MENSILE DI SPETTACOLO - ANNO LUI - N. 5-6 - LUGLIO-AGOSTO 1977 - LIRE 2.000 I L D R A M M A T e a t r o e m u s i c a a S p o l e t o C i n e m a a T a o r m i n a E L A B I I E N N A L E ? ¡ d u e l l o : « Q u e l l e e q u e s t e d o n n e » / I l i t a l i a P H I L A D E L P H I A Tra pochi minuti, il carrello del grande DC/10 dell’Alitalia toccherà la pista dell’aero porto internazionale di Philadelphia. Nella spaziosa e confortevole cabina le ho stesses sono indaffarate a risolvere gli ultimi «problemi» posti dai passeggeri, dando loro in formazioni di vario genere sulla nostra desti nazione. Siamo partiti da Roma alle 10,30, ripartiti da Milano alle 12,30, dovremmo atterrare nella grande città americana alle ore 18.00. Sono gli scherzi dei fusi orari! Le ore di volo sono scivolate via senza noia, e ciò va ascritto a merito delle assistenti di volo che tra una colazione, un rinfresco, un drink, i giornali, le caramelle, una cena, le sal- viettine rinfrescanti ed un pisolino ci hanno fatto dimenticare di consultare gli orologi. lo, poi, ero preso anche dalle letture: opu scoli, libri e una piccola guida della città mèta del mio viaggio. Ho appreso così che Philadelphia (attento, proto, a come lo scrivi) fu fondata nel 1682 da un gruppo di coloni guidati da William Penn, su di un territorio acquistato dagli indiani che abi tavano quella terra che oggi si chiama, appun to, Pensylvania. Philadelphia è la quarta città della Confede razione americana per numero di abitanti (ol tre due milioni), la terza per importanza indu striale essendo ubicati nel suo territorio i più grossi complessi manifatturieri. Raffinerie, cantieri navali, attività editoriali, fabbriche per la costruzione di macchinari per l’industria ect. fanno, della città e del suo interland, uno dei centri nevralgici degli USA. l’industria Al primo posto è In quest’ultima attività è facile notare l’influenza di taluni gruppi etnici europei — come l’italia no, l’ungherese, l’irlandese e l’ucraino — che, qui giunti massicciamente negli anni a cavallo dell’800 e del ’900, transfusero nell’industria tessile locale la loro esperienza di artigiani e di creatori. La città è ricca di monumenti che ne ricor dano la storia che, seppur relativamente re cente, è in ogni caso interessante legata com’è alla turbinosa vita di William Penn, alle tessile. lotte per l’indipendenza, ed al periodo del suo massimo splendore come centro politico dell’Unione. Philadelphia fu sede del primo Congresso, nella cui aula, il 4 luglio 1776, fu proclamata l’indipendenza delle colonie della Nuova Inghilterra. Il monumento a George Wa shington nell’omonima piazza; la «Indipenden- ce Hall» dove, nel 1 776, venne approvata la Di chiarazione d’indipendenza; le vetuste chiese care al cuore degli immigrati; il Palazzo della Banca Nazionale costruito a forma di Pan- gheon; ed ancora la «City Hall», l’Istituto Fran klin con l’annesso Museo, e la ricca Pinacote ca intitolata al pittore francese Rodìn, sono al cuni tra gli edifici che il turista non può fare a meno di visitare. Per chi ricerca un più dovizioso arricchi mento culturale, dieci musei si offrono alla sua sete di apprendere: sono i musei che racchiu dono tesori delle arti figurative, delle scienze naturali, dell’arte folkloristica, la minuziosa raccolta dei piani urbanistici della città, le col lezioni archeologiche, nonché una straordina ria «passerella» di personaggi e di scene, in grandezza naturale, tipici della «leggenda americana». Intesa è la vita culturale: dai cicli di confe renze ai famosi concerti della «Philadelphia Orchestra», alla cui direzione si sono succe duti i più noti direttori musicali europei. Parchi, giardini, zoo, acquari, palestre spor tive e quindi teatri, cine clubs, locali per spet tacoli d’avanguardia, tutto è qui nelle dimen sioni che sono proprie dell’America. Il giganti smo, la dovizia, la ricchezza economica tra spaiono chiaramente da ogni dove, lasciando noi, europei, a volte perfino stupiti. Questo mondo così diverso dal nostro ci è ora più vicino: più vicino da quando l’Alitalia ci ha offerto la possibilità di raggiungerlo da Roma e da Milano. L’Italia è collegata, infatti, alla città america na con 4 voli settimanali che vengono effet tuati con i moderni DC/10 della compagnia di bandiera. Le partenze avvengono da Roma ogni lu nedì, mercoledì, giovedì e sabato e da Milano ogni mercoledì e giovedì. a l t u o s e r v i z i o d o v e v i v i e l a v o r i C A S S A M R I S P A R M I O S o c i e t à I n t e m a z i o n a l e P u b b l i c i t à S . I .P Concessionaria esclusiva per la pubblicità S.I.P. SpA (Società Interna zionale Pubblicità) Roma - Piazza Adriana, 12 - Tel. 65.03 Milano - Corso Venezia, 14 - Tel. 70.80.01 T A R IF F E — P u b b lic ità C o m m e rc ia le — P u b b lic ità R e d a z io n a le — P u b b lic ità F in a n z ia ria L . 300.000 - u na pag ina L . 160.000 - m ezza pag ina L . 400.000 - u na pagina L . 200.000 - m ezza pagina L . 400.000 - u n a pagina L . 220.000 - m ezza pagina — S econda e T e rz a pagina di c o p e rtin a L . 400.000 — Q u a rta pag ina d i c o p e rtin a L . 500.000 MENSILE DI SPETTACOLO - ANNO LUI - N. 5-6 - LUGLIO-AGOSTO 1977 - LIRE 2.000 S O M M A R I O __________________________________4 - Una ariosa casa di campagna_________________________ __________________________________6 - Il teatro tine_______________________________________ ANGELO LIBERTINI_______________ 7 - Spoleto, o cara...___________________________________ DANTE CAPPELLETTI_______________ 14 - Un mese di Jugoslavia al “Premio Roma”________________ A-L. 17 - Teatro Tenda: la prima rassegna internazionale del teatro _____________________________________ popolare_________ ________________________________ GIUSEPPE MANFRIDI________________20 - Gassman: 7 giorni all’asta _______________________ ODOARDO BERTANI________________ 22 - I trent’anni del Piccolo____________________________ ODOARDO BERTANI________________ 23 - Il Berliner Ensemble a Venezia_______________________ SIMON GRAY______________________ 27 - Altrimenti impegnato________________________________ MARIO GUIDOTTI__________________ 45 - Quelle e queste donne ____________________________ GIUSEPPE GIANNONE______________ 65 - La legge del computer________________________ ____________________ À-L.______________________________ 68 - La morte di Sandro Giovannini GIUSEPPE GIANNONE _____________69 - È italiano il nome nuovo dell’off Broadway______________ LORENZO BOCCHI__________________70 - Le uova di Jonesco e il bullo di Miller___________________ UGO RONFANI_____________________ 73 - Barrault rilancia il Teatro delle Nazioni__________________ L-B-______________________________ 75 - Anche Leo e Perla a Parigi __________________________ 76 - La prosa-recensioni (a cura di Odoardo Bertani, Angelo Li- _____________________________________ bertini, Dante Cappelletti e Maurizio Liverani)____________ DOMENICO E GIUSEPPE RIGOTTI_____ 91 - Matilde Serao autrice drammatica_____________________ MAURIZIO LIVERANI_________________94 - Un “maestro” per tutte le stagioni_____________________ MAURIZIO LIVERANI M-L.______________________________97 - Cannes “Padre padrone”___________________ ADOLFO LIPPI_____________________ 98 - Il sinistrese scopre l’America_________________________ IRENE FREDA PITT__________________99 - La stella Baryshnikov brilla più forte___________________ ALBERTO TESTA__________________ 103 - Milloss e Bejart a confronto ______________________ SANDRO BRUGNOLINI 106 - È cambiato qualcosa 96 - La santa alleanza '___________________________ 115- Libri (a cura di Dante Cappeletti e Ugo Ronfani)__________ Comitato di direzione: Odoardo Bertani, Diego Fabbri, Mario Guidotti, Maurizio Liverani, Ugo Ronfani. Diret tore editoriale: Carlo Fuscagni. Condirettore editoriale: Angelo Libertini. Responsabile: Diego Fabbri. Segre teria: Anna Maria Menna. Cooperativa «il Dramma» a r.i. - Redazione e amministrazione: Piazza in Campo Marzio, 5 - 00186 Roma - Telefono 657.307 - Registrato presso il Tribunale di Roma al N. 15230 del 22- 10-1973 - Un numero lire 1.500 - Arretrato lire 2.000 - Abbonamento annuo lire 1 5.000 - Estero lire 20.000 (IVA compresa) - C.c.p. 22931000 intestato a Cooperativa ..il Dramma» - Piazza Campo Marzio, 5 - Roma - 'Spedizione in abbonamento postale gruppo ill/70 -1 manoscritti anche se non pubblicati non si restituiscono - Pubblicità: Cooperativa «Il Dramma» - P.za in Campo Marzio, 5 - Distribuzione in Italia e all'estero: Parrini - P.za Indipendenza, 3 - Roma Tel. 49.92 - Stampa: A.B E.T.E Roma - Via Prenestina, 683 - Tel. 221 841 e d i t o r i a l e Il «Festival dei Due Mondi» è, da quest’amo, dei «due mondi» davvero. Ve nuto in qualche modo dall’America con il maestro Menotti, messe radici a Spoleto e data testimonianza per molte stagioni di quali e quanti fio ri e fru tti sappia pro durre, il Festival ha fatto pochi mesi fa un festoso viaggio di ritorno, e a Charleston ha inaugurato una sua seconda versione, quella americana. Motivo di autentico compiacimento poiché una proliferazione di questo genere è cosa rarissima. Da quest’anno il «Festival dei Due Mondi» potrebbe dunque es sere considerato a ragione la prima «multinazionale» nell’area della cultura spon tanea. Quella cultura che nasce da una esigenza creativa e organizzatrice di qual che eletto, che matura e si afferma per il sacrificio di pochi e che i Pubblici Poteri fiancheggiano e sostengono, abitualmente con molta simpatia e anche, è doveroso sottolinearlo, con un pò di denaro: prima poco e a mano a mano in modo sempre più consistente. La edizione americana con gli echi che ha suscitato deve aver acceso, di rim balzo, un certo spirito di orgogliosa emulazione se son vere le notizie apparse sulla stampa a ll’indomani della inaugurazione del Festival, ancora in corso, che parlano di un progetto concreto per dare al «Festival dei Due Mondi» una prossima strut tura giuridica di Ente pubblico, dotato, di conseguenza, di una congrua sovven zione che dovrebbe aggirarsi tra i 600 e gli 800 milioni per stagione. È pur vero che in Italia dal progettare al fare trascorre sempre non diciamo il mare, ma un certo tempo, però già queste prime, ipotetiche notizie, non sprovviste comunque di una certa autorità, hanno dato e danno motivo ad alcune considerazioni. Una, in nanzitutto, e positiva: il teatro comincia a suscitare anche ai livelli dell’ammini strazione dello Stato, un concreto interesse e una concreta inclinazione al sostegno anche pratico. M a è davvero necessario che per suscitare la benevolenza dello Sta to, una iniziativa già feconda da tanti anni debba essere tolta dalle mani di chi l ’ha inventata e imposta per assumere innanzitutto la struttura anonima di un Ente che è, sempre, costretto a perdere una precisa individuazione per assumere, fata l mente, i caratteri e l ’andamento del carrozzone? Non c’è dubbio: Valli e Menotti resterebbero alla guida del nuovo Ente, ma per quanto? E con che limitazioni, con quali direttive? E la promessa dotazione annuale di 600-800 milioni da parte dello Stato è proporzionata in confronto a quel che complessivamente viene speso per tutto il teatro di prosa? A ll’Ente Teatrale (ETI), 70 teatri da gestire, tutte le Com pagnie da fa r circolare, più di duemila recite a ll’anno con circa due miliardi di in casso, vengono assegnati, e sempre con fatica, 800-900 milioni annui. A ll’insieme dei teatri, stabili che sono pur sempre, nonostante una tenace incapacità di rin novarsi, la struttura come si suol dire «portante» della nostra scena, quale somma lo Stato destina? Press’a poco quella che si progetta di attribuire alla bella ras segna estiva di Spoleto. E non godono di maggior favori in denaro nè il complesso delle compagnie private nè l ’inflazionato mercato delle «Cooperative». E allora? In fondo, con tutta la simpatia e l ’ammirazione che gli si deve dare, il «Festival dei Due Mondi» è un pò la casa di campagna, il luogo di villeggiatura nei confronti della residenza abituale, la casa di città, in cui il teatro italiano svolge per circa otto mesi la sua sudata vita ordinaria, sera per sera, girando e sacrificandosi da un capo a ll’altro della Penisola. Se c’è uno sforzo compiere compiersi non dovreb be allora rivolgersi anzitutto a favore, a sostegno e ad espansione del teatro or dinario che è, in fin dei conti, quello che costituisce il volto autentico della nostra globale drammaturgia militante e che comprende autori, registi, attori, insomma tutti coloro che si chiamano comprensivamente teatranti? Se ci sono soldi che cre scono la prima destinazione ci pare questa. Senza pensare per il momento ad Enti nuovi (non è dunque bastato l ’esempio della Biennale che tolta dalle mani di Venezia non solo è diventata un carrozzone ingovernabile, ma si è spappolata nel modo che tutti abbiamo visto?), ma a rad drizzare le gambe, se fossero storte e gracili, e un pò lo sono, a quel che già c’è e ha solo bisogno di essere solidificato e ristrutturato. Il sostegno che si dà al Fe stival di Spoleto è certo insufficiente, oggi: lo si accresca, lo si adegui alle reali necessità, ma non lo si impieghi, con un nuovo Ente, in altre spese generali, in im piegati, consiglieri, funzionari scelti — e non si scappa — col criterio del contin gentamento politico o di tendenze. Si lascino lavorare con maggior sicurezza gli attuali dirigenti, Valli e Menotti. E la bella, ariosa casa di campagna, la casa di vacanza resti tale — di campagna e di vacanza -, rimanga momento di distensione e di elevato svago, si apra liberamente alla bizzarria e anche alla stravaganza de gli artisti di tutti i Paesi, rimanga insomma il mese della fantasia. Il Dramma d i R o m a , M i l a n o , G e n o v a , F ir e n z e , B o lo g n a , N a p o l i, A c o n f r o n t o i n 3 0 t e a t r i le d u e u l t i m e s t a g io n i p e r u n p r i m o b i l a n c i o d i q u e s t ’ a n n o I l t e a t r o t i e n e Come è andata l ’ultima stagione teatrale? E presto per fare un consuntivo completo, ma i primi dati (di fonte Agis) dicono che la frequenza de! pubblico non ha fatto registrare la caduta verticale che molti teme vano. Per un primo bilancio sono stati presi in consi derazione i risultati della stagione 1975- 76 in un grup po di teatri dì Roma, Milano, Genova, Napoli, Bolo gna e Firenze e sono stati messi a confronto con quelli dell’ultima stagione. La rivelazione non include tutta l ’attività teatrale espletata nei centri di cui sopra ed il raffronto non è tra risultati globali delle piazze, ma tra gli esiti delle pro grammazioni nelle stesse sale teatrali. E un punto da tenere ben presente. Per esempio, a Roma, si è tenuta fuori dall’indagine l ’eccezionale programmazione di Proietti al Teatro Tenda, i cui esiti contribuiscono ad incrementare notevolmente i risultati 1976/77 della ca pitale. Nei 32 teatri di cui si sono analizzati i risultati, dal 10 ottobre al 31 marzo 1975/1976 si sono registrate 4.439 recite, 1 milione e 985 mila biglietti venduti e 7 miliardi di incassi. Per lo stesso periodo 1976/77 le rap presentazioni sono state 4.396, con 1 milione e 931 mila presenze e 6 miliardi e 769 milioni di incasso. Per quanto riguarda i valori assoluti, gli esiti 76/77 si concretano quindi in — 43 recite (— 1 %); — 53.775 biglietti venduti (— 3%) e — 261 milioni (— 4%). L ’irrilevanza delle variazioni dei valori assoluti è confermata dall’analisi delle medie di incasso e spet tori a recita. Al riguardo il 1976/77 ha visto, rispetti vamente, 1 milione e 539 mila lire e 439 unità, con di minuzione, rispetto al 1975/76, di 44 mila lire e di 8 unità. Sotto il profilo generale, la situazione del teatro di prosa ha quindi «tenuto» nonostante i molteplici fat tori congiuntamii che vanno dai processi indotti dalla crisi economica, al clima da coprifuoco, alla prolifera zione selvaggia dèlie TV private. In questa prospettica si inquadra anche un ’altra im portante notazione statistica: nel 76/77 il prezzo medio de! biglietto dello spettacolo teatrale nelle sale consi derate è diminuito — sia pure di poco, 37 lire — rispet to al valore 75/76. È una risultanza contraria ad ogni logica di puro mercato e che, se rivela il senso di re sponsabilità degli operatori teatrali, ha scaricato esclusivamente sulle già ridotte capacità dì assorbi mento delle imprese tutti gli aumenti di costo di im pianto e gestione intervenuti nell’ultimo periodo. Scomponendo le indicazioni globali per i singoli centri, si nota che il 1976/77 ha visto una consistente flessione di Milano e di Genova, compensata dagli incrementi di Napoli e Roma. Per Firenze e Bologna gli esiti 1976/77 per la partecipazione del pubblico non hanno subito so stanziali variazioni. Per Milano c'è dunque Un principio di recessione, in cui entrano diversi fattori. Ad esempio, l ’inizio di sta gione è stato decisamente in tono minore, mentre da metà dicembre in poi si è registrata una ripresa. E un fatto di programmazione? Di validità degli spettacoli? Si è ricordato che Roma e Napoli sono i centri che nel 76/77 hanno conseguito risultati superiori a quelli dell’anno precedente. Per Napoli le variazioni sono addirittura clamorose + 72.748 biglietti venduti (più 367); + 456 milioni di incassi f+ 64%); + 86 recite (~\~ 18%). Nell’analisi delle componenti, risulta che questo in cremento appare imputabile agli esiti del Politeama e, sioprattutto, del San Ferdinando. Per l ’aspetto di questa rilevazione, Roma è senz’al tro la situazione più emblematica ed interessante per l ’ampiezza e l ’eterogeneità della base di valutazione. Questi i risultati conseguiti in 13 sale teatrali nel pe riodo ottobre-marzo della stagione 1975/76 e 1976/77 (tra parentesi i dati dell’anno teatrale in corso): rap presentazioni 1.804 (1.749); biglietti venduti 660 mila (675 mila); incassi 2.380 (2.837); media incassi a re cita lire 1.319.000 (L. 1.365.000); media presenze 366 unità (386). S p o l e t o , o c a r a . . . Ventesimo compleanno per il Festival dei Due Mon di: i presupposti sono gli stessi che hanno caratterizzato tutte le edizioni di questi ultimi anni, difficoltà finanzia rie sempre crescenti che non possono però in alcun modo limitare l’impegno quanto meno a mantenere il livello di qualità, sia come scoperta che come verifica, che ormai tradizionalmente corrisponde alla manifesta zione spoletina. Per questa ventesima edizione (c’è pur sempre un certo sapore di ricorrenza speciale) Valli e Menotti sono riusciti, fra una lamentela e l’altra per le difficoltà di cui si è dedotto, a varare un programma an che più nutrito del solito dove naturalmente non man cano i momenti di particolare interesse sia sul piano ar tistico e culturale, sia come possibilità di richiamo nei confronti del pubblico: un po’ al di sotto, però, delle pro messe che si potevano ricavare dalla particolare atmo sfera del «ventennale» o anche soltanto da una sempli ce lettura delle locandine, affollate di nomi importanti, o degli articoli di presentazione. N a p o li m ilio n a r ia Molto viva era in particolare l’aspettativa per lo spet tacolo d’apertura, un’opera lirica in prima mondiale, «Napoli milionaria», libretto e regia di Eduardo De Fi lippo, musica di Nino Rota, maestro concertatore e di rettore d’orchestra Bruno Bartoletti. Sono noti a tutti gli antefatti di questo spettacolo: una bellissima com media di Eduardo, uno dei suoi cavalli di battaglia, re plicata centinaia e forse migliaia di volte dal 1945 ad oggi; un film quasi altrettanto noto, la cui colonna so nora fu composta appunto da Nino Rota. Di quella composizione il musicista milanese ha ripreso i temi fondamentali, alternati con melodie di tipica ispirazione partenopea (e sembra spesso di cogliere citazioni di mo tivi celebri) e con i ritmi delle truppe «alleate»: un ma teriale d’origine piuttosto eterogenea, ben amalgamato in una sapiente orchestrazione ma non sino al punto di I ballerini giapponesi del «Minzoku Buyo Dan». Una scena di «Napoli milionaria», musica di Nino Rota, libretto e regia di Eduardo De Filippo. smussare completamente certi contrasti un po’ troppo stridenti. In effetti questa edizione operistica di «Napo li milionaria» non è sembrata all’altezza delle aspetta tive: la musica, per quanto gradevole, non riesce ad as sumere un ruolo di protagonista come sarebbe neces sario in un’opera lirica: è musica descrittiva cui meglio si addice una funzione di sottolineatura, se non addirit tura di sottofondo, e manca d’altronde il colpo d’ala. Quanto al libretto, molto si è parlato nei giorni imme diatamente precedenti la «prima» delle modifiche adottate da Eduardo De Filippo rispetto alla commedia originale: il segno (si è molto insistito in particolare sul la modifica della battuta conclusiva dello spettacolo) sa rebbe quello di un maggiore ed anzi definitivo pessimi smo: secondo Eduardo, se nel 1945 la vicenda di Gen naro Jovine e della sua famiglia poteva considerarsi, pur nei tanti aspetti negativi, in qualche misura aperta alla speranza, oggi sarebbe necessario riconoscere che quelle speranze si sono rivelate fallaci. Con tutto il ri spetto per l’indicazione dell’autore-regista, il problema di questo spettacolo non è a livello di significati quanto sul piano della resa teatrale: la dimensione del libretto appiattisce la vicenda, mutilata fra l’altro di molte sce ne significative; quella di «Napoli milionaria» non è tanto una «storia» quanto la rappresentazione di uno stato d’animo: è teatro scritto, consapevolmente o in consapevolmente, su misura per un determinato inter prete e non si può ridurre impunemente in libretto, tra sportarlo cioè in una dimensione dove quel tale inter prete non può accedere. Espresso onestamente il nostro parere, altrettanto onestamente vorremmo aggiungere che siamo convinti che, nonostante tutto, questo spettacolo resterà negli annali di Spoleto (almeno nel ricordo del grosso pubbli co) come il fatto dominante di questa ventesima edizio ne del Festival, magari a scapito di altre realizzazioni di maggior valore. Troppe circostanze, per la maggior par te estranee alla rappresentazione in se stessa, concor rono in tal senso: nel pubblico presente in teatro o die tro la televisione che trasmette «in diretta» da Spoleto C h a r le s t o n Grande successo negli Stati Uniti, a Charleston — secondo le dichiarazioni di Gian Carlo Menotti — per l ’edi zione d’oitreoceano dei Festiva! dei Due Mondi. Infatti in primavera si è svolta in quella città la prima edizione della nuova manifestazione anch ’essa curata da Menotti e che vuoi essere la versione americana de! FestivaI che d’altronde si chiama appunto «dei Due Mondi»: il programma di Charleston 77 si rifaceva in gran parte a Spoleto 76 (l’intenzione è proprio quella di far conoscere ad una parte più vasta del pubblico americano le più interessanti realizzazioni della manifestazione-madre), a cominciare da quella «Dama di picche» che segnò Fanno scorso l ’inaugurazione a! Teatro Nuovo, nella cittadina umbra. A Charleston come a Spoleto, direzione di Guido Aimone Marsan, interprete Magda Olivero nella parte della Contessa. Gian Carlo Menotti ha diretto poi personalmente una delle sue opere più riuscite «Il Console» in una nuova elaborata edizione. Dall’opera aI teatro dr prosa: è stato rappresentato in prima mondiale «Mollie» di Simon Gray, il famoso autore di .«Otherwise engaged» una dei recenti successi di Broadway, ancora in cartello. Vi è stata poi una versione nera della «Medea» di Euripide, chiamata «Medea nera». La danza ha occupato, come sempre è stato a Spoleto, un ruolo notevole. «Il Balletto di Ohio» e la «Elliott Field Co.» si sono esibiti presentando anche talune novità assolute. Secondo il sistema americano, lasciamo il passo alle cifre e soprattutto ai dollari: straordinaria affluenza di pubblico a Charleston, al di sopra di qualsiasi previsione; era stato calcolato un incasso di 175 mila dollari, mentre sono stati largamente superati i 400 mila. si crea un attesa del capolavoro che non ammette poi di andare delusa. Senza dimenticare che l’esecuzione è senz’altro d’ot timo livello: sotto la direzione del bravissimo Bartolet- ti, i cantanti mostrano non solo notevoli doti canore ma altresì buone capacità sul piano della recitazione. L a z z a rin o e S e m p lic is s im u s Per il settore prosa il primo spettacolo in programma era invece «Lazzarino da Tormes», testo di Giorgio Celli liberamente ispirato all’omonimo romanzo di au tore spagnolo ignoto del ’500, regia di Egisto Marcucci, presentato dal «Gruppo della Rocca»: anche in questo caso si deve parlare di delusione, specialmente per chi aveva in mente certi recenti spettacoli proposti dal «Gruppo della Rocca». Il «Gruppo» per la verità si è pure, tranquillamente, l’Italia dei giorni nostri: da una scena all’altra vengono passate in rassegna in forma ca ricaturale e polemica quelle che sono solitamente le strutture portanti di ogni società civile, la magistratura, il potere politico, il mondo della cultura, la polizia, le forze armate, oltreché naturalmente la Chiesa. Inutile dire che è perfettamente lecito, in teatro come altrove, condurre polemiche del genere a patto di avere argomenti validi e un certo senso della misura: in più il teatro richiede che gli argomenti siano gestiti in ma niera interessante e in qualche modo originale. Vice versa il testo di Celli recupera tutto il vecchio ciarpame sfruttato in mille occasioni: siamo nella più completa banalità e prevedibilità, nonostante gli sforzi degli otti mi interpreti. 11 regista Marcucci ha giustamente scelto, considerata la natura frammentaria del materiale mes so a sua disposizione, la dimensione del cabaret; di que sto genere manca però la rapidità, l’incisività: ogni mi nimo spunto — inizialmente magari anche divertente Nelle foto, a sinistra: Marcello Bartoli e Dario Cantarelli in «Lazzarino da Tormes» di Giorgio Celli, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di autore spagnolo ignoto del ’500, presentato dal «gruppo della Rocca» con la regia di Egisto Mar cucci; a destra, una scena della stessa commedia. mantenuto al consueto livello di bravura e professioni smo, sfruttando al meglio le possibilità della chiesa sconsacrata di San Nicolò, trasformata per l’occasione in un eccezionale spazio teatrale: è il testo che è man cato in maniera irreparabile. Giorgio Celli prende dal romanzo originale (pubbli cato anonimo nel 1554 in tre edizioni a Burgos, Alcalà, ed Anversa ed attribuito correntemente a Diego Hur- tado de Mendoza, ambasciatore di Cariò V, scrittore, poeta e umanista, o al letterato Sebastian de Horozeo) poco più del titolo e dell’idea del «viaggio» pieno di av venture tragicomiche. Secondo Celli, Lazzarino, garzo ne di stalla presso il «grande di Spagna» don Alvarez di Pintamarina, viene riconosciuto come figlio del suo padrone ed immediatamente spedito per un anno, solo e senza mezzi, in giro per il mondo a compiere la sua «educazione». Le avventure di Lazzarino, sempre se condo Celli, sono un’antologia di tutte le deviazioni so ciali di un paese che può essere la Spagna del ’500 come — viene tirato in lungo fino alla saturazione, alla noia e tutti sanno come la noia sia l’argomento definitivo contro qualsiasi tipo di spettacolo. Nello stesso spazio di San Nicolò, ma nella fase fina le del festival, un’altro spettacolo — «Semplicissimus» — anch’esso tratto da un antico e famosissimo roman zo «picaresco», «L’avventuroso Simpliciu Semplicissi- mius» di Han Jakob Grimmelshausen. Anche Aldo Trionfo (che ha compiuto la riduzione del testo con Lo renzo Salveti ed ha poi curato la regia), prende occasio ne da questo romanzo che è del 1668, per sviluppare un discorso personale e abbastanza differente da quello originario di Grimmelshansen, naturalmente con rife rimento non certo al ’600 quanto ai giorni nostri. Però la posizione di Trionfo è abbastanza differente da quel la di Celli e Marcucci, a parte l’analogia di partenza: per Trionfo il problema è quello di uno stile estetizzante (che ha fatto del resto scuola), di una forma (conside rata come fusione di suono, gesto a recitazione sempre un po’ sopra le righe, con un particolare gusto per l’im magine, per la scena teatrale intesa anzitutto come «colpo d’occhio») compiaciuta di se stessa. Su questa base si passa immediatamente dagli estimatori entusia sti ai denigratori feroci e non crediamo che questo «Semplicissimus» faccia eccezione alla regola. Da notare comunque che per Spoleto questo spetta colo è un po’ un ripiego dell’ultimora, anche se ciò na turalmente non comporta alcun giudizio di valore: in un primo momento era infatti in programma un testo inedito di Pier Paolo Pasolini, «Che cosa sono le nuvo le», ma il progetto non è andato poi in porto, pare per opposizione degli eredi. C osì fa n tu tte e M a r ia G o lo v in Il momento in cui Spoleto ’77 ha finalmente comin ciato a tener seriamente fede alle promesse è venuto con «Così fan tutte»: nessun dubbio che quest’opera di Mozart su libretto di Lorenzo Da Ponte, oltre a rappre sentare in ogni caso una delle più alte espressioni della cultura musicale e teatrale di tutti i tempi, fosse un’oc casione su misura per il festival spoletino per l’eccezio nale fusione fra azione scenica e momento musicale: si sa che a Spoleto opera lìrica vuol dire non soltanto ese cuzione musicale al massimo livello possibile ma an che, e soprattutto, spettacolo teatrale. La regia di Gior gio De Lullo ha colto assai felicemente tale occasione in un susseguirsi di trovate che hanno ben sottolineato lo spirito e l’eleganza sia del testo letterario che di quel lo musicale, come pure il senso di leggerezza e di gioia che deriva irresistibilmente dalla musica di Mozart. Il giovane direttore Daniel Nazareth ha padroneggiato la situazione con l’autorità di un veterano, ben secondato da un gruppo di interpreti di buon livello, con una par ticolare menzione per Betsy Norden, che è la servetta Despina, e per l’«anziano» Rolando Panerai, che ha reso con eccezionale mestiere il personaggio-chiave del «vecchio filosofo» Don Alfonso. Buono anche l’esito dell’altra opera in programma, «Maria Golvin», libretto e musica di Gian Carlo Me notti che ha curato anche la regia. La storia dell’impos sibile amore fra Maria Golovin e il cieco Donato è piena di echi pucciniani sia nel libretto che nella parte musi cale, ma non si tratta di imitazione deteriore. Lo spet tacolo ha una sua dignità sia come tensione dramma tica che, soprattutto, sul piano figurativo (molto belli ed efficaci le scene ed i costumi di Pierluigi Samaritani), mentre la frase musicale, seppure priva del pezzo me morabile, riesce a conquistare l’attenzione ed il consen so del pubblico. Rimarchevole la capacità degli inter preti di somigliare anche fisicamente, in un riuscito pro cesso d’immedesimazione, ai personaggi rappresentati; ad alto livello di sentimento e di bravura la direzione orchestrale del giovane (ed è questa la nota più ricor rente e felice del Festival del ventennale) Christian Ba- dea, che è già decisamente qualcosa di più di una sem plice promessa. B e c k e tt e P ir a n d e llo C’è sempre un certo spazio, a Spoleto, per un teatro che potremmo definire «da camera» in quanto affidato àd un gruppo minimo d’interpreti in un luogo ristretto: Una scena di «Maria Golovin» di Gian Carlo Menotti, regia dell’autore. la sede tipica di questi particolari spettacoli è quel tea trino, ricavato da una specie di cantina sotto il teatro Caio Melisso, conosciuto prima come «teatrino delle 5», poi delle «6» ed ora, infine «delle 7» (nel corso de gli ultimi anni l’ora di inizio di queste rappresentazioni pomeridiane è andata man mano spostandosi). Quest’anno il «teatrino delle 7» ha ospitato l’ultima produzione di Samuel Bechett, tre brevissimi atti unici (riuniti sotto il titolo «Trio per Samuel Beckett»), finora mai rappresentati in Italia: «That time» («Quella vol ta») e «Footfalls» («Passi») sono stati rappresentati al Royal Court Theatre di Londra nella primavera del ’76, in occasione del settantesimo compleanno dell’autore, mentre «Eh Joe» («Di Joe») era originariamente im maginato per un’utilizzazione radiofonica. Un materiale se possibile ancora più ruvido e diffìcile della produzione di Beckett già nota: l’estremo limite della tranquilla disperazione del cantore dell’assurdità della condizione umana, come ha mostrato di aver ben compreso Romolo Valli, qui in veste di regista. C’è da aggiungere che questo Beckett è alquanto diverso da quello che meglio conosciamo, solo per la diversità di certe soluzioni formali, ma soprattutto perché è cam biato il suo angolo visuale: ora il suo punto di vista è quello di un uomo molto vecchio, sospeso fra la rievo cazione di un passato che sembra lontanissimo (e sen tito talvolta con inaspettati accenti di struggente poe sia) e un futuro incombente di morte, intesa come de finitiva sparizione nel nulla. Un documento agghiac ciante di un mondo dove si è perduta l’immagine di Dio e la dimensione umana è insufficiente a reggere il peso perché uno solo è l’interprete in scena dal principio alla fine: Giancarlo Sbragia — che ha curato anche la regia — impersona il protagonista di una novella di Pirandel lo, uno scorbutico scapolo sulla sessantina che pretende di intrattenere con l’amico morto una continua conver sazione per informarlo delle ultime novità accadute fra i vivi (e sono appunto le «Notizie del mondo»). Si vuol sottolineare la straordinaria carica teatrale del testo di Pirandello, messo in scena senza doverne cambiare «neppure una virgola»: in realtà si tratta di un pezzo di bravura dello scrittore utilizzato come occasione per il pezzo di bravuza dell’attore e, pur riconoscendo e ap prezzando i meriti dell’uno e dell’altro, abbiamo sem pre nutrito la massima diffidenza (che in questa occa-. sione non si è certo attenuata) per questa formula tipo Una scena di «Cosi fan tutte», regia di Giorgio De Lullo. di una situazione carica di paura e di angoscia e priva di via d’uscita. Un teatro che è straordinariamente difficile rendere in maniera adeguata: le soluzioni scelte da Valli sono ri sultate felici soprattutto sul piano dell’immagine; men tre c’era poi il problema di «dire» adeguatamente le pa role di Beckett (dopo gli «atti senza parole» il dramma turgo irlandese è arrivato ad una produzione in cui in vece la parte parlata — apparentemente in libertà ma invece costruita sempre secondo sapienti e misuratissi me architetture — ha l’assoluto sopravvento) e in que sto senso fra i due interpreti non sempre Daniele For mica ha dato l’impressione di aver trovato il tono giu sto, al contrario di Luisa Rossi, perfettamente a punto anche in questo particolarissimo genere di teatro. Sotto la voce «teatro da camera» possiamo com prendere anche «Notizie dal Mondo», non fosse altro «serata d’onore», specie quando il discorso si allunga e si va incontro ad una durata superiore ad un’ora e mezza, che è una dimensione che non può reggersi sol tanto sulla bravura dell’interprete. C o n c e rti e b a lle tti La parte concertistica, come pure i balletti, sono sem pre stati il punto di forza del Festival dei due Mondi e almeno in questo l’edizione ’77 non ha fatto eccezione: un programma di particolare ricchezza e vastità che ci limiteremo a ricapitolare velocemente: i concerti da ca mera di mezzogiorno, a cura di Charles Wadsworth; la serie «Schubert e dintorni», esecuzioni pomeridiane a cura di Giorgio Vidusso, che anticipano le celebrazioni S p o le to s o ld i Seicento milioni di sovvenzioni governative per il FestivaI dei Due Mondi: questo l ’annuncio portato personal mente a Spoleto daI Ministro dello Spettacolo Antoniozzi, anche a nome de! Governo e del Parlamento, per riaf fermare in termini concreti l ’attenzione e l ’interesse dello Stato, nei suoi organi competenti, nei confronti della ma nifestazione. Non è progresso da poco se solo si confrontano le cifre: 55 milioni ne! 67, 63 nel ’68, 87 nel '69, 120 ne! ’70 e negli anni immediatamente successivi, 156 nel ’73, 190 ne! ’74, 240 neI 75 ed infine 325 milioni nel 1876. Il Ministro Antoniozzi ha voluto sottolineare come questo sforzo stia «ad indicare la convinzione che ha il governo della qualità di promozione culturale e turistica di questa manifestazione, assicurandole così una ga ranzia di vivere nel tempo e di conservare la sua collocazione di particolare risalto nell’ambito di altre manife stazioni, non soltanto italiane, dello stesso genere». Il problema, a questo punto, è quale sia il prezzo da pagare per tanta generosità: c’è già chi ha parlato di «statalizzazione», parziale o totale, progressiva o immediata, deI Festival; a! momento queste sono illazioni privé di effettivo riscontro, che meritano però di essere meditate e di battute. Giancarlo Sbragia in «Notizie dal mondo», edizione teatrale a cura dello stesso Sbragia da una novella di Luigi Pirandello. del prossimo anno per il 150° anniversario della morte e sono stati dedicati alla musica del compositore au striaco e di quanti gravitarono nella sua area; il concer to del pianista vincitore del «Premio Dino Ciani 1977»; il «Concerto Maratona» dedicato quest’anno a musi che di Richard Strauss e Maurice Ravel; i concerti co rali del complesso «Madrigai» di Bucarest diretto dal maestro Marin Constantin e del «Westminster Gioir,» diretto da Joseph Flummerfelt; e, infine il Concerto in piazza, «La Creazione» per soli, coro e orchestra di Franz Joseph Haydn, affidato al giovane direttore d’or chestra Lorenzo Ricci Muti. Per la parte balletti due complessi di eccezionale li vello, l’uno americano e l’altro europeo, i «Dancers» e il «Cullberg Ballett»: il primo dedicato sia al repertorio classico che a composizioni nuove, immaginate espres samente per le potenzialità dei componenti del com plesso, il secondo specializzato in danza moderna. Ma l’avvenimento di maggior spicco in questo settore è sta ta la «Maratona di Danza», a cura di Alberto Testa, sia per l’alto livello qualitativo dei giovani solisti italiani prescelti, sia per la partecipazione dei sue «mostri sa cri» Carla Fracci e Paolo Bortoluzzi. A lt r e m a n ife s ta z io n i Al confine fra concerto, spettacolo teatrale e confe renza la commemorazione di Ludwig van Beethoven, nel 150° anniversario della morte, a cura di Luigi Ma gnani: lo stesso Magnani ha illustrato un suo interes sante e documentato punto di vista sulla personalità di Beethoven (da cui il titolo «Le due maschere di Beet hoven» come due aspetti di una grande e tormentata personalità, Beethoven-Prometeo e Beethoven-Wer ther), mentre Romolo Valli ha letto testi tratti dall’epi stolario e dai taccuini di Beethoven ed infine due gio vani musicisti, il baritono William Stone ed il pianista Bruno Moretti, hanno interpretato alcune liriche musi cate dal grande compositore di Bonn. Un particolare rilievo, sia come quantità che come qualità, ha raggiunto quest’anno la rassegna cinemato grafica, film dedicati a vario titolo al mondo dello spet tacolo, sia perché riduzioni di celebri testi teatrali («Il gabbiano», «Aida», «Fidelio», «Salomè»), sia perché centrati sul personaggio del grande autore o del famoso interprete («Mozart», «Pablo Casals»), sia perché co munque impostati su momenti di spettacolo («Le Olimpiadi di Montreal», «Cinefolies»). Infine le mostre: una dedicata a Jean Michel Folon (che è poi l’autore del manifesto che quest’anno rappre senta il festival in tutto il mondo), una per Virgilio Mar chi, architetto e scenografo futurista, e poi — e queste sembrano le occasioni maggiormente in carattere con lo spirito del Festival — «L’arte del costume nel cine ma di Luchino Visconti», «Disegni teatrali creati per il Festival (1958-1977)» e «Teatri storici dell’Umbria». Senza trascurare neppure i disegni degli scolaretti della Cina di Mao e i soldatini di piombo, presentati in una rassegna davvero fuori del comune per varietà e vasti- ta Angelo Libertini Il «Cullberg Ballet». T e a tro U n m e s e d i J u g o s l a v i a a l « P r e m i o R o m a » Il «Premio Roma», che, negli anni passati, ci ha fatto conoscere molti inte ressanti spettacoli, provenienti da diversi paesi, quest’anno ha voluto dedicare un mese e oltre (dal 21 aprile al 29 maggio) ad una sola nazione, la Jugoslavia. La manifestazione si è svolta in collabora zione tra il nostro Ministero del Turismo e dello Spettacolo, la Regione Lazio e l’Istituto Federale per la Cooperazione Internazionale Scientifica, Tecnica, Cul turale ed Educativa della RSF jugoslava ed è stata articolata in un’ampia rassegna cinematografica, in una serie di rappre sentazioni teatrali, in concerti, mostre e dibattiti. I l C in e m a Al cinema sono stati dedicati dieci giorni. La rassegna comprendeva opere di autori conosciuti e sconosciuti. In par ticolare va rilevata la presenza di pellico le prestigiose, legate a maestri della cine matografìa jugoslava: Mimica, Stiglic, il primo Bulajic, il primo Petrovic e il mi gliore Djordjevic, insieme all’interessan te Bauer e Cenevski: tutte presenze im portanti nella cinematografia nazionale e internazionale. Di questi registi, comun que, ci era capitato di vedere le opere nel la rassegna di Sorrento che, per molti aspetti, sembrò rivelare la vitalità scono sciuta di una cinematografia ricca di umori e di forza espressiva. La ripropo sta romana, quindi, non può essere accol ta che con il dovuto plauso. Un solo ap punto: non sempre i luoghi della rappre sentazione, data la loro distanza, permet tevano di poter seguire attentamente l’intero gruppo delle pellicole jugoslave. Questo può anche spiegare perché, in al cuni casi, si registrava una ingiusta ca renza di pubblico. Una certa attesa, in ogni caso, veniva dalla presentazione di tre nuove pellicole della più recente produzione jugoslava. Una scena dell’opera rock «Gubec Bec». Era lecito aspettarsi opere di una qualche consistenza, ma purtroppo l’attesa è an data in parte delusa. «Bagnino d’inver no», di G. Paskaljevic è una debole pel licola che affronta il tema della gioventù sbandata nella dimensione transitoria dell’oggi, dove il mondo passato non reg ge più al confronto con le mutate condi zioni sociali di un indefinito presente. Il problema è stato affrontato dal regista, forse con troppa passionalità. Questo ha fatto si che, alla fine, le intenzioni sover chiassero le necessità rappresentative. «Confini» di K. Golik è un misurato lungometraggio, dove viene messo in luce, in chiave esistenziale, il tema della solitudine e dell’emarginazione. L’opera non raggiunge particolare livelli estetici, come l’inedito «Vedovanza di Carolina Zasler», che presenta, in termini quasi simbolici il dramma della condizione femminile nella società jugoslava. Inve ce molto interessante è stato il dibattito sul cinema jugoslavo. Sono emersi, per esempio, la differenziazione culturale delle varie repubbliche ed inoltre il pro blema della distribuzione, che anche in una Repubblica socialista come la jugo slava, è molto forte (come, del resto, an che il problema produttivo): anche in questo caso si tende ad un cinema di tipo commerciale che, evidentemente, sia ac condiscendente verso il pubblico. A det ta del regista Stiglic, comunque, il futuro del cinema jugoslavo non è così dispe rante. A lt r e m a n ife s ta z io n i Un altro momento importante del «Premio Roma 77» è stato quello legato alla musica. Sono intervenuti due famosi complessi di Lubiana: il «Trio Lorenz» ie il «Complesso Slavko Osterc», ed inol tre due cori: il «Collegium Musicum» di slava, senza l’oleografia tipica che, spes so, accompagna questo tipo di spettacoli e manifestazioni: un’interessante rappre sentazione di cinque culture, relative a cinque diversi gruppi sociali, amalgama te in un unico e naturale piano espressi vo, dove permangono le distinzioni, ma si accordano armoniosamente le diffe renze. Tra le manifestazioni collaterali, inol tre, non va dimenticata l’interessante mostra della «Caricatura Politica Jugo slava»: Significativo esempio di critica sociale e sociologica, strettamente legato all’arte figurativa. Belgrado e il «Coro da Camera della Ra diotelevisione» di Skopje. Per il balletto era presente il corpo del «Balletto del Teatro Nazionale» di Sara jevo: è stato rappresentato «Hasanagini- ca», tratto da una vecchia ballata popo lare, che racconta della triste storia di una moglie ritenuta, a torto, infedele dal marito. Le rappresentazioni di questa opera si sono svolte al «Parioli», troppo piccolo per accogliere un numeroso cor po di ballo. Questo ha, forse, impedito un giudizio più sereno al pubblico italiano che, nell’insieme, ha mostrato una certa perplessità. Ad ogni modo, se è discutibi le la rappresentazione in sè e per sè, rima ne la bravura dei ballerini e il grande af fiatamento che hanno mostrato. Una vera sorpresa è stata rappresenta ta dal «Complesso di danze popolari del la Vojvodina» di Novi Sad: l’entusiasmo che portava con sè questo gruppo ha fat to si che il loro sia apparso forse lo spet tacolo «più completo» visto in questo «Premio Roma 77. Con una estrema cura dei movimenti e dell’azione coreo grafica, questo complesso ha fatto cono scere la voce popolare della cultura jugo- «I maratoneti fanno il giro d’onore» di Dusan Kovacevic, regia di Cjubomir Draskic. I l T e a tro Per quanto riguarda il teatro, la Jugo slavia ha rappresentato un’opera rock, «Gubec-Beg» di Krajacar — Metikos» — Prohaska, e due drammi dal reperto rio dell’Atelie 212 di Belgrado: «I mara toneti fanno il giro d’onore» di Dusaaan Kovacevic e «Hotel Belvedere» di Odon von Horvath. «Gubec-Beg» («La corona di fuoco») «La vedova di Carolina Zasler», regia di Matjaz Kopcic. è un music-hall storico ideologico basato su una popolare vicenda storica jugosla va, una sommossa contadina avvenuta in Croazia nel 1573. La regia dello spet tacolo era affidata a Vlado Stefancic. Sin ceramente dare un giudizio completo su questa rappresentazione non è facile. Del teatro musicale jugoslavo praticamente non si sa quasi nulla; è comunque da sup porre che, nella veste di operazioni rock, quella che abbiamo vista al Sistina di Roma possa essere una delle poche. Lo si può dedurre da tanti elementi: la ma gniloquenza della messinscena, una cer ta enfasi dimostrativa nella costruzione della vicenda, un’ingenuità di fondo che, tutto sommato, dà ragione e significato allo spettacolo stesso. Mettere in parallelo operazioni come questa e altre legate alla cultura e al co stume anglosassone, non avrebbe molto significato. Converrà, quindi, giudicare «Gubec-Beg» per quello che è: un espe rimento di teatro musicale, all’interno della attuale produzione jugoslava. Due rappresentazioni teatrali, come si accennava prima, per l’Atelje 212 di Bel grado, notissimo teatro diretto da Mira Trailovic e Jovan Cirilov. La prima è «I maratoneti fanno il giro d'onore» del giovane autore jugoslavio Dusan Kova- cevic, che in patria riscuote molto suc cesso. Va fatta subito una premessa: al Teatro Valle di Roma la traduzione si multanea si è presto interrotta e il pubbli co ha dovuto contentarsi di indicazioni offerte a voce, durante alcune interruzio ni alfinterno dell’azione scenica. Questo va detto perché, a nostro avviso, si è per sa quella fruizione continuativa che il te atro impone. Certamente molti elementi della rappresentazione hanno finito per appiattirsi o sfuggire ad una più corretta lettura. L’opera di Kovacevic è una spe cie di «farsa nera», con un crescendo di azioni criminali viste in chiave grottesca. Si parla di una strana famiglia, formata da sei membri, proprietari di una curiosa impresa funebre dal nome «Alloggio eterno». Da più di cento anni si occupa no della vendita di bare che, dopo aver utilizzate, di notte rimettono in circola zione. Sono quasi tutti vecchi, alcuni hanno età che superano di molto i cento anni: sono vecchi indistruttibili, sensuali e assetati di vita, privi di ogni scrupolo morale e pronti a qualsiasi cosa che rien tri nell’ambito della loro convenienza. 11 loro autoritarismo crea una barriera as surda e grottesca con il nipote (o pronipo te) che, viene schiacciato e allontanato dal «nero» clan. Quello che si è perso. nella rappresentazione offerta a Roma, era, a nostro avviso, il grottesco, i toni della farsa e la particolare comicità. Tut tavia gli attori ci sono parsi ad un grande livello, anche se la regia non offriva par ticolari spunti, preferendo rimanere all’interno di certi luoghi comuni e mo delli rappresentativi troppo ricorrenti (il regista era Ljubomir Draskic). Abbiamo saputo che questa commedia ha avuto un grande successo presso i pubblici dei paesi dell’Europa orientale, in particola re in Polonia. Il fatto ci sembra compren sibilissimo se si pensa solo al valore di critica sociale e politica che un lavoro del genere contiene dentro di sé. Comunque si deve ammettere anche una distanza oggettiva e di gusto per un pubblico come quello italiano. Il discorso è completamente diverso per l’altro spettacolo dell’Atelje 212. Pri ma di tutto ci si trova di fronte a un au tore che, in Italia, si è scoperto abbastan za recentemente, Odon Von Horvath, con un lavoro mai pubblicato in traduzio ne italiana, «Hotel Belvedere», del 1926. Premettiamo che l’interpretazione degli attori e la regia di Paolo Magelli (italiano che si è naturalizzato jugoslavo) sono sta te ad alto livello. Von Horvath, nato a Fiume nel 1901, morì nel ’38 a Parigi. Di lui si deve sottolineare la misteriosa sta tura del tipo intellettuale mitteleuropeo, con molti contatti con la cultura tedesca da cui, però, discosta per gusto e prassi intellettuale. L’«Hotel Belvedere» dal ti tolo è un albergo, in una località di villeg- giatura dell’Europa centrale, dove incon triamo figure dallo strano spessore pro blematico: un ex-attore, che gestisce il lo cale, un cameriere-pittore e un autista ex-criminale, che fanno da aiutanti, un commesso viaggiatore e una matura ba ronessa, sempre assetata di sesso. Alla fine, una ragazza verrà a rivendicare la propria presenza in quel luogo, partendo dal fatto che l’ex-attore le ha dato un fi glio. La baronessa sfsuicida e la ragazza, di ventando ricca, diventa il nuovo perno della situazione. Nulla cambia e tutto continua secondo un rituale fisso, le cui regole sfuggono alla ragione. La commedia è piena di spunti e nota zioni simboliche e si presta a diverse in terpretazioni. Il regista ha voluto sottoli neare il carico di oscura ambiguità dell’opera, attraverso una cadenza ritmi ca lenta e inesorabile, come uno «stato di necessità». Tra gli attori, tutti bravissimi, ricorderemo Milena Dravic, che disegna in maniera superba la figura della ragaz za. A conti fatti, il «Premio Roma ’77» si è chiuso con un bilancio positivo, con spettacoli di qualità accanto ad altri che, comunque, non hanno mancato di incu riosirci. Si può perdonare, perciò, una certa eterogeneità, non sempre necessa ria per permettere al pubblico italiano di fare il punto della situazione sullo spetta colo jugoslavo. Dante Cappelletti Una scena del film «Bagnino d’inverno» di Gordon Paskaljevic. T e a tro T e n d a « L a p r i m a r a s s e g n a i n t e m a z i o n a l e d i t e a t r o p o p o l a r e Un gruppo di otto spettacoli, che ricoprono l ’arco di tempo che va dalla metà di maggio (esattamente da! 16 maggio)Jìno all ultima decade di luglio (precisamente il 23 luglio), ha rappresentato una delle novità teatrali della stagione romana al Teatro Tenda, in questo primo scorcio d’estate. La manifestazione portava il titolo di «1 Ras segna internazionale di teatro popolare» e si è svolto in collaborazione con il prestigioso Festival di Nancy. Nel programma figuravano: Vittorio Gassman, che rappresentava l'Italia, con un suo spettacolo dal titolo «Gassman: sette giorni all’asta»; la Compagnia «La Candelaria», che rappresentava la Colombia, con uno spettacolo politico: «Guadalupe - Anni Cinquanta»; il teatro « Waseda Sho-Gekjio» che ha presentato una particolare versione, de «Le Troiane» di Euripide: questo gruppo rappresentava il Giappone; la Polonia è stata presente con il Teatr Stu, che proponeva «I Pazienti» da «Il Maestro e Margherita» di Bulgakov; il gruppo «Friends Roadshow» con «Jango Edwards» rappresenta I Olanda; gli Stati! Uniti sono presenti con la Compagnia «San Francisco Mime Troupe», che propone «False promesse», spettacolo composto dallo stesso gruppo; infine la Francia con due spettacoli: uno diSavary e del suo «Le grand magic circus», che ci proponeva una messinscena particolare del dramma di «Madre Courage», / ’altro del «Centre dramatique de la Courneuve», che presentava «Les Troubadours», su testi di Robert A ma ut. Come si può subito osservare, la manifestazione del « Teatro Tenda» è partita, in questa sua prima edizione, con un repertorio ricco di novità e con spettacoli di grande prestigio. Non torna certo a discapito degli organizzatori I aver pensato di riproporre al pubblico italiano «Le grand magic circus» di Savary: questo vivace e intelligente gruppo teatrale francese percorre una strada molto particolare; ha elaborato, nel corso di questi ultimi anni, un suo stile e una sua precisa impostazione delle funzioni sceniche: dada festa pura e «itinerante», Jìno a! ricono scimento dei connotati del «gioco» nel fare spettacolo. Ci sembra di trovare una certa coerenza nelle scelte operate dagli animatori di questa «I Rassegna interna zionale di teatro popolare»: dall’esame dei singoli spettacoli si cercherà di verificare anche questo. «Guadalupe anni ’50» del gruppo co lombiano «La Can- deiaria», regia di Santiago Garcia. T e a tro T e n d a « L e T r o i a n e » Adattamento di Tadashi Suzuki dalla tragedia di Euripide Testo giapponese di Chiaki Matsu- daira e Makoto Ooka Regia, scenario e costumi di Tadashi Suzuki Interpreti principali: Kayoko Shirai- shi, Chizuko Sugiura, Ytaka Oda, Jun Toyokawa, Yasutoshi Hara «Waseda Sho-Gekijo» vuol dire (così alme no ci hanno riferito) Teatro Stabile di Waseda: questo complesso giapponese è considerato in patria una delle voci più interessanti del «nuo vo teatro», consapevole e rispettoso delle pre stigiose tradizioni del Nòe del Kabuki ma ri volto anche a forme espressive nuove, che possono rispecchiare i profondi mutamenti avvenuti nel paese pur nel persistente attacca mento alla parte migliore delle vecchie con suetudini. Del «Waseda Sho-Gekijo» si sono occupati in Giappone importanti studiosi di te atro e di costume (a noi è stato offerto in let tura un breve saggio del professor Yasunari Takahashi) che hanno invocato in proposito Pimmagine di un «Nò moderno» e di un «Ka buki moderno», non però nel senso di moder nizzazione del Nò e del Kabuki quanto per in dicare l’utilizzazione di mezzi espressivi mu tuati dal Nò e dal Kabuki per esprimere tema tiche più moderne e più vicine alla sensibilità del pubblico di oggi. Lo spettacolo che il «Waseda Sho-Gekijo» — reduce dal Festival di Nancy — ha offerto al pubblico del Teatro Tenda nel quadro di «Romaestate ’77» deriva da «Le Troiane» di Euripide: in dieci quadri il regista Tadashi Su zuki ha sintetizzato gli avvenimenti essenziali del testo euripideo ambientando peraltro la vi cenda in un Giappone a tratti moderno (con particolare riferimento agli anni del dopoguer ra) a tratti addirittura medioevale. Le parole di Euripide (tradotte in giapponese da Chiaki Matsudaira e Makoto Ooka) sono collocate da Suzuki in un contesto particolare, in cui trova no posto molte altre citazioni di tutt’altra ori gine, dal monologo del soldato giapponese ul tranazionalista (simbolo di un atteggiamento di razzismo e di esasperato orgoglio) alla mo «Le Troiane» da Euripide della compagnia giapponese «Waseda Sho-Gekijo» adattamento e regia di Tadashi Suzuki. Kabuki) per l’immagine, per la gestualità raf finata, per una recitazione ad alto livello emo zionale. Di fronte all’attrice (Kayoko Shiraishi) che rappresenta, di volta in volta, Ecuba e Cassandra, si leva Menelao (Yutaka Oda) con i suoi soldati: il dolore sopportato con fierezza contrapposto alla violenza bruta. La bravura di questi interpreti (e di tutti gli altri che fun gono da coro e che rivestono ruoli minori) è tale che, pur senza comprendere la loro lingua, è difficile da sottrarsi alla commozione ed al fascino di una dimensione teatrale certo diffe rente da quelle che ci sono abituali ma capace di stabilire rapidamente un contatto con la no stra sensibilità. A.L. derna canzone di tipo americano (che rappre senta la resa di una parte del Giappone al mo derno consumismo). Buona parte di queste citazioni può riuscire di difficile comprensione per un pubblico non giapponese, che deve oltretutto già affrontare il non lieve ostacolo della lingua, ma il senso di fondo è chiarissimo: la guerra, che travolge soprattutto i deboli e gli innocenti, è l’espres sione immediata della parte peggiore dell’ani mo umano, quella che crea falsi ideali come la casta e la razza, quella che ha smarrito nel gu sto della violenza i più elementari sentimenti di pietà. Al servizio di queste idee Suzuki pone tutto il gusto giapponese (questo ci pare il prin cipale riferimento alla tradizione del Nò e del T e a tro T e n d a « G u a d a l u p e , a n n i c i n q u a n t a » Creazione collettiva del Gruppo «La Candelaria» Regia di Santiago Garcia Interpreti Patricia Ariza, Gracida Méndez, Inés Ortiz, Ober Galves, Santiago Garcia, Fernando Mando- za, Francisco Martinez, Alfonso Ortiz, Luz Marina Boterò, Fernan do Cruz, Hernando Forerò, Manuel Gii, Carlos Paratìa, Maria Elena Sandoz, Fernando Pèuela, Alvaro Rodriguez Al Teatro Tenda, per «Roma Estate 77», Gassman lascia il posto al gruppo colombiano «La Candelaria» che presenta la «creazione collettiva» — la regia è di Santiago Garcia — «Guadalupe, anni ’50»: il Guadalupe del tito lo (Guadalupe Salcedo) è una specie di Che Guevara colombiano che, appunto negli anni ’50, organizzò negli «Llanos orientales» (le pianure orientali) la guerriglia contro il gover no conservatore: lo spettacolo prende le mos se dalla morte di Salcedo per mano della po lizia — che pure gli aveva promesso salva la vita — per risalire in flash-back ad analizzare e rappresentare, attraverso le vicende di per sonaggi storici come Salcedo o di gente comu ne come il soldato Joaquín Robledo o il guer rigliero Jerónimo Zambrano, il dato storico (la storia della Colombia del 1950 al 1953, la lotta fra partito conservatore e partito liberale, la presa di potere da parte di un governo di mi litari), naturalmente al fine di proporre poi agli spettatori una morale. Un’ipotesi di teatro po litico che dichiara di rifarsi alla lezione di Pi- scator e di Brecht: la descrizione dei fatti è però confusa e soprattutto frammentaria, il ri ferimento storico è spesso impreciso e ripro posto in maniera poco chiara (ad esempio si unificano due episodi di natura e matrice mol to diversa, la resa di Guadalupe Salcedo, avve- nuta nel 1953, e la sua morte, avvenuta invece nel 1957). Forse è troppo ricercare in uno spet tacolo di questo genere la precisione storica, ma una simile pretesa deriva dalla necessità di individuare in questa realizzazione soprattutto un valore di «documento» data la resa mode sta sul piano strettamente teatrale. Ci riesce però difficile farci un’idea della Colombia (sia pure della Colombia anni ’50) sulla base di questo spettacolo: non soltanto perché i perso naggi rappresentati — buoni o cattivi — sono privi di vero approfondimento psicologico, ma soprattutto manca completamente un'analisi (sincera o anche falsa) del tessuto sociale e po litico dalla Colombia di allora: si pretende di esaurire una simile necessità con riferimenti sintetici e superficiali alla perfidia ed alla dop piezza di una certa classe politica oppure alla generosa disponibilità dei «campesinos» di Guadalupe Salcedo. Insomma non siamo nep pure più nell’ambito del vero teatro politico (che non ammetterebbe simili approssimazio ni) ma semmai della propaganda politica in ri ferimento anzitutto a quel pubblico colombia no per cui lo spettacolo è stato immaginato: la struttura teatrale è solo occasionale e a questo punto non è più nemmeno questa la sede per occuparci di un simile fenomeno. A.L. «I pazienti» tratto da «Il maestro e Margherita» di Bulgakov, presentato da «Tear Stu» di Cracovia, regia di K. Jasinski. T e a tr o T e n d a Gassman in «7 giorni all’asta». G a s s m a n : 7 g i o r n i a l l ’ a s t a «Ilpubblico viene a teatro sperando che l’attore muoia». Potrebbe es sere niente altro che una battuta detta a metà rappresentazione per strappare una risata di più ai pubblico, invece è la grande verità di Vit torio Gassman. La gente pretende dall’attore spettacolo, sempre e co munque e nelle condizioni più