero, non senza però dover ricordare che in Pirandello il pessimismo è di mar ca filosofica, e non sociologica. Sta di fatto, che una contesa tra la sfera pubblica e quella privata c’è, e che non casualmente quello che ha tutti gli ingredienti di un fu- mettone naturalistico (figurarsi: l’istitutrice sorpresa dalla padrona in intimo cohoquio col padrone, e la fanciulla malamente a lei affidata 'che cade dal balcone, ec cetera), diventa un’opera volta al- l’indietro e scritta privilegiando T ottica della serva. Il Castri, dunque, ha operato to gliendo al dramma, non che ogni connotato naturalistico, ogni abito. Lo ha denudato, per mettere in luce l’inespresso. Una nudità che vuol essere salutare, perché è la verità dei comportamenti. Tolta la maschera, i personaggi non posso no non apparire grotteschi, laidi, guitti epigoni borghesi; recitano parti assegnate, lasciandosi a poco a poco travolgere dai propri difetti segreti. Disvelamento e verifica dei singoli caratteri, ecco il lavoro re gistico sulle figure pirandelliane, costrette ora a essere e a fare, non più a raccontarsi e a giustifi carsi e a imbellettarsi (il suggeri mento è poi sempre pirandelliano, specie a proposito dei personaggi di Laspiga e del Console). Abbiamo così un teatro ideologico sposato a quello della crudeltà. Se trovo questo intervento non banalmente dissacratore, ma moti vato e coerente, pur nella evidente alterazione della forma dell’opera, aggiungo che la ricerca espressiva vi si pone in un rapporto d’emi nente lucidità e corrispondenza. E la cifra è quella di una metafi sicità stilistica, che si realizza a cominciare dalla scena: ideata da Maurizio Baiò, essa ha prospettive iperrealiste e spalanca la finestra su un mondo che è di apparizioni, che assedia la casa, come potrebbe accadere in Ionesco. Questa finestra (un leit-motiv del testo pirandelliano) è, in verità, mutata in una porta a vetri, dalla quale non entra solo il soffio della vita che scorre di sotto, ma i per sonaggi assedianti si affacciano, in un succedersi di apparizioni. E ì pertugi aperti nelle candide pa reti sollecitano ad un ulteriore gio co ossessivo di entrate e di uscite dei personaggi stessi, fatti così fan tasmi di una ossessionante corrida. Dentro la stanza, un armadio vomita libracci, giornali vecchi, bambole, ossia la cattiva coscienza dello scrittore. E, invenzione asso luta, sulla parete di fondo si spa lanca, di quando in quando, uno sportello, e vi si vedono i perso naggi (meno Ersilia, si capisce) al- ternarsi al pianoforte per un’esecu zione salottiera di Chopin. L’atmo sfera che complessivamente ne de riva è kafkiana, mentre progres sivamente si instaura un processo e un giuoco di massacro, onde i personaggi s’impregnano della pro pria menzogna e si devastano in toni e gesti isterici. La loro ele ganza affettata e funerea distingue la classe e favorisce il loro fascino e la loro prepotenza su Ersilia. Il Castri ha ordinato molte livide pre ziosità tonali e gestuali, ha colti vato insistenze e iterazioni (e nel secondo tempo, una scena risulta assai scabrosa, benché voglia ben essere allusiva di altra e maggio re violenza), ha vivisezionato le di verse psicologie, sino a mutarle di segno. Il suo intervento si è eser citato ancora nel variare articola zioni interne di quadri e di bat tute, ma è soprattutto impressio nante ciò che ha cavato fuori — facendo protagonista esso e non le parole — di « laido » dalle sin gole figure, verificandole in una nuova, ardita sceneggiatura, che identifico come un girotondo tri bale, centripeto rispetto alle vit time. Il finale, con i personaggi ma schili che dimenticano via via la il morta Ersilia, per ricomporre proprio perbenismo e per tornare alla propria maschera, è di splen dida crudeltà e d’ottimo stile. Lo spettacolo si chiude con questa danza macabra d’alta emblemati- cità. Appropriatissimi esecutori di una spietata partitura sono Anna Ma ria Lisi (Ersilia), Salvatore Lando- lina (Laspiga), Aldo Engheben (il Console), Ruggero Dondi (Nota), Ermes Scaramelli (il giornalista) e Delia Bartolucci (Onoria). O. B. I l b a g n o di Vladimir Maiakovskii, adatta mento di M. Missiroli e V. Ser- monti. Regia di Mario Missiroli. Scene e costumi di Giancarlo Bi- gnardi. Musiche di Benedetto Ghiglia. Coreografie di Sara Ac- quarone. Interpreti: Gigi Angelillo, Renato Cecchetta, Wilma Deuse- bioy Oliviero Corbetta, Alessandro Esposito, Nadia Ferrerò, Valeriano Gialli, Enrico Di Marco, Giorgio Giuliano, Giorgio Lama, Laura Panti, Beppe Tosco e Aldo Turco. Teatro Stabile di Torino. Il regista Mario Missiroli (crea tura anfìbia, che agisce contempo raneamente dentro e fuori il tea tro a gestione pubblica ; « pubbli ca » : si fa per dire, ormai gli Stabili maggiori sono monarchie, magari per il... « tempo libero » dei reggenti, e Pantalone paga), il sun nominato, dunque, vive da anni sull’onda portante di un’idea, che è un’ idea, alla fin fine, di anti - teatro. Il sistema filosofico del Missiroli è di marca nichilista : non esisto no valori, tutto va distrutto. L’ap plicazione al teatro comporta uno smantellamento di rapporti e una evidenziazione di « maschere », che in realtà è una negazione della possibilità di essere uomo. La pri ma deificazione di una menzogna esistenziale fu applicata, con intel- ligenza provocatoria, in un’edizione della goldoniana «La ’ocandiera», dove andava disperso ogni residuo di grazia e di sentimento. La ri cetta è stata quindi applicata, a dosi sempre più massicce e con un emergente apriorismo, a parec chi altri testi, qualche volta stra volgendoli (Shakespeare) tal altra menomandoli (Sternheim, nella prima parte della Trilogia dell’eroe borghese). In un patologico pro cesso di regressione interpretativa e di aggiramento dell’oggetto, an ziché di una lettura critica dall’in terno, che però considerasse come data la qualità di « opera d’arte », il Missiroli è arrivato a Majakov- skij, e lo ha sconciato. Il poeta russo fu una «natura naturans », una creatività continua. Fu la parola e il gesto, fu lo spi rito della propria carne; fu l’idea e la sua rappresentazione; si fece continuamente per gli altri, sempre più consapevole di sé; commedian te e martire, ben altrimenti che Genet. Questa saldissima figura di poeta della rivoluzione ma non del regime, morì suicida per un accu mulo di delusioni. In quel 1930, l’aria s’era fatta grigia per gli uo mini liberi, e rassettarsi del nuovo Stato sovietico comportava ingra titudine per chi aveva tanto gene rosamente lavorato negli anni del sogno e della lotta. In realtà, era la società che, con mille alibi, si andava differenziando dagli ideali, e la fede diventava la colpa di Majakovsij e dei molti artisti che, come lui, pagarono ad altissimo prezzo il « no » al compromesso e all’arte pubblicitaria ed encomia stica. Bene, il suicidio di Majakovskij accadde un mese dopo la prima rappresentazione di « Il bagno », al Teatro Mejerchol’d, durante il quale il poeta era stato vilipeso da molti malevoli; egli s: sentiva giorno per giorno sospinto ai mar gini, vulnerabile, superstite inascol tato. Era diventato un essere in gombrante, e non solo per la sua corporatura. « Il bagno», dunque, ’avacro ur gente e indispensabile per la emer gente casta dei burocrati. Comme dia satirica di violenza rara. In essa, il tema del futuro, come nel la « Cimice », torna in termini uto pistici, ma per ristabilire un’ottica critica, e realizzare un fatto di giu stizia che, con gli uomini del pre sente non sarebbe possibile. E’ un discorso tutto contemporaneo, che filtra una realtà in termini d’estro assoluto, fuor d’ogni realistica ras somiglianza, ma andando al cuore delle situazioni e degli atteggia menti. Palcoscenico come tribuna, ma con la piena coscienza del... resto, cioè di quel che si chiama fantasia, e forma, a giustificare una rappresentazione. Sicché, uno spietato giudizio, politico ed etico insieme, su una casta dominante che serviva male lo-Stato (carican dosi destramente dei migliori vizi « borghesi »), e si rivelava affetta da egoismo progressivo, si articola in un « dramma in sei atti con cir co e fuochi d’artificio », nel quale compaiono un inventore della mac china per comprimere il tempo, il compagno Pobiedonosikov e altri della sua risma, leccapiedi vari, af faristi occidentali, una Donna Fo sforescente, e anche brava gente comune, compensata da quest’ulti- ma, « deus-ex-ma china » di nuova e severa specie, con la rude espul sione dal veicolo spazio-temporale della banda degli approfittatori, dei dirigenti di partito e delle loro code. Questo strepitoso e acuto diverti mento, peraltro inserito nella sto ria coerentissima di Majakovskij, viene ora sottoposta a un « ba gno » particolare dal Missiroli, il quale deduce ancora una volta, da quell’idea del teatro (e della vita) assolutamente irrispettosa, che s’è detto, la formula della degradazio ne. Se conta non ciò che ci si sfor za di essere, ma ciò che si nascon de, allora le rughe sono il volto e Giorgio Lanza, Oliviero Gambetta, Enrico Di Marco, Renato Cecchetto, Wilma Deusebio ine « Il bagno » di Majakowski. rietà secondario, fa il Compagno protagonista eccedendo lazzi esteriori e facendo, ahinoi, il verso a Cesare Gelli, attore missiroliano esperto in rutti e boccacce. Ales sandro Esposito saprebbe il fatto suo, e almeno Gigi Angelillo è un Regista di ricca ambiguità e in quietudine. Laura Panti dovrebbe essere la Donna Fosforescente ; tol to l’incantesimo, dopo una fumata appare una funzionarla integerri ma, vestita piuttosto alla cinese (deviazionismo?), che parla come una paziente intellettuale devoluta si al Partito. Oliviero Corbetta è la Mesalliansova : la parte, cioè, è un travestimento, a maggior gau dio. Giorgio Lanza, l'Usciere, svol ge con bravura sorniona ;1 suo ruo lo, ed è, con l’Angelillo, imo dei pochi punti positivi, stilisticamente validi, dello spettacolo. Circa l’adattamento, c’è ancora da dire che, oltre la distruzione del tessuto linguistico, c’è anche quella delle la pur tenue « consecutio » della tra ma qui è quasi perduta, offrendosi così una serie di casi più strani di quel che siano, mentre la burlesca sarabanda spunta le armi al -sarca smo, ignora la temperie lirica non meno che pedagogica, e così lo spettacolo sembra proprio dar ra gione a Pobiedonosikov, quando afferma che l’arte non deve « tur bare ». La « decomposizione » qui è fine a se stessa. O. B. il dissenso di oggi non riguardano Missiroli? Eppure, è evidente che un filo li lega. Tenervi conto avreb be permesso di fare uno spettacolo serio, senza « consolarsi » con la superata polemica antiburocratica. .Ma la manomissione più grave, e irrimediabilmente becera, è quel la compiuta, da lui e da Vittorio Sermonti, sul testo, stravolto nel dettato originario e infarcito di battute, spesso triviali, da passerel la di avanspettacolo ; e taluni per sonaggi perdono credibilità e au tenticità (al protagonista, il temi bile burocrate, nipote del Potere, è messo in bocca un gioco di pa role « interventi... o... intertrenta », che era già meschino quando, ma non a cura di un Teatro pubblico, lo si diceva a proposito del Qua- driumviro De Vecchi e di non so quali monsoni), cioè si scaricano di ogni funzione. Tale voluta ope razione non è un ricambio a Maja kovskij : offre il peggio del ripo stiglio teatrale, e il nulla contenu tistico. Vediamo così l’inventore e il suo amico, pazzerelli ma simpatici, e oltretutto vittime deH’imbecillità e della prepotenza cancellieresche, diventare due imbecilli, due fasti diosi piazzisti, oltretutto male re citati da Beppe Tosco e Valeriano Gialli, se bene- interpretiamo le corrispondenze in manifesto tra gli attori e i personaggi dai nomi al terati per la infelice occasione. Renato Cecchetto, da attore di va linee strutturali; in il carattere, ied è tutta una senten za di condanna. L’innocenza non esiste. Esistono gli ideali? Il comu nista Missiroli farebbe bene a per suadere che ci crede, uniformando gli atti. In verità, questa regia lo contraddice, perché egli manda al macero la profonda serietà di que; st’opera comica, il suo rigore ideo logico. Il primo procedimento missiro- liano è quello di gonfiare suoni, il secondo è movimenti, gesti ; quello di sporcare. Il suo è un mondo fatiscente, ammucchiato e non disegnato. Il suo bisturi si esercita — accada quel che acca da — su pance eruttanti interiora. Ed ecco in questo « Bagno », com piacersi di trasformare l’accidioso •e servile Usciere nel cuoco mente catto di laide pietanze, con spreco d’uova che insozzano il palcosce nico. La lunga scena è esemplare di un’azione di continuo dirotta mento dell’attenzione del pubblico dai motivi di fondo della comme dia. La quale è ridotta a farsa vol gare; con l’intenzione, s’intende, di mostrare la stupidità di quel mon do. Appunto: soltanto la vuotaggi ne, e non la pericolosità. In sostan za, siamo di fronte alla costruzione di un alibi. Missiroli sembra ave re, lui così distante e al sicuro, la paura che Majakovskij non ebbe. E perciò non tenta né una stori- cizzazione, né una attualizzazione. Cancella il messaggio, e invita i compagni a ridere. I suicidi di ieri, L a f i q l i a t a di Raffaele Viviani. Regia di Vitto rio Viviani. Interpreti principali: Nino Taranto, Dolores Palumbo, Rino Gioielli, Annamaria Acker- mann, Fulvio Pastore, Corrado Ta ranto, Antonio Allocca, Alfredo Gi rard. Musiche di Raffaele. Viviani. di Mario Guidotti A volte capitano nel corso di una stagione gradite sorprese. Si rima ne delusi dalla strombazzata pri ma di uno stabile e poi, quando meno ci se l’aspetta, in un teatro defilato come quello delle Arti a Roma, arriva una compagnia po co famosa, anche se i due attori principali hanno un bel passato, e ci scappa fuori uno spettacolo di tutto rispetto, direi anzi « im portante ». Abbiamo assistito con interesse all’opera di un autore che dovrebbe essere meglio conosciuto e più seriamente messo in scena: alla « Pigliata » di 'Raffaele Vivia ni, diretta dal figlio Vittorio con fedeltà assoluta e interpretata da Nino Taranto in modo ineccepi bile. Il teatro di Viviani raggiun ge, qui, forse una delle sue punte più elevate; ed è un teatro in cui i conti tornano bene. Il regista non ha compiuto ope razioni strane come aveva fatto Patroni Griffi in « Napoli chi re sta e chi parte »; ma ha capito le intenzioni del padre e le ha realiz zate con risultati eccellenti. Nel la ■« ¡Figliata » si ritrovano le ca ratteristiche fondamentali di Vi viani: quel misto di sorriso e pian to, di commedia comica e dram ma passionale, che dà un’impron ta profonda a tutta la produzione del tanto frainteso autore napo letano. Inoltre vi si registrano al tri elementi peculiari del suo tea tro: il sustrato sociale delle sue radici, l’attenzione all’ambiente, la pittura sobria dei personaggi, il ridevo dato al coro, la considera zione dell’etnos in tutte le sue ma nifestazioni serie. « La figliata » è di parto che si sta aspettando nella casa di don Gennaro, un uomo maturo, qua si vecchio, che ha sposato in gran fretta una donna più giovane la quale prematuramente (anzi: do po soli sei mesi) sta per dargli un figlio, che naturalmente non è il suo. Tutti lo sanno e tutti ne parlano (la portiera, le comari, i parenti), mentre attendono l’even to, tranne lui. Il trambusto del l’attesa, l’emozione del poveruo mo, i risvolti comici degli inter venti di un’orchestrina che do vrebbe festeggiare la nascita e at tacca a suonare prima del tempo, più volte, per degli equivoci, riem piono il primo atto, verso la fine del quale compare Don Peppino, il vero padre, accolto festosamen te don Gennaro, suo amico, e in vitato a far da compare al neo nato; compare anche, furente, la moglie di don Peppino. il Nel secondo atto si svolge la festa del battesimo. Anche qui c’è ,l’inserto musicale continuamente interrotto: un tenore che porta jella attacca delle romanze e su bito succede qualche cosa. Si pre senta però che il tono comico sta esaurendosi e che la commedia cederà alla tragedia. Don Peppi no, attesissimo, tarda e quando arriva si delinea il dramma, dram ma che scoppia quando compare la moglie gelosa; per colpa sua e della portiera pettegola, don Gen naro viene a sapere la verità e cioè che non lui, ma don Peppino è il vero padre. La scoperta lo sconvolge: in un impeto d’insospet- tata forza balza al collo del com pare che lo ha ingannato e sta per strozzarlo; ma non ce la fa e improvvisamente, per trauma, perde la vista già debole. La ce cità è la ricompensa della sua buonafede e del suo senile entu siasmo paterno. Non può, non vuole più vedere il mondo. Il teatro di Viviani nasce da una sua precisa concezione filoso fica della vita: la gioia è di breve durata, la sciagura è sospesa su di noi, mossa dalFingiustizia, che è come un fato malefico e che si abbatte sui buoni e sui poveri '(don Gianna Piaz, Luciano Virgilio, Gabriele Ferzetti e Anna Maria Guarnieri in « Vestire gli Peppino è il ricco, don Gennaro è il . povero). ¡Nino Taranto ha intuito l’umanità del personaggio e, l’ha espressa con grande misura e bravura. ¡Ma anche Rino Gioiel li, il rivale, ha recitato su questa scia del sobrio contenimento delle passioni. Tra gli altri ha fatto spicco Dolores Palumbo, la cori fea, nella parte della portiera. Ma ricordiamo anche Annamaria Ackermann, la moglie di Peppino, Fulvio Pastore, Corrado Taranto, Antonio Allocca, Alfredo Girard e gli altri, tutti napoletani e tutti bravi. V e s t i r e g l i i g n u d i di Luigi Pirandello. Regìa di Ma rio Missiroli. Interpreti: Annama ria Guarnieri, Gabriele Ferzetti, Gianna Piaz, Luciano Virgilio, An tonio Bertorelli, Raimondo Penne. Scena di Giancarlo Bignardi. ¡Co stumi di Elena Mannini. Musica di Benedetto Guglia. Alcuni anni fa, senza clamore, il regista Calenda mise in scena « Ve stire gli ignudi » di Pirandello con Adriana Àsti protagonista. Il pub blico si commosse e pare che ci scappasse qualche lagrima. Ora il regista Missiroli ha di nuovo alle stito la stessa commedia con An namaria Guarnieri protagonista e il pubblico ride. Era forse sba gliata la chiave di lettura di Ca lenda, ma secondo noi è sbagliatis sima questa di Missiroli. Ma non ci sorprendiamo: da anni Missiroli « legge » i testi allo stesso modo' e ¡assistendo a « Vestire ¡gli ignudi » al Quirino ci è sembrato di rive dere « La signora Giulia » che non applaudimmo un paio idi anni fa alle Arti sempre con Missiroli re gista e la Guarnieri protagonista: lo stesso tono grottesco e carica turale, ¡gli stessi personaggi schizo frenici ma in modo comico, lo stes so disprezzo per la tesi e le in tenzioni dell’autore. Nel caso di Pirandello si trattava proprio di tesi e di idee, non di come nell’opera di atmosfere Strindberg. Non finiremo mai di scandalizzarci, anche se ci abbia mo fatto l’abitudine, dinanzi a cer ti affronti che in ¡fondo non hanno niente a che vedere con le cosid dette dissacrazioni di Carmelo Be ne e di Trionfo. Qui il testo sembra integrale, cioè rispettato, ma la re citazione è impostata tutta in mo do snaturante; si percepiscono po co anche ;le parole, tanto la Guar- nieri parla veloce e si mangia in tere frasi; si capisce ¡poco anche quello che ¡dice Ferzetti, cui è stato ¡imposto fra l’altro uno strano ac cento meridionale, mezzo napoleta ignudi » di Pirandello. no e ¡mezzo siciliano. E gli altri piroettano e gesticolano e gridano in modo orripilante. ■« Vestire gli ignudi » non sarà un capolavoro, ma ha una sua impor tanza nel discorso pirandelliano in quanto apre una seconda fase del la drammaturgia del grande auto re, caratterizzata dal duplice ten tativo di conferire l’aspetto della verità all’apparenza e di ridare importanza alla vita. Ebbene: pro prio questa intenzione sparisce e il suo ideologo, lo scrittore Ludo vico Nota, praticamente scompare sommerso nel coro degli altri gracchiami personaggi. La commedia come è stato altre volte sottolineato è influenzata dal la psicoanalisi; e infatti la prota gonista è sempre in stato ansioso, impaurita dalla realtà esterna;-ma io stato ansioso non ha niente a che vedere con quello imposto al la Guarnieri. La vicenda è imper niata su Ersilia Drei, governante di un diplomatico e amante del l’ufficiale di marina Laspiga, che, dopo averle promesso di sposarla, rabbandona; diventa poi amante del Console e un giorno che si in trattiene con lui, la bambina affi data alle sue cure cade dalla ter razza ¡e muore. Scacciata, giunge a Roma e trova Laspiga fidanzato con un’altra; alla fine sempre più precipatata in basso, ¡tenta di avvelenarsi; ma al l’ospedale, sicura di morire, rac- Gli interpreti di « Il processo di famiglia » di Diego Fabbri. conta ai giornalisti una patetica storia d’amore infelice come causa del suicidio. Guarisce e sia il Con sole elle Laspiga accorrono, il pri mo per smascherare le menzogne raccontate ai giornali, il secondo, impietosito, per 'riparare al suo torto. Ma la vera storia viene a gal la: invano Ersilia ha cercato di ve stire la sua nudità. Non può ac cettare neanche l’aiuto dello scrit tore Nota il quale cercava di resti tuirle un’esistenza. Quando essa si sente ricondotta alla realtà dalla quale aveva cer cato di evadere, decide di riavve lenarsi di nuovo. Il problema è tutto in questo scambio della finzione con la real tà e in questa condanna a rima nervi. Ersilia si aspettava che lo scrittore immaginasse, romanzasse per lei una nuova realtà invece egli, con gli altri, ha latto di tutto per ricond invela spingendola così definitivamente al suicidio. Tutto questo nella rappresenta zione -che abbiamo visto al Quirino sfugge oppure appare come secon dario. Chi ci rimette è Pirandello. M. G. P r o c e s s o d i f a m i g l i a di Diego Fabbri. Regìa di Edmo Fenoglio. Interpreti: Lilla Brigno- ne, Renzo Giovampietro, Ugo Pa gliai, Paola Gassmann, Giampiero Becherelli, Vanna Busoni, Anto nella Baldini, Giusi Carrara. Scene e costumi di Eugenio Guglielmi- netti. ' • \ Una commedia (o dramma) che viene ripresentata ventiquattro an ni dopo e viene psicologicamente e criticamente accolta come una «prima», come una «novità», co me un'opera scaturita dalla proble matica contemporanea (che è mol to diversa da quella di allora; c’è stata di mezzo, per esempio, la contestazione), che è seguita con il fiato sospeso non solo dal pub blico nuovo, ma anche da quello che già la conosceva, dai critici che la ricordavano (e fra questi il sot toscritto), deve .essere iper forza una commedia valida, non di unà stagione, non di un periodo stori co, una commedia classica, che du ra per i suoi contenuti, ma anche per la sua struttura e la sua poe sia, per quei meriti teatrali ed estetici che la stampa francese le riconobbe nel 1955 e che ¡fecero le polemiche sulla scrivere, fra gli altri, a ¡Gabriel Marcel: « Pirandello qui è stato superato ». Lilla ¡Brignone era in quel prestigioso cast del 1953 ed è in quello di oggi: nemmeno lei è invecchiata, o meglio, anche a lei il testo ha dato quella giovinezza o quel tempo « senza età » che es so denuncia ancora. Nel 1953 non c’erano ¡fa miglia, sui padri, sui figli, sul l’aborto, sull’adozione, sulla crisi della coppia; ma Diego Fabbri, pro fetico come tutti i grandi autori, le presentiva, le anticipava; ecco perché « Processo di famiglia » sembra attuale. Ma c’è, in questo lavoro, qualcosa ¡di più dell’attua lità; ci sono in discussione dei va lori, dei disvalori e dei temi sem pre vivi: l’amore, la maternità, la paternità, la pietà, l’egoismo, la so litudine, la, verità, l’inganno. Per questo il pubblico è preso; ed è avvinto, oltreché dalla tematica, dall’incalzare dialettico che essa produce, dai pregi squisitamente teatrali di un lavoro in cui tutto appare spontaneo e tutto è studia to, con i colpi di scena in continua zione, con la sapiente distribuzio ne degli interventi, con l’abile ca ratterizzazione dei personaggi. C’è un po’ il meccanismo perfetto di certi ¡gialli inglesi, ma non è un fatto tecnico, bensì politico. La tensione è sostanzialmente drammatica; ma non mancano ele menti di ¡riposo che il regista Edmo Fenoglio sfrutta abilmente anche in chiave di alleggerimento, con effetti moderatamente divertenti. E la tensione comincia subito, non appena si alza il sipario, la prota gonista è una bambina di sette an ni, Donatella, ma è una protagoni sta che si vede poco anche se la sua presenza è continua e domi nante. Essa finisce contesa da tre ■coppie, la vediamo all’inizio nella ■casa dei coniugi che l’hanno adot tata, (Lisa ed Eugenio, morbosa mente amata dalla donna, una ma tura signora (la Brignone, appun to) e teneramente adorata dall’uo mo CGiovampietro). Ma per poco tempo assistiamo all’idilliaca vita della famigliola: subito entra un uomo ande, un fattore di campa gna, di nome Libero (il Becherelli), il quale senza tanti preamboli re clama Donatella per la propria moglie, Bice (Vanna Busoni), la vera madre che per paura di non essere sposata da lui aveva tenu to ¡segreta la propria maternità e aveva ceduto la bambina frutto di una precedente relazione. L’opposi zione di Lisa è drastica, quasi fero ce, in contrasto con la semicondi- scendenza del marito. Il colloquio, drammatico, si allarga anche a Bi ce, sopraggiunta, e diventa ben pre sto un processo, 'secondo la linea cara a Fabbri; un processo nel quale vengono fuori bugie ed in ganni e in cui nessuno sembra completamente pulito: non Bice che ingannò Libero e cedette la bambina, non Libero che per egoi smo e per non soffrire non volle indagare, non Lisa che finge di avere diritti giuridici, e nemmeno Eugenio ¡dal blando senso della paternità e daliamore per il quieto vivere. La contesa sembra senza sbocco, in un accavallarsi di rive lazioni e di bugie. Fino a che Lisa non tira fuori la sua ¡arma segreta: va a trovare ¡Rolando (Ugo Pa gliai) il vero padre di Donatella, ■esponente dell’alta borghesia, che abbandonò Bice, operaia, non per ragioni di classe ma perché non voleva diventare padre. Ora Ro lando vive sposato con Vanna (¡Pao la Gassmann) ima vita fatua e vuota. Ed è in casa di Rolando che si svolge il secondo tempo del dramma: altre bugie, ¡altre rivela zioni, altra constatazione delPegoi- smo e della impurità di certi no bili sentimenti e della falsità di certi legami familiari. Il processo si allarga ben presto a tutti i coi>- tendenti: le tre coppie si trovano l’una davanti all’altra, disposte a non cedere. Lo stesso Rolando, dap prima sconcertato ¡dall’annunzio dell’ignorata paternità, intravvede finalmente la possibilità di una scelta libera; e dichiara di voler tener lui sua figlia insieme alla madre vera, Bice, che accetta la proposta; due coppie pertanto do vranno separarsi e la terza rimar rà senza il motivo principale della propria armonia. Il dramma diventa tragedia: nel culmine della contesa, la bambina che era stata portata mezza addor mentata nel cuore della notte, in tuisce di essere soltanto un « ogget to di scambio », di controversie, di ■egoismo e scappa precipitando nel la tromba dell’ascensore. E la mor te di Donatella ¡è la logica conse guenza dell’i« egoismo d’amore » dei genitori veri, adottivi e aspi ranti tali. Sei persone che si az zannavano per salvare se stesse ■dal vuoto, daH’indifferenza e dalla noia di una vita coniugale esau rita, dalla mancanza di prospetti ve autenticamente spirituali, ma gari trascendenti. La crisi della, coppia borghese è la struttura por tante ¡del dramma che, come ho ■detto, implica motivi dell’attuale' conflittualità: la famiglia, la con vivenza, i figli, i rapporti perso nali e sociali, Alla ¡base c’è ¡quella ambiguità che caratterizza i per sonaggi di Fabbri, sempre impli cati in un processo, sempre giudi ci e giudicati, imputati e accusa tori. « Processo di famiglia » ap partiene appunto a un filone pre ciso dell’opera fabhriana che com prende «¡Rancore;», Mlnquisizio- ne », « Processo a ¡Gesù », « Proces so Karamazov». Con Fabbri sia mo sempre in tribunale, il solenne tribunale della vita. La regìa di Fenoglio è stata 'tut ta tesa .a scoprire la modernità del testo e a mettere in evidenza l’al ternanza di tensioni e di pause. Lilla Brignone è stata splendida, ma tutti gli altri, in particolar mo do Renzo Giovampietro, hanno re citato su un alto livello, ¡compresa la piccola Antonella Baldini che