estreme, e quello che la gente vuole è ciò che il grande attore desidera conquistare con tutte le sue forze: dare spet tacolo, ancora di più: divenire spettacolo anche se questo finisce col si gnificare e, non può essere altrimenti, una vera e propria vocazione per il suicidio. Gassman ripete spessisimo, e con una punta di soddisfazione, che non è in grado di stare su di un palcoscenico senza sudare copio samente, il che è naturale: il suo rapporto con il teatro è un impegno to talmente,fisico, quasi un contratto organico. È un attore così mobile, così vivo e così feroce a tratti, che se improvvisamente si ferma senza emettere segni di presenza crea un 'assenza che suscita attenzione ed interesse e, badi bene, si tratta di un ’attenzione e di un interesse profondamente te atrali. Che a lui piaccia oppure no a noi sembra che ormai nulla del suo essere e dei suoi dati espressivi risulti svincolato dal teatro e dall’agire teatrale, proprio come in uno dei tanti gustosi anecddotì da lui narrati che racconta come Annibaie Ninchi non riuscisse a trattenere roboanti ed enfatici ululati da tragedia greca per una volgarissima indigestione. È innegabile comunque che i giovani, mi riferisco soprattutto ai giovani attori od aspiranti tali, i quali hanno voluto frequentarlo durante questa esaltante settimana hanno avuto senz’altro modo di apprendere moltis simo da lui. Su questo non possono esservi dubbi: Gassman sa dare enor memente ma non sa ricevere con altrettanta facilità, per questo ho avuto l’impressione che egli sia rimasto molto meno scosso di quanto, un po’ esibizionìsticamente, ha voluto far credere, da questo violento impatto con la gente. D’altra parte è anche spiegabile: il grande attore (ed in que sto senso Gassman è veramente esperienza teatrale concentrata) già co nosceva, e stupendamente, il pubblico, mentre il grande, il nuovo pub blico, quello dei più giovani soprattutto, ancora non conosceva il grande attore. Giuseppe Manfridi T e a tro T e n d a « I p a z i e n t i » Liberamente tratto da: «Il maestro e Margherita» di Michail Bulgakov Realizzazione del «Teatr Stu» di Gracovia Regia di Krzysztof Jasinski Il romanzo di Michail Bulgakov «Il maestro e Margherita», una delle più alte espressioni della narrativa di questo secolo, ha già fornito spunto a numerosi adattamenti teatrali e per sino ad una versione cinematografica, ma, fra tutti gli spettacoli ispirati a questo stesso tema che ci è capitato di vedere, nessuno ci è sem brato vicino allo spirito dell'opera di Bulgakov come la realizzazione del «Teatr Stu» di Gra covia, «I pazienti», presentato ora anche a Roma, dopo un giro in altre città europee, nel quadro della rassegna Romaestate ’77 al Tea tro Tenda. L’opera di Bulgakov sviluppa una violenta satira della società intellettuale moscovita de gli anni '20, ma l’obiettivo può essere qualsiasi struttura di potere ottusa e malata: le armi sono quelle della fantasia e dell’ironia, in un susseguirsi di vicende ora paradossali, ora se gnate d’irresistibile comicità (e questo vale so prattutto per le apparizioni di Woland, che è poi il diavolo, con la sua corte diabolica), men tre le vicende del protagonista e della sua Mar gherita rappresentano il momento della poe sia. E sempre risultato difficile riprodurre nel lo spazio di un palcoscenico sìa i clamorosi av venimenti provocati da Woland sia i senti menti del «Maestro» e della sua ispiratrice: a parte poi la vicenda collaterale, il romanzo nel romanzo, il manoscritto che il «Maestro» non riesce a far pubblicare perché «diseducativa», la storia di un Venerdì di Pasqua a Gerusalem me al tempo dell’occupazione romana, essen do procuratore della Giudea Ponzio Pilato. Il «Teatr Stu» risolve tutti questi problemi nella dimensione del circo: una pista circolare rico perta di sabbia, reti e trapezio ed un gruppo di straordinari attori (che non possiamo purtrop po nominare perché il loro nome non figura nel programma che ci è stato fornito, forse in omaggio al principio della «creazione colletti va»; sappiamo invece il nome del regista che è Krzystof Jasinski) che offre tutto un vastis simo repertorio di corse e capriole e di esercizi di forza e destrezza, ma anche di recitazione vera e propria, ad altissimo livello. Il ritmo im- Una scena de «I pazienti» posto allo spettacolo è talmente veloce da dare l’illusione che lo spazio sia più ampio e possa veramente contenere gli avvenimenti più in verosimili e rocamboleschi; c’è però, con al trettanta intensità, anche il momento della cal ma, della riflessione, dove trovano spazio i sentimenti descritti con tanta poesia dall’auto re. L’azione si svolge — come suggerisce del resto il titolo «I pazienti» — in un manicomio: già nel romanzo di Bulgakov ad un certo pun to il «Maestro» veniva chiuso in una di quelle «case di cura» per dissidenti così diffuse nei paesi dell’Europa orientale, ma nello spettaco lo del «Teatr Stu» il riferimento è molto più ampio; lo stesso Woland ad un certo punto as sume le vesti ed il ruolo di direttore del mani comio. È un riferimento fin troppo facile — ma non per questo meno autentico — ad una situazione di opinioni imposte senza possibili tà di alternativa o di discussione. Lo stesso Woland sa bene (per conoscenza diretta) che le affermazioni per le quali il «Maestro» è con siderato pazzo, come ad esempio quelle circa il fatto che Gesù sia realmente esistito, sono prettamente vere; afferma Woland durante una disputa con alcuni intellettuali moscoviti: «Non c’è bisogno di alcun punto di vista. Je- shua (Gesù) è esistito e basta». Ma è pur sem pre vero che certe verità pericolose è meglio che non circolino troppo; il loro posto è all’in terno di una «casa di cura». A.L. Il 14 maggio, il Piccolo Teatro ha compiuto trent’anni, e si è festeggiato con uno spettacolo a «flash-back». Giorgio Strehler ha steso un copione di memorie, incastonandovi alcuni dei suoi spettacoli piu famosi. L un grU^ “ di suoi attori s’è dato da fare, per ripetere se stesso o per sostituirsi agli assenti. Nella foto, accanto Strehler, mattatore della serata, eccone due: Tino Carrara e Milva. Sono saliti in palcoscenico anche Franco Graziosi, Valentina Cortese, Giulia Lazzarini, e moltissimi altri. S e n to re d i c h ie s u o la Trent’anni, e una città diversa. Questo è il problema: seguitare, con fede ostinata, un sogno d’arte e di asso luto teatrale, o assumere le differenze, le dissipazioni, le lacerazioni, le incertezze degli altri? Preferire di es sere una voce nel deserto o fare che entri in un coro? Essere irriducibili e soli, o trattare con gli altri, magari dovendo cedere? Ma la pratica teatrale consente com promessi? Ma conviene badare ad ogni ora che scocca, o piuttosto leggere di là dal segno dei tempi che scor rono il segreto lento di una vicenda umana cominciata da tanto lontano? E quale limite porre ai passi di un’ar tista? È vero, che la Milano d’oggi contiene istanze molte plici, e agevolmente rinuncia ad essere centripeta. Ma allora, il problema non è solo quello di ridefinire il Pic colo Teatro, ma di tracciare una linea di politica cultu rale che risponda a tutto ciò che, dentro il teatro e ac canto ad esse, è venuto spuntando, in fatto di predile zioni contenutistiche, di interessi formali, di opportuni tà organizzative. Tanti problemi sono ormai visti con ottica diversa, e tante domande non si attendono una risposta dal Piccolo Teatro. All’istituto si può rimproverare la nessuna disposi zione a pensare oltre se stesso, e si direbbe oltre lo spet tacolo. Ciò non è più corretto teoricamente e non è un servizio correttamente attuato, nei confronti del teatro stesso e della città. Una cosa è gestire, direttamente o indirettamente, teatri e circuiti, e un’altra cosa è fare della casa un luogo che stimoli creatività, che persegua confronti e dialoghi. È stato mai possibile parlare col Piccolo Teatro? Né la concezione della vita portata avanti da esso collima con quella di una parte non in fima della città. La legittimità di un teatro di tendenza — e temperato, peraltro, dal forte sentimento dell’uomo coltivato da Strehler - è fuori discussione; ma si deve poter sapere che la città conosce il suo do vere di approvare tutti gli spazi necessari alla manife stazione di un pensiero alternativo. Il teatro, come momento di aggregazione, come fatto sociale, come banco di espressione, rientra in quel pro getto culturale che una città deve ormai darsi, neanche essendo pensabile un’urbanistica meramente edilizia. (Pur se proprio di edificare si tratti, per quanto attiene quella sede, di cui il Piccolo è indecorosamente privo). Forse quando si sentirà meno responsabile di troppe cose, il Piccolo troverà il modo di serenamente ripen sarci. Intanto, si prepari, riflettendo all’usura della sua immagine, alle sue assenze dal. tessuto vivo della città, al settore di chiesuola che ora emana, alla ripetitività che lo insidia, alle anchilosaggini di vario genere che lo affliggono, alla sua nuova necessità che si'constata. Odoardo Bertani Nella foto: Milva, Tino Carraro e Giorgio Streheler nello spet tacolo celebrativo del 30° anniversario del Piccolo Teatro. C o n i l « C e r c h i o d i g e s s o d e l C a u c a s o » e « P u n t i l a e i l s u o s e r v o M a t t i » I l B e r l i n e r E n s e m b l e a V e n e z i a Una scena da: «11 signor Puntila e il suo servo Matti», regia di Peter Kupke. Tre spettacoli e sei recite del Berliner Ensemble alla Fenice di Venezia, nel corso della stagione operistica, una stagione all’infelice insegna di Sylvano Bussotti, che ha costretto un musicista del valore di Zoltan Pesko a tutelare la propria di gnità, andandosene. Che poi gli stessi lavoratori dello spetta colo abbiano detto chiaro e tondo di non volersi fare complici degli estri bussottiani va messo nel conto in rosso di una so vrintendenza forse troppo fiduciosa che bastasse l’ideologia a fare arte. Così come non basta e non serve comparire al pro scenio in maglione, la domenica pomeriggio, a parlar male de gli spettatori che frequentano il teatro le sere feriali. Forse, un teatro che serve dimostrerebbe tale necessità ma avendo occupati i posti sempre, senza che si ritengano, dema gógicamente, nobilitati da chiappe di presunti lavoratori. (Ma, quella domenica di maggio, le facce non erano granché diver se dalle precedenti, e ci fu anche qualche furtiva uscita. Si parlava di prosa, adesso. E si dovrebbe parlare, anche in vista di eventuali proposte della Biennale, di come e per chi fare teatro in Venezia. Per cominciare, qualche esame di co scienza (ai socialisti l’esempio) circa pubblici allontanati e pub blici non ritrovati (troppo élitarismo. mascherato negli ultimi tempi). Lasciamo pur perdere i turisti, anche se la faccenda sembra assai esopiana: visto che non li catturiamo (si fa la pro paganda adatta?), non ci meritano. Ma la brava gente vene ziana ha così rinnegato la sua passione per la scena? Come viene coinvolta, nelle scelte e mediante un’informazione, a partecipare a un’operazione culturale. Ed è poi davvero cul- tural-sociale, quel che s’è fatto fin qui? Che cosa si è conte stato davvero del passato? Lo si è sostituito con guadagno? Se si vogliono fare festival chiusi, festival-laboratorio, si fac ciano, lasciando però aperta la possibilità di iniziative meno fragorose e rissosse, più umili ma forse anche più umane, e partecipate. Torniamo a casa, dopo la disgressione, per dire finalmente di questo Berliner capitato nel vuoto o quasi, ma utilmente venuto a dare, sia pure a pochi, una grossa lezione di pratica teatrale. Il complesso di Berlino-Est sta vivendo una stagione di ripresa, dopo un periodo di fossilizzazione attorno al suo ... fondatore. Si è dato da poco, sempre estraendolo dalle pro prie file, un nuovo sovrintendente, Manfred Wekwerth, che è assecondato dall’attore Ekkehard Sellali, che è il marito di Barbara Brecht, la figlia del drammaturgo. Durante la sua permanenza a Venezia, Wekwerth ha parlato molto, ma det to poco. Il suo programma sarebbe quello di rinnovare nella tradizione, e, pardi capire, sulla base di un più sensibile rap porto con l’epoca presente, così diversa da quella in cui Brecht venne e creò. Decrittata, l’affermazione allude, criticandolo, al periodo ripetitivo nell’attività del Berliner, scivolato nell’accademi smo. Ma non vengono ulteriormente chiariti i criteri metodo- logi, mentre si preannunciano riproposte critiche delle mag giori opere brechtiane e di altri autori. Il punto debole di que sto impegno ci sembra risiedere in un eccesso di convergenza sul nome di Brecht, che al limite potrebbe considerarsi un ali bi, e diciamo un servizio al potere, dato l’assetto politico della RDT; in altre parole, andrebbe chiarito se vi sia l’intenzione di esercitare una dialettica nei confronti della propria società, il che non sarebbe affatto contrastante con l’insegnamento brechtiano. In secondo luogo, il discorso di Wekwerth appare eminen temente circoscritto al Teatro, quale punto di assorbimento, e non approfondisce il tema dei contenuti nuovi mediante i quali rispondere alle domande che si saranno pur modificate attorno al complesso berlinese. E questa... prudenza contrad dice il riconoscimento dei caratteri della svolta dal teatro di Brecth, che si pose direttamente di fronte alla realtà. Sull’ac quisizione di un volto problematico e provocatorio del Ber liner 1977 e seguenti vorremmo ricevere qualche confortante documento. Anche se, a confortare il nostro personale piacere del te atro, i tre spettacoli presentati a Venezia siano stati genero sissimi, la spiccatissima personalità, la mostruosa flessibilità espressiva di Ekkehard Schall hanno in due occasioni lasciato poco spazio alla riflessione sui lavoro registico di Peter Kup- ke, a cui va invece riconosciuto ampio merito negli allesti menti sia di «Il cerchio di gesso del Caucaso», sia di «Puntila e il suo servo Matti», armoniosamente distesi in una gioia di raccontare, acutamente trasferiti su un fiabesco disincantato e allusivo, densi di segni netti e morbidi, arguti o drammatici su misure rapide, cristalline in ogno gesto dosati in ogni pa rola; il tono epico é filtrato è assai finemente equilibrato con le esigenze espressive di un teatro che, rivolgendosi all’intel ligenza, non ha alcun bisogno di fare cattedratica lezione. Pur assolvendo ai doveri di una messinscena per grande teatro, Kupke trova dentro le situazioni e i personaggi gli spunti di felicissime individuazioni e le sillabe di un discorso che per suade con il nitore degli accenti, la immediatezza affabile del la pronuncia, la «gravitas» interiore. Sono due spettacoli di ricerca, ma di una ricerca che ormai offre i frutti — non i co nati — di quello che appare soprattutto un lavoro nell’attore, posto che sono gli attori a definirsi, non avvertendosi la pre senza del demiurgo, con un governo attentissimo dei mezzi ed una spassionata sensibilità. Si diceva, a proposito del «Cerchio di gesso», della prova di Schall, giovanissimo quando frequentava il gruppo facente capo al drammaturgo di Augusta, e già ammirevole Corolano nel rifacimento brechtiano della tragedia shakespeariana. Nella parte di Azdak, lo scrivano del villaggio che, fatto giu dice, inventa un suo codice e una procedura strambi solo in apparenza e che, ripetendo [’esperimento di salomonica ori gine circa l’attribuzione del bambino conteso, stabilisce il pri mato della maternità del cuore su quella biologica, in questo ruolo, dicevo, in cui il personaggio deve acquistare grandezza e credibilità partendo da una immagine di straccione e di ubriacone, di chiacchierone e di pazzerello, lo Schall dispiega una meravigliosa capacità mimica, una duttilità straordinaria; nello stesso tempo, approfondisce il carattere del personag gio, estraendo dalla sua straccioneria la bontà del cuore, e so prattutto precisando i tratti della pazienza e della dignità. L’ufficio trasforma Azdak, così come egli instaura una giu stizia nuova, vendicativa di tutti i soprusi da essa favoriti a danno degli indifesi. Egli è, in qualche modo, un salvatore, e, nella mutevolezza di una sorte che ora lo rialza ed ora lo ab batte, l’Azdak di Schall esprime una forza d’animo, quasi un viscerale «sì» ad una missione confusamente intuita e servi ta, che rende logica anche la sua fuga dopo il verdetto. Azdak è uno sradicato, e la sua si configura quasi come visitazione rivoluzionaria di un nume. L’attore non adorna il personag gio giocando sulla sua ambiguità e sugli aspetti esibizionistici, non gli dà astuzia, ma procede invece a tratteggiarlo con tratti di crescente drammaticità, costituendolo come un antieroe di pieno diritto, e dando alla sua avventura gli aspetti di una di sperata ricerca di difendersi biologicamente dal male. Finissima, ma anche un poco esile, mi è apparsa invece la Grusha di Felicitas Ritsch; costei è portata piuttosto alle cor de patetiche, all’intimismo. L’indocilità, la volonterosità, l’in genuità e l’ostinazione pensate da Brecht per questa figura, la cui bontà è secondo natura e non secondo carattere e matu razione di coscienza, non hanno in lei molta evidenza. Del re sto, è abbastanza naturale che una interprete dia questo ri svolto ad un personaggio che si ama subito, trascurando le sue limitatezze non casuali, la minor misura di edificazione che, con accorto senso d’arte, l’autore gli attribuisce, se non oggettivamente. Insomma, Grusha non va scavata psicologi camente. L’attrice, per altro, è morbidissima ed intensa attra verso una affascinante purezza di gesti e di espressioni. Nel rigore gestuale essa insinua una nobiltà ed una riflessività di alta classe, ancorché insinui proprio un cambio di classe, escludendo la spontaneità e l’animalità della serva. La scenografìa stupenda di Manfred Grund offre un piano inclinato, circondato da uno spazio bianco, sul quale pochi elementi suggeriscono via via l’ambiente (gustosissimo lo spostarsi a vista delle rocce, a indicare il mutare del paesaggio attorno a Grusha e ai suoi inseguitori), oltre ogni realismo. E un susseguirsi di quadri suggestivi, basati sulla allusività e sulla partecipazione della fantasia dello spettatore. Tra gli altri, da ricordare l’eccellente cantore Peter Tepper. Le musiche di Paul Dessau, si sono presentate nella loro pre ziosità ed originalità. E di nuovo lo Schall nel terzo spettacolo, ossia in «Puntila e il suo servo Matti». Il «Puntila» è il testo col quale Brecht inaugurò l’attività del Berliner Ensemble, avendolo però già dato a Zurigo (nel 1948), città che per un certo tempo ha svolto una funzione nel teatro europeo, che meriterebbe studio. Questo secondo alle stimento ha un paio d’anni ed è firmato da Peter Kupke. Che, nella «rappresentazione popolare», comincia con l’abolire il prologo, e prosegue attenuando assai la «dialettica»: il suo Matti (il bravo Hans-Peter Reinecke) è solido e serio, porta una diffidenza contadina, quindi non calcolata, e insomma ar riva come una talpa a sbucare nel chiaro della propria co scienza, dopo essere forzosamente andato un po’ alla deriva, nella frastornata seduzione d’uomini e di cose. Ma, soprattutto, il regista dà via libera a Ekkehard Schall, che qui si prodiga in una «performance» senza precedenti e paragoni. Lasciata alla spalle la raccomandazione brechtiana («Nelle scene di ubriachezza l’interprete di Puntila deve evi tare che la sia vitalità e il suo fascino conquistino il pubblico, togliendogli la libertà di criticarlo»), l’attore crea il Puntila che era «quasi umano» quando aveva bevuto attraverso un moltiplicarsi di gags ed una inventiva vulcanica. Schall imper versa sul palcoscenico come una forza della natura, e sfodera tutto un eccitante gioco pirotecnico di trovate, attingendo i Un’altra scena di «Puntila» rappresentato a Venezia vertici della clowneria. Prodigioso nella tenuta elei ritmi come nell’agilità fisica, fulmineo nei trapassi e morbito nelle sotto- lineature, Schall estende come nessuno le possibilità del co mico. Egli così tenta il gioco «pericoloso» di rendersi estrema- mente simpatico, se non fosse che proprio riducendosi a bu rattino pure spassoso si tiene lontano da una interpretazione di stampo psicologico: qui è la finezza critica e il rispetto di fondo al canone dello straniamento, perché viene data di Puntila una immagine non umana, vien dato un ritratto di pura esteriorità, di esaltazione mimica che racchiude, nella precarietà, una minaccia. L’essere «quasi umano» di Puntila è dato come il gioco, ossia come la funzione, come esercizio di ipocrités. E il tutto, infatti, è intelligentemente ribaltato, quando, do vendo essere il Puntila temporanemaente sobrio, ne disegna un ritratto agghiacciante: quanto era prima agile, ora è nei movimenti impacciato; quanto era torrentizia la parola, ora è stinta, dura; e il volto sorridente è ora una maschera da SS, e la bonarietà ha ceduto ad una crudeltà perfino gratuita. Non ricordo un altro attore, che abbia dato prova di tanta versa- tilità, di tanta provvista espressiva, di così assidua incisività. Mi piacerebbe vederlo nel «Malato immaginario». Lo Schall ha avuto un grande successo personale, ma tutta la compagnia lo ha assecondato a dovere, da Carmen-Maja Antoni (Eva) all’arguto Victor Deis, da Christine Gloger ad Angelica Ritter, per finire con la Risch, deliziosa in una par- ticina e anche come cantante dei «couplets» tra una scena e l’altra. La scenografia e i costumi di Johnna Kieling sono di gusto mirabile. Tra i due spettacoli, c’è stata la rappresentazione di «La madre», ossia dell’adattamento del romanzo scritto nel 1905 da Maksim Gorkij ad opera di Bertolt Brecht, nel 1931. Là avevamo la storia, ravvivata da un profondo interesse per la creatura umana, di una donna semplice — Pelagia Vlassova —, buona cristiana, che andrà via via avvicinandosi, sensibile alle sofferenze degli umili, alle posizioni politiche del figlio Paver, sino a sostituirsi a lui con tutti i gradi di combat tente rivoluzionaria; ma senza tradire la sua fede. Qui, un ra dicale intervento d’ordine ideologico interviene sulla struttu ra e sui caratteri. La conclusione della vicenda di Pelagia Vlassova è sposta ta in avanti di dieci anni, in modo da arrivare alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre. Ma la rielaborazione, se da un lato è un momento della sua attività teatrale caratterizzata dai drammi didattici, dall’altro incide sulla figura della protago nista (impersonata, la prima volta, da Helena Weigel), che perde ogni virtù cristiana e addirittura, alla decima stazione, afferma: «... c’è da sperare che questo Dio... sparisca anche dai vostri cervelli». La polemica materialista si innesta in una esaltazione del comunismo, anzi nella sua mitizzazione come fonte della vera solidarietà, che ha ormai dubbie verifiche sto riche, ma che appare anche come la motivazione degli allesti menti del dramma da parte del Berliner Ensemble (il primo, nel 1951, tenuto in vita per vent’anni; e codesto, che è del 1974), complesso completamente calato nella cultura marxi sta-leninista. Comunque, la ambientazione storica appare re mota, tanto che la serie di episodi sull’apprendistato attivisti co di Pelagia Vlassova si restringe ad un’aneddotica vivida, ma ormai lontana, anche nell’ottica di una scuolta di partito. La figura della Madre brechtiana forse vorrebbe una inter pretazione più aggressiva e accativante, accattivante, giocata dentro, di quella offerta, pur con assoluta dignità di mestiere e leggerezza rapida di regni, da Felicitas Ritsch, che dà una versione trepida, ma anche idealizzata, di quella che era pure, in partenza, una popolana analfabeta. Qualche ulteriore va riazione di comportamento e di espressione non avrebbe of feso i canoni «epici». La regia di Ruth Berghaus è evidentemente una ricerca di essenzialità di moduli, di razionalità pura, senza rifiutare, tut tavia, momenti d’estrosa osservazione ironica, la preminenza data alla gestualità rende di scarna incisività il racconto sce nico. Evitata in questa l’oleografia e la propaganda, ed esaltata, nella scenografia di Andreas Reinhardt, con l’adozione di materiale povero, una simbologia rude ma efficace. Se, a un certo punto, un grande fondale rosso fa da ovvio riferimento politico, a farsi apprezzare è lo scabro e arduo piano di legno e di bandone e di sportelli d’auto, col quale si suggeriscono due cose: la landa desolata dell’esistenza umana e un sotto suolo (cui si accede per fragorosi sportelli), dove la gente — le miniere al posto degli opifici — lavora. Il tema, direi, è quel lo della difficoltà: difficoltà esistenziale che è tutt’uno con la difficoltà di conquistare una coscienza politica. E la recitazio ne s’intona bene con questa scena, che è evidentemente an che la piattaforma di un duplice combattimento. Odoardo Bertani H < t ó 1 H g | ì E h I — «5 O H Z H - I I i H • s h J L a p i ù a g g i o r n a t a c o l l a n a d i s t u d i , t e s t i e d o c u m e n t i t e a t r a l i Volumi pubblicati Saggi 1 2 1 2 3 4 5 6 - M A R TIN ESSLIN, Il teatro deH’assurdo. Il classico della saggistica teatrale del dopoguerra - ANTONIO TABUCCHI, Il teatro portoghese del dopoguerra. Da Salazar al 25 aprile: la rinascita del teatro portoghese Testi e documenti - G ABRIEL M ARCEL, Teatro. Finalmente in italiano i capolavori del grande esistenzialista francese. - G IO VAN N I ANTONUCCI, Cronache del teatro futurista - Premio Silvio D ’Amico. L ’unica, straordinaria storia del teatro futurista - S ILV AN A SINISI, Il Teatro del colore di Achille Ricciardi, taccuino inedito di Prampolini. Il solo, raffinato esempio di teatro simbolista in Italia - CORRADO ALVAR O , Cronache e scritti teatrali, a cura di Alfredo Barbina - JEAN-M ICHEL G A R D A IR , Pirandello e il suo doppio, presentazio ne di Giovanni Macchia - M A R IA N G E LA MAZZOCCHI DOGLIO, Storia del teatro simbo lista in Francia 7 - G IO VAN N I M ARCHI, Artaud e il teatro della crudeltà E D I Z I O N I A B E T E 00155 - V ia P re n e s tin a , 685 R O M A T e le fo n o 0 6 /2 2 1 .8 4 1 A l t r i m e n t i i m p e g n a t o d i S i m o n G r a y P r im a s te s u ra ita lia n a d i E lio N is s im e L . d e l B o n o PERSONAGGI: Simon Hench Dave Stephen Hench Jeff Golding Davina Saunders Wood Beth C h i è S i m o n G r a y A b i l e « f a r c e u r » La prima generazione di commediografi inglesi che va co munemente sotto il titolo di «arrabiati» — i cosidetti angray youngmen che ebbero intorno agli anni sessanta il loro inizia tore in John Osborne ed il loro esempio più clamoroso nel Jimmy Porler di Ricorda con rabbia, è ormai invecchiata. Fra tutti il più vivo può dirsi proprio quel loro loquace e colorito progenitore che va ancora scorazzando per il mondo e del quale si continua in taluni ambienti a raccontare le ultime esi laranti peripezie, ma senza lo scalpore o la riprovazione che suscitavano nei benpensanti le sue marachelle ed i suoi anti conformistici (si fa per dire) atteggiamenti d’un tempo. In verità questa prima generazione è stata presto superata, forse per l’esiguità dei contenuti politici che animava la loro ribellione che in sostanza si esprimeva in generici atteggia menti di protesta più individuali che sociali. Va da sè che il periodi) insito in queste sommarie definizioni è quello di una troppo scontata generalizzazione. Alcuni di questi comme diografi infatti sono morti, come John Whiting e Joe Orton, ma altri continuano a scrivere come Arnold Wesker ed Ha- rold Pinter. Liquidati i padri, non cosi il movimento che anzi oggi co nosce una nuova fioritura attraverso gli scrittori della secon da ondata, certo più agguerrita e raffinata della prima. Una prima distinzione che salta subito agli occhi è proprio questa: i primi erano gente che proveniva da un pò tutti gli strati so ciali — piccola borghesia quando non proprio proletariato ur bano del quale manifestavano tutto lo scontento e da tutti i mestieri; si sa infatti come Wesker avesse fatto il cuoco in pre cedenza e Brendan Behan rimbianchino. Questi nuovi scrittori invece provengono in larga misura da classi più agiate ed hanno ricevuto, nella maggioranza dei casi, una istruzione universitaria, quando non siano insegnan ti essi stessi, come è il caso di Simon Gray, nei più sofisticati colleges del Regno. Per quanto continuino a professarsi «arrabiati», come è il caso del giovane Hampton, classe 1946, coi Laburisti al go verno e le Trade Unions a sostegno di quello, molti presup posti delia loro protesta sono cessati, specie se si pensa che non esiste in Inghilterra una tradizione autenticamente rivo luzionaria e c’è sempre, latente, il pericolo di un rigurgito di conservatorismo. Simon Gray è forse il rappresentante più si gnificativo di questa nuova tendenza, accanto ad Alan Ay- ckbourn ed a David Storey, per quanto aleggino nella sua opera i fantasmi di Joe Orton e lo stesso Pinter gli abbia mes so in scena Butley, la sua commedia più importante prima di questo Altrimenti impegnato, e ne abbia diretto anche una ver sione cinematografica. Nato nel 1936, Simon Gray è considerato un abile.farceur, senza quel disprezzo che accompagna da noi il genere e che oggi in Inghilterra sta più a significare la commedia da salotto. Ha già al suo attivo numerose commedie, scritte per lo più per la televisione. È il caso di S/eeping Dog, la sua prima com media che risale al 1967 e di The Pets, alle quali ha fatto se guito Wise Child, sempre dello stesso anno, che venne inter pretata nel ruolo principale da Alee Guinness. In seguito ha scritto Pig in a Poke (1969), che molti critici hanno accostato a The Basement di Pinter ed a The Ruffiati on thè Stair di Or ton. La Royal Shakespeare Company gli allestì, sempre nel 1969, la commedia Dutch Uncle che per l’ambiente ed i per sonaggi che descrive ricorda ancora una volta Orton. Nel 1970 il National Theatre gli commissionò la riduzione de L ’Idiota di Dostoevskij, e parve così che si aprisse al gio vane scrittore un nuovo orizzonte. Del 1971 è Spoiled, nella quale analizza i difficili ed oscuri rapporti tra degli insegnanti in una vacanza di fine settimana. Ma l’affermazione gli venne dalla.commedia Butley, già ricordata, alla quale certo non fu indifferente il plauso e la regia di Harold Pinter e l’interpre tazione di Alan Bates. Con Otherwise Engaged — Altrimenti impegnato — Gray^ sembra imboccare una nuova strada: quella dell’apologo amaro e rassegnato. L’idea di partenza della commedia, seppure esile, è tuttavia appassionante. Un uomo rientra a casa e desidera trascorrere le sue ore libere nell’ascolto della sue musica preferita. Nien te e nessuno può distrarlo da questa sua occupazione. Non la moglie che lo abbandona. Non una graziosa quanto disinibita ragazza che gli si offre. Non l’amico che gli ricorda ambigui legami di un tempo. Per quanto interrotto ogni volta nell’ascolto, l’uomo non rinuncia al suo piacere a lungo assaporato. Alla line il sipario si chiude su di lui che, mentre la sua vita va in frantumi, sten de le gambe e può finalmente ascoltare per intiero il «Parsi fal» di Wagner. Romeo De Baggis A t t o p r i m o II salotto dell appartamento degli Hench, in Islington. È al tempo stesso elegante e con fortevole, ma non vasto. Due divani, una poltrona, un tavolino basso, un telefono con se greteria telefònica, un complesso stereo molto costoso e complicato, e tutt'intorno pile pa reti scaffali pei accoglietevi un gran numero di libri (evidentemente ben conservati) e una vasta collezione di dischi, tra i quali si distinguono Wagner e altri brani operistici. Sulla sinistia della scena c è una porta che si affaccia su un piccolo atrio, che termina con ima porta d’ingresso, che a sua volta, quando è aperta, lascia intravvedere un pas saggio verso le scale che conducono ad un ’altra ala della casa. La casa, in effetti, è stata suddivisa recentemente, in due parti, in modo che vi sia un appartamentino superiore. Sul lato destro della scena c’è una porta che comunica con la cucina, ed è evidente che un’altra porta comunica dalla cucina con il giardino. AH’alzarsi del sipario, Simon sta scartando un nuovo disco. Lo prende con l ’aria di chi non veda l ’ora di ascoltarlo — è il Parsifal completo. Butta la busta nel cestino. Va al gruppo stereo, mette su il primo disco, poi va alla sedia, si siede ed ascolta. Gli accordi iniziali del Parsifal riecheggiano per il teatro. La porta di sinistra si apre. Entra Dave. Simon si volta, lo guarda, poi si alza, dissimulando un senso di irritazione. Dave: Cos’è, uh? Simon: Wagner. Ti piace? Dave: No — Beh — era un grande anti semita. Un grande fascista. Un fanati co egocentrico. Simon: Ma la sua musica, ti piace? Dave: Come vuoi che mi piaccia la sua musica, se non mi piace lui! (siede) Simon: (Nascondendo la sua impazienza) Tutto bene? Su nell’attico — niente da dire? Lagnanze? Dave: No, no, tutto bene — oh (vuoi dire) l’affitto?! Simon: No, per carità, non ci pensavo neppure. Dave: Allora posso ritardare di qualche giorno? Simon: Ma certo — questa settimana ce lo pagherai quando ci pagherai la scor sa settimana... (Pausa corta) la setti mana prossima o quando vuoi (Gesto vago) Dave: Okay. Sono un po’ a corto — sai com’e. Tua moglie è uscita, uh? Simon: È andata a... (Cipensa) Salisbury. Ieri sera Dave: Perché sai, ieri sera è venuta su da me quella studentessa del primo corso per mangiare un boccone e io ero ve- nuto giù per farmi prestare qualcosa. Bastava un uovo o un formaggino. ne. Bravo! Simon: Tu dici? Dave: Non c’era — tua moglie. Simon: Per forza — o era già a Salisbury o era per strada. Vave: Così ho dovuto portarla fuori a mangiare un panino. E ce n’è voluto per persuaderla a tornar su. Simon: Ah. Brava. È rimasta tutta la not te. Complimenti. Dave: Macché. Simon: E allora sei riuscito a sbarazzarte Dave: È lei che se n’è voluta andare. Simon: Prima che tu riuscissi a sbarazzar Dave: Ha detto che non le andavo. Simon: Non me lo dire — ma come mai? Dave: (Avvicinandosi a Simon) Non lo so. Le ho proposto di fare una scopa- tina e lei mi ha detto di no. Le ho chie sto perché, e lei ha risposto che non le andavo. Simon: Comunque, ha lasciato la porta aperta a una relazione platonica. Dave: Già. Ha preferito andare da un’amica a vedere qualcosa alla televi sione. Io non ce l’ho, la televisione. tene? Ohi, ohi — perché? Simon: Temo che in questo non posso proprio aiutarti, non l’abbiamo neppu re noi. Dave: Però ha detto che oggi, forse, an dava al Circolo marxista qui all’ango lo. Simon: A che ora? Dave: Verso l’ora di colazione, ha detto. Simon: Perbacco, è quasi l’ora! Corri — sarebbe una tragedia se tu non arrivas si in tempo. Dave: Già. Ma, sai com’è, sono un po’ a corto, te l’ho detto. Dove possiamo an dare senza... Simon: Ti impresto io. Dave: Cosa? Simon: Qualche sterlina. Dave: O.K. (Gli dò cinque sterline che prende dalla giacca appesa alici sedia della scivania) Simon: Bastano? (Dave gli si avvicina) Dave: Sì. Va bene. (Le prende) Cinque. Simon: Be’ — io me ne torno alla mia mu Stephen: (Fuori scena) Salive). (Entra da! Simon: (Nascondendo la sua contrarietà) sica e tu provvedi alla tua. giardino) Oh, ciao! losofia, immagino. porta ed esce. Simon chiude la porta) Oh Stephen. Questo è Dave, che ha preso l’attico in affitto. Dave, questo è mio fratello Stephen. Stephen: Ah — sì — sei al Politecnico, vero? Dave: Certo. Stephen: Che cosa studi? Dave: Sociologia. Stephen: Dev’essere molto interessante. Che aspetto? Dave: Come? Stephen: Della sociologia. Dave: Oh, le solite cose. Stephen: Psicologia, statistica, politica, fi Dave: Siamo in sciopero, al momento. Stephen: Ah sì? Ma perché? Dave: Oh, le solite storie. Be’... (Va alla Stephen: Le solite storie, quali? Simon: Non ne ho idea. (Si sente sbattere la seconda porta da dove è uscito Dave. Stephen segue con gli occhi la sua usci ta) Stephen: (Dopo una pausa) Ma che roba! Simon: Oh, non è stupido come sembra. Stephen: L’aria ce l’ha. (Si siede sulla se dia girevole) Strano che uno studente possa permettersi di vivere qua. Quan to gli hai chiesto? Simon: Due sterline la settimana, mi pare. Stephen: Ma sei matto — persino un tri bunale ti avrebbe fissato l’affitto a die ci volte tanto. Simon: Oh, non vogliamo farci un guada gno. Stephen: Sta bene fare della benefìcien- za, ma con tanta gente che ha un vero bisogno questa mi sembra una scelta un po’ strana. Allora, Beth non c’è? Simon: No, è andata a Canterbury coi suoi allievi stranieri. Stephen: Ci è andata con quel professore di cui ha parlato a Teresa? Simon: Un certo Ned? Stephen: Sì. Stephen: Come ti sembra? Simon: Oh — un ometto squallido, grigio, triste. Un mezzo fallito, direi, come mia impressione. restieri. Stephen: Fallito in che senso? Simon: Bah — dà lezioni d’inglese ai fo Stephen: Anche Beth. Simon: È vero, ma Beth non è un uomo di mezza età coi capelli color carota, coi piedi piatti, con una moglie dall’aria perennemente afflitta e quat tro figli a carico. Stephen: Lo sai che a volte non posso fare a meno di domandarmi come mi descriveranno gli altri? Un professore di mezza età? Insegnante in una scuola privata? Con cinque figli a carico? Anch’io un mezzo fallito, no? Comun que, oggi mi sento proprio così. L’avevi dimenticato? dimenticato. Ma quando è? Simon: Cosa ti succede? Stephen: Quella maledetta intervista. Simon: Intervista? Stephen: Per il posto di Vice Preside. Simon: No, no, certo certo che non l’ho Stephen: (Lo guarda) È stata ieri. Simon: Ieri! Oh Dio! E com’è andata? Stephen: Non ha avuto il posto. Simon: E chi l’ha avuto? Stephen: Un certo Mac Gregor. E a pie no diritto. È già vice Preside di un pic colo collegio a Edimburgo — un tipo in gamba, ha scritto un paio di testi scolastici — in altre parole è più qua lificato. Simon: Non capisco cosa c’entri tutto questo. E non capisco il tuo Preside abbia avuto il coraggio di dirtelo. Stephen: Non l’ha avuto. Nessuno ha avuto il coraggio o la buona grazia di dirmelo, finora. Simon: E allora, come lo sai? Stephen: Mac Gregor ce l’aveva scritto in faccia. Non ho mai visto nessuno così sicuro di sé dopo un’intervista. Simon: Tutto qua? Ma è certo che era tanto sicuro di sé. È scozzese! Sono sempre sicuri di sé, gli scozzesi. Meno quando non lo sono. Possono riuscire a essere l’uno e l’altro. Stephen: Dovevi vederlo quando ha sce so le scale, aveva le ali ai piedi. Simon: Na, na, na — chi si comporta così è un candidato respinto — Io punto sui piedi tuoi, senza ali. Stephen: Anche se la mia intervista è du rata appena mezz’ora? Mentre la sua è durata cinquantasette minuti? Anche se durante quella misera mezz’ora non ho fatto che impaperarmi, davanti a una commissione ostile? Lo sai che uno dei Commissari non poteva man dar giù il fatto che mi fossi laureato a Reading? Non riusciva a mettersi in testa che anche quella di Reading è una università. Ne parlava come di una cosa di secondo ordine, dove mi sarei laureato con poca fatica. Mac Gregor, naturalmente, si è laureato a Oxford. Simon: Ah sì? Quale collegio Quale cam pus? Stephen: Non lo so. E poi un altro com missario insisteva sul tasto dei nostri cinque figli. «Cinque figli, eh?» conti nuava a dire. Così. «Cinque figli, eh?» — come se avessi avuto — non lo so — cinque... cinque... quando imiti quel tono. mi erano palesemente ostili. parte. momento in cui si è smontato. Simon: Cinque assegni protestati. Stephen: Come? Simon: È quello che mi viene in mente Stephen: Comunque, due dei commissari Simon: Su quanti? Stephen: Due. Simon: Ah. Ma il Preside era dalla tua Stephen: Può darsi. Per lo meno fino al Simon: In che modo? Stephen: Per un atto che non avevo più commesso da quando avevo 12 anni. Simon: ’(Dopo una pausa) Puoi essere più preciso? Stephen: A te verrà da ridere, lo so, e non posso darti torto, ma ti avverto che in questo momento non sarei disposto a sopportarlo. Si tratta di una cosa da niente, ma anche molto imbarazzan- iz{Pausa)T\ spiego: quel commissario che disprezzava tanto l’Università di Reading, parlava con voce così bassa, così rauca, appena udibile, che verso la fine nel curvarmi in avanti, quasi di scatto, per afferrare bene quello che mi diceva — Pausa) mi è scappata una — scorreggia. (Si fissano reciprocamente, l’espressione di Simon è impenetrabile) Simon: È dall’età di dodici anni che non ti era mai scappata una scorreggia? Stephen: In pubblico, mai. Simon: Rumorosa? Stephen: A me è sembrato un — colpo di Simon: Bisogna vedere cos’è sembrata a Stephen: Una scorreggia. Simon: Oh, sono sicuro che da persona comprensiva, l’ha trovata una cosa che può succedere a tutti. Non hai nes sun fondamento per supporre che ce l’abbia con te per un fatto così acciden tale. Stephen: Non lo so, proprio non lo so. (Si alza) Ma dopo ha invitato tutti a bere un caffè di erbe, ricetta della moglie. Simon: Caffè di erbe? Stephen: Erano tutti intorno a Mac Gre- pistola lui. gor, non a me. Ho sudato quattro ca micie per farmi notare. Era chiaro che il Preside mi trattava con distacco. Mac Gregor, com’era naturale, era pienamente a suo agio, e anche simpa tico, direi, per chi non si trovasse nella mia situazione. anche tu. anche tu, no? Simon: Che erbe usa per il caffè? Stephen: Ma cosa c’entra? Come posso saperlo? Simon: Scusami. Stavo cercando di im maginarmi la scena. Stephen: (Andando aI centro) Sai, quello che più mi secca è che non ho motivi per dire che non è stato giusto. Mac Gregor, devo ammetterlo, è più quali ficato — è, evidentemente, un uomo in gamba. Ma quello che mi secca an cora di più, e non posso fare a meno di sentirmi seccato, è il vantaggio che gli dà Oxford — il semplice fatto che ci sia stato ha aumentato le sue probabi lità. Ma questa è una cosa risaputa — è una cosa accettata quasi da tutti, no? Simon: Oh, non so... Stephen: Certo che lo sai. Perché faccetti Simon: No certo. Perché dovrei? Stephen: Forse perché sei stato a Oxford Simon: E con ciò? Stephen: Dimmi un po’ — quanti altri nel tuo Consiglio Editoriale ci sono stati? Simon: Cinque. Stephen: Su quanti? Simon: Otto. Stephen: Gli altri tre dove sono andati? Simon: Solo due. Stephen: Lo vedi: solo uno non è andato. Simon: Quello non è andato da nessuna Stephen: Questo prova il mio punto. Simon: Prova semplicemente che il no stro Consiglio editoriale è composto di laureati di Oxford, di laureati di Cam bridge e di un mezzo fesso. Non prova affatto che tu non possa avere la me glio sul Mac Donald per il posto di Vice Preside. E secondo me il povero Mac Donald o il Mac Donald di Ox ford, o il Mac Donald di Cambridge, o il Mac Donald di Reading, o magari di Edimburgo... Stephen: Mac Gregor. Simon: Come? Stephen: Si chiama Mac Gregor. Simon: In ogni caso non ha nessuna pro babilità, anche se ritengono che tu ab bia poche qualifiche e troppi figli, an parte. E il figlio del Presidente. A Cambridge no? che se sospettano che la tua unica scorreggia possa essere foriera di in continenza cronica dovranno ugual mente scegliere te. (Si alza) E se sono particolarmente affabili con Mac Do nald è solo per compensarlo di essere venuto fino a Londra da Edimburgo per essere bocciato. Stephen: Preferirei — se non ti dispiace — che tu non cercassi di tirarmi su e di riassicurarmi con questi tuoi ragio namenti. Prima o poi dovrò pur af frontare questa delusione, e preferirei che ciò avvenisse al più presto — tu non sei d’accordo? Simon: No — personalmente io preferi sco sempre al più tardi. Io credo pro prio che ce la farai. Stephen: Beh — grazie lo stesso. Sarà meglio che vada. (Si alza) A che ora viene il tuo amico? Simon: Quale amico? Atephen: Quando ho telefonato per chie derti se potevo venire mi hai detto che forse non ne valeva la pena perché aspettavi un amico. Simon: Sì, perbacco! Ma è uno di quelli che quando li aspetti non arrivano mai. Stephen: Non ci tieni che venga? Ma chi è? Simon: Oh. Jeff Golding. Stephen: Ah, quello là! Beh, devo dire che quel suo ultimo articolo sulla Cen sura — beh, non ho mai letto niente di più pretenzioso e male informato. Simon: Pretenzioso, forse — ma male in formato lui lo è. Stephen: (Siede sul sofà) Non me ne di menticherò mai — Mai... Come rovi nò quel pranzo quando lo conobbi — Come era ubriaco — Come si compor tò! E soprattutto non dimenticherò mai quel che disse: chi sceglie la carrie ra di insegnante in una scuola privata — è un pederasta latente, — alludeva a me naturalmente. Simon: Misericordia! E tu? Stephen: Gli dissi di rimangiarsi quel che aveva detto. Simon: E lui? Stephen: Offrì di rimangiarsi la parola «latente» e mi fece le sue congratula zioni. Credeva di fare lo spiritoso. Per dio, non perdo facilmente il controllo, ma quella volta lo aspettai al varco — lo afferrai per la giacca e gli dissi che avevo tutte le intenzioni di insegnargli l’educazione. Se Teresa non fosse tor nata dalla toilette proprio in quei mo- nento — ci si era rinchiusa piangendo, l’avrei ridotto proprio male. Non te lo avevo mai detto, vero? Simon: Mai. — Molto divertente. Di’ un po’, in quella memorabile occasione, l’anfitrione chi era? Stephen: Tu. Simon: Io? Non me ne ricordo. Dev’esse re stato molto tempo fa. Stephen: Sì, ma sono sicuro che il tuo amico Jeff se ne ricorda molto bene. Jeff: (Fuori scena) Simon! Si sente chiudere la porta esterna con vio lenza e da sinistra entra Jeff Golding la sciando la porta aperta) Jeff: Oh, carissimo. (Simon si alza) Non mi aspettavi? Simon: Certo che vi aspettavo. Oh — mio fratello Stephen — Jeff Golding. Vi conoscete, no? Stephen: Benissimo. Jeff: Davvero? Mi dispiace ma non me ne ricordo. Stephen: A un pranzo offerto da Simon — vari anni fa. Jeff: (Evidentemente non ricorda proprio niente) Lieto di rivederla. (A Simon) Posso avere uno scotch? Simon: Ma certo. (Va a! tavolo-bar) Tu, Steve? Stephen: No, grazie. Jeff: (Si lascia cadere in poltrona) Cristo! torno adesso dalla BBC — da registra re un pezzo con quello stronzo di Lampwith. Finalmente so quello che vale. Simon: Oh, Lampwith. Ma non è un poe ta? Jeff: Macché, neppure quello. E un au straliano che vuol fare l’inglese. E an dato a Oxford, per sbaglio, e con que sto si crede uno di noi. Ma l’ho sorpre so, due o tre volte, a parlare con l’ac cento del suo paese. Tre volte, per es sere esatti. Stephen: Ma cos’ha, contro di lui? Jeff: Non le pare abbastanza? (Dalla ta sca interna tira fuori fiammiferi e siga rette) Stephen: Solo perchè è australiano, allo ra? Jeff: Come dentisti, niente da eccepire. Stephen: Mi vuole spegare perchè ce l’ha Jeff: Se fai tanto di accettarli nel mondo Stephen: Davvero? In ceh modo? Jeff: Sono troppo profilici. Scribacchia no, scribacchiano, scribacchiano, come tanto con gli australiani? letterario, te lo declassano. macchine. Dal minimo fatterello di cronaca sono capaci di sfornarti un ar ticolo che non finisce più — non im porta come — Tutti eguali giornalisti sportivi, critici cinematografici, poeti, romanzieri — intelligentoni della TV — tutti eguali e oltretutto se ne frega no di guadagnar poco pur di portar via lo spazio a noi. Lo vede dunque — se non ci fossero australiani in giro i fessi come me non sarebbero costretti a vender la loro merce (o: a leccare i pie di) al giornale radio e persino a quelli ignobili rotocalchi, e tanto meno a sprecare il loro sabato a intervistate stronzi come Bugger Lampwilh. Stephen: In questo momento, nel nostro collegio, abbiamo una mezza dozzina di australiani. Non solo sono cordiali, schietti e estroversi, sono intelligenti e molto studiosi. Jeff: Furbi matricolati. (Getta il fiammi fero usato sul tavolino) Ehi! (a Somon) Roger è andato a dire che io faccio di tutto per evitarlo dopo la mia recensio ne su quella cacca di romanzo che ha scritto. L’hai letta? importante del libro. Simon: Che cosa? Jeff: La mia recensione — è molto più Simon: Si, l’ho letta. JeffQ: Ebbene? Simon: C’erano battute giustose. Jeff: Vero? — E adesso dimmi — con assoluta franchezza e onestà — cosa ne pensi di quella sua cacca. Simon: Non l’ho letta. Jeff: Non l’hai pubblicata tu? Simon: Sì. Jeff: Beh, se vuoi saperlo, per me non l’ha letta neppure quel disgraziato che hai incaricato di fare il soffietto su quella bella merdata. Ma chi l’ha scrit to? Simon: Per la verità, l’ho scritto io. Jeff: Lo vuoi proprio sapere cos’è quella nella merdata? Te lo dirò io cos’è — ma perchè non l’avrò detto più chiaro nella mia recensione quello che pensa vo — è un pezzo di let-te-ra-tu-ra! ecco cos’è! Stephen: A lei non va la letteratura? Jeff: No. Stephen: Perchè? Jeff: Perchè è un racket rompicoglioni. Srephen: Secondo lei, la letteratura è un Jeff: C’è dentro anche lei? Stephen: La insegno, se permette. Jeff: Ma guarda! E a chi? racket? des. Stephen: Ai corsi avanzati. Ad Amplesi- Jeff: Cos’è Amplesides? Stephen: Un collegio, se permette. Jeff: Tra i migliori o tra i peggiori? Stephen: Diciamo pure tra i migliori. Jeff: Diciamolo pure, anche se non lo è. Buona, eh? Accidenti, era un secolo che non mi imbattevo in un professore di un collegio privato... Stephen: Probabilmente da quando fece la mia conoscenza. Jeff: Le ho detto che non me ne ricordo. Stephen: Vuole che glielo ricordi io? Il la tente pederasta sono io. Jeff: (Dopo una pausa) Allora il suo è il posto ad hoc. Stephen: (A Simon) Meglio che vada. Pri ma di fare qualcosa di cui potrei pen tirmi. (Si volta ed esce dalla cucina) Simon: (Fa un tentativo di seguirlo) Un ab braccio a Teresa e ai bambini (glielo grida dietro) (Si sente sbattere la porta del giardino. Si mon va al giradischi, ripone i dischi nel la ¡oro scatola e la scatola sul ripiano basso. Jeff si serve un altro scotch) Com’è in realtà? Jeff: Un vero tesorino, mi sembra. Simon: Non così stupido come sembra. Jeff: Gli rimane un gran margine. Simon: È mio fratello. Jeff: Scusami. Simon: Lo sai che l’ultima volta che vi sie Jeff: Da allora è diventato più maturio. te visti voleva prenderti a botte? Dov’è Beth? Simon: È andata a Canterbury. Jeff: (Si siede) Con i suoi pupilli? Simon: Sì. Jeff: Si è fatta veder poco, Beth, ultima mente. Andate sempre bene, voi due? Simon: Sì. Jeff: Cristo! Sei fortunato. Non so come fate. Be’, lei è molto bella, e per di più è gentile e intelligente. E questo certo aiuta. Simon: Aiuta molto. Jeff: E c’è in lei quel tantino di vena mo rale. Io non le vado a genio, lo sento, nonostante ci si conosca da tanto. Cri sto, le donne! (beve) Ascolta, Simon: c’è qualcosa di cui voglio parlarti, e ti dico subito quello che voglio da te. Vo glio che tu apra bene le orecchie, senza battere ciglio, e mi conceda tutta la tua famosa comprensione (di vecchio ami co). Okay? sulla poltrona girevole) Simon: Beh, farò del mio meglio. (Sisiede Jeff: Ti ricordi di Guendalina? Simon: Guendalina — no. La conosco? Jeff: L’hai vista centinaia di volte. Simon: Ah, sì? Dove? Jeff: Assieme a me. Simon: Oh. Qual era — a dir la verità, Jeff, ce ne sono state tante che l’unica di cui ho ancora un pallido ricordo è la tua ex-moglie. Jeff: Ne sei sicuro? Simon: Sicurissimo. Jeff; Beh, era Guendalina. Simon: Oh, credevo che si chiamasse Jeff: Perchè? Simon: Come? Jeff: Perchè credevi che si chiamasse Simon: Non era gallese? Jeff: Non era gallese un accidente. Simon: Ricordati che sono anni che non la vedo — da quel giorno in cui le ti rasti in faccia il tuo Whisky e la pian tasti. Gwyny? Gwyny. Jeff: È tutto quello che ti ricordi? Simon: Beh — successe a casa mia, a una colazione che tu mi avevi chiesto di dare per presentarti al direttore del Sunday Times — e la lasciasti piangere sul mio letto, a lacrimare sul mio guan ciale con una gran puzza di wisky dap pertutto. Jeff: Ma non ricordi altro dei miei tempi con Guendalina, per Dio? Le cose che ti dicevo di lei? Simon: (Riflettendo) Sì. Mi dicevi che era ia donna più stupida che tu avessi mai conosciuto. Jeff: Che tu avessi mai conosciuto. Simon: Sì. Jeff: Lo era? Simon: Sì. Jeff: Beh — ne avrai incontrate di più stupide da allora! Simon: È probabile, ma per fortuna non mi ricordo neppure di quelle. Jeff: Allora, tu, in un certo senso di sprezzavi la mia povera vecchia Guen dalina, eh? (Spegne la sigaretta nel por tacenere) Simon: Certo. E anche tu. Jeff: E allora perchè credi che l’abbia Simon: Perchè ti stuzzicava sessualmen Jeff: Ti ho detto anche questo? Simon: No, lo hai detto a lei, un paio di sposata? te. volte — davanti a me. Jeff: Cristo, che razza di porco inco sciente che ero! (si riempie di nuovo il bicchiere) Beh, adesso sto pagando, no? Ascolta: qualche mese fa me la sono trovata davanti — in Oxford Street. Non ci avevo mai rifatto un pensierino in tutto questo tempo, e airimprovviso ci siamo trovati là, fac cia a faccia. A guardarci per un intero minuto. E vuoi saperlo? Lei si è messa a piangere. (toma ai centro) E io — ac cidenti — mi sono sentito come se fos simo ancora sposati — proprio come al principio, quando non riuscivamo mai a staccarci uno dall’altro. È stata que stione di minuti. nuti. Avvinghiati, ecco cosa! Jeff: Di minuti? Simon: Proprio di minuti, di maledetti mi Seff: In Oxford Street? Jeff:Ho steso la mano, mollo lentamen te, e le ho sfiorato la guancia. Le lacri me le scorrevano giù per il viso, la boc ca le tremava — mi rese la mano e se la premette contro la guancia. Allora la portai a casa di Nick che fra paren- tisi è ancora in ospedale, (siede sul bracciolo del divano) Simon: Davvero? Non sapevo che fosse in ospedale. Jeff: Questa volta tentano la cura della terapia repulsiva, ma non servirà a niente. E talmente intossicato che uscirà disintossicato, ma pronto a rico minciare da capo col gin. Insomma, per fartela breve, l’ho portatra da Nick e l’ho presa e ripresa e ripresa. Cristo! E indovina cosa ho fatto quando se n’è andata? Simon: Ti sei addormentato? Jeff: Ho pianto, ecco cos’ho fatto. Non volevo che mi lasciasse, capisci? L’amo. Credo proprio di amarla. E adesso ci sono dei momenti in cui cre do di volerle anche bene. Simon: Be’, Jeff, è meraviglioso. Sempli cemente meraviglioso. Jeff: Oh, sì, meraviglioso un accidente scoprire che vuoi sposare la tua ex moglie. Simon: Perchè no? È la conferma che hai avuto ragione la prima volta. Perchè non risposarla? Jeff: (Riempiendosi il bicchiere) Perchè nel frattempo si è presa un maledetto nuovo marito, ecco perchè. In realtà non tanto nuovo — sono sposati da cinque anni. Un maledetto professore di Cambrige, un certo Manfred, Dio sa perchè cavolo l’ha sposata. Simon: Forse piace il sesso anche a lui. Jeff: (Si siede) A sentir Guendalina gli piace la televisione,, il calcio, la lotta li bera, i libri umoristici, i film gialli, ma non il sesso, (prende una sigaretta da un pacchetto) Simon: Cosa insegna? Jeff: Scienze morali. (Accende sigaretta) Simon: Eccoti la risposta. Da Socrate in poi i filosofi sposano per tradizione femmine stupide. Credono di fare i furbi. — Lei lo ama? Jeff: Certo che lo ama, lei ama tutti. Ma più di tutti ama me... eccetto quella loro stramaledetta creatura. giù di lì. Simon: Oh! Quanti mesi ha? Jeff: Anni! Due — tre anni — quattro, Simon: Maschio o femmina? Jeff: Non saprei. L’unica volta l’ho intra vista dalla mia macchina trotterellare verso l’asilo, coprendosi la faccia con la mano, come un moccioao (o: hippy) davanti al Giudice. Simon: Non gliel’hai chiesto a Guen, se è maschio o femmina? Jeff: Sì, ma solo per dimostrarle interes se. Comunque, che importa? Che im porta se lei non vuol piantare Manfred per via di quel coso? È mia moglie, non la sua,, l’ho avuta prima io e lei questo lo ammette — sarà sempre mia, ma tutto quello che ora può con cedermi sono due appuntamenti alla settimana, a Cambridge. Il martedì e il giovedì pomeriggio, quando Manfred tiene i suoi seminari. — Nello studio di un teologo. Simon: E Manfred che ci tiene i suoi se minari o sei tu che ci prendi Guenda lina, in quello studio? Jeff: Sono io che ci prendo Guendalina. E un amico di Manfred, capisci. Simon: Allora è Manfred che gli ha chie sto di prestarvi il suo studio. Jeff: Nooo, Manfred non ne sa niente di tutto questo, tanto meno di me. Ma il teologo pare che sia convinto che fa parte del suo job incoraggiare ciò che lui considera peccato. Cristo, conosci il tipo! Uno quallido ruffiano sodomita da strapazzo. Mi rivolta lo stomaco. (Si versa dell’altro Wisky) Simon, vuoi saperla, una cosa, di me? Simon: Cosa? (Si lascia cadere nella pol trona) Jeff: (Andando dietro la poltrona) Cristo! Mi sento così inglese! Sì, inglese fino al midollo. Dopo anni di congressi, inter nazionali, di tavole rottonde, di girare l’Europa e il mondo — romanzieri te deschi, saggisti in lingua latina, com positori greci, poeti francesi — mi sono accorto di odiarlo, quel mondo. (si sposta) Eppoi: detesto le donne, adoro gli uomini e odio i froci. Lo sai quando mi sento in pace, maledetta- mente in pace con me stesso? Su una strada inglese, sotto il cielo inglese — tra Londra e Cambridge — quando sto andando da Guendalina o quando l’ho appena lasciata, con la pioggia che scorre sul vetro della macchina — il motore che romba — e sogno. Sogno ciò che è stato o ciò che sta per essere... Perduto nel ricordo o nella anticipa zione — anzi, nella anticipazione del ricordo. (Pausa) Oh Cristo. La mia maledetta opinione è che questo no stro povero, maledetto, disgraziato paese ormai sia finito. Proprio finito. Maledettamente finito. Parlo sul serio. L’altro giorno ho avuto la visita dell’Ispettore delle tasse, (letteralmen te: la visita di un impiegato dell’IVA) (si alza e va al tavolino) Arriva lui, adesso, invece delle vecchie care figu re di una volta. Sono abbastanza vec chio per ricordarmi del venditore di frittella col suo campanello, dall’omi no che accendeva i lampioni del gas per le strade, del suonatore di organet to. (Cammina, si muove) Sento ancora quell’odore di fritto, ho ancora nell’orecchio il suono di quel campa nello — il suono di quell’organetto. A volte mi ricordo persino delle crinoli ne, dell’omnibus a cavalli, del mu sic.hall — dei famosi campioni di cric ket Hobbles e Sutcliffe... 