era Donatella. Aderenti le scene di Eugenio Guglielminetti, arieg giaci allo stile degli anni ’50. M. G. L e z io n e d i in g le s e di Fabio Mauri. Interpreti: Maria Grazia Antonini, Adriana Zanese, Antonio Fattorini, Tony Garrani, Nicoletta Amadio, Leonardo Trevi- glio, Lucretia Love, Carlo De Mejo, Fabrizio dovine. ¡Scene e costumi: Carla Volpato. Musiche: Shawn Phillips. Regia: Robert Kleyn e Fabio Mauri. Per la verità, una certa curio sità l’aveva destata questa Lezione di inglese di Mauri. Si sapeva che il testo, scritto nel ’70, portava con sé quasi l’ostracismo di una ’’sperimentazione” maledetta. E, in effetti, un qualche aggancio con la generazione degli scrittori ’’ma ledetti” inglesi si può anche ri trovare. Ma il tempo che è pas sato è riuscito, nel frattempo, a datare irrimediabilmente tutte le ipotesi dell’autore. Quello che ne rimane è più il dato intenzionale che una possibile realizzazione. In Lezione di inglese tutto ci appare morto, fin dalla prima scena, com preso lo spessore degli eventi e dei personaggi. Raccontare la tra ma di questa commedia è pres soché impossibile: i fatti non esi stono; rimangono solo le situa zioni. Sono quelle vissute da Mrs. Anne e Mr. Johnson, nel loro gi rovagare continuo per le strade, luoghi oscuri, infernali. Cosa si dicono i due protagonisti? Niente. Il loro parlare è più o meno casuale. Non hanno da rac contarsi nulla: la loro vita — o comunque il loro « modo di es sere » — scorre sul filo della fin zione; e la realtà, di qualsiasi tipo, è misconosciuta. La « lezio ne » è semplicemente un termine di riferimento a carattere pura mente strutturale : serve a « cir coscrivere » una situazione, a or ganizzarla, a riconoscerla, infine. Un gruppo di giovani fanno da « coro », ripetono le varie frasi e, a loro volta, diventano singolar mente il doppio dei protagonisti. Anzi: non sappiamo se si debba parlare di due protagonisti: lui e lei sono molti possibili termini di rapporto umano, dati interscam biabili, riferimenti strumentali. In questa scomposizione costante può emergere soltanto il vuoto, l’oscu rità, la dannazione dell’inesisten- interni IL DRAMMA — 81 Antonio Fattorini e Maria Gra zia Antonini in « Lezione d'in glese » di Mauri. za. I dati concreti, le parole della « lezione », vengono sciolti nel suo no insignificante di un segno: puri fonemi che vanamente cercheran no una loro forma. L’operazione linguistica è scopertamente provo catoria e vuole essere, in primo luogo, dato essenziale della rap presentazione. Mauri parte da un’ ipotesi estremamente stimolante: la parola come segno senza fun zione. La constatazione che, in qualsiasi modo, ogni codice diventi sordo al respiro dell’uomo è senz’ altro un’intuizione di molto inte resse. Ma proprio l’autore distrug ge, senza volerlo, quello che era stato un suo felice e motivato spunto. La destrutturazione dei codici si fa, nella rappresentazio ne, volontaria confusione degli stessi. Se non vale la parola e l’immagine perché rigonfiare fino all'esasperazione proprio quei due termini, come antagonismo di si gnificanti? La proiezione del film muto — o « doppiato », a seconda dei casi — non contribuisce a ren dere più equivoco il « rito » del l’esistenza. Le vicende rappresen tate non solo non si integrano, ma, a loro volta, determinano un inquietante equivoco spettacolare, che ci allontana dal tema, dalla situazione, dalla finzione come ca tegoria necessaria. La fruizione dello spettatore può giustamente intendersi in una serie di « con tingenze » aperte, a patto che Í punti di riferimento non sfugga no ad una plausibile lettura. Il rapporto tra le due finzioni, quel la cinematografica e quella tea trale, finisce per diventare un gio co senza motivazione. E’ un gioco per il gioco. Poteva essere un’idea: ma, allora, andava sviluppata tut ta su questa corda. Perché, in vece, i motivi ci sono, e anche riconoscibili: il senso della morte che sovrasta ogni situazione, l’in cubo dell’essere come necessità al l’essere, il « destino » del vivere come sarcastica beffa. Sono dati che si evidenziano da soli, pro prio perché manca l’elemento di una pura ludicità; elemento che forse poteva salvare tutta l’opera zione di Mauri. In ogni caso, sic come si deve giudicare un risul tato, occorre mettere in rilievo co me il reale, da « modello » ambi guo, diventi esplicitamente conno tazione equivoca. Il lavoro sui co dici finisce per assolvere più ad un certo tipo di esperimento for male, piuttosto che assumere con creta sostanza di rappresentazio ne. Ecco che, alla fine, si respira aria « di vecchio », come se fos simo di fronte a « cose » già fin troppo dette. L’elemento formale diventa formalismo e il dato este tico diventa, suo malgrado, este tismo. Rimane la delusione di un esperimento mancato, forse giunto semplicemente in ritardo, come quelle immagini cinematografiche che, troppo da vicino, ci ricorda vano le « maniere » del « free ci nema » inglese. Gli attori ce l’hanno messa tut ta e, per la verità, ‘ci sono sem brati tutti al loro posto. Discuti bili, troppo esplicitamente « accattivanti », co me certi moduli della stessa non risolta regia. M. G. le musiche invece, R o m e o e G i u l i e t t a « Storia di Shakespeare secondo Carmelo Bene». Collaboratori al testo ed alla tra duzione: Franco Cuomo e Roberto Levici. Regìa scene e costumi di Carmelo Bene. Interpreti principali: ■Carmelo Bene, Luca Bosisio, Bar bara Levici, Lydia Mancinelli, Lui gi Mezzanotte, Edoardo Fiorio, Ma riano Brancaccio, Paolo Baroni, Mauro Bronchi. Musiche originali di Luigi Zito. Colonna sonora di Carmelo Bene. di Angelo Libertini Il velluto si addice a Carmelo Be ne: ci riferiamo naturalmente al tradizionale velluto rosso delle pol trone dei grandi teatri dove Bene Carmelo Bene in « Romeo e Giulietta ». ha trovato finalmente la sua col- locazione naturale dopo gli .anni ormai lontani delle «cantine»: si è stabilita d’altronde una corri spondenza d’amorosi sensi fra Car melo (a parte qualche pittoresca dichiarazione da non prendere trop po sul serio) e il pubblico elegante ohe rimane il principale e più si curo frequentatore di quelle tali poltrone di velluto: in un momen to in cui neppure Strehler fa più notizia, un nuovo spettacolo di Car melo Bene fa ancora, e più che mai, « avvenimento ». Si (finisce co sì per scoprire intelligenza e origi nalità dove invece c’è solo la ripe tizione dei vecchi schemi di sem pre: d’altronde tutti ormai sanno ■ohe Bene non mette in scena Sha kespeare o un qualsiasi altro auto re ma solo se stesso e su questa strada è senz’altro riucito in più di un’occasione ad esprimersi a livelli anche memorabili. Non è pos sibile però ripetere lo stesso gioco aH’infinito senza trovare un’idea nuova o almeno un diverso angolo di visuale. Il fatto è che Carmelo Bene è diventato ormai bravissime nel fabbricare spettacoli come con tenitori di bella presenza, colorati, ricchi di nastri e fiocchi e orna menti d’ogni tipo: non sempre gli riesce però di mettere qualcosa dentro queste eleganti scatole. E’ il caso di questa i« Borneo e Giu lietta, storia di Shakespeare secon do Carmelo ¡Bene » : una « prima » (il romana a livello di avvenimento mondano come capita ormai di ra do neH’ambiente teatrale della ca pitale; in palcoscenico predominio dai colori violenti e di raffinati ¡giochi di luce; e poi naturalmente -— e soprattutto — lo stesso Car melo Bene ormai definitivamente installato nei panni del « divo », con grandi applausi a scena aperta e mazzi di fiori nel finale. E’ man cata soltanto 'Una motivazione tea trale appena convincente: fra brani del testo shakespeariano origina rio, citazioni da sonetti dello stesso Shakespeare e aggiunte di .altra origine oppure composte per l’oc casione tutto immerso nella consueta colonna sonora con recu peri di musica classica e operisti ca), Bene non si è accontentato di vestire i panni di Mercuzio, ma ha prestato la propria voce (in « play back») anche al Romeo imperso nato da Buca Bosisio; e meno ma le, anzi, che almeno Giulietta ab bia parlato per bocca di Barbara Lerici, in .una dimensione di grazia quasi infantile (la giovane inter prete ha appena tredici anni). Si può intendere che Mercuzio è il « deus ex machina » del racconto, lo spirito sottile a arguto della ra gione la cui presenza cerca di im pedire che la vicenda degeneri in tragedia (Bene mantiene Mercuzio in scena ben oltre i tempi previsti da Shakespeare); ma questa allu sione si è dispersa in un groviglio confuso e inconcludente di forza ture, sberleffi, divagazioni sempli cemente inutili oppure pesantemen te volgari. Per chi, come Carmelo Bene, ha recitato tante volte la parte del genio incompreso e « Il gabbiano » di Cecov. Remondì e Caporossi non man cano di bravura mimica; in que sto caso, però, sono mancate loro le idee, e tutto finisce per diven tare uno strano e angusto eserci zio. I termini di una teatralità, più pensata che risolta, denuncia no, insieme alla felicità di alcune indicazioni, una inaspettata stan chezza che — dispiace sottolinear lo — sorprende un po’ in una cop pia che ci aveva abituati a spet tacoli ben più intelligenti e ri solti. D. C. tavia, troviamo solo qua e là nel la loro ultima fatica. Ci pare che il presupposto ideologico, ne « I cot timisti », soverchi la necessità rap presentativa: l’assunto, — ammic cato concretamente da un muro costruito sulla scena e che divide in due il mondo, la realtà e gli uomini — per la sua esplicita di chiarazione, finisce col disperdersi presto nella dissoluzione del «non spettacolo ». Dopo un felicissimo at tacco (in cui un capomastro re clama un martello da un manovale dormiente nell’alto di una impal catura, e le successive gags mimi che), la rappresentazione affossa in uno stallo ingiustificabile, per tre quarti dello spettacolo, mentre viene costruito, mattone su matto ne, un muro in mezzo alla scena. Allora le trovate iniziali diventano un pallido ricordo. E gratuita ci pare l’intrusione, sul palcoscenico, di un branco di anatroccoli. An cora più scontata la separazione dei due operai per il muro innal zato, e il loro ritrovarsi, quando, orinando insieme contro la parete di mattoni, esce fuori l’unica frase dello spettacolo: «non c’è muro di padrone dove non piscia il mu ratore ». Quello che segue acqui sta poco peso rappresentativo: la mimica con le mani, lo spruzzo sullo scialbo, la scala che diventa una specie di strana altalena, fino aH’apparire della palla metallica alla fine. F r a u n a n n o a l l a s t e s s a o r a di Bernard Slade. Versione italiana di Gerardo Guerrieri. Regìa di Ga- rinei e Giovannini. Interpreti: En rico Maria Salerno e Giovanna Ral- li. Scene e costumi di Fiorella Ma riani. Bernard. Slade non è Neil Simon: il modo con cui tratteggia perso naggi e situazioni non possiede lo spesso sufficiente. Mentre il Simon (vedi Plaza Suite, La Strana Coppia e, in particolare, Il prigioniero del la seconda strada) tessitura « leggera » è nient’altro che la gri glia di una più approfondita con- la Enrìco Maria Salerno e Giovanna Ralli in « Fra un a-nno alla stessa ora » di Slaide. dizione, umana e sociale, in Slade la « situazione », come fatto ludico, soverchia tutto il resto. Ne risulta un appiattimento 'generale: dei per sonaggi, degli avvenimenti, dei pro blemi. Fra un anno, alla stessa ora è una commedia mediocre: parte da una trovata divertente, ma sen za che questa abbia uno sviluppo, determini una sua più articolata « necessità ». Si finisce, allora, per rimanere sul piano della w barzellet ta », di un teatro che si affida troppo alla battuta, dimenticando i motivi e le ragioni di un .umori stico «botta e risposta». Fra un anno, alla stessa ora è, purtroppo, un’occasione «perduta» dell’auto re. Infatti nell’idea di fondo erano implicite possibilità d’analisi che non sono mai venute fuori; forse non hanno nemmeno sfiorato la fantasia dell’autore. Ebbene; una coppia vive in assoluto la propria condizione d’amore soltanto per ché è « fuori » da tutto, dalla ve rità e dai problemi della realtà di ogni giorno. E’ la straordinaria condizione degli amanti che, ogni individuo, ha sempre sognato o rimpianto nella .propria esistenza. . In .più .tutta la parabola 'dell’amore, nel caso appunto della commedia di Slade, si sviluppa nell’arco di un lungo e impossibile sogno: lui e lei vivono, una volta l’anno, la totalità dei loro sentimenti al chiu so di un motel, come in una stanza da perpetuo e fantastico esperi mento. In venticinque anni cam biano molte cose: gli individui, la società, la storia. Allora, in quei due personaggi 'da « provetta », si possono meglio individuare proces si di sviluppo (-evolutivo o involu tivo che dir si voglia) deU’uItimo quarto di secolo. -E poi la vita dei singoli che scorre, misconosciuta, sognata, non-vissuta. ecc. Di spunti, una « trovata » come quella di Slade, ne poteva offrire tanti. ¡Ma è proprio l’autore, per primo, che non li ha saputi co gliere e mettere a fuoco. Garinei e Giovannini ■— va detto subito — hanno fatto miracoli per rendere la commedia nel modo più sciolto possibile e, in ultima analisi, han no raggiunto anche una certa cre dibilità deH’insieme, della storia, delle psicologie dei personaggi, del le situazioni comiche. Il loro se greto è nel lavorare al livello di « dimensioni speculari », sapendo, cioè di dover servire il pubblico, offrendo .un prodotto pulito, ben organizzato e rifinito. In questo modo la commedia di Slade viene, come si dice, « salva ta», in qualche modo recuperata. ¡Certo, si tratta di un recupero tut to risolto nella dimensione del buon -gusto e nel gioco -divertito di certi paradossi. In ogni caso « il gioco » funziona e risulta anche piuttosto gradevole. Fra un anno, alla stessa ora si suddivide in sei quadri. Questi si riferiscono ai sei incontri, uno ogni cinque anni, -che vengono mostrati allo spettatore. Nel 1951 vediamo la coppia di adulteri in un motel della California, in un 'giorno di febbraio: scoprono il piacere del l’attrazione fisica, il dolce sapore di un modo d’amare .sognato e for se mai -provato, si scambiano le piccole confidenze della vita di tut ti i giorni. I due decidono di ritro varsi, nello stesso luogo e alla stes sa ora, ogni anno, per passare in sieme un week-end. Così avverrà. Ritroviamo la coppia nel ’56: lei sta cominciando a studiare, lui ha rafforzato la sua -posizione econo mica ed ha avuto il quarto figlio. Nel 1961 lei .è incinta, è ancora povera ma si è -diplomata; lui vive felicemente gli anni floridi del -boom economico: felicemente se non fosse per una paventata im potenza sessuale. ¡In -questo incon tro vediamo lui che riac-quista in pieno le sue forze virili e lei -che partorirà, a sorpresa, un bambino. Nel 1966 lei vive il fervore delle prime contestazioni studentesche in America: frequenta la Berkely University, va alle -grandi manife stazioni della pace, è un’accanita democratica -e, tra l’altro, si veste da squaw, come usano i -giovanis simi. Lui è -rimasto alle vecchie convinzioni e vota per -Goldwater. Nel 1971 lei sta facendo i soldi, lui sta prendendo coscienza del suo vuoto interiore e va dallo psic-olo- go. Lei ha i primi screzi col ma rito: sta per lasciarlo, ma lui ca pisce che non sarebbe giusto e riesce a mettere pace fra lei e l’al tro. Nel 1976 lui e lei si ritrovano anziani: sono passati venticinque anni. Lui ha perduto la moglie, lei deve assistere il marito che ha avuto l’infarto. Lei vivrà di rendi ta, lui insegna contabilità aU’Uni- versità. Li vediamo, nell’ultima scena, promettersi di aiutarsi. Lalla storia di questo adulterio potevano uscire fuori moltissime annotazioni, in particolare poteva prendere più sottile spessore il motivo di una triste e '« quasi ne cessaria » realtà deiramore come fatto quotidiano, contro l’idea di un amore assoluto, ossessionante e impossibile. Allo stesso modo il ^periodo storico poteva emergere di più. Garinei e Giovannini hanno fatto del tutto per tradurre la com media in un modo che definirem mo italiano. Sono così riusciti a catturare la simpatia del pubblico, anche con l’aiuto di una brava Giovanna Ralli e di un misurato ¡Enrico Maria iSalerno. Le scene, molto funzionali, sono di Fiorella Mariani. D. C. F r a n z is k a ii Frank Wedekind. Regia di Gian carlo Nanni. Interpreti: Manuela Kustermann, Mauro Barabanì, Lo- 'ena Binda, Francesco Castronuo vo, Lamberto Consani, Mario Pa vone, Marina Sassi. Scene e costu mi di Katia Dottore. di Maurizio Liverani .« passaggi ». E' il momento di Wedekind. Re goliamo gli orologi. Nel 'teatro ita liano, come nella caccia, ci sono i Il wedekindismo quanto durerà? Apostolo discusso della nuova avanguardia, Giancar lo Nanni, non dimentico che II risveglio di primavera dello stesso Wadekind lo catapultò verso una notorietà oggi impallidita, cerca un rilancio con un altro dramma dell’antiborghese, dell’antiromanti- co scrittore tedesco per il quale tutta la morale si riduce a quella sessuale. Soltanto d fuochi che ar dono nella carne, dice Wedekind, Manuela Kustermann in « Franziska » di Franz Wedekind. il uomo a donna con risoluta faci lità, senza amore e senza pudore. Franziska striscia sul fondo di una società equivoca tra gente venale serbando una certa mondezza per ché ella cerca, al di là di ogni abiezione, qualche cosa che la chiarifichi a se stessa. Con ardimenti sul filo del ra soio, Nanni teatro inzuppa espressionista di Wedekind in una cornice surrealista con echi di De Chirico, Delvaux, Magritte e Max Ernst. La rapidità scattante delle scene brevi ed appariscenti co me inquadrature cinematografiche, proprie della scuola teatrale tede sca rende stridente questo impa sto espressionismo-surrealismo. Lo spettacolo risulta, nonostante que sta grossolanità di fondo, serrato, concitato in una successione riso nante, lucente di rapide e fulminee scene. Al personaggio cardine pre sta il volto e il resto (che nella animosità di alcune fasi sguscia, a volte, dalle tenui e succinte ve sti) Manuela Kusterman, attrice polposamente fatta bene e scabro samente brava. contano. La fatale forza distrug- gitrice della sessualità, compressa e violentata dalla pudica morale borghese, può incenerire tabù e pregiudizi, tutto quanto, cioè, li mita l’amore. Franziska che non è mai stata rappresentata in Italia, prima d’ ora, è considerata opera espres sionista; espressionismo significa reazione contro il realismo e, so pra tutto, scoppio dell’istinto che manda tumultuosamente in pezzi quella delicata costruzione che è la psicologia dei personaggi, e scatena, dall’abisso dell’inconscio, la furia del sesso. Da Wedekind in poi, il sesso è il torbido, sa dico, frenetico, crudele, martiriz zante protagonista del teatro te desco. Il wedekindiano « spirito della terra» che esagita i perso naggi e rompe l’ordine deH’azio- ne con lo scrittore tedesco lo incarnava an che come attore, sulla scena, con una curiosa recitazione solenniz zante, con sonorità e chiarezza, ie parti concettuali dei suoi dram mi, lasciando incolori, quasi im percettibili, le altre. frenetici soprassalti, Se molto sfugge di quanto di cono gli attori della Franziska messa in scena da Nanni in ma niera più fragorosa che tormen tata, non va 'imputato a « cagne- iria » bensì a questa fedeltà a Wedekind. La carne di polei che dà il titolo al dramma passa da L e C o o p e r a t i v e c u l t u r a l i P e rc h é la F e d e rc u ltu r a ? All'Interno del discorso più ampio delle Cooperative si è venuto collocando, da qualche tempo a questa parte, il tema della cultura. NeH’immediato dopoguerra, l’esigenza di ricostru zione aveva privilegiato infatti il nascere di Cooperative legate al momento della produzione, specie in campo agricolo e commerciale. Ma da anni ormai si è cominciata ad avvertire sempre più forte l’esigenza di estendere questo interesse al di là del binomio casa-lavoro. Questo nuovo interesse è nato da una condizione ben precisa: la cultura era rimasta mo nopolio di pochi, veniva regolarmente calata dall'alto, era dominata dalla logica del consumo senza tener conto né della qualità né delle diverse esigenze. E’ stato così che a livello di base — la scuola, il quartiere, la fabbrica — sono venute nascendo esperienze nuove e stimo lanti, e si è cominciato a riscoprire il gusto e il valore di fare cultura dal basso, trovando in questo un nuovo veicolo di incontro con gli altri, un ponte per superare l’isolamento imposto da un certo modo di vivere. Naturalmente, però, il crescere di questa tendenza ha posto un problema organizzativo: tutte le iniziative spontanee si sono trovate di fronte alla necessità di avere a disposizione mezzi, tecnici e finanziari, adeguati a garantire loro non solo la sopravvivenza, ma anche la dif fusione e lo scambio di reciproche esperienze. E' stato a questo punto che si è innestato il discorso della cooperazione, e si è capito che si poteva applicare anche alla cultura quello che era stato fatto per la casa, per i campi, per il commercio. C h i c o o rd in a le C o o p e ra tiv e in c a m p o c u ltu r a le ? I motivi di fondo che hanno fatto scaturire il movimento cooperativistico a sostegno di ■ una cultura genuinamente .popolare sono sintetizzati nel preambolo allo Statuto della Federazione nazionale delle cooperative culturali. In questi anni la società italiana si è tra sformata significativamente sia nelle strutture che nei valori politici, economici e culturali. Pa rallelamente si sono affermati però nuovi rap porti di potere, grazie anche alla spinta po polare. Questo cambiamento è avvenuto, comunque, senza risolvere le contraddizioni, anzi aggra vando, in ogni aspetto, le disuguaglianze e gli territoriali e culturali del squilibri economici, Paese, accentuandone l’emarginazione sul piano internazionale ed europeo. Si può, in sintesi, constatare come sia fallito il disegno di razio nalizzazione del nostro sviluppo attraverso la programmazione, mentre non si sono avviate le riforme di struttura. In questo quadro, si è fatta strada nel Paese una chiara domanda di mutamento di gover nare che sia segnato da livelli progressivi di partecipazione e di controllo popolare negli in dirizzi generali di politica economica e sociale, mentre si è consolidato ed esteso il processo di rinnovamento culturale, nato sulla profonda cri si dei valori borghesi. Di fronte a tale situazione, sempre più im pegnativo e nuovo è il ruolo del movimento dei lavoratori, dell’associazionismo democratico (in tutte le esperienze riguardanti i vari momenti della vita sociale) e del movimento cooperativo, che si assumono la responsabilità di essere pro tagonisti e partecipi del rinnovamento e del futuro sviluppo del Paese. La cooperazione culturale e l'apparato culturale Promuovere la cooperazione nel campo cul turale, significa prendere atto dell’esistenza di un’industria culturale, intesa nei suoi termini organizzativi e produttivi, verso la quale l’inter vento pubblico ha operato interventi parziali e spesso corporativi, ha tralasciato ogni azione per modificare le strutture produttive, non è riuscito ad incentivare l’espressione artistica e culturale nel pluralismo, e non ha creato le condizioni concrete per un collegamento reale tra produzione culturale e le nuove istanze di partecipazione. Le nuove forme di partecipazione e di pra tica sociale (quali ad esempio: i consigli di fabbrica e di zona, i comitati di quartiere, gli organismi nati dai decreti delegati, le coope rative di produzione e di consumo ecc.) sono riuscite a sedimentare una nuova scala di valori profondamente segnata da contenuti egualitari, da una volontà di autonomia e di partecipazione, da una esigenza di coerenza e di moralizzazione della vita politica e sociale al di là di sche matiche contrapposizioni ideologiche. Queste for me e momenti organizzativi hanno creato opi nione, indicato una strada da percorrere, hanno fatto emergere non solo una volontà di riappro priazione culturale, ma una tensione diffusa a portare i processi di cambiamento dal livello delle strutture economiche e sociali fino alla formazione di una nuova coscienza individuale e collettiva. Da queste considerazioni scaturisce l’interven to del movimento cooperativo che vuole rispon dere attraverso le sue strutture alla necessità di permettere ad ogni cittadino lavoratore di riappropriarsi della cultura acquistata nell’espe rienza quotidiana e perduta nei meccanismi capitalistici del consumismo e dello sfruttamen to. Per queste ragioni il movimento cooperativo respinge ogni logica speculativa, divistica e stru mentale per realizzare, nell’autonomia, un modo nuovo di fare cultura. La cooperazione m i campo culturale vuole essere lo strumento attraverso il quale, nella li berazione di ogni energia creativa collettiva, si sviluppa il pluralismo e si afferma l’eguali tarismo culturale. Nella ricerca di un nuovo e giusto rapporto con i cittadini il movimento cooperativo si pro pone di agganciare la produzione al mondo del lavoro, alle scuole e al territorio ed a tutte le forme di partecipazione democratica di base, ’con la convinzione profonda che le opportunità cul turali non siano riservate a pochi, ma garantite a tutti attraverso una programmazione parte cipata delTinterrvento cooperativo. Gli strumenti di attività Per realizzare questi obiettivi, la Federazione delle cooperative culturali porta avanti la sua azione nell’ambito delle linee di politica gene rale della C.C.I. e si propone di operare: — con la collaborazione dei lavoratori e delle loro organizzazioni nello spirito unitario che le anima e nella salvaguardia dell’autonomia dei rispettivi ruoli; — con la ricerca di collegamenti e di colla borazioni con le altre organizzazioni coopera tive, che vadano nella direzione di una progres siva unità; — con rapporti concreti con l’associazioni smo culturale del tempo libero; — attraverso il confronto ed il collegamento con le Regioni, con gli Enti locali e gli Enti pubblici per stimolare il decentramento e l’al largamento della ricerca, della produzione, della distribuzione e dell’accesso ai servizi culturali. R a g io n i s o c ia li n e ll'a m b ito d e lla F e d e rc u ltu r a Le varie possibilità che permettono di dare vita a delle Cooperative entro l’ambito della Fe dercultura. Settore cinema 1 - Cooperativa di ricerca cinematografica. 2 - Cooperativa di animazione cinematografica 3 - Cooperativa di produzione cinematografica 4 - Cooperativa di distribuzione cinematografica. 5 - Cooperativa di esercizio sale cinematogra (■cinefonim, cineclub). (films e documentari). fiche. (professionisti). tori, produttori). Settore teatro 6 - Cooperativa di attori di teatro di prosa 7 - Cooperativa di teatro di prosa (registi, at 8 - Cooperativa di balletto. 9 - Cooperativa di teatro sperimentale. 10 - Cooperativa di teatro amatoriale. 11 - Cooperativa di teatro popolare. 12 - Cooperativa di teatro dialettale. 13 - Cooperativa di teatro dei pupi. 14 - Cooperativa di teatro delle Marionette. 15 - Cooperativa di gestione di circuiti teatrali. 16 - Cooperativa di scrittori di teatro. 17 - Cooperativa dì ricerche in campo teatrale. 18 - Cooperativa di spazi di audizione musicale. 19 - Cooperativa di artisti lirici. 20 - Cooperativa di musica Folk. 21 - Cooperativa Banda Musicale. 22 - Cooperativa Concerti di musica Classica. 23 - Cooperativa di cantautori. 24 - Cooperativa di parolieri per musica leggera. 25 - Cooperativa discografica. Informazione 26 - Cooperativa libraria (vendite). 27 - Cooperativa editoriale (stampa libri). 28 - Cooperativa editoriale (giornali e riviste). 29 - Cooperativa di giornalisti - gestione giornali. 30 - Cooperativa di gestione agenzie di stampa. 31 - Cooperativa di audiovisione. 32 - Cooperativa di pubblicità e propaganda. 33 - Cooperativa di gestione Radio Private. 34 - Cooperativa di gestione TV Private. 35 - Cooperativa di ricerca Radio Televisiva. Arti figurative 36 - Cooperativa di pittori Artisti. 37 - Cooperativa di gestione di gallerie d’arte. 38 - Cooperativa di restauratori di opere artisti libri (architettura, pittura, scultura, 39 - Cooperativa di artisti della fotografia. 40 - Cooperativa di scultori ed incisori. 41 - Cooperativa di artisti orafi. 