0 è il ricordo della anticipazione, (ride) L’intervista a quello stronzo di Lampwith. Che Dio lo stramaledica, (pausa) (si alza in piedi senza scopo. Barcolla leggermen te) Cristo! Sarà meglio che vada a scri vere il mio pezzo. (Simon si alza) Non ti ho raccontato cosa mi ha detto sta notte a letto quella carognaccia? Cri sto? Simon: Chi? Jeff: Eh? Simon: Quale carognaccia? Jeff: Davina. (si versa ancora da bere) Simon: Davina? Jeff: Non sai chi è Davina? Simon: No. Jeff: Non l’hai conosciuta? Simon: No, no — non credo (si siede di Jeff: Per Cristo, devo parlarti di Davina. nuovo) Simon: Perchè? Jeff: (si siede sul bracciolo) perchè è pro prio, decisamente, una — delle più — grandi... delle più grosse... (si sente suonare il campanello dell’ingresso) Chi sarà? il mio amico Simoin. ti senti... bene?) bitter, grazie. va a siunistra della poltrona) la porta aperta. Jeff la ignora) ders. Simon: Scusa un momento. (va a sinistra fuori e apre Ia porta) Davina: (fuori) Salve. — Per caso, Jeff è qui? (Jeff riconosce la voce di Davina, si ab bandona sul divano con un lamento-so spiro) Simon: (fuori) Sì, sì, è qua. Si accomodi. (entra Davina seguita da Simon che lascia Davina: (a Simon) Sono Davina Saun- Simon: E io — sono Simon Hench. Davina: Lo so. (pausa) Simon: Gradisce un drink? Davina: Un goccio di gin con un po’ di (Simon va a! tavolino dei drinks, Davina Jeff: Come hai saputo che venivo qui? Davina: Me l’hai detto tu. Jeff: Come mai te l’ho detto? Davina: Perchè te l’ho chiesto. Jegff: Volevo parlare in santa pace con Davina: Allora — ti senti a... posto? (o: Jeff: Eh? (una pausa. Simon porge a Davina il suo drink e passando dietro a! divano va al caminetto) Davina: Com’è andata l’intervista? Jeff: Bene. Davina: Che tipo è? Jeff: Chi? Davina: Lampwith. Jeff: Oh, okay. Davina: Okay, in che senso? Jeff: Accettabile. Davina: Bene. Jeff: Bene cosa? Davina: Che sia accettabile, (si siede) Jeff: Cosa vuoi che ti risponda: mi corri dietro per tutta Londra, interrompi una maledetta conversazione privata con il mio vecchio Simon, e non sei an cora arrivata che già mi chiedi se sono ubriaco... Davina: Per essere sobriamente precisi non ti ho chiesto se eri ubriaco. Ti ho chiesto se ti sentivi a posto (o: bene). Jeff: Allora, per essere alcoolicamente precisi, ti rispondo no — sono ubriaco. Davina: Mi sorprende. Credevo che per te, sentirsi a posto (bene) ed essere ubriaco fossero sinonomi. Jeff: Ma adesso sei arrivata tu, no? Que sto cambia tutto, no? (spegne la siga retta) Davina: Credi? Jeff: Non dovevi passare la mattinata a quel maledetto British Museum? Mi pareva che avevamo deciso di non ve derci per un paio di giorni — o... di anni. (Una pausa. Simon va a! giradischi) Simon: Cosa fa al British Museum? delle ricerche? Jeff: (Prende un’altra sigaretta) Appun to. Su quel maledetto Maggiore Bar- ttelot. Naturalmente l’idea l’ha presa dalla mia recensione sulla vita di Stan ley. Simon: Ah si? E chi era questo maledetto Maggiore Berttletot? Davina: Quello che andò al Congo con Stanley — fu lasciato a guardia dell’ul tima colonna e — finì flagellando, fu cilando, e persino — così dice la storia — mangiandosi gli indigeni. Jeff: Un lavorino maledettamente piace vole per una donna, eh? (Accende la si garetta) Simon: 11 maggiore Marttelot era una donna? Davina: Era un gentleman inglese. Da quello che ho accertato — lui — lo tro vava piacevolissimo. Simon: Sul serio? E pensa di scriverci un libro? Jeff: Certo che ci pensa. Cannibalismo, sadismo, demolire l’Inghilterra — come può non avere successo? E per questo che ci pensa. Simon: Devo ammettere che mi sembra un soggetto affascinante. Chi è il suo editore? Davina: Ancora non ce l’ho. Jeff: (Si alza con il bicchiere in mano) E questo che ti ha indotto ad abbandona re il British Museum? La speranza di ottenere un contratto col mio vecchio amico, l’editore Simon Hench? (Jeff le dà un pizzicotto sul naso, Lei si vol ta. Lui torna a riempirsi il bicchiere) Davina: (Tira.fuori delle chiavi dalla bor setta) Non sono stata al British Mu seum. Ho perso la mattinata al telefo no. E sono venuta qui soprattutto per restituirti le chiavi. (Gliele getta) Jeff: (Senza far tentativo di prenderle al volo) Grazie. Aavina: E anche per dirti di una telefo nata. Jeff: Di chi? (Si volta e la guarda) Davina: 11 marito della tua ex-moglie. Manfred. Jeff: Casa voleva? Davina: Voleva te. Jeff: Voleva me? Davina: Si. Voleva informarti del conte nuto di una lettera che ha scritto Guendalina, prima di suicidarsi. Jeff: (Dopo una pausa) Come? Guenda lina — cosa... (Si arresta davanti a lei) Guendalina è morta! Simon: Oddio! Davina: No. Jeff: Ma ha tentato — ha tentato... Davina: A quanto pare. Jeff: Come sarebbe, a quanto pare? Vuoi forse dire senza successo? Davina: Oh, con successo, direi. Succes so, in quanto ha reso Manfred isterico — mi ha fatto perdere inutilmente l’in tera mattinata al telefono — e tu di colpo non sei più ubriaco. Cosa si vuol di più da un debutto di tentativo di sui cìdio? Jeff: Ma per Cristo, cosa è successo, cosa è veramente successo? Davina: Mi ha letto solo le prime frasi — era troppo impacciato per andare avanti. dalina, credo. Non sa scrivere. Jeff: Da cosa? Davina: Dallo stile epistolare di Guen Jeff: Va avanti, dov’è? Davina: In ospedale, probabilmente. E se hai intenzione di andarci, ricordati che Manfred ti aspetta al varco per fare di te una polpetta. Una polpetta al sangue, per usare le sue parole. Mi è sembrato molto deciso. Mi piace la gente che parla chiaro. (A Simon) Quando è incavolata. Jeff: (Le getta addosso il contenuto del suo bicchiere bagnandole le bluse) E questo, ti sembra parlar chiaro? Davina: No — banalmente teatrale, — come al solito (Come sempre) Ma se sei proprio deciso ad andarci ti consiglio di non guidare, altrimenti rischi di fini re anche in qualche ospedale, en route. (Egli posa il bicchiere ed esce sbattendo la porta) Simon: Ha ragione — non puoi guidare - Jeff... (La seconda porta sbatte) (Si avvicina a Davina) Le porto qualcosa per asciugarsi la blusa. Davina: Non importa — è troppo bagna ta. Mi dia un altro drink, per favore. (Gli porge il bicchiere vuoto) Simon: Con piacere. (prende il bicchiere, va al tavolo/bar. Da vina si trova la blusa inzuppata si alza e se la toglie. È senza reggiseno. Appen de la blusa sulla spalliera di una sedia prende la borsetta e va al caminetto. Tira fuori un fazzoletto e molla la bor setta sulla poltroncina girevole e procede quindi ad asciugarsi il collo e le guance mentre si guarda allo specchio sopra il caminetto. Simon si volta con il drink. Vede Davina senza blusa, ha un leggero sussulto. Poi le porge il bicchiere, Davi na si volta verso di lui) Davina: Ma che stupido, non le pare? Simon: Bè — un pò eccitabile — a volte. Davina: No, no — è proprio stupido — in tutti i sensi. Quando io ero a Oxford i suoi articoli venivano presi sul serio, abbastanza sul serio. Ma naturalmente ora uno si accorge che quello che alla- ra poteva passare per intelligente origi nalità non era altro che il risultato di una sua artificiosa preparazione a uso e consumo delle aule scolastiche. E non ha fatto un passo avanti — anzi — questa sua guendalomania è la prova che ha fatto dei passi indietro. E poi: le sue bravate da ubriaco dopo un pò non divertono più, e oltre tutto... scopa male! Simon: Forse ha altre qualità — forse ama gli animali. Davina: (Prende la borsetta e si siede sul la spalliera de! divano) Quando penso che mi ero illusa che potesse essere utile! Lui ormai ha perso l’abitudine, se mai l’ha avuta, di trattre con donne dotate di intelligenza e di parola coin cisa — capaci di giudicare e discrimi nare. Questo spiega la sua attrazione per un paio di tette cui attaccarsi, con gli occhi chiusi, facendo glu-glu — specialmente se rappresentano il frut to proibito. Simon: E stata davvero a Oxford? Davina: Ho terminato due anni fa. Per ché? Simon: Dal suo stile di direbbe piuttosto che è stata a Cambridge. Davina: (Posa il bicchiere sul tavolino) Comunque, se n’è andato se Dio vuole e così si sono felicemente concluse quattro brutte settimane. (Prende siga rette e ccendino dalla borsetta e accende una sigaretta) Simon: Ma non sta in pensiero per lui? Davina: Perché dovrei stare in pensiero? Simon: Beh, dopotutto Manfred ha mi nacciato di farne una polpetta. E po trebbe anche non essere una spaccona ta. Persino i professori in Scienze Mo rali arrivano a scaldarsi quando le mo gli tentano di suicidarsi per un altro senso. uomo. Davina: Oh, penso che quel povero Manfred sarà più sbalordito che belli coso. (Posa il portacenere accanto a sè sul divano) Tutta questa storia me la sono inventata nel taxi, venendo qua. Mi sono decisa a raccontarla quando mi ha accolto da quel villano ubriaco ne che è. Ma è stato divertente, non trova? Simon: Allora Guendalina non ha tentato di suicidarsi? Davina: Non penserà mica che a una completa cretina come quella, così soddisfatta di sè e contenta di vivere possa venire soltanto in mente di far fìnta di suicidarsi? Simon: Perchè se lo è inventato? Davina: Per vendetta. Lui mi aveva di chiarato che intendeva spingere le cose sino ad a soluzione asoluzione estrema — pur non avendone natural mente la minima intenzione — perché lui favorisce per sistema complicazioni squallide e durature — ben lontane dalle soluzioni estreme. Perciò mi sono vendicata creandogli una compli cazione che fosse perfettamente in ca rattere: squallida — duratura — e sconcertante anche per gli standars di Cambridge. Lei è sposato, se non sba glio. Con Beth, no? Simon: Esatto. Davina: Mi rendo conto ora che Beth non c’è. Simon: (Va verso il divano) Sarebbe stato peggio se avesse creduto che c’era. Davina: Mi avrebbe fatto piacere cono scerla. Ho sentito parlare molto di voi due — più di lei che di sua moglie. Sie te davvero così imperturbabilmente, per non dire implacabilmente sposati, come dice Jeff e come dicono tutti? Simon: Lo spero. Davina: Ed è vero che lei non è mai stato infedele a Beth, per lo meno per quan to ne sa Jeff? Simon: Certo non per quanto ne sa lui. Davina: Non desidera mai altre donne? Simon: (Sedendosi sulla poltrona) Che io non vada a letto con un’altra donna non implica affatto che non la desideri, ma per me una condizione sine qua non è di non andare a letto con donne che non desidero. Davina: Lo intende per me, vero? Simon: Per carità! Davina: Allora mi desidera? Simon: Non lo intendo neppure in questo Davina: Ma lei mi desidera? Simon: Si. Davina: Perché mi disprezza. Simon: No. Davina: Lei mi desidera perché mi di sprezza. Una di quelle complicatissime contraddizioni di voi uomini. Simon: No, semplicissima, e Jeff l’apprez zerebbe in pieno. La desidero per via dei suoi seni, sono nauseato dalla sua conversazione e sbalordito dal suo comportamento. Lei è forse la donna più egocentricamente spiacevole che abbia mai conosciuto — ma sono atti rato dai suoi seni. Piacerebbe anche a me attaccarmici, con gli occhi chiusi facendo glu-glu. Fra l’altro hanno un’aria ingannevolmente ospitale. Davina: Se le sembrano ospitali in modo ingannevole la ingannano. (Spegne la sigaretta e va a sedersi sul bracciolo del la poltrona di Simon sporgendosi verso di lui con un braccio sulla spalliera) Se vuole provare, è il benvenuto. (Pausa) Avanti. Vediamo casa sa fare, lei. (Simon è seduto. Esita un istante, poi si alza, prende la blusa di Davina e gliela porge) Davina: (Prendendola) Per via di Beth? Simon: E casa sua oltre che mia. È la no stra casa. Davina: La fedeltà ha tanto valore per lei? Simon: Beh — diciamo un pò più di una scopata con tipi come lei. E in quanto a questo — anche per Jeff. (Davina è in piedi va aI divano e si infila la blusa) Davina: Beh, c’era da aspettarselo da un amico di Jeff. Jeff non ha ancora inco minciato a esistere, e neppure lei. Simon: Ottima cosa perché non ho la mi nima intenzione di permetterle di far mi esistere. Davina: (Voltandosi verso di lui) E allora, il mio libro su Barttelot? Simon: Su questo ci intendiamo sicura mente. Se vale qualcosa sarà felice di pubblicarlo. E se lei ha un minimo di intelligenza, e mi pare che ne abbia an che troppa, sarà felice che glielo pub blichi io. Le darò l’anticipo più sostan zioso ottenibile a Londra, le procurerò un ottimo contratto con l’editore ame ricano e provvederò a una edizione che soddisfi lei e noi. Se vale qualcosa. Davina: Questo, per me, vale più di una scopata con un tipo come lei. (Sorridono entrambi. Davina prende la borsetta. Simon va alla porta e l ’apre per congedarla. Davina esce a sinistra. Si mon chiude la porta. Si sente sbattere la porta dell’ingresso. Simon ripone il por tacenere sul tavolino, prende i due bic chieri e li riposa sul tavololino, prende le chiavi e le posa sullo scaffale. Riflette, va a! telefono e parla alla segreteria te lefonica) Simon: (Registrando) Tre — quattro — otto — zero sette due zero. Questa è la segreteria telefonica di Simon Hench. Sarò impegnato per l’intera giornata. Qualsiasi messaggio per me o per mia moglie, potrete dettarlo dopo il segna le acustico — se ne avrete voglia. Gra zie. (Preme il bottone e poi va al giradischi prende il disco dalla busta e lo posa sul «piatto». Accende. La porta di ingresso sbatte. Simon è seccato. Spegne e si vol ta verso la porta mentre appare Dave) Dave: Non si è fatta vedere. Simon: Chi? Dave: Suzy. La mia ragazza. Non si è fat ta vedere. Sai casa avrei voglia di fare? di ubriacarmi. Simon: E perché non lo fai? trovi ancora i pub aperti se fai presto. Dave: Beh, il fatto è che sono un pò a corto, capisci. Simon: Ma ti ho dato cinque sterline... Dave: Già, ma le ho spese... Simon: In cosa. Dave: Solita roba. Simon: Beh, aspetta — ho qui proprio quel che ti ci vuole. (Va a! tavolo bar, cerca, tira fuori una bottiglia di sherry di Cipro. Dave lo segue) Sherry. Tieni. Gliel’ha regalata a Beth uno dei suoi allievi. È buono. E ora vai su, mettiti in poltrona, chiudi gli occhi e non pensare più niente. È quello che farei se fossi in te. (Lo accompagna alla porta) (Dave esce. Simon chiude ¡a por ta e torna al giradischi. Si sentono le pri me note del Parsifal. Suona il campanel lo. Voci fuori) Dave: (Riaprendo la porta) C’è qualcuno per te. (Si ritira e chiude dietro a Wood) Simon: Come hai detto? (Spegne il giradi Wood: (Entrando) Il signor Hench? Simon: Sono io. Wood: Mi può concedere due minuti? Mi Simon: (Come uno che ricordasse il nome, Wood: Le dice niente? Simon: Mi era sembrato, invece no — Perché, dovrebbe dirmi qualcosa? Wood: Allora non mi riconosci! Simon: Temo proprio di no. Dovrei? chiamo Wood. Bernard Wood. ma vuole rassicurarsene) Oh? schi) Wood: Siamo stati in collegio insieme. Simon: Dove — a Wundale? Wood: Si, a Wundale. Ero tre corsi avan ti a te — Dovresti ricordarti di me — io mi ricordo benissimo di te — ti di stinguevi da tutti gli altri. Simon: In che modo? Wood: (dopo breve pausa) Eri tu il ragaz zino sexy che tutto il mio corso si por tava a letto. Simon: (Dopo una pausa) Anche tu? Wood: No. Simon: Beh, spero che non sia venuto per rifarti. È troppo tardi. Quella fase è su perata, da qualche decennio. (Breve pausa, poi sforzandosi di essere cortese) Se fossi andato a letto con te me ne ri corderei. Wood: Beh, forse tuo fratello Stephen si ricorderà di me — eravamo nello stes so corso, come sta? Simon: Oh, benissimo. Wood: Sposato? con figli? Simon: Si Wood: Sposato, anche tu? Simon: Si. Wood: Figli?. Simon: No. Wood: Come mai? Simon: Non abbiamo posto. E tu? Wood: Oh, cosa vuoi aspettarti da uno come me... Sposato e con figli. (Una pausa) Simon: Beh — ehm — avevi detto che dovevi dirmi qualcosa... Wood: Infatti — qualcosa di molto per sonale e imbarazzante. (Pausa) Simon: (Con scarso entusiasmo) Forse un drink ti aiuterebbe? Wood: Oh — grazie. Se hai un goccio di sherry... (Guarda verso il tavolino) Simon: Ma certo... Wood: Allora, se posso... Simon: Ma certo (Simon versa sherry a Wood. Wood rimane in piedi. Nervosa mente il suo sguardo è attratto da un quadro appeso alla parete. Simon gli posa lo sherry e va verso il tavolino) Wood: Grazie. Alla salute. (Pausa) Cre devo che il mio nome lo avessi sentito pronunciare ieri l’altro. Simon: In quale occasione? Wood: Dalla mia Joanna — nel tuo uffi cio — verso le sei di sera. Simon: Joanna? Wood: Era venuta da te per cercare lavo ro. Ha appena finito l’accademia, e tu gentilmente le avevi fissato una inter vista. Simon: Oh, sì, sì — mi ricordo di una ra gazza — sono terribile per i nomi — una ragazza carina, mi è sembrata. Wood: Grazie. Com’è andata l’intervista, in confidenza? Simon: Beh, la ragazza mi è sembrata pro mettente davvero. Wood: Ma tu le hai promesso nulla. Simon: Impossibile. I suoi disegni mi han no colpito per la loro estrema sincerità di... espressione — eccessiva, direi, per quel che serve a noi. Perché, a te ha forse detto qualcosa di diverso della — ehm — dalla nostra conversazione? Wood: Non mi ha detto assolutamente niente. Simin: Ah. E sei venuto per sapere se può avere qualche speranza? Wood: Veramente no — sono venuto a domandarti se sai dov’è. Simon: Tu non lo sai? Wood: Non è tornata a casa da quando l’ho lasciata sulla porta del tuo ufficio. Simon: Mi dispiace, ma da allora non l’ho più vista. Wood: Esigo una cosa sola da lei: la notte deve rientrare. Se non lo fa, mi deve almeno far sapere dove è e con chi pas sa la notte. E se non lo fa, la mattina dopo deve telefonarmi appena sveglia ta. Si può essere più irragionevolmente irragionevole di così? Perciò, prima di andare in giro a domandare ai suoi vari amici, ho pensato che valeva la pena di venire prima qui per sapere se per caso ti aveva detto qualcosa dei suoi pro grammi. Simon: Niente, per quanto mi ricordo. Wood: Non ti ha nominato nessuno? Simon: Ha parlato come parlano oggi — di un hippy qua, di un hippy là. Dai ret ta a me: data la gioventù di oggi, è pro babile che torni a casa quando le fa co modo o per fare una buona mangiata. Wood: Suppongo di si. Simon: Posso capire che tu stia in pensie Wood: No, non puoi capirlo. Simon: Forse no. Ma sinceramente, non Wood: Te la sei fatta? Simon: Come hai detto? Wood: Te la sei fatta? Simon: Senti, Wood, le tue preoccupazio ni per tua figlia non ti autorizzano, caro mio, a introdurti in casa d’altri per fare una domanda come questa. Non ti puoi apettare, perdio, che io la degni di una risposta. vedo in che altro potrei aiutarti. Wood: Vuol dire che te la sei fatta. Simon: (dopo una lunga pausa) Si. Vuol dire di sì. Mi dispiace davvero, (buio) ro. F in e p r im o a tto A t t o s e c o n d o Simon: Tengo in ufficio le pillole del caso. Wood: Dunque, il periodo post-coitum lo avete passato a ingozzarvi di pillole. Simon: Non ci ingozzano, si buttano giù come pasticche digestive. Wood: E ti presenti da tua moglie così, impregnato di sesso? (avanza verso di lui) Simon: Eh? Wood: Come te lo levi di dosso il puzzo dei tuoi adulteri? Simon: Ti confesso che questa inquisizio ne sui miei metodi mi fa cascare le braccia. Preferirei la scenata di un ge nitore oltraggiato. Wood: E io, invece, preferisco soddisfare la mia curiosità. Rispondo alla mia do manda. Simon: E sta bene. Passo dal Club — fac cio un bagno turco e una bella doccia. Wood: Ma dopo, non provi nessun senso di colpa? di scoramento postcoitale? nessuna vergogna? Simon: No, a meno che tutto questo non rappresenti il «dopo». Wood: In realtà — solo i tuoi gusti ses suali sono cambiati; la tua morale è ri masta la stessa dai giorni in cui eri la piccola prostituta del collegio. Simon: Insomma, ti indigni perché a 13 anni me la facevo coi ragazzi del tuo corso, o perché adesso, a trentanove, me la faccio con le ragazze della gene razione di tua figlia? Wood! Santo Id dio, Wood! comincio a trovare un po’ troppo mediterranea questa tua osses sione con la vita sessuale di tua figlia — e con la mia. Dopotutto — siamo sinceri — questo, nel quadro universa le, non rappresenta granché. E in quel lo, più limitatao, della società anglo- sassone, tua figlia ha ormai superato l’età del consenso, (si ferma vicino a Wood) Ti sembrerò brutale, ma è pro prio così. Wodd: Ma c’è un fatto importante. Non è mia figlia. Simon: Come? Allora cos’è? Wood: La mia fidanzata. Simon: Vuoi che ti rinnovi le mie scuse, o ti bastano quelle di prima? (pausa) Se non sbaglio, mi hai detto che si chia ma Wood... Wood: Si. Simon: E anche tu ti chiami Wood. Wood: Ho preso il suo nome perché lei non vuole cambiare il suo. E non mi vuole sposare. Simon: Allora tu non sei il Wood di Wun- dale. Wood: No. (si ferma, posa il bicchiere e si ferma a/ centro) Sono Strapley — Stra- pley di Wundale — soprannominato il Verme Solitario. Ora ti ricordi di me? Simon: Strapley — Strapley — Strapley il Verme Solitario... No. Wood: Tuo fratello se ne ricorda certo. Lui era soprannominato il Puzzone. Eravamo considerati due falliti, lui ed io. Come li chiamavano i falliti, a Wundale? Simon: Non me ne ricordo. Wood: Li chiamavano plop. Simon: Plop. ti? (La scena contìnua senza interruzione) (pausa) Wood: Tua moglie lo sa come ti compor SIMON: Perché, vorresti informala tu? Wood: Ho — non sono una spia, (si spo sta) E Joanna non me lo perdonerebbe mai. Mi racconterà lei stessa. Mi rac conta sempre tutto. Trova che sia giu sto che io sappia cosa combina coi suoi amici. E tu combini spesso di questa roba? (sorride) Simon: Spesso o di rado — secondo il punto di vista. Wood: Sempre con ragazze dell’età della mia Jonna? Simon: Beh, siamo lì. Woo: E perché non ami più tua moglie? Simon: Per un principio non vado a letto con le mie amiche, o con le mogli dei miei amici, e neppure con le semplici conoscenze. E nessuna del nostro am biente. Troppe complicazioni. Wood: È una regola fissa? Simon: A te sembrerà molto cinico. Wood: E per questo ha scelto Joanna. Simon: Per la verità, non l’ho scelta io. È stata lei a venir su nel mio ufficio. Mi mostra i suoi disegni — parliamo... Wood: ... finché non rimanete soli. Deci di che è una conquista facile, che non può procurarti noie... Simon: Avevo anche capito subito che non c’era nessun pericolo di rovinar la... Wood: E le malattie? (pausa) Credo di avere il diritto di sapere. Wood: È più facile che ce lo ricordiamo noi, che eravamo chiamati così, che voi, che ci chiamavate così. Plop, sì, sono un plop. (si avvicina a Simon che è al giradischi) Uno che. oserei defini re, dopo tanti anni di vita da plop — Uno che dalla masturbazione passa di rettamente al matrimonio e poi alla so litudine. Simon: Ti sottovaluti. Dopotutto hai una moglie, hai detto, e adesso hai Joanna. Wood: No, la moglie non ce l’ho più. E forse non ho più nemmeno Joanna. Ma è giusto che sia proprio tu, l’ultimo elemento comune della mia relazione con lei. La prima volta che posai gli oc chi su Joanna mi venisti in mente tu. Simon: Quando, dove? Wood: Ad una recita filodrammatica del «Cadetto Winslow», Joanna imperso nava il Cadetto. Entrò in scena in pan taloni di flanella, giubbetta corta, ca micia bianca e colletto inamidato. Aveva le mosse del ragazzino impac ciato — camminava coi suoi grandi oc chioni pieni di innocente consapevo lezza. (avanza verso di lui) Come — come camminavi tu nel tuo primo anno a Wundaley nel cortile della scuola... e io ti guardavo, allora, come poi ho guardato lei. (pausa. Va ancora verso Simon) Quella sera, a teatro, da una parte avevo accanto a me i miei due bambini che, poveracci, non mi hanno ricordato altro che me stesso, e dall’altra parte mia moglie, una plop anche lei, poveretta, che da quel mo mento non è più riuscita a ricordarmi altro che tra noi era esistito un passato — plop anche quello — un passato speso a rimurginare tutti e due siila sua sinusite e le mie emorroidi, arro vellandoci sul mutuo della nostra ca setta, sui piccoli tristi fallimenti dei no stri figli, sulla loro impossibilità di es sere accettati a Wundale, sui loro sfor zi per ottenere voti appena sufficienti — sui loro fallimenti anche nello sport. Privi, persino, proveri ragazzi, di qualsiasi spirito di emulazione fraterna fra loro. Tutto, in quel momento si sembrò tempo sprecato. Tempo spre cato. Simon: In qualcosa sei riuscito — ti sei li berato e sei anche riuscito, almeno in parte, credo — con Joanna, quindi se ci pensi non è un caso di predistinazio- ne al fallimento. Wood: (al lato di Simon) Pranzi — regali — prestiti — la solita misera tecnica del plop per creare un sentimento di gratitudine e un obbligo di dipenden za. Non che sia sentita dipendente o grata — no, ha preso quello che le ho offerto e ha chiesto di più. Un tipo generoso! — È riuscita ad avere qualcosa anche da te? sì. to. Simon: A me non ha chiesto niente. Wood: Precisa a te. Proprio come facevi tu. Non chiedevi nulla a quei ragazzi di Wundale — Higgens — Hornby — Darcy... Simon: Darcy però era molto generoso coi suoi dolciumi, ma non li ho mai presi a titolo di pagamento, e del resto, lui non me li offriva come tali. Wood: (pausa) Com’è andata con Joan na? Simon: Beh — beh... ehm... Ecco, lo sai anche tu che è una disinibita. Lo sai an che tu. Wood: Dunque, è stato soddisfacente. Simon: Beh — tutto sommato — per me, Wood: Per me, no. Le sono troppo devo Simon: Ma vivete insieme, no? Wood: Lei mi permette di condividere l’alloggio che io le pago. Abbiamo ca mere separate, ma a volte, mi siedo ac canto al suo letto, quando c’è. Il più delle volte non c’è. Simon: È chiaro: tu sei preso nella morsa di una passione quasi dantesca nella purezza del suo tormento senza spe ranza. Lo sai che in fondo ti invidio? Per te ogni istante ha un suo significa to — sia pur tormentoso — mentre io devo tirare avanti contentandomi di minuti piaceri e di facili compromessi — per le mie soddisfazioni quotidiane. Wood: (interrompendolo) Joanna ti deve aver parlato di me come di un fallito. Simon: Ignoranza della gioventù, (torna davanti a Wood) I falliti non posseggo no né la tua capacità di autotormentar- si, con ironia, tanto meno la tua possi bilità di gesti nobili, ma inutili. Wood: Se ritorna, sai cosa farà? Mi rac conterà dei ragazzi coi quali è andata a letto, degli uomini che ha imbrogliato, della marijuana che ha fumato. Mi rac conterà come se l’è spassata con te sul la moquette del tuo ufficio. Simon: Sul sofà. Wood: Se ritorna. (va verso Simon) Ed io le siederò accanto ad ascoltarla e a struggermi, e ogni tanto mi consolerò al pensiero che un giorno morirà, an che lei — o, meglio ancora, che diven terà vecchia e brutta, indesiderata e di sperata. Quello che più mi irrita di te è che nella tua vita di adulto hai conti nuato sempre ad essere il piccolo Hench, esattamente come a Wundale. Ma se, come dicono, la vita in fondo non perdona a nessuno, perché ha per donato proprio a te? Simon: Ma io, grazie al cielo, non sono an cora arrivato in fondo. Sta sicuro che il momento arriverà anche per me. Wood: Il mio piccolo, caro Hench di Wundale, che in un’ora conosce e si fa la mia Joanna nel suo ufficio, butta giù un paio di pillole, e dopo aver cancel lato ogni recente ricordo sotto una doccia, senza un pensiero al mondo se ne torna a casa, a casa dalla moglie che certamente è ancora bella. Simon: Per me è molto bella, sebbene i gusti, in questo campo... Wood: Ti ucciderei, Hench, proprio ti uc ciderei. Stephen: (entrando dalla parte della cuci na) Simon... (Wood si volta e lo guar da) Oh — scusa — non sapevo... (una pausa. Riconosce Wood ed entra nella stanza) Dio mio, ma è lui. Il vecchio Strapley di Wundale. Wood: Mi chiamo Wood. Stephen: Oh, mi scusi. Lei mi ricorda un nostro campagno di collegio — anzi, mio — del mio corso. Strapley. Wood: Ah, sì? E che tipo era? Stephen: Era un po’ uno di quelli che in collegio chiamavano plop, vero Si mon? Lei è fortunato di non essere Strapley che poveraccio non faceva prevedere un futuro molto brillante. (ride) Wood: (a Simon) Grazie per lo sherry, (si volta rapidamente ed esce chiudendo la porta e poi ¡a porta d’ingresso) Simon: Prego. Stephen: Spero di non essere stato io a farlo scappare. Simon: Mmm? no, non sei stato tu. (pren de il bicchiere di Wood e lo posa sul ta volo bar) Stephen: Cosa voleva? Simon: Cercava qualcuno cui somigliavo tempo fa. Un errore di persona. Stephen: Se fosse Strapley non sarebbe cambiato affatto. Solo con 25 anni di più. (si siede sulla girevole) Povero vecchio Verme Solitario, (una pausa) Sai, hai avuto ragione tu. Simon: Mmm? Stephen: Ce l’ho fatta. side. Simon: Cosa? Stephen: Ho avuto il posto. Di vice Pre Simon: Oh. Bravo, (pausa) Bravissimo. Stephen: Puoi immaginare come sono ri masto sbalordito. Ero così depresso non solo perché credevo di non aver cela fatta, ma per via di quel tuo ami co... Simon: Quale amico? Stephen: Golding. Jeff Golding. Non si ricordava affatto di me e tanto meno che lo avessi minacciato. Mi ero appe na sistemato in poltrona, in salotto, coi bambini che litigavano in giardino e la piccina che strillava nella culla, e cosa leggo sul «Times»? della graduale eli minazione delle scuole private e della medicina privata... una cosa sull’al tra... mi sono sentito... In quel momen to Teresa mi chiama... non avevo nes suna voglia di parlarle... sai come può essere deprimente il suo ottimismo — ma mi sono fatto forza e sono andato in cucina. Lei mi voltava le spalle — stava cucinando delle polpette di noci, per i bambini — e mi fa: «Congratula zioni, signor Vice Presidente di Arn- plesides». La moglie del Presidente aveva telefonato mentre io ero qui, non è da ridere? Non credevo ai miei orecchi. Ho buttato giù una di quelle polpette di noci... Simon: Com’era? Stephen: Cosa? Simon: La polpetta di noci. Stephen: Beh, una ricetta della moglie del Presidente. Sai, sono mezzo vege tariani... Simon: Ma che sapore aveva? Stephen: Disgustoso. Ma se questa ricet ta ci piace è pronta a darcene delle al tre. rallegri di quello che li ho detto? Simon: Ma non ti è piaciuta. Stephen: Ma non sei contento — non ti Simon: Ma certo. Stephen: Anche se ritieni che Mac Do nald era più qualificato di me? (si alza) Beh, non preoccuparti per lui — gli hanno offerto un posto — anche a lui. Professore di cattedra... del Sesto cor so di inglese. Simon: Ma non lo sei tu? Stephen: Non più. 11 Preside trova che, date le mie nuove responsabilità deb bo rinunciare a parte del mio insegna mento. Insegnerò nel quinto corso. Simon: Meno impegnativo. È quasi prefe ribile. E così — (perdendo un po ’ il,filo Grazie, sai. (ironico) del discorso, si siede)... è stata resa giu stizia a due eccellenti candidati. Stephen: Continuerò ad essere ancora sopra a Mac Donald. Simon: Non si chiama Mac Gregor? Stephen: Già! Che stupido! (breve pausa) Simon: Di che? Stephen: Di condividere con tanto entu siasmo il mio trionfo. (va verso la cuci na) Simon: (con un gesto vago) Perché non bevi qualcosa? Stephen: (si volta) No, grazie, il Preside ha detto a Teresa che mi aspettano dopo colazione per celebrare con un bicchiere di vino. no. È il loro drink preferito. Simon: Che vino? Stephen: Di viola del pensiero, immagi Simon: Se lo fanno da sé? Stephen: Lo fa il marito della zia della moglie del Preside. Simon: Ah. (breve pausa) E com’è? Stephen: Lo sai, com’è. Simon: No, non lo so. (è in piedi) Com’è? Stephen: Ma perché vuoi sapere com’è? Simon: Perché non riesco a immaginar melo. (si volta ed esce dalla cucina. A sinistra la porta sbatte si apre la porta ed entra Dave chiudendosela dietro. È un po ' brillo) Dave: (leggermente malfermo sulle gam be) E disopra. E venuta spontanea mente. Per una tazza di Nescafè. Nescafè. Simon: Ma chi? Dave: Quella ragazza. Suzy. Simon: Oh — questa si che è una bella no tizia. Ma ora che è venuta non puoi la sciarla sola a bere il suo Nescafè. Dave: Già, ma... il guaio è che sono rima sto senza. Simon: Ah. Dave: Beh. — voi non ne avete? Simon: No. Mi dispiace, ma non beviamo Dave: Un’altra qualità? Simon: Nessun caffè in polvere. Dave: Siete senza caffè? Simon: Oh, caffè ne abbiamo, ma in grani. Abbiamo il macinacaffè; e abbiamo un complicatissimo sistema di filtri, con contenitore di metallo, coni di carta... Dave: Mi sta bene. È tutto in cucina? (si avvia verso la cucina) Simon: Per dir la verità, è un oggetto de licato. (oppure: cui teniamo molto) (pausa) Dave: (tornando sui suoi passi) Come? Simon: E una delle poche cose cui tengo in modo particolare. Dave: Allora non me lo vuoi prestare. Simon: Al contrario. Il caffè in grani lo trovi in un sacchetto sigillato dentro una scatola a chiusura ermetica... Dave: No, non vuoi. Lo capisco dal tono della tua voce. Simon: Della mia voce? Andiamo Dave, cosa ne sai del tono della mia voce... (imperturbabile) Prenditi il macinino, i filtri, il contenitore, i coni di carta e il caffè. Lo compro in un negozietto del la City che non sai mai quando è aper to. Non è facile rimpiazzarlo con faci lità — e, per l’amor di Dio, lascia per dere il tono della mia voce, (pausa) Vai, per favore. Dave: No! Perché so che ti secca, ti secca maledettamente. Simon: Non mi secca. Dave: (mentre parla si avvicina a Simon) No — certo che non ti secca, non ti secca un frego, perché dovrebbe sec carti? Hai tutto quello che vuoi! Mac chine complicate (ultimo modello) per fare il caffè — un bar pieno di drinks, una cantina piena di vino — tutta la mangiatoia che vuoi — i libri che vuoi, i dischi che vuoi, i giradischi più cari, il taxi alla porta per andare in ufficio, il taxi per tornare dall’ufficio, una intera maledetta casa tutta per te e per quella tua moglie piena di sesso — certo che non ti secca un frego, perché dovrebbe seccarti, merda che sei! Simon: Beh, non è giusto, Dave. Lo sai benissimo che la casa non è tutta per noi, e abbiamo speso molto per siste mare l’attico e darlo a te, a un affitto irrisorio che fra l’altro non paghi. Ma non mi secca nemmeno questo. Dave: (gli si avvicina) Certo che non ti secca? perché ti dovrebbe seccare? Quello che vuoi, è tenerti in casa un animale addomesticato, no? o un caso pietoso meritevole della tua personale beneficenza. Simon: No, no — nel primo caso avrei preferito una scimmia, e nel secondo caso, avrei scelto piuttosto tra le tante ragazze madri o tra i tanti vecchi indi genti. Ci avevo anche pensato. Dave: Perché non lo avete fatto? Simon: Perché le ragazze madri voglioni dire neonati, e i neonati vogliono dire pannolini e strilli, e i vecchi voglion dire senilità e funerali. Dave: Così io ho messo a posto la tua maledetta coscienza senza diventare una seccatura. Simon: Sbagli. Tu metti a posto la mia co scienza proprio perché sei una seccatu ra. Una grande seccatura. Il tuo modo di fare mi irrita, il tuo cattivo odore è insopportabile, sei incredibilmente no ioso, la tua vita sessuale è tanto depri mente quanto disgustosa, e non esiste scroccone più ingrato di te. Ma non ti deve dispiacere perché non dispiace neppure a me perché hai un gran me rito: di essere buon terzo dopo le puer pere non maritate e i vecchi morituri. Dave: Non ci resto — non ci resto — non ci resto, neppure per un fottuto minuto di più in quel fottuto attico del la vostra fottuta casa, percheé, perché tu... (fa come per colpirlo) (Simon rimane impassibile, Dave si volta ed esce da sinistra. Si sente la seconda porta. Simon chiude la porta di casa. Rientra Stephen dalla cucina) Stephen: È stucchevole e sa di cipolla — decisamente stucchevole. Simon: Immaginavo che fosse stucchevo le, ma non che sapesse di cipolla. Ma non sarà tornato apposta per dirmi questo... Stephan: Sono rimasto giù in macchina a riflettere. Simon: Su cosa? Stephen: Te, e i tuoi scherni. Dopotutto, non ti dò torto — ma preferirei (si sie de e guarda Simon) che tu avessi il co raggio di dirmelo apertamente. Simon: Dirti cosa? Stephen: Che mi ci sono voluti venti- quattro anni per diventare Vice Presi de di Amplesides. Simon: A me sembra una carriera rispet tabile. Se continui di questo passo, sono sicuro che prima dei sessanta avrai la cattedra di Eton, se quel colle gio non avrà ancora cessato di esistere. (siede) E se è a questo che aspiri, per ché dovrei schernirti? Stephen: Neanche per tutto quello che butto giù per arrivarci? polpette di noci, surrogati di caffè, vini fatti in casa? Simon: Ma tu, oltre a buttar l’immangia bile e l’imbevibile, fai qualcosa di più... Sei anche uno dei più validi managers dei calciatori juniors del paese. Stephen: Tu disprezzi il mio lavoro. Simon: Hai una famiglia da mantenere. Stephen: Lo disprezzi, e disprezzi me che lo faccio. Perché non lo dici? E tutto quello che ti chiedo. Simon: Ma non voglio dirlo. Non riesco a ricordare quello che ti dissi per tirarti su l’ultima volta in cui ti vidi depresso, come oggi. Vorrei, per potertelo ripe tere... Stephen: Undici anni fa. Quando Teresa ruppe il nostro fidanzamento e tu non mi dicesti niente per tirarmi su, mi di cesti soltanto che era una buona cosa che me ne fossi liberato. Simon: Beh, visto che sono undici anni che ci vivi insieme, ammetterai che quello che ho detto ha ormai poca im portanza. Stephen: Cime non ne ha avuto allora. Ero pazzamente ¡innamorato di lei. Simon: Probabilmente avrò voluto dire — e non me ne ricordo bene — che se lei non ti voleva sposare tanto valeva rompere subito. Stephen: No, no, lo hai detto perché ti avrebbe fatto piacere. Simon: Perché? Stephen: Per non avere una cognata che giudicavi noiosa e non bella. E conti nui a giudicarla così. Simon: Ma caro Stephen, mi sembra che tu sia esagerando, anche tenendo con to della tradizionale discordia fraterna degli inglesi. Prima mi accusi non solo di non avere criticato la tua futura spo sa, undici anni fa, ma persino di rifiu tarmi di criticarla ora che è tua moglie e ti ha dato sette figli. Avanti! Dillo! sesto, ci sarà quasi il settimo. avuto ragione. Non ti interessano. Stephen: Sei. Simon: Quasi sette. Stephen: Quasi sei. Simon: (alzandosi) Beh, una volta fatto il Stephen: Teresa ha ragione. Ha sempre Simon: Chi? Stephen: Gli imbecilli come Teresa. Simon: Non voglio dir niente. Stephen: A me no, ma a quel superuomo del tuo Jeff Golding sì, lo dici che io e Teresa siamo due inbecilli. Simon: Stephen, ti giuro — non l’ho detto a anima viva. Stephen: (piegato verso Simon) Rispondi a questa domanda, Simon, solo a que sta' perché siete cosi contrari ad avere figli? Simon: Beh — in primo luogo perche non abbiamo abbastanza posto, in secondo luogo perché fin dalla nascita scompa ginano la vita dei genitori, e in terzo luogo perché più tardi scompaginano la loro — e in quarto luogo, non mi sembra giusto introdurli in un mondo come questo, e, in quinto e sesto luo go, tanto per cominciare, non mi piac ciono i bambini. Okay. Stephen: E Beth cosa ne pensa? Simon: (dopo una pausa) Beth ed io sap piamo benissimo quello che vogliamo, se permetti. Stephen: Ma credi proprio che Beth sia felice? Simon: Sì, lo credo. E non una parola di più su Beth. Hai capito, Stephen? Non una parola di più. Non la voglio senti re. (enfasi). Stephen: Ne sono certo. Certissimo. È l’ultima cosa che vorresti sentire — quanto Beth è infelice. Simon: Steve! Stephen: Lo è! così infelice che la setti mana scorsa è venuta da Teresa a piangere e a sfogarsi. Simon: Steve! Stephen: Ha una relazione. Una relazio ne con quel Ned che tu disprezzi tanto. Ecco quanto è infelice la tua felicissi ma Beth! (pausa) Simon: Con Ned! (pausa) Beth ha una re lazione con Ned? (pausa) Davvero? (si siede) Con Ned? Perdio! Stephen: È ora che tu lo sappia. Simon: Perché? Stephen: Dovevo dirtelo. Simon: Questo è un altro paio di maniche. (Si sente aprire e poi chiudere la porta di ingresso. Entra Beth chiudendo la se conda porta. Posa Borsetta e borsa e la cartella su una sedia, Simon e Stephen si alzano) Beth: Ciao! Ciao, Stephen. Stephen: Ciao, Beth. Simon: (va a dare un bacio a Beth) Brava. Sei tornata presto. Beth: Si. ho preso un treno prima. Simon: Com’era Salisbury? Beth: Canterbury, vuoi dire. Più o meno la stessa, con qualche nuova brutta co struzione in più. (prende le chiavi di tasca e le mette in bor setta) Simon: E la cattedrale? E sempre lì? Beth: I miei studenti hanno preferito vi Simon: E Ned? Beth: Oh, lui ha preferito la cattedrale. Stephen: Devo proprio lasciarvi. Il Presi de si starà chiedendo cosa mi è succes so. Simon: devi dare la grande notizia a Beth. (Breve pausa) Beth. Ti presento il nuo vo Vice-Preside di Amplesides. sitare il nuovo Supermercato. Stephen: Ah, sì — ho avuto il posto. Beth: Steve — è meraviglioso! (viene avanti e gli dà un bacio) Rallegramen ti. Teresa sarà raggiante. Stephen: Lo è. Io, dopo l’intervista, ho avuto dei momenti neri, ma lei non ha mai avuto un momento di dubbio. E il vecchio Simon mi ha tirato un po’ sù. Mi son tolto un gran peso. Be’, devo proprio scappare. Ci vediamo presto. Beth: (Io saluta baciandolo) Bye. (Beth va alla sedia e prende sigarette e ac cendino dalla borsetta. Stephen va verso la porta della cucina e si arresta) Stephen: A proposito, Simon — mi sono lasciato andare poco fa — ho detto un sacco di sciocchezze — non so proprio perchè. Simon: Non lo sai? Stephen: Beh, sì — credo di averti voluto ferire, ma senza intenzione di farti del male. Simon: Beh, tanto meglio, perché del male non me ne hai fatto. Non ti ho preso sul serio. Stephen: Meglio così, (esita, si volta ed esce) Beth: Che cosa ha detto? (accende una sigaretta) Simon: Non ci ho capito granché. Credo che sia in una fase di depressione po steuforica. Appena incomincerà ad aspirare al posto di Preside (di Ample- sides) si sentirà subito meglio. O se Amplesides verrà abolito. Trionfo o disastro. Sono le sue droghe. Ti faccio un caffè? o un tè? Beth: No, grazie, l’ho già preso. Simon: Dove? Beth: Sul treno. Ti sei goduto il tuo Wa gner? Simon: Qualcosa — il suo profilo sulla busta, la visione dei dischi nuovi di zecca — la loro leggerezza così ben do sata... Se l’incisione è buona, sarà un godimento perfetto. Beth: Ma allora non sei ancora riuscito a sentirlo? Simon: Sono stato quasi sul punto, quasi sul punto. Ma cosa vuoi — fra Dave e Stephen — fra Jeff e Davina — sbron zi, ganzi e gonzi, sai com’è... Beth: Oh, povero Simon! non hai sospi rato altro per tutta la settimana. Simon: Mia cara, non puoi stabilire come vuoi l’orario dei tuoi piaceri... Non possiamo aspettarci che i nostri svaghi vengano a suon di bacchetta e non mi sembra nemmeno del caso fare troppi piani... (ripone il disco nella busta e nel la seconda scatola e mette tutto nello scaffale. Pausa) Beth: Jeff come stava? Simon: In ottima forma: si è ubriacato, ha buttato tutto il suo wisky in faccia alla sua ragazza e si è precipitato a Cam bridge, dove se la fa con Gwynith, la sua ex-moglie. buffonate di Jeff. Beth: Non si chiama Guendalina? Simon: Guendalina, sì — Una delle solite Beth: (pausa) La ragazza com’è? Simon: Ben fornita di tette e di sarcasmo. Beth: Ha cercato di portarti a letto? Simon: Sì. Beth: Come ne sei uscito? Simon: Sono stato sgarbato — me ne rammarico, perché sta scrivendo un li bro — pare piuttosto buono. Beth: Beh — adesso puoi metterlo su il tuo Wagner. Simon: Non me lo sognerei mai. Beth: Perché? Simon: Perché tu detesti Wagner. Beth: Ma io vado a fare il bagno. Simon: Un bagno di quattr’ore? Beth: Dopo devo arrivare fino alla scuo la per fare i conti delle spese di Canter bury. Simon: Quand’è così... (Simon si alza e inizia a mettere su un di sco de! Parsifal. Beth si alza, prende la borsetta. Esita, poi va al tavolino, lascia cadere un po ’ di cenere sul portacenere) Beth: Stephen te lo ha detto? Simon: Mmm? Detto cosa? Beth: Di me. Spero che te lo abbia detto. Simon: Perché? Beth: Così non ho bisogno di dirtelo io. Simon: Non ne hai bisogno. Beth: Di cosa? Simon: Di dirmelo. Beth: Cosa? Simon: Quello che non mi vuoi dire. Step hen non mi ha detto nulla di importan te. Beth: Non volevo dirtelo io, ma voglio che tu lo sappia. Simon: Perché? Beth: (si siede) Perché si tratta di un pro blema molto importante che dobbia mo discutere insieme. E tu devi com prendere. Simon: So, per esperienza, che non v’è nulla di peggio, per risolvere un pro blema importante, quanto discuterne. (siede) Io — sai — predo che tutta que sta storia della incomunicabilità sia una delle più madornali montature della nostra epoca, che vuol spiegare tutto. Quasi tutti siamo in grado di ca pire quello che ci è necessario capire senza bisogno che ce lo spieghino. Dave, invece, ha trovato un ottimo si stema che è un vero tributo alla possi bilità — persino per l’essere più infe riore, di mettere la propria istruzione o, come nel caso di Dave la mancanza di essa, e la propria intelligenza o, come del caso di Dave, la mancanza di essa, al servizio di ciò che gli è neces sario. È bravissimo a prendere alla let tera a suo vantaggio le metafore detta te dalla cortesia, — ad esempio, quan do chiede un prestito che, in realtà, è un regalo e tu gli dici: non ti preoccu pare, pagherai quando potrai. Ma que sto suo sistema non gli funziona mai quando riceve una risposta piana e let terale, per esempio se ti chiede in pre stito la nostra macchinetta del caffè e tu gli rispondi che la presti con una certa riluttanza e gli raccomandi di averne cura. È inverosimile come prende alla lettera le metafore detta te.dalla cortesia ma non le risposte pia ne e letterali, che lui interpreta come insulti sotto metafora e così ha deciso, e te lo comunico con un certo sollievo — ha deciso di andarsene immediata mente. Vedi che, dopotutto, son riu scito a combinare qualcosa di utile. Quando penseremo a rimpiazzarlo, dovremo limitare la visione dei nostri ideali morali e puntare su una rispetta bile coppia di omosessuali alfantica che creda ancora di avere qualcosa da nascondere. Non ci daranno nessuna noia e ci potremo congratulare con noi stessi di aver fatto loro del bene. Do vremo solo aumentare di molto l’affit to per non insopettirli, ma passeremo subito il denaro a qualche vecchio in digente o a qualche ragazza madre, e nessuno ne saprà niente. Che te ne pare? Beth: (pausa) Cosa ti ha detto, esatta mente, Stephen? Simon: Niente. Niente. Solo un piccolo dettaglio che ho ignorato sinora. Per ciò tutto è a posto. Nulla di cambiato in peggio, cosa che potrebbe succedere se ci mettiamo a parlarne. Beth: (pausa) Da quanto tempo lo sai? Simon: Oh — (sospira) Da circa dieci mesi, (pausa) Da quanto tempo va avanti? Beth: Da circa dieci mesi, (pausa) Come l’hai saputo? Simon: A che serve... Beth: Serve. Serve. Da cosa l’ha indovi nato? Simon: Beh, dopo essere stata per tanti anni così ammirevolmente laconica sui tuoi piccoli eventi quotidiani, sei di ventata, aH’improvviso, un tantino prolissa. Beth: Avevi deciso che avevo un amante perché ero diventata noiosa? Simon: No — solo troppo descrittiva. Ti preoccupavi troppo di darmi conto dei momenti che ritenevi mi avrebbero in teressato se avessi saputo come tu li avevi realmente impiegati. Con note vole sforzo e con immaginazione para dossalmente abile facevi di tutto — e tutto a mio beneficio — per renderli privi di interesse. Non te l’ho fatto ve dere, ma mi hai toccato il cuore. Beth: Grazie. E non hai altre prove che queste? Simon: Beh, hai raddoppiato la routine dei tuoi bagni. Un tempo ne facevi uno, la mattina prima di uscire. Da die ci mesi ne fai un altro appena rientri. (pausa) E una volta o due, nel dormi veglia ,mi hai chiamato con un appel lativo insolitamente tenero. come una tenerezza. È così? Beth: Che appellativo? Simon: Birbone, (pausa) Io l’ho preso Beth: Mi dispiace. Scusami. Simon: Non ti preoccupare. Beth: (breve pausa) Però non hai mai du bitato che questo influisse sui nostri rapporti sessuali. Simon: Al contrario. Proprio al contrario. Anzi, direi che c’è stata una aumentata intensità nelle tue... (gesto significati vo) di per sé era un segno. Beth: Un segno di cosa? Simon: Di colpa, no? Un desiderio di ripa rare. Beth: (dopo breve pausa) E sapevi anche che si trattava di Ned? Simon: No — questo è il piccolo dettaglio che ho saputo da Stephen. Ned. Que sto mi ha sorpreso. Beth: Perché? Simon: Ma, non lo so — forse perché (esi ta) Beh — senza offesa per Ned, che come sai non mi è mai stato antipatico — e, intendiamoci bene, senza offesa neppure per te — ho sempre pensato che quando ti saresti presa un amante avresti scelto qualcuno di maggior — di maggior... Beth: Di maggior? Simon: Valore. Di valore più evidente. Beth: Per me Ned ha valore. Simon: Ed è questo che conta. Beth: (pausa) Cosa vuoi dire col tuo «quando ti saresti presa un amante?» Simon: Oh, un lapsus grammaticale. E dato che la mia ipotesi è un fatto com piuto... Beth: Ma tu hai detto quando, non hai detto se — il che implica che eri sicuro che mi sarei presa un amante. Non è così? Simon: Beh — dato il tuo temperamento, tesoro, e dato che oggi è una cosa quasi normale, non vedo perché ci sia da ri manere sconvolti ora che te lo sei pre so — anche se si tratta di Ned. Beth: «Dato il mio temperamento»? Simon: Un temperamento estremamente recettivo — una natura molto calda e sensibile. Oltretutto, non abbiamo vo luto avere figli e tu — per il tuo lavoro — hai continue occasioni di conoscere altri uomini — di ogni tipo e paese — senza dimenticare il vecchio Ned — ed era perciò realistico pensare che tu — che tu... Beth: Un contrapposto alla noia, secon do te? Avevi deciso che la noia mi avrebbe fatto prendere un amante — e adesso — invece — decidi che l’ho preso perché sono noiosa. E per que sto che mi sono innamorata di Ned, se condo te? Simon: Sono prontissimo ad accettare Ned come una carissima persona. Sono sicuro che è molto amato da sua moglie, quindi, perché non dalla mia? Beth: Sei pungente in modo inaudito. Simon: Ma non voglio esserlo, non voglio esserlo. Ecco perché avrei preferito evitare questa conversazione, tesoro. Beth: Preferiresti tornare indietro al mo mento in cui sono entrata e pretendere che io abbia semplicemente preso un treno più presto da Salisbury... e che — come al solito — la tua infedele Beth sia tornata a casa e stia per pren dere il suo bravo bagno, come al solito. Simon: Sì, lo preferirei, (breve pausa) Ma non era Canterbury? Beth: Né l’una né l’altra. Abbiamo tra scorso la notte in un albergo di Londra e la mattinata alla scuola, in quel buco che a Ned serve da ufficio — angoscia ti dal nostro dilemma. Simon:..Avete un dilemma? Beth: Sì, se lasciare tutto e andare a vi Simon: Alla luce del sole? Beth: Vogliamo — tutti e due — essere vere insieme — alla luce del sole. moglie e marito uno per l’altro. Simon: Moglie e marito uno per l’altro? Ned è all’altezza di questo doppio ruo lo? — Cos’avete deciso? Beth: Te ne importa? Simon: Sì. Beth: Sua moglie è molto ammalata — è da anni sotto cura psichiatrica. E ha una figlia minorenne. Simon: Oh — mi dispiace. Ora capisco perché vorrebbe lasciarle. Beth: Io a te comunque posso lasciarti. Simon: Sì. Beth: Ma tu non ci credi. Simon: No Beth: Perché? Simon: Perché spero che tu preferisca vi vere con me più che con chiunque al tro — eccetto Ned, naturalmente. E so benissimo che tu ti adatteresti a vivere con chiunque, pur di non vivere sola. Beth: Lo trovi molto patetico? Simon: Non è patetico. Nessuno al mon do, compreso Ned, preferisce vivere con te quanto lo preferisco io. E nep pure io voglio vivere solo. Beth: Ma sei attaccato alla vita? Simon: Che domanda! Beth: Parli con tanto disprezzo della vita umana (Ne parli con tanto disprezzo!) È la diagnosi che Ned ha fatto di te. Simon: Ma i sintomi, glieli hai descritti tu. Beth: Ned dice che sei una di quelle per sone che erigono un muro quasi impe netrabile tra se stessi e la vita (e gli al tri). Ned dice che pur potendo invidia re la tua serenità, dovremmo essere nauseati dal marciume da cui origina. La tua imperturbabilità è tale da por tare gradualmente alla pazzia chiun que ti sia vicino. Simon: Che elegante parafrasi. Te la eri annotata? Beth: Non c’è stato bisogno perché tutto quello rispecchia la verità. Simon: Ma se rispecchia la verità, perché continui a riferirti a Ned? Beth: È un modo per sentirmelo vicino. Se ora, nel parlare con te, dimenticassi che Ned esiste e mi appartiene, potrei mettermi a urlare, a insultarti, a graf fiarti. Simon: Ma perché? Beth: Perché di odio? (Suona il telefono. Dopo il secondo squillo Simon si alza per andare a rispondere. Ma dopo il quarto squillo smette) Simon: Ah già — ho messo la segreteria telefonica, (pausa. Si siede). Beth: Sai — la cosa più offensiva per me è che tu lasci che io continui a tradirti senza cambiare il tuo atteggiamento neppure di un — di un... Non t’impor ta di me o che io ami qualcun altro o che ti tradisca — per amore del cielo, questo meno di tutto! — tu vorresti che non te ne avessi neppure accenna to perché allora avremmo potuto an dare avanti così — almeno tu, facendo finta che tutto andasse bene, anzi, no, neppure facendo finta perché per te tutto andava benissimo e, probabil mente, per te va bene anche adesso e — sono sicura che lo pensi — che lo hai pensato tutte le volte che faceva mo all’amore — spesso la stessa sera in cui Ned ed io... E tu mi prendevi con la tua abituale misura, con la stessa mi sura con cui dosi il vino che bevi a pranzo, con la stessa misura con cui, dopo pranzo, gusti il tuo brandy e il tuo sigaro, e godevi doppiamente in quanto io, sentendomi colpevole cer cavo di darmi con maggior slancio. E tu lo sapevi — e te rendevi conto, ma non me lo concedevi — lo avvertivi come avverti ogni minima differenza di interpretazione del tuo maledetto Wagner. Simon: Me ne hai fatto tornare la voglia. Ma tu cosa hai intenzione di fare? il tuo solito bagno? (il bagno purifica- toe?) Beth: No, vada da Ned per un paio d’ore. Simon: In quel buco che gli serve da uf ficio, ad angosciarvi sempre più col vo stro dilemma, o è un eufemismo per descrivere le qualità amatorie di Ned? Insomma, a cosa serve tutto questo parlarne? Ti lagni della mia reticenza di questi ultimi dieci mesi, ma a che cosa ti è servita tutta questa esibizio ne? Ned non lascerà sua moglie, io non voglio che tu mi lasci, tu non pensi lontanamente a lasciarmi — ci trovia mo in una situazione perfettamente sensata; tu ed io siamo felici insieme, in modo poco pulito, se vuoi, tuttavia felici. Possiamo continuare così, anche con Ned, fino a quando ti sarai stufata di lui. — Perché avete voluto compli care le cose con i vostri puerili dilem mi? Beth: Perché esiste un problema. Simon: Che problema. Beth: Aspetto un bambino. (Va verso la Simon: (ia fissa a lungo) Cosa? (Un altro Beth: E questo il problema. (Esce sbat uscita a sinistra). momento) Di chi? tendo ia porta) (Si sente sbattere ia porta d’ingresso? Poi la porta di Dove sbatte. Rumore di passi per le scale. Entra Dove lasciando la porta aperta. Da ve entra. Dave: (Si ferma davanti a Simon, spaval do, con un sogghigno) Ho trovato la so luzione e non ti andrà giù, quando te la dirò. Suzy mi ha aperto gli occhi. Si è messa a ridere quando le ho ripetuto quello che mi hai detto. Lei e il suo ra gazzo hanno avuto a che fare — dove stavano prima — con un padrone di casa come te. (Si siede) Tu hai cercato di buttarmi fuori, ecco tutto. Beh, non ci sei riuscito. Io non mi muovo. Ti dico di più. Suzy e il suo ragazzo stan no cercando casa e io gli ho detto che possono venire a star su, con me. Ca pito? (si alza) E non ti andrà di avere a che fare con tipi come loro, in casa. (fissa Simon) Ti va giù male, eh? (poi si volta. Esce lasciando la porta aperta. Si sente poi sbattere la porta di Dave) Simon resta seduto stupefatto. Poi va a! bar e si versa un wisky scarso. Lo misu ra con l’occhio e ne aggiunge ancora e, in piedi, incerto quarda il telefono e via verso di esso. Sembra ricordare vaga mente qualcosa, preme il pulsante di ascolto deI registratore). Voce Di Wood: (Registrata) Penso che a quest’ora la tua coscienza non avrà serbato il minimo ricordo della mia breve visita. È più di un’ora che ti ho lasciato e — senza dubbio — chissà quanti altri piccoli piacevoli eventi avranno assorbito la tua attenzione. La tua vita continua sui tuoi binari pre stabiliti mentre io siedo qua, solo, nel mio appartamento vuoto. Mi sono tol to la giacca, ho lasciato cadere giù le bretelle — un ritratto, puoi dirlo, del vecchio Wood, alias Strapley, comple tamente abbandonato. Cerca di imma ginartelo: senza giacca, con le bretelle pendenti, mentre penso a te parlando al telefono — stringendo il ricevitore nella mia mano sinistra perché la de stra — senza tremar troppo, — mio caro dolce, piccolo Hench — impugna una rivoltella che sta puntando alla mia fronte — non alla fronte, alla boc ca, — no, alla bocca no, non posso alla bocca, il sapore del metallo è troppo. Hench — dovrà essere nel... immagi natelo — immaginatelo, immag... (Simon chiude il registratore interrompen do il messaggio. Siede e rimane immobi le. Un rumore alla porta esterna. Appare Jeff. Resta sulla soglia) Simon: (Lo vede si alza lentamente) Ah — sei qui. Jeff... Allora tutto bene? Torni (gli va vicino, sempre cerchi di ricorda re) da... da... dall’ospedale? Jeff: Non sono neppure arrivato all’an golo di questa fottura strada. Simon: Come mai? (con tono vago) Che è successo? Jeff: Una fottuta macchina della Polizia — proprio dietro — poi accanto — poi davanti a me — con dei fottuti poli ziotti tutti addosso a me per la prova del fiato — sballottato di qua e di là e poi in questura per il resto —, sino ad ora. E sei stato’tu a informarli, proprio tu, un amico. Cristo! Simon: Cosa, cosa? Jeff: Porca miseria, non negare! Non ne gare, porca miseria! Davina mi ha rac contato tutto al telefono. Simon: Tu ci credi? Jeff: (venendo nella stanza) Non è que stione di crederci. Lo so! Simon: (calmo) Ma per chi mi hai preso? per chi mi prendi? (gli butta in faccia il suo wisky) Jeff: (sputacchiando senza fiato) Cristo, i miei occhi! i miei occhi! (Simon lo osser va un momento, poi prende un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e glielo porge) Cristo! (Jeff prende il fazzoletto e si asciuga ia faccia) Grazie, (breve pau sa) Grazie. Mi sono sbagliato. Scusa mi. Scusami, Simon, (pausa) Mi dai da bere? Quella puttana! (Simon esita poi va a prendere un wisky e gielo porta) Jeff: Grazie, (prende il bicchiere e gli re stituisce il fazzoletto) Non sbattermi fuori, Simon. Non ho un fottuto posto dove andare, e là, per ora, non ci vo- • glio tornare. Simon: Adesso voglio ascoltare il Parsi fal. Ti secca? Jeff: Ma ti pare! È magnifico. Magnifico! Simon: Sei sicuro? (va a chiudere la porta) Jeff: Ma certo — adoro Wagner. Simon: (tornando al centro) Non lo sape vo. Jeff: Ma Cristo, te l’ho fatto conoscere io! A Oxford! Simon: Davvero? Tu? Molto tempo fa. Ma quanto ti devo allora, Jeff! (oh. Ma allora ti devo molto, Jeff) ( Va al giradischi, mette su il disco. Le note di aprtura de! Parsifal si spandono per la sala. Simon ascolta, in piedi. Jeff sie de e ascolta. Simon va a sedersi sulla se dia girevole e vi sia sistema comoda mente mentre la musica aumenta. F in e d e lla c o m m e d ia R IV IS T A IT A L IA N A D I D R A M M A TU R G IA Trimestrale dell’Istituto del Dramma Italiano Anno II - N . 3/4 - Marzo 1977 S O M M A R IO Studi e documenti goldoniani MARIO BARATTO, Lettura del « T o d e ro » ........................................ pag. GUIDO DAVICO BONINO, « La famiglia dell’antiquario », comme dia di una c r is i.......................................................................... RAUL RADICE, Quarantanni di cronaca goldoniana UGO RONFANI, Le rappresentazioni goldoniane in Francia nel dopo '........................................................................................ JOSÉ DA COSTA MIRANDA, La fortuna di Goldoni in Portogallo isecolo X V I I I ) .................................... ...................................... JAROSLAV POKORNY, Goldoni in Cecoslovacchia nell’ultimo de ........................................................................................ cennio guerra » » » » » . . . . 3 33 37 55 65 93 tro » Due ricorrenze: Pirandello e Rosso di San Secondo GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI, Pirandello e il « teatro nel tea ........................................................................................ GIORGIO PULLINI, L’edizione definitiva del teatro di Rosso di San S e c o n d o ................................................................................. ANNA BARSOTTI, Epicità de «La bella addormentata » ■ PAOLA D. GIOVANELLI, Per una storia della critica su Rosso di . . San Secondo . . . Profili di contemporanei RENZO TIAN, Franco B r u s a ti...................................................... GIACINTO SPAGNOLETTE Nello Sdito......................................... » 97 » 123 » 131 » 165 » 187 » 193 Direttore: Egidio A rio s to . Comitato di Direzione: M a rio B a ra tto , R o b e rto de M o n tic e lli, F ed e rico D o g lio , G iovanni M acchia , G io rg io P ro s p e ri, Ezio Raim ondi, L u ig i Squarzina, Renzo Tian. Redattori: Ruggero Jacobbi, O tta v io Spadaro. Q u e l l e e q u e s t e d o n n e c o m m e d i a i n 3 a t t i d i M a r i o G u i d o t t i Mario Guidoni, toscano, di padre montichiellese, ha studiato all’Università di Pisa e si è laureato a Roma, dove è rimasto come assistente di Natalino Sapegno per alcuni anni. Entrato più tardi nel giornalismo, è stato redattore di diversi quotidiani. Attualmente è Capo Ufficio Stampa della Camera dei Deputati ed è uno dei critici letterari de «il Giorno». Da molti anni è uno dei più apprezzati critici teatrali. Ha pubblicato alcuni saggi, fra i quali vanno ricor dati quelli in cui ha impostato un disegno originale per una sociologia della letteratura: «Un’aurora dall’Amiata» (Maia Editore), «Lo scrittore disintegrato» (Vallecchi ed.) e l’ultimo «Essere e dire (Vallecchi ed.). Ha scritto sceneg giature e radiodrammi per la Rai TV. È autore di diversi copioni teatrali, ma in particolare la sua attività di dram maturgo è legata al «Teatro Povero di Monticchiello». Per questa Compagnia — che poi si identifica con tutta una comunità — Guidoni ha scritto, fino ad oggi, otto drammi, di cui i primi cinque sono stati raccolti in un vo lume: «Quel 6 aprile del ’44», «Noi di Monticchiello», «Sei secoli fa, oggi e domani», «Violenza no», «Diavoli e streghe a Monticchiello», Contadini e no», «Vietato in vecchiare» e l’ultimo «Quelle e queste donne». Mario Guidoni è stato, e continua ad essere, uno dei più sensibili operatori di cultura: il caso del fenomeno teatrale di Mon ticchiello lo ha imposto all’attenzione nazionale e interna zionale per la novità di intervento, tramite la scena, su una realtà antropologica. Ma il Teatro Povero non è che una conseguenza di una sua maturazione ed evoluzione di stu dio: la scoperta di «una cultura circolare», che, tra i primi, ha compiuto, lo ha portato ad una specie di «verifica sul campo». Oggi, Mario Guidotti alterna la sua attività di collaboratore a quotidiani e riviste specializzate con quella che possiamo definire una sua naturale disposizione al te atro. L’operazione teatrale di Mario Guidotti non può es sere considerata un semplice episodio della scena italiana. Le rappresentazioni dei suoi drammi, da parte del «Tea tro Povero di Monticchiello», hanno suscitato, da alcuni anni, l’interesse degli studiosi e della critica. Il primo pro blema che si era proposto l’autore era quello di agganciare il teatro alla cultura e storia di una comunità. La misura sociologica e antropologica era un necessario punto di par tenza, sia per un processo di «riconoscimento» (tra l’au- Mario Guidotti con Roberto De Monticelli, a Montichiello Mario Guidotti con l’attore del-Teatro Povero di Montichiello Aldo Carpini tore, l’intellettuale, l’operatore culturale e il gruppo di ap partenenza), sia per l’azione provocatoria esprimibile all’interno della comunità cui è legato. Riflettendo sulle proprie origini l’intellettuale scopre dapprima il suo ruolo di «portavoce», e non può fare a meno di appellarsi alla storia,, per chiedere conferme o smentite. Da un lato, quindi, una comunità' con i suoi problemi e la sua cultura, dall’altro lo scrittore che quei problemi e quella cultura ha misurati, strada facendo, con il più vasto contesto di re altà, che partecipano di un mondo più universale, più ge nerale ed eterogeneo. In tutta umiltà, Guidotti mette in discussione il proprio ruolo di intellettuale, lo confronta con il gruppo in cui è nato e, naturalmente, lo sgancia dai dettami dell’industria culturale. Tutto questo è stato vis suto come semplice esigenza, come fatto spontaneo, sen za pensare a forme alternative della cultura, ma approfon dendone le motivazioni. Dal ’69 ad oggi, comunque, l’esperienza monticchiellese ha maturato un suo stile, una propria cifra estetica, la scelta dei contenuti, L’autore si rende sempre più conto della crescita di un gruppo, di quel gruppo con cui lavora. Questo non significa la fine di un rapporto: l’autore si definisce per quello che è, in quan to tale si caratterizza; dal canto suo, la comunità montic chiellese ha saputo comprendere lo spirito dell’operazio ne, ed ha imparato a fare del teatro, non solo come stru mento di autoanalisi, ma anche come possibilità di libera zione della fantasia. Certo, rimane un raro regalo della sorte — più semplicemente di una storia e una cultura — il fatto che nella piazza di Monticchiello committente e in terprete si identifichino: perchè la comunità sa e ha deciso di interpretare se stessa. All’inizio l’autore «ha scelto» i monticchiellesi; costoro, oggi, non potrebbero scegliere l’autore che in Guidotti: possono essere mutate le condi zioni di confronto, ma è cresciuto il bisogno di una dia lettica. Pensate, per un momento, se un fatto del genere succedesse in tutta Italia! Il testo che Mario Guidotti ha scritto quest’anno af fronta il tema della donna. L’autore non ha voluto soltan to mettere a fuoco un microcosmo. In realtà questo tema era presente anche nei drammi precedenti: non aveva as sunto, però un rilievo di primo piano. Guidotti non ha vo luto scrivere un’opera femminista, ma semplicemente sulla donna. Questo gli ha permesso di scavalcare la sem plice attualità del problema e di comporlo all’interno di una «verticalità» storica. Quanto più vengono approfon dite le varie figure della rappresentazione, tanto più il qua dro peculiare diventa lo scorcio di un fenomeno più gene rale. Questo accade perchè l’autore ha approfondito a tal punto l’oggetto della propria analisi, che se ne avvantag gia, per naturale processo, la stessa fantasia. Scopriamo, così, che il tema, riferito a Monticchiello, si apre, poi, ad una vasta gamma di situazioni, per indicare, in definitiva, la condizione della realtà rurale di ogni remota provincia italiana. La struttura dell’opera teatrale di Guidotti si compone di tre «tempi» drammaturgici: un primo in cui le situazioni si riferiscono all’oggi, un secondo in cui si va a frugare nel passato, un terzo in cui, ritornando agli epi sodi interrotti nel primo, si concludono, nel corale dibat tito, le trame della vicenda. L’autore non presenta mai i temi in forma chiusa: essi emergono, carichi della loro problematicità, da una sottile e divertente analisi, compiu ta con disincanto e lucidità anche se appoggiata alla cate goria-spettacolo. Così l’uso stesso della lingua — un ver nacolo toscano ricco di sfumature — denuncia l’intenzio ne lucida, mentre fa capire il preciso intento dell’autore di rimarcare, esplicitamente, il «passo» della storia. I giova ni del copione di Guidotti non parlano più con l’infinito sincopato e la negazione ridotta alla enne in inizio di frase: questo avviene nella bocca degli anziani. Due mondi di versi, il passato e il presente, si confrontano sempre, per ipotizzare il futuro. I giovani si misurano e si scontrano con gli anziani, così come l’autore fa con il suo gruppo di appartenenza. Dall’impegno civile nascono i drammi di Guidotti, ma trovano la loro sostanziale forza nella fresca e spontanea creazione poetica che, per sua natura, assolve al compito della conoscenza e della ricerca continua. Dante Cappelletti N o t a d e l l ’ A u t o r e Pur tenendo presente l’identità degli interpreti, avevo scritto questo copione pensando anche ai personaggi, e avevo dato loro dei nomi inventati. Nel corso delle prove, gli attori hanno chiesto di poter recitare con i loro nomi e cognomi; pertanto sulla scena diventano veramente loro stessi. I nomi degli attori in ordine alfabetico sono i seguenti: Susanna Agnoletti Liliana Benocci Albo Bonari Osvaldo Bonari Daria Cappelli Aldo C arpini Angela Carpini Marco Del Ciondolo Paolo Del Ciondolo Daniela Grappi Luchino Grappi Lucio Grappi Manuela Grappi Rino Grappi Alpo Mangiavacchi Daniele Mangiavacchi Elda Mangiavacchi Emo Mangiavacchi Gina Mangiavacchi Renato Mangiavacchi Nadia Menchetti Denis Rappuoli Oldeno Rappuoli Arturo Vignai Intervengono nello spettacolo: Arnaldo della Giovampaola e Andrea Cresti, quest’ultimo anche come cantante delle ballate. A t t o P r i m o La solita piazza dei Teatro Povero. Gente riunita intorno a un palco daI quale sta par lando un'oratrice femminista. Oratrice: Spero di essere stata chiara con quello che vi ho detto e di essermi fatta capire. Io mi auguro che il nuovo verbo femminista sia anche da voi re cepito. Anche quassù, anche in queste isole sociali tagliate fuori dai grandi flussi di opinioni. Uno dal pubblico: Non siamo tagliati fuori da niente, noi, non viviamo in un deserto, siamo abbastanza aggiornati. Oratrice: Sarete aggiornati voi uomini; ma le vostre donne vivono sempre in una condizione arretrata, subalterna. Una donna dal pubblico: Unn’è vero. Un altro dal pubblico: Lasciatela parla, lasciatela finì. Siamo stati sempre edu cati e civili a Monticchiello. Oratrice: Forse non tutte le donne di qui si accorgono di essere ancora in una condizione subalterna. Ma lo sono. Ve l’ho già detto: per secoli le donne della Società contadina sono state sottoposte all’uomo. Era, sem mai, nella borghesia, che la donna ave va un certo respiro. Ma nelle classi soggette no, la donna era considerata inferiore anche da voi. Io mi sono do cumentata sulle condizioni delle don ne anche in questa Toscana civile. Era no delle schiave, anche quassù, ripeto. Una dal pubblico: ’Unn’è vero. Oratrice: Si che è vero. Schiave fra gli schiavi. Prendiamo la famiglia coloni ca. Non comandava forse il Capoccia? E le donne non dovevano forse stare zitte quando parlavano gli uomini? Il potere non era forse nelle mani del solo capoccia?. Dite tanto della mas saia: su che cosa comandava la mas saia? Sui polli, sulle uova, in cucina. E semmai comandava su altre donne. La donna nella Società contadina lavora va come una bestia e doveva tacere, sempre. E pensare che una bassa lette ratura la chiamava «angelo del focola re». Ma quale focolare? Ma quale an gelo? Che faceva la donna contadina? Tutto di tutto. Faceva il pane all’alba, cercava le legna per il forno, faceva il bucato con la cenere e lo lavava nei fiumi o nelle fonti, rompendo, d’inver no, il ghiaccio con le mani portando ce ste di panni sulla testa... Andava a pigliare acqua dov’era, alla sorgente o al pozzo, con le brocche pe santi che portava in cucina... aiutava anche nelle stalle, quelle dei maiali, le più puzzolenti... Sempre a capo chino, mortificata anche nel vestire, con un fazzoletto nero che le copriva il capo, con un grembiule che arrivava alle ca viglie. Lavorava, lavorava, rimaneva incinta senza piacere, faceva figli, li al lattava, li allevava, lavorava ancora... l’unico traguardo era la sopravvivenza sua e della famiglia... Le fatiche della donna erano grosse, erano umili, era no pesanti. La solita dal pubblico: Erano più dure le fatiche dell’uomo. Oratrice: Ma erano più dignitose, più ci vili. Una dal pubblico: Perché? Lavorare in cucina era meno dignitoso che lavora re nei campi? Oratrice: Voi siete state talmente pla giate da non accorgervi di quello che avete subito per secoli e che forse su bite ancora, quelle che siete rimaste quassù. Anche la cultura contadina è stata una cultura maschilista. Il ma schio vi ha sempre dominato in tutto e per tutto. Prima vostro padre e i vostri fratelli, poi vostro marito, e l’ambiente stesso e la scuola dove c’era. Siete sta te costrette a nutrirvi di una cultura che vi ha sempre negato, che vi ha sempre considerato inferiori, subalter ne. Siete vissute sempre con un grande senso di colpa senza autonomia, senza reclamere i vostri diritti, incapaci di una sessualità felice, considerate dall’uomo soltanto per il lavoro che fa cevate, per il vostro corpo e per il pia- cere che potevate dare, senza che l’uomo si preoccupasse di quello che potevate ricevere, voi, voi che siete di carne e avete i sensi come lui. Se un giorno qualcuna di voi si prendeva qualche libertà, veniva pubblicamente svergognata, oppure quello che veniva chiamato il suo peccato, era accurata mente nascosto. Siete state vittime della misoginia storica. Siete state vit time della fallocrazia. Una vecchia: Come ha detto? Oratrice: (eccitandosi) Della fallocrazia e di tante altre cose, dei tabù del me struo, della clitoridectomia come mo mento fondamentale dell’oppressione. La solita dal pubblico: Parli più chiaro. Oratrice: Vedete? Neanche ora siete ca paci di capire, neanche nel 1977. Il mo vimento femminista, che ormai esiste dal ’68, non ha potuto penetrare fra di voi, proprio per lo spessore della vo stra cultura antiquata, per le resistenze che ha incontrato in voi stesse. Nem meno i partiti progressisti sono riusciti ad aprirvi la mente come i Movimenti femministi, e il Movimento per la libe razione della donna stanno facendo come e dove possono. Uno dal pubblico: Nemmeno i partiti progressisti? Oratrice: Nemmeno. Noi contestiamo tutti i partiti o quasi, almeno per quan to concerne la loro ideologia nei ri guardi delle donne. Il privilegio ma schile è anche nei partiti, si, in quasi tutti i partiti, ed è un privilegio che non è un dono di natura ma il frutto di un potere sociale. Dovete cambiare anche voi, donne di Monticchiello, dovete imparare tante cose, ad essere indipen denti, ad affermare le vostre idee, ad avere una vostra coscienza, ad usare il vostro corpo non solo per il piacere dell’uomo, ma anche per il vostro. Dovete romperla con la tradizione, non rimanere più prigioniere della fa- miglia come era una volta e del lavoro come viene dato a voi. Sapete che sono più di mezzo milione le donne che la vorano in casa? So che anche qui a Monticchiello siete state sfruttate con la storia dei golf e di altri lavori a do micilio. Dovete spalancare le porte delle vostre prigioni. Qui fate una vita piena di sacrificio e di privazioni. Ri cordatevi tutto quello che vi ho detto. I vostri uomini, magari, diranno che io sono una pazza e una provocatrice. Or mai molti parlano delle femministe con disprezzo. Ma io sono convinta che la nostra rivoluzione, perché è una ri voluzione, vero! trionferà. Pensate a quello che vi ho detto. Mi auguro che per voi, donne di Monticchiello, per voi, cominci una vita nuova, come per tante altre donne. (La gente sfolla lentamente; mormorii; due o tre applausi. Restano, insieme a po che altre persone, due coppie, una di mezza età composta da Silvio e Concetta, un ’altra di giovani fidanzati, Santino e Piera, con i quali è lo zio Bista, diminutivo di Battista). Piera: A me, mi ha convinto. Non me la sento più di stare a Monticchiello, non me la sento più di fare come le altre mogli. Non ti mettere in testa (rivolta a! fidanzato) di fare come gli altri uo mini di Monticchiello, quando mi avrai sposato. Santino: Ma che ti lasci influenzare da quella lì? Era meglio se si andava a passare la mattinata in piscina a S. Al bino. Del resto il partito non ci aveva obbligato a venire a questo comizio. Piera: Che me ne importa a me del par tito! Stamane ho sentito dire delle cose giuste. Bista: Io ho sentito invece delle cose sba gliate. Questa è venuta a mette’ in sub buglio il paese. Elvira: (Donna di mezza età) Anche a me sembra che abbia voluto portare della confusione. E poi ha offeso le' donne di Monticchiello. Piera: Non ha offeso nessuno: Non ave te capito un bel niente. Se voi vi sentite offese, vuol dire che lei aveva ragione. E per me, aveva ragione. Elvira: Secondo me ha torto. Concetta: Ha un pò ragione. Silvio: A me mi sembra che abbia parlato da arrabbiata. Concetta: Però qualche cosa giusta l’ha detta. Voi uomini certe cose non le vo lete sentire. Siamo nel 1977! Santino: L’ho detto io che avrebbe por tato lo scompiglio. Andiamo via, Pie ra, andiamo in piscina, o dove vuoi tu. Piera: No, invece parliamo; parliamo ora che il ferro è caldo. Subito. Santino: Ma parlarne qui, davanti a tutti, come si fa? Ma sei matta? Elvira: Parlatene quanto volete, noi ce ne andiamo. Io devo ancora assistere alla messa (rivolgendosi al marito che è stato sempre zitto) Andiamo Berto, an diamo via, noi ’un siamo fatti per que ste discussioni. (Sene vanno e così altri; restano le due coppie con lo zio) Piera: Senti Santino, non credere che questa femminista mi abbia montato la testa. Ha detto delle cose giustissi me, ma io le pensavo anche prima, e da un pezzo. Io penso con la mia testa. E poi in questo periodo ho letto tanti giornali giusti, anche quelli femmini sti, ho visto la TV, insomma mi sono aggiornata. E ora vorrei mettere in chiaro la situazione. Subito, qui, in questo momento. Dunque: io a monticchiello non ci vo glio restare. Appena sposati si taglia la corda. Anzi, prima. Santino: Ma perché si deve taglià la cor da? Piera: Perchè ci siamo stati anche troppo a Monticchiello. Io sono stanca di la vorare in casa fra quattro pareti. Mi hanno detto che posso occuparmi in una industria nella periferia di Roma, dove cercano donne, dove mi pagano bene e mi fanno anche i versamenti per i contributi. Si può vivere a Roma. Santino: A Roma? E io che ci faccio a Roma? Ma se ora è difficile trovà la voro a Roma! Comincia ad esserci tan ta disoccupazione. Negli anni settanta era un’altra cosa. Ma ora che ci fai a Roma? Piera: Che fai a Roma? Fai quello che fai quassù, anzi, da manovale diventi mu ratore o imbianchino e guadagni di più. In città tutti guadagnano di più. Santino: Ma guadagno bene anche quas sù, lo sai. E non c’è bisogno che tu la vori. E la vita qui è meno cara e la casa non costa niente. Piera: Si! Ma ti tocca spostarti continua- mente per queste stradacce, anche con la neve e il ghiaccio o d’estate in mezzo alla polvere. A Roma invece sarà tutta un’altra cosa. Santino: Ci vuole più a spostarsi a Roma che andare da Monticchiello a Chian- ciano. L’ultima volta che ci sono stato mi sono impelagato nel traffico e non ne uscivo più Piera: Perché sei un provinciale, perchè sei abituato a vivere in questi posti, ti trovi bene solo quando scarrozzi fra le crete della Val d’Orcia. Santina: Io so’ attoccato a Monticchiello non perché ci sia nato, perché sono nato in campagna, nel podere di Casal- vento, ero contadino, io; ma perché ci vivo bene, anzi, tutti ci vivono bene. Dove la trovi un’aria come questa? E la posizione? e le persone? e le cose? E tutto buono qui. Anche quello che si mangia. Anche il pane è più buono che altrove. Dove potresti tenere il pollaio come quassù? Piera: Figurati, il pollaio! Non lo vorrei. Mi toccherebbe pelare tutti i polli. In vece a Roma si va al supermercato e si compra tutto bello e pronto. Non avrei nemmeno bisogno di fare la serva in cucina. Anzi: il giorno potrei mangiare alla mensa aziendale, senza tornare a casa. Santino: E così ci si vedrebbe ancora meno; solo la sera, stanchi morti. E la sera, appena ci si saluterebbe. Piera: A Roma si starebbe tutti meglio. Starebbero meglio anche il tuo babbo e la tua mamma, che potrebbero tro vare lavoro. La tu’ mamma, che po trebbe andare a servizio, magari a ore, poiché a Roma le donne di servizio sono ricercatissime tant’è vero che fanno venire le negre, e lei ha appena quarantacinque anni e ci sa fare, sa cu cinare. E anche il tuo babbo potrebbe fare qualcosa cosa. E soprattutto il tu’ fratello più piccolo. Non ci pensi a que sto ragazzo? Che sbocchi ha a Montic chiello un giovane? Concetta: Questo è vero. Severino po trebbe trovare lavoro meglio che qui, oppure studiare. E anche Silvio po trebbe trovare un lavoro meno fatico so di questo che ha oggi, a cinquanta- quattro anni gli tocca andare ancora a opera nei campi d’inverno e in tutte le stagioni. A Roma potrebbe fare cose più leggere, glielo diceva anche il no stro cugino Al fiero; per esempio il ma- gazziniere4 il custode, il portiere. Silvio: Tu dici bene. Ma l’alloggio? Qui ci s’ha la casa. Ma a Roma quanto si pa gherebbe di affitto? Qui si pagano dieci lire al mese. E quand’ero contadino non pagavo niente. Ma a Roma, tutto quello che si guadagnerebbe, andreb be nell’affitto. Santino: È giusto, ha ragione il babbo. E poi, come ho detto, a me mi dispiace rebbe lasciare questa casa. Ormai ci si sta da dieci anni, ha un bel panorama, si vede tutta la Val d’Orcia. È una bel la casa. Piera: E la chiami casa? Senza riscalda mento e senza un bagno decente, col tetto che dovete riparare spesso, se no ci piove. La chiami casa? Hai questo coraggio? Bista: Cara mia, sono più sane le case di Monticchiello che quelle di Roma, che sono fatte di carta, hanno pareti sottili, si sentono tutti i rumori del vicino. Ci sono stata anch’io a Roma, due anni. Piera: Ma voi che c’entrate? Perché met tete becco nei discorsi degli altri? Bista: sentila la democratica. ’Un mi fa’ parlare, ’un mi fa’ di la mia opinione. Prima di tutto so’ il tuo zio. Piera: Ancora no! E non è detto che lo diventiate. Bista: Mah! Se sei fatta così, io ci perdo poco, a ’un diventi il tuo zio. Anzi, ci guadagno. Concetta: Ovvia, ’un litighiamo per niente. ’Un ti ci mette anche te, Bista, contro Piera. ’Un litighiamo, per nien te, via. Bista: Ah! Lo chiami niente, questo? Ma che ti ha dato di volta il cervello anche a te il discorso della femminista? Ep pure tu la dovresti avè passata l’età dei grilli per la testa. Piera: E voi dovete aver passato l’età della ragione, a quanto pare. Bista: Io ragiono cara mia, ragiono bene e col cervello. Piera: E io con che cosa ragiono? Bista: Beh! Lasciamo andà! Piera: A me non mi fate ridere. Parliamo seriamente, Santino. Santino: Ma perchè proprio oggi, proprio di domenica? Mi vuoi rovinà la festa. Bista: Ti vuole rovinà la vita. Piera: Io voglio salvarla la vita, a me, a te, ai tuoi genitori e al tuo fratello se si decidono a venire a Roma. La vuoi sa pere la verità? Prima ancora di oggi io mi ero messa in contatto con Ione, la figliola di Gigi, che sta a Roma da cin que anni e ho già trovato lavoro. Que sta è la verità. Basta che dica di sì. E si trova anche per te il lavoro. Capisci che vita faremo a Roma! A Roma ci sono tanti cinema, e a Monticchiello nemmeno uno, tanti locali da ballo e a Monticchiello nemmeno uno, tanti ne gozi, tante bellezze, tanta gente viva per le strade e Monticchiello sembra un paese morto... Bista: Io mi ci sento, e come! Piera: (come se non /’avesse udito)...a Roma c’è tutto quanto non c’è qui, come a Milano, come in tutte le città e qui siamo in un villaggio. A Roma se lavoriamo tutti e due, anzi tutti e quat tro, guadagneremo un sacco di soldi e facciamo una vita da signori. Avrete finito di fare i sacrifici anche voi, mam ma. Bista: Ancora 'Unn’è la tua mamma, E ’unn’è detto che lo sia, come dici tu. Piera: E anche voi, babbo, starete meglio e vestirete pulito e sarete un signore mentre qui siete un povero. Pensate che bella casa potremmo ave re, con tutte le cose moderne, con le ceramiche per terra e tutto nuovo. E poi sicuramente avreste un lavoro mi gliore, tutti un lavoro migliore e non un lavoro nero. Bista: Il lavoro di Silvio, sarà faticoso ma è un lavoro libero, all’aria aperta e un lavoro bello. Il bracciante agricolo è ancora un lavoratore abbastanza auto nomo, individuale. Si veste come vuo le senza tuta, quelle tute che fanno ap parire tutti uguali. Piera: Ma non dite sciocchezze! Che c’entra la tuta? Se Santino e Silvio van no a lavorare a Roma saranno molto più liberi e protetti che qui. Bista: E anche te sarai più libera, vero? È per questo che te ne vuoi andare da Monticchiello! Di la verità. Piera: Certo che sarò più libera, E non è giusto, forse? Qui sono guardata da tutti, vigilata, chiacchierata. Non pos so fare niente di diverso. Santino: O che vorresti fà? Piera: Niente di male, almeno come la pensi tu. Ma essere una donna libera, come diceva quella che ha parlato, avere la mia dignità, essere pari all’uomo. Santino: Ma come fai ad esse’ uguale all’uomo? Piera: Non ho detto uguale, ho detto pari. Santino: Io proprio 'un ti capisco. Bista: E io la capisco anche troppo. Piera: Mi capite male, mi capite male. Voi non conoscete le donne. Bista: Le conosco anche troppo bene. Per questo me ne sono tenuto alla lar ga. Santino: Questi, zio, non sono ragiona menti giusti. Allora nessuno dovrebbe pigliare moglie. Bista: Mica ho detto questo! Ma bisogna piglialla giusta; bisogna piglia’ una che sia una brava donna di casa che sappia alleva’ i figli, aiutà il marito, una donna di casa insomma. Piera: Ecco, donna da casa; voi uomini non pensate che a tenerci in casa, pri gioniere di quattro mura e di tanti la vori domestici. • Santino: Ma la casa è importante, Piera; la famiglia sta nella casa, mica sta nel posto di lavoro; nella casa si vive, si parla si mangia, si dorme. Bista: Si fa l’amore. Santino: Anche quello. Insomma la vera vita è in casa. Piera: E io dico che è anche fuori, è più fuori che in casa. Io la penso così. Bista: E la pensi male. ’Unn’è vero San tino? ’Unn’è vero Silvio? ’unn’è vero Concetta? ’Un vi accorgete delle stupi- dagini che dice Piera? Piera: Le stupidagini le direte voi. E poi finiamola con questa discussione e prendiamo delle decisioni. Santino: si finiamola con le discussioni. Le decisioni le prenderemo un altro giorno. Piera: No, dobbiamo prenderle oggi. Dunque: io a Monticchiello non ci re sto, io chiusa in casa non ci sto, voglio andare in città, voglio lavorare, voglio guadagnare, voglio divertirmi e nean che voglio i figli appena sposata. I pri mi anni di matrimonio voglio goderni la vita, voglio godermi la vita. Bista: E con chi? Piera: Certo non con voi. Santino: non ti dispiace di lascia Montic chiello? Piera: Dispiacermi? Ma se non vedo l’ora! Che ci restiamo a fare noi in que sto villaggio di vecchi e di raghazzi, dove si fanno più funerali che matri moni, dove si vede la gente soltanto per due settimane dell’anno quando fanno quella specie di teatro? Bista: ’Un ti va bene nemmeno il teatro, allora. Piera: Non mi va bene niente di Montic- chiello. Non mi va di essere condanna ta a fare i golf, a non vedere persone, a vegetare, a lavorare in casa. E mi fate dire sempre, le stesse cose. (Rivolta a Santino).Allora, Santino; io domani te lefono a mia cugina e accetto quel po sto e le dico che pensi per te; anzi ci aveva già pensato e quindi le dico che concluda con quei suoi amici. Poi, ap pena mi risponde, si va tutti a Roma a cercare una casa. Se vogliono venire anche i tuoi, che vengono pure. La tua mamma un servizio lo trova; anche il tuo babbo non rimarra senza fare niente. Santino: Ma Piera! Così alfimprovviso, così su due piedi... Piera: Si, su due piedi. Anzi non aspetto domani. Telefono oggi stesso. Santino: Io ci voglio ripensare. Silvio: Anch’io voglio pensarci. Concetta: Io quasi quasi, per il bene di Severino... Bista: Eh! Voi donne finite sempre con l’essere d’accordo contro gli uomini. Fosti tu che spingesti Silvio a lasciare il podere quindici anni fa e a venire in paese. Eri tu che ’un volevi più stare in campagna. Ora non ti va bene nemme no Monticchiello. Santino: Piera, ’un precipitare, Piera, ’un tirare troppo la corda. Piera: (infuriandosi) Non tirare la corda tu! Hai capito? Mi avete scocciato. Mi avete tutti scocciato. Santino: Ma che vuoi fare? Piera: Ti pianto, hai capito? Ti pianto; ti lascio qui a Monticchiello a cuocerti nel tuo brodo, a passare queste tristi domeniche, in questa solitudine, in questi silenzi, e me ne vado io sola, a Roma, a fare il comodo mio, finalmen te. Me ne vado, da sola. Domani, oggi stesso, subito! Santino: Piera, Piera, calmati! Ma che ti ha preso? Calmati. Piera: Non mi calmo per niente. Mi hai scocciato, mi avete scocciato tutti, tu, il tuo zio Bista e tutto Monticchiello. Vai al diavolo, levati di torno, m’hai rotto, mi hai rotto. Va via! Concetta: Piera, calmati, comportati come una donna per bene. Piera: Sono una donna, e basta, che vuol dire per bene? Sono una donna e sono stanca di tutte le imposizioni. Via, via, levatevi dai piedi tutti, mi avete rotto, mi avete rotto, (urla) Santina: Piera, ma non ti vergogni? Sia mo fidanzati, hai il mio anello al dito... Piera: Findanzati? Ma che vuol dire fi danzati? Santino: Hai l’anello. Piera: Ma non farmi ridere! Non so che farmene del tuo anello. Tieni, ripren ditelo. anzi raccattalo, te lo butto per terra. Uffa, (getta a terra l’anello e fa l’atto di andarsene. Concetta le corre dietro e ¡a ferma energicamente). Concetta: Ma che sei matta? Fermati. Ci guardano dalle finestre. ’Un ti vergo gni? Silvio: ’Un ti vergogni? Piera: Me ne frego io, della vergogna. Di che cosa mi devo vergognare? Di sen tirmi una donna libera finalmente? Concetta: Suvvia, calmati, ragioniamo, cerca di essere buona. Santino: Ragioniamo, ragioniamo. Ma tu non fare la furiosa. Silvio: Piera, hai esagerato, hai esagera to. ’Un si fa così con il fidanzato. San tino ’un merita di essere trattato in co- desto modo. È bono. Santino: Piera, lo sai che ti voglio bene, ti voglio tanto bene, sei l’amore mio. Silvio: Si! Ma ’un devi farti maltrattare, ’un devi diventare un burattino. Bista: Altro che burattino. Quella lo trat ta come uno straccio, lo calpesta, lo tiene sotto i piedi. Concetta: Su, ragioniamo, riprendiamo il discorso. Ma tu, Piera, calmati. Lo sai quanto bene ti vuole Santino. Piera: Se mi vuole tanto bene, se sono il suo amore, faccia come dico io. Non perchè lo dico io, ma perchè è giusto. Santino: Ma mica si può lasciare Montic chiello cosi d’improvviso da un mo mento all’altro? Piera: Si! Bisogna deciderlo subito. Sta mattina stessa, in questo preciso mo mento. Vedrai, saremo felici. Santino: Ma...Ma... Piera: Allora? Che cosa decidi? Non vo glio perdere altro tempo. Sbrigati. Santino: Io ’un ti voglio perdere, Piera, lo sai, ti voglio bene. Ma ho paura che mi farai fare uno sbaglio e lo farai fare an che ai miei. Piera: Ma chi ha detto che i tuoi debba- noi venire per forza? Io ho detto solo che in città anche loro potrebbero tro vare un lavoro che renda meglio e po trebbero stare più volentieri che qui. Silvio: Più volentieri no. Almeno io. Piera: Si potrebbe fare così; prima andia mo noi, poi prepariamo il terreno e fac ciamo venire anche loro. Magari in una casa vicino alla nostra. Santino: Ma io vorrei che stessero con noi. Piera: Ecco. Tu hai una mentalità anti quata, vuoi la famiglia patriarcale, con nonno e nipote. Comunque, vedremo in un secondo tempo. Prima andiamo noi. Bista: Andiamo... Andiamo. Dunque, Santino, ti sei arreso, vai anche tu? Santino: Mah! Che ci volete fare? Quasi quasi ci tento, quasi quasi faccio que sto azzardo. Piera: E che azzardo è? Figuriamoci! Trasferirsi a Roma! Come se fosse emigrare in America! Come se fossi mo siciliani che devono andare negli Stati Uniti! Ma via, Santino non ren derti ridicolo. Ci spostiamo di 200 chi lometri. Bista: Eh,,no! Cara mia vi spostate molto di più. E come se vi spostaste di mille chilometri, di centomila. And’ in una grande città da un villaggio di campa gna è un salto enorme. Ve ne accorge rete. O meglio: non ve ne accorgerete, perchè nella grande città si finisce col non pensare più. Andare significa cambiare tutto, significa una vita tutta diversa, un modo di pensare nuovo. Piera: Nuovo si! Ma migliore. Bista: No, peggiore, Anzi nessun modo di pensare, perchè come ho detto, un una grande città ’un si pensa. Ci sono stato anch’io due anni a lavora’. In una grande città si sparisce, si finisce. E quassù che si pensa, a Monticchiello, dove siamo in trecento, ci si conosce tutti e ci si vuole bene. Piera: Ora ricominciamo con la storia di Monticchiello paese della felicità. E una storia che incanta gli spettatori dell’estate, ma non me. E poi il proble ma non è solo quello di andar via da Monticchiello, ma di un nuovo rap porto fra uomo e donna che nei paesi e nelle campagne non si può realizzare a causa della vecchia mentalità. E un problema di liberazione della donna. Comunque ormai è deciso. Vero San tino? mi. Santino: Se proprio vuoi cosi... Piera: Si, voglio. Voglio così. Ma poi non sono io che voglio; è la ragione, è la giustizia. Ed è perchè a Roma potremo stabilire meglio un rapporto nuovo, di parità, fra te e me, fra te uomo e me donna. Allora verrai? Santino: Va bene verrò. Piera: (diventando dolce e tenera) Oh! Bravo! Così mi piaci. Cosi diventi caro. Facciamo la pace. Vedrai quanto sarai felice in città. Caro, caro, il mio Santi no. Dammi un bacio. Santino: Ma... Qui, proprio qui, sulla piazza? Piera: E che importa? Vedi, se si era in città, non avresti avuto paura. Santino: Ma qui ci vedono. Piera: Ma che ti frega? Su, su, abbraccia Santino: Ma... Piera: Allora lo faccio io, io non mi ver gogno. (lo abbraccia e lo bacia lunga mente). (poi tenendolo avvinto, si allon tana con lui e sparisce di scena) Bista: Ho capito. È anche puttana. Concetta: ’Un dì così, Bista. Bista: E voi che farete? Andrete in città Concetta: Ma... Forse si. Silvio: Lo vedi! Anche lei vole andà via. Bista: (rivolto verso il pubblico) E tutto è cominciato a cambia’ da quando i con tadini si so’ staccati dalla terra, soprat tutto per colpa delle donne, e sono ve nuti nei paesi e ora vanno in città; è co minciato da quando ’un’hanno più vo luto bene alla terra, alla campagna. E sono state le donne, per prime, a odiar la, la terra, a gettare il mal seme. Se ne vanno, chi sa che cosa credono di tro va’! Ma forse un giorno... anche voi? A t t o s e c o n d o (Podere di Casamento al tramonto, nell’aia, davanti casa; Dina, giovane sposa di An- giolino, ha le mani tuffate in una conca da bucato; Cesira suocera di Dina, moglie di Bep pe, tira su l ’acqua dal pozzo e porta secchi d’acqua nella conca; la vecchia Amabile, suo cera di Cesira e moglie di Nanni, stende i panni). Dina: Chi sta peggio d’una moglie di un contadino? Sempre a lavorà. E sempre sole: Senza vedè nessuno. A volte vie ne il troccolone e ti mette le mani ad dosso. Almeno in paese si vede qual cuno. Almeno le mogli degli operai... Cesira: ... le mogli degli operai qualche volta ’un ci hanno da mangià, e a te ’un manca niente. Ci hai pane, vino e com panatico. Dina: Ma che si deve campà solo per mangià? Le mogli degli operai vanno a fà la spesa, girano per le botteghe, par lano, vanno al cinema, dalla sarta, s’in contrano, insomma vivono. Amabile: Quante chiacchiere! Eh, voi giovani siete diverse da noi. Ma la col pa è anche dei mariti di oggi, che ’un si fanno rispettà. A me, Nanni, mi dava certi manrovesci... E io zitta, sempre zitta! Dina: Sempre zitte, le donne dei contadi ni, lavoro, botte e silenzio. Cesira: Sù, sù, facciamo presto fra poco tornano quelli e un s’è preparato nean che da mangià. C’è da sentilli bestem- mià. ’Unn ’hanno pazienza! Amabile: E che vo’ preparà? C’è tanta roba avanzata. Ieri s’è trebbiato. Cesira: Si è vero. Comunque bisognerà riscaldà la roba. Facciamola finita con questo bucato. Dina: Sì, facciamola finita col bucato, per ricomincià con un’altra cosa. Qui ci so’ tante faccende. Beppe: (A vvicinandosi) Certo che ci sono. S’è trebbiato ieri, e c’è da mette’ in or dine l’aia, da portà il grano al consorzio e da fà tante altre cose. Deve veni an che il castrino a castrà i maiali, deve veni il fattore. ’Un si finisce mai. Mi pare che qui voi donne chiacchierate invece di lavorà. Siete fatte così voi donne; se vi trovate insieme, state più a ragionà che a lavorà. Eh, le donne dovrebbero stà sempre lontane fra loro. Se sò due, fanno uh comizio. Cesira: Ti lamenti sampre, Beppe, ’un ti va mai bene niente. Dina: Gli uomini si lamentano sempre delle donne eppure s’è lavorato tutto il giorno. ’Un so’ mai contenti. Ci tratta no come le bestie. Ma possibile che a Casalvento ’un si finisce mai di lavo rà? Amabile: Eh! Voi giovani vorreste levare la parola di bocca ai vecchi. Beppe: Ancora ’un s’è arrivati a questo. Amabile: Ma ci arriveremo, ci arrivere mo... Piuttosto Maria ’un si è vista, ma dov’è andata? Assuero: (Entrando) Gli deve avè fatto male la minestra di ceci. L’ho vista vo mita due volte, mentre badava ai maiali. Beppe: Anch’io l’ho trovata un po’ indige sta, la minestra. Cesira: Tu ’un sei mai contento di niente. Ah! ecco Maria. Ora si può apparec- chià la tavola e mangià. Maria: (Arrivando con un fascio d'erba sulle spalle) Io ’un mangiò, ’un mi sen to bene. Amabile: Da un po’ di tempo questa ra gazza ’un mi paiace. Deve avè qualche cosa No! ’Un mi piace. Cesira: Si, l’ho notato anch’io, È un pò pallida. Rende meno anche nel lavoro. Ieri si faceva il cacio e ’un mi aiutò per nienfe. Assuero: In questo podere si lavora trop po, ecco che cosa è: Il troppo lavoro. Per fortuna domani è domenica e ci si riposa. Beppe: ’Un vi lamentate; ’un vi lamenta te. C’è chi sta peggio di noi. Dina: Chi è che sta peggio di noi? Nes suno. Gli operai lavorano otto ore, mentre noi si lavora da sole a sole; e in queste giornate d’estate il sole si leva Dina: Con questo bucato ’un si finisce mai. E viene dopo tante altre faccende in casa nei campi. Che fatica! Che fa tica! E poi con questo caldo, in pieno luglio! Cesira: O che preferisci, quando è freddo che si gelano i panni e le mani? Prefe risci spacca’ ii ghiaccio nella conca? farlo in paese, al lavatoio pubblico. Dina: Io veramente il bucato preferirei Amabile: E perche? Dina: Per tante ragioni; prima di tutto c’è l’acqua corrente, ’un bisogna fatica a tiralia sù dal pozzo e poi è un’altra cosa, via, si può chiacchierà con le al tre, ci si sente in compagnia; è proprio un’altra cosa, via... Amabile: Ma ’un ti vergogni a parlà così? Ma chi sei? Io certe cose nemmeno le penso. Il letto... l’amore... L’amore ser ve pe’ fà i figlioli, svergognata. Cesira: E poi c’è chi sta peggio di noi. Amabile: Si sentono pettegolezzi del pae Dina: Anche quelli, che aiutano a fà senti Amabile: Eh! Voi giovani la fatica nun la se. meno la fatica. volete sentì mai. Dina: 0 nonna! Il guaio è che di fatiche se ne sentono troppe. È da stamattina alla cinque che si lavora. Prima per fà il pane a cerca le fascine di legna, a scaldà il forno, ad arrostirsi davanti al foco, a bruciassi le mani, poi a fà l’erba, poi a governà i maiali, con quel puzzo di stalla che poi ci si porta dietro anche quando si va al paese, poi a fà tante faccende che ’un me le ricordo tutte, s’è anche vangato, s’è vangato la vigna con una terra secca che sembrava una pietra. E tutti i giorni cosi, a sudà, a fa- ticà, con poche parole e con gli uomini che ’un ci guardano neanche a letto, quando fanno l’amore. alle cinque e tramonta alle otto. Si muore dalla fatica. È un si può nean che protestà, noi donne. Cesira: Quante chiacchiere stasera, quante chiacchiere. Piuttosto: finite le faccende e noi si apparecchia la tavola. E così, presto si cena. Dina: Lavorà e mangià. Tutta qui la mia vita. E io ho venticinque anni. Angiolino: Dina, parli troppo, mi pare. Io vo’ un momento nella stalla. Beppe: E io vo’ nel granaio. Assuero, vie ni con me. Cesira: Dina, Maria, portiamo fuori la ta vola, così si mangia nell’aia. Con que sto caldo è meglio. Ah! Ecco il nonno O dove siete stato Nanni? Nanni: So’ stato in cantina per vedè se si deve avvia’ la botte nuova. Ormai quella vecchia deve essere vuota, ap pena piscia. Amabile: Eh! Tu invecchiando pensi sempre al vino. Nanni: E a che devo pensà, alle donne? Ti sei guardata allo specchio? Cesira: Che discorsi scemi. Andiamo, andiamo, apparecchiamo e poi io porto in tavola. Maria, prendi da quella parte e tu Dina da quell’altra. (Mentre spo stano un tavolo Maria cade per terra). Madonnina, Madonnina o’ che è suc cesso? Aiuto, aiuto portate un po’ d’ac qua. Amabile: Dina piglia anche l’aceto, che la fa rinvenì Nanni: Io piglierei il vino, altro che l’ac qua e l’aceto, un capite niente. (Esi al lontana). Cesira: Maria, Maria, che hai? Rispondi mi che hai? Dina: Ecco l’aceto. Amabile: Fateglielo respirà. Cesira: Su, su, Maria respira, respira for te. (Maria apre gli occhi e respira forte. Viene sollevata e .fatta sedere) Amabile: È la seconda volta che sviene in una settimana. Cesira: Ma che ti succede, Maria. Che succede? Maria: Niente, niente, che voletexhe mi succeda. Dina: Eppure è strano. Cesira: Qui bisogna chiamà il dottore. Maria: No ’un chiamate nessuno. Amabile: E invece bisogna chiamà qual Maria: Oddio, oddio, mi risento male Cesira: Ho detto e lo ripeto, ci vuole il cuno. (Ed è ripresa da conati di vomito) medico. Io ’un ci capisco niente. Amabile: E io ho paura di capirci anche troppo. Maria: (Calmandosi) ’un c’è niente da capire. È il troppo lavoro, con questo caldo maledetto. Dina: Lavoro parecchio anch’io e pure non svengo e ’un vomito. Maria: Ti ci metti anche te ora? Dina: Maria, siamo fra donne, ti voglia mo bene, è meglio che tu parli, che tu dica la verità. Cesira: Ma che devo dire? Dina: 0 ’unn’avete capito? Scommetto che la nonna ha capito. Amabile: Eh! Le mamme sono sempre ceche o ’un ci vogliono vedè. Cesira: Ma che cosa ’un voglio vedè? Amabile: Che Maria è incinta. Cesira: (Urlando) Madonna, Madonna, e di chi? Dimmelo sciagurata. E vero. (Maria tace; silenzio nell’aia; si sente soltanto Nanni canticchiare una canzo ne inneggiante a! vino). Parla, parla svergognata. Maria: È vero. Cesira: E lo dici così?. Maria: Come lo devo dire. E vero. Cesira: E lui chi è? Maria: ’Un ve lo dico, tanto ’un serve. Rientrano, sparpagliati, gli uomini, compreso il vecchio Nanni con un fiasco in mano). Beppe: Che è successo? Cesira: È successo che la Maria si è ri sentita male. N anni: Troppo spesso, si sente male. ’Un sarà una scusa di donna per lavorà meno? Voi donne le pensate tutte. Assuero: Con questo caldo, noi giovani si soffre di più. Nanni: Il caldo ’un c’entra. C’entra un’al tra cosa. Beppe: Che cosa? Nanni: Eh! Una cosa che*è entrata den Beppe: Che volete dire babbo? Nanni: Sei un gonzo, domandalo a quelle donne e ti diranno la verità se hanno il coraggio. tro. sente bene. Beppe: Ma insomma, che è successo? Cesira: È successo che la Maria ’un si Beppe: Chiameremo il dottore. Cesira: Eh! Il discorso è più complicato. Beppe: Come sarebbe a dì? Cesira: Sarebbe a dire che... che ’un basta Beppe: E chi ci vole, ancora? Nanni: Gli ci vole! La levatrice, coglione. solo il dottore. per bene. Beppe: Porca Maremma, Dio qui, Dio là. Ora la sistemo io. Dunque, ciò una fi glia puttana, allora. Cesira: ’Un lo dire nemmeno per scher zo. La Maria è stata sfortunata, ecco. Dina: Come tutte noi donne, soprattutto giovani. Beppe: Ma che sfortunata, ma che sfortu nata! Ma la colpa è tua, l’hai lasciata sempre libera. Io ti strozzo, io ti stroz zo io (fa per afferrarla) La dovevi guardà. La dovevi badà. Cesira: Si badano i maiali, mica le figlio le. Beppe: E lei che è? E una troia. Cesira: È la tu’ figliola! E una ragazza Beppe: Ma te la dovevi guardà. Dina: Mica siamo in Sicilia, siamo in To scana. E mica siamo nell’800, siamo nel 1952, e anche in campagna si cam bia. E unn’è detto che si cambi in peg gio. Beppe: (Infuriandosi e avvicinandosi a Maria) Svergognata! Svergognata! Sei il disonore della famiglia. (Le si avvici na, trattenuto dagli altri uomini). E poi che si fà? Come si rimedia? Ti deve sposa’ quel mascalzone. Ti deve sposà e subito. Ma chi e', che gli rompo il muso? Dimmelo chi e! (Gli si avvicina e la scuote). Cesira: Già! Chi è? Diccelo Maria. Chi e? Maria: È inutile che velo dica (scoppia a Beppe: Come sarebb’a di’? Maria: Sarebb’a di’ che tanto ’un lo co noscete. Cesira: Lo conosceremo, lo conoscere mo. Beppe: Lo voglio conoscere subito, sto mascalzone, che ha approfittato di una minorenne. Lo mando in galera se un ti sposa. piangere). . . , . Maria: ’Un mi po’ sposare. Beppe: Perché ’un ti po’ sposa’? Nanni: Perché è sposato. Ci vole tanto a capillo? So’ meno rimbambito io di te, che sei più giovane. Beppe: È vero. Maria? E vero che è spo sato? Maria: (Quasi sussurando) Si, è vero. Beppe: E t’eri messa con uno sposato? Angelino: Sei anche cretina allora. Maria: ’Un lo sapevo. Quando mi ci misi ’un lo sapevo. Mi ha ingannata. Beppe: Voi donne vi fate sempre fregà. Ma ce l’avete la testa? Dina: E voi uomini ce l’avete sempre con noi. due figlioli. và in capo al mondo. Beppe: Zitta te o ti tappo la bocca co’ una manata. Angiolino: Maria, ma chi è? Dicci chi è. Che ci vado io a rompergli il muso a quel farabutto. Beppe: Andiamoci subito. Maria: ’Un c’è. Angiolino: E dov’è? Dov’è? Maria: E’ via. Beppe: Via dove? Maria: A Roma. Beppe: Si po’ andà anche a Roma, noi. Si Angiolino: Ed è sposato? Maria: Si, te l’ho già detto, è sposato, con Beppe: Dicci chi è. Maria: ’Un ve lo dico. Beppe: Me lo dirai si, me lo dirai. (Le si avventa di nuovo contro, riesce a darle uno sci affo, poi è trattenuto a viva forza; altre grida, poi torna un po ’ di calma). Cesira: Maria, figliola mia, ma perché gli desti retta? Maria: (Semprepiangendo) Mi piaceva... parlava bene... e poi mi disse che era scapolo e che mi avrebbe levato di qui e mi avrebbe portato a Roma. Nanni: Roma, Firenze, Milano, Torino, tutte vogliono andar via dalla campa gna ste donne, tutte vogliono andà in città, o come minimo in paese. In cam pagna ’un ci vogliono più restà. Finirà che ci resteranno solo i vecchi. E chi lavorerà più la terra? Beppe: Io voglio sape’ chi è ad ogni costo. Me lo devi di! Cesira: Te lo dirà in seguito. Ora non la tartassiamo più povera figliola. ’Un lo vedi com’è ridotta? ’Un si regge in pie di e la fai lavorà come una ciuca. aiuta? Beppe: Ah! La compatisci anche? Cesira: Bisogna pensà al daffà. Chi ci po’ Beppe: O a chi si po’ di? Angiolino: Ci vuole una soluzione. Dina: Chi ci po’ dà un bon consiglio? Qui, in campagna, in questa solitudine, ’un si conosce nessuno. Almeno, se si stava in paese... Beppe: Bisogna trovà qualcuno, assoluta- mente. Nanni: C’è un intrigato in queste cose. Bravo nei matrimoni e nei guai che ca pitano alle ragazze. Chiamatelo. Cesira: Chi è? Nanni: Balzellino, Dio bono! ’Un lo co nosci anche te? Beppe: È vero, ci vuole Balzellino, lui sbroglia tutte le matasse. Combina matrimoni, riaggiusta i pateracchi, in somma fa di tutto. In Val d’Orcia è come il prezzemolo. Spunta dapper tutto. Cesira: Allora Beppe, domani è domeni ca, vai a cercarlo e portalo qui. Lui ci po’ salvà! Beppe: Si, domani vo’ a cercarlo. Lo fo’ veni. Nanni: Ovvia, ora si po’ mangià? Beppe: E chi ha fame? Io vo nella stalla. Sto a guardà la vacca pregna. Nanni: Ce l’hai in casa una vacca pregna. Cesira: State zitto. ’Un vi vergognate a Amabile: Nemmeno io. Angiolino: Io vo’ in paese. Assuero: Io vengo con te. Dina: Ecco, gli uomini se la squagliano, vanno in paese! Noi donne in paese ’un ci si va quasi mai. Voi uomini fate pas- sà la voglia di campà. Io accompagno Maria in camera sua, neanche io ho fame. parla così? Nemmeno io ho fame. Cesira: Che giornata, che giornata! (Buio, poi occhio di bue su Andrea). Andrea: La scena che abbiamo rievoca to, come avete appreso, risale ai primi anni ’50, quando ancora la famiglia contadina era unita e granitica nei suoi pregiudizi e nella struttura, anche se si rilevavano i primi fermenti nei giovani e in qualche donna. Persisteva anche il vecchio concetto del lavoro e perma nevano alcuni usi e personaggi tradi zionali come quello del sensale di ma trimoni e della mammana. Rivedremo ora la solita famiglia nel podere di Ca salveneto, il giorno dopo domenica. (Buio, Andrea scompare). (luce siamo nuovamente nell’aia). Cesira: Ma che fa Blzellino viene o ’un viene? Beppe: Ha detto che veniva. Veniva an che in compagnia. Prima doveva cer care una persona. Maria: Che persona? Beppe: ’Un lo so’. Insomma del Balzelli no ci si può fida’. È conosciuto in tutta la Val d’Orcia. È un omino. Risolve i casi più diffìcili, lo chiamano tutti. Cesira: Allora speriamo che non chiac chieri con tutti. Beppe: O ci si fida o ’un ci si fida. Ah! Ec colo che arriva. (Balzellino può arrivare o in bicicletta o con la duca e il calesse). ta è. Balzellino: Bona sera gente. Bella sera Beppe: Bona sera Balzellino. Siete solo? Balzellino: Ciò una persona, che è rima sta nella strada. La chiamo se necessa rio. Nanni: Bona sera Balzellino. Ho avviato la botte del vino bono. Cesira: Dopo, dopo si beve. Ora si parla. Balzellino: Si; ora si parla, ma dopo si beve. (Si mettono tutti a sedere intorno alla tavola) Balzellino: Allora chiacchieriamo. Beppe: Questa è Maria. Balzellino: La conosco, la conosco. Cesira: O dove l’avete vista? Balzellino: Eh! L’ho vista; a Balzellino ’unne sfugge niente. Balzellino è dap pertutto, è a Monticchiello, è a Pienza. a Montepulciano, a S. Quirico. Vede tutto e sa tutto. Beppe: Allora avrete visto anche la mi fi gliola con quello scigurato? Balzellino: Tre volte. Beppe: E perchè ’un m’avete avvisato? Balzellino: E che, fo la spia io? Io parlo Beppe: Allora sapete chi è? Balzellino: No qiuesto no. Capii che quell’omo alla vostra regazza gli dove va garbà. Lei lo guardava... lo guarda va. solo quando me lo domandano. Cesira: O come era fatto? Era bello? Balzellino: Bello no. Ma simpatico. Cesira: Era alto? Come era fatto? Balzellino: Era simpatico. Aveva un gran naso. Beppe: Un gran naso? All’ora ’un n’era bello. Balzellino: E invece gli omini col naso lungo garbano alle donne. Sapete come dice il proverbio? Uomo nasuto sempre piacuito — e mai cornuto. Nanni: Sempre allegro Balzellino, sem pre allegro. Cesira: Parliamo di cose serie. Voi sape te tutti, vero Balzellino? che ci consi gliate? Balzellino: Ecco, io ciavrei due soluzio ni. Cominciamo dalla prima (fa segno a tutti di avvicinarsi e parla con fare cir cospetto). Balzellino: Bisogna trova’ un marito alla Maria Nanni: Senti che scoperta! Ci voleva lui! Balzellino:Sì, ma mica un marito qua lunque. Uno adatto. Uno buono e pa ziente. Dio. Beppe: Io... forse... ciavrei un parente. Balzellino: ’Un va! Lo sapete come dice il proverbio: «Chi si marita coi parenti — corta vita e lunghi tormenti». Cesira: Unn’è mica facile trova un mari to per una ragazza incinta. Balzellino: E io invece l’avrei. Beppe: Ma chi sa quanta dote vuole! Io tanti soldi ’un ce l’ho. Balzellino: Ma che soldi, ma che soldi. La dote la Maria ce l’ha nel viso. Lo sa pete come dice il proverbio: «Chi ha le buche nelle gote — si marita senza dote». La Maria è bella e so’ sicuro che gli garberà parecchio. Maria: A chi? Balzellino: Al tuo futuro sposo, per Maria: Ma chi sarà? Balzellino: Sarà Agostino della Casella, quel podere vicino all’Orda. Maria: ’Un lo nonosco. ’Un l’ho mai vi sto nè alle feste da ballo nè alle proces sioni nè ai comizi. Assuero: È meglio che tu ’un lo conosca, è meglio te lo dico io. Maria: Perchè? Assuero: Fattelo di’ da Balzellino. Beppe: Dite la verità. Balzellino: Ecco, ’un è perfetto. Nanni: Che ha? ’Unn’è un uomo? Balzellino: Per esse’un omo è un omo. Nanni: È attrezzato? Balzellino: Si, si, è attrezzato. Ci ha l’ar Nanni: Quindi gli si po’ dà la colpa del fi nese. gliolo. Allora va bene. Maria: No che ’un va bene. Voglio sape re che ha, e come è fatto. Balzellino: Ecco... Ecco in certe giorna te ’un capisce tanto e è bleso, tartaglia, ’un cià la esse. Parla così (Balzellino fa il verso) Sfono a Firenze e sfenza sfol- di. Beppe: Bè, ’un è un grande difetto. Balzellino: Appunto. Poi è un po’ timi do e pauroso e sembra tonto. Quando tira il vento ’un vole uscì di casa, e stà sempre nel canto del fuoco. E poi ha un po’ paura delle donne. Maria: E allora, me lo devo sposa’ pro prio io? Se ’un vole avvicinà le donne... Balzellino: Beh!, Tutto stà arrivà a en tra a letto. Sai come dice il proverbio? «Uomo e donna in stretto loco — sec ca paglia appresso al fuoco». Maria: Ma io a letto co uno scemo ’un ci vo’. Ma per chi m’avete preso? Dina: È una donna, mica una bestia. Balzellino: Nemmeno Agostino è una bestia. Maria: Ma io ’un lo voglio... ’un lo voglio (scoppia a piangere) Cesira: Figliola mia, ma allora come si fa? Beppe: Voi partorì un bastardo in questa casa? Lo devi sposà bello o brutto o scemo, lo devi sposà. fa ameno di partorì. Cesira: Se ’un se ne può fa’ a meno... Balzellino: E chi l’ha detto? Si potrebbe Cesira: Come sarebbe a dì? Balzellino: Sarebbe a dì che io ho un’al tra soluzione. Ve lo avevo detto che ce n’avevo due. Sapete come dicono? Balzellino cervello fino. Maria: Quale soluzione? Balzellino: Ovvia Maria, ’un fa la tonta, ’un sei mica nata ieri, hai capito benis simo. ’Un fa la gnocca. Maria: Ho paura... Balzellino: Hai paura d’ave’ capito? Maria: (scoppia a piangere) Mamma, nonna, Dina, aiutatemi voi, aiutatemi voi. Voi donne mi potete capi’. Balzellino: E un’altra donna ti capirà anche meglio e ti aiuterà. Beppe: E chi è? e dov’è? Balzellino: Ora la faccio venire (si allon tana un poco poi grida). Adele, Adele venite su, tocca a voi. Fate presto. Cesira: Chi è questa Adele? Balzellino: È semplice; è la mammana. Se ’un vole partorì deve abortì. Maria: (espolode in un grido) Madonni na, Madonnina mia aiutatemi voi, sal vatemi. Balzellino: Ecco; sta arrivando chi ti salverà. Questa è la sora Adele, brava nel suo mestiere e muta come un pe sce. (appare Adele, .figura laida, con una grande borsa) Adele: Bona sera a tutti. Qual’è la ragaz Cesira: È questa! Adele: Bellina, sembra di città. Di quanti mesi sei? (Maria non risponde). Su non ti vergognare, devi ave’ fiducia in me, come nella tu mamma. Quanto tempo è? Maria: (Vergognosa) Mi pare... due mesi. Balzellino: Allora ’un c’è più da perder Nanni: 0 che ve ne intendete anche voi? Balzellino: Io m’intendo di tutto, ci vivo in mezzo alle donne e ai loro guai. Hai tempo. za? capito Maria? ’Un c’è più da perder tempo. Cesira: Ma è pericoloso. Balzellino: Ma che pericoloso, ma che pericoloso, con una come Adele si va sul sicuro. Diteglielo voi, Adele, quan te ragazze avete salvato? Dina: 0 rovinato! Balzellino: Zitta te, che ’un centri. Adele: Qui siamo troppi, si deve parlà in pochi. Via gli uomini, meno Balzellino, via anche te (rivolta a Dina). (gli uomi ni se ne vanno). Dina: Le donne che ragionano non vi vanno, eh? Comunque se volete vo via (esce) Adele: Allora Maria che voi fare? Maria: Ma...’un lo so’. Balzellino: ’Un ci devi mica sta tanto a pensa’? Lo sai come dice il proverbio? Cesira: Balzellino, lasciate stare i prover bi, questa è una cosa seria. Balzellino: Anche i proverbi sono una cosa seria. Adele: Basta, basta Balzellino. Maria Maria: Ho paura! Adele: È una cosa da niente. Si va in ca mera, si prepara tutto e si procede. 0 lo fai oggi o non lo fai più, almeno con me. Io un’altra volta non rischio. Non devi avere paura. che voi fa? Maria: Ma non è tanto la paura... Adele: Guarda: si fa una cosa puiita. La tu’ mamma pensa all’acqua calda, la tu nonna ti tiene, io ciò tutto l’armamen tario, tutto il necessario. Ecco qua (apre la borsa) è come un ferro da cal za, ma non ti faccio male quando te lo infilo dentro, questi so altri ferri si di sinfettano e... Maria: (Gridando) No! no non voglio niente dentro. No! Mi fa orrore più che paura. Mi fa orrore tutto questo. Balzellino: Ma come sei delicata... Ci potevi pensa’ prima, eh! Cesira: Voi Balzellino capite solo le por cherie e gli imbrogli Balzellino: M’avete chiamato voi, m’avete chiamato. Adele: Insomma, ragazza. Io non voglio perdere la giornata. Ti decidi o no? Al lora, andiamo in camera? Maria: (Con tutta la forza che ha in gola). No!, no! Non voglio abortire. Mi fa schifo. Mi fate schifo... aiuto, aiuto, mamma... babbo... Dina (Entra Beppe) (gli si butta fra le braccia). Babbo, aiutami, non voglio, non voglio. Beppe: Ma perchè, ma perché? Maria: Babbo, non voglio, mi fa schifo, mi fa schifo. Adele: Ma chi ti credi di essere? Perchè ti faccio schifo io? Chi ti credi di esse re? Balzellino: In fondo è una... Beppe: Fermatevi, state zitto, no, ’unn’è una puttana, se era una puttana ’un si sarebbe lasciata mettere incinta; è una povera ragazza sfortunata che ha in contrato una canaglia. ’Un vole abor tire e unn abortirà. Balzellino: E il bastardo? Come la met tiamo col bastardo? Beppe: Ho deciso: il bastardo me lo tengo io. Il bambino nascerà senza babbo, ma avrà un nonno che ne farà le veci. Balzellino: Ma voi lo sapete bene come Beppe: In questa famiglia sarà trattato Balzellino: E un’avete paura delle so’ trattati i bastardi. bene. chiacchiere dei vicini? Beppe: I vicini cianno altre cose da vergo gnarsi. Credete che ’un lo sappia che il capoccia di Miravalle va a letto con la nora? E che nella famiglia del podere di Fonte Secca un fratello dava noia alla sorella... Cesira: ...E che a Costalpiano due cogna ti furono trovati in un pagliaio a fa’ l’amore? Si sa tutto in questa vallata. Balzellino: Ah! E una vallata di gente per bene, mi congratulo! Beppe: Io mi faccio i fatti mia, e questo fatto mio l’ho deciso di tenerlo in casa. Balzellino: Vi tenete il bastardo allora? Beppe: Un chiamatelo bastardo, gli si darà un nome e sarà chiamato con quello. Otra basta. La discussione è fi nita, ve ne potete andare. Balzellino: Questo è il ringraziamento. E il tempo perso chi lo ripaga a me e ad Adele? Guarda un po’ ha ragione il proverbio: quando uno cuo fa’ del bene — male gliene viene. Beppe: Il tempo vostro sarà pagato, il vo Adele: Quella li! Ma chi vi credete di es Beppe: Ditemi quanto vi devo da’. stro e di quella lì. sere per trattarmi così? Balzellino: Io ’un voglio niente... Piutto sto pagate il disturbo dell’Adele. Adele: Ah! Certo, io per niente ’un mi movo. Datemi cinque mila lire e me ne vado. Beppe: Vo’ a piglialle subito. Balzellino: Mah! Io so’ venuto perchè m’avete chiamato. Vi avevo proposto delle soluzioni perchè me l’avevate chieste. Ma se per voi va bene così, so’ contento anch’io. Arrivederci gente. (una lunga pausa di silenzio nell’aia) Nanni: 0 che è tutto sto silenzio ’unn’è mica morto nessuno! Beppe: Nessuno è morto. Anzi qualcuno nascerà. Dina: (Arrabbiata) Dunque voi siete soddisfatto? Beppe: Be! Soddisfatto no. Ma se ’un si po’ fa’ in altro modo... Cesira: E poi, un figliolo è sempre una benedizione di Dio. Dina: (esplodendo) Gli importa assai a vostro marito della benedizione di Dio! Lui è un interessato, un egoista; pensa che due braccia in più, da lavo ro, gli faranno certamente comodo e magari si farà dare altri campi dal pa drone, fra qualche anno. Perché il chiodo fisso dei capoccia è sempre quello, di ave’ più terra da lavorà. Beppe: Ma che dici? Dina: Dico la verità, dico. Volete sempre più braccia per avè più terra dal padro ne e metterci più figlioli a lavorà, ma gari anche le donne. Ma finirà questa storia, cambierà questa situazione con le donne come serve. Beppe: Ma chi t’ha insegnato a parlà così? Dina: Ci ho pensato da me tante volte, e leggo anche qualche giornale. E poi os servo e vedo che le donne in campa gna soprattutto quelle giovani un’han- no nessuna libertà. So’ comandate da tutti, dal marito, dal capoccia dalla massaia. Fanno le faccende degli uo mini e quelle delle donne. Mai un di vertimento, mai un cinematografo. E patiscono l’isolamento; pensate un po’, per andà a Monticchiello a piedi da qui ci vole tre quarti d’ora e Monticchiello unn’è poi un paradiso; per andà a Pien- za ci vuole un’ora. Quando si arriva in paese i paesani ci stanno lontani, dico no che si puzza di stalla. ’Un ci fanno nemmeno entrà nelle sale da ballo. Qui nel podere ci manca tutto; parec chie case ci hanno già il bagno. Qui ’un ci si avrà mai. ’Un ci s’avrà mai la ra dio, perché ’un c’è la luce. Insomma, per una donna giovane è un mortorio. Beppe: Uh! quante storie! Insomma ’un ci stati volentieri. Dina: No e giacché oggi è la giornata del le rivelazioni vi voglio fa’ anche la mia. Noi ci se ne va, io e il mi marito. Si va in paese dove s’è trovato una casa pic cina ma con tutti i comodi. Dopo la vendemmia s’andrà via. Beppe: (infuriato) ’Unn’è possibile. È vero Angiolino?. Angiolino: (timido) Ma... veramente se n’è parlato. Beppe: lo so’ proprio disgraziato. I mi’ fi glioli si fanno infinocchia’ per amore. La Maria si fa mette’ incinta e te ti fa’ mette in testa certe idee... Nanni: E poi si farà mette in testa le cor na. Maria: Ecco come siete fatti voi uomini. Pensate che le donne siano tutte sgual drine. Beppe: Insomma ve ne andate? Dina: Si! S’è trovato tutto. La casa e il la voro. Angiolino farà l’operaio in una azienda che sta conducendo a conto diretto i primi poderi abbandonati. Il pane è assicurato. E anche la casa. Beppe: Maledetti, maledetti, avete fatto tutto alle spalle, ma voi ’un ve ne po tete andare, io so’ il capoccia e vi dico di no. Dina: E noi ce se ne va lo stesso. Beppe: (furioso) La colpa è tutta tua, hai stregato il mi’ figliolo. Maledette don ne. In poche ore ho avuto due dispia ceri grossi, una figlia svergognata e un figliolo che esce di casa. La colpa è sempre delle donne, maledette putta ne. Ma io t’ammazzo, strega, t’ammaz zo. (Fa per slanciarsi contro Dina, ma è trattenuto da tutti) Amabile: Lasciali andà, lasciali andà Beppe, lasciali andà ormai. I tempi cambiano. Cheste donne giovani ’un so’ più come noi... Nanni: Lasciali andà, sì. Peggio per loro. Balzellino direbbe il vecchio prover bio: «Chi lascia la casa vecchia per la nuova...» Arnaldo Della Giovampaola è regista della Compa gnia del "Teatro Povero di Montichiello” fin da quando si è formato. Animatore di gruppi teatrali lo cali, ha curato numerose regie di repertorio classi- co-popolare. In lui l’idea di spettacolo si accoppia ad un modello di comunicazione diretta e genuina. Nel corso degli anni, Della Giovampaola ha maturato anche una sua cifra stilistica interessante: il teatro come "recupero della piazza’’. Si tratta di fare della scena uno strumento di incontro con le tradizioni culturali, e anche un momento di ritrovo collettivo. Arnaldo Della Giovampaola ha capito in pieno la di rezione del teatro di Guidotti e, nelle rappresenta zioni monticchiellesi, è riuscito a offrire delle prove registiche mature e complete. A t t o t e r z o (Andrea e Arnaldo sul proscenio subito dopo la ballata) Andrea: Nella storia di Monticchiello le donne non sono state proprio nessuno. Abbiamo avuto anche figure di spicco, anche un’eroina che è stata il perso naggio principale della nostra prima rappresentazione. Arnaldo: È vero. Sono rimaste sempre in condizione subalterne, però qualche volta hanno fatto sentire la loro voce. Andrea: Come al solito, anche per que sto spettacolo abbiamo spulciato i no stri archivi e abbiamo trovato un epi sodio interessante. Arnaldo: Si, un episodio del ’500 che an ticipa la polemica sul lavoro nero e che in verità torna ad onore non solo delle nostre donne, ma anche dei nostri uo mini. Abbiamo deciso di rievocarvelo così come ci viene descritto in una «Riformazione» in data 12 maggio 1521. Andrea: Il Consiglio del comune di Monticchiello si occupa del lavoro del le tessitrici, che lavoravano a casa, e stabilisce i prezzi dei manufatti per tu telare i loro interessi e quelli dei con sumatori. (La giunta composta da due priori, due sindaci, due consiglieri e il Camerlengo che fa da segretario è schierata in piedi; davanti c ’è una folla composta in prevalen za da donne lina di esse si fa avanti) Lisa: Signori Priori, siamo stanchi di la vorare a prezzi cosi bassi. Abbiamo de ciso di presentare una protesta alla giunta. Uno Dalla Folla: Come si permettono queste donne di protestare? Lisa: Siamo cristiane, mica siamo bestie. Priore: Di che vi lamentate? Lisa: Tessiamo da mane a sera e siamo pagate pochissimo, come mai era suc cesso. Diomira: Stiamo curve tutto il giorno sul telaio e i nostri passi vengono pagati poco e spesso rifiutati. (Altre donne in coro)Signori della giun ta, provvedete. Primo Priore: Si nominino due uomini giusti che decidano la controversia. Secondo Priore: Donne, chi pensate pos sa giustamente giudicare? Lisa: Francesco Di Meio e Savino Di Si- mone conoscono bene le questioni dei panni. Primo Priore: Vi rimette ai loro giudizi? Lisa: Si, sono uomini giusti. Priore Priore: Si chiamino Francesco Di Meio e Savino Di Simone. La riunione della giunta è aggiornata. (Buio, luce; si rivede la giunta e davanti le donne) Primo Priore: Francesco Di Meio e Savi no Di Simone, avete stabilito i prezzi? Francesco Di Meio: Panno lino di nove legatoi ripieno di stoppa soldi uno e de nari otto al braccio. Savino Di Simone: Panno lino di 14 liga- toi ripieno di lino soldi e denari otto al braccio. Francesco Di Meio: Panno lino di 15 li- gatoi ripieno di lino soldi 4 al braccio. Savino Di Simone: Panno lino di 12 liga- toi ripieno di lino soldi 3 al braccio. Francesco Di Meio: Tovaglio largo soldi 6 al braccio. Savino Di Simone: Tovaglio parigino sol di 7 al braccio. Francesco: Tovagliolini parigini soldi 3 e denari 4 al braccio. Primo Priore: Questi prezzi sono stabili ti. Mercatanti e buttigari ne prendano atto. Chiunque facesse contra, caschi in pena di lire 4 per volta. Così ha vo tato il Consiglio per lupini 37 bianchi e nove neri. Andrea: Questo che abbiamo registrato è scritto nel foglio 223 delle «Riforma zioni». Monticchiello, pur con i limiti dell’epoca, era a suo modo un paese democratico e anche le donne in certe circostanze facevano sentire la loro voce, sia pure con rispetto e pudore, ma con dignità. Arnaldo: Che cosa successe dopo quel 12 maggio 1521. In quattro secoli e mezzo si è evoluta od è arretrata la po sizione della donna? Donne e uomini: una lunga polemica. (Luce sull ’arengario; le donne si alzano, si tolgono gli abiti antichi, si avvicinano ai componenti la giunta e tolgono loro i segni dell’autorità. Ancora buio e si vede lapiaz- za ai giórni nostri popolata di gente in pre valenza donne) (Arriva un camion nella piazza abba stanza affollata; ne scende Balzellino un po ’ incanutito, ma co! solito piglio vivace). Balzellino: È arrivato Balzellino, don ne; vi porto lavoro, vi porto quattrini. Fatevi sotto... Bista: Balzellino trova sempre da sbarca re il lunario senza faticà troppo. Prima trafficava in matrimoni, ora che ’un si sposa quasi più, traffica col lavoro nero. Beato lui, per lui ’un c’è mai crisi. Barzellino: Avanti donne. Chi vole gua- dagnà si faccia avanti. C’è lana e soldi per. tutti. Guardate che bellezza. (Mostra vari campioni) Mi dovete fare duecento golfi in quindici giorni. (Le donne si avvicinano, toccano la lana, confabulano fra di loro). Zaira: Quanto ce li pagate? ’Un si vole mica esse’ pagate come l’altra volta. Balzellino: Millecinquecento lire al golf. È un prezzo bono. Zaira: È un prezzo di fame. Voi ci sfrut tate. Balzellino: ’Un dite più quella brutta parola. Balzellino fa del bene. L’ha fat to sempre nella su’ vita, in tutta la Val d’Orcia. Da quarantanni1 Zaira: Si, ma a 1500 lire è un prezzo di fame. Balzellino: Ma come lo trovate il van taggio di lavorà e stà in casa vostra, in cucina, in camera, a badà ai figlioli, a fà da mangià? I golfi li fate nei ritagli di tempo. Se andate a opera, non potete pensà alla casa e alle altre faccende, e a chiacchierà e a dì male della gente. Zaira: Si, ma 1500 lire è un prezzo di fame. È sempre una fatica fare un golf. Barzellino: E va bene! Vuol dire che porterò questa lana a Campiglia, al Vivo e in altri paesi di montagna, dove quando arrivo mi accolgono in gran fe sta. Siete ingrate, ecco cosa siete e pen sare che io so’ venuto qui prima che in altri posti. Io penso sempre prima di tutto alle donne di Monticchiello. Ma sapete ora che fo’? Piglio tutta questa lana, la rimetto nel furgone e la porto via, in altri paesi (fa per raccogliere le matasse di lana) Zaira: Ovvia, Balzellino, ’un v’arrabbia te. Mettiamoci d’accordo. Balzellino: Sì, mettiamoci d’accordo, ma io ’unn’alzo il prezzo, badate bene; vi do anche troppo. Rosina: (una bella ragazza) Su Balzelli no, arrivate a duemila. Balzellino: (cercando di toccarle il sede re) Per te darei anche diecimila lire. Rosina: State fermo con le mani; ’un vi vergognate alla vostra età? Balzellino: Che c’entra l’età? Io so’ più vispo d’un giovanotto. Vuoi provà? Rosina: Vi garba sempre di scherzà, a voi. E noi, invece, ci s’ha tanti pensieri. Balzellino: E che pensieri vuoi avè a vent’anni? Rosina: Tanti, Balzellino, tanti. Mi devo sposà. Balzellino: E allora mettiti a fare golf. Su, sotto donne. Zaira: Ci pigliate proprio per il collo, è impossibile a questo prezzo. Balzellino: E va bene. Proprio perché a Monticchiello ci so’ tante belle ragazze arrivo a 1.800. Per tutte anche per le brutte. Ma ci rimetto io, quanto è vero Iddio. Le donne mi fanno perdere la testa. Primo Giovane: Voi ’un perdete proprio niente. Secondo Giovane: ’Un vi vergognate a sfruttà così queste donne? Balzellino: Voi pensate ai fatti vostri,, come io penso ai miei. Primo Giovane: Lo sapete come si chia ma questo che voi date? Si chiama la voro nero, e lo condannano tutti. Balzellino: Che condanna, che condan na; mi dovrebbero innalzare un monu mento per tutto il bene che fo’. Secondo Giovane: Pagare sotto costo si gnifica sfruttare. Voi fate lavorare, pa gate poco e non versate nemmeno i contributi sociali. Balzellino: Che c’entrano i contributi? Mica lavorano continuativamente? E poi c’hanno l’assistenza dei mariti. Bi sogna parlà chiaro una volta per tutte. Primo Giovane: Il lavoro nero è una ver gogna. Bista: Eppure per una donna può andar bene. Lei lavora quando può, pensa alle faccende di casa e alla famiglia e non va lontano. Primo Giovane: Si ma in questo caso do vrebbe essere pagato giustamente e non sottocosto. Non come fà Balzelli no. Balzellino: Ma io più di quel tanto non posso pagà, perché questo è il prezzo di mercato e perché neanche a me pa gano parecchio i golfi. Io ci devo rien- trà nelle spese. La colpa è di quelli che vengono da Roma che li pagano poco a me. Primo Giovane: Insomma è tutta una ca tena di sfruttamento. Secondo giovane: È tutta una società sbagliata. Rosina: E chi ci rimette è soprattutto la donna. Balzellino: Uffa, la donna, sempre la donna! Quante storie. Allora siamo in tesi tornerò a portarvi la lana. (Si fa buio) Arnaldo: Le donne di Monticchiello, in parte sono a questo punto: devono ac cettare il lavoro nero come comple mento, per aiutare ancora di più il ma rito e magari essere un po’ più indipen denti per qualche spesuccia. Ma in maggioranza sono contrarie ad un la voro fuori di casa che le occupi tutto il giorno e vogliono continuare nel solco della tradizione. Andrea: In sostanza sono per quello che nel mondo viene definito «Part- time», un rapporto di lavoro a tempo ridotto, un lavoro a mezzo tempo con il salario ridotto alla metà. Da noi in genere è di quattro ore giornaliere. Arnaldo: Ho sentito dire che in Italia i sindacati sono stati sempre contrari al «Part-time». E anche le femministe. Queste ultime sostengono che il «Part-time» non è per la donna un momento liberatorio, ma la conferma in ruolo ambiguo, metà lavoratrice metà casalinghe. Il part-time è una for ma di sottoccupazione. Andrea: Eppure viene adottato in tutti i paesi, soprattutto per quanto riguarda le donne. Il numero più alto di mano d’opera femminile a part-time è in Olanda, poi nei paesi anglosassoni, poi in Svezia. Soprattutto per la donna con figli piccoli è l’ideale. Arnaldo: Eppure in Italia sono in molti ad essere contrari e soprattutto le fem ministe che vedono nel part-time una alternativa alla piena occupazione cui la donna ha diritto. Andrea: Ma non è forse un part-time il lavoro dell’insegnante? Per quale ra gione ci sono tante maestre e professo- resse e impiegate statali? Solo perché lavorano mezza giornata e hanno il po meriggio libero. È per questo che il 70% delle italiane nell’inchiesta Doxa sulla condizione femminile si sono di chiarate favorevoli al part-time. Arnaldo: Ci sono due motivi alla base di questo atteggiamento: uno è la man canza di servizi sociali, come asili nido ecc..., un altro è il condizionamento se colare della donna che ancora si sente realizzata nel suo ruolo domestico e accetta la tradizionale divisione dei ruoli maschili e femminili. Andrea: Ma mi sembra che a Montic chiello questa accettazione del lavoro a mezzo tempo sia in fondo spontaneo, sia l’ideale per le nostre donne. Vedi, Arnaldo, l’importante è che il lavoro sia vissuto bene dalla donna, come una sua esigenza ed una componente della sua personalità. In questo senso può essere molto più liberatorio un part-time che non provochi sensi di colpa che una occupazione a tempo pieno, vissuta in modo ansioso o come una coercizione. Arnaldo: Ma quale personalità vuoi che esprima una donna nel fare meccani camente dei golf? Andrea: Molto più che in una catena di montaggio. Comunque il part-time è una libera scelta delle donne di Mon ticchiello. Arnaldo: Questo è vero. Almeno di quelle che sono rimaste. Ma non credo che la pensino così quelle che sono an date via. Sono tornate a Monticchiello per una breve vacanza le due coppie che partirono l’anno scorso, convinte dal discorso della femminista. Vedia mole un po’. (Buio, poi luce sulla piazza affollata di un pomeriggio di domenica). Bista: Oh! chi si rivede! siete venuti a passare la domenica con noi? Come va Concetta, come vi trovate a Roma? Concetta: Benissimo; stiamo proprio bene a Roma. È tutta un’altra vita, c’è tanta gente, tante bellezze, tanti nego zi, tanti cinema, tanti divertimenti. Bista: E te Silvio? Come ti trovi? Silvio: Bene, io e i miei, a Roma è tutta un’altra cosa che quassù. Ci siamo evoluti, proprio, ci siamo. Bista: O come parli? Si dice «si stà» in vece che stiamo, si dice «i mia» invece che i i miei. In un anno solo avete per so la cadenza monticchiellese. Concetta: Noi parliamo come si deve parlare. Siete voi che siete rimasti in dietro. Bista: Insomma, vi trovate bene. Mi fa piacere. E te Silvio che fai? Silvio: Io sto benissimo, lavoro in un ma gazzino. Un lavoro tranquillo. Aiuto a caricare i furgoni, dalla mattina alla sera. Carico le casse. Bista: Certo, un bel lavoro. Ma dev’esse re un po’ noioso no? Sempre la stessa cosa. Sempre a portà pesi. A fà il con tadino o l’operaio agricolo c’è più va rietà, c’è più fantasia. Voi mette il gu sto che c’è a potà a innestà le viti e quello che ’un c’è a portà le casse. stai in casa? Silvio: Un po’ hai ragione. Elvira: E te Concetta che fai, lavori o Concetta: Lavoro anch’io. Elvira: Ma che lavoro fai? Lavori in casa? Concetta: No, lavoro fuori, lavoro ad ore in due famiglie. Bista: Ah! Ho capito. Quindi lavorate tutti. E chi sa quanto state bene, e chi sà quanti soldi avete messo da parte! Silvio: Si sarebbero messi da parte di più se non ci fosse capitata una disgrazia. Elvira: Quale disgrazia? Silvio: Due mesi fa Concetta andava a depositare i risparmi di quattro mesi e l’hanno scippata. Concetta: M’hanno strappato la borset Elvira: E dove? Concetta: Quasi davanti casa, nel nostro quartiere. Bista: Ah! Dev’essere un quartiere di gente per bene! Silvio: Tutti i quartieri sono uguali. Scip pano dappertutto, in centro come in periferia. Del resto, è stata scippata an che Piera. ta dove c’erano parecchi soldi. Bista: Ma come, anche lei così esperta e così attenta? Concetta: E con questo? I ladri ci sono dappertutto, mica solo in città. Bista: Dappertutto no. A Monticchiello ’unne scippano mai a nessuno e nem meno a Pienza, nemmeno a Montepul ciano, nemmeno a S. Quirico. Ma a Monticchiello non ci sono neanche le confusioni di Roma, le manifestazioni, gli assalti ai negozi. Tutto quello che si è visto alla televisione. Silvio: Vuoi mettere i problemi di Mon ticchiello con quelli di una città di più di tre milioni di abitanti? A Roma ci sono dei fermenti che qui non possono esserci. Che discorsi fai, che paragoni! Comunque, nel complesso a Roma noi stiamo bene. Bista: Avete due belle case? Più belle di queste che avevi quassù? Silvio: Veramente ne abbiamo una sola. Bista: Allora state più stretti che a Mon ticchiello. Elvira: Se poi Piera e Santino avranno fi gli ci sarà da largheggiare! 0 come fan no a campà due famiglie in una casa? Silvio: Eh! si sta un po’ stretti. Elvira: Ma perché state tutti in una casa? Concetta: Perché gli affitti sono parec chio cari. Bista: Ma allora dove so’ tutte le gran dezze della città? E Santino che fa? Santino: Fo due lavori e guadagno bene. Bista: E Piera? Concetta: Anche Piera guadagna. Sta in fabbrica. Certo ha un orario pesante. Bista: Ma quando vi vedete? Silvio: La sera e la domenica. Concetta: La sera stanchi morti e la do menica, io, con tutte le faccende di una settimana. Santino la domenica va alla partita e Piera va in centro, a Via Frat- tina e via Condotti, a vedere i negozi oppure alle riunioni politiche delle femministe. Bista: Ho capito. Una bella famiglia! Chi si contenta gode. Silvio: Quello che mi stanca è la frenesia, è la fretta, il traffico, le conduzioni. E poi non si sa mai con chi parlare, in cit tà. Concetta: Anch’io veramente mi trovo male con tutto il chiasso che c’è. Non ci si può riposare bene. Bista: Dì la verità Silvio: ’un sei tanto soddisfatto. Ti manca la pace di Mon ticchiello. Silvio: Questo è vero. Elvira: E anche a te, Concetta, vero? Concetta: Beh insomma! Comunque in città ci sono tante cose belle, ma... Silvio: Ma... dì la verità Concetta, anche te rimpiangi questa pace. Concetta: Qualche volta. Ma non si vive di sola pace. Bista: A Monticchiello ’un c’è solo la pace. C’è anche il gusto di campare, il sapore della vita, a Monticchiello ci so’ gli amici, c’è lo stà insieme. E anche i lavori so’ più belli. Silvio: Ma se ritornassi ora che farei? Bista: Senti Silvio. Se tu tornassi trovere sti subito noi che ti si accoglie a braccia aperte. S’è messo su un allevamento di polli. Se ritorni c’è un posto anche per te. Silvio: Quasi quasi mi tenti. Concetta: E io, che dovrei fa’? La schia va in casa? Bista: No! La padrona di casa. Diciamo la verità: le donne di Monticchiello ’un so’ schiave di nessuno. E se fanno qualche golf, è per esse’ ancora di più indipendenti. Elvira: E poi con tutti gli elettrodome stici che ci sono ora, il lavoro di una ca salinga è meno duro, diciamo la verità. Concetta: Si ma si è sempre un po’ schia ve, si deve lavorà per il marito. Bista: E quando andate in casa d’altri per chi lavorate? Concetta: Ma li mi pagano! Silvio: E io forse non lavoro e non man tengo anche te? In paese si guadagnerà meno, ma basta lo stipendio di uno solo per tirare avanti. E la donna può stare in casa e fare la moglie e la ma dre, cioè quello che è più adatto a lei. Concetta: Cioè essere sottoposta all’uomo. Bista: Sottoposta a nessuno. Ognuno ha il suo lavoro. Insomma, Silvio, se vuoi tornà c’è un buon lavoro. Silvio: Io ritorno e anche te Concetta, vero? Concetta: Ma... se torni te... sono co stretta anch’io... Elvira: Ma non ti devi sentì costretta! Concetta: Ma... forse alla nostra età con viene tornare a Monticchiello. Bista: Oh! ’un dovete mica crede che Monticchiello sia un paese di vecchi. Ci campano volentieri anche i giovani. A proposito di giovani: ecco i vostri, ecco Piera e Santino, come sò eleganti! Santino: Caro Bista come va? Bista: Bene, e te? Santino: Benissimo. Piera: Sempre in gamba Bista, éh? Bista: Sempre in gamba, sì. Santino: Che novità ci sono? Bista: Ce n’è una fresca fresca. Piera: E quale? Bista: Il tu babbo ritorna a Monticchiello Santino: È vero babbo? Silvio: Si è vero. Bista mi ha convinto. Entrerò nella società per l’allevamen to dei polli. con la tu mamma. Piera: Anche la mamma è convinta? Concetta: Hanno convinto anche me. Così anche voi starete più larghi, in casa, a Roma. Bista: Santino, perché ’un torni anche te? Santino: Ma che siete matto? lo sto bene dove sto e anche Piera. Piera: Si, noi restiamo a Roma. Ma capi sco che il babbo e la mamma abbiano scelto Monticchiello. Ci sono cresciuti, ci sono affezionati e a Roma morivano di nostalgia. Ma io sto meglio a Roma, anche se ci sono tutti quegli inconve nienti. Elvira: Ci stai meglio davvero? Piera: Ci sto meglio in tutti i sensi, so prattutto come donna. Poiché mi sen to più realizzata, mi sento più libera. Frequento i consultori, il centro di ma ternità Montessori, le sedi del Movi mento. Ho imparato tante cose, anche a regolare la mia vita sessuale. La mia non è una sessualità subalterna. Mi sento sostenuta, non più dall’autorità dell’uomo, del marito, ma dal nostro Movimento, dalla mia autocoscienza, dalle nostre conquiste. Prima ero so praffatta dal senso di colpa, ora non più. Piera: Elvira, siamo sinceri, la parità fra l’uomo e la donna si sta realizzando prima in città che in campagna. In pro vincia ci si sente più limitate e non solo dal marito, ma da tutto l’ambiente, dalla mentalità della gente che osser va, critica, censura le libere iniziative delle donne. Nelle grandi città le don ne sono unite e si difendono dalle vio lenze. Bista: Ma quali violenze? Ma dove sono le violenze a Monticchiello, a Pienza e in Val d’Orcia, dove sono? Piera: Bista, voi non mi capite. Non ci sono solo stupri e violenze materiali, ci sono anche violenze morali. E queste ci possono essere anche a Monticchiel lo, Pienza e in Val d’Orcia. Elvira: Piera, ti ripeto che la mentalità è cambiata o sta cambiando anche a Monticchiello e anche negli altri paesi. Gli uomini ci rispettano di più, almeno in gran parte. Certo: ci sono quelli che la pensano ancora all’antica, che quan do escono vogliono che la moglie stia a casa, che decidono tutto loro, che fanno come gli pare. Ma ci sono anche quelli che hanno co minciato a capire e soprattutto i giova ni che sono più aperti. Piera: Ecco, vedete. Se non c’era la no stra lotta, se non c’era il nostro movi mento di liberazione della donna tutto sarebbe rimasto come prima. Elvira: Per dire la verità a Monticchiello le donne non avevano aspettato il mo vimento femminista per cominciare a liberarsi. Fin dagli anni ’50, soprattut to le donne di campagna cominciarono a scalpitare, a voler abbandonare una condizione di inferiorità, a chiedere di lasciare la campagna. Tu negli anni '50 eri appena nata. Ma io me lo ricordo bene. Furono proprio le contadine a lamentarsi, per prime, a ribellarsi. Piera: Sarà anche vero, ma allora non c’era né coscienza né organizzazione, quella coscienza che solo i movimenti femministi hanno potuto dare. Bista: Che vuoi rifare un altro comizio? Elvira: Noi comunque senza traumi ab biamo raggiunto un equilibrio. Piera, credimi, la situazione è cambiata. La mentalità è cambiata a Monticchiello. (Arriva Berzellino con il furgone; prende un megafono) Barzellino: Sono tornato donne. Come d’accordo ho portato la lana. Ecco la lana donne, sotto ai golf, mettetevi a lavorare. Berzellino vi ga guadagnà. Piera: Che cosa dicevi. Elvira, che la si tuazione è cambiata? Siamo ancora a questo? C’è ancora Barzellino di mez zo. No, Elvira, a Monticchiello non siete cambiati. Me ne accorgo da tante cose. Bista: Da che cosa te ne accorgi? Piera: Anche da voi. Anche dal fatto che voi pontificate. Voi siete l’emblema del dominio maschile di Monticchiel lo. Bista: Ma che emblema! Ma che vuol dire? Che cosa sarei io? Ma parla chia ro, ragazza. Piera: Parlo chiaro, parlo chiaro. A Mon ticchiello, in provincia, la donna è an cora sottomessa agli uomini, non rea lizza se stessa, non partecipa alla vita sociale e politica della comunità. Elvira: E chi l’ha detto? Lo dici tu. Ma se abbiamo fatto delle Assemblee per discutere il copione di questo anno del Teatro Povero! Piera: Si ma sono sempre gli uomini a ti rare le fila dei burattini. Arnaldo (o Elvira): Il nostro non è un te atro di burattini. Il nostro teatro è vivo. Piera: E allora rappresentate la vera vita delle donne di Monticchiello. Andrea (o Elvira): È quello che abbiamo fatto. Piera: Se la vostra vita è il lavoro nero che vi offre Balzellino non mi sta bene. Elvira (o Arnaldo o Andrea): È anche quello. Ma non se ne può fare a meno. Non si possono rovesciare i rapporti tutto d’un colpo come vuoi tu. Tu vai al consultorio per non avere figli, men tre ci sono donne di Monticchiello che vogliono essere madri e per essere ma dri devono anche stare a casa e per sta re a casa devono accettare anche il la voro nero come dici tu, che, peraltro, non è privo di dignità. Noi non ci sen tiamo oppresse, non ci sentiamo emar ginate. Berzellino: Quante chiacchiere! Ma al lora questa lana la volete o no? Ecco qua, quant’è bella! (Piera si precipita verso il furgoncino se miaperto prende i grossi gomitoli di lana e li scaraventa per la piazza). (Le donne di Monticchiello con calma la raccolgono si avvicinano a Balzellino gliela mostrano e, mentre Balzellino segna in un tacquino, si allontanano, ciascuna verso la paroria casa). F in e La Cooperativa Teatrale «Il Centro» di Lucca ha presenta to «Uomini e no» di Elio Vittori ni. La riduzione teatrale è stata affidata a Raffaele Crovi ed Enrico Vaime. La regia dello spettacolo è di Roberto Mar- cucci. Si tratta di un’operazione che privilegia soprattutto l’aspetto didascalico (e di chiarativo) dell’opera dello scrittore siciliano. I personag gi, poco più che abbozzati, do vevano assumere connotati propri attraverso la corda del la coralità. Questo obiettivo è in parte sfuggito al regista e agli attori: pur giungendo ad una rappresentazione abba stanza asciutta, non viene evi tato un certo manierismo sce nico che, inevitabilmente, ab bassa il tono di tutta la mes sinscena. Nella foto vediamo una scena dello spettacolo: da sinistra: Lucio Rosato, Car la Macelloni e Carlo Hinter- mann. Tra gli altri interpreti dello spettacolo ricordiamo: Sergio Ciulli, Giorgio Naddi, Luciano Roffi, Dino Boccacci- ni, Rita Caldana, Paolo Sinatti. «Il Teatro della Farsa» ha presentato a Torino «Ma dama, ch’am rompa nen i chitarin!» due tempi di Qui rino Carrera. Si tratta di una farsa ottocentesca scritta con un linguaggio teatrale molto sobrio, filolo gicamente attento alla tra dizione del più bel piemon tese. «Frasi d’amore» di Benedetto Margiotta, è un’opera teatrale che parte da un presupposto di chiaratamente ludico: il testo è ispirato più dalla necessità della rappresentazione che da una ipotesi di «contenuto». Questo ha permesso l’evidenziazlone del ruolo dell’attore che assume un provocatorio significato in quanto base e fine dello spettacolo stesso. La regia di «Frasi d’amore», rappresentata al teatro «Il Leopardo» di Roma è di Tonino Nitti. Gli interpreti sono Claudio Carafòli, Cristina Noci e Claudia Poggioni. Costumi di Federico Wirne e musiche di Ste fano Marcucci. Nella foto Cristina Noci (a sinistra) e Claudio Carafòli (a destra). L a s t a g io n e t e a t r a l e a N e w Y o r k L a l e g g e d e l c o m p u t e r New York - Un mosaico di culture, un caleidoscopio in moto perpetuo, ecco Broadway. Lusso, prestigio e fantasma goria di luci sono alla portata di tutti gli occhi in un contesto assai vario e contradditorio che comprende vecchi e grigi te atri aggrappati a Times Square, E poi, a distanza, i teatri off- ed off-off. E a pochi passi la bolgia del porno nelle diversifi cazioni più orripilanti. C’è per tutti: da «Pacific Ouverture», un muisical festoso e sfarzoso, al «Teatro del ridicolo» fon dato da John Vaccaro e Charles Ludlum con una Troupe di travestiti. E naturalmente il Village con i teatrini off-off che riesce a digerire tutte le eccentricità e stravaganze. Ma il te atro di Broadway è, innanzitutto, ieri come oggi, spettacolo nella più vasta accezione del termine, e quindi «business». Il mondo artistico a New York, la capitale dello spettacolo e delle arti del mondo, non si salva dal business. E quando il grande business non interviene — è il caso del famoso Me tropolitan — si deve fare appello alle autorità municipali per pagare gli orchestrali. Broadway è un’industria: vi si investo no capitali enormi: 150 mila dollari per una commedia, mezzo milione per un musical. E i bilanci devono quadrare. E le im mense sale con migliaia di posti devono essere riempite, e i biglietti da dieci e venti dollari vanno venduti. Quindi una «piece» o trionfa o cade. Non ci sono vie di mezzo: qui non esistono i successi di stima. Il teatro è «money» come qualsiasi impresa industriale. Basti pensare a «My Fair Lady». Broadway con il suo enor me apparato commerciale ricorre a tutti i mezzi pur di assi curare il successo ad uno spettacolo. E quando si deve alle stire uno spettacolo tutto il mastodonticco apparato pubblici tario viene mobilitato: televisione, stampa, radio,, treni, sub ways, autobus: un bombardamento, un lavaggio dal cervello senza soluzione di continuità finché il pubblico sborsi dieci, venti o trenta dollari per il biglietto e corra a vedere il «ma sterpiece» (capolavoro). La parola «masterpiece» fa-capolino d tutte le parti: se non è la stampa, qualche volta molto severa, c’è sempre un gior naletto locale od un oscuro «speaker» o un compiacente cri tico a parlare di «masterpiece» che poi vien riportato a lettere da scatola nel cartellone, e il nome dell’autore, se oscuro, a caratteri da microscopio. È la sottile, velenosa ipocrisia dei mass-media. E il caso delle sigarette. A Broadway, da un mo struoso cartellone pubblicitario, una figura d’uomo emette «Il canto delle stel le», di B. Margiotta, è l’ultimo lavoro che ha portato in scena Michael Aspinall (che ve diamo nella foto, in un momento dello spettacolo). Il tea tro di Aspinall si caratterizza per la garbata parodia al melodramma, un genere che questo interprete e regista ama e conosce molto bene. Ne «Il canto delle stelle», accanto ad Aspi nall, recitavano Gino Cagna, Nicola Martinelli, Andrea Mugnaio. Al piano forte si sono alter nati Rate Furlan e Maurizio Aschel- ter. autentiche, enormi boccate di fumo. È la propaganda di una nota marca di sigarette. In fondo a destra in un quadratino con una calligrafia minutissima la descrizione sul danno del fumo, resa d’obbligo dalle autorità sanitarie. A Broadway si fa leva sui grandi nomi. Fu Ben Gazzara che portò al successo la mediocre commedia «Chi ha paura di Virginia Woolf?» ed ora Richard Burton ha consacrato il successo di Equus» e la critica ha dovuto accettarlo come «thè best play» dell’anno scorso. E la gente va a teatro come in pellegrinaggio. Ma soprattutto per veder Burton. E per una commedia di successo i posti, salatissimi, vengono prenotati a distanza di settimane o di mesi. E ogni sera centinaia di gio vani e meno giovani, disciplinati, pazienti, in fila indiana da vanti ai teatri, nella speranza molto improbabile che qualcuno dei prenotati non si presenti all’ultimo momento, come alla partenza di un aereo. O nella speranza, Questa volta più pro babile, di trovare qualche biglietto al mercato nero. In questi casi il più delle volte l’arte va a farsi benedire: l’apparato pub blicitario che ha funzionato alla perfezione e il divismo di Burton hanno decretato un successo strepitoso. La comme dia, naturalmente, è piuttosto sciatta. Ma Broadway, si dice va, è business, e il fallimento di uno spettacolo significa una perdita secca di centinaia di milioni. E spesso si rivolge a spet tacoli collaudati altrove. Oppure ai parenti poveri di off- Broadway o alle salette o alle cantine off-off. Eugene O’Neill fece il suo debutto in una saletta del Village, il «Provicen- town Playhouse». Il teatro politico, a differenza di quanto accade in Europa e altrove, non ha avuto e non ha molta fortuna in America. Il tentativo di Chaikin con l’«open theatre» degli anni 60 e Claude Van Itallie negli anni del Vietnam hanno avuto vita breve: spesso i soli ed unici frequentatori erano i disertori del Vietnam. D’altronde il teatro politico in America non può avere futuro: dove c’è libera circolazione di idee e non esisto no forti tensioni politiche, anche perchè non esiste un vero e proprio partito di opposizione, inteso alla maniera europea, il teatro politico non ha senso. Qualche timido tentativo duran te la guerra del Vietnam è morto senza infamia e senza lode. La grande innovazione teatrale degli anni sessanta si chia ma off-off-Broadway (OOB). Questa nuova forma di far te atro avev aveva inizialmente una caratteristica artigianale e ricalcava il teatro-cabaret di tipo europeo: il pubblico, cioè, en trava gratis ed era poi invitato a fare un’offerta. Il successo fu immediato. Le compagnie proliferatrono sino a raggiunge re il numero di duecento: lavoravano irregolarmente, im provvisando spettacoli ovunque, nelle scuole, nelle sale uni versitarie e parrocchiali e addirittura nelle cantine. Solo nel ’75 «OOB» ha messo in cantiere 150 spettacoli, soprattutto con il contributo di privati e «fondations» ed entrando in di retta concorrenza con i circuiti commerciali. I teatri di giro tradizionali, gelosi dei propri privilegi, diedero battaglia fa cendo intervenire con mano pesante il sindacato dello spet- i n b e v e È scomparso, improvvi samente, Renato Mainar- di, sensibile autore dram matico italiano. Rivelatosi nel 1953 con il radiodram ma «Binario 7», si affermò in teatro con «L’intellettua le a letto». Con «Per una giovinetta che nessuno piange», nel 1965, ottenne il premio IDI e, l’anno se guente, il premio Riccione con «Per non morire». Tra le altre sue opere vanno ri cordate: «Una strana quie te» e «Antonio von Elba». È morta, all’età di 81 anni, l’attrice Giuditta Ris- sone. Dotata di una fine sensibilità comica e grazia maliziosa, la Rissone for mò, nel decennio 1930-49 con De Sica (suo marito) e Tofano, poi con Melnati al posto di Tofano, compa gnie celebratissime di tea tro leggero (ottenne il suo primo grande successo in «Due dozzine di rose scar latte» di A. De Benedetti). Recitò opere di Betti, Goetz, Pirandello, Rocca, Sheridan e Shaw (Compa gnia Rissone-De Sica-To tano). Nel dopoguerra fece solo saltuarie apparizioni in palcoscenico. Al Treatro Flaiano il gio vane regista Gianni Ca liendo ha tenuto il suo sag gio di diploma presso l'Ac cademia Nazionale di Arte Drammatica Silvio D’Ami co, rappresentando l’azio ne scenica di Giovan Batti sta Guarini «Il pastor fido». Anche quest’anno alla chiusura della Stagione Lirica ufficiale 1976-77, l’attività del Regio di Torino è continuata con una breve stagione concertistica estiva che copriva il perio do dal 15 giugno all’8 lu glio, con la partecipazione della Orchestra e del Coro stabili dell’Ente e di alcuni solisti. Mario Roberto Cimna- ghi è stato nominato presi dente del «Teatro di Roma». L’incarico è stato ratificato di recente dopo una reg genza non formalizzata presso la Presidenza. Gior nalista, autore drammatico, ha tradotto numerose ope re teatrali in italiano e ha promosso alcune iniziative nel mondo dello spettacolo (molto vicino al «Teatro d’arte italiano» di Squarzi- na, al «Teatro popolare ita liano» di Gassman e agli «Attori Associati» di Gian carlo Sbragia). Tra le sue pubblicazioni di argomento teatrale e letterario, ricor diamo «Prospettive del tea tro italiano», «I fondamenti del giudizio estetico» e «Politica e cultura». Inte ressante infine è anche la sua attività di regista espressa in varie attività. La stagione teatrale 1976-77 ha visto il suc cesso di molte commedie italiane nei teatri di lingua inglese. «Sei personaggi in cerca di autore» e «Questa sera si recita a soggetto» di Luigi Pirandello «L’isola delle Capre» «Frana dello scalo Nord» di Ugo Betti a New York. «La gabbia» «Il ritorno» «Il suicidio» «I fri goriferi» e «Kissinger» di Mario Fratti a New York, in California, Pennsylvania, in Florida. «Tre scimmie nel bicchiere» di Mario Moretti a New York (Terzo Festival del Teatro Italiano) «Natale in casa Cupiello» e «Saba to, Domenica e Lunedì» di Eduardo De Filippo a New York e California. Sono an nunciate per la prossima tacolo, e l’«OOB» dovette, pena la sopravvivenza, adeguarsi alle leggi di mercato e diventare quindi un fatto commerciale con biglietto obbligatorio. L’autentica avanguardia americana oggi si identifica con i gruppi etnici cosiddetti minoritari, cioè i negri e i portoricani, e la gente di lingua spagnuola in genere. Esprime quest’avanguardia il disperato lamento delle condi zioni di vita degli emarginati della società opulenta e del be nessere. E un teatro a soggetto ma vitale e modernissimo, ma che resta un fatto eccezionale di personalità eccezionali. I più impegnati di questi cosiddetti teatri di gruppo o «group li- ving» seguono un ideale cristiano alla ricerca quasi fanatica di una immediata giustizia sociale. I protagonisti più rappre sentativi di questa vicenda teatrale sociale e umana sono Pe ter Schumann nel Vermont, Luis Valdez in California con i «campesinos» messicano-americani, e gli indiani. Sorretti da una ideologia di socialità — anche se rozza ma sempre generosa — , questi teatri dello Happening esprimo no in maniera quasi diretta le condizioni di vita delle comu nità dei «campesinos» e dei ghetti. Si recita quando si può e dove si può, si va dappertutto a raccontare la propria condi zione di vita disperata, derelitti e miserabili nella società opu lenta che vuole uscire dal ghetto. È la rappresentazione ama ra e violenta delle masse di lingua spagnuola dei sottoprole tari afflitti dalla miseria e dalla droga. Esibiscono agli altri la «loro» America, quella delle strade, degli slums in contrasto con quella «ufficiale» del benessere, della ricchezza. È un te atro che a volte ha le caratteristiche della diaspora: si recita spesso nella lingua dei loro padri, lo spagnuolo, anche se sono nati a New York: si recita in questa lingua per non perdere la propria identità. È come una violenta ribellione a una lin gua. l’inglese, che sta divorando tutte le altre. Non poteva mancare a Broadway, nella New York dove la donna è quasi un essere privilegiato, un teatro all’insegna del la «woman’s liberation». Da queste parti è nata la sua più ac cesa e battagliera vessillifera, anche se ora in disarmo e con testata dalle maschiette ultra: Mary Friedman. I teatri di queste femministe ad oltranza sorgono come funghi, spari scono, rispuntano, proliferano e scompaiono. Un teatro di provocazione all’insegna del «gay liberation». Si proclamano solennemente lesbiche, parlano di rivoluzione, ma a New York come in Italia come ovunque i loro ruoli sono sempre un sottoprodotto maschile. La loro unica ideologia è la pro vocazione, dare addosso agli uomini e ironizzare sull’amore, sul «romance»; il pan-sessualismo la ragion ragio d’essere. Il loro, più che teatro, è pornospettacolo per le arrabbiate del sesso. Ma sono giovani, sono belle, sono psicanalizzate, senza pudore, senza reticenze, qualche volta però sono prese dal ri morso e dicono che il loro è un teatro, un discorso di libera zione. Chissà quale... Giuseppe Giannone stagione commedie di Die go Fabbri, Mario Fratti, Peppino Giampaola e Dario Fo. detti enti ed un aumento a 11 miliardi dei fondi desti nati ad altre attività musi cali. «Il Premio Nazione Ric cione», consistente in un milione di lire, riservato a copioni teatrali inediti, è stato vinto da Alessandro Bandecchi con il testo «Dio salvi il triangolo». Si è inol tre assegnato il «Premio Paolo Bignami»,di 250 mila lire, a «Vaudeville d’antant» di Gerardo Cuccini, e la «Caveja d’oro», dell’ente provinciale del turismo di Forlì, a Patrizia Monaco per «L’Aquilone». La Pro Cuneo, in colla borazione con l'Assessora to all’Attività Culturale del Comune di Cuneo, bandi sce un concorso per una opera teatrale in piemonte se, intitolata «Premio G. To- selli». Per partecipare al concorso le adesioni do vranno giungere entro il 30 novembre 1977 al seguen te indirizzo: Pro Cuneo, Segreteria Premi Teatrali — «Parco della Gioventù» Cuneo. Nel mese di luglio, al Vit- toriale di Gardone, si è te nuto un «Convegno Cine matografico d’annunzia- no», che è stato preceduto dalla tavola rotonda «D’An nunzio e il d’annunzianesi- mo nel cinema italiano», di retta da Giovanni Grazzini e nella quale erano relatori Mario Verdone, G.P. Bru netta, Enrico Mazzuoli, Ser gio Raffaelli e Giorgio Fa- bre. La rassegna si è svolta dal 2 al 13 luglio e sono stati presentati alcuni films come: «Cabiria» 1913, «Ti gre reale» 1916, «Cenere» 1916. Il film «Un anno di scuo la», prodotto dalla RAI TV, di Franco Giraldi ha vinto il premio per la migliore regia al XIV Festival Internazio nale di Televisione «Praga d’oro». È il secondo suc cesso della RAI dopo quel lo di «Padre padrone» dei Taviani, trionfatore, a Can nes. Il ministro dello spetta colo, onorevole Antoniozzi, ha annunciato che la Com missione Interni della Ca mera ha approvato la pro posta di legge sui provve dimenti straordinari a so stegno dell’attività musica le. Il testo approvato preve de uno stanziamento di 71 miliardi e 300 milioni per gli anni '17-78 a favore degli enti autonomi lirici e delle istituzioni concertistiche assimilate; uno stanzia mento di 71 miliardi e mez zo per sostenere le spese di tournèes all’estero di complessi artistici dei pre Crisi del teatro in Fran cia: anche se ogni anno si ripete il miracolo di una cinquantina di palcosceni ci in attività nella capitale, gli spettatori, in quindici giorni sono diminuiti del 40%, una percentuale che corrisponde a 2.300.000 spettatori in meno. Cin- quantaquattro attori si sono organizzati in una as sociazione per la difesa dello spettacolo teatrale, attraverso diverse e artico late iniziative; tra essi, vi sono Jean Marais, Franco is Perier, Bernard Bliere al tri importanti nomi. L a m o r t e d i S a n d r o G i o v a n n i n i tamente al di sopra per divertimento, in telligenza ed inventiva, della media dei testi «leggeri» del momento —, curare la regia ed infine accollarsi anche i rischi dell’impresario. A questo impegno il pubblico ha sempre risposto con eccezio nale entusiasmo, tributando un successo che non ha conosciuto pause: proprio questo successo, anche finanziario, ha re legato per anni Garinei e Giovannini nell’ambito del teatro «commerciale» e pertanto «minore» rispetto a forme di spettacolo più «impegnative»; solo in questi ultimi tempi c’è stato un risveglio d’attenzione per questa sorprendente ca pacità di sfornare successi senza mai sba gliare un colpo e sulle implicazioni cultu rali e sociologiche (oltreché professionali) che sono necessariamente alla base di un fenomeno del genere; con l’occasione qualcuno ha anche scoperto che il confi ne fra artigianato di alta qualità ed arte è più sottile di quanto solitamente si creda. Da parte nostra vogliamo soltanto sotto- lineare come, in un settore che facilmen te si è concesso e si concede alla volgarità ed alla pacchianeria, Garinei e Giovanni ni abbiano sempre saputo difendere la loro innata vocazione al buon gusto. La vicenda umana e professionale di Sandro Giovannini è fitta di titoli e di nomi d’interpreti che fanno ormai parte della storia dello spettacolo: se in qual che misura esiste da noi un teatro «leg gero» non completamente tributario di modelli stranieri il merito è certamente di «G e G». Da nove anni il duo si tra sformava spesso in trio per l’intervento di Iaia Fiastri: quindi la «ditta» forse pro seguirà in qualche modo, ma rimarrà si curamente incolmabile il vuoto lasciato da Giovannini non soltanto come autore, regista ed impresario, ma soprattutto come uomo, per quelle doti di profonda umanità che trasparivano appunto dai suoi spettacoli. A.L. È un momento particolarmente triste per il teatro italiano che ha perduto, nel giro di pochi mesi, personaggi come Re migio Paone, Rina Morelli, Filippo Tor nerò: subito dopo è stata purtroppo la volta di Sandro Giovannini: autore, regi sta ed impresario, non aveva ancora compiuto 62 anni essendo nato a Roma il 10 luglio 1915 e da oltre trent’anni ave va stabilito con Pietro Garinei quel soda lizio (la famosa sigla «G e G», Garinei e Giovannini) che rimane uno dei momen ti più popolari e significativi dello spetta colo teatrale ma anche radiofonico — «La bisarca» — e poi televisivo «Il mu sichiere») in Italia, con un successo che si è spesso esteso anche fuori dai confini nazionali, come testimonia, in questi tempi recenti, il debutto viennese di «Aggiungi un posto a tavola». La colla borazione con Garinei risale infatti al 1944 che è l’anno del primo «Cantachia- ro» a cui segui subito (1945) «cantachia- ro n. 2» e via di seguito al ritmo di uno spettacolo l’anno (e in certi anni anche due). L’impegno di Giovannini con Gari nei nel mondo del teatro e dello spetta colo è stato, in tutto questo tempo, dav vero totale: scrivere i testi — sempre net L a s ta g io n e te a tr a le a N e w Y o rk È i t a l i a n o i l n o m e n u o v o d e l l ’ o f f - B r o a d w a y NEW YORK-È senza dubbio per la prima volta nel teatro americano che un nome italiano viene portato quasi con vio lenza alla ribalta. È un nome strano: Innaurato. A prima vista si potrebbe pensare al titolo della commedia, invece è il nome dell’autore. Nomi italiani nella letteratura americana ne ri corrono pochi. I più noti: Pietro Di Donato che fece epoca con il romanzo «Cristo fra i muratori» negli anni trenta, e oggi Mario Puzo con «Il Padrino». Nella letteratura drammatica neanche l’ombra. A entrare di prepotenza nella cittadella letteraria e teatrale, monopolio ebraico, specie a New York, è toccato a un giova ne di 26 anni che sfonda, per ora off-Broadway, addirittura con una doppietta: «La trasfigurazione di benno Blimpie» all’Astor Place Theatre, a «Gemini» al Circle Theatre. Alberto Innaurato appartiene alla terza generazione dei «giovani leoni» italo-americani i cui nomi sono sulla bocca di tutti: i Pacino, i De Niro, gli Scorsese, i Ford Coppola. Anche Innaurato incentra i suoi lavori nell’ambiente italo-americano pur non conoscendo un’acca della lingua e forse storpiando anche il proprio cognome. Questa volta, però, invece che a New York, come nei famosi lavori cinematrografici di Scor sese «Main Street» e «Taxi Driver», siamo a Filadelfia. En trambe le commedie di Innaurato hanno come figure centrali due giovani sproporzionatamente obesi che vivono nei sob borghi di Filadelfia e il cui unico motivo esistenziale è quello di «abbuffarsi» dalla mattina alla sera. Anche l’autore, a quanto sembra, è un formidabile mangiatore, ma, a differen za dei personaggi delle sue commedie che pesano 250 chili, il nostro è un longilineo. Bennio Blimpie, protagonista della prima commedia, è certamente un «mostro» grottescamente obeso che vive solo per «mangiare» ed ha una passione per i pittori del Rinascimento e annuncia fin dall’inizio della com media che mangerà fino a crepare. Benno rimane seduto su una piattaforma rialzata al centro del palcoscenico, mentre gli altri personaggi, sua madre e suo padre, suo nonno ed una ra gazzina, gli girano attorno. Il dramma alterna la narrazione con flashbacks sulla fanciullezza di Benno, che seduto grot tescamente con la stazza dei suoi 250 chili sulla pittaforma del palcoscenico ci presenta i suoi genitori, quasi dei mostri che nei loro meschini litigi si palleggiano il piccolo Benno come un pupazzo. Altro grottesco personaggio è il vecchio patetico nonno, in vaghito di una tredicenne, Lolita, incontrata nel parco: pas sione senile che lo porterà ad una morte ignominiosa. L’obe sità e la vecchiaia come emarginazione: il giovane e l’anziano entrambi negati all’amore. Il vecchio e il mostro come simboli grotteschi di una rabbia dove il sesso è l’unica, disperata, mor bosa occasione di attaccamento alla vita. È la sensibilità tea trale del giovane autore che riscatta la storia di Benno da un banale naturalismo. I meschini battibecchi dei genitori, il sor dido flirt del vecchio acquistano intesa drammaticità e susci tano un’amara compassione. Il lungo monologo di Benno, quest’infelice giovane mostro, si risolve in un disperato la mento sulla sua esistenza che non è vita, e tutta la sua furia sessuale che si risolve ingozzandosi di ice-cream. Il dramma ha tali toni grotteschi da riuscire qualche volta nauseante. Ma non è mai gratuito. Benno è impersonato da un grande attore italo-americano, James Coco: il personaggio che questi sa creare è irresistibile: seduto tutto il tempo con quella mole grottesca, riempiendo quella faccia macabra con manciate di cibo e gelati, costruisce un Benno straziante. L’altro dramma «Gemini» è una specie di riunione di famiglia della piccola borghesia, che si svolge in un giardino di una casa italiana di Filadelfia. Il dramma s’incentra nel ventunesimo compleanno di Francesco che studia a Harward ed è in conflitto con la famiglia. Anche qui fa la sua apparizione un ragazzo obeso ed eccentrico. Nel sus seguirsi delle scene assistiamo a crisi di identità, tentativo di suicidio, grandi mangiate. La commedia è un intreccio di umana fragilità e di mesti sorrisi, di violenze verbali interrotte da improvvise scene comiche. «Gemini» è più appetibile di «Benno», ma meno scavato, e rivela molta improbabilità e una poco convincente lieta fine. Comunque, il severo New York Times chiama Innaurato commediografo «ecceziona le» e già «un maestro». GiuseDDe Giannone L a s ta g io n e te a tr a le a P a r ig i L e u o v a d i I o n e s c o e i l b u l l o d i M i l l e r Il registra romeno Lucian Pintilié ha preso due commedie del suo ex-connazionale diventato accademico di Francia Eu gène Ionesco e le ha amalgamate in un un unico spettacolo, una specie di favore delirante, per il Théâtre de la Ville. Cu rioso itinerario di un’avanguardia che vent’anni fa non trova va spettatori sensibili alla sua cronica assurdità e che oggi «esordisce» come teatro popolare: è un po’ lo stesso itinera rio del drammaturgo, allora preso di mira anche dai critici più esperti e oggi immortalato nell’uniforme verde disegnata da David che ha sostituito il costume di clown gettato alle orti che. «Jacques ou la soumission» poneva inizialmente la do manda della nascita del male metafisico e sociale. Il suo gio vane protagonista finiva per assoggettarsi all’istinto sessuale secondo le rigide norme della civiltà borghese. L’epilogo per questa prima commedia, che si concludeva in un paradisiaco stato di pre-accoppiamento — l’Eden prima della mela — è costituito da «L’avenir est dans les oeufs» che fornisce una nuova dimensione all’universo della sessualità, mettendo in scena l’atto d’amore con tutte le sue tappe, fino al punto in cui l’accoppiamento si identifica nella nascita. Jacques, disperazione dei familiari per le sue velleità d in dipendenza, tenta di opporsi alle pressioni che subisce da ogni parte, con una tattica di resistenza imbronciata e capricciosa. Non contento di rifiutare le patate al lardo, pretende che gli si trovi una fidanzata con tre nasi. Illudendosi di cavarsela fi nisce per rinchiudersi nella deliziosa progione dell’amore. La famiglia (quella che Gìde diceva di odiare) ne approfitta per recuperarlo, nel sistema, per coinvolgerlo nel sistema della produzione e del consumo. Lo brutalizza, mentre la la moglie lo sfianca facendo decine, centinaia, migliaia di uova che da ranno altrettante frittate (simbolo dell’umanità condannata a tale condizione, ad una Hiroscima sulle autostrade, sulle spiagge o altrove), altrettanti ingegneri, soldati, poliziotti, al- coolizzati, drogati, consumatori... Con la complicità dei suoi abituali scenografi Radu e Mi- runa Boruzescu et del suo musicista Costin Miereanu, Pinti lié ha dato a questa favola un’aria da sogno infantile, da bal letto d’automi, da sequenze di film di Fellini: un vero diver timento anche per gli occhi. Il palcoscenico è pieno di mac chine eteroclite (una di esse è ispirata ad una scultura iperre alista di Kienholz), di oggetti degni del mercato delle pulci, di personaggi caricaturali come esige l’inevitabile denuncia del lo sfruttamento capitalista e della Società di produzione e di consumo. Sullo sfondo (ma con una porta che si apre su un campo di grano, omaggio altrettanto obbligatorio alla natura pura) un’imponente costruzione murale vuole simboleggiare Una scena di «Transit». un ritmo di lavoro permanente, come lo si trova nei romanzi di Dickens, di Victor Hugo, di Zola: i genitori e i nonni di Jac ques sono degli aristocratici decaduti che, per vivere, sono obbligati a lavorare come forsennati, sotto il pungolo della borghesia rappresentata dai familiari di Roberta, la fidanzata con tre nasi. In mezzo al continio tumulto, come un’oasi nel deserto, la coppia di innamorati, tutti i due estranei all’enorme ingranag gio pronto a coinvolgerli, alla spaventosa congiura, tutte e due «stranieri»: lei è Anna Prucnal, una cantante polacca che sa anche danzare e recitare (e che Pintilié fa persino diventare una spogliarellista integrale), lui è Bruno Zanin, un veneziano sbucato dal «Campiello» goldoniano e da «Amarcord». Gli stessi accenti «diversi» dei due protagonisti aumentano la stranezza e l’incantesimo dello spettacolo che si conclude con un’invasione del palcoscenico da parte di seimila uova (in ma teria plastica) proiettati da una matrice:mitragliatrice. È l’unica commedia di Henry Miller. È un po’ il merlo bian co della sua opera. Questo sopravvissuto della generazione dei grandi artefici della letteratura americana contemporanea oggi ottanteseienne (tutti gli altri, i Dos Passos, i Sinclair Le wis, gli Hamingway, i Faulkner se ne sono andati) aveva af fidato il manoscritto di «Transit» a Georges Belmont nel 1962, durante uno dei suoi numerosi viaggi a Parigi. Per chie dergli il suo parere. «L’ho letto con passione — spiega il fran cese che ha curato la versione ora rappresentata dalla com pagnia dello Chantier nella sala Gemier del T.N.P. di Chaillot — perché Miller ha sempre avuto un senso profondo del dia logo letterario tale da farlo ritenere un drammaturgo in po tenza. Gli ho consigliato tuttavia diversi ritocchi per raffor zare le strutture drammatiche. Ma in quel periodo egli si era innamorato di Hildegarde Neff e aveva dimenticato il mano scritto nel mio cassetto. Più di dieci anni dopo mi ha inviato una nuova copia che affermava identica alla prima ma che era stata profondamente modificata. L’ho subito tradotta «Il tra duttore è molto fiero di questi due dati storici: la Francia è stata la prima, ancor prima dell’America, a riconoscere la grandezza di Henry Miller, ed è su un palcoscenico francese che degli attori francesi hanno rivelato ora al mondo questo «Transit». Resta da provare se la fama dell’ottantaseienne autore dei «Tropici» viene rinvigorita da questa incursione milleriana sul palcoscenico. «Transit» è un condensato dei miti cari a Miller, anche se non vi si trova alcuna traccia di erotismo. È la storia di un bullo da bassifondi che gonfia i bicipiti sognan do Paul Newman: un velleitario che schiva tutti i problemi della vita (tema della paura) e che, fuggendo l’amore semplice di una giovane romantica, cade nelle braccia di una peripate tica alla ricerca di una grande passione e di una vita onesta (tema della società colpevole). Un colpo di rivoltella sparato Il regista Luigi Comen- cini ha contestato la pre sentazione della riedizione del suo film «Infanzia, vo cazione e prime esperien ze di Giacomo Casanova veneziano»: ritiene che la sua opera sia stata pubbli cizzata come una risposta di Comencini a Fellini. Marcello Mastroianni, che sta girando un film giallo umoristico, ha di chiarato a più giornali che si sente nella fase più atti va della sua carriera. Tra l’altro ha espresso anche il desiderio di poter ritornare a lavorare con Federico Fellini per interpretare il mai realizzato «Viaggio di Mastorna». Nel quadro delle mani festazioni della XXVIII Sa gra Musicale Malatestiana, la seconda rassegna di Ri- miniaterforum si è tenuta dal 28 giugno al 5 luglio. Rassegna concertistica in ternazionale dedicata ai giovani interpreti e ai nuovi compositori di musica del Novecento italiano ed eu ropeo. i n □ B e Anche quest’anno al Te atro Comunale di Firenze nella sua V edizione si è svolto il Concorso interna zionale di violoncello «Ga- spar Cassadò» a cui hanno partecipato 26 concorrenti in rappresentanza di dieci paesi. Le prove aperte dei singoli partecipanti hanno destato interesse nel pub blico. A New York viene rap presentata con grande successo l’opera di Simon Gray «Altrimenti impegna to». «Il Dramma» pubblica in questo numero il testo dell’autore inglese che svolge con amara ironia il tema della solitudine e dell’incomunicabilità. Il Teatro Eliseo, a co minciare dalla prossima stagione teatrale, avrà una nuova gestione: Romolo Valli sarà il Direttore Arti stico, insieme ad un comi tato formato da Giorgio De Lullo, Eduardo De Filippo, Giuseppe Patroni Griffi. Sono in programma una opera di Pirandello (Enrico IV, regia De Lullo), a cui sarà anche affidata la dire zione del Ridotto. È previ sta, a fine gennaio, il ritorno della coppia Proclemer-AI- bertazzi che, all'Eliseo, presenteranno «Antonio e Cleopatra» di Shakhespea- re (regia di Roberto Guic ciardini). Si è svolto a Capodi monte il «Giugno di Prosa» nell’ambito del quale sono stati presentati gli spetta coli di Carpentieri «Maestri cercando: Elio Vittorini» e di Ferrante «Le parole e la città — La poesia urbana di Raffaele Vlvlani». Sono sta- ti tenuti inoltre dibattiti, im provvisazioni, jemsession, clownerie. A Formello avrà sede la Fondazione ed un Centro- Laboratorio di drammatur gia per il Lazio: l’Iniziativa è collegata alla associazione culturale «Centro Mario Apollonio» che vuole pro muovere un'attivo coordi namento tra scuola media superiore e teatro. Presentiamo un com pendio delle rassegne sinfoniche, liriche e con certistiche di questa esta te: Stagione Lirica a Cara- calla — Terme di Caracalla 8 luglio al 14 agosto Arena Sferisterio di Ma cerata dal 9 al 24 luglio Festival lirico all’Arena di Verona dal 14 luglio al 28 agosto Festival Barocco di Vi terbo dal 1 al 13 agosto Festival della Valle d’Itrla — Martina Franca — Ta ranto, dal 1 al 16 agosto Settimane Musicali di Stresa dal 28 agosto al 19 settembre Sagra Musicale Umbra ! Perugia ed altre città dell’Umbria dal 10 al 15 settembre. dalla delusa sconvolge la situazione. Il bullo è morto. Vede, senza esser visto, tutti gli altri personaggi. Scopre la felicità perfetta (tema della redenzione) dopo un ultimo sfogo. Per ché si è ricordato improvvisamente della Birmania, dove ha fatto la guerra. Un inferno che l’ha marcato per sempre, ha consolidato il suo egoismo e il suo fondo anarchico. Il lungo monologo di rivolta, alla Gabin dei tempi d’oro, è un po’ la professione di fede dell’autore, l’unico momento in cui la commedia perde il suo aspetto di fumettone (accentua to dalla regia, dalle scene e dai costumi di-Françoise Joxe che fanno pensare a «Uno sguardo dal ponte» dell’altro Miller, Arthur) per ritrovare la forza delle migliori pagine dello scrit tore. Harry, il protagonista, è Michel Fortin, Jeanie, la ragazza romantica Marie George Pascal, la peripatetica che sogna Annick Roux. 11 cubano Eduardo Manet aveva attirato l’attenzione, di versi anni fa, con «Les nonnes». Se è vero che, in definitiva, i romanzieri scrivono sempre lo stesso romanzo, Manet non fa che ricamare attorno alla stessa commerdia. «Lady Strass», che presenta al Théâtre de Poche, è una variazione sul tema a lui caro: quello di un universo chiuso nel quale i personaggi lottano contro se stessi e gli uni contro gli altri. In una città dell’Honduras britannico una vecchia lady, due vol te vedova, sopravvive assieme ai suoi ricordi, reclusa volon taria in una casa di cui ha fatto murare porte e finestre. L’unico contatto con l’esterno avviene attraverso una stretta galleria. È di là che le arriva quel po’ di cibo indispen sabile a tenerla in vita. Un giorno due banditi — un bretone finito male e un indiano sardonico — si introducono per la stessa strada nell’universo di questa specie di Gloria Swanson giunta al termine del suo viale del tramonto, per derubarla. Ma Lady Strass li soggioga, li manovra, li plagia, raccontanto loro la propria esistenza, gli abbandoni, gli amori con un gio vane scrittore indiano e poi con un avvenente nazista che la disfatta tedesca ha proiettato in America latina. I due pove retti subisono i monologhi allucinati della pazza, per accor gersi in fine che anche i suoi ricordi sono falsi, come le sue perle. Eléonor Hirt, Etienne Bierry e Tony Gatlin sono gli inter preti di questo ennesimo «A porte chiuse» messo in scena da Roger Blin: un apologo sconcertante ma nel quale è difficile trovare un attimo di sincerità e quindi di emozione. Gilles de Rais, mostro feudale della metà del XV secolo e forse uno dei più grandi assassini di tutti i tempi, è passato alla leggenda sotto il nome di Barbablù. Georges Bataille aveva ritrovato e pubblicato i verbali del suo processo. Roger Plan- chon ha preso gli ultimi mesi della sua esistenza per farne uno spettacolo che è venuto a presentare a Chaillot. L’autore-re gista-attore (che in occasione di questa puntata nella capitale ha abbandonato a Michel Bouquet la parte di protagonista, da lui sostenuta al T.N.P. di Villeurbanne) ha trasformato in eroe questo criminale che pur era stato compagno d’arme di Giovanna d’Arco, aveva liberato Orleans e incoronato re Carlo VII a Reims. Il miserabile che faceva catturare bambini per torturarli e sodomizzarne i cadaveri appare una specie di visionario braccato come un animale in preda agli ultimi folli desideri, sedotto e plagiato dall’alchimista fiorentino France sco Prelati di cui non sapremo mai se era un precursore della nuova scienza, un illuminato o un volgare imbroglione. «Gil les de Rais» è soprattutto una messa in scena, una macchina che non ci risparmia nulla delle visioni infernali e nella quale si mescolano il «Portiere di notte» della Cavani e il «Salò» di Pasolini, Cecil B. de Mille e Fellini, l’esercito della salvezza e i «blousons noirs» motorizzati nel primo Marion Branco. Lorenzo Bocchi Una scena di «Transit» di Henry Miller. L a s ta g io n e te a tr a le a P a r ig i J . L . B a r r a u l t r i l a n c i a i l T e a t r o d e l l e N a z i o n i PARIGI - Barrault, 67 anni, la giovinezza perpetua. Sa che per non invecchiare bisogna inventare ogni giorno la pro pria vita. Trafiquer quelque chose tous les jours, come dice il suo amico Aragon. Per «trafficare» e sentirsi giovane, quest’anno ha rilanciato il Théâtre des Nations. Un festival breve ma di qualità: Béjart con un Saint Julien l ’hospitalier tratto da Flaubert, le «Troiane» in edizione giapponese, la Spagna del dopo Franco. Barrault aveva già diretto il Teatro delle Nazioni per tre anni, dal ’65 al ’68, quando la rivolta studentesca aveva avu to, fra gli effetti, quello di privarlo del suo teatro, l'Odèon. Alle origini (1957), il TdN era stato una esotica, disordinata vetrina «di rappresentanza», nella quale i vari Paesi avevano esposto il meglio della loro produzione teatrale; con Barrault aveva person il carattere antologico per diventare la sede di un confronto rigoroso — garantito da un «cartello interna zionale di cui facevano parte Grassi e Strehler per l’Italia — delle nuove, più significative esperienze drammatiche, quelle indicanti le direttrici di marcia del teatro contemporaneo. La formula non è cambiata. È mutato invece il luogo dell’incontro; il gonfalone del Festival del TdN sventola adesso sul frontone annerito dallo smog del Théâtre de la Gare d’Orsay, sempre sulla riva sinistra della Senna, sempre a due passi dal Quartiere Latino ma con vista sui giardini del le Tuileries, ai confini con l’«altra Parigi», quella borghese e haussmanniana della riva destra. Il Théâtre d’Orsay, ultimo porto d’attracco di Jean-Luois Barrault e di Madeleine Renaud, è nato pour trafiquer quelque chose, come una scommessa e una sfida, nella primavera del ’74, sotto le tettoie e i lucernari grigi della vecchia stazione dove Orson Welles aveva girato le sequenze più inquietanti della sua versione cinematografica del «Processo» di Kafka. Cacciati dall’Odèon, teatro sovvenzionato, perché accusati da Malraux di avere aperto le porte ai giovani contestatori del Maggio ’68 (e invece, semplicemente, dall’oggi al domani si erano trovati in casa i katanghesi della Sorbona), Barrault e la Renaud erano andati girovagando per la Francia e per l’Eu ropa; poi avevano deciso di dare appuntamento al loro pub blico — un’altra scommessa, un’altra sfida — in una sala da catch di Pigalle, il quartiere parigino dei piaceri notturni per provinciali e turisti: e in quell’ambiente così poco «culturale» avevano allestito spettacoli indimenticabili, come il «Rabe lais» e «Jarry sur la Butte». Ricordo che alla «prima» di «Isabella Morra» di Pierre de Mandiargues (un dramma storico sull’infelice poetessa della Basilicata uccisa dai fratelli per punirla di avere amato un ne- mico, il nobile spagnolo Diego Sandoval de Castro) si udiva no ancora, a tratto, le vibrazioni dei trenini di periferia che ar rivavano alla contigua Gare d’Orsay. L’insonorizzazione del teatro era incompleta, i lamenti della bellissima Annie Dupe- rey, suppliziata dai feroci fratelli nel castello avito, erano co perti da quello sferragliare sulle rotaie. — È„destino che nella mia vita, e in quella di Madeleine, ci sia sempre un treno, — disse Barrault dopo lo spettacolo, nel