42 - Cooperativa di disegnatori di fumetti e co 43 - Cooperativa di disegnatori di moda maschi 44 - Cooperativa di scenografi e cartellonisti. Animazione culturale e scuola 45 - Cooperativa di ricerche socio-culturali. 46 - Cooperativa di gestione Centri culturali (bi blioteca, dibattiti, doposcuola di quartiere). 47 - Cooperativa di gestione di Asili nido. 48 - Cooperativa di gestione di scuole professio 49 - Cooperativa di gestione scuole di recupero che eoe.). miche. le e femminile. nali. corsi. Ricerca 50 - Cooperativa di ricerca socio-antropologica. 51 - Cooperativa di ricerca progettuale per solu zioni partecipative di servizi sociali. Confederazione Nazionale delle cooperative italiane Federcultura Via Torino, 146 . Roma L ’ a l b e r o d i E d u a r d o di Renzo Nissim La prima volta che Eduardo De Filippo mi venne a trovare nel villaggio dove atoito, prima di entrare in casa si -fermò incantato ¡davanti a un immenso e secolare faggio dalle foglie color rame, un albero ch-e avrà almeno trecento anni, gloria del nostro giardino, un monumento, un groviglio di rami, di nodi, dii curve -e di intrecci partenti da un tronco rugoso -e solido come la zampa idi un elefante, per dendosi su, in alto, fra la boscaglia rossastra del' fogliame. Eduardo — quella v-olta — si fermò da vanti al faggio, lo guardò assorto, a lungo, non disse una parola ma si -capì subito che fra lui e l’albero si -era stabilita una immediata corrente di simpatia, direi di amore istintivo e naturale. Poi Eduardo entrò in -casa. Da -quel momento lui e l’albero divennero amici come divenimmo, da quel giorno, Eduardo e -io. Forse l’albero aveva comunicato a lui il senti mento di -calore -che lui — Eduardo — aveva saputo comunicare agli inglesi quando li aveva conquistati e affascinati recitando per loro. Il pubblico inglese, i critici inglesi impazzirono per lui. Tutti senza -eccezioni — d più grandi attori inglesi -e il pubblico di massa che, qua -in Inghil terra, va molto a teatro, si interessa al teatro e si rinnova -continuamente. Eduardo li aveva oltre che entusiasmati sor presi perché aveva mostrato loro dei personaggi italiani infinitamente più vivi e re-ali -e sostanzial mente diversi dal cliché deld’ital-iano sempre felice, senza pensieri, inzuccherato di amabilità sotto un sol-e perennemente splendente. I personaggi di Eduardo non sono né eroi né pagliacci nel senso -basso e vile di questa parola. Sono uomini — spesso -in parte eroi -e in parte pagliacci — -e ciascuno -di loro ha le caratteristiche della propria personalità, della propria natura e dèlia terra in -cui è -nato o in cui vive. Perché, come in un -albero, -in ogni essere umano le radici hanno una grande importanza. Questo può spiegare perché il teatro di Eduardo, se tradotto in inglese con la dovuta comprensione, non perde del suo valore e non crea problemi di interpretazione, mentre, spesso, molti dei -lavori del teatro inglese di -oggi -se tradotti in italiano, anche con le migliori intenzioni non riescono -a comuni care al pubblico italiano la profondità e le sotti gliezze del testo inglese e si prestano a essere fraintesi. Questo può sembrare quasi un paradosso data la squisita essenza idi sapore nazionale e re gionale delle commedie di Eduardo De Filippo. Val ga, tuttavia, ricordare a sostegno di quanto si è detto un momento fa, che è stato recentemente pubblicato a ¡Londra, dalie Case Editrici Hamish Hamilton e St. -George Press, un volume in inglese con tre -commedie -di Eduardo De Filippo, -tradotte con fine discernimento da un inglese -di origine italiana, Carlo Ardito. Di questi tre lavori, di indole diversa (la « Grande Magia », «Il Sindaco del Rione Sanità » e « ¡Filomena Marturano » ) e dell’opera di Eduardo De Filippo in genere, quale autore, at tore, poeta e regista, ha parlato — in occasione della pubblicazione del libro — all’Istituto Italiano di Cultura in ¡Londra, una docente dell’Università di iBristol, la signora Felicity Firth che ha dimo strato di 'possedere una particolare competenza del suo soggetto tanto più apprezzabile in una studiosa non italiana. La sua — infatti — più che una conferenza dot trinale, più che una « lecture », è stato un discorso una conversazione informativa e acuta sulla essen za dell’ opera eduardiana e sulla sua espressione artistica. Non ha inteso definire « in toto » l’arte di questo colosso del teatro perché si tratta di una espressione essenzialmente personale. Chiunque abbia avuto la fortuna di vedere Eduardo sulla seena può testimoniare della sua « grande magia », « una alchemia di attore, autore e regista fusi insieme e creatori di un effetto che supera qual siasi studio analitico ». Per questo le tre comme die contenute nel volume inglese sono state scelte con molto discernimento — come appunto giudica l ’esperta inglese — in quanto rappresentano tre aspetti diversi del teatro di Eduardo: la celebrazione idell’ amore materno — la speculazione metafisica sulla natura della realtà e della illusione — il dram ma della paura e della compassione. E, per questo, i lavori di Eduardo sono così vicini a noi così avvincenti, così penetrante : per la loro infinita umanità per la loro comprensione psico logica dei moventi delle azioni di ogni suo per sonaggio. La qualifica di « Comedy » si applica, general mente, nella lingua inglese, alla commedia dotata di « humour », e la signora Firth ha notato che la « moderna European comedy » — quella dell’in tellettuale — è basata in gran parte sulla mancanza di fiducia, sulla diffidenza, sul sospetto. Il suo carattere, il suo « ethos » è quello di un isolamento senza scopo in un mondo assurdo, il linguaggio non comunica alcun vero significato, la struttura della società in genere, si presta allo scherno, al dileggio. Questa é — secondo la Firth — l’eredità di Pi- randello e di Jarry, un certo tipo di ironia libera trice attraverso la quale ci viene data, per quel tempo che dura la commedia, la possibilità di staccarci, di evadere, dalle imposizioni e dalle esigenze della nostra vita quotidiana. « Da un punto di vista sociale si tratta del mondo vuoto e vacillante di Pinter e di Jonesco e di Monthy Pyton » (quest’ultimo è il titolo senza senso dato a ima serie televisiva della B.B.C., sur realista e — secondo il gusto del pubblico — co micissima, del tutto fuori della logica e che ha avuto e ha ancora immenso successo). « Un mondo privo di un centro di gravità tradizionalmente borghese, un mondo in cui, se vogliamo evitarne la vacuità, dobbiamo essere noi stessi fuori centro. Qua gli eroi sono individualisti, non conformisti, eccentrici e sbandati... ». Ma — e siamo perfettamente d’accordo con la studiosa inglese — il mondo di Eduardo >• non è vuoto. E’ un mondo i cui personaggi continuano a imbrogliarsi e ad amarsi, a disprezzarsi e a com patirsi, a sopraffarsi e ad aiutarsi e soprattutto, e malgrado tutto, continuano a illudersi di cercare e di trovare la verità> non una ricerca di una ve rità astratta e confusa, una ricerca basata appunto sul sospetto e sulla diffidenza totali, ma la costan te, ingenua speranza in qualcosa di meglio, quella che ci permette giorno per giorno di vivere, di tirare avanti. Per questa sua umanità il teatro di Eduardo fa sì che il pubblico non abbia soltanto il ruolo di spettatore ma di attivo partecipante alle situa zioni che gli vengono presentate e che divengono le sue — le nostre — quella della nostra esistenza quotidiana. Sono i pensieri e le idee e le paure e le speranze e gli amori e le crudeltà espresso in una lingua semplice, quella appunto nostra, di gente comune e, in certi casi, di personaggi fuori dal comune — tuttavia reali — barboni, eccentrici, fissati, maniaci, megalomani o depressi, e il loro « humour » è quello un po’ ingenuo e sempre es senzialmente spontaneo del popolo. E’ soprattutto il linguaggio che esprime, anche in mezzo alle tragedie, alle disillusioni, al dolore, una univer sale speranza nel domani, nel futuro, in ciò che potrà succedere. Altrimenti a cosa si ridurrebbe la vita senza questa illusione? Una illusione che — giorno per giorno — si fonde con la verità sì che talvolta spariscono i confini fra questa e quella, una illusione che potremmo chiamare squisita mente «Eduardiana» perché non è il trionfo del la irrazionalità sulla ragione, bensì il bisogno di ogni essere umano di crearsi un mondo irreale, tutto suo, pur guardando al tempo stesso e bene in faccia la realtà. E questo sembra il punto impor tante: sì il mondo come la scena è piena di truc chi, di cattiverie, di rancori, di crudeltà, non si può scampare da queste verità, la vita è fatta anche di tutto questo. Ma bisogna vivere. Forse un giorno le cose cambieranno. Chi può saperlo? Intanto bisogna vivere e aspettare. « Ha da passa’ a’ nottata... ». Da questo esame della signora Firth è apparsa la completezza della comprensione dei valori del teatro eduardiano da parte degli inglesi, una com prensione che va al di là dell’entusiasmo per un attore che è stato definito «il più grande dell’epoca presente » il « supremo esponente del teatro » — una comprensione che supera l’ammirazione per questo inimitabile commediografo di vena poeti camente umana. Oltre tutto questo — se voglia mo in questo, nell’autore, nell’attore, nel poeta, c’è la infinita umanità dell’uomo, dell’amico del l’albero che non ricerca la compagnia dei grandi o degli « arrivati », ma è contento di quella della gente umile e comune, che ha ammiratori, milioni di ammiratori dappertutto, ma che ha potuto re stare un uomo di ima semplicità unica. Ora a lui — Eduardo De Filippo — il Senato Accademico del l’Università di Birmingham ha voluto conferire la laurea « honoris causa » in Letteratura, il massimo onore cui possa aspirare in genere chi sia fuori dal mondo accademico e in particolare chi non sia cittadino inglese. Un grande riconoscimento. Ma, anche se le accoglienze che gli verranno tributate al momento in cui si presenterà a ricevere il titolo di « Doctor », dovrà giustamente inorgoglirlo, Eduar do — possiamo esserne certi — non cambierà di un millesimo la semplicità del suo animo, la mo destia innata della sua vita privata, in mezzo agli amici più intimi e ai suoi più intimi collaboratori, una vita sua di pensiero e di contemplazione in cui l’uomo Eduardo resta chiuso nel suo circolo perso nale. Il suo contatto col mondo, il suo colloquio con il pubblico che lo chiede e lo vuole, si inizia e si svolge quando a teatro Eduardo diviene il più com pleto animatore, vivificatore, comunicatore. Allora, persino con i suoi silenzi, Eduardo parla un lin guaggio di amore e di compassione così come si lenziosamente ha parlato all’albero. E, 'come l’al bero, Eduardo ha radici profondissime che arrivano al cuore di chi lo vede e lo ascolta, radici antichis sime che lo legano agli uomini della antichità poiché il suo genio è antico e eterno. Forse — in quei momenti — Eduardo è l’albero, come quello di una solidità non incrinabile, di una profondità inegua gliabile, aderente, come l’albero, alla terra, sino dentro la terra, e anche lui va a scavare con le sue possenti radici o sale su su in alto con i suoi rami fioriti e scruta in fondo a noi ai nostri pensieri alle nostre anime, per trovarci, insieme a tante cose brutte, basse e vili, anche tutto quello che ci può essere, che ci deve essere di buono e di generoso, per dirci con un sorriso tragicamente umano la implacabile verità: questa è l’illusione e questa — forse — la verità, confuse e intrecciate come i rami dell’albero amico. Eduardo ha terminato all'Eiiseo di Roma le repliche di « Le voci di den tro ». In 90 rappresentazioni si calcola che gli spettatori siano stati circa centomila. P e r c h é p i a c e a g l i D a lla conferenza tenuta a l l ’Is titu to Ita lia n o d i C u ltu ra a Lon dra d a lla p ro f .ssa F e lic ity F irth d e ll’U n ive rsità d i B ris to l Quando il professor Montuori mi ha scritto, in vitandomi a tenere questa conferenza mi ha chiesto se potevo descrivere il lavoro di Eduardo dal mio punto di vista. E’ un compito difficile, ma anche piacevole: difatti non può che rendermi lieta il cercare di tradurre in parole tutto ciò che il lavoro di Eduardo significa per me. Il mondo di Eduardo non è un rifugio. Le sue assunzioni sono quelle di un drammaturgo di vec chia scuola; si basa su degli elementi tradizionali, cioè che la vita ha un suo preciso significato, che quando le cose vanno male c’è un motivo e che bisogna tradurre in parole ì significati ed i motivi, tramite il linguaggio. Non bisogna però arrivare alla conclusione che Eduardo scrive così in quanto creatore di un dramma sodale-commerciale, che si snoda in maniera diversa da quella scelta dalla avanguardia teatrale. Al contrario, la sua grande forza consiste nel fatto che egli si mostra così padrone del pensiero esistenziale e relativistico. Il mondo che si sta deteriorando •* un tema a lui caro : vedi la « mia Famiglia », « Napoli miliona ria », « Le voci di dentro » e « Il sindaco di Rione Sanità ». Queste commedie non sono solo il frutto di un’ambientazione postbellica, ma quello di un’ era relativistica, di un mondo che si sta sfasciando; sia materialmente che metafisicamente. I bambini ne « La mia Famiglia » combattono per la libertà esistenziale e le loro parole ricordano con preci sione i sentimenti provati dai personaggi di Sartre. La famiglia Cimmaruta ne « Le voci di dentro » è invasa da varie versioni di una realtà finta, e la verità appare come una grande illusione in « Que sti fantasmi» e «La grande Magia». La raffina tezza di De Filippo arriva ad una sagace conoscenza delle abitudini in voga. C’è un momento ne « La mia famiglia » dove Alberto Stigliano si rivolge ai suoi bambini che pensano in modo libero e cosmopolita e dice loro: « Voglio dirvi qualcosa, forse non sono troppo in ritardo. Voglio dirvi qualcosa. E ciò che voglio dirvi sono, tutti i vecchi cliché e tutti i vecchi modi di Eduardo De Filippo col figlio Luca, anch'egli attore affermato nella prestigiosa compagnia del padre dire. Non mi vergogno. Vi reciterò tutti gli antichi proverbi». E dice una serie di proverbi basati sulla saggezza borghese di tono patriarcale. Poi, d’im provviso, si ferma, li guarda e dice: « Perché non ridete? Perché non ridete? Dico tutto questo vec chiume e non ridete. Io lo dico, voi non ridete ed io non me ne vergogno. Questo è importante... molto importante. Vuol dire che avete cercato di rendermi inoffensivo, senza però riuscirvi, mentre io credevo di avere a che fare con gente più ag giornata di me, ma ciò era falso. Questo è quello che conta, questo è un miracolo ». Questo discorso sintetizza lo spirito del credo reazionario che Eduardo ha nei valori assoluti. Per ciò che riguarda la relatività della verità, « La grande Magia » dimostra il fatto che Eduardo conosce, al pari di Pirandello, come giocare degli scherzi che distolgono l’attenzione dalla realtà, co me esplorare i procedimenti dell’àutoinganno e dell’illusione. Per un momento, prima che cali il sipario, c’è un attimo in cui ci chiediamo se Calo gero non ci stia dando lo stesso messaggio di En rico IV e di innumerevoli altre creature pirandel liane: cioè che è necessario un po’ di illusione per rendere la vita tollerabile. La differenza consiste nel fatto che Calogero ha trovato una soluzione personale, mentre Enrico ci convince che la sua è una soluzione a livello universale. Ma Calogero non ha la potenza di Enrico. Non è un « Grande Mascherato » un campione di irrazionalità, è per questo che io interpreto « La grande Magia » come un rifiuto del messaggio pirandelliano. Eduardo ha recepito Pirandello e, in un certo senso, l’ha superato. Calogero è visto come una vittima che si trova sul palcoscenico per raffigurare un aspetto della fragilità umana. Tuttavia è proprio un aspetto della fragilità umana che sollecita particolarmente Eduardo; il rifiuto, l’incapacità di affrontare la «realtà». Il prototipo è Luca Cupiello de « Il Natale in casa Cupiello », scritto nel 1931. La figura dell’uomo che crede di non poter af frontare la vita si ripete frequentemente. Lo tro l’ingiustizia, la violenza, viamo di nuovo nella persona di Domenico nei primi due atti di « Filumena Marturano «, mentre il Domenico del terzo atto ha trovato, come molti altri personaggi di Eduardo, al finire di una com media, che la fuga dalla realtà non fornisce una spiegazione. Scrittori come T. S. Eliot ci dicono da anni che non possiamo sopportare troppa realtà. Eduardo ci dice di voltarci e di affrontarla. Egli ci spinge a guardare all’interno delle stranezze della vita, ad analizzare la vendetta e la fame. In tutti i dialoghi dei suoi lavori è presente una qualità che posso definire solo come un’affer mazione della vita stessa. E’ espressa in molti modi. E’ molto presente nel suo umorismo: originale, instancabile, quasi inesauribile. Probabilmente si potrebbe parlare del teatro di Eduardo a tre livelli. Anche un semplice lettore può distinguere la sua innata teatralità, il dram matico impatto dell’inizio in « Filumena Martura no », del ritorno di Gennaro in « Napoli Miliona ria », dell’uccisione di Vincenzo de Pretore, dell’ul tima cena di Antonio Barracano. Il teatro di Eduar do è stipato di momenti molto intensi, coinvolge al massimo l’emotività del suo pubblico: è proprio questo ricco e continuo uso di situazioni e di sen timenti che lo rendono un vero e proprio uomo di teatro, per non parlare^ del suo splendido senso della commedia. Inoltre si potrebbe parlare del suo impegno sociale. Nascosto nella commedia, quasi ogni lavoro con tiene un appassionato problema sociale, ed è pro prio questo il messaggio dì Eduardo. Ma tale è la natura dell’uomo, il potere delle sue convinzioni e il vigore del suo stile che non c’è più profondo messaggio da ricercare che non un messaggio di realismo. Una volta egli ha definito la funzione del teatro come « un disperato attento giornaliero a far sì che la vita abbia un significato». Questo è per me il suo maggiore trionfo, il fatto che egli restituisca un coraggio filosofico a coloro che sono alla ricerca del significato del teatro. o i n b e v e A 14 miliardi e 883 mi lioni di lire ammonta complessivamente l’introi to lordo registrato al ter mine della stagione tea trale di prosa 1975-'76, du rante 'la quale 'Sono stati venduti complessivamente 6.295.534 biglietti. Si regi stra, per la prima volta dal 1971-’72 un aumento consistente delToitfenta di spettacolo rispetto alla do manda. Il 1975-’76, infatti, ha visto le presenze ele varsi soltanto del 12 per cento, mentre il numero delle recito ha avuto un incremento del 27 per cen to: fenomeno opposto a quanto si era verificato nelle ultime stagioni, du rante le quali il numero dei biglietti venduti era sempre aumentato in mi sura più che ¡proporziona le a quello delle rappre sentazioni. I dati isono sta ti registrati dall’AGlS. Si è svolta a Roma, pa trocinata dal nostro mi nistero degli Esteri, Dire zione per la cooperazione culturale, una mostra del nuovo cinema polacco. So no stati presentati, tra gli altri, film di Anterak, Folk e Batory. Iniziative analoghe si sono svolte an che a Firenze, Perugia, Salerno e altre sono in corso di realizzazione in diverse città italiane nei prossimi mesi. Dall’8 al 20 febbraio si è svolta a Firenze una mostra, patrocinata dallo E.T.I., presso il Teatro alla Pergola: si è tratta to di una mostra della raccolta fotografica Anto nio Gandusio - Antonio iPierfederici; il titolo del la manifestazione era: « I volti del teatro all'antica italiano ». Il nuovo spettacolo del Gruppo della Rocca è Ballata e morte di Pulci nella Capitano del popolo, tratto dal romanzo di Lui gi ‘Compagnone. H debut to è avvenuto a Pistoia il 26 febbraio; la compa gnia sta compiendo, ora, un lungo giro per l’Italia. E’ uscita in edicola un’opera a dispense dedi cata al cinema: si tratta di Tutto Cinema della Rizzoli Editore. I fascico li, che escono ogni setti mana, sono divisi in tre settori: uno dedicato alla storia del cinema, uno ai film più significativi, uno agli attori. La XVI edizione del Premio Nazionale « Valle corsi » per il teatro è sta ta vinta da Maria Rebec- ca Krieg, con la comme dia Mosaico Impazzito. La XVII edizione del Pre mio è già stata avviata: possono concorrere lavori teatrali che costituiscano spettacolo di normale du rata. I lavori dovranno essere presentati alla se greteria del Premio — Via Ciliegiole, Pistoia, presso la Società Breda Costruzioni Ferroviarie — in sei copie dattiloscritte contraddistinte da un motto, entro il 30 giugno prossimo. Anche quest’anno sono stati assegnati i premi « Anna Magnani 1976 ». Moltissimi i premiati; tra gli altri: Mariangela Me lato, Luigi Proietti, Gio vanna Ralli, Giulietta Ma sina e Mario Scaccia. A Milano, al Museo del la Scala, è stata ricorda ta Rina Monelli. Raul Ra dice ha tratteggiato un significativo profilo del la grande attrice, ri percorrendo le tappe del suo itinerario scenico ed umano. O’era molto pubblico, la sera del 16 febbraio, al « Centre Culturel Fran çais » di via Bigli, in Mi lano, per il dibattito or ganizzato intorno a « Le Balcon » di Genet, nell’al- lestimento di Giorgio Strehler. La curiosità del pubblico era comprensi bile: quest’ultima regìa strehleriana ha suscitato polemiche e perplessità che, senza incrinare la popolarità del « deus ex- machina » del « Piccolo Teatro », hanno messo tuttavia in discussione la sua « infallibilità » nella ■scelta de*l repertorio. Il dibattito ha avuto V andamento di un « pro cesso al regista » franco e rigoroso, ancorché leale e cordiale. Aveva il ruo lo di avvocato difensore Giuseppe Di Leva, autore drammatico ed aiuto-re gista del « Piccolo »; fun geva da pubblico mini stero Ugo Ronfani (che aveva già indirizzato a Strehler una « lettera aperta » su « li Giorno » per dissentire dal suo mo do di lettura di Genet); presiedeva il segretario- dei -« Centre Culturel » Alain Lavaud ed era giu dice « a latore » Condide Socy, docente di letteratu ra francese. Appassionata la discus sione, cui hanno parteci- pato alla fine anche spet tatori del « Piccolo », fran- cesisti, studenti. In sede di bilancio, si è delineata una maggioranza convin ta che 1’incontro Strehler- Genet non sia stato pro priamente felice. Nulla da obiettare circa i risultati estetici della regìa streh leriana (salvo che qual cuno ha lamentato ecces si nel rifacimento espres sionistico di certe scene, e fastidiosi indugi in un ero tismo fumettistico, alla Crepax ■»), Le riserve so no invece venute — sulla scia di quanto ha detto Ronfani — per lo stra volgimento ideologico di Genet, compiuto facendo ne quasi un epigono di Brecht, col suo bravo messaggio sulla rivoluzio ne che incalza; mentre « Le Balcon » è e resta una pièce nera, che cele bra il male assoluto, sen za aperture, senza spe ranze: e come tale andava rappresentanto, puntando soltanto sulla sua « mora lità in negativo ». E’ morto improvvisamen te Filippo Torriero. Uomo di teatro tra i più appas sionati di questi ultimi de cenni, aveva sperimentato la scena in diverse dire zioni: come attore, regi sta e impresario. Tra le altre cose, aveva fondato e diretto la Compagnia del Dramma Italiano ed aveva collaborato a tra-, sformare in teatro il vec chio cinema Centrale, a Roma: a suo merito an che la riapertura del Tea tro Romano di Ostia An tica, la scorsa estate. Con Torriero scompare una Hi quelle figure ohe difficil mente il teatro può sosti tuire. Giuseppe Contarino, di Catania, .giornalista, ha vinto il premio letterario « Carlo Goldoni » per la sezione teatro con l'ope ra « La ragazza del co bra », sul tema della vio lenza giovanile. A d l l a r i c e r c a i u n n u o v o r u o l o In te rv is ta con B runo D ’Alessandro d ire tto re generale d e ll’Ente Teatrale Ita lia n o (E T I) Nell’ ambito di una ristruttura zione degli istituti e degli orga nismi che operano nel campo del teatro di prosa, l’Ente Teatrale Italiano, da tempo, sta cercando una « trasformazione » senza at tendere la nuova legge sul tea tro. In che modo, questa trasfor mazione si è andata svolgendo in questi anni e quali sono i cam biamenti ancora allo studio? teatro... fondatori dell’XDI Vorrei tanto che mi si. consen tisse una brevissima riflessione personale : ricordo che mio pa dre, l’avvocato Alfonso d’Alessan dro, segretario generale e uno dei (Istituto del Dramma Italiano) che molti teatranti non giovanissimi imma gino che abbiano conosciuto, per lomeno vent’anni fa, mi parlava della legge sul ricordo che mi diceva che era imminen te, che avrebbe dovuto riordinare tutta la materia, che finalmente avrebbe tutto quello che c’era da riformare... Ebbene, sono passati vent’an ni, periodicamente si sostiene che la legge sul teatro è imminente, a scadenze fisse si parla di ri forme attuate per legge, ma que sta tanto attesa riforma legisla tiva non arriva... E’ Der questo che 1ETI — l’Ente Teatrale Ita liano — ha ritenuto di muoversi in tanto immobilismo... Ha voluto rivedere il suo ruolo e le sue funzioni e, senza aspet riformato il tare che legislatore dettasse la normativa cui avrebbe, dovuto attenersi, ha scelto la via della riforma sul piano di fatto... In che modo? Cercando soprattutto di trasfor marsi da ente gestore in ente di cultura. E mi spiego meglio... Negli ultimi anni ITITI ha no tevolmente ampliato il proprio circuito : dai 18 teatri, di soli cin que anni fa, è passato a contarne 66 in quest'ultima stagione, e il conto è ancora molto aperto... Ha, cioè, rafforzato quella po sizione di circuito di distribuzio ne dello spettacolo di prosa in Italia, che l’aveva caratterizzato per oltre 20 anni, soprattutto at traverso i capisaldi di tale circui to, i teatri Quirino e Valle a Ro ma, la Pergola a Firenze, il Duse a Bologna. Ma, proprio nel settore della distribuzione, in questi ultimi tempi, sono avvenute molte cose nuove... i destinatari del prodot to hanno cominciato a « gesti re », come si dice, le scelte ... non più una distribuzione dal centro, ma sempre più ima distribuzione « concordata »... Gli enti locali, vale a dire i Co muni, in prima linea, ma anche recentemente certe regioni han no capito che teatrale non poteva sfuggire a quel pro fatto il cesso di responsabilizzazione del la base che sta mutando fonda mentalmente la nostra realtà so ciale. Noi abbiamo il teatro, lo spa zio, il luogo — si sono detti gli amministratori locali — questo teatro è bene di tutti i cittadini e la maggior parte di essi deve esere in condizioni di potere uti lizzare questo bene comune... ecco allora che si è inteso il teatro come servizio sociale e si è ca pito che le scelte andavano fat te con -autonomia, rispettando certe esigenze che sono differen ti da luogo a luogo... 1/ETI ha inteso in ogni modo facilitare tali scelte, come si di ce, con una parola che può an che essere male interpretata ma « T e a tr o d a v o i '1 1 » I n v e n t i c i t t à d i c i n q u e r e g i o n i Trentuno gruppi di sperimentazione porteranno, fino ai primi di giugno, i loro spettacoli in oltre venti centri di cinque regioni: Lazio, Campania, Marche, Umbria ed Emilia. Questo è il dato più appari scente di « Teatro da voi ’77 », il secondo intervento organico sul territorio che il teatro di sperimentazione professionale, col patrocinio dell’Ente teatrale italiano (ETI), dell’Associazione del teatro italiano di sperimentazione (ATISP-AGIS) e di altre associazioni ricreative per il tempo libero (ARCI-ANARS-ANDAS) si avvia a realizzare. Questi i gruppi partecipanti e i lavori in programma: Gruppo Ottavia — « Una domanda di matrimonio » da Cechov. Teatro Laboratorio — «La moscheta » di Ruzzante. Teatro Studio De Tollis — «Museo nazionale» di Nino De Tollis. Metavirtuali — « Santo Genet commediante e martire » di Pippo Di ■ Marca. e Giorgio Polacco. Il Pantano — « La guerra spiegata ai poveri » di Ennio Flaiano. Teatro Aleph — « Neruda canto » di Ugo Margio. Teatro Lavoro — « L’asociale » da Bertold Brecht di Valentino Orfeo Il Patagruppo — « Solitàrie, Solitarie ». Gruppo Libero — « 'La giovinezza di Gennaro ». Club Teatro — « Sacco » e « Richiamo » di Remondi e Caporossi. Libera Scena Ensemble — « Il cacatoa verde » di Arthur Schnitzier. Quali sono centi in questa direzione? iniziative più re le « Teatro da voi 77 » e il « Fe stival di New York ». Qual’è la caratteristica principale di « Teatro da voi ’77 »? « Teatro da voi » è, a mio avvi so, una delle iniziative qualifican ti del nostro istituto e certamen te uno degli interventi più deter minanti e incisivi nel settore del teatro di ricerca e di sperimen tazione. L’ETI, giova ricordarlo, da an ni, attraverso manifestazioni co me Ricerca 1, 2, 3. 4 e S, si è posta il problema dell’intervento nel settore, cercando di incentiva re, promuovere, incoraggiare con cretamente le nuove esperienze, le nuove autentiche forze del tea- tro italiano. LISTI ha contribui to vivacemente alla sprovincia lizzazione di queste iniziative, ed ha contribuito perché : fenomeni più evidenti e emblematici del teatro di ricerca venissero fuori, e non per una fagocitazione del fenomeno stesso, ma perché fos sero offerti ai gruppi possibilità di uscita dalla clandestinità, nel la quale si relegavano, non per propria scelta. Oggi ITITI mette a frutto le esperienze passate, modifica an cora la formula, invita i gruppi alla cogestione delle iniziative loro dedicate, allaccia rapporti concreti con gli enti locali e con l’associazionismo democratico, uti lizza le indicazioni che vengono dai territori e non procede a nes suna opera colonizzatrice lonta nissima da qualsiasi intendimen to, ma recupera alla propria or ganizzazione i gruppi del nuovo locale. che rende bene, pilotando, attra verso la propria organizzazione tecnica e -di servizi la nuova pro grammazione che si andava con cordando con In l’ente questo senso, direi che FETI ha compiuto un fondamentale atto di ristrutturazione dei Dropri com piti d’istituto, ha mutato ruolo, senza ridursi al ruolo di. agenzia di collocamento di spettacoli. L’ETI ha, invece, cercato e ot tenuto il massimo della collabo- razione con quegli organismi pub blici che devono essere coinvolti nel fatto teatrale perché esso di venti effettivamente un fatto di tutta una comunità, perché esso diventi finalmente un fatto popo lare e non più elitario. Trasformando in questo modo la propria struttura distributiva, che sta diventando ima struttura che mette a disposizione delle collettività locali organizzazione e servizi, FETI ha inteso affianca re all’attività del circuito di di stribuzione, alcune fondamentali finalità istituzionali, previste già nel superato atto costitutivo del l’Ente, ma soprattutto invocati con la riforma legislativa. Queste finalità in qualche modo riguardano la promozione del tea tro di ricerca e di sperimentazio ne in Italia, e la diffusione del teatro italiano all’estero... Gruppo Sperimentale Teatrale — « Improbabile messinscena di Amleto principe di Danimarca, di W. Majakovski principe dei Soviet» di Ricci. Ouroboros — «Morte della geometria» di Giuliano Scabia. Teatro Perché — « Donna Rosita » di F. G. Lorca. Linea d’Ombra — « Susu l’acqua, suttu lu vientu, suttu lu nuce di piripiento » e « Gioco drammatico dei clown ». Le parole e le cose — « Liquidi » di Lucia Poli e « Mine-Haha o del l’educazione delle fanciulle » da Wedekind. Il Fantasma dell’Oera — « Io e Majakovski ». Il Carrozzone — « Presagi del vampiro ». Il Guasco — «Il colpo di Trafalgar » di Roger Vitrac. Spazio Libero — « La corona della città ». Teatro Marigliano — « Assoli » di 'Leo Berardinis e Perla Peragallo. Comunità Teatrale Italiana — « Herman » di Giancarlo Sepe. Teatro Nuova Edizione — « Test » di Luigi Gozzi. Teatro dei Lumi — « A cena con le ombre » di Giorgio Celli. Gruppo Quattro Cantoni — « Fin de partie » di Samuel Beckett. Nueva Baracca — « Il viaggio dell’ermafrodito nella grande casa » di Ramon Pareja (dalla «Casa di Bernarda Alba» di G. Lorca). Il Cigno — « Machbeth » di W. Shakespeare. Teatro Mobile — « L’amore di Don Perlimplino e di Belisa nel giar dino » di F. G. Lorca. Teatro Camion — « Festa ». Teatro Arti Visive — « Perché Lorca ». 0 i n b v e e Il disegno di legge ri guardante un ulteriore fi nanziamento per il teatro di prosa (la cosiddetta « leggina ») è stato defi nitivamente approvato dal Senato il 5 aprile 1977. Il « sowenzionamento » alle varie manifestazioni è au mentato a 7 miliardi e 500 milioni, a decorrere dall' esercizio 1976. Nell’artico lo 1 della legge, tra l’al tro, si legge: «Nell’asse gnazione dei contributi si terrà conto delle esigenze connesse allo sviluppo del le attività teatrali a ge stione pubblica, cooperati vistica, privata e di speri mentazione, anche in rap porto all’attuazione delle iniziative intese a realiz zare un ampio decentra mento delle attività stesse. Una parte non superiore al 10 per cento dello stan ziamento integrativo pre visto dalla presente legge viene erogata, limitata- mente all’anno 1977, agli spettacoli di circo eque stre ». Gli spettacoli raggiungeranno: Ancona, Jesi, Senigallia, Bologna, Atina, Prosinone, Arpiño, Casamari, Ceccano, Perugia, Spoleto, Città di Castello, Todi, Terni, Arrone, Sangemini, Nami, Amelia, Napoli, Avellino, Salerno, Benevento e Caserta. teatro, profesionale, che operano la ricerca in campo teatrale, in tesa come sperimentazione di nuove tecniche e dì nuovi conte nuti drammaturgici. E New York? Che c’entra VETI? italiano d’avanguardia. Quanto a New York... bè, il Fe stival che ITETI organizza per il terzo anno consecutivo è, secondo noi, un'operazione di diffusione della nostra cultura teatrale ne gli Stati Uniti, e soprattutto in una città, come New York, che, da sempre, è considerata una del le capitali mondiali dello spetta colo. Anche qui intendiamo pre sentarci con veste nuova. Non sarà un Festival di teatro tradi zionale, ma porterà ima parte delle nuove esperienze del teatro italiano d’avanguardia. Quali sono gli altri punti signifi cativi del rinnovamento? A nostro parere, i segni di rin novamento stanno nei fatti più che nelle dichiarazioni program matiche e ITETI è oggi in Italia un organismo che « opera », pur fra molte difficoltà, nei campo del teatro. L’istituzione di un centro stu di, l’intensificazione di quella che l’attività di promozione e di è propaganda de] teatro, la canaliz zazione di molti sforzi dispersivi nel campo della programmazione in linee di intervento coordinate, sono alcune delle prospettive nel futuro dell’ETT. Chissà che, in attesa della sem pre invocata legge, non si faccia prima a realizzarle, almeno alcu ne, che vedersele codificate. Eduardo ha rinunciato ad aprire a Firenze La progettata scuola di tea tro. La decisione è dovuta a motivi di salute. A Caseiana Terme si sono svolti, tra il 18 mar zo e il 21 dello stesso me se, tre giorni di dibattito sul tema « L'uso del tea tro nel territorio ». Hanno partecipato al convegno oltre trecento gruppi tea trali di base e numerosi operatori culturali. A r t i f ig u r a t iv e L a B i e n n a l e t r a r u s s i e i n d i a n i Per qualche giorno il mondo in tero s’è chiesto, trattenendo il fia to, se Carlo Ripa di Meana avreb be resistito ai russi. Ha resistito. La Biennale di Venezia, dedi cata al dissenso nei paesi dell’Est, si farà. Onori a Ripa di Meana. Aveva già resistito ai cinesi provocan doli con la proiezione del film di Michelangelo Antonioni, ai cinesi sgradito; ha resistito all’amba sciatore sovietico che parlava an che per bocca di bulgari, tedeschi dell’Est, cecoslovacchi, polacchi, lituani, estoni. Ripa di Meana che era partito con odore d’eresia si ritroverà consegnata la spada di difensore della civiltà occidentale. Ma la Biennale di Venezia vive soltanto di veti? Non se ne parla molto nel mon do dei teatri, non se ne parla tra i pittori, poco tra gente di cinema. Possibile , che se ne parli solo e soltanto tra ambasciatori, consoli, segretari di legazione, ministri? E’ divenuta, la Biennale, uno di quegli stati baltici che apparivano tavoli della e scomparivano sui Santa Alleanza o è ancora un’isti tuzione culturale? E se lo è perché Ripa di Meana, dopo più di tre anni di gestione, sì ritrova a poter vantare solo risultati « politici », quando sgra dito al Cile quando alla Russia? Per capire qualcosa in questo apparente nonsenso bisogna risa tempo arretrato. lire a qualche Bisognerebbe rileggersi le polemi che sorte attorno alla Biennale quando un pugno di « sessantot- tardi », allora coccolati da quella che gli ' indiani metropolitani e i socialisti de «(La Repubblica» chiamano, con un po’ di puzza al naso, « la sinistra storica », decise che l’arte (anche minuscola) efb, morta; che presentarla era un’ ostentazione di cadàvere; che pro pagandarla era collusione con l’ al-di-là, un’al-di-là irrazionale, me dioevale, oppio. Su questa intuizione, venuta an che a gente che con quell’al-di-là aveva trafficato (e traffica) parec chio, i partiti costituzionali deci sero una « nuova » Biennale, « nuo va » e aperta che avrebbe conti nuato sì a beccarsi i soldi di tut ti, ma li avrebbe spesi non per il cinema di Visconti o Jancso o Godard. Ma per l’altro cinema. Non per il teatro di Pinter. Ma per l’altra teatro. Non per l’arte di Calder. Ma per l’altra arte, quella legata al territorio, quel la soprattutto gradita ai disegna tori milanesi che storcendo la boc ca sulle sculture sì fanno le vil le smerciando salotti, chincaglie ria e firme sulle riviste di arre damento. Che gente per bene, come Mea na, Ronconi, Gregorettì, Gambet ti, sia caduta più volte in errore è a tutti, poi, noto. Essi dovevano cavalcare tanta di quell’« alterna tiva », tante di quelle istanze, che la fatica li sfasciava. Il pomerig gio erano spinti ad ascoltare i sindacalisti che chiedevano una rassegna di video-tapes, e la sera li aspettava, in albergo, clandesti no, magari Grotowski. La matti na, al comune assessori e consi glieri li convocavano a spiegare le operazioni e le scelte di Periini, e già un collettivo femminista di impiegate dei grandi magazzini e di casalinghe trivenete invocava la propria pedana di libertà per sceneggiare la propria condizione. Gambetti correva il mondo alla ricerca di pellicole ostiche e qual cuno già gli riempiva i cassetti di pellicola filmata in super 8 du rante gli scontri coi poliziotti. Ron coni cercava Peter Brook e il Ve neto insorgeva vociando l’uva fo- garina, con l’appoggio di comitati di quartiere, comitati di sottopor: tego, nuclei mobili di ex lagunari. E Gregotti, quello delle arti figu rative (che s’è dimesso almeno tre volte), ha dovuto resistere più Il manifesto della prima biennale veneziana, del 1895. la mostra di tutti, uno stress invincibile, da matti, perché da. una parte il sin dacato artisti (quelli legati al PCI) invocava tradizionale con il tricolore e il sindaco e dal l’altra le salottiere milanese, ami che di Ripa (avverse a Guttuso e Calabria), patrocinavano progetti di ristrutturazione di suburbi e confessioni di pittore. Un marasma? Se Grotowski lo si fosse potuto vedere solo grazie a Ronconi, se le confessioni di Chiari, pittore fiorentino, se il cinema greco o russo, cioè l’alternativa fossero sta ti il « laboratorio » veneziano, so lo veneziano, e gli uomini di cul tura e le masse avessero dovuto, per documentarsi, lì andare, bene! I soldi Meana li avrebbe spesi be nissimo. O all’opposto li avrebbe spesi ancora bene facendo l’anto logia di Guttuso, l’antologica di Rosi, l’antologica di Squarzina. Se Guttuso, Rosi, Squarzina fossero ormai un’accademia che solo Ve nezia riesce a mostrare. Marasmi, sì, ma salutari. Ed invece Venezia ha chiamato in Grotowski, quando solo noi, Italia (ma quale Italia?) eravamo rimasti gli ultimi a non sapere. Ed invece Venezia fa il dissenso russo (e qui un po’ di ragione Ar- gan ce l’ha) quando nei salotti di Milano arrivano le croste dell’ arte in esilio e già americani, in glesi, francesi si sono accaparrati i pezzi migliori. Per questo, per non saper stare « nelle cose » è sbagliata la Bien nale. E lo sbaglio l’ha compiuto quando, a partire dal ’58, è stata costretta ad allontanarsi dagli ar tisti (minuscoli), per corteggiare onorevoli, sottosegretari, baroni universitari e sindacalisti. Da questa linea del Piave, Mea na spara dunque sui russi. Batta glie di retroguardia? Sui russi non è ormai un po’ troppo di moda sparare (e fa comodo)! E perché, soprattutto, spara? Spara perché centinaia di città, paesi, villaggi del mondo hanno già strappato a Venezia il primato di « luogo di cultura » e d’avanguardia. Spara perché ormai a lui, come agli al tri, non rimane che il solo risul tato « politico ». Lasciare Venezia per barattarla con altro? E andatosene via lui? Dopo tutto Carlo Ripa di Mea na è ancora un robusto attore dal la pressione bassa. E’, se non al tro, colto, simpatico, cortese, an che charmant. Succederà, dopo, a Venezia quel lo che è accaduto (e sta accaden do) alla Scala? Succederà quello che diviene giusto succeda: l’odiatissima acca demia buttata già a calci dalla finestra, rientrerà in gondola, tra un festival cinematografico, una sfilata di bellezza, un’opera di Gut tuso, un sorriso televisivo di Ugo Gregoretti, e l’intera piazza San Marco trasformata in palcosceni co per accogliere Bruno Cirino o Gian Maria Volontà. Che legge ranno Brecht. Adesso. Quando lo fanno anche in chiesa con la be nedizione degli uffici culturali di tutti i « sessantot- tardi»? Di quelli non preoccupia moci. Faranno « La Comune ». No, non quella di Parigi. Una « coope rativa » che si dividerà i soldi della nuova legge del cinema, gli appalti televisivi, e lavorerà solo per film di indiani. Non quelli del le praterie. Quelli dei sottoboschi. i partiti. E Adolfo Lippi Q u a n d o l ’a v a n g u a r d ia n o n d e lu d e A r a r a t u n v i a g g i o a f f a s c i n a n t e Diciamolo: spesso, in questi 'anni, l’avanguardia ci ha deluso. Per la sua incapacità, soprattutto, di in ventare un linguaggio adeguato alle intenzioni. Per il dislivello troppo evidente fra ideazione ed esecu zione. Quanta povertà -di risultati, quanto velleita- rdsmo, all’insegna di grandi principi! 'A tante delusioni corrisponde, simmetrico, l’en tusiasmo che ha suscitato in noi « Ara-rat », spetta colo di Arte Totale -(musica, poesia, pittura e -tea tro), che ha fatto una fugace — troppo fugace — -apparizione nella -bella chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore di Milano, dal 9 al 15 marzo, con il patrocinio della 'Ripartizione -Cultura e Spet tacolo della municipalità milanese. Entusiasmo per il -livello altissimo di -questo spet tacolo, per il -rigore col quale è stato realizzato in tutte le componenti, musicale e scenica, poetica, e iconografica. -XI -gruppo ohe l’ha realizzato ha operato aU’dnse- gna -delll« avanguardia storica ». H-a inteso, cioè, pro cedere al -recupero di un patrimonio artistico del passato: non per metterlo in contrapposizione coi presente ma per sottolineare, al contrario, la conti nuità del passato nel presente. -Il termine prescelto per designare lo spettacolo è già -di per se stesso indicativo -di queste intenzioni. « A-rarat » è infatti il nome della montagna d’Arme nia dove si arenò, secando -la Bibbia, l’arca di Noè -dopo -il diluvio universale. Ma « Ararat » è anche il nome delle -riviste diell’« avanguardia storica » che videro la luce -a Monaco -di Baviera nei primi decen ni del- secolo. Incrociando mito e storia, il termine definisce -benissimo Io scopo dell’operazione, consistente — si diceva — nella -riscoperta di una cultura, quella armena, nata da sedimentazioni estremamente com plesse, nel quadro di una civiltà indoeuropea entro la -quale agirono, attraverso i secoli, tribù -tartare ed -eserciti persiani, missionari cristiani e orde turche, senza contare i mercanti e gli avventurieri della favolosa m via della seta ». Un’accorta regia delle luci ha -tenuto in penom bra -le ridondanze tardo-rinascimentali del Braman- tino, del Borgognone e del Luini, affrescatoli della chiesa di San Maurizio. In questa penombra, vi brante di fasci di ceri accesi, lo spettatore è stato accolto da volute di incenso e da melopee antiche eseguite -dalla flautista Valimi. Poi è passato nei coro, attraversando cripte quasi buie, e lo spetta colo è oominci-ato. Poesie dei -grandi lirici armeni cantate dal soprano Anita Terzian '(domani, forse, una nuova Callas, per la purezza della voce e l-’em- pdto drammatico deH’mterpretazione) ; musiche di Ludwig Bazil -(un giovane violinista-compositore ira niano -che ha studiato a Roma, aU’Accademia di Santa Cecilia, e vive -a Monaco di -Baviera); pitture e -ricerche iconografiche, proiettate su schermo in sincronia con i -temi musicali, dell’architetto Herman Vahiramian; coro a cappella diretto dal maestro Vaglieli ed esecuzioni strumentali del- quartetto di Milano. Spettacolo? Il termine, convenzionale, è inade guato. Parliamo di un viaggio, piuttosto. Alla sola condizione di essersi abbandonato ai linguaggi in- trecciati della musica, della poesia, della pittura, lo spettatore ha potuto raggiungere, come in un’Arca le pendici dell’Ararat e le vallate dell'Eufrate, e ri cevere nella sfra più profonda deH’intelligenza, quel la dell’intuizione, i messaggi di una civiltà sepolta, miracolosamente risuscitata. La classica linearità del discorso, l’intelligente mediazione (nelle compo sizioni di Bazil, nelle pitture astratte di Vahramian) dei moduli dell’avanguardia e, soprattutto, il vigore di un patrimonio artistico di grandissima qualità hanno conferito limpidi, sicuri orientamenti al « viaggio ». « Ararat », voglio dire, non s’è fermato al recupero puramente archeologico del passato, co me di solito avviene con la ricerca artistica tradizio nale; ha saputo compiere una traslocazione vera e propria dell’uomo d’oggi nel cuore di una cultura antica, il trapianto della nostra sensibilità moderna nelì’humus di una civiltà ancora straordinariamente fertile. Purificando coi filtri dell ’astratti sino d materiali d’epoca (i versi degli asciugh, i poeti nomadi che percorrevano le vallate di Taron; ¡le musiche sacre che si cantavano fra le mura della chiesa di Aght’ amar, le miniature dei monaci di Vaspourakan) gli autori dello spettacolo sono riusciti a ritrovare la sostanza vera e profonda della cultura e dell’arte armene. Le quali ¡si distinguono appunto, dicono gli studiosi, per una loro i« vocazione all'astratto », per la costante sublimazione della raffigurazione antro pomorfica nella convenzione simbolisfica. E, più oltre, nella cristallizzazione concettuale. Solo così, pur nel vortice delle influenze persiane, elleniche e musulmane, l ’arte e la letteratura armene riuscirono a distinguersi come duri, luminosi diamanti. In questo senso « Ararat » va inquadrato nel con cetto di « avanguardia storica ». Che è oggi, dopo tanti sperimentalismi pencolanti sul vuoto, un serio e solido modo per salvare l’identità dell’uomo, ri trovandone i connotati nel .tempo, alle sorgenti delle età antiche. Tutto questo ci rinvia, apparentemente, al movimento hippy, tuttavia superficiale, pago di attingere qualche! sorsata alle fonti delle antiche religioni indù, iùvelatore di .una orisi dà adattabilità nella società contemporanea, più ohe di un’autentica volontà di riconquista di valori essenziali. Ma c’è anche, accanto aNhìppìsmo alla moda, un filone più serio di. ricerca: si pensi alle interpretazioni coreo grafiche delle danze rituali indiane da parte di Bé- jart e dei suoi «Balletti del XX Secolo»; si pensi alle scorribande nella poesia orientale proposte da Luciano Berio nel quadro della Biennale veneziana, e all’interesse del giovane cinema persiano per il passato millenario delà’Iran. Anche l’« Andrej Rou- tblev » del russo Tarkovskj può essere assunto come esempio di un’n< avanguardia storica » che non tanto intende assommare e repertoriare i segni del pas sato, quanto interpretarli nel loro significato esisten ziale, e confrontarli con le tensioni del presente. ¡Non diverso è stato l’intendimento degli autori di « Ararat ». ¡Potremmo definirlo, imprestando la espressione a Béjart, una « ’messa laica per il tempo presente », alla ricerca dell’identità di un popolo. Con supplementari scambi fra l’antica cultura di riferimento e la cultura occidentale, che all’altra of fre strumenti di espressione aggiornati, come — si diceva — l’alfabeto dell’astrattismo, o le convenzioni vocali-strumentali della musica da camera. iNbn c’è .regressàvd'tà, in questa ricerca scenica del tempo perduto, perché sono immutabili nella loro essenza le meditazioni detll’uomo intorno ai grandi eventi dell’esistenza. .Di qui il fascino profondo di questo spettacolo. Sotto la cupola di una chiesa lombarda, come in terra d’esilio, pensando alla patria sopravvissuta alle invasioni, custodita nelle malinconiche vicende della diaspora, i giovani artisti di « Ararat » ne hanno ricostruito l ’immagine luminosa come gli antichi pittori, nella .barbarie del Medioevo (ma non c’è jl pericolo, oggi, di,una nuova barbarie?) impre ziosivano con l’oro delle miniature le pagine dei Vangeli, chiusi ned monasteri della valle dell’Eutfrate, .senza avvertire, nel fervore del sogno, il freddo, la fame, il buio dell’epoca. U. R. Il i« Premio Roma ’77 » ha organizzato quest’an no una grande manifestazione dedicata intera mente alla cultura della Jugoslavia con iniziative che riguardano il teatro, il cinema, la musica classica, il balletto, la musica rock, il folklore e le arti figurative. chiusa il 28 maggio a Roma. Nella foto una scena dell’opera rock « Gubec-Beg » del teatro di Zagabria, diretta dal regista Vla- do Stefanele. Accanto agli spettacoli, alle proiezioni, ai con certi e alle mostre sono stati organizzati conve gni di studio e dibattiti. La manifestazione, aperta il 21 aprile, si è S c e n o g ra fia L ’ a v v e n t u r a d i G u g l i e l m i n e t t i Le arti figurative, in base a un moderno concetto di correla zione, non hanno più frontiere. Ed è stata la caduta di queste frontiere a coincidere con quella del teatro inteso come fatto bor ghese. Contemporaneamente, non a caso, si è verificato il rifiuto di quadri con funzioni esclusiva- mente decorative. In poche paro le, così come i pittori di oggi ce dono all’esigenza di realizzare sce nografie, destinate e no al teatro, i gesti di un ballerino possono rievocare un disegno di Kandinski. Esempio emblematico di questa nuova realtà artistica è Eugenio Guglielminetti, uno degli scenografi più prolifici degli ultimi vent’anni. « prestato » dalla pittura al tea tro. Il termine prestato fu usato, la prima volta, nei suoi riguardi da un autorevole critico, in occa sione di una mostra di Gugliel minetti a Torino. Lo scenografo piemontese, che, con successo, ha stabilito, tra l’altro, un sodalizio con Ugo Gre goretti (in tandem hanno realiz zato per la televisione « Romanzo popolare » e il recentissimo « Uova fatali»), ha esposto in una galle ria della vecchia Roma, ricavata da un ex spazio scenico di Nerone. Sulle pareti, alcune delle quali umide come quelle di una can tina, sono state sistemate una set tantina d’opere, tra dipinti e scul ture, realizzate in un arco di tem Una scena de « Le uova fatali » lo spettacolo televisivo tratto (da Bulgakov. Regia di Gregoretti. Scenografie idi Guglielminetti po compreso tra il 1939 e il 1976. Allievo di Felice Casorati, Euge nio Guglielminetti, che ha superato i cinquanta, ha subito da una par te il rigore della «lezione» del maestro, dall’altra la seduzione del cubismo, che nell’immediato dopo guerra, a Parigi, gli consentì di vivere una straordinaria « avven tura » artistica. Né il superamen to attuato in seguito all’influenza di Boccioni ha rappresentato Per Guglielminetti il rifiuto di quan to aveva assimilato dal movimen to cubista. Attualmente si dedica con maggiore convinzione alla scultura lignea, della quale dise gni e quadri costituiscono una illuminante. Solitario, premessa nella misura in cui, pur sensi bile al teatro, non sopporta a lungo le luci della ri balta, vive raccogliendo frammen ti di legno, chiodi, turaccioli, per creare sculture pervase da un sen timento incosciamente cristiano fatto di dolore e di rassegnazione, mai tuttavia estraneo a un biso gno di razionalità. Una delle scul ture più significative di Eugenio Guglielminetti, un uomo rimasto nello sguardo fanciullo, ha questo titolo: «L’armadio delle memo rie». Ogni 'pezzetto di legno espri me una rinuncia, una delusione, un momento di angoscia penosa. fascino del Il teatro lo ha « -scoperto » e compreso al fianco di De Bosio, Enriquez, Albertazzi, Foà. Il suo primo impatto col palcoscenico ri sale al 1952 quando, ad Asti, col- ìaborò alla proposta di un « Anti gone», diretta da Gianfranco De Bosio. Valsero a farglielo amare, giorno dopo giorno, incontri con attori prestigiosi, tra i quali han no lasciato in lui un segno Memo Benassi e Glauco Mauri. Sono sta ti, inconsapevolmente, uno stimo lo che gli ha suggerito talune innovazioni rivoluzionarie rispet to a un -gusto del teatro tradi zionale. Le sue sculture astratte, i suoi « oggetti- » si inseriscono, con naturalezza e senza più stupi re ma suscitando pretesto di me ditazione, in questo e in quel di scorso scenico. Tra i lavori com piuti gli piace, non a caso, ricor dare la « Maria Stuarda » di Schil ler, rappresentata da Giorgio Al bertazzi e Anna Proclemer. Sempre in funzione del sodalizio creatosi tra le varie espressioni artistiche, Guglielminetti non è rimasto estraneo alle suggestioni della musica, operando così anche per il melodramma: sono sue le scenografie di m a «Dìdone ab bandonata» e di un « Don Gio vanni», andate in scena rispetti vamente al San Carlo e alla Scala con la regia di Aldo Trionfo e di Luigi Squarzina. La popolarità di scenografo, co munque, (del resto inevitabilmen te), Guglielminetti l’ha ottenuta con la televisione, dopo un esor dio coinciso con di « Moby Dick » diretto da Carlo Quartucci. I con sensi, però, ai quali sembra alieno ma che, al contrario, rappresen tano Un motivo di conforto nella sua vita conferendo momenti di stabilità al suo difficile equilibrio di artista, gli sono stati rivolti in seguito a « Romanzo popolare ». « Una scenografia ■— osserva Guglielminetti riferendosi allo sce neggiato di Gregoretti — si con cretizza -attraverso il rapporto e la intesa con un regista sensibile e capace ». Poi, quasi temendo di far torto ad altri, parla di Leandro Castel lani, di cui fu collaboratore in un televisivo « Tommaso d’Aquino ». Ricordo di averlo conosciuto du rante gli « esterni » della vita di Tommaso in un borgo medioevale del Lazio, e di essere rimasta col pita da un gruppo di sculture lignee che, accantonate in un cor tile su sassi e ciuffi d’erba, sa rebbero state utilizzate in un paio di scene. Mi apparvero aderenti allo spirito del santo e al tipo di scelte fatte da Tommaso, espres sioni di un rigore morale portato alle estreme conseguenze, e di un tormento complesso che non do vette mai aver tregua. Glielo dissi, ed egli ne sorrise, tra lusingato e incredulo, essendo in quel momen to tutti gli occhi dei presenti ri volti a Mario Scaccia, irresistibile « mattatore » di una sequenza nella quale raffigurava, con auto revolezza non priva di humour, Carlo d’Angiò, forte della propria sovranità tanto da obbligare Tom maso ad un atteggiamento osse quioso e riverente. A Torino, ignoro dove Eugenio Guglielminetti si confessi a tu per tu con la materia lignea, essendo si sempre svolti i nostri colloqui nei teatri di posa della TV di quella città. A Roma crea, con fessandosi, in uno studio di via dei Barbieri attiguo all’« Argenti na », attraverso il quale accede a quello che egli chiama il suo « ri fugio » nella capitale. Ovunque, si esprime con sincerità spietata ed umiltà esemplare. Silvana Gaudio Anche quest'anno Paolo Poli ha messo in scena un nuovo spettacolo Inteso a demistificare il gusto provinciale di certa cultura italiana: ha rappresentato, nello stile che gli è proprio, ita « Rosmunda » di Vittorio Alfieri. La regia dello spettacolo era, come (sempre, dello stesso Poli. Una scena di « A Salvatore Giuliano », messo in scena dalia Cooperati va « Spaziozero », con la regia di Lisi Natoli. Non si tratta della storia del noto bandito: viene messa in luce piuttosto la figura da cui si ricostruiscono e si distruggono insieme li [pezzi, le lmmagini> le tracce, di una storia presente o assente aito stesso tempo. L a s ta g io n e te a tr a le a P a r ig i A d a m o v e C o c t e a u d u e g r a n d i r i t o r n i di Lorenzo Bocchi PARIGI, Per inaugurare