ristorante self-service del teatro, commentando quei ru mori poco opportuni. — O una nave, o un aereo, — aggiunse la minuscola Ma deleine Renaud, col suo luminoso sorriso senza età. Alludevano, sul tono leggero dello scherzo, alla loro mo vimentatissima vita di attori: tournées in provincia, stagioni in America Latina, negli Stati Uniti e nell’Unione Sovietica, viaggi a Londra, a Berlino e a Roma, i palcoscenici parigini del «Marigny», del «Sarah Bernhardt», del «Palais Royal», dell '«Odèon» e del «Récamier». Un andare girovaghi come i comici della Commedia dell’Arte, una sera qui e l’altra là, un giorno al vento delle Baleari con Claudel e l’altro nel labirinto dell’universo di Kafka, una volta sui gradini di pietra di Eschilo e l’altra in mezzo ai metafisici rinoceronti di Ionesco, dai pizzi di Marivaux delle «Fausses Confidences» agli stivali nazisti delle «Nuits de la Colère» di Salacrou. Un «andar per teatro» quello di Jean-Louis e Madeleine, che durava dal ’46, l’anno del loro famoso sodalizio al «Marigny» dopo la «fuga» dalla «Comeddie Française». Dove avevano potuto recitare lui «il Misantropo», l’«Amleto» e «Fedra», lei «Il matrimonio di Figaro» e «La Regina morta»; ma dove sof focavano in mezzo a tante, troppe convenzioni. E cosi — la loro prima sfida — al «Marigny» riproposero, dal ’46 al ’56, Salacrou e Cocteau, Girardoux e Obey; imposero Claudel («Le Partage du Midi», «Christophe Colomb»), fecero cono- . scere Camus («L’Etat de Siègre», Clavel («Maguelone») e Vauthier («Le Personnage Combattant»), Con passione esem plare, si misero al servizio — come scrivono le storie del Te atro francese dal dopoguerra — di un repertorio classico e moderno, eclettico, rappresentativo di tutte le grandi tenden ze della drammaturgia e dell’estetica teatrale, spingendosi dalle proposte del famoso «Cartello» (Barrault era stato al lievo di Dullin, aveva lavorato con Antoine e Copeau) fino alle ricerche che prepararono, dopo il tramonto del teatro na turalista e la breve ma intensa stagione esistenzialista, l’av vento del Nouveau Théâtre. E infatti, dopo gli intermezzi al «Sarah Bernhardt» e al «Palais Royal», fra il ’57 e il ’59, Bar rault e la Renaud rappresentarono nel ’60 — insediatisi all’«Odéon-Théàtre de France», in pieno Quartiere Latino, al quadrivio della giovinezza perpetua, «Le Rliinocéros» di Eu- géne Ionesco, allora autore ancora discusso, relegato fra gli sperimentalisti di incerto avvenire. Ma anche l’approdo de\V «Odèon», lo si è visto, sarebbe sta to provvisorio. Finita la breve orgia della libertà del Maggio ’68, cessata l’occupazione delle fabbriche, scacciati gli ultimi «arrabbiati» dalla Sorbona, ristabilito in tutta la Francia un ordine che avrebbe avuto, un po’, il colore della malinconia, a Barrault sarebbe giunta una laconica lettera di congedo fir mata dallo stesso uomo che dieci anni prima l’aveva insediato in gran pompa alla direzione di quel teatro sovvenzionato: il ministro André Malraux. Sarebbero dovuti trascorrere più di tre anni fertili di avve nimenti (le dimissioni e la morte di de Gaulle, il ritiro dalla politica dell’autore de «La Condizione umana», il «nuovo corso» più liberale di Pompidou) prima che Barrault fosse reintegrato tra i quadri del Teatro di Stato, proprio con l’in carico — che continua — di riprendere, nel 72, la direzione del Teatro delle Nazioni. Ricordo un altro incontro con Barrault, quand’era ancora, per il regime gollista non del tutto rimessosi dalle scosse di Maggio, un «appestato» da tenere lontano. Era reduce da una serie di spettacoli nei campus delle università statuniten si, era attendato in quella sala da catch dove provava il suo «Rabelais»: una palestra in disuso costruita con putrelle e co lonnine di ferro che erano servite per il padiglione francese dell’Esposizione Universale dell’86, nello stile nouille delle stazioni del Metrò, una volta tempio del cancan dove Toulus- se-Lautrec aveva incontrato la Gouloue, ritrovo degli apa- ches della Butte di Montmartre e cabaret naturista di dubbia reputazione. L’avvenire era incerto, rischioso. L’annuncio del «Rabe lais» spariva, nella strada, in mezzo al neon delle boìtes à strip-tease, dei cinematografi dove si proiettavano i films «svedesi» confezionati a Boulogne-Billancourt, dei bar fre quentati da belles de nuit e da truands. Negli angoli più bui, in fondo alle stradine che s’inerpicavano sulla Butte, Mon tmartre restava un quartiere alla Prévert: il Prévert, voglio dire, dei film con Carnè, nei quali Barrault — ancora e sem pre il mimo lunare di Les Enfants du Paradis, soltanto col sor riso un po’ più stanco — aveva dato vita a tanti ruoli indimen ticabili. Ombra dello schermo o personaggio reale? Ad ogni modo, anche se gli «arrabbiati» della Sorbona e Malraux gli aveva no distrutto più di vent’anni di lavoro, costringendolo a rico minciare da zero in quel baraccone in cui spiccavano le foto dei campioni di catch, l’« Angelo Bianco» e il «Terrore di Bét- hene», nessun rancore nelle sue parole, anzi molta dignità. — Sì, la perdita de\V«Odéon» per me è stata un colpo duro. Non voglio riparlarne. Tutto questo è il passato. Quando si è esclusi brutalmente, con una decisione senza appello, da un teatro nelquale si è lavorato per anni e anni con entusiasmo e con fede, è vero: fa male. Ma Barrault santo e martire no, non mi piace. Con Rabelais sono in buona compagnia. «Bevi la vita!», dice Pantagruele. Ed io la mia vita di attore me la bevo fino in fondo, non importa se qualche volta il gusto è amaro. È una vita che non cambierei con nessun’altra. E poi, dites-moi, mon ami', che cosa può succedermi? A vent’anni, per frequentare la scuola di Dullin, ho venduto fiori alle Hal- les, ho fatto l’istitutore «alla pari» al collegio Chaptal. Ho dormito per mesi su un divano di scena de\V «Atelier». No, il futuro non mi spaventa. Mi incuriosisce, voglio vedere che cosa mi riserva. Sono come il Panurge di Rabelais, uno che vuol viaggiare in lungo e in largo per il mondo, che vuol pas sare attraverso tutte le prove e le avventure. Panurge è Ar lecchino, è Pierrot, è Figaro. Panurge è l’uomo-attore, che rappresenta se stesso sul palcoscenico del mondo. Chi vuol fare del teatro non può stare fermo, immobile. Un uomo di teatro è qualcuno che ha dato appuntamento agli uomini, che deve andare dove sono, per le strade del mondo, come face vano i Comici dell’Arte. Perché il teatro è un’arte effimera, è perpetuo movimento». Parlava e aveva quel suo riso che per noi è il riso del Bat tista degli Enfants du Paradis; soltanto un po’ più tirato nel volto che il tempo ha segnato con piccole pieghe agli angoli della bocca, con sottili rughe intorno agli occhi vivavi. Sul ring trasformato in palcoscenico i suoi fedeli attori, della vecchia compagnia deXV «Odèon», un bouquet di ballerine reclutate al «Crazy-Horse Saloon» e qualche attempato catcheur in riser va provavano il «gioco drammatico» del «Rabelais», lo spet tacolo della «resurrezione» di Jean-Louis Barrault. Una resurrezione conclusasi con l’apertura di un nuovo te atro, in un tempo in cui le Cassandre, anche a Parigi, annun ciano tempi grami nei reami di Talia. I trenini della Gare dOr- say non si odono più, la gioventù di Parigi accorre agli spet tacoli di Jean-Louis Barrault e Madeleine Renaud. E la fine di un destino nomade? La «casa» che il Comico dell’Arte si è meritata dopo tanto girovagare, per portare agli uomini 177- lusion comique? Ugo Ronfani A n c h e L e o e P e r l a a l T e a t r o d e l l e N a z i o n i a P a r i g i Il Teatro delle Nazioni è tornato quest’anno a Parigi. Vi aveva piantato le tende una ventina d’anni fa. Nato come ve trina delle migliori produzioni mondiali, al Sarah Bernhardt, era stato affidato nel ’65 a Barrault che, all’Odeon, ne aveva fatto svolgere la formula verso un teatro di creazione e di ri cerche. Il Maggio 68 lo aveva travolto assieme al suo diret tore. Messo nel dimenticatoio, era stato rianimato nel 72 e poi di nuovo abbandonato. Ma al congresso di Mosca dell’anno seguente la maggior parte dei paesi avevano riconosciuto la sua vitalità ostinata e deciso di farne una manifestazione iti nerante. Così la prima stagione della sua ultima reincarnazio ne si è svolta in Polonia e l’anno scorso in Jugoslavia. Quest’anno è tornato in Francia, nel teatro di Barrault. Dal 3 maggio al 2 luglio sedici spettacoli si sono succeduti nella grande e nella piccola sala del Téàtre d’Orsay o all’Espa- ce Cardin. Per la Jugoslavia il Teatar u Gostima di Zagabria ha presentato «Gli emigrati» di Slawomir Mrozek con la re gia di Tomislav Radic e «Love» di Murray Schisgal con la re gia di Relja Basic. Per il Belgio il Centro Mudra, diretto da Maurice Béjart, ha riunito le grandi tradizioni classiche della danza e del ritmo dei diversi continenti in una prima parte in titolata «Rythmes et danses des Nations» e seguita da un «Saint Julien l’hospitalier» ispirato a Flaubert. Il teatro Waseda, per il Giappone, ha dato una versione ori ginale delle «Troiane» di Euripide. Il regista Tadashi Suzuki, di 38 anni, ha operato una trasposizione della tragedia greca in una struttura di lavoro Tipicamente nipponica come il nò e nell’epoca contemporanea: una vecchia vede morire tutti i membri della sua famiglia nell’ultima guerra e rivive la sua tragedia identificandosi nei personaggi euripidei. Nel suo per sonaggio si concentrano le immani sofferenze che la guerra procura alle mogli innocenti dei soldati vinti. La Romania ha inviato a Parigi «Il valzer delle signore» di Dumitru Radu Popescu con la regia del trentaduenne Virgil Tanase. Il Grupo Rajatabla del Ateneo de Caracas ha prepa rato un lavoro libero sul romanzo «Senor Presidente» di Mi guel Angel Asturias, impostato soprattutto sul fascismo lati no-americano, i meccanismi del potere e le dittature di quel continente. L’Atelier 212 di Belgrado ha presentato «Mira colo a Sargan» di Ljubomir Simovic con la regia di Mira Trai- lovic, la «Cuadra» di Siviglia «Herramientas», uno spettaco lo di Salvador Tavora che sfrutta gli utensili del lavoro quo tidiano e le sensazioni di ogni ora come segni di comunicazio ne per un teatro di lavoratori. Già nei precedenti lavori della «Cuadra» i gesti, i canti, le danze miravano a scoprire la chia ve di un linguaggio che emanava fisicamente dalla vita quo tidiana. Per l’autore, che è anche il proprio regista, questo ter zo spettacolo è la presa di posizione di una classe sociale al fine di elevare alla categoria di valori culturali di comunica zione i gesti del lavoro. I colombiani del teatro sperimentale di Cali hanno fornito tre esami di teatro impegnato: «Alla destra di Dio» di Enri que Buenaventura, da un racconto folcloristico di Carrasquil la sull’eterna lotta tra poveri e ricchi, «L’accusa», un lavoro collettivo sulle ricerche storiche che comincia dal 1929 con il dibattito, al congresso nazionale, sulle responsabilità del go verno e dell’esercito nel massacro perpetrato l’anno prima per reprimere il grande sciopero nelle piantagioni di banani dell’United Fruit Company, e «Vita e morte del fantoccio lu sitano» di Peter Weiss, sulle deformazioni collettive e indivi duali prodotte dal colonialismo e dall’imperialismo, ambien tato nell’Africa portoghese. I tedeschi occidentali hanno partecipato alla rassegna con il Theatermanufaktur di Berlino («Johann Faustus») di Hans Eisler, regia di Otto Zonschitz) e con il Freies Theater di Mo naco («Firmling & Co.» di Karl Valentin). George Froscher e i suoi cinque attori di questo teatro libero, con accompagna mento di «lieder» e d’orchestra, danno vita ad una tragicom media su una certa decadenza bavarese: è la storia intermi nabile e irresistibile di un vestito da prima comunione, rico struita da mostri piccolo borghesi sui trampoli. II Teatr Studio di Varsavia si è ispirato addirittura alla Di vina Commedia per un «Dante» messo in scena da Josef Szajne con musiche di Krysztof Panderecki. I russi, con il Lensoviet di Leningrado, hanno presentato «Una intervista a Buenos Aires, messa in scena da Igor Vladimirov. L’autore, il giornalista Genrick Borovik, ha scelto come tema gli avve nimenti del Cile basandosi sul racconto del collega cileno Carlos Bianco, emigrato in Argentina pur essendosi pronun ciato contro il governo di Allende ed essendo diventato in tal modo un alleato oggettivo della giunta militare e di Pinochet. I portoghesi del Comuna Teatro de Pesquisa hanno animato un testo del 1933 di José Gomes Ferreira sui viaggi meravi gliosi di Giovanni Senza Paura. Gli americani hanno inviato a Parigi il meraviglioso Bread and Puppet Theater con un bre ve spettacolo di Peter Schumann, «Giovanna d’Arco», esu berante di fantasia e di scherno nei confronti dell’oleografica eroina nazionale francese, e il New York Street Theater Ca ravan con un «Sacco e Vanzetti» di Marketa Kimbrell. L’Ita lia era presente con due spettacoli di Leo de Berardinis e Per la Peragallo, «Assoli» e «Tre juorni». La coppia più indipen dente e libera del nuovo teatro italiano, è stato detto a Parigi di questi due animatori che, dopo aver cominciato il loro la voro con Carmelo Bene e Menté Periini, hanno lasciato Roma per tornare nella loro Marigiano, vicino a Napoli. L.B. p r o r a I l v e r o S i l v e s t r i di Renato Mainardi dal romanzo di Mario Soldati. Regia di Renato Mainardi Interpreti: Lorenzo Grechi, Pa ride Calonghi, Adriana Alben, Riccardo Pradelia, Andrea Ti- dona, Adriana Di Guilmi, Natale Ciravolo Milano, Teatro Filodrammatica. di Odoardo Bertani Vent’anni fa, Mario Soldati pubbli cava un romanzo di buon successo: «Il vero Silvestri», di eco pirandellia na. Ora, Renato Mainardi l’ha mutato in commedia. Soppesiamo bene la struttura e contenuti. «Il vero Silvestri» è un romanzo in prima persona, nel quale, pratica- mente, si instaura un processo a un defunto: Gustavo Silvestri, appunto, torinese, letterato di poca fortuna, proprietario terriero senza vocazio ne, sregolato e ammalato, brutto e ti mido, umile e sognatore, simpatico e sempre perdutamente innamorato. Il romanzo racconta uno di questi amori, per la bellissima e volgare Aurora, e i giudizi su di lui formulati da costei e dal più caro degli amici, l’avvocato Pegrani. Per la donna, l’amore aveva indotto Silvestri a far si ricattatore, ad ottenere cioè — una volta — le sue grazie, in cambio del silenzio su una relazione, che doveva essere tenuta nascosta al marito (presunto) di lei; per il Pegra ni, tutte le prove addotte da Aurora erano una lettura cattiva e fuorviata di gesti e frasi innocenti, perché tut ta la sua esistenza stava a dimo strarlo. Del resto, non era egli con sapevole della prossima fine, e non era forse morto quindici giorni dopo averla avuta, tutta disprezzo, ira e schifo? Silvestri uno e due. Il nome di Pi- randello lo si pronincia persino a di sagio, anche perché non è nemme no un passaggio obbligato. Dell’uomo diviso e contraddittorio, fuori in un modo e tanti modi, dentro in uno e mille altri modi, ha qualche sapienza la Chiesa. E, converrà no tare (come non è stato fatto), che il problema pirandelliano della consi stenza individuale qui si trasferisce dalla sfera filosofica a quella etica, ponendosi il tema ulteriore di un’as soluzione o di una condanna. Ma il racconto scaturito e lieve, per usare una frase del De Robertiu, nel quale l’autore «ha saputo bene ammini strare, al di là del prestigioso nitore della lietteratura, il suo granello di Grazia» (Pampaioni), ha un terzo protagonista, che è il Narratore, I’«io» che rievoca, si batte in difesa dell’amico e, infine, pose se stesso in dubbio e in crisi. Il Pegrani — au tore scopre di essersi costruito un Silvestri di comodo: «Avevo rinun- ciato ad essere, il poeta disinteres sato, pazzerello, fedele alle tradizio ni, alla terra, ai ricordi santi della fanciullezza...». Chi era Silvestri? Un uomo, ecco tutto. E qui la finezza psicologica di Sol dati si fa rispetto per quel segreto, che a Dio solo è dato di conoscere (tema di una commedia di Fabbri), e riafferma la supremazia dell’amore, che non si appanna anche se cono scendo meglio il proprio oggetto, se ne sono intraviste zone d’ombra. Co noscere meglio gli altri significa, in fatti — aggiungiamo — conoscere meglio noi stessi, e capire che sia mo, nel bene e nel male, tutti fratelli, uguali. E il modo corretto d’amare gli altri non è quello di fissarli in una maschera amabile e fissa, ma di ac cettarli così come via via si dispon gono nella vita, nel flusso mutevole delle esperienze. Non il sentimento deM’amicizia (come voleva la Banti) è protagoni sta dell’opera; non il suo elogio, co munque, ma la sua critica. E le ana logie e differenze intrecciate tra Sil vestri e Pegrani confermano che l’uomo è uno spessore insondabile ed individualità. Nel romanzo, poi, lievita un tono di malinconia, perché tutti i personaggi si rifanno ad una condizione di solitudine, nessuno di loro reca in mano un bene proprio, una felicità di cui essere certi. Questo accento tenero è trasferito dal Mainardi nella propria elabora zione drammaturgica. Provvedutis simo scrittore di teatro («Antonio ne in una petizione a favore di Silve stri, quando egli deve essere ormai lasciato fuori, perché, a quel punto, va riconsiderato come strumento, in un certo senso, della morale sottesa al racconto. Da cui esce corposa di sofferenza e di dedizione la figura carnale di Aurora, che è anche una vittima della società, ma nella quale parve al Pampaioni di scorgere «un inatteso spazio religioso», in quanto «oscuro "momento” della realtà». Noi abbiamo piuttosto trovato il gri do di un diritto primigenio a vivere in dignità. Con la sicura professionalità e la duttile sensibilità di sempre, realiz zando uno spettacolo di chiaro det tato e di bel movimento, senza reto rica e senza smorfie, recitano Loren zo Grechi (che è, nei limiti.d’impo stazione generale sopraddetti, un efficace e plausibile Silvestri), Ric cardo Pradella (che ha il ruolo di Pe grani), Paride Calonghi Almagià, supposto marito di Aurora), Andrea Tidona (Romolo), Adriana Di Guilmi e Natale Ciravolo, con Adriana Al- ben, alle prese con la figura densa e vibrante di Aurora, da lei sostenuta con buon impegno. von Elba», «Giardino d’inferno» «A morte Roma»), il Mainardi ha steso un copione accuratissimo, e fedelis simo salvo nello scarto finale, quan do mette in bocca a Silvestri, in col loquio post-mortem con Pegrani, le meditazioni che, nel romanzo, sono direttamente di costui. Il procedi mento, forse inevitabile, è a flash back, e tiene assai cinematografico, conematografico, ossia volge all’espositivo, per la virtuorità morbi da e la curiosità indagatrice di un occhio chei non c’è. La pulizia e la precisione dei dialoghi, la loro asciuttezza e il loro esemplare colle gamento interno non evitano, nel primo tempo, zone di scarso dibatti to, una certa esilità di valori dram matici. Ma qui siamo già nell’area della rappresentazione, per la quale il raf finato impianto recitativo ordinato dal Mainardi stesso e assai corretta- mente eseguito non è forse la mi glior risposta teatrale. Quella che è un limpida, ma som messa animazione teatrale di un te sto occorreva, è un’ipotesi, fosse in vece un autentico punto di vista, cri tico prima e teatrale poi. Spalancare, cioè, o la farsa o il dramma, enucle are l’ipocrisia inconsapevole di un affetto, far emergere maggiormente l’ambiguità sovrana di tutte le epifa nie di quest’opera, accentuare il di vario tra Aurora e gli altri, e proble matizzare il dentro e il fuori degli al tri, evitando anche di cadere nel pa tetico e di trasformare la conclusio M e f i s t o v a l z e r di Sandro Bajini Regia di Tino Buazzelli Scene di Mario Buzzichelli Interpreti: Tino Buazzelli, Gian na Giachetti, Giampaolo Pod- dighe, Donato Castellaneta Milano, Teatro Nuovo. E Taide disse: «È l’uomo ora il Male» Questa perentoria afferma zione conclude la nuova commedia di Sandro Bajini, «Mefistovalzer», che Tino Buazzelli ha adottato per dare una fiammata nell’annoiato de clinare della stagione milanese di prosa, una delle più povere che si ri cordi. La scena è l’inferno, dove un avvilito Mefisto, molto simile a un al bergatore in vana attesa di clienti, lamenta una crisi d’anime dannate. A scoprire la ragione dell’interrotto flusso turistico, fedeli diavoli vengo no spediti sulla terra, dove anzitutto constatano l’universale diffusione del male: ma con tali ottime referen ze, gli uomini dovrebbero far la fila al botteghino del traghetto per Dite, ed invece muoiono senza correre, come dire?, tale rischio. La diavole sca perlustrazione — condotta, per essere esatti, solo in Italia, con Roma città preferita — si traduce in una amara peripezia, dalla quale si trae questa riflessione: la consuetu dine col peccato ha condotto a smarrire il senso della colpa; tutto appare lecito perché compiuto da tutti. I concetti di grazia o di condan na scivolano via dalle coscienze in durite e impenetrabili al rimorso. Non c’è più religione, e il primo a do lersene è Mefisto stesso, il quale, ar guendo che le cose non devono an dare meglio in Paradiso, si rivolge al Grande Antagonista che suppone egli pure senza gloria e con le stan ze non affittate, dichiarandogli di deporre l’antica inimicizia, di dimet tersi da Demonio. Dal profondo dell’inferno, sale verso il cielo quello che è probabilmente l’unico «Pater Noster» pronunciato, in quel mo mento, nell’universo. La commedia non ha nulla di se greto. È una malinconica ricognizio ne sull’abbassamento della pressio ne etica nel mondo; è la denuncia dell’abitudine tornaconto senza in terrogarsi sulla liceità morale dei propri gesti, e di un costume ormai estero tra la gente d’ogni livello; è una lamentazione suH’ottundimento degli spiriti. Sarebbe stato forse op portuno, posta coraggiosamente tale questione, di tentare una spie gazione alla scivolata generale; in secondo luogo, asserire che l’uomo è il Male, a parte la riserva su un’idea, che del resto traduce il pes simismo calvanista, e insomma si rifà a una vecchia discussione, por ta in un vicolo cieco, sigilla il discor so, e manda tutti a casa. In effetti, la commedia si riduce a cronaca, non è problematica, non contiene se non la stupefaczione per tanta polluzio ne di fango. Forse occorreva far in tervenire l’uomo a svelarsi in prima persona, e stabilire la scena sulla terra, dato che essa è divenuta la casa persa dei dannati. Idea cui al lude la scenografia, di Piero Buzzi- chelli, che adombra il colonnato di San Pietro e si corona in una cupola a sghimbescio, che è un suggeri mento ambiguo, così come la perlu strazione limitata all’Italia restringe nei termini di un pamphlet circa casi correnti quello che poteva essere uno scandaglio sulla condizione umana nelle sue tenzioni, nelle sue illusioni, nei suoi impoverimenti rap portati al senso del sacro. «Mefisto- valzer», tra resoconti e commenti, di mentica l’azione e la conflittualità, che sono i nervi del teatro. La commedia doveva a un certo punto essere, più che un esercizio di scritture, una presa di posizione. Il suo svicolare da ciò la rende illu strativa e anodina. Va atto, invéce, all’autore, di con durre con coerenza il discorso, for mulato nelle opere precedenti, sulla società contemporanea, un discorso mantenuto sul filo del paradosso, con una estrosità, che qui si annida tra le battute, di notevole finezza iro nica, di raccolto sapore, di sostenu ta incisività. Nessun funambolismo e un parlare piano, che tende a ren dere così accessibile la materia al pubblico, da farvelo trovare coinvol- Tino Buazzelli interprete de «Mefistovalzer» di Sandro Bajini. to, e insomma da renderlo destinata- rio vero, come ovviamente di fatto è, della commedia. La messinscena si sarebbe giova ta di una scelta stilistica rigorosa, che invece manca. Alla mancanza di dialogo filosofico poteva sostituirsi un’aggressività grottesca; al discor so indiretto che non fa commedia di costume poteva supplire un’intelli genza cattiva nella pronuncia. Inve ce, presominano affabilità e malin conia. Di recepibile standard pro fessionistico la prova degli attori. O .B. Franco Parenti in una scena di «Edipus» di Giovanni Testori. E d i p u s di Giovanni Testori Regia di Andrée Ruth Shammah Scene di Gianna Mario Fercioni Interprete: Franco Parenti Milano, Salone Pier Lombardo. «E adesso, sarà sù el sipario, spi- reto del teatro. La tragedia è fenida; fenida è la triloghia; et anca la ditta dei dittanti... la buonasira è per adesso et per sempris». Con un annuncio di ritiro e di si lenzio si chiude «Edipus» di Giovan ni Testori, traguardo di un lavoro co minciato con «Ambleto» e prosegui to con «Macbetto». «Edipus» è so stanzialmente un monologo, ossia: un discorso in prima persona, una presa di possesso del pubblico, spazio per ogni divagazione ed esal tazione di toni. Monologo è essere uno e tutti; è cacciare via gli altri e confessarsi senza più intermediari, con la libertà e l’arbitrio, però di ci tarli, di richiamarli in causa, di de porseli ai piedi. Prima, era canto e controcanto, era conflitto fuori; adesso, Testori dirige un giuoco delie parti in cui univocamente esplora e dichiara se stesso anche a nome di una vasta consorteria. Cronicizza la sua con sueta problematica del male — e to glie cosi, per questo temporalizzare, accorciandola, la visione del coesi stente, ogni spazio alla più esigua speranza — , facendosi portavoce degli emarginatin dei diversi, dello sterminato campo degli umiliati e of fesi o che tali si credono. C’è un ne mico duplice e possente: il Potere, quello civile e quello ecclesiastico, unificati — quasi per un compro messo storico demoniaco nella figu ra di Laio; ossia c'è una società con le sue leggi e, via via discendendo, le sue carceri. In verità — dice l’au tore — tutto è legaccio, divieto, pri gione, impedimento. Ed è contro questa asserita costrizione deviriliz- zatrice e permanente che Testori chiama a radunata la gente sin qui dominata e dispersa dalla paura, ed eccita a rivoltarsi, per conseguire una libertà d’essere e di fare «totali- ga ed universaliga», la cui esempli ficazione è da lui ampiamente espo sta nei termini di una valicazione di ogni remora; gli anarchici, al con fronto, sono dei conservatori. A ben vedere, par quasi di cogliere una contraddizione tra il Testori di ieri (... «e mondo e cielo et universo intrego; sono solo somiglianti/al buso senza luse e senza fine dell’in- ferna», epigrafava nel «Macbetto») e quello di oggi, che sembra antifo- scolianamente («Dal dì che nozze e tribunali ed are/diero alle umane belve esser pietose...»), una possibi lità d’esistenza felice antecedente l’ordinarsi civile o fuori da esso. Onde la perorazione finale, tron cata da una raffica di mitra — che è scoperto espediente ed esteriore soluzione — a fare rivoluzione — ma con i fiori e baci, eccetera —, in nome di Dioniso, il dio liberatore, il dio orgiastico e sfrenato, recuperato con arguta operazione culturale e contrapporre il proprio casato a quello tutto razionalità, sistematicità e forza asservitrice di Laio. (Un Dio niso, peraltro, invocato ad assistere, in attesa del suo regno, allo scempio del suo simbolo). Il protagonista letterario di «Edi pus» è uno Scarozante, vale a dire il superstite guitto di una girovagante compagnia dei primi del secolo, de dita naturalmente al genere tragico. Allo Scarozante è scappata persino la moglie, nonché la primaattrice: con un mobiliere di Meda, per giunta di umiliazione. Questo lo apprende remo un po’ più avanti, avendo già acquisito bene l’elaborazione dram maturgica dei dati trasmessi dalle tragedie classiche. Una elaborazio ne che mantiene in vita poco più dei nomi, e per certo non ha nulla a che fare né con la struttura dell’inchie sta, né col processo conoscitivo, né con gli stessi eventi dell’«Edipo» so focleo, al quale è inutile rifarsi. E, tanto per cominciare, ecco aver cor po e voce Laio, il padre di Edipo, qui inopinatamente vivo, nelle vesti di ti ranno di Tebe, re e pontefice massi mo, la cui presentazione non soffre di ambiguità, poiché lo vediamo far giustiziare — a brutale esempio di che cosa sia la società — e non sa ranno gli ultimi, tre uomini rei, rispet tivamente, di sacrilegio, offesa alla bandiera, e peccato contronatura. Questo terribile Laio ha poi a che fare con la Reina, parte che lo Sca- rozante, essendo solo, si assume, mescolando le vicende matrimonia li, con le relative rampogne, alle dif fusioni lamentazioni della medesi ma sul proprio stato. La rappresentazione sapiente- mente bislacca, continuamente in terrotta e accavallata nelle situazio ni, nelle passioni, avvampa con l’ar rivo di Edipus, che chiarifica sino in fondo l’assunto del testo, attraverso il compimento deliberato di azioni obrobriose e terrificanti, previste già dal mito e no, nei confronti del padre e quindi della madre. Assistiamo allo sradicamento dell’idea di padre-po tere; alla sua cancellazione fisica. Quel rifiuto della generatività che già si era manifestato, avendo per oggetto la donna, in Macbetto, qui ri fluisce sull’uomo e sui simboli di cui è portatore, o dai quali è indicato, una volta sottratto al rapporto istitu zionale e codificato con l’uomo-ma- rito, può diventare un rifugio di dol cezza, emblema di un’unione libera e tenera; l’incesto non è colpa — se condo Testori — che induca a espia re, ma vendetta suprema. E la se quenza laida vuol avere questo sen so di scherno definitivo verso ogni ordine costituito, per terminare in un singulto; «Desperati vehniamo in la luse? E che desperati mandiamo avanti la vita, ma senza nessuno che la Ughi, ce la ordini...». «Edipus» è, dunque, il grido dei subalterni, e la loro radunata. Testo- ri s’è fatto proselite di Fo. Subalterni questi guitti rispetto al professioni smo, e il teatro rispetto alla vita che gli dà scacco e lo interrompe, e la fa scia di Lombardia qui indicata ri spetto alla regione opulenta che si vanta, e la lingua stessa rispetto all’Italico idioma. È un testo politico, allora, un mani festo, e su questo aspetto contenu tistico non si può non prendere la di stanza più netta. Salvi tutti i diritti della favola, si può ben rifiutare il suo messaggio di scompaginazione, il suo negare sociale e il suo invoca re la disintegrazione, il ritorno a un mondo neppure numinoso, ma solo di slanci e aberrazioni del sangue. Né il recupero di medioevali allean ze tra Chiesa e Impero, anzi di egizie unificazioni di potere dà qualche forza di persuasività a quella che pare una sotterranea polemica sulle contingenti ipotesi di soluzione poli tica rimarginata ora a Roma. E ritrovare le reliquie di un sentire cristiano (naturalmente o meno) di venta difficile (quasi poi che gli altri siano da salvarsi per forza), perché lo sposalizio degli umili — nella più vasta accezione del termine — av viene senza offrire loro altro che se stessi, convalidando ogni gesto in una legittimazione che si garantisce solo e perché «ex-legge». Testori affida a tutte le possibili immagini legate alla fisiologia una forza estrema di turbamento: la de- scrittività non conosce ritegno, una minuziosa escogitazione di gesti di sconvolgente realismo si rovescia no sul lettore in questa strategia della dissacrazione. Ma è proprio si curo, Testori, che dell’uomo non sia rimasto più nulla? E che significano, allora, le pagine finali emozionate di tenerezza — e pare che siano le su perstiti di più estesa partitura, su tale tono — se non un bisogno di so pravvivere? L’esistenzialismo più negatore può bruciare la storia? E la bestemmia della vita può davvero ri suscitare Dio? Sul piano linguistico, assistiamo a una liberazione dagli impasti basati sulla parlata lombarda: codesta ri mane come plasma fonetico, ma Te stori opera creativamente, addive nendo a una succosa lingua perso nale, squisita di modulazioni e di suoni, esaltata da serie aggettivali, fluvialmente distesa e sonoramente orale; una lingua proprio ad alta voce. Che s’intride di reminiscenze folenghiane, che ridesta fantasie chagalliane, ma più spesso appare compiaciuta e sfrenata in iterazione e barocchismi e in una voluttà golo sa di stupire, nonché in un malato esibizionismo di coprolalia, metafo rica e no. Ma lo spettacolo curato, al Salone Pier Lombardo, da Andre Ruth Shammah decolora alquanto le gra vezze e le ossessioni del testo che, ridotto di forse metà, subisce una forte variazione di toni e quasi di in tendimenti. La recita è spesso inter rotta, e integrata da rapidi interventi, mentre Franco Parenti, finissimo re citante, sottolinea l’aspetto teatrale e volge in ironia e talora in parodia le varie parti, operando un sottile di stacco critico dalla retorica; oppor tunamente sorvola e alleggerisce e mette in evidenza l’uomo che sta sotto lo Scarozante, tenendo ben fermo il senso che si tratta di una falsa rappresentazione. In sostanza, quella di Testori-Laio è un delirio che nessuno sta veramente ascol tando. È Testori-Laio che popola di fantasmi una soluzione e in questo silenzio grida ogni rabbia e ogni pena. Arguti e dolorosi insieme sono i personaggi che evoca (e la figura della Madre, Giocasta, è certo la più drammatica), governandoli da fuori, quasi esponendoli come un Narrato re. L’impetuosità e la violenza visce rale di Testori sono mutate in una ra zionale «recita impossibile» tuttavia recitata a brani, lasciando che scor ra la malinconia di un derelitto, e consentendo così allo spettatore di incontrare qualcuno. L’interpreta zione di Parenti, entro il taglio regi stico così antidivistico, è un capola voro di lettura e di reinvenzione, è un recupero del tragico, al di là dal me lodrammatico. O .B. «L’Arialda» di Giovanni Testori, regia di Andrèe Ruth Shammah. L ’ A r i a l d a («I segreti di Milano») di Giovanni Testori. Presentato dalla ««Cooperativa Teatro Franco Parenti». Regia di Andreé Ruth Sham mah. Interpreti principali: Luisa Ros si, Iris De Santis, Cesare Ferra no, Bob Marchese, Hilde Maria Renzi. Scene e costumi di Gianmauri- zio Fercioni. Musiche di Fiorenzo Carpi. di Animili I ih iilin i Quasi la metà del bel programma di sala che la «Cooperativa Teatro Franco Parenti» mette a disposizio ne del pubblico in occasione di que sta ripresa de «L’Arialda» di Giovan ni Testori si occupa di un fatto di cronaca «nera» vecchio ormai di se dici anni: c’è anzi il testo completo dell’ordinanza del 24 febbraio 1961 con la quale l’allora Procuratore del la Repubblica di Milano, Carmelo Spagnuolo, disponeva il sequestro del testo e la sospensione degli spettacoli al Teatro Nuovo (era la Corrmaania Momlli-Stnnna nnn la regia di Luchino Visconti). Da notare che poi il Tribunale di Milano assol se Testori (e con lui l’editore Feltri nelli) e dunque varrebbe forse la pena di dimenticare quel fatto e tutta la relativa polemica e giudicare una buona volta il dramma di Testori per i suoi effettivi meriti — o demeriti — e non facendone la bandiera — o il capro espiatorio — di dibattiti e con trasti che poco hanno a che vedere con l’opera in se stessa. O forse, in sistendo su questi argomenti, si vor rebbe sottolineare quanto si sia mo dificata, in sedici anni, la sensibilità del pubblico e della magistratura o, se si preferisce, quel famoso «comu ne senso di pudore». In effetti l’ope ra di Testori, benché sia aspra fino a rendersi in molti punti volutamente sgradevole, non ferisce oggi più la sensibilità del cosiddetto «pubblico medio» ed anzi sul piano del pudore appare addirittura castigata rispetto a quanto offrono spesso i nostri te atri. C’è da aggiungere che, se nel testo non mancano appigli per le tendenze morbose di qualche regi sta, questo spettacolo si avvale in vece deH’intelligente opera di regia di Andreè Ruth Shammah che ha sa puto decisamente rifiutare la tenta zione del naturalismo o, peggio, del neorealismo, comunque rivisitato. I personaggi di Testori, in una generi ca periferia milanese degli anni ’50, sono malviventi, «balordi», prostitu- te, omosessuali: anche i migliori, co loro che vivono di un lavoro onesto, appaiono sbandati. Ma non si tratta, chiaramente, di fare il processo ad una specifica città o alla sua perife ria: la collocazione lombarda è per l’autore essenzialmente una scelta culturale attraverso la quale il riferi mento è molto più ampio e generale: è un discorso sulla profonda crisi di valori come l’hanno vissuta e la vivo no, in un’epoca di transizione, i «di versi», gli emarginati: prendendo la grande città come simbolo della nuova civiltà dei consumi, il «centro» rappresenta il nucleo di ricchezza, di potere, di affermazione sociale, lontano dal quale, in tanti cerchi che si allontanano sempre di più, perife ria vuol dire appunto emarginazione progressiva fino all’esclusione tota le. Comunque la regia di Andreé Ruth Shammah rifiuta chiaramente ogni compiacimento sui lati scabro si della vicenda e dei personaggi: ri mane, o piuttosto viene alla luce con totale chiarezza, il tema di fondo del testo, una disperazione assoluta, senza limiti e senza via d’uscita. È proprio questo che riesce difficile accettare nell’opera di Testori, pur rispettando naturalmente il suo di ritto ad esprimersi: persino quel poco di amore che circola fra taluni dei suoi personaggi diviene veicolo per l’odio da riversare su altri, per trovare gli strumenti per distrugger si a vicenda. Persino i morti sono chiamati in causa: neppure nei con fronti di un altro mondo dopo la mor- te — che ha una sua presenza in combente in molti momenti del dramma — c’è una apertura, ma continua invece l’odio, lo sforzo di farsi reciprocamente del male; non c’è perdono, comprensione, solida rietà neanche fra disgraziati, né da vivi, né da morti: insomma la rappre sentazione deH’inferno in questa vita e nell'altra, praticamente senza soluzione di continuità. Ci sarebbe una possibilità di denunzia sociale, di riferimento d’altronde ad una so cietà che ha sovvertito i valori della coscienza: ma c’è soprattutto un ri ferimento ad una crisi esistenziale interiore: la stessa disperazione to tale dell’«Arialda» è possibile rin tracciarla, in termini sostanzialmen te identici, in altre opere di Testori di ambientazione alquanto differente: dunque l’autore ci parla in fondo so prattutto del suo inferno personale. Fu a suo tempo motivo di scandalo il fatto che l’unico spiraglio di questa tragedia (definito addirittura come il momento delia purezza) fosse nell’affetto ambiguo di Eros per Lino: eppure questo è il momento meno risolto del testo, il punto, nella disperazione finale di Eros per la morte di Lino, dove il dramma supe ra le righe e rischia di cadere nel melodramma. È la conferma che non possono esserci aperture in questa visione di disperazione, che rimane d’altronde esclusivamente un mo mento della crisi esistenziale di Te stori, senza una vera possibilità di estensione ad un ambito sociale o comunque al di fuori della dimensio ne interiore. Al servizio di questo testo la «Coo perativa Teatro Franco Parenti», as sente per l’occasione lo stesso Pa renti, pone un gruppo di attori il cui nome risulterà magari semiscono sciuto al grosso pubblico ma che si impongono tutti, dalla protagonista Luisa Rossi a Cesare Ferrario, a Iris De Santis, Bob Marchese, Hilde Ma ria Renzi e via via tutti gli altri, per la professionalità, l’aderenza anche fi sica ai personaggi e l’affiatamento. Ci sarebbe da aggiungere che, in occasione del debutto romano dello spettacolo, Parenti, Testori e Andreé Ruth Shamman hanno tenuto un’in teressante conferenza stampa il cui argomento principale ha finito per essere la funzione della cooperativa e del suo punto di riferimento, il «Sa lone Pier Lombardo», nel contesto teatrale milanese e lombardo: è in sostanza il discorso sul teatro come insediamento culturale in riferimen to (ed eventuale polemica) agli Sta bili ed alle altre idee che si agitano attualmente sul tema: ma di questo — non sarebbe possibile liquidare in poche righe un argomento di tan ta importanza — ci occuperemo più seriamente in altra occasióne. Fioretta Mari e Turi Ferro in una scena de «Il consiglio d’Egitto» di Leonardo Sciascia, riduzione teatrale di Ghigo De Chiara, regia di Lamberto Puggelli. ferenti strati della società siciliana in un’epoca di transizione destinata ad incidere così profondamente su gli avvenimenti futuri. Non è questa la sede per valutare il romanzo di Sciascia, ma per quan to riguarda lo spettacolo ai Puggelli bisogna dire che non si va oltre un’illustrazione colorita e vivace ma priva di spessore: Turi Ferro co struisce con il consueto mestiere il personaggio di don Velia, ben se condato dal resto degli altri inter preti, ma la vicenda teatrale rimane nell’ambito di una caratterizzazione abbastanza superficiale: un fatto in solito e abbastanza divertente in un’ambientazione un po’ di maniera, niente di più, mentre le maggiori am bizioni rimangono allo stadio di semplice intenzione. A.L. I l C o n s i g l i o d ’ E g i t t o di Leonardo Sciascia. Adattamento teatrale di Ghigo De Chiara. Regia di Lamberto Puggelli. Interpreti principali: Turi Ferro, Tuccio Musumeci, Piero Sam- mataro, Fioretta Mari, Umberto Spadaro, Vincenzo Ferro, Raf faele Giangrande, Diego Mi- cheiotti, Andrea Bosic. Scene e costumi di Roberto La- ganà. Musiche di Dora Musumeci. Le storie siciliane di Leonardo Sciascia hanno tutte più o meno come punto di riferimento il gioco del potere, nelle sue diverse e con trastanti manifestazioni ma soprat tutto sotto il profilo negativo del van taggio di pochi a danno di molti: al cuni individui provvisti di coraggio e di fantasia cercano di minare le fon damenta di questo edificio apparen temente sempre pericolante, ma di solito finiscono schiacciati. Non fa eccezione a questa regola il roman zo «Il Consiglio d’Egitto» (ora pre sentato dallo Stabile di Catania in versione teatrale con l’adattamento di Ghigo De Chiara e la regia di Lam berto Pugelli), sia pure con qualche risvolto del tutto particolare: la vi cenda si svolge dal 1782 al 1 785 ed è storicamente autentica, anche se la fantasia dell’autore si è esercitata con qualche libertà specie nel dise gno psicologico dei personaggi: è la storia di un prete maltese trapianta to a Palermo, don Giuseppe Velia, che, sfruttando la sua conoscenza della lingua araba, che nessun altro conosce a Palermo, afferma di aver ritrovato e tradotto due antichi codi ci arabi (appunto «Il Consiglio d’Egitto» ed inoltre il «Consiglio di Sicilia») che documenterebbero l’in fondatezza di buona parte degli an tichi diritti e privilegi feudali vantati dai nobili sicialiani. Naturalmente sull’autenticità dei documenti si ac cende una pluriennale questione, ma la furbizia del prete maltese ha la meglio su tutti i trabocchetti prepa rati dai rivali; alla fine però, quando nessuno oserebbe più discutere, è lo stesso don Velia a rivelare spon taneamente l’inganno perché «il mondo non si cambia con le impo sture». La storia di un imbroglio, dunque: ma un imbroglio che è opera di raf finata cultura ed anche, per certi versi, di poesia, con motivazioni di giustizia sociale; quella stessa giu stizia sociale che, in quel particolare momento della storia siciliana, altri — dal viceré Caracciolo all’avvocato «giacobino» Di Biasi — perseguono certo con maggiore incisività; ed è evidente ambizione del romanzo e poi dello spettacolo fare un po’ il ri tratto, magari in controluce, dei dif I l n i p o t e d i R a m e a u Di Denis Diderot Riduzione e regia di Gabriele Lavia Interpreti: Roberto Helitzka e Toni Garrani Scene e costumi di Giovanni Agostinucci Giusto di questi tempi, l’anno scorso, ci capitava di dare notizie su queste stesse colonne di una finis sima edizione teatrale de «li nipote di Rameau», presentata a Spoleto, in San Nicolò, da un gruppo francese: su questo stesso «dialogo» utilizzato in prospettiva teatrale si è cimentato ora Gabriele Lavia, in uno spettacolo (Lavia ha curato la riduzione del te sto ed ha inoltre firmato la regia) che non assomiglia in alcun modo a quello visto a Spoleto, eppure lo ri corda in quanto comunica un’analo ga sensazione di chiarezza, nello sforzo per una razionalità particolar mente limpida e incisiva. L’argo mento è noto: il personaggio del «fi losofo», che rappresenta natural mente l’autore, Incontra al «Caffè della Reggenza» Jean Francois Ra meau, musicista di modesta fortuna e nipote di un altro musicista molto più illustre, il famoso Jean Philippe Rameau. In realtà questo Rameau nipote è un parassita che vive d’espedienti, quasi a livello di un buffone alla tavola dei ricchi: non manca però d’intelligenza e addirit tura di una sua «morale» del tutto particolare. Nel testo di Diderot c’è materia per un panorama quasi completo di tutta un’epoca nei suoi risvolti morali, politici, sociali, esteti ci; poi naturalmente ciascuno tende a mettere l’accento su un aspetto piuttosto che un altro: Lavia sembra interessato soprattutto all’interro gativo etico, che assume poi la di mensione di problema esistenziale per i suoi personaggi: «Solo chi è onesto può essere felice; ma come accade allora che spesso che è one sto non sia felice e che molti che sembrano felici non siano onesti?». Soprattutto su questo tema si svolge nello spettacolo lo scontro fra il «fi losofo» e Rameau, quasi una partita a scacchi come sembra suggerire la bella scena immaginata da Giovanni Agostinucci. Il pregio principale del la regia di Lavia è di aver saputo dare forma nitida e incisiva al dibat tito d’idee che costituisce il conte nuto e addirittura la ragion d’essere dell’opera di Diderot; col difetto però di aver sbilanciato un pò troppo l’azione, almeno in termini teatrali, verso il personaggio Rameau, al quale dà eccezionale risalto un otti mo Roberto Herlitzka, mentre Anto nio Garrani non riesce invece a con ferire un egual peso al personaggio, altrettanto essenziale nell’economia dello spettacolo, del «filosofo». A.L. Roberto Helitzka e Toni Garrani in una scena de «Il nipote di Rameau» di Denis Diderot, regia di Gabriele Lavia. M a h a g o n n y Di Bertolt Brecht e Kurt Weill Regia e impianto scenico di Vir gilio Puecher Interpreti principali: Daisy Lu mini, Roberto Antonelli, Renato Campese, Edoardo Nevola, Eri- na Gambarini L’autore, Bertolt Brecht, definiva «Mahagonny» (questo il titolo della prima versione del 1927, composta in occasione del festival di Baden- Baden: più conosciuta comunque la versione presentata a Lipsia ne 1930 con titolo «Ascesa e caduta della città di Mahagonny») «opera culinaria»: non è che questo agget tivo avesse necessariamente signi ficato dispregiativo, ma si capisce come lo stesso Brecht non com- Roberto Antonelli e Daisy Lumini in «Mahagonny» di Bertolt Brecht e Kurt Weill, regia di Virginio Puecher. prendesse questo «libretto» musi cato da Kurt Weill fra le sue realizza zioni più importanti. D’altronde poco e nulla aggiunge alla fortuna di que sto testo l’edizione curata da Virgilio Puecher con la «Cooperativa Tea trale dell’Atto»: cinquant’annl fa o anche soltanto nell’Immediato do poguerra poteva sembrare rivoluzio nario — naturalmente in senso tea trale — l’incontro fra le canzoni di Weill, la recitazione «caricata» se condo i canoni appunto della scuola «epica» brechtiana, un continuo rit mo di balletto (magari sul genere «tip tap») e la carica polemica di fon do: Mahagonny (che significa «trap pola»), la città del piacere dov'è leg ge «fai quello che vuoi» come simbo lo del sistema capitalistico america no. Ma da allora è passato troppo tempo e troppo teatro: di Brecht (magari musicato da Kurt Weill) se n’è visto tanto, fin troppo, e comun que in molte occasioni a ben altri li velli di invenzione e di originalità. A questo punto lo spettacolo di Pue cher può al massimo aspirare ad una collocazione nel filone del «revi val», della moda anni ’30 e comun que al livello di una copia abbastan za sbiadita: anche in questo specifi co settore si sono visti spettacoli più originali e stimolanti. Decorosi e nul la di più gli interpreti: i migliori sono sembreti Edoardo Nevolo e, soprat tutto per le doti canore, Erina Gam- barini. A.L. L e n o t t i b i a n c h e di Franco Enriquez dal racconto di Fèdor Dostoev- kij Regia di Franco Enriquez Interpreti principali: Valeria Mo nconi, Franco Enriquez, Paolo Pigozzi, Alessandro Scara muzza, Massimo Palazzini, Alessandro Vagoni Scene di Sergio Tramonti Costumi di Efena Massimini Pantonime di Marise Flach Il racconto di Dostoevskij «Le notti bianche» fu pubblicato per la prima volta nel dicembre 1848: allora Le ningrado si chiamava ancora Pietro burgo e la popolazione aveva l’abitu dine — che crediamo ormai del tutto dimenticata — di abbandonare pra ticamente la città al venire della pri mavera e del fenomeno conosciuto appunto come «notti bianche», il chiarore che, in quei mesi dell’anno, si prolunga anche durante le ore notturne. In questa Pietroburgo par ticolare, praticamente deserta e av volta in una luce spettrale, si aggira no e si incontrano — secondo il rac conto di Dostoevskil — «il sognato re» e Nasten’ka: sono immagini che hanno già preso vita sia in palcosce- nico che sullo schermo cinemato grafico e sulle quali si cimenta adesso Franco Enriquez, tornato al teatro «privato» — dopo la plurien nale parentesi del Teatro di Roma — con la vecchia etichetta della «Com pagnia dei quattro». Sul palcosceni co del Teatro Quirino di Roma «il so gnatore» è proprio lo stesso Enri quez (che nell’occasione debutta anche come attore) mentre Na- sten’ka è Valeria Monconi. «Le notti bianche» rappresentano — secondo Angela Maria RipelIino — Il punto « in cui giugono al culmi ne le tendenze romantiche del primo Dostoevskij». Ed infatti siamo abi tuati ad immaginare «il sognatore» come una figura essenzialmente poetica e romantica. Secondo la ver sione di Enriquez, invece, questo personaggio è sicuramente un timi do che nasconde risorse poetica, ma nel senso di un ragazzone piut tosto impacciato, per certi versi de cisamente bisbetico: uno «zitellone» un pò ridicolo, legato alle sue picco le fissazioni, seppure pieno di buoni sentimenti e capace di commozione e di generosità, che, anche per darsi un tono, si nasconde dietro frasi ad effetto e giri di parole di sapore let terario. Insomma non proprio un’im magine tutta di poesiama piuttosto una presenza concreta fra il goffo e Il patetico, sia pure con una grande potenzialità di tenerezza: il perso naggio veramente romantico è sem mai Nasten’ka che Valeria Monconi propone quasi in bilico fra una di- mensione reale, con slanci ed esita zioni, malinconie improvvise e scop pi d’allegria cristallina, ed una crea zione di pura fantasia, una proiezio ne dei più riposti desideri del «so gnatore». Sempre dalla fantasia del «sognatore» escono tutte le immagi ni colorate — magari a tinte fosche come altrettanti incubi — che riem piono il distacco fra i diversi mo menti del suo dialogo con Ne- sten’ka: le figure più ricorrenti sono quelle delle maschere della «Com media dell’Arte», Colombina, Pierrot, Arlecchino, e dunque, man mano che procede il processo di identifi cazione, il protagonista è soltanto un burattino un pò legnoso nei mo vimenti, un impacciato Pierrot che non riesce ad esprimere compiuta- mente tutta la carica di tenerezza e di poesia che porta dentro. Di fronte ad Arlecchino, spigliato e sicuro di sè, Pierrot non ha speranza: Colom bina si lascia consolare allorché si crede abbandonata dall’altro, ma appena questi ricompare accorre al suo richiamo con appena una punta di compassione per il povero Pier- rot-sognatore. Ma d’altra parte, come sembra suggerire il finale, il destino del «sognatore» è di essere solo, magari con un ricordo in più da aggiungere al suo bagaglio di fanta sie. Nella veste d’interprete e nei diffi cili panni del protagonista Enriquez stenta un pò a trovare i toni giusti: il confronto con una Valeria Moriconi in stato di grazia è ingeneroso e sa- Franco Enriquez e Valeria Moriconi ne «Le notti Bianche», testo e regia di Franco Enriquez dal racconto di Dostoevskij. rebbe interessante approfondire i motivi (non solo quelli economici del costo di un’attore di grido) che spin gano un regista come Enriquez a percorrere, in senso inverso, la stes sa strada battuta da molti attori alla ricerca deH’uomo di teatro «totale». Però nel bilancio finale e complessi vo dello spettacolo il personaggio che Enriquez si è autoaffidato è co munque una «presenza» precisa e concreta e questo non è in ogni caso un risultato da poco per un debut tante alle prese con una parte tanto impegnativa. . . A.L. D i n o C a m p a n a e S i b i l l a A l e r a m o : u n a m o r e di Adolfo Lippi Regia di Adolfo Lippi e Luigi Sportelli Interpreti: Luigi Sportelli e Isa bella Guidotti Scene e costumi di Maurizio Pa iola Musiche di Carlo Savini Genere pericoloso le coppie lette rarie, specialmente in teatro: già è abbastanza difficile sostenere uno spettacolo su due soli personaggi, ma le difficoltà crescono a dismisu ra quando si vogliono portare in sce na un poeta come Dino Campana ed una scrittrice come Sibilla Aleramo: c’è tutta una serie di rischi che van no dal disperdersi in una rievocazio ne troppo minuziosa dei fatti e delle persone all’essere travolti da un mare di poesia più o meno autenti ca: da un estremo all’altro, il pericolo è soprattutto di perdere di vista il te atro, sia pure a favore di generi — come la letteratura — magari altret tanto nobili, ma che hanno la loro Isabella Guidotti e Luigi Sportelli in «Dino Campana e Sibilla Aleramo: un amore» di Adolfo Lippi sede lontano dal palcoscenico; bi sogna invece riconoscere che i per sonaggi proposti da Lippi e da Spor telli (Adolfo Lippi è l'autore del testo, tratto essezialmente dall’epistolario Campana-Aleramo, mentre Sportelli firma — insieme allo stesso Lippi — la regia e si riserva inoltre la parte del protagonista) riescono a rag giungere una loro precisa dimensio ne teatrale: da una parte il tono vo lutamente esagitato, a momenti al li mite dell'Isterismo, del poeta «paz zo» o comunque in continua lotta con la pazzia, in completo contrap posizione con la lucidità, la tranquil la pacatezza della protagonista fem minile. Questa lucidità, questo equi librio, rischiano però continuamente di essere travolti dagli assalti che l’altro conduce fino a mettere a nudo come certi atteggiamenti di sicurez za, di distacco siano solo un rifugio in cui proteggersi da tante paure più o meno inconfessate: mentre la con tinua aggressività, la provocazione che il «pazzo» conduce con logica sottile fino all’illogicità completa delle parole in libertà o del turpilo quio gratuito, nascondono non tanto la facile posa del poeta «maledetto» quanto un analogo bisogno di dife sa, di protezione. Mentre questi due personaggi si scontrano sul piano della loro vicen da personale, appaiono di sfondo tutta una serie di precisi riferimenti storici, sociali e culturali: l'Aleramo nel suo impegno politico e sociale e nella sua veste di prima femminista «ufficiale», Campana come conte- statore dell’apparato culturale dell’epoca, Papini, le «Giubbe Ros se», il futurismo. La scena, semplicissima (un in crocio di pareti bianche), può rap presentare — almeno inizialmente — un ambiente del manicomio di Ca stel Pulci dove Campana passò gli ultimi quattordici anni della sua vita, ma non c’è vincolo di tempo e di spa zio: contro lo sfondo bianchissimo i due personaggi creano un gioco di immagini particolarmente suggesti vo ed è singolare rilevare come un esempio tipico di teatro di parola si proponga contemporaneamente, in linea con i canoni di certa sperimen tazione, come teatro d’immagine. In questo senso i due interpreti (ac canto a Luigi Sportelli la brava Isa bella Guidotti) si impongono anche per l’aderenza fisica ai personaggi loro affidati, non come erano magari nella realtà ma come possiamo im maginarli con gli occhi della fanta sia, che sono poi quelli che contano nella dimensione teatrale. A .L. L ’ a s o c i a l e Riduzione e adattamento di Va lentino Orfeo e Giorgio Polac co da «Baal» di Bertolt Brecht Regia di Valentino Orfeo Collaborazione alla regia di Giorgio Polacco Interpreti: Laura Cepeda, Fran ca De Monti, Orazio Donati, Olga Durano, Gino Masina, Va lentino Orfeo, Diego Pesaola, Riccardo Valesi, Tatiana Win- tler, Bruno Zeni. Scene di Emanuele Luzzati Costumi di Luciana lannace Un Brecht giovanissimo quello che, nel 1918, compose «Baal»; già nel 1919 però l’autore preparava una seconda versione di quel testo, mentre una terza rielaborazione è del 1920, una quarta dei 1926 ed una quinta del 1955. Come ideale continuazione di questa linea Gior gio Polacco propone ora una sua ul teriore personale rielaborazione, prendendo come punto di riferimen to soprattutto la prima versione del 1918: c’è da precisare che Polacco ha immaginato questo testo già di rettamente in funzione dello spetta colo che ne avrebbe tratto Valentino Orfeo con il suo gruppo «Teatro La voro» e anche da questo riferimento alla «napoletanità» d’Orfeo è certa mente nata l’idea d’ambientazione napoletana di questo ultimissimo «Baal», divenuto «L’Asociale» sulla base del sottotitolo indicato dallo stesso Brecht. Siamo dunque a Na poli (come ci ricorda del resto un co stante sottofondo musicale di cele bri canzoni da «O sole mio» a «Core ingrato») intorno al 1930: il poeta Baal si muove fra il sottoproletariato dei «bassi» ed i nuovi ricchi della speculazione edilizia: il suo rifiuto nei confronti della Società non ha il rigore tipico di altri personaggi bre chtiani e si riduce in sostanza ad un vitalismo egocentrico al limite della bestialità. Il vino, il cibo, le donne (magari strappate ad un’amico e spinte poi al suicidio), fino al delitto ed alla morte che è poi sostanzial mente autodistruzione: più che a Brecht viene da pensare a Wede- kind, ma ancora una volta senza una sufficiente chiarezza di motivazione, quasi a livello di melodramma grot tesco. Non è d’altronde che l’am- bientazione partenopea giovi real mente ad una migliore comprensio ne di quelle motivazioni: i presuppo sti dell’operazione culturale imma ginata da Polacco sono chiari e ben riconoscibili in tutta una serie di ci tazioni e riferimenti, però non riesce, nonostante lo sforzo di Orfeo e degli altri attori ed il bell’impianto scenico di Emanuele Luzzati, la fusione di questo materiale in un momento te atrale organico. Valentino Orfeo in siste molto, nelle note di regia, sul concetto di «esperimento»: ma il problema è proprio che, intesa in Orazio Donati e Valentino Orfeo in «L’Asociale» di Giorgio Polacco e Va lentino Orfeo da «Baal» di Bertolt Brecht. questo caso la sperimentazione come raccolta ed elaborazione di materiali di origine eterogenea, non emerge poi da tutto questo materia le quel discorso chiaramente artico lato che si poteva ragionevolmente attendere. A .L. I l a n c i a t e r i d i c o l t e l l i di Miklós Hubay Adattamento di Luciano Codi- gnola Traduzione di Umberto Albini Regia di Antonio Salines Interpreti: Marina Malfatti, An tonio Salines Scena di Giancarlo Bignardi di Dante Cappelletti Di Miklós Hubay, fino ad oggi, era noto al pubblico italiano «Nerone è morto», messo in scena da Aldo Trionfo per lo Stabile di Torino. Dello stesso autore, Einaudi aveva pubbli cato nel 1962 «Solo loro conoscono l’amore»; la casa editrice Lerici, nel 1958 e nel 1957, «È la guerra» e «I lanciatori di coltelli». Quest’ultima commedia ha, ora, preso anche for ma scenica. Nello scrittore ungherese Hubay sono sempre presenti le tematiche e le motivazioni politiche, accanto ad atmosfere tragiche e dolenti. Queste ultime, però, non avrebbero una spiegazione se non fossero poste all’interno di una logica generale (che, poi, in definitiva, è quella della storia). «I lanciatori di coltelli» non è soltanto la storia di una coppia; è soprattutto lo spaccato di due vite, colte nel tragico momento della ri volta e successiva repressione, in Ungheria, nel 1956. Il passato di questi due esseri, torturati da sottili e reciproci rancori, ha poca impor tanza. Ogni dimensione del ricordo sembra appassirsi di fronte alla re altà del presente: non c’è niente che si possa salvare — almeno così sembra — in questa coppia quasi abbrutita dal silenzio deH’amore. Anche la perdita del figlio, durante i tragici avvenimenti del ’56, non rap presenta un motivo perché i due si possano di nuovo incontrare. Il tema centrale di questo dramma è il tradi mento. Lui e Lei sono traditi dalla Storia: le speranze di un mondo mi gliore e nuovo sono andate perdute. Gli amici hanno approfittato del mo mento buono, offerto dalla rivoluzio ne, per andarsene fuori dalla loro patria. Anche lui spererà di andarse ne, fino all'ultimo momento, quando di accorgerà che tutto, ormai, è sen za senso. La stessa speranza di un amore da poter dividere insieme è ri sultata un altro inganno. In questo buio di affetti e sentimenti non rima ne che la finale rassegnazione: vive re una vita insieme, senza amore e senza slanci emotivi, forse nella quotidiana routine e nel piatto gri giore di una società senza scampo. «I lanciatori di coltelli» è un dram ma che si sviluppa su due piani: quello storico e quello esistenziale. Tutti e due i momenti, però, si fondo no in un’unica direzione, che è data da una strana forma di necessità, come fatto che sembra prescindere dalla volontà degli individui. L’adattamento di Luciano Codi- gnola ha voluto sottolineare soprat tutto la categoria storica, ricono scendo in essa la forma unitaria di tutta la vicenda. Questo elemento viene sottolineato anche dal muo versi degli episodi privati su di un quadro pubblico, da dove è possibi- lecogliere i diversi modelli di un’uni ca unità di misura. Gli interpreti sono molti bravi: Sa- lines dà una prova ricca di sottili sfumature psicologiche, accanto ad una Malfatti sicura e convincente. La regia, asciutta e precisa, è sem pre di Antonio Salines: da lui pos siamo aspettarci lavori senz’altro positivi. Marina Malfatti e Antonio Salines nella commedia di Miklos Hubay «I lanciatori di coltelli», regia di Antonio Salines L a p a r t e n z a d e l l ’ a r g o n a u t a di Antonello Agliotti, Marcello Panni, Memé Periini «Compagnia La Maschera». Gian Carlo Anichi ni, Betty Berr, Bettina Best, Clau dine Etienne, Dominique Koot, Franco Mazzi, Massimiliano Mitia, Tossella Or, Antonio Orfano, Lore dana Binda, Paola Puccini, Vittorio Vitolo, Vanessa Tamburi. Ensemble Teatromusica di Roma: Donella del Monaco, Carol Pianta- mura, John Patrick Thomas - can tanti Massimo Pari, viola; Luigi Lanzillotta, violoncello; Ciro Scar poni, clarinetto; Massimo Bartolet- ti, tromba; Giancarlo schiaffini, trombone; Fabio Maestri e Frédéric Rzewski, tastiere di Maurizio Liverani Memé Periini viene spesso acco stato a Federico Fellini forse perchè entrambi si muovono, nelle loro ope re, nel clima dei ricordi. Denomina tore comune un certo stato nostalgi co. Probabilmente questo accosta mento è soltanto per comodità dei giornalisti. Sia Periini che Fellini sono romagnoli. C’è da dire che l’uno e l’altro hanno fiducia nel sus surro anteriore che proclama l’im portanza, l’onnipotenza, dell’incon scio e sia l’uno che l’altro intridono le loro opere di morte emozioni e di morti ricordi. Con Memè Periini schegge, fram menti, evocazioni arrivano sulla sce na senza logica. Come costante, c’è nel teatro di Periini la lotta contro la ragione e la società in nome della frammentazione e della negoziazio ne dell’interezza. Il teatro si confer ma con lui, approdo dei ribelli che non trovano liberazione diversa da quella delle scene. I germi del ma lessere, della confusione, del disor dine e della follia portano alla sfidu cia nel teatro di dialogo (di linguag gio) nel quale il testo è elemento pri mario, per una valorizzazione di un teatro dei sensi. Il primo può essere chiamato «dramma», il secondo «opera teatrale» nella quale la posi zione egemonica non è più quella dello scrittore che ha steso mate rialmente le parole, affidate agli at tori e inscenate da un regista, bensì di un «creatore» che — per citare Ar- taud — è la «persona che controlla il maneggiamento diretto del palco- scenico». L’arte del regista è, come nella «Partenza dell’Argonauta», un’arte fisica, i cui strumenti sono i corpi de gli attori, gli oggetti di scena, le luci e la musica. E ciò che Memè Periini ha messo insieme è particolarmente brillante e inventivo: il ritmo della re gia, i costumi, le scene d’assieme. In ogni particolare dello spettacolo — di cui uno degli elementi è la musica di Marcello Panni con archi, trombe e tastiere — c’è una inesauribile in ventiva materiale, un implacabile di scorso ai sensi. Nell’interrotto virtuosismo con il quale Periini manovra gli effetti sce nici, c’è qualcosa che non richiede, però, di essere ricevuto soltanto a li vello sensoriale. C’è nella «Partenza dell’Argonauta» un’idea: la ricrea zione e de-poetizzazione del flusso dei ricordi. La trappola della nostal gia va in frantumi e non restano che briciole. Periini, consciamente o incon sciamente, mette a frutto la lezione di Artaud il quale affermava che non è sul piano sociale che si svolge l’azione del teatro e men che meno sul piano etico e psicologico». Nien te discorsi, niente analisi; l’impor tante è il contagio sensoriale che svegli negli spettatori emozioni re stituendo loro la capacità di risenti re quel murmure indistinto che è ciò che ci rimane dell’infanzia e del pas sato. La rappresentazione così conce pita non può aprirsi alla pittura psi cologica e dialogica dei personaggi, ma è una forma di incantesimo come quello che evocano antichi riti. Le idee sono qui stimolanti sensori; possono cioè funzionare come sce nografia, attrezzi scenici, materiali per i sensi. In questo caledoscopio che è «La partenza dell’Argonauta» (dedicata allo scrittore, pittore, mu sicista Alberto Savinio) non c’è nulla che requisisca il cervello ma molto che accaparri l’emozione. In quel gran bussolotto in cui Periini coa diuvato, oltre che dalla musica di Panni, dalle pennellate sapienti e dalle luci e costumi di Antonello Aglioti, si rincorrono, si accavallano memorie che hanno echi nello spet tatore, non con la strategia crepu scolare dei ricordi avvolti nel lamen to e nel piagnisteo; ma con gioiosa ribalderia distruttrice. Due scene di «La partenza dell’Argonauta», regia di Memè Periini, direzione musicale di Marcello Panni e scene e costumi di Antonello Agliotti. M a t i l d e S e r a o a u t r i c e d r a m m a t i c a no ta a cu ra d i D o m e n ico e G iuseppe R ig o tti Può sembrare strano, ma Matilde Se rao, che fin da bambina aveva dimostra to di essere grande appassionata di tea tro, tanto che nella sua Napoli non per deva mai una recita al San Carlino e, più tardi, non mancherà mai ad una «prima» importante, amica di Virginia Marini e di Eleonora Duse, non si occupò mai seria mente di teatro. E ancor più strano appa re, se si considera che nella sua vasta opera di narratrice artigianale il dialogo è sempre presente come espressione di vita e di verità. Solo una volta, a Parigi, tentata, anzi tentatissima, si lasciò persuadere di scri vere un dramma. Un dramma non desti nato a fare storia ma che ricordiamo qui non solo come uh aneddoto curioso, ma come un episodio della sua carriera di scrittrice che merita di essere conosciuto. Appunto a Parigi — erano i primi anni del secolo — ad una serata in casa della Rèjane, la diva sugli scudi del momento, le presentarono un romanziere che per la verità non aveva nulla a che vedere con Paul Bourget al quale donna Matilde aveva dedicato il suo romanzo verista, e certo una delle sue cose migliori, «Suor Giovanna della Croce». Il romanziere era Pierre Decourcelle, autore di un fa moso romanzo d’appendice, un fortuna to «feuilleton» che i francesi lessero pri ma della grande guerra e ancor dopo non senza una epidermica commozione: «I due derelitti». Della Serao, Decourcelle aveva letto «Dopo il perdono» che «La Nuova Antologia» aveva offerto al let tore italiano in dense puntate. Forse uno dei romanzi meno riusciti della nostra scrittrice, ma tuttavia non privo di una sua tematica femminista (anche se il ter mine era allora «ante litteram») merite vole di qualche attenzione. Soprattutto, Decourcelle espresse alla nostra romanziera la sua ammirazione per come era riuscita ad esprimere nelle sue pagine l’intima angoscia dei due pro- tagonisti (un Tristano ed Isotta borghesi e senza eroismo) a cogliere la verità drammatica delle loro anime, e le suggerì pertanto di trarne una versione teatrale. Gentile, la Serao, rispose al collega d’Ol- tralpe che la proposta la lusingava, ma che lei non era nata per scrivere per la scena. Decourcelle insistette e le propose la sua collaborazione. La proposta venne alla fine accettata. Sotto, naturalmente ci doveva essere rinteressamento della stessa Rèjane che nel ruolo di Maria Guasco, la protagoni sta, aveva visto un personaggio adatto al suo talento. 