la stagione parigina del Théàtre National Populaire, emigrato da qualche anno a Lione, Roger Planchon ha scelto il montaggio di testi di Arthur Adamov sotto forma di biografia che egli aveva composto in onore dell’amico morto tra gicamente nel 1970. Per questa sua attesa puntata nella capitale ha cercato di sfruttare tutta le pos sibilità offerte dal palazzo Chaillot. Gli spettatori hanno così assistito, per tre quarti d’ora, davanti a palchi costruiti nel grande atrio del « tempio » santificato da Jean Vilar e sconsacrato dai suc cessori, alla rappresentazione di scene delle prime commedie di Adamov, La parodie, Tous contre tous, La petite manoeuvre. Implacabilmente in piedi: l’Orlando furioso che Luca Ronconi aveva presen tato, nelle vecchie « halles » di Parigi, all’indomani del maggio ’68, ha lasciato traccia. Torture, rivolte, balli, repressioni, amori equi voci, in situazioni e luoghi indefiniti, tutto di que sta fumosa prefazione aveva l’aria di giustificare la contestazione che Laurent Terzieff veniva ad animare in nome dello stesso autore. Adamov, in fatti, aveva rinnegato questa prima fase del suo teatro — « opere astratte, angosciate, metafisiche » degli anni cinquanta, quelli che hanno visto sorgere la stella Beckett e la luna Ionesco — per « tentare di far posto alla storia e di esplorare il campo so ciale » alla luce delle due fiaccole, il marxismo e il leninismo, fino a giungere, in una terza fase, ad un teatro più vicino alla complessità della vita nel la quale « psicologia e politica si sovrappongono, si sfiorano, si intervertiscono ». E’ finalmente seduti sulle poltrone del teatro che gli spettatori hanno assistito alla rievocazione di questi due periqdi attraverso le reminiscenze di un personaggio, Henri, gemello di Adamov e incar nato dallo stesso Terzieff. I testi, presi dalle me morie del drammaturgo e da altre sue commedie, illustrano la lunga divagazione, dalle sponde del Mar Caspio alle rive della Senna, di un malato in- curabile, di un infelice che non voleva né sapeva diventare adulto, che ha avuto paura di tutto, del padre autoritario e della madre assente, della po vertà e delle donne, paura soprattutto di vivere. Un sogno trasformato in incubo al quale le ingegnose scene di Patrick Dutertre e di Paul Hanaux for niscono uno sfondo da sinistra oleografia. Gli altri interpreti sono Maud Rayer, Marie Christine Bar- rault e Jean François Balmer. Lo spettacolo si in titola « A. A. théâtres d’Arthur Adamov ». Ma, no nostante il fervore celebrativo di Planchon, A. A. non appare il B. B. (Bertolt Brecht) dei francesi. Anche Jean Marais, che mancava da qualche tempo dal palcoscenico, ha voluto rendere omaggio ad un vecchio amico defunto. Ma non ha composto, come Planchon, un collage (al direttore del T.N.P. è stato rimproverato di aver confuso, nella nebbia, il sottomarino Adamov con la corazzata Potiemkin, e di aver dimenticato che, quando si tratta di un drammaturgo da onorare, è preferibile rappresen tare le sue opere, non un’opera scritta su di lui). Ha ripreso, all’Antoine, quei Parents terribles di Jean Cocteau che lo avevano imposto al grosso pub blico nel 1938, aU’Ambassadeurs. L’anno prima egli aveva debuttato in un’altra commedia di Cocteau, Edipo re, ina era stata proprio questa, la più com pleta dell’autore degli Enfants terribles, a procu rargli il trionfo, sia pure con l’aiuto dello scandalo. Era ancora il tempo dei « mostrisacri » : Germaine Dermoz interpretava la parte della madre (al po sto di Yvonne Debray, costretta ad abbandonarla dopo una settimana di prove per una crisi di... vino rosso), Gabrielle Dorziat quella della zia, Marcel André quella del padre, Alice Cocea quella della giovane che minaccia l’equilibrio molto instabile della « roulotte » attirando l’amore di Michel e quel lo del suo genitore. Cocteau aveva scritto la commedia per Louis Jouvet, Madeleine Ozeray, Yvonne Debray e Ga brielle Dorziat ma, dopo otto giorni di prove, l’at- tore-regista l’aveva restituita. «Non farà un soldo» aveva sentenziato. « Penso che non credesse in me » Laurent Terzieff e Marie Christine Barrault in « A.A. Teàtre d'Arthur Adamov » aggiunge oggi Marais, che l’autore voleva a tutti i costi nella parte di Michel. Il clamoroso successo aveva spinto il direttore del- l’Ambassadeurs ad aumentare il prezzo dei posti. Cocteau aveva allora deciso di invitare ogni sera, gratuitamente, un certo numero di studenti della capitale designati dai loro professori. Un consigliere municipale aveva gridato allo scandalo, accusando il poeta di istigare i giovani al vizio con una com media « incestuosa » e costringendo la « roulotte » a cambiar teatro, perché l’Ambassadeurs appartene va al Comune di Parigi. Il Marais sessantatrenne è passato, trentotto anni dopo la prima rappresentazione dei Parents terribles, dai panni del figlio a quelli del padre. Michel, ora, è François Duval, un giovane che ha veramente l’aria di essere il figlio di Jean Marrais, Catherine Silhol è l’avvenente perturbatrice, Lila Kedrova la madre, Madaleine Robinson la zia Léo- nie. La prova della ripresa era temibile, nonostante le sollecitazioni della moda « retro ». Le rughe di una commedia sono meno facilmente camuffabili di quelle di una ex-bella signora. /Inoltre quello ohe era parso terribile, scandaloso, provocatori» nel 1938 rischiava di diventare ridi colmente ingenuo in questo nostro tempo di dila gante permissività: come ammettere ohe si faccia tanto scalpore in quella scombinata famiglia della «' roulotte » perché il ventiduenne Michel non è rien trato a dormire a casa una notte, o come credere che quel ragazzone covato da una madre possessiva diventi senza saperlo l’amante dell’amante del pa dre? La prova è stata brillantemente superata. Ha confermato le qualità di scrittore di prim’ordine, di formidabile dialoghista, di affascinante narratore di favole moderne dell’enfant terrible Cocteau. Denis LI orca non ha certo potuto conoscere Fran cis Scott e Zelda Fitzgerald, l’esplosiva coppia ame ricana che le nuove generazioni non si. stancano di scoprire tra le vecchie fotografie degli anni folli, le fantasie delllArt Déco, i classici del jazz. Provando un'accesa simpatia per il romanziere stroncato da un infarto a Hollywood nel 1940, a soli quarantaquat tro anni, e soprattutto per sua moglie, ha scritto una commedia sotto forma di taccuino d’appunti e l’ha messa in scena al Theatre de la Piaine, con scene lussuose, abbondanza di costumi « retro », abili giochi di luce, movimenti coreografici -(regolati da Serge Keuten) e accompagnamento di -un formida bile suonatore di tromba, Patrick Artero. Come ambiente di fondo ha scelto la sala comune di un ospedale psichiatrico della Carolina del Sud, quello nel -quale Zelda è morta. Llorca ha affidato ad interpreti femminili anche i personaggi maschili. Anne Alvaro è Zelda. Le altre attrici Claude De- Laurent Terzieff, Marie Christine Barrault, Maude Rayer, Jean François Balmère in « A.A. Téàtre d'Arthur Adamov », gli-ame, Denise ’ Peron, Hélène Arié, Èva Saint Paul e Maria Verde sostengono varie parti di tutti e due i generi, anche quelle di Francis Scott e di Ernst Hemingway. Bisogna essere dei « fans » dei Fitzge- ral-d e dei loro scritti per poter seguire tutte le acro bazie di questo continuo flash back ohe ci riporta, con ¡i due coniugi, negli Stati Uniti, su un piroscafo, a Parigi o sulla Costa Azzurra, per comprendere fino in fondo il tormento di Zelda, morta pazza per esser stata troppo bella, troppo viziata, per aver sfidato l ’uomo amato proprio sul suo terreno, quello della letteratura. Tutte donne anche sulla scena del Petit Qrsay per l ’omaggio — giapponese — al marchese De Sade, rivestito in francese dallo specialista André Pieyre de Mandiargues. « Madame de Sade » è il sorpren dente frutto della lettura che Yukio Mishina aveva fatto della biografia del « divino marchese » scritta da Tatsuhiko Shibusawa. Mishina, quella specie di Drieux La Rochelle nipponico che doveva far ¡hara kiri nel novembre 1970 per delusioni nazionaliste, aveva seguito il racconto dell’avventura terrena del l’autore di Justine sotto l’incubo di un dilemma. Perché, aveva continuato a chiedersi, la moglie del Sade, dopo aver fedelmente visitato e atteso di ma rito per ben diciotto anni, lo abbandonò il giorno stesso in cui egli uscì (per qualche tempo) dal car cere? La risposta del futuro suicida è piuttosto com plessa. (L’enigmatica donna, alla quale l’esistenza e le attività scandalose del consorte ponevano grossi pro blemi, era passata da ima fedeltà banale ad una fedeltà di essenza superiore. Madame Bovary era Flaubert, « Il marchese de Sade sono do » ci dice questa insospettata Renée. Chiudendo la porta della sua stanza allo sposo prematuramente invecchiato nelle celle del forte di Vincennes e della Bastiglia, essa decide di dedicare di resto della sua vita al culto infernale del vero Sade, un nuovo anticristo la cui profezia annuncia il regno del male, del sesso e del sangue. Anche questo è uno spettacolo per gli «addetti ai lavori», un divertimento austero per happy few. Sade visto attraverso sei donne, tre realmente esistite e tre immaginarie: la moglie, che incarna la fedeltà coniugale spinta all’estremo, la suocera sim bolo deH’ordine sociale e della moralità, la cognata ohe rappresenta la -femminilità, due amiche Madame de iSimiane fia religione) e (Mademoiselle de Saint Fond i(ia lussuria), infine la cameriera Charlotte (il popolo). Daniele Lebru è la misteriosa -Renée, Louise Conte, Madame de Montreuil, la -madre, Mareiile Deloroix -1-a candida che soccombe alla corte del cognato durante un viaggio in Italia, Eleonore Hint l’amica esitante -tra il confessionale e l ’alcova, Pa scale Robert la Merteuil di queste Liaisons dange- reuses viste da -occhi nipponici, Marie Hélène Dasté il coro popolare. L a s ta g io n e te a tr a le a P a r ig i S i t u a z i o n e d i A d a m o v 1950: al Théâtre des Noctambules di Parigi, dov’era stata allestita poco prima La Cantatrice chauve di Ionesco, Jean-Marie Serreau metteva in scena, sul finire di novembre, La Grande et la Petite Manoeuvre, dell’ esordiente Arthur Adamov. Tre sere dopo, allo Studio des Champs- Elyséees, dello stesso Adamov un regista non ancora famoso, Jean Vilar, rappresentava L’in vasion. E dichiarava ai giornalisti: « Posons la question: Adamov ou Claudel. Je réponds Ada mov ». Non era il caso di porre il problema in quei termini, anche se a Vilar interessava che si i riflettori sullo sconosciuto Ada puntassero mov. Fatto sta che la frase è rotolata fino a noi e ce la troviamo davanti più di un quarto di secolo dopo, a sette anni dalla tragica morte di Adamov, sollecitati a valutare la situazione dell’, autore di Paolo Paoli dall’ omaggio che Roger Planchon gli ha reso per l’inaugurazione della stagione parigina del Théâtre National Populaire nuova formula. La risposta oggi è Claudel, su questo non ci sono dubbi. Ma è ancora possibile riprendere il teatro di Adamov? E quale teatro? Le prime pièces surrealiste? Quelle di taglio espressioni sta, le fra Strindberg e Wedekind? Oppure opere politicamente impegnate, a tesi, scritte dopo la conversione al marxismo, a partire dal 1954, tenendo d’occhio Brecht? Sono domande alle quali l’omaggio di Plan chon — chiuso negli schemi di una biografia agiografica, dunque acritica, appoggiata a un montaggio di testi — ha risposto soltanto par zialmente. Con sufficiente chiarezza, però, per rendersi conto che Arthur Adamov non ha sa puto diventare il Brecht francese. Che di lui rimane un teatro d'incubo e di ossessioni più che d’impegno sociale e di coscienza politica, vicino ad Artaud nei momenti più sofferti, ag gregato alla drammaturgia dell’assurdo. E’ una indicazione che il giovane teatro italiano farà bene a tener presente quando vorrà — se vorrà — tentare qualche esplorazione nell’« arcipelago Adamov ». Dopotutto, all’allestimento di La Po- litique des restes presso lo Stabile di Genova (primavera del ’66, regìa di Paolo Giuranna), non è seguito qui da noi un interesse costante per la sua opera. Nonostante che alcune sue pièces — le prime, quelle meno « corali » — si prestassero a ricerche sceniche stimolanti, su palcoscenici sperimentali. Sono queste pièces — più che gli ambiziosi « affreschi » politico-sociali come Paolo Paoli o Printemps 71 — che espri- L a r i v i s t a c h e d a o l t r e 5 0 a n n i r a p p r e s e n t a N u o v a s e r i e l a v o c e p i ù l i b e r a d e l T e a t r o I L D R A M M A mono la natura autentica di Adamov dramma turgo. Anche se Adamov le aveva rinnegate quando, essendo approdato alla scoperta della nevrosi e della solitudine degli altri partendo dalla propria nevrosi e dalla propria solitudine, aveva creduto di poter fare del « teatro pub blico », di solidarietà, di denuncia politica. Le intenzioni erano buone. Scriveva nel ’55, a proposito di La Parodie : « Irritato per l’im marcescibile vitalità del cosiddetto teatro psi cologico, che continua ad ingombrare tutte le nostre scene, ho voluto elevare la mia prote sta ». E nel '66, spiegando l'ideologia teatrale di Paolo Paoli: «Non si tratta di ottenere la adesione del pubblico mostrandogli uno spet tacolo positivo; si tratta di ottenere che neghi il proprio consenso ad uno spettacolo negativo ». Benissimo anche quando, sempre nella presen tazione del Paolo Paoli, regolava i conti col formalismo di una avanguardia tutta esteriore, disancorata dai veri problemi dell’uomo d’oggi: « Non ho più fiducia in quest’avanguardia in gannatrice, certo abilissima nell’utilizzar e tutte le nuove tecniche, ma che non ha ancora capito che non ci sono tecniche che tengono se l’auto re non si pone al servizio dì una ideologia ». Quando scriveva queste cose Adamov era già lontano dall’affermazione (formulata nel suo saggio su Strindberg) che «fra nevrosi e arte c’è un rapporto indiscutibile ». Il vero problema — sosteneva dopo la conversione al teatro di impegno polìtico — è « come utilizzare le pro prie nevrosi ». Ricerca ostinata, condotta alla insegna di un’onestà intellettuale che è fuori discussione; senonché non basta ingabbiare le proprie nevrosi fra le sbarre di solidi principi rivoluzionari per fare del vero teatro politico. Il limite del tentativo di Adamov è questo; non per nulla — come ha giustamente rilevato Ge- neviève Serreau nella sua ormai classica Hi- Ecco in Ping-Pong), stoire du Nouveau Théâthe — i risultati più persuasivi della drammaturgia adamoviana so no quelli rimasti a mezza strada fra nevrosi ed engagement politico (come in uno spazio personale ed inconfondibile nel qua le il « messaggio » è incrinato dal dubbio, la tesi è sottoposta a verifica esistenziale. E la ideologia, magari, è poco più dell’alternativa sconosciuta. Una fede, una speranza. il vero Adamov: quello che scriveva in L’Aveu, subito dopo la fine della guerra: « La mia sola possibilità è dì proiettare sulla scena i miei fantasmi, di dare concreta rappre sentazione al terrore che mi soffoca, per libe rarmene, almeno in parte ». In quelle pagine Arthur Adamov (che si portava dietro, com'è noto, una complicatissima storia, fonte delle sue nevrosi: eri nato nel 1908 a Kislavotsk, nel Caucaso, da una ricchissima famiglia, con pozzi di petrolio a Bakou, poi rovinata dalla rivolu zione) ripudiava ed enunciava — in termini che avrebbero potuto sottoscrivere Beckett e Ionesco — i motivi delle prime pièces: angoscia meta fisica, sentimento dell’irrealtà dell’esistenza, ri fiuto dei condizionamenti sociali, autoumilia- bóne, solitudine. E’ qui, pensiamo, che bisogna ritrovare il vero Adamov. Quando, più tardi, avendo voluto coniugare Freud e Marx, ha preteso di fare del teatro « uno strumento che consentisse agli uomini di prendere coscienza delle loro prigio ni, per distruggerle », è stato travolto nella dimensione epica dell’impresa. E' salva, si di ceva, l'onestà degli sforzi, giustamente celebra ta da Roger Planchon sul palcoscenico del T.N.P.: ma Adamov resta nella storia del Nou veau Théâtre come il testimone di una crisi, non come il portatore di nuovi messaggi. E così, soltanto così, possiamo ritrovarlo. Ugo Ronfani A B B O N A M E N T O A N N U O L . 15.000 ( L 'a b b o n a m e n to p u ò p a r t ir e da q u a ls ia s i m e se ) S p e d ite l'im p o r to a P ia z z a C a m p o M a rz io , 5 - 00186 R o m a o p p u re u s a te il C o n to c o r re n te a « Il d ra m m a » p o s ta le n . 23931000 in te s ta to L a s ta g io n e te a tr a le a N e w Y o r k « S l y F o x » : f a r s a d e l l a c u p i d i g i a di Umberto Bonetti Trish van Devere e George C. Scott in «Sly fox» di Larry Gelbart dal « Volpone » di Ben Jonson. NEW YORK SLY FOX, di Larry Geibairt, tratto da « Volpo ne » di Ben Jonson. Regia di Arthur Penn. Scene e luci di George Jenkins. Costumi di Albert Wolsky. Produzione di Sir Lew Grade, ¡Martin Starger e The Schubert Organization. Interpreti principali: George C. Scott, Hector Elizondo, Trish Van Devere, James Gallery. La nuova commedia di Larry Gelbart, famoso so prattutto per testi televisivi di grande successo po polare, è un adattamento, anzi un’amerieanizzazione, da kc Volpone » di Ben Jonson. E se per amerieaniz- zazione intendiamo qualcosa che piaccia agli ame ricani, dandogli un tipo dà spettacolo di altissima professionalità ma nello stesso tempo di facile im mediato accesso e comprensione, dobbiamo dire su bito che l’operazione è riuscita in pieno. Il pubbli co si diverte davvero, e molto, dal principio alla fi ne; il critico europeo, che pure vorrebbe dal teatro un tipo di spirito più raffinato, meno diretto, me no — diciamo — televisivo-popolare, meno, a volte da avanspettacolo, si scorge alla fine ohe si è di vertito pure lui, che è scoppiato a ¡ridere più e più volte, che ha ammirato la regia, la messa in scena e soprattutto la recitazione, di tutti. E visto che in questa commedia quello che vogliono tutti, dal pro duttore all’ultimo attore, è divertire, e forse anche divertirsi, Sly Fox si può considerare una delle ope re che più hanno fatto centro a Broadway negli ul timi anni. Il progetto di un adattamento da Volpone (che non è nuovo neppure per Broadway: nel 1964 ci fu un musical intitolato « Foxy ») nacque da un’idea di Arthur Penn che voleva produrre uno show tele- visivo a (beneficio dell’Actors Studio e per questo si rivolse a Larry Gelbart, che preparò il testo pen sando solo alla televisione. Ma poi i due non rag giunsero un accordo con le reti televisive america ne, e sottoposero la cosa al produttore inglese Sir Lew Grade '(noto in 'Italia per le coproduzioni con la ¡Rai del « Mose’ », k< La vita di Gesù », « Le radici della mafia»), che si entusiasmò tanto che decise di tentare la strada di B-roadway invece che la te levisione. Altri due produttori di grandissimi mez zi e talento, Martin Starger e The Schubert Orga- nization, si associarono, e ciò rese possibile affron tare la produzione in grande stile e, ripetiamo, con una professionalità che — abituati come siamo a forme peraltro validissime di teatro giovane, spe rimentale ecc. — non è più molto frequente di ve dere in -teatro, ma che, quando c"è, si sente e fa piacere. La storia è molto vicina a quella di Volpone, an che se è diversa la fine e l’ambiente: nel -1800 a San Francisco, alla fine dell’epica corsa all’oro, Foxwell J. 'Siy, -ricco e senza figli, finge di essere, con l’aiu to di un servo, -Simon Able, sul punto di morte, per strappare regali e favori (ma anche — o soprattut to? — per divertirsi) da una -mezza dozzina di figu re 'Che si -alternano -al suo capezzale con la speran za, dipinta di una car-icaturaie cupidigia, di essere eredi della fortuna del vecchio: il suo avvocato, che gli si aggira intorno con movenze e aspetto da ne ro uccello del malaugurio; il suo contabile, che pur cieco di gelosia, è disposto -a cedere al vecchio la gio vane moglie pur di compiacerne « gli ultimi deside ri »; il vecchio mercante, così avaro da -tener in ca sa un gatto morto perché w sa quanto costerebbe mantenerlo? », ma che non esita a firmare un te stamento a favore del vecchio, sicuro non solo del la reciprocità ma anche che l’altro se ne andrà pri ma di lui; una matura donna di vita che vuol far firmare al finto agonizzante un contratto di ma trimonio. Ma l’intervento del figlio del mercante, che si è visto spogliato dell’eredità del padre, trascina Fox well Sly in -tribunale sotto l’accusa di aver tenta to di violentare la moglie del contabile, ma il giu dice assolve pienamente l’ammalato. Il quale, tor nato a casa, si dà finalmente per morto tra il giu bilo di quelli che attendono l’apertura del testamen to. Ma l ’erede designato è -invece il servo, che a stento si sottrae all'ira degli -altri e che alla fine vorrà beffare il vecchio tentando di ereditarne dav vero la fortuna, ma invano : Foxwell J. Sly risulte rà ancora una volta i-1 più furbo. George C. -Scott è Foxwell Sly e raramente ci è stato dato di vedere un -attore più adatto a un per sonaggio. Sia nella parte in cui fa l ’ammalato, sia nei colloqui con il servo, c’è in Scott una -tale ca rica di gioia per lo scherzo che sta combinando, una tale sottile cattiveria, un ghigno così sadico sul vol to, che c’è da domandarsi davvero se sta recitando per divertire il pubblico o per divertirsi lui. E’ una specie di pescecane all’attacco a cui nulla -riesce più impossibile a causa della cecità provocata ne gli -altri dalla cupidigia, una specie di malefica in telligenza -lussureggiante di scherzi ed enormemen te compiaciuta di se stessa. Non conoscevamo pri ma Scott -attore di teatro in ruoli comici, ma ci è sembrato, al di là del dialogo, di una bravura, dì una espressività degna dei grandi eroi del cinema comico muto, e perfino fisicamente, a tratti, oi ha ricordato il migliore Buster Keaton. -Scott interpreta anche la parte del giudice con al trettanta maestria e altrettanto divertimento, una caricatura della caricatura del giudice di frontiera, violento e sbrigativo. Heotor Elizondo, attore molto noto a Broadway, è i-1 -servo, il Mosca di Volpone, e anche da lui spriz za questa -gioia satanica dello scherzo. Furbo, at tento ad ogni sfumatura, è il degno compagno di Sly Scott per tutta la durata. della commedia. Molto bravi -anche tutti -gli altri, dai servi ai sup posti eredi, al capo della polizia (James Gallery) che, seppur in un ruolo marginale, è di -una comi cità travolgente, nelle sue manie sessuali che non -riesce a -reprimere neppure in -tribunale: i-1 solo rac conto della tentata -violenza è sufficiente a fargli perdere il controllo d-i se stesso e ce lo -ritroviamo quasi nudo che si -butta sulla donna durante -l’in- terrogator-io. Tutti hanno -quel carattere di carica ture -che credono nel proprio ruolo, ohe rende lo spettacolo così -agile e credi-bile. E questo va ovvia mente a merito del regista, Arthur Penn, più noto in Europa nel cinema (soprattutto per « Bonny and Glyde»), ma che anche in teatro ha firmato delle produzioni di alto valore, acclamate e premiate dal la critica '(da -ricordare principalmente la sua regia di «< Al-1 -thè way home », -tratto da Tad -Mostel dal -libro di James Agee -« A death in -thè fami-ly » e vin citore di un premio Pulitzer). Perché è Arthur Penn che ha visto giusto, in questa commedia, puntando -tutto sul puro divertimento, rinunciando a grandi finezze per ottenere, per la via più diretta, un risul tato difficile: la festosità più completa dello scher zo, l’abbandono degli attori ciascuno al proprio e- stro per renderli partecipi di un testo che si fa credibile proprio -quando più è caricaturale. Larry Gelbart, l’autore del testo, è noto in Ame rica soprattutto per il successo della sua serie tele visiva « MjA.S.H. », ma non nuovo al teatro: un suo adattamento in musical da Plauto, « A funny -thing happened on thè way to thè forum », aveva ottenu to i più importanti -riconoscimenti dalla critica, men tre altri suoi -titoli >(!« The conquening hero » e « Ju- mp ») non avevano incontrato -i-1 favore del pubbli co ed erano rimasti in cartellone solo poche sere. Il testo di -Sly Fox, come abbiamo detto, può anche essere giudicato, a tratti, un po’ troppo facile e per sino volgare, ma di certo fa -ridere ed ha uno straor dinario senso del ritmo; è vero che Volpone di Ben Jonson è. ben più sottile e intelligente, ma è an che vero che, per il pubblico di -oggi, fa più presa Sly Fox. Non ci stupiremmo di vederlo presto sulle scene italiane, perché in una ¡buona traduzione e con l’alta professionalità di certi nostri — pochi — pro duttori e la sicura vena comica di certi nostri at tori, sarebbe anche da noi un grande successo. La commedia è in scena a -New York dal -13 di cembre, ed è sempre « -tutto esaurito ». Tutti i gior nali, dalle -riviste specializzate ai quotidiani, ne han no parlato con vero entusiasmo, e George C. Scott è salito a vertici di popolarità straordinaria: nell’ ultimo numero del « New York Times Magazine » (la rivista domenicale del -New York Times) gli è dedicata la copertina e ben sette pagine di intervi ste e fotografie. L a s ta g io n e te a tr a le a N e w Y o r k T e n n e s s e e W i l l i a m s s e m p r e a t t u a l e NEW YORK I personaggi « importanti » di Tennessee Williams, quelli su cui generalmente si basano le sue opere, si possono dividere in due categorie: quelli che vi vono sul piano della realtà, e quelli che vivono sul piano fantastico, che solitamente coincide con il piano dei loro desideri irrealizzati. La grandezza di Tennessee Williams sta nel fatto che, nonostante il ripetersi di questi due gruppi di personaggi da un’opera all’altra, essi vengono mesco lati e ridisegnati in un’affascinante infinita diversità di contesti. Se nel famosissimo « Un tram che si chiama desi derio » la tensione drammatica era data dallo scontro di due personaggi dei gruppi opposti (il « realistico » Kowalsky e Bianche Du Bois, perduta in fantasti cherie quasi vicine alla follia), nella « Notte dell’igua na » non c’è scontro fra i due piani: il dramma si concentra su due personaggi appartenenti entrambi al piano fantastico; l’intervento dei realistici è mar ginale. E d’altra parte, nel secondo atto, c’è un passaggio chiarificatore, quasi un’enunciazione teori ca degli interessi di Tennessee Williams: Hannah: «La parola fantastico sembra che sia la sua parola favorita, signor Shannon ». Shannon: Beh, sì, vede... noi viviamo su due livelli, signorina Jelkes, quello realistico e quello fantastico, e quale dei due sia quello reale, veramente... ». Hannah: «Io direi entrambi, signor Shannon». Shannon: « Ma quando uno vive sul livello fanta stico come ho fatto io ultimamente, ma è costretto a operare sul livello realistico, è allora che uno è ossessionato, quella è l’ossessione... ». Ecco, questo è il tipo di personaggio che interessa Williams, l’dndividuo che si sente ossessionato per ché, per quanto possa essere convinto delle sue fan tasticherie, per quanto possa riuscire per un certo periodo non solo a vivere ma anche ad operare solo sul piano fantastico, sa che prima o dopo si ritroverà a dover affrontare la realtà, e che tanto peggiore sarà lo scontro quanto più convincente era sembrato il piano fantastico. Questa è la caratteristica più profonda della sua tragicità: il sapere che il crollo ci sarà comunque prima o dopo, la coscienza di stare lottando non per evitarlo, ma per rimandarlo il più possibile. Sono personaggi complessi, caratterizzati da rifiu ti e slanci, da dubbi e certezze, da speranze e dispe razioni; sono destinati all’infelicità, di certo ad una perenne insicurezza, perché anche quando sembrano totalmente a loro agio sul piano fantastico, noi sen tiamo che, in fondo, sono tesi in un continuo sforzo di credere alle loro fantasie, è come se, in altri tempi, ci si fossero andati affezionando sempre più, fino a non' poterne fare a meno: sono diventate la loro vita e ci restano aggrappati finché ci riescono. C’è, sotto questo punto di vista, un aspetto che potremmo definire « negativo » nei personaggi di Williams : essi ci vengono presentati quando già sono presi dalle loro fantasie, quando già, in misura mag giore o minore, non possono più fame a meno. Quello a cui assistiamo è la fase finale della battaglia, e cioè la sconfitta. Anche se veniamo a conoscere, come nel caso dei personaggi de’ « La notte del l’iguana », in tutto o in parte le loro storie prece denti, sappiamo poco o nulla di come e quando è cominciato il loro processo di passaggio dal piano della realtà a quello fantastico, soprattutto del perché ci si sono aggrappati così strenuamente e così irreversibilmente. Ma iforse anche in questo sta l’arte di Tennessee Williams: nonostante che ci ven gano presentati quando il loro destino è già segnato, nonostante che quindi si tolga praticamente alio spettatore quella forma istintiva di partecipazione che consiste nel « fare il tifo » perché escano vitto riosi dalla loro lotta interiore, i personaggi ci ven gono proposti con un’umanità, con una compassione, con un amore che, nelle opere migliori, coinvolgono immediatamente lo spettatore, gli danno cioè altre forme di partecipazione istintiva: da un lato la tendenza a stare dalla parte del più debole, anzi decisamente del vinto, dall’altro il riconoscersi nei personaggi, il sentirsi solidali con loro, perché nes suno di noi « potrebbe scagliare la prima pietra »: chi infatti potrebbe dire di non aver mai vissuto un pezzetto di vita su piani fantastici, di non aver mai confuso per un attimo i propri desideri con la realtà, di non aver mai provato una paura, come una vertigine di fronte alla scoperta di quanto facil mente, in certe circostanze, ci potremmo ritrovare disancorati dal nostro comodo livello realistico? « La notte dell’iguana » è, di certo, fra le opere migliori di Tennessee Williams, di quelle, per l’appun. Silvia Miles Richard Chamher- lain e Dorothy Me Guire in «La notfe dell'iguana» di Ten nessee WilliaMns. to, che coinvolgono di certo lo spettatore. L’azione si svolge in una località del Messico con clima tropicale nel 1940, in un albergo di proprietà di Maxime Faulk, rimasta vedova di recente e affamata di compagnia maschile. All’albergo arriva, febbrici tante, stanco e soprattutto disperatamente stufo, Lawrence Shannon, ex reverendo della chiesa episco pale, « licenziato » a causa dei suoi rapporti con una giovane parrocchiana e per aver bestemmiato dal pulpito. Adesso è nelle vesti di una guida turistica, in rotta con il gruppo che sta conducendo, formato da signore del Texas, che non vogliono scendere all'albergo e che infatti lui lascia nell’autobus ai piedi della collina, dopo aver sottratto le chiavi all’autista. Ne conosceremo solo una di queste si gnore, maestra di musica, che insegue Shannon per tentare di farlo ripartire e per accusarlo di aver sedotto una delle sue allieve. Alla fine riuscirà a far arrivare un’altra guida e a far licenziare Shannon. All’albergo arriva pure una strana coppia: la si gnorina Hannah Jelkes, giovane zitella del New England con il nonno novantesettenne (chiamato «Nonno» anche nell’originale inglese), «il più vec chio poeta vivente ». I due vanno in giro per il mondo sopravvivendo con quello che riescono ad ottenere negli alberghi dalla recitazione delle poesie del nonno e dalla vendita degli acquarelli di lei. Fra Shannon e Hannah si instaura un rapporto di simpatia, di sincerità, anche di rispetto: è solo lei che riesce a calmarlo nei suoi momenti di maggior agitazione e di febbre. Alla fine il nonno riesce a comporre un’ultima poesia dopo anni di sterilità e, appagato, spira dolcemente; Shannon, licenziato e arreso, decide di restare all’albergo cedendo agli evidenti desideri di Maxine, Hannah resta come stordita dalla domanda che, di fronte alla morte del nonno, è costretta a porsi e che non vuole entrare nel suo piano fan tastico: « Che fare adesso? ». C’è qualche altro personaggio marginale: un gruppetto di turisti tedeschi che brindano felici alle prime vittorie della Germania nazista, due aitanti camerieri factotum che catturano un iguana e lo legano sotto alla veranda per farlo ingrassare e poi mangiarlo. L’iguana che tira la fune e si agita nel buio è visto da Williams come simbolo della condizione umana. Joseph Hardy, figura notissima nel teatro ame ricano, ha diretto con mano molto sicura, dando un'unità e compattezza che, soprattutto nel primo atto, forse l’opera in sé non avrebbe, dando corag giosamente una freschezza, merito di uno studio attento del testo e della sua indubbia attualità, come se si trattasse di una novità e non di un lavoro che ha più di quindici anni di vita. Abbiamo detto coraggiosamente perché Hardy ha avuto il coraggio di affrontare la regìa senza timori reve renziali verso le edizioni passate, soprattutto senza pudori verso la « grandezza » dei temi trattati, ma anzi puntando proprio su questa grandezza in modo inequivoco, e questo coraggio ha saputo tra sfondere negli attori, che danno infatti una reci tazione più diretta e scoperta che sottile, ma che probabilmente è quella che più si addice a Tennessee Williams, le cui opere sono tagliate su personaggi che certamente non necessitano di molte sottigliezze per farsi capire. i(Viene fatto di pensare, risalendo dagli attori al regista e dal regista all’autore, al « coraggio » che questi deve avere se continua ad affrontare impavido, con onestà con chiarezza e con successo, quei « grandi » temi che sono alla base dei nostri problemi esistenziali, temi che, se si pensa alla povertà, alla compiaciuta oscurità e vuotezza e inutilità di tanta letteratura e teatro attuali europei devono essere evidentemente terro rizzanti per chi non è più che sicuro delle proprie capacità di scrittore). ¡Richard Chamberlain, notissimo per le sue in terpretazioni televisive Kdottor Kildare) e cinemato grafiche (era lui il Tchai'kowsky di Ken Russe!), dà di Shannon un ritratto sofferto, credibilissimo fisicamente nella sua magrezza, nei suoi brividi, nei suoi sudori, nella sua trasandatezza, e spiritualmen te nei suoi dubbi, slanci, disperazioni. livello fantastico con sicurezza, Doroty Me Guire è Hannah, un personaggio quasi rovesciato rispetto a Shannon: Hannah vive il suo lucidità, respingendo tutti i dubbi, non volendo sentire né vedere le persone o le cose che possono mettere in forse le sue certezze. E’ sincera in questo? Pro babilmente no, sa che corre verso il crollo ancora più in fretta di chi dubita, ma sa anche che quel crollo è comunque inevitabile e che quindi tanto vale vivere con felicità quello che si può ottenere ■prima. Doroty Me Guire riesce proprio in questo, a farci sentire, dietro la facciata della sicurezza, dietro' il sorriso e la serenità, il nervosismo e la tensione di chi sa che la caduta sarà disastrosa. Sylvia Miles è la proprietaria dell’albergo, pra tica, decisa, sensuale, il modello del livello reali stico, ma con qualche sprazzo di pietà e compren sione per gli altri. E’ un personaggio più facile, e la Miles, anche lei nota nel cinema e nell’« off Broadway », lo rende con sicurezza e mestiere. Le scene, anzi la scena, è di un bellissimo ve rismo, un albergo non lussuoso ma piacevole, che suggerisce subito il clima tropicale della foresta. Lo spettacolo è in cartellone al « Circle in thè square theatre » di Broadway, che è uno dei teatri più attivi di New York. In due sale (l’altra è « off Broadway ») vengono presentate opere nuove o clas siche che cambiano ogni tre mesi, sempre con alto senso professionale e artistico. Il fondatore e attuale direttore artistico è Theodore Mann, che sarà il regista, alla chiusura di « La notte del l’iguana » di « Giulietta e Romeo » di Shakespeare. Nel frattempo, proprio in questi giorni, sono cominciate a Broadway le prove di un’opera nuova di Tennessee Williams, « Vieux carré » che aprirà in aprile. Si sa che razione si svolge a New Orleans nel 1940, e che il regista sarà Allan Siedelman, già esperto nel mettere in scena opere di Williams. Vedremo se, anche in questa novità, ritroveremo quella tempra, quel coraggio di continuare a par lare di cose vere e importanti che ci hanno sempre fatto apprezzare Williams così profondamente. Umberto Bonetti La compagnia dell'«Ente Teatro Cronaca » diretta da Mico Galdieri e Ida Di Benedetto ne « La buffa historìa di capitan Fracassa, recitata, cantata e ballata da comici invidiati de l'arte pe' lo sollazzo de lo popolo napolitano » di Mico Galdieri. Lo spettacolo ha debuttato con successo a Roma e Milano I l b a lle tto in I t a lia U n a s t a g i o n e d i s u c c e s s i fioccano Alla Scala con l’inizio dell’anno aria di neve e aria del balletto « Schiaccianoci », fiaba natalizia che ormai si dà in tutto il mondo da New York a Tokio, da Londra a Parigi, a Milano. Cadono i fioc chi di neve che è la danza più sug gestiva del balletto di Ciaicovski- Hoffmann-Ivanov e le edizioni, disponibile com’esso è ad essere rimaneggiato. Già nasceva (1892) contrastato e dal coreogra fo Petipa, ammalatosi, passò al- Tlvanov. Anche il soggetto ha su bito nel corso della sua esistenza i più capricciosi mutamenti. In tanti si sono studiati di cambiar lo: proprio tra il dicembre e il gennaio a Parigi Roland Petit ci ha fatto assistere con la sua com pagnia « Les Ballets de Marseille » alla sua dissacrante versione e no tizie da New York ci parlano di una nuova coreografia di Barysoh- nikov per il Ballet Theatre. La Scala ha risfoderato ¡la sua edizione che è del 1969 facendola coincidere con il ritorno di Rudolf Nureyev nella coreografia che egli stesso allestì avvalendosi di scene e costumi di Nicholas Georgiadis. Ebbene, si sa che cosa succede con le riprese, esattamente come con gli abiti smessi: ci si accorge che non vanno più bene e che neces sitano di mutamenti. Quando poi rimpianto scenico e coreografico è macchinoso, come nel caso pre sente, allora si fa veramente dif ficile mettere in moto un ingra naggio cui necessita una nuova lu- brificazione. Tanto più in un bal letto che funziona nella prima par te e che, per difetto di costruzione drammaturgica, non funzionerà mai nella seconda. Il primo atto è poetico, grazioso, caratterizzato nelle danze di socie tà e dei bambini, nel clima di fa vola dolce e sognante e le sue sce ne ti si aprono come le pagine di un libro dell’infanzia ma il secon do è ridotto ad un «divertissement» di gusto solo ornamentale nel qua le la coreografia è aH'inseguimento di uno stucchevole itinerario geo grafico (danza spagnola, araba, ci nese, russa) come di un inopinabile viaggio nei sogni della protagoni sta. Per fortuna c’è Nureyev con il suo stile, il suo magnetismo, lo spirito galvanizzatore sull’intera compagine di ballo scaligera e sul la compagna, una Merle Park, ce duta per due sere dal Royaì Bal let di Londra, ricca di vibrazioni ritmate con tecnica sicurissima, per fortuna c'è il grand pas de deux classique nel quale Nureyev stacca e punteggia a meraviglia ogni figura, cedendo alla fatica so lo nel salto e la Park gli dà rispo- -sta nervosa, per fortuna c’è un nuovo direttore d’orchestra Ashley Lawrence che ti restituisce Ciai- covski come la scena del balletto non ti faceva sentire da tempo e verso il quale sono apparse per lo meno intemperanti le reazioni di ima esigua parte di spettatori, quelli per i quali se alla Scala il direttore è nuovo, per giunta strar niero, gli si fa subito il muso du ro e si dà il caso che il più delle volte questi, alla prova dei fatti, sia un artista prezioso. Successo delirante: cascate di applausi e di fiori, pari alla durata dell’intero secondo atto... La Scala che fa rinoredibile (all’inizio di stagione, tra « Otello » e « Barbiere », si sono avute due perle) non è riuscita ad assicurarsi che per due recite sol tanto i due artisti per cui alle re pliche si sono visti Liliana Cosi e David Wall e ancora la stessa con Marinel Stefanescu. Per il primo spettacolo coreo- grafico della stagione all’Opera di Roma c’è stata poca fantasia nei nuovi responsabili delle sorti an che ballettistiche del teatro. Si so no prese due produzioni del 1966 appiccicandovi alla testa un bal letto di Baiandone del 1934 « Se- renade », nuovo per l’Ente, come allestimento, ma già rappresenta tovi quando il New York City Bal let fu ospite del teatro nel 1953. Un programma un po’ monocorde che va a ritroso da un neoroman ticismo al primo romanticismo di Bournon ville. Quante volte dovremo ripetere che Balanchine resta prerogativa di danzatori nati e cresciuti al l’ombra della sua buona stella? Se in pratica può funzionare, se un riproduttore c’è pur sempre dispo sto a muoversi (e Patricia Neary è fra i più attivi), ciò non signifi ca che Balanchine sia agevole per Luciana Savignana e Paolo Bortoluzzi in « Cinderella » di Prokofiev alla Scala. chi non abbia consuetudine col suo linguaggio. Con questo non si vuol dire che sia mancato un cer to impegno e che non si sia lavo rato. Mancano la familiarità con uno stile, soprattutto mistero e re spiro dell’opera, tensioni e vibra zioni che fanno di questo raccon to non raccontato, nel quale è la coreografia semmai a raccontare se stessa, una pietra miliare nel l’attività del suo autore. interprete calata nel 'L’unica l’impervia tessitura ci è parsa Lu cia Cotogna,to anche se Cristina Latini e Diana Ferrara le hanno dato adeguata risposta. Quest’ul- tima ha poi interpretato la scena del balcone dal «< Romeo e 'Giu lietta » di Prokofiev-Bruhn con esattezza e purissima linea bene assecondata da Alfredo Ramò. Quanto al corpo di ballo attual mente le cose vanno maluccio nel settore maschile; quello ifemminile si salva con riammissione delle giovani leve ancorché inesperte. Nel reparto solisti sono ancora le danzatrici ad emergere, come ■si è visto nella « Silfide », unico balletto d’azione della serata: Mar gherita Parrilla tecnicamente pre cisa, Ida Menozzi una Strega otti mamente caratterizzata. L’ospite Niels Kehlet ha ribadito il con cetto, in un balletto fatto di arie (variazioni) e recitativi (panto mima), al pari di un’opera di Bel lini, con tutte le fiorettature da eseguirsi alla lettera, che solo ri spettandole e con lo stile tipico della scuola danese si può rendere un personaggio danzato, cosa che egli ha fatto con tecnica brillan te, con ammirevole slancio giova nile. Ora vorrei sciogliermi nelle Io di a Elisabetta Terabust se non temessi il madrigale. Ebbene, essa ha ancora acquistato in leggerez za, in fluidità, in aerea grazia, non un movimento è lasciato al caso, con aioime preziosità tecniche per i buongustai. C’è in lei un così profondo ritegno, il timore di con cedere effetti (la tecnica agguerri ta sta di sotto, coordina, guida ed illumina ogni momento) al punto di decretarla ormai grande fra le grandi danzatrici. Perché siamo andati a Firenze? Per un «check-up», cioè per ve rificare sulle persone non fisiche, forse anche questo ma non esclu sivamente, bensì artistiche di Eka- terina Maximova e Vladimir Va- siliev, il loro stato attuale di sa lute. Essi rimangono i due artisti che ammirammo la ¡prima volta in « Giselle » a Roma nel 1968 e poi molte altre volte nella Capi tale, a Milano, a Napoli e a Nervi. Mentre Maximova non riesce a nascondere qualche volta la lezio ne imparata bene alla scuola di Gaiina Ulanova, Vasiliev sembra ancora migliorato non tanto negli slanci e nelle sue specialità tecni che quanto nelTinteriorizzazione del personaggio di Albrecht. Non c’è in lui un solo momento di ab bandono della linea interpretativa, non l’arresto creativo nella com posizione del personaggio al pun to di restare soggiogati dalla sua prova, assimilazione profonda di un fatto autenticamente dramma turgico. Infine: se Maximova cogli anni ha esasperato la maniera, Va siliev ha allargato le sue possibi lità. Purtroppo tutto il resto non era così straordinario... Il Teatro Massimo ¡di Palermo sta nel nostro cuore dagli anni ’58-'59 quando i balletti su musiche di Bartok e Stravinski erano di casa, scene dipinte da Afro e da Guttuso stavano davanti a noi o alle nostre spalle e il coreografo era Milloss. Ciò appartiene al pas sato, siamo nel presente e il futuro incalza. ¡Con lodevole iniziativa il coordinatore artistico Girolamo Arrigo, dopo « Bella addormenta ta » con la Fracci, ha dato vita ad una serata di balletti contempora nei che si sta svolgendo al Poli teama Garibaldi in attesa che il Nora Esteves e Amedeo Amo dio in « Per viola » di Maderna- Nunez al Politeama di Palermo. Massimo ridia la sua agibilità. Uno spettacolo di gusto avanzato, ardi to, di buon livello. Un giovane, Riccardo Nunez, proveniente da quel vivaio cubano che, auspice una grande danzatri ce: Alicia Alonso, ha saputo fon dere il rigore sovietico alle espe rienze del balletto moderno, dà ottime lezioni al corpo di ballo, firma le tre coreografie in pro gramma ed ottiene da una bella compagine di ballerini ordine, di sciplina, amore. «Episodi» (musica di Aldo Cle menti) e «Per viola» (Bruno Ma- derna) si avvalgono di musiche preesistenti, solo « Rorogigasos » (Arrigo) è un balletto vero e pro prio, così pensato dall’autore della musica, quindi c’è qualche forza tura nei primi due anche perché Nunez è coreografo di linguaggio accademico, non proviene dalla « modem dance » (dove esiste da noi un corpo di ballo che possa danzare coreografie di tessuto to- talmente moderno?) si limita a costruire sull’impianto classico at tingendo da moduli liberi sovra strutture diverse, non riuscendo ad eliminare sul suo cammino ovvietà e luoghi comuni. («Episodi»), Tre pittori di qualità hanno crea to intorno ai balletti sfondi e cor nici veramente preponderanti: Al do Mondino che rifa Braque ed inserisce il suo fondale in maniera ingegnosa Ignazio Moneada che avvolge i danzatori del passo a due entro pannelli flut tuanti («Per viola ») e Mario Ros- sello che offre al dramma della cit tà immaginaria (« Rorogigasos ») un quadro mobile sul quale l’illu minotecnico si sbizzarrisce e crea effetti sorprendenti. Fra gli interpreti, alcuni dei qua li già ben noti al pubblico frequen tatore dei balletti, come Ciaire Sombert, Amedeo Amodio, Nora Esteves, Donbrovski, Medina, Tuc- cio Rigano, è emersa la calda acer bità di Susanna Proja una giova- nissima della nostra Accademia di danza che ha fatto passi, non me taforicamente, giganteschi... Anche « Cenerentola » ribattezza to « Cinderella » alla Scala ha su bito la sua operazione non preci samente dissacratoria ma di rinno vamento. Questa nuova versione del celebre balletto di Prokofiev ad opera di Paolo Bortoluzzi è rimasta a metà strada e non trova, tra forzature e carenze di gusto un suo linguaggio, uno stile. S’in siste sulla caricatura delle sorella stre e della matrigna interpretate dai bravissimi AMrovandi, Sirond, Telloli ma si -resta in superficie e non si riesce a comporre in totale una reale struttura coreografica. Alcune danze sono piacevoli, così le trovate, ma queste appartengono più all’estro dello scenografo e co stumista 'Germinai Cassado (il li bro che si apre a episodi, il coc chio, i tre cavalli alla ricerca della dama gentile) che alla poesia della coreografia. Margot Nativo e Antonio De Robertis in « Il figlioi prodigo » di Prokofiev-Millos al Comunale di Bologna. Nelle vesti di Cenerentola si al ternano la Savignano e Anna Raz zi più adatta al personaggio la se conda della prima e Bortoluzzi sfoggia le sue specialità classiche in netto contrasto con il resto. Si devono ricordare anche Giancarlo Morganti (Il Buffone), Paolo Po- dini e Bruno Vescovo. Chi avesse voluto poi verificare il gran lavo ro di Paolo nella preparazione del balletto lo avrà visto nelle splen dide fotografie di Emanuela Sfor za esposte nel ridotto dei palchi del teatro. senza Al contrario dello spettacolo sca ligero lambiccamenti o stramberie, con rigore ed essenzia lità estremi, con pulizia formale, Aurelio Milloss ha presentato a Bo logna (Teatro Comunale) una «sua» retrospettiva coreografica: « L’Isola eterna » (musica di Bach, scena e costumi di Lorenzo Chiglia) del ’45, « Il Figliuol prodigo » (iProkofiev) del ’34 e « La 'Giara » (Casella) del '39. Pur essendo tan to retrodatati questi lavori, sotto posti in seguito al vaglio dell’au tocritica millossiana e ad una ela borazione sempre più complessa, continuano ¡a rivelarsi attuali per ché rappresentano verità univer sali e direttive fondamentali per qualsivoglia estetica coreografia e teatrale, ciò non solo dal punto di vista poetico ma soprattutto da quello propriamente costruttivo. Più che nel balletto d’apertura, assai ostico nella sua formulazio ne di danza concertante sul filo della musica bachiana, è nel « Fi gliuol prodigo» che ci hanno col pito ancora una volta le evoluzioni di danza negli sviluppi poliritmici, polimetrici e contrappuntistici dei valori plastici ed architettonici del l’espressività coreografica e il cli ma di alta spiritualità della para bola evangelica, ricondotta proprio ai suoi significati mistico-religiosi a differenza della nota versione balanchiniana ricca di ironia e di colorito ma svuotata dei più ripo sti contenuti. Ha dominato ancora ima volta Marga Nativo nella rossa guaina deir« incantatrice » accanto ad un giovanissimo figliuol prodigo nel la persona di Antonio De 'Robertis già intenso ed espressivo. Altro la to positivo dello spettacolo la di rezione 'orchestrale di Marcello Panni in Prokofiev e Casella. Molti applausi e acclamazioni a Milloss. Alberto Testa C a s a n o v a e F i t z g e r a l d S o l o d a n n a t i L ’accostamento di film come gli « Ultimi fuo chi » e « Casanova » ci è suggerito da una osser vazione. In queste due opere — le più significative della scorsa stagione — ha una preminenza ugua le, valore uguale, tema della solitudine e dell’impossibilità alla felicità. Sia il produttore di Kazan che il grande libertino di Fellini sono due anime perdute in mondi senz’anima. il Agli « Ultimi fuochi » ha collaborato, come sceneggiatore, Harold Pinter il drammaturgo in glese attratto dalla possibilità di esprimere, attra verso Francis Scott Fitzgerald (a cui Kazan si è ispirato), il suo nucleo poetico: la mancanza di armonia tra il mondo e l’uomo ; l’uomo incompreso dal mondo, respinto dal mondo, perché egli stesso ha respinto il mondo. Quel segno misterioso di disastro che hanno tutte le opere di Fitzgerald pervade il film di Kazan; belle e giovani creature vanno tutte in rovina. Ma, nella rielaborazione di Pinter, questi personaggi non sono belli e dannati; sono soltanto dannati. Il produttore — eroe della leggendaria Hollywood tra il venti e il trenta — è oggetto di un glaciale ma feroce ridicolo. Il mito della fa- volosa mecca del cinema che ha alimentato tanta letteratura, analizzato, con la freddezza di un entomologo, da Harold Pinter va in frantumi. Del prestigioso produttore, « Ultimi fuochi » fa un provinciale esteta che cerca invano di conciliare successo e felicità. La perdita della polarità spi rituale è qui parte di una più vasta disgregazione: è il riflesso della morte dell’anima provocata dalla religione del successo, dall’esaltazione dei grandi « managers » dalle grandi imprese e dalle grandi guerre. Ipnotizzato dagli abracadabra dell’affer mazione sociale, il produttore degli « Ultimi fuo chi » diventa una figura comica alla ricerca della felicità di cui ha disperatamente bisogno. Ma con i gusti di un recluso, con la morale di un anaco reta con tutto il macchinario del self made man la felicità gli è alla fine negata. Di altra statura è il personaggio di Fellini che di Casanova ha fatto un romantico che cerca di abbracciare realisticamente la vita, di un idealista con ideali falliti. Pur riconoscendosi il diritto di snaturare, deformare, falsificare le « Memo- Una scena da! film « Casanova » di Fellini. Ingrid Boulting e il regista Elia Kazan durante la lavorazione del film « Gli ultimi fuochi ». rie », per obbedire alle sue intuizioni, Fellini pur conclamando antipatia per il grande veneziano, finisce con l’amarlo, col comprenderlo; ad identi ficarsi. «Casanova», ■contrariamente a quanto sosten gono le vestali delle « Memorie », i casanovisti, è abbastanza fedele al modello. E’ un innamorato solitario; amante, sempre riamato, sempre fugge dalla felicità con l’angoscia di non sentirsi più libero. La fuga di fronte alla paura; la paura di fronte al mistero dell’amore. La donna, dice Marivaux, è peggio di una vipera, perché la vipera non toglie che la vita; mentre le donne rapiscono la ragione, la libertà; alienano l’uomo. Così pensa il Casanova delle «Memorie» e del film. Ma nella donna, Casanova oggettiva anche la sua paura, la sua angoscia esistenziale. Perché nella sua ginofobia confluiscono la paura della morte e della vecchiaia. La stessa esaltazione ec cessiva della donna (dea,- come per altri schiava, mai compagna) discende da un ambiguo misogini- smo (la donna angelicata di tutti gli adolescenti) che si allarga alla paura dell’ignoto che, tuttavia, egli insegue sentendosene attratto. La fragranza che emana dalle pagine delle « Memorie » che cos’è se non la fragranza di un mondo morente? Quando Casanova fa all’amore sembra obbedire a un tic muscolare; riflesso più macabro che non ispiratore di gioia e allegria. E quel che sembra gente in movimento, gente che parla, ama, beve, non è gente, ma ombre. Fellini « dimostra » a Casanova che le sue « Memorie » non sono un manuale di felicità, bensì la descrizione della vita per mezzo delle mummie. Quelle figure anemiche, essicate che -popolano il film sono soltanto simulacri; l’ombra di idee, eventi, persone. Figure che il veneziano ha abbel lito nel ricordo. Il continuo gettarsi in altre città, in altri climi, sotto diverse costellazioni, è il segno, secon do Fellini, che Casanova è un’anima perduta, un eterno vagabondo afflitto dall’angoscia della so litudine. Ansia, affanno, nostalgia, una infruttuosa ri cerca della felicità portano Casanova a sfuggire a una vita banalizzante accanto a una sola donna, ma a dipendere dall’aiuto altrui. Mercenario per i bisogni più elementari, egli muore in solitudine lontano da Venezia. Ogni uomo segue un corso in cui all’illusione, alla speranza, segue il nulla, la morte. Non può consolarlo la leggenda che egli può aver suscitato. In questo caso sarà al massimo un rigido e lugu bre manichino buono per un rigattiere. Gli eroi di Fitzgerald morivano giovani; il Casanova di Fellini invecchiando non approda a una condizione di saggezza, a uno stato mistico della vita. Vittima del mito della giovinezza, e della « dolce vita », muore in cupezza. Il suo amico Voltaire diceva: « qui n’a pas l ’esprit de son age, de son age a toutes les malheurs ». Maurizio Liverani T e a tr o in T V M o l t o d i n u o v o t a l v o l t a d i b u o n o La -prima impressione sulla « pro sa in tv » è che i nuovi discorsi av viati dopo la riforma della Rai ten tino un più ampio respiro e una più solida validità culturale. Si tratta certamente di un programma arti colato e complesso le cui prime e- sperìenze hanno mostrato senza dubbio interessanti indicazioni. C’è da dire innanzitutto che men tre per la Rete Uno il teatro ha co stituito un fatto nuovo, innovativo, per la Rete Due possiamo parlare di continuità. Questo perché tradi zionalmente negli ultimi anni c’era un appuntamento settimanale fisso con la prosa sul Secondo Program ma, il venerdì sera. Continuità, ma con principi ispi ratori diversi dal passato e con nuove linee di tendenza: da un lato, il rifiuto del repertorio teatrale con l'alternanza, nella programma zione, dei vari generi: la comme dia, il dramma; dall’altro, la ri cerca di temi da organizzare in cicli esplicativi E ancora l'inten zione dì aprirsi al massimo alla realtà attuale del teatro italiano e non italiano. Altro motivo interessante è quel lo di riportare i « grossi » personaggi che non c’era no mai stati, come Carmelo Be ne, o che per motivi diversi se ne erano allontanati, come Vittorio Gassman, o ne erano stati allon tanati, come Dario Fo, e costruire con queste presenze significative della nostra cultura teatrale un ti po di rapporto non causale ma or ganico in vista di una collabora- ziàhe il più possibile intensa e co struttiva. In questo ambito rien in televisione tra /’Edipo re interpretato e diret to da Vittorio Gassman con un cast di eccezione: Tino Buazzelli nel ruolo di Tiresia — un Tiresia stregone — Adolfo Celi, Lea Mas sari, Luigi Proietti; Berlo per le musiche e Polidori per le scene e i costumi. L’Edipo re è stato pre ceduto da un seminario tenutosi a Ronciglione e del quale si ren de. conto in uno « special » che ha preceduto di due giorni la messa in onda della tragedia. /'L’Edipo re inaugura una colla borazione con Gassman che pre vede ogni anno la realizzazione di un classico: per la prossima sta gione dovrebbe trattarsi del Mac- beth di Shakespeare). Dario Fo è tornato a lavorare per la tv con un programma che prevede: Mistero buffo 1 e 2, Isa bella, tre caravelle e un caccia- balle, Ci ragiono e canto, Settimo ruba un po’ meno, La Signora è da buttare e un altro spettacolo sulla condizione dellà donna. Ma oltre a produrre in proprio, la Re te Due ha in cantiere varie ini ziative per le riprese esterne di spettacoli. E soprattutto una col laborazione con i Teatri Stabili. S’è già iniziata quella con il Pic colo di Milano: l’accordo con il Piccolo prevede uno studio dei modi migliori con i quali traspor re in televisione lo spettacolo tea trale e ognuna delle riprese che verranno effettuate avrà una sua particolare impostazione in modo da garantire da un lato il massi mo rigore nella trasposizione te levisiva del teatrale, dall’altro di non trascurare quel- fenomeno lo che è lo specifico televisivo. (Il rapporto con gli enti a gestione pubblica deriva dal fatto che per loro stessa natura questi enti si prestano a collaborazioni program mate in tempi lunghi. Ma non per questo verrà trascurato il rappor to con altri gruppi teatrali; è in programma, per esempio, la ripre sa de « Il mandato » di Erdmann messo in scena dalla Cooperativa della Rocca). Per quel che riguarda la Rete Uno, i problemi da risolvere, sta bilito che l’appuntamento con il pubblico non avrebbe avuto una frequenza settimanale erano di va rio tipo: l’impossibilità da un la to, di costruire dei cicli organici e omogenei e dall’altro la necessi tà di inventare qualcosa fuori del l’ordinario, che potesse far spic co nella nuova programmazione televisiva, hanno spinto a imboc care una strada difficile, ma che può dare grandi risultati. poco La scelta è stata quella di ten teatrale « pro tare un discorso « teatro-inchiesta » prio », dunque, poco « realismo » e poca « sociocultura » e invece il costan te e preciso recupero di spazi tea trali « giusti ». Di qui una forte caratterizzazione di ogni singolo testo: luoghi deputati e luoghi in ventati, adatti allo spettacolo pre sentato. L’Arena di Verona, ad esempio, dove è andato in scena Le allegre comari 'di Windsor con la regia di Orazio Costa Giovan- gigli e con Tino Buazzelli prota gonista, davanti a una platea e- norme, viva e interessata. Oppure per produzioni propriamente tele- Vittorio Gassmann ha interpretato e diretto per la rete due « Edipo re » di Sofocle. visive paesaggi '.