11 dramma dunque venne steso a due mani, ed in brevissimo tempo. «Dopo il perdono» (anche la commedia conservò lo stesso titolo del romanzo) fu rappre sentato la prima volta a Parigi al Théâtre Rèjane il 19 novembre del 1907. Attori principali, oltre a Gabrielle Rèjane, Pier re Magnier, Duquesne, Signoret. Sull’esito non si sa molto. 11 dramma venne applaudito ma subito dopo passò fra le commedie destinate ad essere di menticate. Tuttavia Donna Matilde, contagiata dalla recitazione della Rèjane, alla quale lo aveva dedicato («A Gabriella Rèjane, con animo grato»), al suo dramma ades so teneva. Ne fece subito una traduzione italiana che l’editore napoletano France sco Perrella pubblicò in occasione della prima rappresentazione italiana al Teatro dei Fiorentini di Napoli, il 5 febbraio del 1908, dunque meno di tre mesi dopo bat tesimo parigino. Attori principali erano i giovanissimi Emma Gramática e Rugge ro Ruggieri; con loro Ugo Piperno e Car lo Bertramo. A rieleggere il dramma, difficilmente si può stabilire quello che spetta al colla boratore e quello invece che spetta alla collaboratrice. Comunque sembra pre valere quest’ultma: l’empito (e l’enfasi) sentimentale è chiara farina sua. Ancora: a ben considerare la vicenda coniugale di Maria e Andrea Guasco, adesso che tan te cose sono state scritte e riscritte, po trebbe richiamare quella di Matilde Se rao e di Edoardo Scarfoglio. L ’ in t r e c c io d e l d r a m m a I personaggi, come nel romanzo, ap partengono alla aristocrazia o alla alta borghesia. Nei primi tre atti l’azione si svolge a Roma. Maria Guasco ha abban donato il marito, Andrea, per convivere pubblicamente col suo amante Marco Fiore. La ricca gentildonna ha sfidato co raggiosamente lo scandalo. Ma dopo cir ca tre anni di felicità, Maria Guasco per suade l’amico a sposare, per dovere la fanciulla che lo amava, Vittoria Casalta, mentre lei, non certo del tutto convinta, ritornerà a vivere col marito che tramite il poco simpatico, anzi losco, conte Gian ni Provana, le ha fatto la proposta di ri prenderla in casa naturalmente col suo più «ampio perdono». Ma riesce assai difficile alla coppia co niugale rimettere insieme i cocci di un matrimonio ormai irrimediabilmente naufragato. Dapprincipio, Andrea Gua sco si accontenta che Maria ritorni ad es sere l’impareggiabile padrona di casa ch’era stata un tempo ma in seguito, col to dalla gelosia per Marco Fiore, che nel frattempo ha sposato la giovane Vittoria, pretende che la moglie lo ami della stessa passione provata per l’ex amante. Cosa certo impossibile per Maria. Esasperato, Andrea Guasco rende la donna più infe lice che mai. L’infido Gianni Provana propone intanto alla donna di diventare la sua amante, secondo lui, l’unico modo per mettere a posto le cose. Maria s’indi gna e rifiuta. Dopo una ennesima scena ta, il marito non trova di meglio che scac- ciarla di casa: meglio perdere la donna che tanto non può più amarlo che subire il ridicolo del concesso perdono. Maria se ne andrà, dove ancora non sa bene. Ed ecco, in un quarto atto alquanto sti racchiato in una vaga atmosfera ibsenia- na — ma lo stile è quello del più trito Ro- vetta e del minore Giocosa — l’azione è trasferita all’estero, in Svizzera. Maria Guasco, come si apre il sipario, è a collo quio con un maitre d’hotel a Lucerna. Per fortuna (o sfortuna), il caso porta Marco Fiore, che non se la sente di vive re con la giovane sposa, nello stesso al bergo. L’incontro fra i due ex-amanti è inevitabile. Ma non è che i due si amino ancora. Al contrario, sono due sperduti che si ritrovano dopo un bel sogno in franto. Maria afferma che non tornerà mai più dal marito e tanto meno a Roma. A sua volta Marco Fiore le confida d’aver definitivamente rotto con la mo glie. Maria Guasco non sa quello che sarà della sua vita. Mario Fiore non sa cosa fare della sua. Sentono il peso della loro infelicità e s’accorgono della infelici tà anche degli altri. I due ex-amanti non possono far nulla per loro nè per se stessi. «Nessuno può far nulla per nessuno...», dice Marco, e ancor più enfaticamente risponde Maria: «Si... E la vita che ci opprime e ci soffoca sotto il suo peso... Le sue leggi misteriose ci condannano, in piena giovinezza, in piena forza, a essere impotenti a morire; impotenti a vivere, con gli occhi brucian ti di lacrime vane e inconsolate, le lacri me che piangono gli altri, laggiù, nella loro solitudine...» Ma siccome al dram ma ci deve pur essere una conclusione, i due riconoscono che, adesso, pur senza riuscire ad amarsi più (dice Marco: «Il gran fuoco della nostra passione non è più»... Ma noi ne conserviamogli smorti riflessi che possono ancora rischiarare le nostre tenebre...») non possono fare a meno l’uno dell’altra. Insieme osservano una grande nuvola che corre lungo le montagne, che si abbassa, che le nascon de («essa dispare, perduta nelle brume dell’oblio, come il passato ¡stesso è scom parso...», dice Maria) e insieme ancora una volta, un poco ibsenianamente «sen za parlarsi, senza guardarsi» (come recita l’ultima didascalia della commedia) si in camminano, lentamente, verso il sentie ro che conduce alla montagna per guar dare in un cielo «freddo e limpido» il tra monto del sole che «sarà molto bello». Per comprendere meglio quale sia lo stile della commedia, riproduciamo la lunga, significativa scena seconda del primo atto tra Maria Guasco e il conte Gianni Provana così come la si ricava dalla edizione a stampa del Perrella del 1908. A T T O S c e n a I II Maria: Buona sera, Provana... Provana: Voi mi scuserete di disturbarvi, a quest’ora... ho visto la luce... e vi ho visto passeggiare, nel salotto... ho supposto che foste sola... Maria: (ironica) \/ol mi spiate, caro conte. Provana: lo?... Quale ideal... Passavo, per caso, in piazza... E come quello che vole vo dirvi, era urgente... Maria: Non potevate venire di giorno?... lo rientro sempre alle cinque. E sono sola, a quell’ora, molto spesso... (con iro nia) Voi dovete saperlo... Provavana: Anche la sera, talvolta, siete sola. Maria: (rapida) Ma Marco Fiore potrebbe giungere... Provana: lo mi ritirerei subito... Maria: Voi odiate molto Marco Fiore? Provana: (galantemente) Non l’odio... lo invidio... Ma se venisse me ne andrei. Maria: Perché? Provana: (freddo) Perché le cose che debbo dirvi, non debbono essere udite da lui. Maria: Allora, neanche da me... Buona sera, Provana... Potete ritirarvi. Provana: No!... No!... Non me ne andrò, senz’avervi parlato. Maria: Allora, sono io che me ne vado... (ella fa un passo per uscire) Provana: (vivamente) Non ve ne andate, donna Maria, Si tratta di affare grave... Maria: lo non ho affari, con voi... (nuovo passo d’uscita) Provana: (con emozione) Ve ne prego... rimanete... Si tratta della vostra felicità, che mi è infinitamente cara... Maria: (altera) Perché la mia felicità vi è cara?... che v’importa del mio destino? Provana: lo vi stimo... e vi amo... Maria: (glaciale) E io non vi amo, e non vi stimo. Provana: del vostro disprezzo? Maria: Voi siete un uomo falso e ipocrita, Provana. Provana: Nella vita, la ipocrisia è, talvolta, utile, necessaria, benefica... Maria: Sono i bugiardi che lo dicono. Provana: A che vi è servita, la vostra fran chezza? Voi avete perduto la vostra po sizione sociale, il vostro focolare, la vo stra reputazione... Maria: (orgogliosa) Ho guadagnato la li bertà e l’amore. Provana: E la felicità, non è vero? Maria: (ribellandosi) La libertà e l’amore! Provana: Siete voi certa che Marco Fiore vi ami? Maria: Sono certo di amarlo. Provana: (con forza) No, donna Maria, voi non lo amate! Vi giuro che non lo amate! Maria: Perché mi dite questo? Quale lo sco disegno voi avete premeditato? Quale perfido interesse vi guida? Provana: Il vostro, donna Maria... solo il vostro interesse! Maria: No!... Vi conosco... Avete un’altra ragione... Ditela... che volete da me?... Provana: Persuadervi che voi non amate più Marco Fiore e che egli non vi ama più... Maria: È lui che vi manda?... Provana: No. Sono io che indovinato la verità... Guardatevi nello specchio voi avete pianto, questa sera... Forse per un sospetto... Forse per un ritardo... forse per un obblio e pianto delle lacrime gelide... come sovra un morto... poiché voi sentite che il suo amore è morto... Morto, come il vostro... Maria: Non è vero! Non è vero! Provana: E, del resto, come potrebbe es sere diversamente? Maria: (ironica) Secondo voi, che vi cre dete cosi forte in logica amorosa, quale è la durata di una passione... Forse voi ave te, in proposito, dei dati precisi... delle ci fre? Provana: (freddamente) Si. Ne ho... una passione dura da sei mesi a un anno; un amore, da un anno a due anni... Il vostro ne ha tre... Dunque da un anno, voi di menzogna. Rompete la vostra catena, donna Maria... Maria: (sarcastica) Vi piacerebbe, senza dubbio, di aiutarmi a seppellire questo amore? Provana: Mi piace di aiutarvi a vivere e ad essere felice... Maria: Con voi, non è vero? Provana: (a mezza voce) No... Con un al tro... Maria: Con chi? Provana: Con Andrea Guasco...? Maria: (a denti stretti) Non ripetete que sta cosa assurda! Provana: Vi piace, donna Maria, di segui tar a vivere fuori legge, fuori la morale, fuori la società? Di sacrificare il nostro onore, la vostra dignità, la vostra reputa zione, non all'amore, ma al suo fanta sma? ove sono, più, le gioie supreme che vi compensino di quanto avete perduto? Ove sono le ebrezze dell’anima e del sensi, per cui avete ripudiato tutto il re sto?... Chi ve la paga, ormai, la vostra ab negazione...? Voi avete dato tutto... voi date tutto... E la vostra esistenza è vuota, come il vostro cuore... Maria: (ridendo amaramente) Che elo quenza! Provana: Donna Maria, voi avete avuto il coraggio di abbandonare vostro marito, PERSONAGGI MARCO FIORE ANDREA GUASCO GIANNI PROVANA FABIO GUASCO, Senatore del Regno MARIO COLONNA GIULIO SERLUPI UN MAITRE D’ HOTEL BATTISTA, domestico di Casa Guasco MARIA GUASCO VITTORIA FIORE ARDUINA FIORE FLAMINIA COLONNA LA PRINCIPESSA DELLA MAR- SILIANA LA PRINCIPESSA DI NEROLA LA DUCHESSA DI SUTRI STEFANELLA FARNESE TERESA SAVELLI CHIARA, cameriera. I tre primi atti, a Roma Il quarto a Lucerna, sul Sonnenberg. Epoca moderna. che non aveva nessun torto, perché non volevate vivere nella menzogna e nel tra dimento... Abbiate, oggi, un nuovo corag- gioquello di fuggire l’amante che voi non amate più... che non vi ama più... Lasciate questa casa, rientrate nella vostra, rien trate nella società... Siate una donna ri spettata e onorata, come lo meritate, per il vostro fascino incomparabile e la gran dezza della vostra anima... Maria: (con voce aspra) E per essere, di nuovo, la donna che voi dite, non dovrei che ritornare presso mio marito? PROVANA: Sì. Maria: Ed egli mi riprenderebbe? Provana: Sì. Maria: Egli dimenticherebbe tutto? Provana: Egli perdonerebbe tutto!... Maria: Dopo tre anni di scandalo pubbli co, di vita comune con un altr’uomo, nella medesima città, sotto i suoi occhi? Provana: Andrea Guasco è un uomo su periore, che crede al dovere del perdono. Maria: Ed egli farebbe questo, sapendo che io non l’amo... che non l’amerò mai!... Provana: Chi può rispondere all'avveni- re? Maria: lo, ne rispondo!... lo non lo amerò mai ed egli lo sa... Provana: Malgrado tutto, egli è pronto a perdonarvi, a ridarvi tutto quello che la follia della passione vi ha fatto perdere... Maria: Ma, infine, perché vuole perdonar mi? Provana: Perché è buono... perché ha molto sofferto e molto compreso... perché ha pietà dei vostri dolori segreti... Maria: La bontà, la pietà, la sofferenza non bastano, per quanto egli vuol fare... Provana: Vi ama... vi ama... donna Maria, che risposta debbo portargli? Maria: Nessuna. Provana: Il suo amore non vi commuove? Maria: No. Provana: La sua pietà non v'intenerisce? Maria: No. Provana: Il suo perdono non vi sembra un gesto sublime? Maria: lo sono una miserabile creatura, fatta di argilla e non capisco nulla della sublimità... (ironica) E poi, in tutto questo, che facciamo noi di Marco Fiori? Provana: Ciò che noi facciamo di Marco Fiore? Maria: Sì... Se, come voi me lo consigliate se ritorno presso mio marito, che acca drà di Marco...? Provana: (freddamente) Egli sarà felicis simo di sposare Vittoria Casalta, l'antica fidanzata; che lo aspetta da tre anni... Maria: (con furore) Oh, andatevene!... An datevene! E non riapparite giammai avanti a me... Provana: (inchinandosi profondamente) Quando vi degnerete richiamarmi, donna Maria, io sarò sempre ai ordini, (egli esce). R ic o r d o d i R o b e r t o R o s s e ll in i U n " m a e s t r o ” p e r t u t t e l e s t a g i o n i Credo che Roberto Rossellini sia mor to un po’ anche per l’angoscia di morire. Era ossessionato da questo pensiero già vent’anni fa quando lo conobbi; aveva però il buon senso di scherzarci sopra. Portava la sua paura come i pavoni por tano la coda, ostentandola, magnifican dola e facendone argomento di pittore schi racconti. Ma alle coronarie non de dicava cure particolari. Con la vita che aveva fatto, e faceva, non poteva preoc cuparsi di lasciare in riposo il cuore. Non glielo avevano consumato soltanto le im prese d’amore alle quali accordava mol to. Ma, al di là di esse, Rossellini parte cipava a tutti gli entusiasmi della sua ge nerazione non riuscendo neppure a sot trarsi a quello per il fascismo. A buttare alle ortiche quella camicia nera (tanti, come lui, se l’erano trovata cucita addos so all’età di quattordici o sedici nni) non aveva atteso però la catastrofe si profi lasse. Roberto anzi abbreviò e facilitò a molti l’operazione grazie all’ascendente che esercitava e che gli conferiva queU’indefinibile dono che si chiamava «autorità». Dovunque si trovasse la sua presenza si sentiva. E anche quando ta ceva teneva banco. Non dovette aspetta re per essere un «maestro» i capelli grigi; dalla nascita possedeva la qualità fonda- mentale, l’«autorità». Sì, è vero smaniava per il successo, ma non ha mai mosso dito per procurarsene in maniera indegna. Amava soprattutto suggerire agli altri ciò che avrebbe potu to fare, meglio di chiunque, egli stesso. Era un suscitatore di energie, un provo catore di talento con estro ma anche con equilibrio, rigore e impegno. Ecco perchè uomini altrettanto famosi e affermati ri conoscevano in lui il direttore d’orche stra e si mettevano volentieri sotto la sia bacchetta. Qualcuno penserà che per far fronte a tanti impegni Roberto Rossellini doves- se essere un lavoratore instancabile, un forsennato attivista indaffaratissimo a tessere la trama delle suepublic relations. Era al contrario l’incarnazione della pi grizia e come tutti i pigri era, a volte, at tivissimo. La sua indolenza fisica non era che il contrappunto della sua vivacità intelle- tuale. I film del ’41 e del ’42, «La nave bianca» e «Un pilota ritorna», erano per meati di quella tensione a sperimentarsi con il nuovo, per rompere la schiavitù di vecchi schemi, che sempre lo ha accom pagnato. Le sue capacità di suscitare si resero più evidenti con «Roma città aperta» fatto con mezzi di fortuna senza apporti di pubblicità senza inchini a nes sun interesse, senza alcuna concessione ai malvezzi del pubblico; solo sulla scelta della facce e sul loro talento. Era un uomo di élite, condannato, quindi ad essere amato e avversato senza mezze misure. Aveva militato nel partito norealista, anzi ne era stato l’anima; ma poi si è sempre rifiutato di avallarne le propensioni conservatrici. Il fatto è che al suo temperamento e alla sua intelli genza ripugnavano la schedatura auto matica, le formule bell’è fatte, le banalità degli specialisti che, negli anni cinquanta, teorizzavano un’estetica cinematografica differenziata dall’estetica in generale. Le formule estetiche di quella cupa pattu glia di vestali del neorealismo agivano come una riduzione dell’esperienza; rea lizzavano la monotonia di un disegno che tarpava le ali alla fantasia. I tetri analisti scoprivano solo lo sche letro delle opere che assomigliavano ad altri scheletri, tralasciando la qualità dei personaggi, le complessità, le sorprese che solo la fantasia mette a nudo. Alla coazione del neorealismo, Roberto Ros- sellini si ribellava con vigore, con con versazioni robuste, con acutezza. Nel ci nema non ci debbono essere «suggeri menti» o indicazioni. Ai critici neorealisti che volevano mettere in testa ai registi idee politiche, Roberto Rossellini si ribel lò e sfuggì alla trappola dei giudizi dei giornali di partito. L’artista è un defor matore, un inventore. Non, sappiamo dove stia la verità, se nella visione imme diata o nelle ombre e nelle tenebre. Vita le era per Roberto Rossellini il modo co stante verso il chiarimento, un movi mento dinamico di mistero in mistero. Il neorealismo abbatteva misteri di secon do grado mentre l’universo anche dei film è più ampio. Rossellini cercò di di mostrarlo con due film memorabili come «Europa ’51» e «Vacanze in Italia» in cui il suo cinema si spinse più lontano dei pur grandi «Roma città aperta» e «Pai sà». Rossellini era un uomo ricco di calore umano, intuitivo; dietro gli occhi che sul le prime sembravano soltanto analitici si potevano vedere gli occhi di un uomo che aveva conosciuto grandi dolori, grandi delusioni e che comprendeva gli abissi, le tenebre più profonde,, le più grandi tristezze. Il cinema così soggetto, in Italia, alle leggi del mercato e perciò in sofferente verso gli innovatori non gli consentiva di sperimentarsi con il nuovo e dire molto di sè. Prima che la televisione gli ridonasse la vita, si era come appartato. Usciva per sino di rado. Ma era rimasto in mezzo alle cose grazie alla lettura. Si teneva al corrente di tutto; non c’era libro, rivista, autore nuovo, movimento d’arte o di pensiero che gli sfuggisse. La lontananza dal cinema lo aveva un po’ immalinconi to. Il cinema gli aveva voltato le spalle perchè i suoi film, osannati, studiati da tutti quanti amano quest’arte, non face vano «cassetta». Roberto Rossellini non rinunciava, tuttavia ad essere una forza traente, ad esercitare una pressione intellettuale di cui soltanto il cinema italiano non ha vo luto raccogliere i frutti. Ma il cinema non lo interessava più. Il pubblico ha mutato i gusti e le opinioni, la televisione rivoluziona il mondo, il ci nema come lo intendono le ditte produt trici non serve più a nulla. Certi cineasti sono incapaci di rassegnarsi, ne soffrono. Questa morte lenta del cinema non riu sciva al contrario a far calare sul volto di Roberto Rossellini nemmeno un velo di contrarietà. Con un sorriso di indulgente superio rità accompagnava i suoi ricordi cinema tografici; preferiva accontarli con un ge nerico: «ho rotto i rapporti con il cine ma». I suoi compagni d’arte cinemato grafica dicono ch’era prepotente, che tro vava sempre il modo di accupare la scena da solo. Può darsi,, ma non ho mai cono sciuto un regista che non lo facesse, o non tentasse di farlo. A lui riusciva facil mente perchè ne aveva la forza. Il bello è che tutti i suoi ex amici del ci nema quando si parlava di lui manifesta vano un’ansia e una curiosità che tradiva una sorta di nostalgia per quelle amicizie costellate di cipigli, collere e vertenze le gali. Erano gli anni in cui il cinema era vivo e la crisi nascondeva sotto l’ascella il revolver e il pugnaletto della televisio ne non aveva ancora trafitto alle spalle il rivale. E Roberto non aveva ancora te nuto a battesimo gli stizzosi ribelli della «nouvelle vague». Il suo risentimento contro il cinema delle ditte e delle stars si è manifestato anche nel recente festi val di Cannes in cui premi preordinari dovevano sancire «rinascite» e trionfi immeritati. Con l’austerità guerriera di un vescovo della Controriforma e la gra zia mondana di un abate francese del set tecento, Rossellini è riuscito a far pre miare un film televisivo «Padre e padro ne» dei fratelli Taviani. Tutti a Cannes aspettavano il successo di Sophia Loren, di Alberto Sordi, di Robert Altman. Le «intese» sembrava dovessero essere ri spettate. Nessuno saprà mai se il successo di «Padre e padrone» è stato un atto di so lidarietà verso i colleghi «televisivi» o una di quelle impennate bizzarre con le quali Rossellini ha sempre ingarbugliato, giovandosi del suo prestigio, le carte del cinema. Sono i lati contradditori del per sonaggio che ha sempre avuto intorno adoratori e adoratrici. «Està hontbre es un encandator...», scriveva in tono di rapimento una corri spondente argentina a Cannes. Encanda tor al punto che riuscì a comporre in uno stesso film il lavoro di collaboratori in conciliabili sino a dieci anni fa: cattolici e comunisti. Come quando indusse l’atto re sovietico Serghei Bondarkiuk a brin dare al Santo Natale in «Era notte a Roma» e quando mise insieme il diavolo e l’acqua santa in «Vanina Vanini». Il racconto di Stedhal narra di una no bile romana che tenta in ogni modo di salvare l’uomo di cui è innamorata. Ma questi è un «carbonaro» che trama con tro lo Stato della Chiesa. Incarcerato, egli è condannato a morte. Potrebbe sottrarsi alla mannaia del boia tradendo i suoi compagni. Naturalmente si rifiuta e la nobile per dispetto accetta di andare spo sa, il giorno dell’esecuzione, con un ari stocratico. Alla stesura del film lavoraro no due trucibaldi sceneggiatori di sinistra che dettero alla vicenda una impronta forsennatamente anticattolica. Per atte nuarne il livore la revisione fu affidata da Rossellini al proprio protettore spiritua le, il quale mutò il finale del racconto di Stendhal facendo andare l’intrepida no bile non già sposa all’altare, ma in con vento pentita. A Roberto Rossellini è ca pitato spesso di commettere questi male stri; ma non gli pesavano, nè lo turbava no allo specchio quando si faceva la bar ba. Egli era Vencadator che sapeva ammi nistrare con giudizio le occasioni che la vita gli offriva. I suoi avversari lo aspet tavano come cecchini, a un varco dove egli non passava mai. Questi cecchini, al cuni dei quali l’avevano incensato fino alla vigilia della fine hanno atteso l’ulti mo varco — la morte — per colpirlo. Del . «maestro» hanno ricordato soltanto la vita sentimentale come se solo questa ab bia lasciato traccia nell’Italia del dopo guerra. Maurizio Liverani C in e m a L a s a n t a a l l e a n z a Dopo tante lotte si è giunti, finalmen te, a una elementare scoperta: cinema e tv sono la stessa cosa, nel senso che la se conda non è altro che un mezzo di tra smissione e di diffusione del primo (ec cettuate le cronache dirette). Il suo cine ma, la tv preferiva farselo in casa; con ri sultati, inizialmente modesti; ma da quando non esita a disporre dei registi e degli attori del cinema le cose migliora no; e più che mai riconosce nei suoi spet tacoli di essere cinema e soltanto cinema. (Immagine più suono e su di uno scher mo, come li volete chiamare?). Sul terreno cosi sgombrato non sarà difficile raggiungere accordi. Se i produt tori non avevano mai sottovalutato la concorrenza della tv (prima contrastan dola con i grandi schermi e infine con la pornografia) ora pensano che dalla tv può venire loro una nuova prosperità. La tv nel mondo non rinuncia a produrre spettacoli in proprio, ne affida per «for niture» sempre più cospicue a case cine matografiche. Prendendone un numero sempre maggiore di vecchi film da tra smettere, ma soprattutto commissionan do loro un numero sempre più ingente di brevi film per le trasmissioni. Sembra loro dire: poiché è pacifico che è il vostro mestiere fare dei film, fatemi allora dei film su misura. Non c’è casa cinematografica, negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia, in Germania e anche in Italia, che non ab bia, ormai, un apposito ufficio per le «vendite» alla tv (e ciò è ovvio); ma non c’è casa cinematografica negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia e in Germania (qua da noi sono ancora pochine) che non abbia ormai le sue troupes di produzione per la tv e con vantaggi molteplici. Anzitutto poter lavorare a colpo sicu ro con un «cliente» che paga bene; lavo rare spesso con dei cascami o quasi; po tere comunque esperimentare nuove energie (registi, tecnici, attori) in una pro- duzione per forza di cose in minore; trar re un grande vantaggio pubblicitario da quelle immense capillari possibilità di diffusione; potere in forma indiretta im porsi a chi era stato considerato un temi bile concorrente. Anche in Italia si è giunti al punto che piccole ditte in angu stie con il cinema non televisivo (condi zionato dagli umori dei noleggiatori, de gli esercenti e dei divi) si dedicano, or mai, esclusivamente alla tv senza pate mi. Il grande vantaggio che da tutto ciò ha avuto, ad esempio, Hollywood è nell’aver potuto far decantare il suo am biente e la sua attività. La tv ha assorbito postulanti su postulanti, tecnici e attori di secondo e di terzo piano; ma ha soprat tutto fatto comprendere anche al pubbli co, che la tv è la fornitrice di spettacoli gratuiti, ma tanto popolari quanto mode sti; e che il vero spettacolo lo si deve at tendere da Hollywood e soltanto da Hol lywood. Il cinema americano ha infatti abolito, sotto la spinta della crisi, tutta o quasi la sua produzione secondaria, quel la cosiddetta per la provincia; si è fatto agguerrito e dopo aver puntato su filmo- ni, ora, pur continuando a puntarci, li af fianca con film intelligenti, «importanti» che le danno ragione da un punto di vista industriale e commerciale. Di tale alleanza, e dell’odierna situa zione, era quasi un simbolo in Italia, Ro berto Rossellini che, attraverso la tv si era dato alla divulgazione e che per san cire questa unione tra cinema e tv ha fat to addirittura vincere un teleprodotto, «Padre e padrone», al festival di Can nes. Nonostante queste prospettive televi sive, il cinema italiano porta, in questi giorni, il lutto stretto. La Banca del La voro lesina nel credito; registi, soggetti sti, sceneggiatori, per il momento, produ cono soltanto mozioni e ordini del giorno nei quali si giunge sempre alla stessa con- clusione: qualcuno intervenga, qualcuno provveda. Si sa che lo Stato «aiuta» la nostra ci nematografia. Non esiste quasi governo, nei più diversi paesi, che non sostenga e protegga il proprio cinema nazionale. Da noi gli aiuti si concretano, a favore dei produttori di film, in un «ristorno» par ziale della trattenuta erariale sull’am montare dei biglietti d’ingresso; trattenu te che sono, tra l’altro, molto, troppo pe santi. Esistono, inoltre, i cosiddetti premi «di qualità». Una apposita commissione, che si rinnova ogni anno, li attribuisce ai venti film ritenuti più meritevoli — nella produzione di tutta l’annata — per una loro «particolare qualità artistica e cultu rale» , sono le parole della legge. Il principio è proprio ineccepibile? Po iché il criterio dei ristorni è basato sugli incassi, accade allora che il filmaccio che ha già molto incassato pur essendo nefa sto a gusto e cultura, sia poi il favorito dai proporzionali ristorni. Essendo diretta- mente proporzionali questi «ristorni» (o «rimborsi») vanno a premiare i film che hanno incassato di più non quelli che hanno meritato di più. In testa agli incas si come le statistiche fanno sapere sono, molto spesso, filmastri. Perciò il «ristorno» di una aliquota del diritto erariale unico per tutti i film fa sì che i privilSgiati siano i produttori delle opere più destinate al successo di bottega quanto meno pregevoli. Chi incassa cen to, ha, mettiamo, dieci; chi incassa dieci, può avere un premio. E non sempre, ma spesso, il secondo ha messo insieme un film di statura più elevata di quella del primo; del che si pente e alla prossima oc casione farà il suo bravo film porno. Il principio dei «premi» di qualità può validamente aiutare e incoraggiare il film meritevole, anche se il suo esito di diffu sione gli sia stato poco propizio. Dove la legge appare ostica è nella sua perento rietà. Il livello del ventesimo film in gra- C in e m a C a n n e s : " P a d r e p a d r o n e ” duatoria assoluta può essere di pochissi mo migliore di quello del ventunesimo film della stessa graduatoria; a quel ven tesimo spetta il premio intero, quaranta milioni; a quel ventunesimo, invece, un bel niente. La possibilità di meglio gra duare, sfumare, suddivire non è mai sta ta tenuta presente. (In una commissione nella quale il sottoscritto faceva parte, a! momento del voto «Cari genitori» e «Bi sturi» , due film così e così, sono stati pre miati con quaranta milioni ciascuno con il concorso di cinque e quattro voti su sette, mentre il bel altrimenti meritevole «La proprietà non è più un furto» non ha ottenuto niente, soltanto due voti). Ma queste disposizioni sono la causa di ben altre conseguenze. Esse hanno aizzato il nostro cinema, invece di favo rire un sano sviluppo. L’assegnazione dei contributi, o «ristorni» o «rimborsi» in misura rigidamente proporzionale agli incassi del singolo film ha accentuato l’aumento quantitativo della produzione proprio nel momento in cui, contraendo si la domanda, si doveva puntare sulla qualità e non sul numero. Se l’offerta su pera la domanda aumenta il deficit. Fate il conto dello sperpero di denaro, di ener gie, che tale bancarotta comporta. Quan ti film, ogni anno, non arrivano nelle sale? Centinaia. Ora i nodi sono venuti al pettine. La legge sta per scadere e sarebbe troppo co modo, e altrettanto dannoso, decidere una semplice proroga. Le esperienze di questi anni sono state così probanti e molteplici che il loro insegnamento è or mai di una evidenza assoluta; non ha cer to bisogno di altri indugi per essere ascol tato. Maurizio Liverani Benché non si vogliano bene cinema e televisione si somigliano: suU’icrollabile fondamento che si somigliano i film dell’uno e dell’altra. Da Cannes è venuta questa conferma con il successo di «Pa dre padrone» dei fratelli Taviani, rea lizzato per il piccolo schermo e che grazie al palmarès, sarà presentato sul grande schermo delle sale a pagamento. La guerra sotteranea che si fanno cinema e tv si è accesa a Cannes, ma è approdata subito al compromesso. Ma lo scompiglio portato sulla Croi- sette dalla premiazione di un film pro dotto dalla televisione italiana è stato grande. 1 festival, si sa, sono fatti per l’in dustria cinematografica. Quando si dice Cannes, si dice soprattutto industria. E infatti il festival francese lubrifica i suoi congegni per iniettare coraggio, ottimi smo, intraprendenza nel cinema. L’industria del film confidava, come sempre, nella rassegna francese; il pub blico è stanco o distratto; e non ammette più doversi scomodare per recarsi a ve dere dei film il cui valore è su per giù quello di altri che comodamente ed eco nomicamente può vedersi alla televisio ne. Cannes si incarica puntualmente di ricordargli che spesso ha torto, che per certi film vale la pena di uscire di casa e spendere i soldi per il biglietto. Con le recenti e non recenti difficoltà che tutti sanno, il cinema americano so prattutto cerca di abituare il pubblico alla novità rinunciando ai comodi conformi smi di una volta. Quasi ogni stagione sforna film problematici ma non noiosi che hanno quasi sempre invidiabili mo menti commerciali. È un cinema ad alto livello che ha i più illustri esempi in «Qualcuno volò sul nido del cuculo», in «Nashevile», in «Rockhy», in «Barry Lindon», nei «Giardini di Marvin», nei «Cinque pezzi facili», film che danno l’il lusione di portarci verso la liberazione di tutte le nostre angosce squadernandole con crudezza. A Cannes di questi film riformistici- palingenetici ce n’erano una mezza doz zina e per decretarne il successo s’è fatto in modo che sul festival spirasse uno zef- firo di ancien règime, un alito appena, che veniva non tanto dal contesto delle ope re ma dalla cornice. A rendere più «inci siva» la partecipazione italiana al festival c’erano molti attori; Sordi accompagna va «Il borghese piccolo piccolo» di Ma rio Monicelli, Marcello Mastroianni e Sophia Loren il film di Scola «Un’avven tura personale». È bastata questa ingerenza divistica perchè il giacobinismo cinematografico si risentisse denunciando inchini, bacia mani, feste e gavotte e simili ludibri. Lo spirito conservatore, che pur fa parte del la coscienza dell’uomo, è tanto in discre dito, che chi vuole tenerne timido conto, come hanno fatto gli organizzatori di Cannes, fa figura d’eretico, o, che è peg gio, è confuso con quella brigata gode reccia di destra che suol vedere nei festi val cinematografici occasioni di monda nità. Questa aurea festaiola ha indotto criti ci e giurati a considerare molti dei film presentati come cavalli di ritorno, di buo na scuola, di buona recitazione, di buon mestiere; tutte qualità che i giacobini elei cinema accolgono come fastidiose per chè andrebbero a scapito della fresca for za espressiva. Il verdetto della giuria ha risentito di questa reazione giacobina tra scurando quasi del tutto il cinema coniu gato con l’industria e favorendo di con tro il cinema ammogliato con la televisio ne. È questa la nota, la sola, che ci viene da Cannes il cui palio hanno corso film molto interessanti come «Tre donne» di Altman ed altri di indubbio valore. Tutti hanno fatto corona a «Padre padrone» il cui successo, proprio per i meriti degli altri concorrenti acquista maggior spicco. M.L. I l s i n i s t r e s e s c o p r e l ’ A m e r i c a Da anni sulla via della «fede», intellet tuali, registi di teatro, cineasti italiani han no scoperto l’America. Mai come in questi giorni a Cannes, a Roma, nei circoli alter nativi e nelle produzioni di mercato, si è sentito sospirare sul miracolo, sul fenome no, sul modello America. I mereiai delle riviste patinate racconta no di Elio Petri «che è» a New York, di Bertolucci che passeggia per la Quinta Strada, perfino il «perfido», agro, marxi- stissimo Callisto Cosulich, quello che fino a ieri aveva inventato tutte le cinematogra fie di regime, s’è, dicono, messo a scrivere sulla cinematografìa statunitense e Pio Bai del li, può così permettersi di dire «altro che il cicaleggio intellettualoide di tante pellicole italiane e francesi», senza venir tracciato da fascista. Come vecchie zitelle rivestite in jeans, come antiche poltrone pitturate in bianco per salottini in giunco alla coloniale (oh, il vimini!), gli agitati, gli autonomi, i conte- statori che distrussero il Festival di Vene zia (ed oggi corrono a strapparsi dalle mani le statuette di Cannes), hanno fiutato come il cinema nazionale sia ormai (anche grazie a loro) strangolato e decotto, che i distributori sono stracolmi di pellicola este ra; che l ’America tira. Così in quattro e quattròtto da sfegatati detrattori del con sumismo in celluloide di marca yenkee si sono ritrovati vergini vestali del nuovo. E perfino Moravia, A Iberto, s’è fatto fotogra fare con Robert Altman, un gigantone in barbetta lindo e conformista, per poter dire, come da sempre dice, «cero anch’io». Ohé a questi qui, gliene fosse mancata una!Sono stati su tutte le barche e ora han no pronta anche questa: l’America. Mancano ancora l’intervento di Eco, il corsivo di Arbasino, il sermone di Ferrarot- ti, eppoi, bontà loro, ci saranno veramente tutti. Anche l ’intervista di Lietta Toma- buoni è arrivata, puntuale ed eccitante. Come sempre «c’è anche lei». Bastano? Ma perché tanto amore all'America? Perché il cinema americano da almeno dieci anni realizza un film «ottimo» dietro l ’altro. Una crisi, profondissima, sconvolse Hol lywood. Da quel giorno, giovani produttori, giovani scrittori, giovani registi, giovani at tori di qualsiasi età anagrafica, anziché in trupparsi dietro ad un partito (come Invece si fa qui) o dietro ad un ’associazione di co modo, si misero a camminare per te strade, a vivere tra la gente, ad impressionare il loro popolo. Ne sono venuti fuori dei prodotti eccel lenti. Da «Easy rider» a «Nashiville» l ’America è stata descritta, e quel che con ta (ha ragione Baldelli) raccontata. Non si sono fatti comizio, né parrocchia, né «messaggio», né didattica né manife sto. Si è fatto solo cinema di spettacolo e il pubblico ha risposto. Le lezioni da trarre sono due: il cinema «alternativo» in America non ha fatto la rivoluzione. Ma ha fatto il cinema. (E tale era il suo compito). La società americana, con tutte le sue contraddizioni, così lacera ta ed esplosiva, non è una società triste, stereotipata, decadente, come altre società. E solo filmandola se ne ricava dunque una scossa stimolante. Troppo facile sarebbe poi dire che al ci nema americano ha contribuito e contri buisce il mondo. Che produttori italiani, re gisti polacchi, scrittori tedeschi, attori sici liani, talenti ungheresi, hanno trovato a New York una possibilità. Che mescolan dosi nel «sogno americano», tendenze e linguaggi hanno tessuto un eccezionale e vivace bandiera. Questa è retorica. Certo. Ma tornando terra terra i risultati si vedo no, i soldi tornano, perfino la «propagan da» non viene respinta più. E i giovanissi mi, anche quelli della «P 38», vanno a sor birsi buoni buoni, la lezione, normalmente, senza traumi, essendo de! resto, già da bimbetti, tutti figli della «coca-cola». Che dire, all’opposto, de! cinema italia no? Qua anziché cercare de! buon cinema si discute mesi su buone leggi. Qua, alla fascista, si continua a credere che un fi nanziamento statale, di per sé, possa pro durre dei capolavori. Ieri, nei ministeri, fiorivano i quadri di Sironi. Domani ogni ministero avrà la sua moviola per esporre le cianfrusaglie di cor rente. Troppi si autocollocano a sinistra, ma cosa possono raccontare? Alcuni si sono ri trovati registi dopo essere stati segretari di sezione, altri si sono ritrovati autori dopo aver scritto tre discorsi ad un onorevole. Scherziamo? E coi nostri «porci con le ali» (che almeno ha il merito di essere intempe stivo) chi vogliamo convincere? Piuttosto che scoprire l'America, biso gnerà allora scoprire l’Italia. Le autocritiche sono sempre amare. In paesi evoluti costano anche qualcosa. C’è chi, sbagliando, s’è ritrovato, da una parte fallito, dall’altra segretario di un kolkoz mongolo. Nel nostro paese sbagliando in vece non si impara. Ci si da invece da fare per diventare dirigenti del cinema di gover no, per amministrare una legge di governo a favore di ciò che sarà (perché lo è stato) «brutto, sporco e cattivo». Tanto chi ne scrive bene, in un giornale sovvenzionato, lo si trova sempre. Adolfo Lippi I l b a l le t t o a P a r ig i e L o n d r a L a s t e l l a B a r y s h n i k o v b r i l l a p i ù f o r t e Fra il Centre Pompidou (Beaubourg) per l’arte figurativa e l’IRCAM per la musica, Parigi sta facendo di tutto per diven tare il fulcro artistico-culturale del mondo, in primo luogo dell’Europa. Nel campo del teatro e della musica, Londra ri mane in testa per il volume della produzione, anche se, per i noti motivi economici, i programmi diventano sempre meno avventurosi. Da poco tempo Londra e Parigi si stanno con tendendo la corona anche nel campo della danza, o piuttosto Parigi si sforza di raggiungere Londra mediante i soldi spesi per inviti a famose compagnie, mentre Londra ha un’attività molto più intesa da parte di complessi indigeni, sia classici che moderni. Infatti, malgrado il notevole miglioramento qualitativo del corpo di ballo dell’Opéra e un certo incremento del numero dei programmi, questi sono sempre pochi rispetto al Royal Ballet, ad esempio. Anzitutto, l’Opéra, come i teatri lirici italiani dà un solo programma di balletti alla volta, cosicché chi va a Parigi per pochi giorni difficilmente vede più di un programma all’Opé- ra; vuol dire che i solisti rimangono sottoccupati. La nuova direttrice, Violette Verdy, la quale entrerà pienamente nelle sue funzioni solo quest’autunno ma che sta già attuando mol ti cambiamenti positivi, proviene (ma la matrice è quella dell’Opéra) dal New York City Ballet, abituato a ballare otto o nove volte la settimana, dunque essa è consapevole di quanto rimane da fare. Intanto a Parigi ci sono ottimi professori, c’è una gran vo glia di lavorare e si spera che tra poco la danza avrà uno spa zio più ampio all’Opéra. Manca un coreografo stabile, ma sic come il problema creativo è grave in molti paesi, mi sembra meglio che si continui ad invitare personaggi del livello di Ba- lanchine, Robbins o Petit piuttosto di offrire produzioni infe riori «fatte in casa». Questa primavera si fa lo scambio fra il Bolscioi e l’Opéra (per il balletto, cioè), e penso che la compagine francese meriti un’accoglienza calorosa a Mosca e a Leningrado, dove porta tre programmi, ben variati. Uno di questi programmi, com posti di riprese scelte con accortezza, ha avuto una serie di rappresentazioni all’Opéra mentre il Bolscioi riempiva trion falmente il Palais des Congrès (che ha una ricettività molto maggiore); ne ho visto la «prima» il 25 marzo. In questi ultimi anni c’è stata una stretta collaborazione fra Balanchine e Robbins e l’Opéra, rinsaldata in occasione del Festival Ravel nonché dalla brillante stagione parigina del New Jork City Ballet nel settembre scorso. I due maestri si sono occupati personalmente dei loro balletti all’Opéra, e anche per questo gli allestimenti sia del Figliuolprodigo{con un bravo Georges ' Katerina Maximova e Vladimir Vassiliev, del «Bolscioi» nel balletto lo «Schiaccianoci» di Ciaikowsky. Natalia Bessmestnova e Mikhail Lavroski nel «Il lago dei Cigni» (foto Colette Masson) Piletta e una stupenda Ghislaine Thesmar) sia dell'Après-midi d'un faune versione Robbins (con Charles Jude, scelta perfet ta, e la delicata e gentile Florence Clerc) sono fedelissimi agli originali. L ’uccello di fuoco di Maurice Béjart è stato creato per Michael Denard, il quale quasi riesce con la sua smaglian te bravura a farmi inghiottire questa rozza versione. È forse per la qualità della musica precedente (Prokofiev, Debussy, Stravinsky) che quella di Eludes (Czerny-Riisager, in una nuova orchestrazione di Manuel RosenthaDè risultata davvero insopportabile. Etudes del danese Harald Lander ha preceduto (1948) molti altri balletti destinati a dimostrare la bravura di una grande compagnia attraverso una lunga serie di dimostrazioni di passi che diventano di volta in volta più difficili impegnando ora i solisti ora l’intero corpo di ballo. Hanno ballato fra gli altri No'élla Pontois, CyriFAtanasoff e Patrice Bart, tutti splendidi, ma ho trovato il tutto troppo lun go e alquanto noioso, il prossimo programma, in repertorio del mese di maggio, comprende Le loup di Roland Petit (nel quale ballava Violette Verdy alla creazione nel 1953) e Palais de Cristal (Sinfonia in do di Bizet) di Balanchine. L’Opéra è certamente molto più brava del Bolscioi nel comporre i programmi, o forse il Bolscioi non dà molta im portanza a questo problema, preferendo puntare sulla sua fama e su una generosa scelta di spettacoli. Il pubblico pari gino più «snob» cerca soprattutto la novità e la bellezza delle scene e dei costumi. Qui non c’erano novità, e si sa ormai che il lato decorativo non è un punto forte dei complessi allora si capisce che questi spettacoli erano destinati ad un altro pub blico, meno critico. La compagnia si è fermata a Parigi più di un mese e mezzo, alternando sei programmi dei quali solo uno conteneva una cosa non già vista a Parigi. La coreografìa di quasi tutti i balletti era del direttore Juri Grigorovitch, il quale ha purtroppo un vocabolario coreogra fico assai povero e limitato, come ha potuto constatare anche il pubblico italiano in occasione della tournée del 1970. Se que sto si applicasse solo alle sue creazioni, pazienza, ma egli ha anche il brutto vezzo di rimaneggiare tutti i classici: la cosid detta «Soirée Ciaikovski» comprendeva, dopo un Lago dei ci gni (secondo atto) proprio «à dormir debout», tanto il corpo di ballo appariva annoiato e indifferente alla vicenda (e si ca pisce — quante centinai di volte l’avranno ballato?), il secon do atto della Bella addormentata, attribuito dal programma a Petipa, ma di Petipa non è rimasto nulla. Neppure la bravura della coppia Maximova-Vassiliev, tutti e due in grande for ma, è bastata a salvare una versione così scialba — per non dire dell’esecrabile mancanza di gusto mostrata nell’offrire solo quell’atto, che così perde tutto il significato. La consolazione dell’ultimo atto dello Schiaccianoci, nell’allestimento di Grigorovich, che ha chiuso lo spettacolo, era la presenza di Mascia nell’incantevole Ludmilla Semen- jaka, la quale ha avuto (con Vassiliev) il più grande successo personale di tutta la stagione. La Semenjaka proviene dal Ki- rov e possiede tutta l’eleganza e la purezza di stile della scuola di Leningrado. Purtroppo, l’unico altro ruolo nel quale l’ho vista era quello piccolo della Fidanzata ungherese nel 3° atto del Lago dei cigni. Altre volte ha ballato Odette-Odile nella versione integrale, ma il Bolscioi è sempre restìo ad annun ciare in anticipo la distribuzione, e ho avuto la fortuna di ve dere Tatiana Golikova, poco adatta al ruolo. Prokofiev ha subito la stessa sorte di Ciaikovski, cioè gli si è dedicata una «Serata» fatta di brani da tre balletti lunghi: il 2° atto del Fior di pietra nella piatta versione di Grigorovitch (brava la Katerina, Irina Prokofieva) — l’unica «novità» della stagione, poiché il Bolscioi non l’aveva dato in altre stagioni (il Kirov, sì); il 2° atto della Cenerentola nella coreografia di Zakharov e con la Maximova protagonista, tecnicamente sfa villante come pure Vassiliev, Principe simpatico ed aereo; in fine, brani da quell 'Ivan il Terribile che Grigorovitch ha alle stito l’anno scorso per l’Opéra di Parigi. Forse perché si tratta di un balletto più recente degli altri, il corpo di ballo vi s’im pegna in modo totale, e ho trovato Natalia Bessmertnova ve ramente straordinaria e toccante nel ruolo della sfortunata moglie di Ivan, Anastasia. Bravi nel loro stile piuttosto enfa tico Juri Vladimirov nel ruolo di Ivan e Boris Akimov in quel lo del Bojar Kurbski. Gli altri programmi offrivano Spartaco, Don Chicotte e Gi- selle. Lo Spartaco era pure incluso nella stagione di film so vietici di balletti. Per fare un tuffo nel passato e tornare al Bolscioi di Leonid Lavrovski che ci aveva conquistato a Lon dra nel 1956 (a Parigi nel 1958), c’era sola da prendere il bi glietto per una delle proiezioni in un’altra sala dello smisurato Palais des Congrès del vecchio film (1954) di Romeo e Giuliet ta nella indimenticabile versione di Lavrovski. meraviglioso malgrado i molteplici tagli e l’irritante commento parlato. Che commovente esperienza rivedere dopo un intervallo di più di vent’anno la Ulanova, l’incarnazione stessa di Giuliet ta. Molti tocchi ci rivelano l’accuratezza con la quale Lavrov- ski (morto nel 1967) aveva studiato la tragedia di Shakespe are. Inoltre, malgrado il loro aspetto poco italiano, tutti sem bravano veronesi autentici per la convinzione assoluta con la quale interpretavano i loro ruoli. L’anno prossimo, Grigoro- vitch, il quale ha già rimaneggiato parecchio la versione ori ginaria di Lavrovski (come si è visto alla televisione l’anno scorso), farà una nuova coreografia di Romeo e Giulietta, pri ma a Parigi per l’Opéra, poi per il Bolscioi. Anche il film fatto dal Kirov della Bella addormentata (1969) aveva degli ele menti un po’ nostangici, per il numero di artisti che si vedono nel film e che o non ballano più o hanno lasciato l’Unione So vietica. Il più giovane di quelli che hanno lasciato il Kirov per avere più vaste possibilità artistiche, il prodigioso Mikhail Baryshni- kov, si è esibito col Royal Ballet al Covenl Garden fra la metà di marzo e la metà di aprile, in due ruoli scelti alla perfezione, Romeo nella versione di Kenneth MacMIllan (superiore a quella di Lavrovski nella composizione dei pas de deux, infe riore nel trattamento delle masse) e (un debutto) il giovane e galante agricoltore Colas in uno dei più grandi capolavori di Frederick Ashton, La jìlle mal gardée. Baryshnikov aveva già interpretato il ruolo di Romeo al Covent Garden nel novembre del 1975, in quell’occasione in sieme con Merle Park, affiancandola anche nel Lago dei cigni (non ho visto un Sigfrido migliore, né come ballerino né come interprete). Questa volta la sua Giulietta è stata la più dram matica e passionale Lynn Seymour (sostituendo Antoinette Sibley, assente da tempo dal palcoscenico), mentre nella Fide ha ballato con Ann Jenner, semplicemente deliziosa. Il Royal Ballet dà sempre il meglio di sé in questo balletto — sapiente mescolanza di romanticismo e umorismo, e Baryshnikov ha ballato di nuovo come parte integrante della compagnia. Tec nicamente insuperabile, tanto è leggero, controllato, sempre di una precisione totale, Baryshnikov ci ha offerto un Cols molto esuberante e «biricchino», tenero come deve essere alla fine. Ovazioni senza fine, particolarmente calorosi ed af fettuosi nei confronti del coreografo quando egli è venuto a ringraziare il pubblico da un palcoscenico ricoperto di fiori. Veramente una grande occasione, da non dimenticare. Pochi giorni prima si è data al Covent Garde, la prima rap presentazione di una novità di John Neumeier, il giovane americano che si trova da tempo in Germania, dove è attual mente direttore del corpo di ballo dell’Opera di Amburgo (che verrà al maggio fiorentino a giugno). Il filone mahleriano Ann Jenner e Mikhail Baryshnikov, del «Royal Ballet» del Covent Garden. Florence Clerc e Charles Judl nel balletto «L’Après-midi d’un faune». (Foto Colette Masson). di Neumeier lo dimostra sempre impegnato nello sforzo di esprimere il cuore della musica (sia detto a suo credito lo sco po non è quello di sfruttare Mahler). Abbiamo visto un esem pio importante a Venezia due anni fa, quando il complesso amburghese ha dato la molto ambiziosa Terza Sinfonia. Poco dopo, a New York ho visto il pas de deux che egli ha creato per Natalia Makarova e Erik Bruhn, Epilogue, che adopera il popolare Adagietto della Quinta Sinfonia. Adesso si è appro priato la Quarta Sinfonia, nello stile lirico che egli sembra pre diligere quando si tratta d’interpretare Mahler, cioè meno agressivamente originale di certi altri suoi lavori dati a Parigi l’anno scorso. Non credo che Neumeier sia riuscito ad «aggiungere» al cunché alla Quarta Sinfonia, ma in compenso ha manovrato assai bene il corpo di ballo e ha saputo assegnare qualche ruo lo in modo insolito, ad esempio dando a Wayne Sleep il ruolo tutto serio de ragazzo adolescente e a Michael Coleman un ruolo assai romantico. Il ruolo principale è quello di Lynn Seymour, espressiva e musicale come sempre. Peccato che David Wall (magnifico nella Baiadera che ha aperto la serata — evidentemente gli è giovato il lavoro «extra» derivatogli dall’assenza di Antony Dowell) abbia avuto così poco da bal lare, essendo ridotto piuttosto a porteur. Buona l’orchestra sotto la direzione di Ashley Lawrence, il quale dirigerà anche gli spettacoli dell’Opéra di Parigi in Russia. Grazie anche ai festeggiamenti per il «Silver Jubilee» (il venticinquesimo anniversario dell’ascesa al trono della Regi na Elisabetta), la stagione estiva londinese si annuncia molto ricca, sia per la prosa che per la musica e la danza. La stagione del Royal Ballet continuerà al Covent Garden fino alla fine di luglio, con un intervallo più «popolare» sotto il tendone di Battersea Park. A giugno tornerà Natalia Makaròva in due ruoli (Manon e Odette-Odile), e dovrebbe finalmente tornare a ballare Anthony Dowell, tanto a lungo infortunato. Dopo la solita stagione primaverile al Coliseum, il Festival Ballet ci sarà anche in estate per dare la nuova versione (ancor’una!) di Romeo e Giulietta di, con e per Rudolf Nureyev, il quale ripeterà, con altro materiale, la sua maratona dell’anno scor so ballando ogni sera, in una lunga serie di spettacoli. Gli suc cederà per una brevissima stagione l’American Ballet Thea- tre. Questa compagnia si fermerà più a lungo a Parigi, dove la Cour Carrée du Louvre ospiterà di nuovo una lunga serie di spettacoli da parte di varie compagnie. Spero di poter rife rire della stagione estiva in un’altra occasione. Irene Freda Pitt Lynn Seymour e David Wall in «The fourth Sym phony» di G. Mahler. (Foto Anthony Crickmay). I l b a lle t t o i n I t a l i a M i l l o s e B é j a r t a c o n f r o n t o Il caso ha voluto che due personaggi della coreografia con temporanea del pari importanti ma per motivi diversi e con dotti ad operare per quel che riguarda l’inizio della carriera in epoche differenti, che cioè Milloss e Béjart si trovassero non solo vicini negli spettacoli di chiusura della stagione scaligera 1976/77 ma a dividere il peso di una serata. Ciò ci ha spinto a molte non vane considerazioni, a creare paralleli, non