< cinquecenteschi » come nel caso de II dottor Fausto di Marlowe, regista Leandro Ca stellani, protagonista sempre Tino Buazzelli o una villa veneta del ’500 per II gabbiano di Cechov, re gista Marco Bellocchio, con Pa mela Villoresi, Giulio Brogi, Remo Girone. (Questo per sottolineare tra l’al tro che si tratta di teatro prodot to in Italia anche quando i lavori non sono italiani e per cercare dì eliminare quella frattura esisten te nel passato e mai risolta tra teatro e teatro televisivo e che portava il più delle volte a un ap piattimento in tutti i sensi della rappresentazione). Inoltre si è cercato di instaura re un rapporto di reciproco soste gno tra il cartellone televisivo e quello nazionale. Si è tenuto conto dello spettacolo teatrale inteso co me evento che si svolge in deter minate ore e quando è possìbile con la partecipazione viva e at tiva del pubblico. Mai dunque una scelta di « routine » perché spesso la orogrammazione televisiva ap plicava (anche se non nel senso deteriore della pa rola) al teatro. La scelta dei testi e degli inter preti è varia e ricca:, c’è per esem pio l’esordio televisivo di un regi- la «.routine-» Dario Fo in « Settimo ruba un po' me no » (rete 2). Gli spettacoli televisivi di Dario Fo « Mistero Buffo 1 » e « Mi stero Buffo 2 » hanno suscitato reazio ni e polemiche a non finire. Nel pros simo numero ne daremo ampia eco sta cinematografico « scomodo » come Marco Bellocchio e l’esor dio di un altro regista cinemato grafico di grande interesse come Marco Ferreri con la Yerma di Lorca. L’esordio di un regista tea trale affascinante e fantasioso co me Aldo Trionfo e dì un altro im portante regista « bizzarro » come Giancarlo Cobelli e la partecipa zione di attori come il già ci tato Tino Buazzelli, Clauco Mau ri, Laurence Olivier, Sarah Fer rati, Giorgio Albertazzi, Giancarlo Sbragia. Non si poteva ignorare che la realtà del teatro italiano offre una serie di proposte « extravaganti » rispetto al teatro tradizionale. E di questa realtà si dà conto sia con spettacoli offerti dai vari car telloni teatrali, sia favorendo un incontro esclusivo con la TV. Tra le prime proposte vi sono sei testi gotici con protagonista Flavio Buc ci tutti sul tema del vampiro, re gista Giorgio Bandini. E poi Cri stiano e Isabella con Amedeo di Ionesco. La proposta teatrale del la Rete Uno è, a ben vedere, un teatro che assomigli assolutamen te al teatro, come oggi è, inquie to, tormentato, vivo e provocato- rio comunque, malgrado la febbre, e forse per quella. Franco Scaglia I n t e r r o g a t i v i s u l l a T v a c o l o r i U n l i n g u a g g i o t u t t o d a i n v e n t a r e di Ugo Ronfani Ci siamo arrivati anche noi. Fra gli ultimi, dopo il Sudafrica. Ormai il processo è irreversi bile. Anche se i prezzi degli apparecchi, infla zione aiutando, s’avvicinano al traguardo del milione. Anche se il nuovo canone di abbonamen to ha fatto un bel balzo in avanti. E anche se c’è stato un brivido di paura (rientrato, a perizie eseguite) quando il pretore spezzino Marchesiello ha fatto sequestrare 300 ricevitori, sospettati di contaminazione da radiazioni ionizzanti. Ormai il videocolor fa parte della nostra vita quotidiana e tanto vale abituarci al suo buon uso. Magari nel senso che all’espressione dava Pascal quando parlava del buon uso della malattia. Tan to, ripeto, non si torna indietro. Gli esperti ci di cono che negli anni Ottanta la TV in bianco e nero sarà soltanto un ricordo. In questa prima fase, iniziatica, intorno al co lore in TV si fa, inevitabilmente, del « magi- smo ». Sociologi, psicologi, studiosi di comunica zioni di massa vanno a ruota libera per dirci che la TVC influirà sensibilmente non soltanto sul gu sto ma anche sul nostro linguaggio espressivo, sul nostro modo di vedere le cose e le vicende, insomma sulla nostra maniera di vivere. In atte sa di verificare la fondatezza di queste previsio ni, si è già coniata una battuta fin troppo facile, secondo cui la TVC « ce ne farà vedere di tutti i colori ». Alcuni studiosi esercitano la loro verve, come il prof. Gianfranco Bettetini, il quale si è divertito ad immaginare lo sconquasso che il co lore in TV produrrà nel settore pubblicitario. Ha scritto sul « Giorno », in un gustoso articolo inti tolato «Lo compreresti un pollo verde?»: « Il rischio di un vero e proprio scempio cromatico nei confronti dei prodotti pubblicizzati c’è. Anche in Italia assisteremo tra poco a grandi battaglie tra l’industria del prodotto da lanciare sul mer cato e quella del film pubblicitario: si verifiche- ranno sicuramente proteste, scissioni di contrat ti, imposizioni di rifacimenti impossibili... Si po tranno apportare miglioramenti, si potrà illumi nare meglio e, soprattutto, prestare una maggio re attenzione ai rapporti cromatici tra tutti gli elementi messi in scena accanto al prodotto: ma il colore dell’immagine sarà sempre un’altra co sa; il prodotto apparirà sempre come qualcosa di diverso, qualcosa di ’’altro” ». L o c o m p r e re s ti un p o llo v e rd e ? Siamo seri: un pollo verde sul video non è la fine del mondo. Si dà il caso, però, che col suo pollo il prof. Bettetini abbia toccato, probabil mente, il fondo del problema. Abbia messo in guardia, cioè, proprio contro il pericolo maggiore del videocolor: la sua capacità di affabulazione, anzi di mistificazione, cromatica e non soltanto cromatica. Al Salone Internazionale delle Notizie (16-30 novembre scorsi, alla Fiera di Milano, in colla borazione con la Biennale di Venezia e la Fonda zione Rizzoli), il dibattito aveva preso come pun to di partenza Tipotesi di una ricerca di Barbara Alcune scene dei « Gesù » di Zeffirelli (rete uno) fine. Ronchi e Carlo Sirtori, secondo cui l’informazione televisiva avrebbe la stessa struttura della fia ba, com’è stata codificata dal Propp. Sarebbe cioè una sorta di favola, rassicurante, dell’era elettronica, secondo lo stesso modulo di una fiaba di Perrault: equilibrio iniziale, rottura dell’equi librio ma lieto Ipotesi suggestiva, anche perché riferita a un modello di spettacolo di tipo eminentemente popolare qual è quello televisivo; ma ipotesi fieramente contestata da sociologi del la nouvelle vague (Ricci, Saporito) i quali hanno contrapposto l’immagine ideale di una « televisio ne adulta » dalla quale « la fiaba » (cioè l ’affa- bulazione, l ’irreale) fosse/rigorosamente bandita. Ora, per tornare all a/ TVC, io temo che col colore si sia più che mai, almeno per un certo tempo, in piena favola, anzi in una favola « alla Walt Disney », edulcorata, caramellata, ancora più scollata dalla realtà, ancora più alienante dello spettacolo fornito dal video in bianco e nero. Ricordiamoci quel che aveva detto Pier Paolo Pasolini in un articolo volutamente provocatorio scritto pochi mesi prima di morire sul « Corriere della Sera ». La TV, diceva Pasolini, ha gravi colpe perché sospinge verso l ’inferno di un con sumismo corruttore gli strati economicamente e culturalmente più vulnerabili della società, gli abitanti delle borgate romane per esempio, ai quali propone falsi modelli di vita. E così con corre a diffondere quell’inquietante atmosfera criminaloide di massa che si esprime attraverso le quotidiane violenze, le rapine, i sequestri di persona, le aggressioni. Meglio sarebbe, conclu deva, se le borgate romane tornassero alle loro notti buie, di prima che spuntassero fittissime le antenne televisive; meglio sarebbe se i video che s’accendono a milioni nei crepuscoli italiani ri manessero spenti. Era assurdo, certo, pretendere di salvare da una emarginazione degradante i sottoproletari delle grandi città togliendo loro la TV (così come nella Russia zarista si erano tolti ai mugichi, perché «superflui», l’alfabeto e il libro). Ed era ingenuo riesumare il mito del « buon selvaggio », vergine di contaminazioni culturali, in mezzo al le periferie inquinate di Roma, Milano o Torino. La proposta di Pasolini — formulata del resto all’insegna di un’ironia di tipo swiftiano — aveva però il merito di sottolineare l’urgenza del pas saggio da una « pedagogia negativa » ad una « pe dagogia positiva » del video. Sollecitava cioè dal la televisione la rinuncia a difendere vecchi va lori ormai improponibili, ad esaltare gli aspetti volgari della società dei consumi, sollecitava proposte tali da aiutare a vivere in intelligenza e in armonia con il mondo d’oggi. Poneva fine, in somma, all’illusione di una televisione « innocen te », «neutrale»; ricordava che dal video non ci arriva « la luce fredda delle verità totali », di cui parlava Sartre, ma fasci di verità relative, parziali, contraddittorie. 0, addirittura, contro verità. Era un discorso che avevamo già sentito fare, prima che da Pasolini, dalla semiologa francese Violette Morin, al convegno sul linguaggio della TV tenutosi a Firenze nel settembre del ’75, in occasione del XXVII Premio Italia. Il messaggio televisivo — sosteneva la Morin — si comporta come uno specchio deformante; sul video lo spet tacolo finisce per contare almeno quanto l’av venimento in sé, se non di più; inoltre è pro prio del linguaggio televisivo ingigantire, nel re gistrarli, il fatto o la parola « fuori della nor ma » (un disastro ferroviario, il messaggio del Capo dello Stato), mentre appare inidoneo ad esprimere la « misura del quotidiano », l ’« ordi nato trascorrere dell’esistenza di ogni giorno » (il treno che arriva in orario, l ’autenticità dei discorsi che si fanno in famiglia). Ebbene: questo ’’scollamento” fra il mondo così com’è e la rappresentazione che ne fa il video non risulterà aggravato dall’uso del colo re? All’insegna del progresso tecnologico, la TVC non è in realtà un fatto regressivo? Chi non l ’ama sostiene che se con l’avvento della TV in bianco e nero l’uomo era retrocesso dalla civiltà di Gu tenberg a quella delle pitture rupestri della prei storia, con il video a colori è sprofondato addi rittura in una rèverie inesistenziale, in uno stato di fantasticheria quotidiana che allargherà, anzi ché ridurlo, lo stacco fra realtà e immagine. Ag gravando così la solitudine, anzi l’isolamento del- Yhomo telespectator. S o g n e rò a c o lo ri « Prima sognavo in bianco e nero, come credo facessero tutti; vorrà dire che d’ora in poi farò dei sogni colorati ». Questa frase del compianto Ennio Flaiano, pronunciata nell’agosto del ’72 dopo avere assistito ad una trasmissione speri mentale a colori sulle Olimpiadi di Monaco, non è soltanto un’estrosa boutade. Sognare a colori? Non abbiamo invece il dovere di tenere gli occhi bene aperti sulla realtà « in bianco e nero » — spesso in nero, o in grigio — di ogni giorno? Non c’è, per il teleutente, il rischio di diventare « Ali ce nel Paese delle meraviglie », di perdersi nella galassia tricromatica, nel pulviscolo di punti lu minosi rossi, verdi e blu, lontano dal vivere con creto di ogni giorno? Ne sappiamo ancora troppo poco. Chi scrive ha partecipato, nel quadro del sopraindicato Sa lone Internazionale delle Notizie, ad un dibat tito sulla funzione del colore nella comunicazio- Q u e l l o c h e v e d r e m o p r e s t o a c o l o r i Tra le produzioni televisive a colori, un posto par ticolare è occupato proprio dagli spettacoli « teatrali ». Sul primo canale (Rete uno): « Pericle principe di Tiro » di Shakespeare, con Giorgio Albertazzi, regìa di Cobelli; « Il dottor Fau sto » di Marlowe, con Tino Buazzelli, regia di Leandro Castellani; «Il vizio assurdo» di Fabbri e Laiolo, con Vannucchi, regìa di Giancarlo Sbragia (regìa televisiva di Lino Procacci) ; « Don Giovanni » di Molière, con Paolo Boriaceli!, regìa di Mario Missiroli; « Yerma » di Lorca, con Edmonda Aldini, regìa di Marco Ferreri. Vedremo inoltre un « Romeo e Giulietta » indiano: titolo « Katakali » girato appunto in India da Giorgio Moser. Sul secondo canale (Rete due): « Edipo re » di Sofocle, con Vittorio Gassman, regìa dello stesso Gassman; cinque spettacoli con Dario Fo (« Mistero buffo uno », « Mistero buffo due », « Isa ne televisiva, insieme al sociologo Percy Tan- nenbaum, della School of Public Polìcy, di Ber keley, al maestro di Cibernetica Silvio Ceccato, allo psicologo Giorgio Quinta valle, all’ingegnere della RAI-TV Franco Visintin e a Furio Colom bo. Ora, se dicesse che il dibattito ha enunciato punti fermi, mentirebbe. Il linguaggio del co lore in TV è ancora tutto da inventare. Ma esi ste, poi, un linguaggio autonomo del colore? Furio Colombo l’ha negato, Tannenbaum si è li mitato a sostenere una posizione pochissimo scientifica: «visto che la tecnologia ce l’ha of ferto. usiamolo ». E Ceccato se Tè cavata con qualche intelligente paradosso. L ’incertezza, del resto, è comprensibile. Ci troviamo un po’, a proposito della TVC, nella stessa situazione che caratterizzò, più di trenta anni fa, i tentativi di commercializzazione del cinema a colori. Molti sostennero allora che mai il Bianco e Nero, con la sua sintassi rigorosa, sarebbe stato soppiantato dal Tecnicolor. Poi vennero registi come Losey, Visconti, la Agnes Varda (il cui film Le Bonheur trasferì sullo schermo la grande pittura delTimpressionismo francese): e la polemica naturalmente rientrò. L a p a ro la a l te c n ic o Forse una parola, a questo proposito, può dirla il tecnico. Il quale viene a spiegarci che la riproduzione cromatica delle immagini, nella TVC, risulta da un procedimento di sintesi addi- tiva del tutto simile a quello che consiste nel- l ’avvicinare fra di loro una grande quantità di superfici colorate molto piccole, in modo che bella, tre caravelle e un cacciaballe », « Settimo, ruba un po' meno », e uno special sulla donna oggi) con la regìa dello stesso Fo; sette spettacoli del Piccolo di Milano (« Il giardino dei ciliegi » di Cecov, « Il Campiello » di Goldoni, ecc.) quasi tutti con la regìa di Giorgio Strehler); uno special per i 30 anni del Piccolo di Milano (una « festa », in diretta » il 14 maggio; una specie di « collage » delle opere più im portanti di questi trent'anni). E' quasi pronto un accordo anche con il teatro Sta bile di Róma (e si tratterà della ripresa di tre spet tacoli firmati da Luigi Squarzina) mentre si sta trat tando anche con lo Stabile di Genova. Tra i film televisivi della rete due, di rilievo il film dei fratelli Taviani « Padre padrone », tratto dal libro di Gavino Ledda, vincitore dell'ultimo Premio Strega. l’occhio le fonda insieme, traendone degli insieme compiuti. Ora, questa è la stessa, identica tecnica che usavano i nostri macchiaioli, da Signorini a Fattori, e gli impressionisti, Manet o Renoir, e i divisionisti, Seurat o Segantini. Queste analogie ’’tecniche” fra il sistema di riproduzione tricromatica delle immagini sul vi deo e i procedimenti di certa pittura che ha la sciato tracce durevoli, mi sembrano incoraggianti. Tecnicamente, nulla osta che con la TVC si possa fare dell’arte. Chi si possa, cioè, abbellire e ar ricchire la nostra vita. I punti luminosi che at traversano il cinescopio sono l ’equivalente delle particole di colore con cui Seurat dipingeva la sua promenade sur la Seine. Si può fare tutto, probabilmente: basta saperli usare. Noi italiani abbiamo una grande tradizione di studi sul colore che comincia da Leonardo. Ab biamo imparato sui banchi di scuola la legge tricromica di Young, cui ci si rifà ancora per de finire il sistema di selezione di un’immagine co lorata. Gli impressionisti ci hanno abituato a meditare sul rapporto luce-colore, i futuristi sul rapporto colore-movimento. Ne sappiamo abba stanza, voglio dire, per affermare che la rappre sentazione in colori non è superiore o più com pleta dì quella in bianco e nero; è soltanto di versa. Fra colore e bianconero non c’è gerar chia, l ’uno non può sostituire l’altro. La stessa struttura dell’organo visivo differenzia nelle cel lule della retina la percezione dei colori da quella stereometrica. E la coesistenza, nel tempo, di opere di espressione cromatica con opere acromatiche, ottenute cioè con la riduzione al grigio, o al bianco e nero, della miscela dei colori puri. Ogni uomo, non la storia dell’Arte prova Omero Antonutti e Saverio Marconi in « Padre padrone » dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani (rete due). soltanto l’artista, ha sempre utilizzato queste due qualità fondamentali della visione. Perché mi sono permesso di richiamare que ste nozioni, in fin dei conti scolastiche, sulla percezione del colore e delle forme? Perché, pro prio partendo da queste leggi scientifiche è forse possibile assegnare tanto al colore quanto al bianconero in TV funzioni distinte una dall’altra, dunque ipotizzare due linguaggi specifici. Si sa che meno la retina è stimolata (bianconero) e più aumenta la sua capacità analitica. Dunque, un’immagine in bianconero incoraggia l ’attenzio ne, predispone alla riflessione e all’analisi. Una immagine a colori, invece, è più dispersiva, in duce alla divagazione ludica. Dunque, benissimo presentare a colori la telecronaca della Festa delle Rose a Pasadena (fu, appunto, la trasmis sione che il Capodanno del 1954 inaugurò l ’era del colore negli Stati Uniti) ; meno bene se si filma a colori un grave dibattito sulla pena di morte, che richiede concentrazione anche da par te del pubblico. Imparare il buon uso del colore significa an che, da parte del teleutente, saper dominare il famoso tasto che regola la luminanza e il croma, e che ai primi vagiti della TVC provocava im provvise colate di blu o repentini incendi rossi sul video. E ’ vero che i sistemi automatici di pre regolazione hanno eliminato in parte il rischio del colore « impazzito » ; però la « resa » di un rice vitore a colori continua a dipendere anche dal modo in cui il teleutente saprà manovrarlo. Ogni proprietario di un apparecchio TVC finisce per fabbricarsi il colore a sua misura e convenienza (più rosso, meno rosso, etc.), per cui si può dire — parafrasando Orwell — che neppure la TV a colori sarà uguale per tutti. Senza con tare — ci spiegano i tecnici — che nella sua estre ma suscettibilità la stessa immagine a colori va ria col variare delle luci ambiente (quelle rifles se dalle pareti, dal pavimento, dall’arredamento della stanza in cui è installato il ricevitore). Cam bia cioè il croma dell’immagine e, di conseguen za, l ’impatto fisio-psicologico sul telespettatore. Il discorso, qui, si fa più serio di quanto sem bri, e investe anche la responsabilità di chi è « alla fonte », di chi produce il colore. Tutti ab biamo sentito parlare, difatti, dell’impatto dei vari colori nella sfera della psicologia. Esistono, su basi scientifiche, dei «codici del colore» (qual cuno dirà delle convenzioni) in base ai quali ogni dato colore è idoneo ad esprimere sensazioni e sentimenti particolari, ha insomma un suo signi ficato simbolico. Così il bianco è adatto ad espri mere l’unità e la sublimazione, il turchino ri chiama un sentimento di protezione materna, il giallo indica la forza, il nero induce alla tri stezza, il rosso vuol dire passione e violenza, e così via. Bastano queste indicazioni per sottolineare l’urgenza, mentre la TVC sta diventando un mez zo di comunicazione di massa, di riprendere e verificare queste teorie sulla « psicologia del co lore». Per estrarne una sintesi, per formulare Franco Cittì, Edmonda Aldini e Michele Placido in « Yerma » di Lorca, regia di Ferreri {re te uno). un’estetica. Ma soprattutto, per determinare un « codice di comportamento ». Perché non è dif ficile immaginare che cosa può diventare il co lore, sulle basi di una « strumentalizzazione cro matica » del video, nelle mani di un potere emit tente interessato ad influire senza scrupoli sulla psiche dei telespettatori. Un potere emittente che rappresenti l’opposizione in nero, il nemico in rosso, l’alleato in giallo, l ’ente di governo in blu, etc. I p e r ic o li da e v ita r e Ipotesi da verificare, discorsi aperti. Qui pre meva soltanto sottolineare il concetto che il co lore in TV non è buono o cattivo in sé: dipende dall’uso che se ne farà. Premeva indicare, an che, due pericoli evidenti. Il primo, quello che la saturazione dell’immagine TV col colore si ri solva in una desaturazione (prendo in prestito l’espressione dai tecnici) dell’idea che ci faccia mo del mondo, in uno scolorimento della realtà. II secondo, dicevo prima, è che il colore diventi uno strumento di condizionamento in più. Ma siccome il colore in TV è ancora tutto «da inventare», si può e si deve concludere con qualche parola di ottimismo. Userò quelle che Massimo Rendina, uno dei «papà» della TVC ita liana, pronunciò ad una tavola rotonda orga nizzata il 30 ottobre 1975 a Firenze ed alla quale parteciparono, oltre al sottoscritto, anche Ales sandro Bonsanti, Mino Doletti, Lamberto Pignot- ti, Tommaso Paloscia e Carlo Ludovico Rag- ghianti. « Certo, la TV a colori comporta dei ri schi, come tutte le novità che ci offrono la tecno logia e la scienza. Ma non siamo pessimisti. A patto di impiegarla con giudizio, la TVC può di ventare un mezzo di affinamento del gusto, di promozione culturale. Se è vero che il colore, male impiegato, o strumentalizzato per fini di potere, può essere fonte di alienazione, è anche vero che, usato con onestà e rigore, può favorire la vera conoscenza del mondo, liberarci dalla grigia oppressione delle metropoli, mostrarci le bellezze naturali, introdurci negli ambienti fa mosi. Sempreché sia usato bene, insegna misura ed eleganza, influisce sul gusto collettivo, agisce positivamente sull’arredamento, l’urbanistica, la moda. Pensiamo al suo impatto educativo, sul ragazzo e sul giovane. Fra cultura alfabetica e realtà vissuta il distacco era grande, le parole rappresentavano a fatica l ’oggetto del sapere. L ’immagine in bianco e nero ha in parte col mato le distanze. Bene, con il colore le caratte ristiche di un paesaggio, le qualità di un dipinto, le particolarità di una tavola anatomica potran no risaltare nitide e precise. Il colore potrà di ventare, in altri termini, un prezioso supporto didattico ». Come si diceva? Imparare il buon uso del co lore. L ’auspicio diventa, termini operativi, un catalogo di precise responsabilità da parte della RAI-TV. in U. R. I l p e r i c o l o è l a m a n o d e l l ' u t e n t e Sandro Bolchi è tra i più noti registi di sceneggiati televisivi, oltre che regista di spettacoli lirici e di prosa. In tv ricordiamo, dopo il lontano « Mulino del Po », gli sceneggiati tratti da Do stoïevski e da Tolstoi, « Eleonora » con Giulietta Masina e l’ultima « Manon ». Bolchi ha ricevuto, accanto ai consensi del pubblico e della critica, numerosi premi come miglior regista televisivo del l’anno. « Temo il colore perché è l’utente a gestirlo e quindi può fare delle cose tremende. In questa fase iniziale non hò ancora visto nessuna trasmissione con dei colori veramente esatti. E’ una specie di passaggio ” fatale ”, come lo è stato nel cinema il pas saggio dal muto al sonoro, o come è successo per i primi dop piaggi, che erano tutti fuori sincrono. Non mi faccio molte illu sioni sul fatto che il colore migliorerà presto; forse dovranno passare un paio d’anni. Nel cinema è diverso perché il colore è fedele alle intenzioni del regista, si altera solo in caso di copie vecchie o mal stampate. Sui televisori ho visto invece dei gialli diventare rossi, mentre nei laboratori il colore era perfetto. Oli effetti sono calcolati dal regista con una grande pazienza, ma che farà l’utente? 'Forse bisognerà fare come all’inizio della televisione, quando l’annunciatrice si presentava con una gamma di grigi e consigliava gli spettatori su quale tonalità di chiaro o di scuro bisognava girare la manopola; col colore dovrà essere il regista a delegare qualcuno che suggerisca su quali tonalità orien tarsi; per i telefìlms il regista può volere tinte ocra, smorte, attenuate; lo spettatore invece si aspetta sempre tonalità bril lanti, come per una partita di calcio; ecce perché è importante che il regista comunichi le sue intenzioni allo spettatore. Per fortuna stanno arrivando televisori « automatici », che consenti ranno una maggiore fedeltà anche per il colore; speriamo bene! ». A c o l o r i m e g l i o l a B i a g i n i d i O r e f i c e Antonello Falgui è certamen te il più noto regista di spet tacoli musicali televisivi: « Giar dino d’ inverno », « Canzonissi- ma », « Teatro dieci », « Dove sta Zazà » etc., etc. Il sabato sera televisivo da vent’anni porta spes so la sua firma. Ha già realiz zato molti spettacoli a colori (con lo « special » su Carla Frac ci vinse qualche anno fa un pre stigioso premio a Montreux, una specie di Oscar internazionale te levisivo; un premio subito « bis sato » con « Fatti e fattacci ». « Dopo aver visto due o tre spet tacoli musicali a colori, tornare a vedere spettacoli in bianco e nero è come andare al cinema al cineclub. Sembrano cose vec chie anche quando sono fatte molto bene. Abbiamo perduto troppi anni, in Italia, a causa di discorsi in realtà poco convin tempo a centi. La televisione italiana era pronta da realizzare buoni programmi a colori. E’ sta ta tenuta ferma e ancora oggi non si capisce bene il perché. Adesso si riparte e si sbaglia di nuovo, dando la precedenza ai programmi giornalistici anziché ai programmi di spettacolo. Sono convinto, francamente, che il pubblico preferisca vedere a co lori le gambe della Biagini piut tosto che la cravatta di Orefice. Ho appena realizzato uno spet tacolo, « Bambole non c'è ima li ra», con la Biagini, Loredana Bertè, Tino Scotti e molti altri bravi attori; è una ministoria del teatrale la rivista italiana degli ultimi 30 anni. E’ in bianco e nero; a colori sarebbe stata un’al tra cosa. Penso infatti che rap porto del colore incida addirittura per il 50 per cento sul risultato di un programma televisivo». L a s c u o l a i t a l i a n a s c l ' e o d p r e u c a z i o n e s t r a d a l e dell 'obbligo hanno aderito spon taneamente e creativamente al l’iniziativa con ricerche, inchie ste, tavole rotonde, dibattiti, in terviste, cui dettero forma di articoli, di taglio giornalistico, offrendo numerose proposte in teressanti per la soluzione dei particolari problemi del traffico rilevati nelle singole regioni di residenza. i tra Alla Conferenza dei giovanis simi sul traffico, tenuta a Pe saro nel maggio dello scorso anno e che costituiva la mani festazione conclusiva della cam pagna, ragazzi approvarono una mozione che, l'altro, proponeva quanto segue: « Le lezioni di educazione stradale non siano esposizioni di norme, ma rappresentino II risultato di un dibattito sulle diverse esi genze da soddisfare e sui modi idonei per raggiungere lo scopo di sviluppare negli anni una pie na coscienza delle necessità ed opportunità di conoscere norme e segnali al fine di garantire un equo uso della strada da parte di tutti; che l'educazione stra dale così concepita, debba esse- La campagna di educazione stradale nelle scuole che il Mi nistero dei Lavori Pubblici ha indetto per il 1977, d'intesa con il Dicastero della Pubblica Istru zione, si basa sulla divulgazio ne delle norme di circolazione attraverso l'attiva partecjpazio- ne e la creatività degli alunni. Da un decennio almeno si di scute sulla necessità che la scuola si occupi deH’educazio- ne stradale nel più ampio con testo dell’educazione cìvica, ma i vari tentativi compiuti in tal senso dalle Autorità, non rag giunsero in passato, sino allo scorso anno, i risultati auspicati. Nel 1976, l’Istituto Nazionale per la Comunicazione realizzò nelle scuole medie dell’obbligo, per conto del Ministero dei La vori Pubblici, una manifestazio ne organica dal titolo: « Una Re dazione in ogni classe », la qua le consentì di conseguire i pri mi risultati concreti. All'Istituto organizzatore pervennero dalle diverse scuole oltre 8.000 ela borati di alunni o di gruppi di alunni, il che significa che alme no 200.000 studenti della media La Conferenza di Pesaro as sume quest’anno notevole rile vanza, perché i partecipanti di sporranno dell’ampia documen tazione elaborata dalle prece denti Conferenze I problemi del traffico, della cir colazione e della sicurezza so no perciò affrontati sulla base di una vasta gamma di esperien ze zonali da mettere a con fronto. regionali. Come si conviene ad una ma nifestazione a carattere nazio nale, il documento conclusivo esprime le scelte e le proposte dei giovani formulate in modo totalmente autonomo, perché la Conferenza è da loro autogesti ta in piena autonomia. Insegnan ti e tecnici assumono infatti la veste di consulenti. La manifestazione « Una Re in ogni classe » può dazione dunque fornire alle Autorità re gionali e centrali, ma anche agli studiosi e alla pubblica opinio ne, indicazioni di notevole inte resse sull'orientamento di una vasta massa di giovani perfet tamente edotti dei problemi del traffico. verso una serie di manifestazio ni autogestite. All'Istituto sono pervenuti ol tre 5.000 elaborati di cui 2.800 organizzati da gruppi di lavoro con una partecipazione globale di oltre 400.000 alunni. La Commissione selezionatri ce in base all’esame di questi elaborati ha prescelto gli allievi che unitamente ai loro insegnan ti partecipano a 20 Conferenze regionali, per un totale comples sivo di oltre 1.000 giovani. In queste Conferenze regio nali gli alunni esprimono libera mente idee e concetti su pro blemi del traffico e della circo lazione che hanno già trattato nei loro lavori, ponendoli a con fronto e discussione con i com pagni delle altre scuole della regione presenti al Convegno, e a conclusione hanno predispo sto un documento che presenta una mozione regionale che sarà successivamente discusso alla « Il Conferenza nazionale dei giovanissimi sul traffico» che si terrà a 'Pesaro dal 20 al 21 Maggio 1977. L a s c u o l a i t a l i a n a s c o p r e l ’ e d u c a z i o n e s t r a d a l e re integrata da controlli oggetti vi sulla realtà della circolazio ne e da dimostrazioni pratiche su campi-scuola, scolastici ed aree scolastiche ». Tenendo nel massimo conto questo voto dei giovanissimi, il Ministero dei Lavori Pubblici in accordo con quello della Pub blica Istruzione, ha ampliato e approfondito quest’anno l’inizia tiva « Una Redazione in ogni classe ». L’azione del Ministero inve ste, oltre che gli alunni della 4a e 5» classe elementare di tut te le scuole italiane, anche ed essenzialmente le scuole medie inferiori, e cioè 2.500.000 alun ni, 230.000 insegnanti, 6.780 pre sidi, 8.780 scuole, 94 Provvedi tori agli studi. Come noto, questa campagna di educazione stradale a largo raggio è stata affidata dal Mi nistero, come già lo scorso an no, all’Istituto Nazionale per la Comunicazione, che la realizza attraverso una iniziativa origina lissima, volta ad ottenere il mas simo di attiva partecipazione de gli alunni e dei docenti attra D is c h i c la s s ic i M a c b e t h d a c o l l e z i o n e S c h w e i t z e r s u o n a B a c h Sembra quasi che il tormento che assale Macbeth dopo i’assassi- nio di Banko abbia aggredito come una maledizione anche il libretto e la partitura dell’opera che Verdi trasse dal lavoro scespiriano e che presentò nel 1847 alla Pergola di Firenze. Pare che i versi di Fran cesco Maria Piave in queli’occasio- ne (purtroppo solo in quella) aves sero profondamente deluso Verdi. Per ultimare il libretto oltre alle manipolazioni dello stesso compo sitore ci vollero quelle 'di Andrea Maffei e sul cartellone il nome del librettista non apparve affatto. Una altra manipolazione avvenne nel 1865 quando Verdi presentò l'opera a Parigi e questa edizione è quella che viene eseguita a tutt’oggi. Un grande merito discografico della recente edizione della EMI è quello di aver tenuto conto di al cune fondamentali pagine dell’edi zione del 1847, eliminate nel 1865, e di averle incise per la prima vol ta, inserendole in coda all’opera nel la sesta facciata della serie di di schi. Ci si può rendere così mag giormente conto dei travagli che sono alla base di questo primo ap proccio di Verdi con Shakespeare, di alcune incertezze del modo di risolverle, e della scarsa fedeltà al grande inglese. Colpa che, se è tale, sarà ampiamente riscattata nei più tardi Otello e Falstaff, grazie anche ai libretti di Arrigo Botto. La critica ottocentesca pur ap prezzando la potenza dello stile drammatico tacciò quest’opera (tra l’altro così ritoccata) di disconti nuità. La critica e il gusto di oggi sono profondamente cambiati e la continua tensione drammatica e la focalizzazione tipicamente moderna del dramma interiore di Macbeth e Lady Macbeth restituiscono ai no stri occhi unità al dramma e solidi tà a due personaggi giustamente definiti con l’indefinibile. 31 forte temperamento dramma tico e la sensibilità di Riccardo Muti non potevano non sottolineare la potenza espressiva, le nervature e da corposità di questo « indefi nibile » tragico e incombente dalla prima all’ultima nota. Il finale del primo atto è forse il momento più significativo del felice connubio Muti-Macbeth. Un cast di eccezione completa la registrazione: Macbeth, iSherrìl Mil- nes; Lady Macbeth, Fiorenza Cos- sotto; Macduff, José Carreras; Ban ko, Ruggero Raimondi e poi l’Am- brosian Opera ‘Chorus e la « New Philarmonia Orchestra ». Questa incisione i« kolossal » a lungo meditata e registrata con varie vicissitudini in diverse sale di incisione londinesi '(forse sem pre a causa della maledizione mac- bethiana) è la terza di una serie Muti-Verdi che la EMI ha iniziato nel 1974 con Aida (Domingo, Ca- ballé, Cossotto, Cappuccini, Ghiau- ■rov) e continuato nel ’75 con « Un ballo in maschera» (Arrojo, Do mingo, Cappuccini,Cossotto, Grist), Sempre per la stessa serie è pre visto a fine anno un « Nabucco » di cui i nomi già certi sono Renata Scotto e ‘Nicolaj Gbiaurov. Una notiziola per i più curiosi: la scena della lettera, letta da Fio renza Cossotto . Lady Macbeth (at to I quadro II) è stata diretta da Franco Enriquez e registrata a 'Salisburgo. Dopo l’assegnazione del premio Nobel per la pace del 1953 il nome di Albert‘Schweitzer (1875-1885) vie ne ricordato per l’attività filantro pica da lui svolta come medico e come fondatore di un ospedale per indigeni nell'Africa equatoriale. Non tutti ricordano le prime at tività di' Schweitzer e cioè organi sta, musicologo e professore uni versitario di teologia. Il suo libro a Bach, il musicista poeta» pubbli cato nel ¡1905 (sette anni prima del la sua laurea in medicina) ebbe un clamoroso successo. La CBS ci ripropone oggi in atmo sfera di revival ‘(Toscanini, Giese- king ecc.) un elegante cofanetto dal prezzo semi-economico conte nente 6 dischi di musiche par or gano di Bach, incise da Schweitzer per raccogliere fondi destinati al l ’Ospedale di Lambarené. Un documento particolarmente interessante è il libretto inserito nel cofanetto in cui i brani ‘incisi vengono spiegati e analizzati dallo stesso Schweitzer. iLa chiarezza e la semplicità con cui sono scritte queste note potrebbe servire da monito non ¡solo per molti critici ma anche per quanti recentemente hanno voluto vedere nella figura di Schweitzer un i« quid » di esibi zionistico e di paternalistico senza fare ;i conti con l ’epoca in cui egli è vissuto. L’analisi si serve, secondo le ten denze dell’epoca, di varie analogie che però vengono usate in modo moderno, indirizzando verso una vi sualizzazione geometrica del tessu to compositivo ’(divisione in stile gotico e romanico e uso di -termi ni architettonici) e il risultato fina le è che tutti possano capire ed essere agevolati all’ascolto. In quanto all’interpretazione que sti dischi sono forse l’ultimo ¡docu mento di ima scuola di cui era rap presentante César Frank e giunta a Schweitzer attraverso il suo mae stro, il famoso organista e com positore Charles Marie Widor. Tonino Del Colle 1 b r r a cura di Dante C appelletti I l t e a t r o d i H a r o l d P i n t e r Guido Davico Bonino pubblica una monografia su Harold Pinter. Una monografia che comincia con pubbliche scuse. « Non amo i critici e la loro lingua è per me lingua morta », ebbe difatti a dichiarare il capin testa del Nuovo Teatro inglese: ragion per cui il Davico Bonino si sente in dovere di precisare, nella prefazione al suo ampio, articolatissimo saggio, che « tanto ardire » è stato quasi una risposta automatica alla varietà delle sollecitazioni che si sprigiona da un’opera così polivalente come quella di Pinter. Son però scuse' superflue perché l’intelligente visitazione del « labi rinto Pinter » da parte del Davico Bonino ha ragione in blocco delle prevenzioni dell’autore di « Terra di nessuno » verso i critici. Appena appena inficiata di quel tanto di « ipirandellismo », cioè di ostinato ragionar logico, che sussiste nella critica drammaturgica italiana, la monografia si colloca ai primissimi posti fra la dozzina di saggi dedi cati a Pinter negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia. E Davico Bonino (che ha appena curato per Garzanti una scelta di commedie di Goldoni preceduta da un’iaggiomata introduzione) si conferma come uno dei nostri studiosi (e docenti, con cattedra a Bologna) di storia del Teatro più attenti e impegnati. Nato nel sobborgo londinese di Hackney nel ’30, figlio di un sarto di erigine ungherese, autodidatta e attore girovago, Pinter arrivò al successo nel '60, dopo esperienze radiofoniche e un esordio londinese (« The Birthday Party ») registrato con entusiasmo, nel ’58, dal critico del « Sunday Times ». Il ’60 fu l’anno in cui Pinter conquistò il pub blico di Londra con « The Dumb Waiter », che l’anno prima era stato collaudato in Germania. Dopo di allora fu riconosciuto, per le suc cessive opere >(« The Oaretaker », « Dialogue for Three », « Old Times », «No Man’s Land»), come uno degli autori più significativi del Teatro dell’Assurdo, in realtà — riferito al suo caso — di un Teatro di intro spezione psicologica che aveva saputo « digerire » gli esiti più avanzati della ricerca psicanalitica. Il porto d’attracco continentale del teatro di Pinter fu Parigi; in Italia si ebbe un primo allestimento sperimentale de « La Stanza » nel ’68, al Gad di Lucca, e poi la consacrazione nei ’73, con « Vecchi Tempi » al Teatro di Roma, regìa di Luchino Visconti. La Rai-Tv con una versione televisiva de « Il Guardiano », protagonista Peppino De Filippo, e il « Piccolo » di Milano con gli spet ta .-.oli attualmente in programma di « Terra di nessuno », a cura della compagnia di Romolo Valli, hanno finito per fare di Pinter un autore popolare anche in Italia. Alla sua popolarità hanno anche giovato sce neggiature cinematografiche, come quella de « Il servo » di Losey. Muovendosi su un doppio registro di analisi, tematico e strutturale, Davico Bonino delimita onestamente le caratteristiche di fondo della drammaturgia pinteriana, che usa il parlato quotidiano per costruire raffinati meccanismi compositivi, proietta zone inquietanti di mistero Diego Danza Il tiranno e il suo pubblico Einaudi, Torino, pag. 261, lire 3.400 La figura del tiranno, precisata in certi suoi aspetti nel mondo greco, si ripete nella storia con motivi e si gnificati diversi. Stabilire, secondo una indagine di tipo diacronico, una feno menologia della tirannide può essere anche un pò equivoco. L’autore vuole definire una precisa caratterizzazione di un fenomeno, che ha maggiore pos sibilità di riconoscimento in un qua dro e in un’analisi di tipo strutturale. « L’analisi — afferma Lanza — tende perciò ad accertarne la contradditto ria complementarità, senza eccessive preoccupazioni cronologiche ». In que sto modo è possibile tratteggiare e analizzare — accentrando il discorso sulla cultura e la realtà della Gre cia del V e IV secolo — quella forma di mitologia politica che investirà an che la storia successiva, fino ai nostri giorni. L’autore prende in esame la media zione poetica che dell’idea del tiranno compie l’artista. Si ripercorrono, così, le tappe fondamentali della nostra sto ria del teatro classico, quello greco appunto tra il V e IV secolo. Qual è il tipo di confronto che si pone tra scena e puhblico attraverso l’immagi ne onnipresente del tiranno? E’ un te ma affascinante, che si pone a mezza strada tra il discorso storico-sociolo gico, estetico, teatrale. Lanza risolve queste diverse coordinate in un omo geneo modello di analisi, che ben mette a fuoco la connotazione tiran nica. I poli di un confronto sul pro blema non possono essere che l’autore, il poeta, il « mediatore » culturale e il pubblico. Un’introduzione sul tema come elaborazione colta (e aristocra tica) sul popolare. Questo volume di Lombardi Satriani e Meligrana affron ta, secondo una chiave storico-antropo logica, il significato e il modo di es sere della cultura e dello stato popo lare, mostrandoci una visione del pro blema che va dall’Unità d’Italia fino ai nostri giorni. Ma, qui in particola re, il discorso è risolto nell’interes sante cifra della demologia giuridica: questo permette una maggiore eviden ziazione sociologica e politica del dato foikioristico. Il campo di ricerca è rappresentato dalla Calabria che, per come ce la presentano gli autori, non vuole essere che un « campione » in dicativo. I documenti che Il rigore con cui è condotto il la voro è tutto a vantaggio di una chia rezza non solo del 'tema, ma anche dell’esposizione. i due studiosi hanno raccolto sono di grandissimo interesse ma, giustamen te, il capitolo introduttivo, a caratte re storico, permette al lettore una lu cida ¡chiave di lettura dei diversi ma teriali presentati. Il libro non può non essere visto come un importante con tributo, non solo agli studi di demo logia giuridica, ma agli studi sul fol klore e tutta la cultura non-egemone. Pio Baldelli Charlie Chaplin La Nuova Italia, Firenze, pag. 246, lire 4.000 Sulla figura e l’arte di Chaplin esi stono, ormai, diverse monografie. Que sto volume di Baldelli non esce inva no, però, e senz’altro aggiunge una relativo al teatro politico attraverso i più significativi interventi teorici (si pensi a Piscatori era indispensabile. Così il discorso sul teatro ateniese si sviluppa in una cifra più chiara ed efficace. Gli altri momenti di que sto intelligente volume si compongo no dei vari aspetti. fenomenici della categoria tirannica, riguardata in un continuo confronto con l’aspettativa del pubblico. Rimanendo il fulcro di tutta la trat tazione il teatro classico, la cultura ateniese, Lanza stabilisce le coordi nate di un riconoscimento, in tutta la storia, della maschera tirannica. E viene analizzata la prassi di una mi stificazione del potere autoritario, co me affermazione di una psicologia ege mone individuale, in diversi modelli di sete di dominio; sia esso queio di un Nerone, di Federico H, di Hitler o Stalin. « La figura ideologica del ti ranno sopravvive nella concretezza di modello psicologico stabilmente con notato; sopravvive anche, ed è que sta la sua più importante condizione di permanenza, nella sua astrattezza di modello di traducibilità psicologica di contenuti morati e sociali. Non so pravvive però quel che definisce la figura nella specificità del contesto ideologico dell’Atene del V secolo: la politicità del modello psicologico. Que sta politicità non può sopravvivere al la comunità costituzionale della polis; l’eredità che lascia è il suo rovescio: la psicologizzazione della politica, la figura classicamente senza tempo del tiranno ». Luigi M. Lombardi Satriani - Mariano Meligrana Diritto egemone e Diritto popolare Edizioni Qualecultura, Vibo Valentia, pag. 514, lire 7.500 l’ambigua Il problema della cultura popolare ha occupato gran parte della nostra letteratura antropologica. Se ne è spesso parlato a proposito, molto più spesso a sproposito. Basterebbe solo citare interpretazione dei termini « popolo » e « popolare ». Sulla scia gramsciana, molti studiosi hanno inteso stabilire una più netta conno tazione del termine « popolare », inten dendolo come relativo allo stato di classe sociale. Per cui è ormai un fatto accettato da tutti che l’aggettivo « subalterno » è più esatto : indica in tanto una classe sociale non egemone; più esatto ancora è infatti il distinguo tra cultura egemone e cultura subal terna. Sono, ¡questi, aspetti di un pro blema che, a molti, possono sembrare scontati, e che invece non lo sono affatto. Pensiamo per un momento a quanta confusione c’è stata nel mon do dello spettacolo, del teatro in par ticolare, su questo punto. E’ inutile rilevare come nella scena italiana del dopoguerra si sia verifi cata una quasi costante oscillazione tra spettacolo popolare, come spetta colo populista, e spettacolo popolare intorno a situazioni apparentemente irrilevanti, distrugge gli schemi con venzionali del teatro psicologico ¡per frugare meglio nel mondo dell’animo umano, ridimensiona il tragico di Beckett e il grottesco di Ionesco per proclamare con accresciuto rigore tutta l’ambiguità e l'incertezza del vivere contemporaneo. Dice bene, alla fine, Davico Bonino: «Nes suno meglio di Pinter ha opposto un così reciso rifiuto al didatticismo, a'.rideologìa prestabilita, ai drammi a tesi, al teatro naturalista, allo psicologismo tradizionale, agli artifici e ai trucchi del mestiere, al ricatto deirintrecoio... Il suo segreto è una sovnascrittura teatrale com plessa e inattesa, un linguaggio così prodigiosamente inconsueto da ap parirci del tutto naturale ». La virtù del suo Antiteatro è nella since rità davanti al fatto esistenziale; non ¡per nulla Pinter ci congeda — e Davico Bonino con lui — con una battuta di un suo ¡personaggio; x Ogni uomo appartiene in definitiva ad una società segreta, ad una cospirazione formata da un solo membro: lui stesso ». U. R. GUIDO DAVICO BONINO edilcre, TORINO. «Il Teatro di Harold Pinter» Martoro, nuova possibilità per valutare la fi gura del grande attore e autore ame ricano. Intanto il punto di vista: la misura di un fenomeno riscontrato at traverso un’ottica di carattere socio logico, e, all’interno di una simile coordinata, la costante di una cifra estetica intesa come storia di un’arte. In questo modo si evidenzia meglio i'l significato della nascita della masche ra Charlot, come dimensione umana e sociale, riconoscibile e spiegabile in un certo periodo, prima del « passag gio » al lungometraggio più « struttu rato ». E si capisce anche il perché del peso estetico di una « marionet ta » moderna. Baldelli usa materiali di riferimento diversi, privilegiando il « racconto » analitico di tutto il lavoro e l’opera chapliniana, piuttosto che metterne in evidenza le peculiarità, le gate ad un esame specifico — di tipo strutturale o semantico — della co micità. ¡Dall’opera traspare lo scontato giu dizio positivo su Ghaplin, sin dalie prime pagine: ma, giustamente: perché l’autore ritiene più importante fornire ta figura d’artista. In questo modo si ta figura o’artista. In questo mono si capisce meglio anche l’incomprensione di certa critica, che voleva dividere il lavoro chapliniano in livelli artistici; la nascita e lo sviluppo di una felice creatività, il periodo di splendore, in fine la decadenza. Ricondotto, invece, ad una più organica valutazione, l’ar te chapliniana appare molto più com plessa; interessante anche in quei mo menti cosiddetti « minori ». Della Contessa di Hong Kong Bai- deli; dice: « R film ha un tragitto coerente con rimpianto psicologico, di cui sviluppa la spinta di "rancore” in maniera apparentemente divagante o sinuosa... Questo film non intende soltanto far ridere e non costituisce una "pacanza” ohe l’autore si sareb be concesso. Ci sono cedimenti e parti opache, nel film di Ghaplin... La con tessa di Hong Kong resta un lavoro di alto artigianato, non certo un ca polavoro. Eppure nel film si avverte la presenza intera di Ghaplin, che a 78 anni testimonia la sua indomita te nacia, la sua fiducia nella scelta in dividuale dell’uomo che esce vitto riosa su ogni tipo di prevaricazione e mortificazione ». Osservazioni che non vogliono certo « salvare » l’arte di Ghaplin ad ogni' costo: vogliono solo dar ragione del significato di una co sì grande figura della storia del ci nema. August Strindberg Verso Damasco (a cura di Luciano Codignola) Adelphi, Milano, pag. 327, lire 7.000 La conoscenza di un autore come Strindberg è diventata necessaria, se si vuole mettere a fuoco tutta una serie di forme di scomposizione del personaggio, ¡base di quasi tutta la drammaturgia contemporanea. Verso Damasco, nella splendida traduzione di Luciano Codignola e Mady Obolen- sky, è una delle più interessanti tri logie del grande autore svedese. Al fascino di un misterioso racconto si accompagna il mistero deìl’esisienza umana, ricucita e poi dissolta in un insieme di indefiniti. Verso Damasco I si sviluppa in un itinerario di « an data e ritorno », dove si compie una sorta di espiazióne dell’individuo e un suo ritorno alla partenza del vivere. Più rettilinea è la struttura di Verso Damasco II, dove lo svolgersi degli eventi si misura con un progressivo svilupparsi dei temi e delle vicende. Verso Damasco III è, in qualche mo do, la naturale conseguenza dei primi due momenti, risolti, però, nella com posita struttura teatrale, dove emer gono, soprattutto, diverse misure rap presentative, eccezionalmente nuove e stimolanti. « Ma il problema vero della Trilogia — afferma Codignola in un suo saggio finale — è quello della sua unità, al di là delle differenze di struttura, di linguaggio, di contenuti. In apparenza, si tratta di tre opere distinte, fra le quali possiamo scor^ gere un legame evidente soltanto tra le prime due, mentre la terza, poste riore di due anni, sembra un corpo aggiunto ». Gli elementi che colpisco no maggiormente, comunque, sono quelli di una discontinuità inedita del la categoria spazio-temporale. Inten diamoci: non è primo Strindberg a compiere una distruzione dei nessi tradizionali tra spazio e tempo; è. il primo — e forse uno degli unici esem pi — che fa diventare tutto questo base e struttura degli eventi, base del la stessa condizione teatrale e, infine, strumento portante del significato del le azioni. Il tema della discontinuità nella rappresentazione è di incredibile modernità. L’autore, infatti, non pro pone solo la vicenda — dhé questa, in realtà, è già dissolta in partenza — ma i codici di cui è composta. Sen za averne coscienza teorica Strindberg compie, nel suo teatro, un lavoro di carattere squisitamente strutturale: i vari dementi vivono come modelli espressivi « autonomi », come punti di riferimento diversi, come lessici spe cifici. Il grande autore svedese cer cava di recuperare l’oggettivo naufra gio del tempo come momento che si giustificava in una chiave metaforica, tutta legata ad un piano onirico. In questo modo recuperava, in sede teo rica, le chiavi del teatro naturalistico. Ma la spiegazione dell’autore è ovvia mente legata ad una «necessità sto- rica », dove l’inedito modello teatrale sembrava, tuttavia, poter trovare ag ganci e giustificarsi nel corpo della tradizione. E’ il periodo in cui Bergson analizza il significato del tempo e della durata, mentre Freud propone, con la psico analisi, una diversa lettura della psi che umana. La grande invenzione di un tempo scenico nuovo si doveva configurare, nella mente dell’autore, più come esperienza che come dato di una diversa concezione. Eppure ba sterebbe vedere come vive il Tempo lo Sconosciuto, il personaggio princi pale della Trilogia. « Per lui, il qua dro sintetico del tempo è soggetto a disgregazione; il suo avvenire sembra sbarrato. I suoi interessi si rivolgono tutti alla sfera spaziale, sono nulli ri spetto al presente. Tìpica dello schi zoide... è la Sorge, l’angoscia: e quale immagine più completa dell’angoscia, di questo Sconosciuto, ohe diventa il modello dell’arte dell’angoscia, l’espres sionismo? ». 1 punti di novità di Verso Damasco sono molti. Rimane che il livello strut turale è quello ohe più può colpire nel la cultura teatrale contemporanea. Ma non va dimenticato che il discorso di Strindberg si capisce meglio e si pre cisa nell’ambito di un affascinante orizzonte tematico. Il problema del l’uomo come problema di un suo rap porto con la transceridenza, l’impossi bilità, tutta protestante, alla cancel lazione della colpa del peccato, l’insor montabile scoglio di un recupero alla coscienza dei dati inconsci che sono la malattia inguaribile dell’uomo. An che per questo Verso Damasco è una delle più interessanti letture dell’ope ra strindiberghiana. ■Perché il momento della, pura e sem plice credibilità accompagna lo svi luppo dei vari aspetti dell’opera, com preso religioso. Strindberg ha voluto anche « descrive re la stessa esperienza tragicomica d’un impossibile ritorno a Cristo, già narrata in Inferno, e negli stessi ter mini di un umorismo metafisico... Non è... possibile credere alla conversione dello Sconosciuto, che rimarrà col suo vecchio io. E con questo sconcertante personaggio Strindberg avrà illustra to la condizione dell’ ’’uomo intelli gente del XIX secolo” , cioè la nostra condizione ». l’dnquietante tema Luigi Magnani Goete, Beethoven e il Demonico Einaudi, Torino, pag. 124, lire 4.000 Dalla creazione estetica, in genere, si è abituati a giudicare il valore nel momento della sua conclusione ogget tiva, nel « prodotto » finale, nel tangi bile del « finito ». E’ questa una pras si non solo legittima, ma anche la più valida e quella che permette di evita re molti equivoci sui « significati ». Per esempio, valutare l’arte anche per quanto di intenzionale porta con sé è, senza dubbio, una forma di limita zione e, al tempo stesso, un procedi mento che esclude la correttezza ana litica. Del resto non meravigli che appaia discutibile il giudizio che in clude anche un presunto significato

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Il dramma : rivista mensile di commedie di grande successo. - Torino : Grandi firme, 1925-1992.

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