certo a confrontarli ma a saggiarne meglio le caratteristiche pecu liari. Milloss ha presentato due balletti: uno di nuovo allesti mento, il Don Juan di Gluck-Angiolini, l’altro di nuovissima creazione, Ri volta di Sisifo sulla musica dell’Ottavo Concerto per orchestra di Petrassi. A chiusura di questa serata tutta scaligera, nel senso che era stata prodotta dal teatro, veniva una ripresa dell’Uccello di fuoco di Béjart.Stravinsky, ormai entrato ne repertorio della Scala da quando è stato confidato alle cure dei maestri riproduttori e ripetitori. Le altre due se rate, tutte béjartiane, recavano la prima una novità per l’Italia Le Molière imaginaire portatavi dalla compagnia del Balletto del Ventesimo secolo dopo i successi parigini dell’inverno scorso e l’altra una ripresa, novità per Milano, Per la dolce me moria di quel giorno (da I Trionfi del Petrarca) già visto a Fi renze alla «prima» mondiale del Giardino di Boboli per il 37° Maggio musicale fiorentino e qui recensito (v. «Il Dramma» n. 10- Ottobre 1974, pagg. 87-89) poi trasmesso dalla Televi sione e rappresentato anche a Roma nel gennaio 1975. Pur partendo tutti e due da premesse culturali molto fer ree, essi divergono nel modo di porgere i loro messaggi. Tutto teso l’uno, il Milloss, verso un rigore di forma, verso una di scorsività della composizione, senza sbandamenti, preoccu pato sempre che dalla sua opera esca innanzitutto un’affer mazione essenziale coreografica, cioè che tutto sia risolto in termini di danza, che s’innalzi di fronte allo spettatore più preparato ed attento l’edificio architettonico del balletto e non quello labile di tanti passi e figure affastellati senza dia lettica, senza fraseggio; invece Béjart è alla ricerca costante di qualcos’altro da unire alla composizione coreografica: quella totalità dei generi per la quale oggi egli va famoso ma con il pericolo latente che i valori della danza siano ad ogni pie’ sospinto eclissati dagli interventi spesso massicci di ingre dienti che non solo poco hanno che fare con la danza ma che non si fondono con l’opera coreica, si sovrappongono soltan to. Proprio i due balletti di Millos rappresentati alla Scala po trebbero essere definiti un succoso compendio della sua este tica, una summa delle sue capacità e delle esperienze per ap prodare a quello che noi altre volte abbiamo definito «essen zialismo» coreografico a differenza di Béjart, esistenzialista. Milloss tende all’essenza, a rendere visibile l’invisibile, a ri darci artisticamente la sensazione dell’inafferrabile. Baste rebbe guardare a questa ripresa del Don Juan che alla Scala mancava dal ’59 in altra versione (di Massine) e che, nella co reografia millossiana, in Italia si vede nel lontano 1951 con Babilée, scene e costumi di Cassandre. Ecco l’amore filologi co di Milloss balzare in tutta la sua pienezza accompagnato al rigore sul filo del preziosismo musicale gluckiano, tanti blocchi staccati con estrema precisione e rispetto sia del li bretto angioliniano ispirato più a Molière che a Tirso da Mo lina e comunque personale, sia del tessuto compositivo di Gluck. La semplicità della stesura coreografica è solo apparente; ci sono difficoltà nascoste in un ondeggiare tra mezzo carat tere e accademismo. Si guardi, per esempio, al passo a due tra Don Giovanni e Elvira, piccolo o grande lavoro di cesello co reografico con i passaggi discreti e sempre significativi. La pantomima (grande momento evolutivo nella riforma del balletto d’azione nella seconda metà del XVIII secolo) è pres soché eliminata per cui tutto si risolve in un coreodramma nell’accezione moderna di dramma danzato. L’impianto sce nico è abbastanza tradizionale ma è vivificato nel segno sic ché la mano dello scenografo e costumista Franco Laurenti è riconoscibile specie nei suggestivi siparietti ove si possono cogliere i significati stessi del dramma grazie anche ai ben do tati effetti di luce. Forse avremmo voluto dal protagonista, il danzatore ungherese Ferenc Barbay, operare a Monaco, un maggior senso del demoniaco, della seduzione e dell’estro perverso. A parte la bontà della tecnica sicura, è mancata la statura del personaggio. Luciana Savignano, duttile danzatri ce, ha assecondato bene il coreografo; così dicasi di Giancarlo Morganti, un vivacissimo Sganarello, di Rosalia Kovacs (Gi tana) e di Oriella Dorella, graziosissima pastorella. Nell’altro balletto Milloss si è trovato in presenza di una musica non composta per il teatro e ad una nuova metafora coreografica alla maniera concertante dato il tessuto della musica, nello stesso tempo teatrale, quindi drammatica sulla traccia poetica e filosofica di Albert Camus. Milloss ripercorre la vicissitu dine umana di Petrassi che fa sua (una crisi fisiologica) per cui la lotta di Sisifo contro il destino è la stessa rivolta del mu sicista e del coreografo nel riaffermarsi attraverso il travaglio del loro divenire ed oggi del loro approdo. Qui non è in gioco un racconto, non è una favola mitologica che viene espressa ma ad affiorare è il significato del dramma deH’Uomo con dannato al lavoro inutile e poi destinato, come simbolo, all’Eterno. Poiché «i miti sono fatti perchè l’immaginazione li animi» (Camus), Milloss ha tratto da questi le conseguenze per dare forma e sostanza al suo messaggio. «Le Moliere imaginaire» di Bejart alla Scala. Scene e costumi di Franco Laurenti per il finale del balletto «Don Juan» di Angiolini-Gluck-Millos alla Scala. Lo spazio scenico non è descrittivo ma esclusivamente at mosferico; lo stesso modo che attornia Sisifo è impersonato dal corpo di bailo che ci è indicato come «La Terra», a guisa di coro greco. Un protagonista espresso più dal di fuori che dal di dentro ci è apparso Angelo Moretto pur nella sicurezza di una tecnica precisa. Sinuosa, tagliente nelle sue linee di fiamma la Savignano (Pandora). Ottima prova dell’orchestra alla cui guida stava Ettore Gracis, non da oggi soltanto atten to alla problematica ballettistica. Non c’è spazio per L ’Uccello di fuoco che è stata una ripresa e che ha ricevuto un’esecuzio ne orchestrale davvero smagliante. Questo lavoro non recen te di Béjart incomincia a sentire la forzatura del suo manife sto e il logorio degli anni che passano, cessato il momento dell’euforia. Interprete vibrante alla «prima» e poi ad alcune repliche Lawrence Rhodes ma mi dicono che il giovanissimo Davide Bombana, subentrato in una delle rappresentazioni, ne sia uscito con molto plauso. Per il balletto di Béjart ispirato a Molière vorremmo trovare una definizione. Questo Moliere imaginaire (ma poi non tanto immaginario, invece molto sa piente e saputo) stando al sottotitolo sarebbe non una «comé- dieballet», secondo il termine che fu alla moda in pieno se colo XVII; tra tra «tragédie-ballet» e «opéra-ballet», bensì un balletto-commedia, vale a dire un balletto che si serve dei modi della commedia e non viceversa quando nacque ed ave va ragioni e significati ben precisi. Questa volta Béjart si è as sociato alla Comédie-Francaise: c’è infatti il tono un po’ pom poso della Maison con la «grandeur» della recitazione (le «r» arrotate e l’enfasi in agguato o addirittura esplosiva come in alcune tirate di Robert Hirsch, straordinario per la sua dispo nibilità istrionesca di attore e ballerino), un pizzico di follia e qua e là anche di «Folies Bergère»... Ne è venuto fuori an cora un tipico esemplare del più tipico teatro totale alla Béjart che mescola la trama scenica alla parola, al canto e alla danza. Ecco, dell’intero spettacolo quest’ultima non solo non è l’in grediente principale ma non reca indicazioni particolari di lin guaggio o di stile. Egli corre la sua avventura meravigliosa mente sul filo della più sbrigliata fantasia teatrale e in questo trascina, affascina, seduce ed incanta gli spettatori che seguo no rapiti il suo gioco, o meglio quello dei suoi incomparabili attori. I quali meritano questa qualifica perchè si prodigano instancabilmente; c’è in loro la gioia sana e autentica del fare teatro tra lazzi di «commedia dell’arte» e virtuosismi accade mici. Verrebbe voglia di classificare lo spettacolo: operetta? Non c’è il genio nè di Offenbach nè dei suoi librettisti (la musica di Nino Rota si presenta come una raccolta delle sue fortu nate occasioni felliniane e segue la volontà del coreografo nel genere «clownerie» che a Rota è congeniale). Musical? Non c’è l’estro coreografico di Robbins per cui al termine (nel bel lissimo finale che riafferma la vittoria dell’arte sui misfatti del potere politico) si ripiega sull’impressione generale di una grande carrellata di immagini su di un piatto farcito come lo erano gli intermezzi del balletto di corte, nonché sull’inutilità dell’operazione proprio per la mancanza di quei contenuti co reografici di cui si parlava. La gravità dell’opera è rappresen tata in modo eccellente dal personaggio ossessionante della Morte (la bravissima pianista e attrice e mima Elisabeth Coo per) imperiosa e al tempo stesso tenera verso quanti la circon dano. Alla testa sta Jorge Donn, Apollo-Re Sole splendido per esattezza tecnica, per maestosità scenica e interiorizzazio ne del personaggio, ma tutti appaiono stupendamente model lati da una mano maestra, senza dimenticare la funzionalità delle scene e lo splendore dei costumi di Joelle Roustan e Ro ger Bernard, fastosa cornice all’applauditissimo spettacolo. Alberto Testa «Rivolta di Sisifo» di Petrassi-Miilos alla alla Scala di Milano. Al centro Angelo Moretti. A u m e n t a i l p u b b lic o a i c o n c e r t i ja z z È c a m b i a t o q u a l c o s a «corali», i biglietti obbiettivamente a basso prezzo (500 lire le gradinate del Palasport ber gamasco, non c’è nemmeno il gusto dell’auto- riduzione) rispetto al cinema o allo stadio, i frequenti tentativi di strumentalizzare i con certi a fini politici, l’errore dei più «imbranati» che scambiano il concerto per un festival pop, tra tutti questi fattori ben poco spazio rimane per gli appassionati; certo, sono più che in pas sato, ma non tanti di più. E gli equivoci sono tuttora molti. C’è anche timore. Timore di non capire, di rimanere emarginati: ed è chiaro; se il discorso del solista (creatore-esecutore) non viene se guito nei suoi sviluppi logici, il concerto di jazz si rivelerà di una noia mortale. Non c’è da me ravigliarsi che poi a manifestazioni pure di grande prestigio come «Umbria Jazz» o il «Festival di Pescara» succedano episodi di in tolleranza o di contestazione. In questi casi si tratta di contestazione ben singolare: gli spet tatori più giovani vanno al concerto credendo di ascoltawre una musica molto più banale e facile ma nella quale essi si identificano per chè, ad ogni modo, è pur sempre assai più in teressante e intelligente della vecchia musica leggera; sul palcoscenico si svolge tuttavia un rito per iniziati che già hanno superato quella fase, sono andati oltre; è il jazzista che suona, come sempre, che cóntesta il pubblico e un poco lo disprezza (la teoria del genio creatore che partecipa del divino, proprio perchè ro mantica, è assai diffusa tra i jazzisti), sicché il pubblico si sente a disagio e, per non subire l’umiliazione, contesta. Sono aspetti negativi del particolarissimo La nona rassegna internazionale del Jazz di Bergamo ci sembra una buona occasione per buttare giù qualche considerazione sul mondo del jazz in continuo movimento, sui suoi per sonaggi falsi e veri, sulle reazioni del pubblico. Incominciamo col dire che la concomitanza tra l’inizio di questa rubrica e un avvenimento così importante per il settore può essere defi nita felice: proprio nel momento in cui musi cisti di ogni parte del mondo convergono nel nostro paese per i tre concerti bergamaschi si apre un discorso sul jazz in un mensile di spet tacolo come è appunto «Il Dramma». Si può fare una prima osservazione: di jazz non si parla più dunque soltanto nelle riviste specializzate; altre pubblicazioni di tutto ri spetto ospitano saggi sull’argomento, e ormai quasi tutti i quotidiani vi dedicano spazio. È cambiato un atteggiamento? L’ostilità al jazz è un fatto antico, almeno per l’Italia. Inutile ricordare i ridicoli episodi del periodo fascista, quando «St. Louis Blues» era diventato incredibilmente «le tri stezze di Sàh Luigi». Inutile ricordare l’ostra cismo dell’Eiar e della prima Rai: il jazz? mu sica da negri. Gli addetti ai lavori non hanno dimenticato autoritarismo, quanta ottusità so prattutto trasparisse dai volti duri e ammoni tori di tanti «benpensanti». Adesso sembra tutto assai diverso. Ma at tenzione: il jazz è ancora considerato come una sottile malattia che ti prende e non ti fa guarire. Siamo sinceri anche se molte cose sono cambiate, un certo sospetto c’è sempre; i critici si compiacciono ancora oggi dei fu nambolismi strumentistici e non dei contenuti musicali (il chilometrico e spesso sciatto asso lo del batterista; quello del bassista magari stonato ma che ti ha buttato là durante un in comprensibile monologo orrenjda citazione, di cui vergognarsi per la vita, di un motivetto in voga): ebbene non è questo un modo ancora di far violenza al jazz? Non è un atteggiamento rilevatore, in fondo, di una sensibilità molto si mile a quella del burocrate benpensante degli anni cinquanta? E il pubblico? Quanto a numero, andiamo meglio; prendiamo per esempio proprio la ras segna di Bergamo: cento presenze nove anni fa, tre o quattromila spettatori in questa ulti ma edizione. Non c’è molto da rallegrarsi però: tra la moda attuale delle manifestazioni O i n o a a La Stagione estiva dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia verrà inaugu rata quest’anno dall’Or chestra Filarmonica di Lodz diretta da Henryk Czyz che eseguirà Szyma- nowski, Ciajkovskij, Scio- stakovic. Da segnalare inoltre un concerto per pia noforte (Nikita Magalof) e orchestra di Niklaus Wyss, in programma Brahms, Schumann, Schubert e Du- cas. Molto importante quest’anno sarà la presen za di alcuni complessi po polari, dai Quilapayun agli Inti lllimani che si saranno interpreti di una nuova canzone cilena. I responsabili del Tea tro Stabile di Genova si sono recentemente incon trati con i rappresentanti del Comune e della Provin cia per un esame della si tuazione finanziaria dell’Ente: per mancanza di fondi, infatti, i dipendenti non hanno preso lo stipen dio di maggio. Il deficit del teatro al termine della sta gione ’75-'76 era di 210 miliardi, accumulato negli ultimi cinque anni; quest’anno raggiungerà i 300-350 milioni. La Rivista italiana di drammaturgia, la pubbli cazione trimestrale dell’IDI (Editore Bulzoni) ha fe steggiato, con la presenta zione del numero 3/4, il suo secondo anno di vita. La pubblicazione ha aperto un dibattito storico e teorico su una nuova Idea di dram maturgia estesa a tutti gli aspetti più complessi dell’evento teatrale e tesa ad individuare lo specifico linguaggio espressivo di cui esso fa uso. rapporto critica-pubblico-musicista di jazz; questi non sempre viene compreso e dal criti co e dal pubblico per cui, a sua volta, si isola e torna nel clan degli addetti ai lavori. Ecco allora un altro motivo di riflessione, positivo questa volta. Evidentemente (al di là del successo di grandi manifestazioni abbiamo visto come esse non offrano la misura di una autentica popolarità del jazz) la forza di questa musica sta proprio nella sua discreta e miste riosa presenza sottostante: il jazz è sicuramen te la vera musica del nostro secolo; il posto non se lo è conquistato con i successi ma con un lavoro continuo e tenace di aggiornamento dei moduli di tutto il resto delle altre forme musicali contemporanee. Le canzoni, la musi ca leggera, la musica cosiddetta classica: tutto è stato influenzato, in questi settant’anni, dal- lka musica jazz; i suoni che ci circondano quo tidianamente derivano dal blues, dalla scala blues; il pulsare ritmico è ormai adottato da ogni tipo di musica; i timbri nuovi, le possibi lità degliu strumenti, tutto è stato portato avanti dal jazz e dai jazzisti. Senza clamori, qualche volta con sufficienza forse presuntuo sa. Ma sempre con grande dignità. Sandro Brugnolini In s e rz io n e p u b b lic ita ria I n a u m e n t o i l r i s p a r m i o p o s t a l e Sei milioni di famiglie italiane hanno affidato i loro risparmi alla Banca postale. Cinquantotto milioni di titoli, fra libretti e buoni postali fruttiferi, per un totale di 13 mila miliardi di lire. Come sono stati utilizzati que sti miliardi? Per: ■ l’edilizia scolastica ■ l’edilizia popolare ■ la realizzazione di opere sa nitarie e igieniche ■ l’acquisto e l’urbanizzazione di aree necessarie all’ediliza popolare ■ mutui necessari alle esigen ze degli enti locali I titoli del risparmio postale non sono pignorabili né sequestrabi li. Esenti da qualsiasi imposta i buoni postali fruttiferi, con un in teresse netto dal 9% all’ 11 % per i titoli di serie ordinaria e dall’ 11 % al 13% per i titoli della serie spe ciale per gli italiani residenti all’estero. L’attività che la Banca postale esercita nel campo della raccolta di risparmio monetario riveste carattere tipicamente bancario ed è, quindi, del tutto assimilabile a quella svolta dagli Istituti di credito per il reperimento dei mezzi finanziari occorrenti per l’esercizio dei loro compiti. Inizialmente, l’istituzione in Ita lia delle Casse di Risparmio Po stali suscitò viva opposizione ne gli ambienti economici che dete nevano il monopolio della raccol ta del risparmio. Veniva eccepito, infatti, che le strutture organizzative dello Sta to e i criteri che regolano la ge stione del pubblico denaro male si conciliavano con leesigenzedi un servizio tipicamente bancario. Si prospettava, inoltre, l’opportu nità di porre lo Stato in concor renza diretta con gli Istituti di Credito in un settore cosi impor tante per l’economia del Paese, come quello del mercato moneta rio. Ma, le considerazioni che, at traverso la capillare rete degli uf fici postali, potesse essere util mente indirizzata a fini economi ci una enorme massa di capitali, fino allora tesaurizzata, per le ca- ranze strutturali degli Istituti di credito, in forme inerti e impro duttive, non potevano non preva lere sulle remore e sugli ostacoli frapposti all’istituzione di una Cassa per la raccolta di rispar mio postale. Le Casse di Risparmio Postali vennero, quindi, istituite con la legge 27 maggio 1875, n. 2779, su iniziativa di Quintino Sella, che ne era stato convinto e tena ce assertore. Attualmente, la Banca postale, presente in tutto il territorio na zionale con i suoi 18 mila sportel li, offre agli utenti forme di inve stimento del risparmio in alterna tiva e in competizione con le altre esistenti sul mercato, tipiche de gli istituti bancari, convogliando in tal modo nelle proprie casse una ingente massa di capitali. La genesi dell’esercizio di tale ser vizio bancario da parte dell’Am- ministrazione P.T. è storicamente da ricondurre, come già accen nato, alle carenze organizzative degli Istituti di credito, che, impo stando la propria gestione in ter mini di lucro, preordinavano la propria struttura periferica a cri teri di profitto, più che utilità so ciale. Allo scopo di assecondare, e nel contempo sollecitare, la tendenza al risparmio in quelle località in cui non esisteva un’adeguata organizzazione bancaria, l’utilità di affidare il correlativo servizio all’Azienda P.T., presente con i propri uffici in quasi tutti i Comuni ed anche in A vere dei depositanti presso l'A m m in istra zio n e P.T. L ib re tti e Buoni P ostali F ru ttife ri Situazione al 31 Dicembre molte piccole e remote frazioni. Oggi, per l’espandersi dell’or ganizzazione degli Istituti di cre dito, la primitiva posizione di ca rattere sostitutivo o sussidiario assegnata aH’Amministrazione P.T. nel settore del risparmio si è trasformata in una posizione al ternativa e concorrenziale. Gli strumenti di raccolta del ri sparmio, di cui si avvalgono le Casse di risparmio postali, sono i seguenti: — Libretti di risparmio postali, nominativi e al portatore; — Buoni postali fruttiferi. Tali titoli possono essere inte stati a favore di persone fisiche, anche minorenni, o di persone giuridiche (enti, uffici, ditte, ecc.) ovvero a fasce di persone fisiche e giuridiche promiscuamente. Una peculiare caratteristica dei libretti di risparmio postali e dei buoni p.f. è costituita dalla possibilità di indicare nell’inte stazione dei titoli stessi la clau sola della «pari facoltà di rimbor so», che attribuisce ad ognuno degli intestatati la facoltà di ri scuotere «iure proprio» anche l’intera somma rappresentata dal titolo, in virtù di un rapporto fidu ciario che unisce gli intestatari. Un’altra particolarità dei titoli di risparmio postali è data dal fat to che i minori degli anni 18 pos sono compiere tutti gli atti ine renti al deposito e al rimborso di somme, ritendo la legge suffi ciente in questo particolare set tore, per la validità dell’atto com piuto dal minore, la semplice ca pacità naturale. I libretti di risparmio postali e i buoni p.f. godono, inoltre, del pri vilegio processuale della impi- gnorabilità e insequestrabilità in sede civile. L’emissione di titoli di rispar mio postali può essere chiesta anche da persone residenti all’estero a favore di terzi, anche se residenti in Italia, e da persone residenti in Italia a favore di emi grati all’estero. In tali casi, si dà luogo all’emis sione di titoli della serie speciale, riservati agli «Italiani all’Estero», che beneficiano di saggi di inte- resse più vantaggiosi rispetto a quelli praticati per i titoli della se rie interna (8,40% per i libretti e 11 —13% per i buoni). Tale diver sificazione è motivata dall’esi genza di meglio remunerare il ri sparmio frutto dei sacrifici dei nostri connazionali emigrati all’estero e, nel contempo, dall’opportunità di favorire l’af flusso di valuta estera, con evi denti vantaggi per la nostra bi lancia dei pagamenti. Anche i tassi stabiliti sui titoli di risparmio postali della serie in terna debbono, però, essere con siderati remunerativi e competiti vi con quelli fissati per le altre forme di investimento similari. Tale competitività deriva, oltre che dalla misura dei tassi, dalla fiducia riposta dall’utenza della Banca postale. Infatti, il trattamento offerto dal Bancoposta è uguale per tutti gli utenti, indipendentemente dalla consistenza delle somme versa te, e i tassi praticati non sono soggetti a brusche e repentine variazioni. Infatti, il tasso di interesse sui libretti di risparmio postali in atto è stabilito nella misura netta del 6,72% annuo, mentre il saggio sui buoni postali è fissato nella mi sura iniziale del 9% netto. Tale tasso si eleva secondo la se guente progressione: — 10% dopo il 5° e fino al 10° — 10,50% dopo II 10° e fino al anno; 15° anno; — 11 % dopo il 15° anno. Dopo il 20° anno, l'interesse da corri spondere per ogni successivo bi mestre maturato rimane costante fino al 30° anno solare successi vo a quello di emissione. Come si può notare, il buono postale è caratterizzato da un particolare e vantaggioso mec canismo di capitalizzazione dell’interesse, che matura in for ma composta a bimestri compiuti e può essere riscosso, cumulati vamente con il capitale, in ragio ne di un saggio che varia in au mento a più riprese, con il decor so degli anni. Per effetto di tale meccanismo, il capitale investito in buoni p.f., in base agli attuali saggi, si rad doppia dopo 7 anni e 10 mesi e si triplica con il decorso di 1 2 anni. Il buono p.f., oltre ad essere di stinto dalle caratteristiche sópra ricordate, comuni ai libretti, gode anche dei privilegi di ordine fi scali. Infatti, gli interessi maturati sui buoni postali sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone giuridiche e dall’impo- sta locale sui redditi. Il buono po stale gode, altresì, dell’esenzione dall’imposta successoria. L'insieme di queste caratteri stiche peculiari, la capillarità dei 18 mila sportelli del Bancoposta, l’attività di divulgazione svolta hanno fatto sì che la massa di ti toli di risparmio postali attual mente in corso abbia raggiunto i 58 milioni di unità, per un am montare complessivo di circa 13 mila miliardi. A fornire un quadro esauriente dell’attuale situazione della ge stione delle Casse di Risparmio postali e a dare una misura esat ta dello stato di diffusione e di ef ficienza del servizio, appaiono probanti i dati relativi al periodo 1970-1976, dalla cui analisi si appalesa in modo evidente la na turale crescita registrata dal ri sparmio postale. Infatti, il numero dei tìtoli di ri sparmio postali, che nei 1970 è stato di circa 48.834.000, è sali to, a tutto settembre del corrente anno, a circa 58 milioni 456.000, con un indice di incremento pari al 19,70%. Altrettanto positivo è il raffron to tra l’ammontare complessivo del credito dei depositanti, che nel settembre 1976 ha raggiunto, come già ricordato, il livello di cir ca 13 mila miliardi di lire, rispetto ai 5.184 miliardi registrati nel 1970, con una lievitazione pari al 152,1 2 per cento. L’ingente massa di liquidità fi nanziaria raccolta dal Bancopo sta confluisce integralmente alla Cassa Depositi e Prestiti, che opera, com’è noto, sotto il diretto controllo del Ministero del Teso ro. Appare, quindi, evidente che la Banca postale assolve, in questo settore, l'importante ruolo di re perire, attraverso i canali del ri sparmio postale, la maggior parte delle disponibilità finanziarie, ne cessarie alla Cassa DD.PP. per lo svolgimento dei suoi compiti di istituto. Tali compiti consistono, princi palmente, nel finanziamento, me diante concessione di mutui a lungo termine e a tassi agevolati, di opere pubbliche, soprattutto nel settore dell’edilizia scolasti ca, ospedaliera e di quella abita tiva popolare. Inoltre, il predetto Istituto è au torizzato a concedere mutui a so stegno degli ulteriori fabbisogni finanziari dei Comuni e delle Pro vince per lo svolgimento dei loro compiti essenziali. In particolare, la Cassa DD.PP. ha concesso nel 1975 i seguenti finanziamenti: — 299,5 miliardi per l’edilizia popolare; — 98,6 miliardi per l'acquisto e l’urbanizzazione di aree per l’edilizia popolare; — 144,6 miliardi, per opere sanitarie ed igieniche; — 14,3 miliardi, per l’edilizia scolastica; — 1.414.4 miliardi, per mutui agli Enti locali. L’ammontare complessivo dei finanziamenti operati dalla Cas sa DD.PP. è stato, nel 1975, di cir ca 1.971,4 miliardi di lire. Appare, quindi, evidente che il risparmiatore postale investendo i propri capitali in titoli postali consegue un duplice obiettivo: l’uno, di ottenere una equa remu nerazione dei propri risparmi; l’altro, di contribuire al migliora mento delle condizioni di vita di tutta la collettività, concorrendo alla formazione di una massa fi nanziaria destinata alla realizza zione di opere di interesse pub blico. Rilevantissima è, quindi, l’im portanza che assume la raccolta del risparmio postale nel conte sto deM’economia del Paese, specie nella difficile attuale con giuntura. S c e g li a n c h e t u il r is p a r m io p o s t a le è u n a s c e lt a v a lid a c h e r is p o n d e a l t u o in t e r e s s e e a l l ’ in t e r e s s e d e lla c o l l e t t i v i t à d i c u i f a i p a r t e i n b e a È morta a New York, all’età di 69 anni, stroncata da un infarto, Joan Craw ford. L’attrice è stata una delle più significative rap presentanti del divismo americano; in particolare si impose al pubblico di tutto il mondo con il film «Jonny Guitar». Ricevette l’Oscar per l’interpretazione nel film «Il romanzo di Mildred» e, dopo una serie di inter pretazioni di successo, ab bandonò il cinema per affa ri. Dal 1959 titolare di una delle più grandi industrie di bevande gassate. Si sono riuniti presso l’Istituto Nazionale del Dramma Antico a Siracusa, filologi e studiosi di tutto il mondo per dare vita ad un congresso dedicato all’Orestea di Eschilo. In una tavola rotonda tenuta l’ultimo giorno del con gresso e giudata da Bene detto Marzullo, si è parlato del prossimo ciclo di spet tacoli che sarà il 25mo. Du rante le riunioni è stata an che unanimamente votata un’allarmante mozione sul le incertezze che minac ciano l’attività futura. Il via al «Maggio musi cale fiorentino» è stato dato, questa stagione, con «Il Nabucco» verdano di cui era regista Luca Ronconi. Direttore di orchestra è stato Riccardo Muti. La ma nifestazione molto ricca di altri spettacoli, ha registra to la presenza di prestigiosi nomi della musica interna zionale. Il «40' maggio mu sicale fiorentino» si è con cluso il 11 luglio. in collaborazione con la Ri vista «Teatro Orazero», bandisce un concorso per atti unici e per radiodram mi. Il concorso è riservato agli studenti che risiedono o frequentano le scuole nel Friuli Venezia-Giulia. I la vori inediti e mai presentati né premiati, devono essere inviati alla Segreteria del Premio, presso l’Azienda di soggiorno e Turismo 33022 Arta Terme entro il 31 luglio 1977. La RAI e l’ANICA-AGIS hanno confermato una li nea di reciproca collabora zione per quanto riguarda la programmazione dei films. Questo tipo di accor do è molto importante per ché permette di far fronte più arganicamente alla at tuale crisi del cinema. Di particolare rilievo è la deci sione di proiettare «Padre padrone» dei fratelli Tavia- ni, film prodotto dalia RAI e vincitore della «Palma d’oro» di Cannes, nei nor- i circuiti cinematografi ci, prima di trasmetterlo in TV. All’interno della tredi cesima mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, in pro gramma per la seconda metà di settembre, verrà proiettata una rassegna monografica relativa alla produzione spagnola degli ultimi 35 anni. Interverranno alla mani festazione numerosi registi ed operatori spagnoli con i quali si discuterà in merito alle difficoltà di sviluppo subite dalla cinematogra fia spagnola durante il franchismo. L’Azienda Autonoma Cura e Soggiorno e Turi smo di Arta Terme (Udine) L’Assessorato alla Cul tura del II Dipartimento della Regione dell’Umbria, nel quadro di un program ma di intervento a soste gno delle attività e dei beni culturali, con particolare ri ferimento alla creazione di un qualificato sistema bi bliotecario, ha promosso, nel mese di maggio, esatta mente dal giorno 10 al gior no 16, una mostra mercato sull’editoria dello spetta colo. L’iniziativa è stata presa dal Comune di Spo leto. Studi e documenti gol doniani - Mario Baratto, Letture del «Yodero - Gui do Davico Bonino, «La fa miglia dell’antiquario», commedia di una crisi - Raul Radice, Quarant’anni di cronaca goldoniana - Ugo Ronfani, Le rappre sentanze goldoniane in Francia nel dopoguerra - José da Costa Miranda, La fortuna di Goldoni in Porto gallo (secolo XVIII) - Jaro slav Pokorny, Goldoni in Cecoslovacchia nell’ultimo decennio Due ricorrenze: Piran dello e Rosso di San Se condo - Giorgio Bàrberi Squarotti, Pirandello e il «teatro nel teatro» - Giorgio Pullini, L’edizione definiti va del teatro di Rosso San Secondo - Anna Barsotti, Eplcità de «La bella addor mentata» - Paola D. Gio- vannelll, Per una storia del la critica su Rosso San Se condo Si è svolto a Nancy, il XV Festival mondiale del Tea tro. Quest’anno ha offerto spettacoli di minor rilievo, soprattutto considerando il valore di talent-scout che sempre il Festival ha avuto nel teatro d’avanguardia. Gli spettacoli erano dei più svariati, dal teatro-parola al teatro Immagine, teatro con un solo attore e le troups di centinaia di per sone. Vasto spazio ha occupa to il reparto Pupazzi. Pre senti per il teatro politico sia gli spagnoli del gruppo «La Cuadra», sla I «Rote Rube» di Monaco. Durante il Festival è stata data una Decorazione a Jack Lang, una medaglia d’oro a Mi chèle Kokosoxsky, direttri ce del Festival da due anni. Tale premiazione ha cre ato alcune contestazioni da parte dei «benevoles», studenti che si occupano dell’Ufficio Stampa, della sistemazione dei parteci panti etc. Questi Incidenti interni hanno senza dubbio influito sulla programma zione e sulla buona riuscita della manifestazione. Al teatro Spaziouno, a Roma, Il Testro Studio De Tollis ha presentato lo spettacolo di Nino De Tollis «Museo Nazionale» sottoti tolato «primo progetto di teatro permanente sul tema arte e società, studio prima dal "Vladimir Maja- kovskij a Vladimir Maja- kovskij”». La biografia di Evita Pe- ron è stata presa come soggetto per un musical da Andrew Lloyd Webber e da Tim Rice, gli autori di «Jue- sus Christ Superstar». La parte di Evita è stata affida ta a Julie Covington, quella di Juan Peron a Paul Jones. L’opera verrà raccolta in un album di dischi. Sono stati assegnati i premi per il cinema per la XXIII edizione del «David di Donatello». Alberto Sordi e Mario Monicelli per «Un borghese piccolo piccolo»; Mariangela Melato per «Caro Michele» e Valerio Zurlini per «Il deserto del tartari» sono i vincitori per il cinema italiano del 1977. Sono stati inoltre attribuiti riconoscimenti, per la cine matografia straniera, a Du stin Hoffman, Sylvester Stallone, Faye Dunaway, Annie Girardot e al regista Akira Kurosawa. Il «David di Donatello europeo» è an dato a Stanley Kubrik per il film «Barry Lyndon». È stato assegnato quest’anno, neM’Auditorim dell’antico palazzo dell’An- nunziata di Sulmona, il Pre mio Nazionale «Maschera d’oro Teatro Club di Sulmo na» allo scrittore Ignazio Silone ed all’attrice Lilla Brignone. Erano stati pre miati nella passata edizio ne Diego Fabbri e Peppino De Filippo. Il Teatro Stabile di Bol zano ha già annunciato il programma della prossima stagione. Il testo sul quale il direttore dello Stabile, Alessandro Fersen ha im postato l’attività del com plesso per la stagione 1977-’78 è «Leonce e Lena» di Gerog Buchner con Antonio Salines come attore protagonista. Due giorni di jazz al Ca sinò de la Vallèe di Saint Vincent all’insegna della musica italiana. Punte di diamante del Festival sono state il clarinettista Zan- can, il quartetto di Rusca, Ettore Zeppegno ed il trom bettista Enrico Rava che ha concluso la rassegna con una sua suite intitolata «Lavori casalinghi». Ha avuto luogo da 9 al 18 giugno, all’Associazio ne Culturale Sabelli a Roma, una rassegna-in contro dei gruppi teatrali romani di base, compren denti attività musicali e di animazione. Fra i vari ade renti vi è il Gruppo Gianni Bosio. La rassegna ha pre ceduto il convegno nazio nale di Pontedera. Dal dati rilevati attraver so le consuete indagini elaborate dall’AGIS risulta che i films che hanno fatto registrare i record assoluti di incasso in quest’ultima annata cinematografica sono Kong King , Novecen (2.420.006.000) to n. 1 (1.775.107.000), Taxi Driver (1.664.353.000) , La batta glia delle Midway (1.407.675.000) (1.252.652.000) . , Suspiria Il sindaco di Sanremo Osvaldo Vento e l’assesso re al turismo Napoleone Cavaliere hanno concor dato insieme a Gianluigi Rondi due nuove manife stazioni cinematografiche; la prima delle quali, intito lata «Festival Roberto Ros- sellini», si svolgerà nei pri mi mesi del ’78 e sarà una rassegna di film particolar mente rivolti allo studio della società ed all’analisi dei rapporti umani. La se conda manifestazione sarà un convegno monografico su di un singolo regista del quale verrà presentata l’in tera filmografia. La prima edizione, fissata per il di cembre ’77, è dedicata alla memoria di Rossellini, la seconda, nel '78, al regista giapponese Akira Kurosa- wa. Si inizieranno fra breve i lavori di restauro del Teatro di Villa Torlonia che potrà cosi essere presto riaperto al pubblico. Il teatro, capa ce di 500 posti, ideato a pianta quadrangolare dall’architetto Raimondi con un monumentale in gresso a colonne ioniche, sorge esattamente al cen tro della villa. Laurence Olivier sarà l’Interprete principale ed II regista della versione tele visiva di «Sabato domenica e lunedi», Il lavoro teatrale di Eduardo De Filippo. As sieme ad Olivier recita an che sua moglie, Joan Plo wright. Si tratta dello stes so cast che qualche anno fa aveva rappresentato il medesimo lavoro al Natio nal Theatre di Londra con la regia di Franco Zeffirelli. Al Festival dell’Infiorata di Genzano è andata in scena, verso la fine di giu gno, la prima ripresa mo derna de «Il Biante, ovvero la Laurinda», opera buffa di Alessandro Stradella. Era no quasi tre secoli che non venivano più rappresenta te opere di quest’autore modenese. Regista dello spettacolo è stato Antonio Taglioni. Ha avuto luogo presso la sede deN’UNESCO a Parigi un omaggio a Jacques Pre- vert. Hanno partecipato alla manifestazione i più noti interpreti ed amici del poeta recentemente scom parso: Arletty, Roger Blin, Serge Reggiani, Yves Mon- tand, Jean Luois Barrault, Juliette Greco, Marie Du- bois, Roger Pigaut, Made- leine Renaud. Si è tenuto a Bari ai pri mi di luglio un convegno organizzato dalla DC sul tema «Proposta per le atti vità musicali nel quadro della politica dei beni cul turali». Il dirigente naziona le dell’Ufficio problemi cul turali della DÒ, sen. Adolfo Sarti, ha detto: «Non abbia mo mai rinunciato a far cul tura, anche quando slamo sembrati dominati da pre valenti preoccupazioni di potere; ma oggi è maggiore in tutti noi la consapevo lezza delle implicazioni culturali di tutte le nostre scelte, e anche la coscien za del risolutivo apporto della cultura al successo della nostra battaglia, in di fesa della libertà e del plu ralismo». «La DC non chiede agli intellettuali — ha detto l’on. Picchioni, responsabile dell’Ufficio spettacolo, nel corso della sua relazione — un assenso incondizio nato ad un proprio progetto egemonico, non chiede agli intelletuali di rinuncia re al ruolo critico che è pro prio della loro funzione. La DC chiede invece alla cul tura italiana di essere pre sente nella dialettica so ciale, oggi così difficile ed impegnativa; chiede alla cultura italiana di non fug gire in arcadia, lasciando ai politici il compito impossi bile di costruire, essi soli, il futuro del Paese». «Vi è in noi — ha detto l’on. Moro chiudendo i la vori del convegno — pieno rispetto formale e sostan ziale per quello che nasce nello spirito umano, in par ticolare per la cultura che ne è alta espressione. Que sto mondo è in un certo senso sacro. Non dev’es sere turbato; non dev’es sere impedito; non dev’es sere utilizzato per qualsiasi ragione estrinseca al suo autentico significato. Natu ralmente l’uomo di cultura non può non partecipare, in modo libero e originale, alla creazione della Società nuova». Al convegno è intervenu to anche il ministro del Tu rismo e Spettacolo on. An- toniozzi. Per il ventesimo anno consecutivo Avignone du rante l’intero mese di luglio, diventa la capitale france se del teatro e della danza grazie al suo festival. Ha inaugurato il festival il Re quiem di Verdi, eseguito dai 350 componenti l’ar- chestra municipale di Avi gnone. Il Festival di Avignone è diviso in quattro parti: pro sa, musica, danza e cine ma. Per la prosa vi saranno, tra gli altri, il «Teatro popo lare di Francia» presenterà Amleto di Shakespeare, il Teatro di Aubervilliers con il Coriolano, il Gran Magic Circus con Madre coraggio di Brecht e il Teatro popo lare di Quebec con due spettacoli canadesi. Parti- colamente atteso il «Teatro aperto» dove si cimentano soprattutto giovani all’avanguardia e speri- mentalisti. Per il Teatro musicale e la danza, sono previsti die ci spettacoli di mimi prove nienti dagli Stati Uniti, dell’India, daM’Argentina, dalla Francia e dalla Sviz zera e il noto Vladimir Vlas- siliev del Bolscioi di Mosca si esibirà il 28 e il 29 luglio insieme alla compagnia di Alvin Alley. Per il cinema è in pro gramma tra l’altro, una re trospettiva dal titolo «Venti anno di storia del Terzo Mondo». 0 i n □ a a Fra il 24 ed il 30 giugno, presso il «Teatro in Traste vere», la compagnia «teatro della pantomina» di Bolo gna ha presentato «Figu re», spettacolo gestuale che esamina principal mente i rapporti di spazio e tempo. A questa iniziativa hanno aderito musicisti prove nienti da diverse parti del mondo e parteciperanno musicologi e operatori d’arte. Per maggiori infor mazioni si ci può rivolgere alla Segreteria dei Corso: Via Ghibellina 73, Firenze. A conclusione della stagione lirica, al Teatro Regio di Torino è andata in scena «La Traviata» di Ver di: l’opera è stata replicata fino al 16 giugno. Ricordia mo che la regia di questa edizione del lavoro verdi no è di Dario Della Corte e l’interprete principale sarà Katia Ricciarelli, che si al ternerà con Elena Mauti Nunziata, insieme a Um berto Grilli e Ottavio Gara- venta. Il Teatro Autonomo di Roma nell’ambito delle ini ziative volte alla promozio ne e divulgazione della cul tura teatrale, sta svolgendo a Nazzano una serie di atti vità connesse alla realizza zione della messinscena di diversi spettacoli, in parti colare nel mese di giugno Angelo Corti terrà dibattiti- incontri con i ragazzi ai quali mosterà e spiegherà la tecnica del gesto e la na scita del mimo. L’Associazione «Amici del Castello di Gargonza7 (Monte S. Savino, Arezzo) ha aperto le iscrizioni per il Il Corso Internazionale di Musica Rinascimentale e Barocca, che si svolgerà dal 1"all’11 settembre’77. I Tra le varie attività della compagnia stabile di prosa «Teatro di Via Erbe» di Mi lano si ricordano i lavori di Agatha Christie (Trappola per topi), Albee (Storia del lo zoo), Ghelderode (Escú dale), Pirandello (Il berretto a sonagli), Massimo Durzi (Bertoldo a corte). L’Associazione «Teatro Nuovo» di Savona ha pro posto, nell’ambito delle at tività di decentramento e operazione culturale, la messinscena de «Il martirio di Piotar Ohey» di S. Mro- rek. Di questo autore, noto esponente dell’avanguar dia polacca, la Compagnia ha voluto evidenziare i toni polemici legati in questo momento alla dissidenza sempre più forte nei paesi dell'Est. Si è svolta al Teatro Ar gentina il «Festival di Tea tromusica», una rassegna di gruppi e musicisti con temporanei, sperimentali, alla quale hanno parteci pato il cantante indiano Pandit-pran Nath, che ha dato via alla manifestazio ne, Terry Riley, La Monte Young, Marion Zarzeela ed il Gruppo de Richerche Musicales di Parigi. «La partenza dell’Argonauta» opera teatrale di Antonello Agitati, Marcello Panni e Memé Peritai, già presen tata l’anno scorso al «Mag gio fiorentino», era uno de gli episodi più attesi della manifestazione. Il prog ra Il Centro Studi sul Tea tro Medioevale e Rinasci mentale, costituito dall’EPT di Viterbo, ha ini ziato ufficialmente la sua attività l’anno scorso con un convegno internaziona le sul tema «Dimensioni drammatiche della liturgia medioevale, della speri mentazione drammaturgi ca e attoriale nell’ambito della cultura ecclesiastica, dal contesto della liturgia latina dell’Europa tra il IX e l’XI sec.». di quest’anno prevedeva conferenze e spettacoli. Ha introdotto i lavori, il 1 7 giu gno, Federico Doglio, Diret tore del Centro di Studi sul Teatro Medioevale e Rina scimentale. Tra i numerosi parteci panti, Franco Alessio, Mas simo Oldoni.Jleana Pagani, Aurelio Roncaglia, Diego Carpltella, Eugenio Battisti, Chiara Settis Frugoni, Jean Miallard, Gianfranco Fole- na, Giuseppe Tavani, Lu ciana Stegagno Picchio, Carla Casagrande, Silvana Vecchio, Rosanna Bruse- gan, Giovanna Angeli, Lu dovico Zorzi. È andato in scena lo spettacolo di giullari «Il Detto del Gatto Lupesco» realizzato dal «Teatro di Ventura» per la regia di Francesco Merisi. l i b r i Paolo Grassi Quarant’anni di palcoscenico Milano Mursia, pag. 348, 5.800 lire Non deve essere facile oggettivare la propria esperienza di uomo e di operato re culturale, tanto da farla diventare un preciso tracciato di storia, in particolare di storia del teatro e dello spettacolo. Paolo Grassi non racconta se stesso come se proponesse aneddoti e confi denze: nel suo volume, che oscilla tra il saggio e il romanzo, si riconoscono, spontaneamente, i fatti più significativi della storia e della cultura degli ultimi quarant’anni. Certo non deve essere neppure difficile, per un uomo che ha vis suto molto intensamente nei riguardi di fatti indimenticabili. Con Grassi abbiamo una di quelle figure insostituibili nella nostra scena pubblicad’interesse per lo spettacolo è sempre legato alla necessi tà di un allargamento del confronto tra individuo e individuo. L’idea di teatro, per esempio, è connessa ad una precisa idea del pubblico. Nelle ipotesi di Paolo Gras si non poteva esistere l'evento scenico avulso dal contesto in cui doveva o pote va inserirsi; dall’altra parte, la stessa scena non può che rappresentare un punto di riferimento della crescita e della maturazione di un paese e dei suoi citta dini. Non c’è uomo di spettacolo che si sia espresso più politicamente di lui, al tempo stesso il credo politico non ha mai prevaricato le logiche necessità della prassi. La sua ideologia, del resto, è una scoperta a posteriori, come conferma lo stesso Grassi: «Socialista mi sono sco perto, non lo sono diventato per scelta ragionata. È accaduto come per il teatro, un fatto naturale che ti appartiene. La mia mimi- zia politica risale alla Resistenza e la mia tessera del partito è di quell’epoca». Ri- percorrere le tappe principali del cammi no sociale di Grassi significa ricongiun gere le trame di eventi, dove scopri la co stante di una incredibile coerenza. Ma, pian piano, si prende contatto anche con i casi interiori di un privato cittadino: qui vedi la motivazione di un agire come dato di un eterno entusiasmo, di una necessi tà continua a dar vita a nuove forme di esperienza; di un uomo, infine, che mo stra un certo pudore per il sentimento. Emilio Pozzi ha curato questo volume raccordando le diverse e varie annota zioni, gli appuntri e gli scritti di Grassi. Gli episodi ora prendono il corpo di un pre ciso evento, di un problema, di un feno meno, ora si sviluppano come incontro delle vicende di un uomo con quelle della storia. Nel ’37 scriveva articoli e saggi, e, tra le righe, si capiva un preciso impegno civile, mai enfatico perchè carico di con cretezza e sorretto dall’azione. Poi ecco lo organizzatore di una Compagnia tea trale: era il 1940 e la Compagnia era la Ninchi-Tumiati. Nella primavera dell’anno successivo è la volta di «Palcoscenico», che racco glieva un gruppo di giovani, tra cui Stre- hler, e con i quali diresse alcuni spetta coli. Dal 25 aprile del ’45, al marzo del '47, è critico drammatico dell’Avanti, mentre continua a dirigere spettacoli e cura diverse collane di teatro nel campo editoriale. Il 1947 è l’anno del Piccolo Teatro di Milano: esperienza fondamen tale nella vita e nel lavoro di Grassi. Poi la direzione della Scala, giù giù fino alla presidenza della Rai-tv. Così riassunti gli episodi del lavoro di Grassi non darebbe ro ragione anche di un itinerario cultura le e umano in costante maturazione. «Non sono mai stato un individuo soddi sfatto — afferma Grassi di se stesso, - sono terribilmente autocritico. Il mio tem peramento è un temperamento impaurito e non superbo. Talvolta, però, la mia ag gressività, la stessa mole del mio corpo, possono dare la sensazione che io mi so pravvaluti. Invece mi dà fastidio. Anche dopo una conferenza di enorme succes so, io sento l’amarezza per quello che ho sbagliato, per il modo con cui mi sono espresso». In lotta costante con se stesso alla ri cerca di una misura nuova per i tempi nuovi, con una fiducia che, oggi, è privi legio di pochi. Anche se puoi trovare, a volte, nelle sue parole, l’amarezza di al cune segrete sconfitte, magari quelle meno previste: «Francesca, mia figlia, la conosco poco. Mi scrive lettere di un af fetto e di una dedizione profonde e io, in vece, non sono mai riuscito a lasciarmi andare con lei, perchè sono occupato con mille cose da fare... Ho mille pudori e la sensazione di essere retorico; mi fan no tenerezza e al tempo stesso mi appa iono ridicoli i genitori che parlano dei propri figli, dello loro qualità, della loro in telligenza. È una delle cesure della vita l’aver amato l’infanzia — l’infanzia è il do mani, la primavera dell’esistenza — e non aver saputo tradurre in fatti esisten ziali questo affetto». Qurant'anni di pal coscenico ha meritato a Grassi il «Pre mio speciale del Presidente» al «Viareg gio ’77»: giusto riconoscimento per lo scrittore che, in una limpida prosa, ha sa puto sintetizzare gli aspetti più importan ti della vita del nostro teatro, che in lui si sono in qualche modo, identificati. AA. VV. Musei e Gallerie di Milano, mu seo teatrale alla Scala Electa Editrice, 3 voli. , 3353 voci, 1516 ili. 885 pagine, lire 50.000 Non sempre ci capita di riflettere sul significato sociale e il valore sociologico Il «Gruppo Universitario di Ricerca per un Teatro Popolare», già Laboratorio teatrale della Facoltà di Magistero dell’Università di Roma, creato e diretto da Annamaria Mazzoleni, è uno dei pochi gruppi che agiscono in Italia (senza ri cevere alcun appoggio o sovvenzione dalle autorità accademiche o da altri enti), avendo come scopo primario la ricerca e la rea lizzazione scenica dei testi reperiti. Quest’anno il Gruppo ha allestito un vero e proprio spettacolo, «Storia di Cas- sandrino, metà uomo e metà burrattino». della struttura teatrale. Un edificio archi- tettonico, adibito alle rappresentazioni di una fetta della nostra cultura, quale è il teatro, sembra rivestire soprattutto lo spessore-cornice dell’evento scenico. In realtà, una parte della nostra storia, dalla storia del gusto a quella del costume, ci vengono restituite, In modo oltremodo si gnificativo, dai nostri teatri, dal rapporto che hanno mostrato e mostrano con ¡I re sto del tessuto urbano e sociale. Questo volume dedicato al Museo Teatrale alla Scala è di grandissimo Interesse. Da un lato, intanto, un’Introduzione storica al Museo, alle ragioni per cui è nato, al si gnificato che riveste. Cosi ci sembrano più palpabili realtà apparentemente lontane: ¡11911, data di nascita del museo, diventa punto d'in contro tra un passato e un futuro, che an cora non crediamo di poter inventare. In tanto, il mondo di ieri è là, testimoniato da una ricchezza di Immagini che ci aiutano a comprendere, a ricostruire e dare plau sibilità all’oggi: gli antichi vasi etruschi e le iconografie classiche, simbolo di una civiltà che ci appartiene ed è nella nostra coscienza; quadri e sculture che rifletto no due secoli di vita di teatro; ritratti mi niati che ci restituiscono un quadro di vita dell’uomo, tutto sospeso tra verità uf ficiali e private, tra il suo modo di essere «pubblico» e quello personale, tra ciò che si è e ciò che si «deve essere». Se, per un po’, capisci che la storia la puoi scoprire ancora di più in certe realtà apparentemente marginali, dallo strano sapore ludico, quasi «esterne» per non dire «esteriori», allora concretizzi uno strano legame con il mondo di ieri, che puoi ritrovare nella affascinante e inusi tata misura giornaliera.La vita del costu me, con tutte le sue meraviglie e le stra nezze, si dipana davanti ai nostri occhi stupiti, come lontani spettatori di uno spettacolo purtroppo irripetibile. È forse la nostra sensibilità di uomini sommersi da una Incredibile crisi di valori che ci in duce a un certo rimpianto. È possibile e, in fondo, anche comprensibile. Ma la no stra intelligenza ci indica, anche nei re perti più oleografici, la possibilità di un incontro con la cultura di un’epoca più «felice», felice perchè più definita e sen za le incertezze che caratterizzano l’oggi. Il secondo volume di questa pubblica zione raccoglie proprio questo; le testi monianze «concrete» di un passato illu stre (dalle medaglie commemorative e strumenti musicali appartenenti a uomini famosi, le stampe e i manifesti). Il terzo valume è interamente dedicato alla scenografia. Questo aspetto cosi in teressante della nostra storia del gusto, non sempre è stato studiato con la dovu ta attenzione. Qui abbiamo la possibilità di un puntuale e circostanziato referen te: dalle meraviglie barocche, agli scorci luuinosl del settecento, fino all’ottocento e novecento, si alternano squisite elebo- razioni del Galliari, del Biblena, di Ales sandro Sanquirico, di Ferrarlo. Tra arte fi gurativa e sociologia dell’Immagine, re cuperiamo una fetta di storia per quanto di più concreto essa cl possa offrire, an che oltre la nostra immaginazione o se condo uno strano ordito della fantasia. Catalogo Nazionale B olaffi della Fotografia Giulio Bolaffi Editore, Torino, 200 pag., 221 ili. a calori e 503 in bianco e nero, lire 30.000 Con questa pubblicazione abbiamo la prima raccolta nazionale di fotografia. Fotografi noti e meno vengono a provarsi con la storia del gusto, del costume e della cultura. Questo primo inventario- sulla fotografia ci informa di una molte plicità di direzioni della «macchina oscu ra»: da un indirizzo più legato a modelli estetico-figurativi (nel solco della tradi zione «compositiva»), fino a quello che si pone come espressione di una semplice necessità comunicativa e documentarla. I nomi che si potrebbero fare sono tanti, e legati a stili e sensibilità diverse. Se gnaleremo soltanto Mario Cresci, perchè ha vinto il premio Bolaffi Fotografia 1977. Franco Fido Guida a Goldoni Torino, Einaudi, pag. 262, lire 3.500 Il volume che Franco Fido dedica a Goldoni si impone all’attenzione per più motivi. Prima di tutto si tratta di una rilet tura, in chiave sociologica, delle temati che del teatro goldoniano. In secondo luogo, l’autore traccia uno spaccato del la società veneziana ricomponendo, in chiave sociale, le figure del grande com mediografo. Partendo dall’analisi di alcu ne opere di un’epoca, della sua cultura e del gusto. Si potrebbe anche parlare di uno studio in chiave strutturalista, e non sarebbe sbagliato; ma l’idea strutturale diventa quadro di riferimlento, più che ipotesi e criterio di Indagine. Molto bene messa a fuoco la dimensione della fanta sia, apportatrice di piacere e bellezza. (A CURA DI Gianni Rondolino) Catalogo Bolaffi del cinema italiano, 1975/76 Bolaffi Editore, pag. 93, 5.800 lire È II terzo «cataolo Bolaffi del Cinema». Il presente riguarda I film italiani usciti nella stagione cinematografica 1975/76. Non siamo di fronte soltanto ad una uti lissima pubblicazione «di consultazio ne»: i film sono accompagnati da alcune schede e da una serie di interessanti dati. Il valore documentaristico di questa pubblicazione si accompagna alla possi bilità di riconoscere, su di un piano «oriz zontale», le concrete dimensioni della ci nematografia italiana. Allora ne emergo no le contraddizioni, i dettami dell’indu stria culturale e i tentativi, più o meno fal liti, per un cinema di qualità. I dati relativi all’incasso, tanto per fare un’osservazio ne banale, indicano con chiarezza i gusti di un pubblico educato ad una precisa lettura dei film soprattutto in chiave ludi- coevasiva. Ma è solo un momento dei tanti riscontrabili al di là dei dati, delle ci fre e di ogni altra possibile in dicazione. Paolo Fossati la realtà attrezzata Torino, Einaudi, pag. 264, lire 3.800 Il volume di Paolo Fossati è un sertio contributo alla messa a fuoco del Futuri smo italiano. Nella scena, quel movimen to culturale trovò diverse e interessanti espressioni. Fossati analizza i momenti di una composizione eterogenea del messaggio estetico: suoni, colori, spazio, tutti visti nel quadro di una dimensione globale. I futuristi miravano, alla radice della loro operazione, ad un singolare tipo di coinvolgimento collettivo, ed era no in questo guidati da intenti didattici e pratici. È interessante l’ipotesi di fossati tendente a dimostrare come la cultura futurista volesse creare un tipo di indivi duo nuovo, nel quadro di una ideologia globalizzante e «dinamica». Dalla teatra lità di Balla, al teatro di colore, fino all'arte meccanica, gli esperimenti dei futuristi sono ancora carichi di sugge stioni e, bene o male, diventano un obbli- aato Dunto di riferimento. G offredo Fofi Capire con il cinema Milano, Feltrinelli, pag. 397, lire 2.500 L’autore discusso di «Il cinema italia- nrv sprui p narlmni» «si nrnnnnp Hi nnnti- nuare, anche con un intento più sistema tico, la sua particolare ottica critica. Da una parte la visione sociologica nella let tura del film, dall'altra quella storica. Nel volume di Fofi sono prese in considera zione duecento opere cinematografiche, comprese nell’arco di tempo che va dal '68 ad oggi. Si possono fare delle riserve sul modo con cui l’autore valuta alcuni registri; non mancano, tuttavia, molti spunti di dibattito che fanno di questo volume un’opera dichiaratamente provo- IGOR Stravinsky E Robert C ra ft Colloqui con Stravinsky Torino, Einaudi pag. 357, 9.000 lire Questo affascinante libro è una delle guide più complete alla comprensione di uno dei più grandi geni musicali contem poranei; al tempo stesso ci permette di entrare a far parte dell’universo di tutta quella musica dal «difficile ascolto». Co nosciamo le maniere della composizione del grande maestro russo, il giudizio su altri importanti musicisti, il rapporto tra musica e altre forme d’arte, un’analisi dell’attuale situazione musicale nei di versi generi e nelle diverse forme, fino ai ricordi personali e tutte le piccole cose dolio wito /di un orHoto Giovanni Buttafava Josef Von Stenberg Firenze, La Nuova Italia, Il Casto ro Cinema n R.R Angelo M oscariello Claude Chabrol Firenze, La Nuova Italia, Il Casto ro rinoma n Giuseppe Turroni Roger Corman Firenze, La Nuova Italia II Casto ro cinema, numero: 35 Nella Collana de «Il Castoro Cinema», della Nuova Italia, sono usciti tre impor tanti monografie di registi. La numero 33 è dedicata a Sternberg il grande regista tedesco che, tra l’altro, è legato alla sco perta di Marlène Dietrich ( «L’angelo az zurro» ). La linea del più maturo espres sionismo tedesco passa per questo regi sta che, in modo del tutto originale, ha elaborato un suo stile e una sua direzio ne estetica che sono un costante punto di riferimento per molti registi d’oggi. Il caso di Claude CHabrol è, invece, tutto particolare (numero 34 della Collana). In lui, che partecipa del clima della Novelle Vague francese, la linea di ricerca è nella costante di inquietanti sottintesi. Il cine ma di Chabrol è soprattutto nella con densazione deM'immagine, dove può par tire il punto di un’accurata indagine inte riore che coinvolge le cose e il mondo. Con Corman (numero 34 della Collana) ci troviamo di fronte alla singolare figura del regista apparentemente «facile» o ascrivibile al «consumo» cinematografi co. Il suo è un lavoro dove, per amore deH’artigianato contro l’arte, giunge ad una singolare impostazione del segno fil mico. Il filone del cinema «gotico», che per un certo aspetto in lui si è riconosciu to, non è sufficiente a dare un quadro esauriente di una poliedrica disposizio ne allo schermo Paolo Petazzi Alban Berg Milano, Feltrinelli, pag. 357, lire 3.300 Paolo Petazzi ha ricomposto, attraver so dati biografici e documenti storico culturali, la figura di un musicista che, a torto, è ancora da conoscere a fondo. Questo libro cerca di sfatare il falso pre giudizio di quanti vogliono collocare Berg nella linea di un tardo romantici smo. Nel quadro di una congiunzione con la Scuola di Vienna, Berg si impone come autore del tutto originale e pieno di indi cazioni estetico-musicali. Nel volume di Petazzi sono raccolti i testi delle compo sizioni vocali e i Lieder. Joseph Losey E Franco Solinas Mr Klein Einaudi, Torino, pagg. 177, Lire 3.000 La sceneggiatura dell’ultimo film di Lo sey: una storia affascinante nel quadro del collaborazionismo francese, nel 1942. Un uomo alla ricerca della propria identità finisce, come «predestinato», in un campo di concentramento. Una delle più belle sceneggiature di Solinas. Se guono: filmografia di Joseph Losey, noti zie su Franco Solinas, cronache sella la vorazione del film, una conversazione con Losey, un intelligente saggio critico di Alessandro Cappabianca e uno scritto di Moravia L I B R I T r e n t a n n i d i t e a t r o i n g l e s e Il miglior complesso teatrale del mondo sorge a Londra, vicino al ponte di Waterloo, sulla riva sinistra del Tamigi. È il National Theatre, nuovissimo, terminato un anno fa, di rettore Peter Hall, condirettore Harold Pinter. Comprende tre teatri: ¡’Olivier, che è a thrust stage, in cui il pubblico cir conda la scena su tre lati: il Lyttleton, con palcoscenico all’italiana, e il Cottesloe, una sala a struttura.flessibile per lavori sperimentali. Il repertorio è a specchio delle tendenze attuali de! teatro inglese: dall’immancabile Shakespeare fino a Coward, passando attraverso Osborne e Pinter. Può sembrare strano che Londra si sia data un complesso teatrale «faraonico» proprio mentre a Parigi un’altra strut tura per certi aspetti analoga, il Thèàtre National Populaire che era stato fondato da Vilar, punta sul decentramento per sopravvivere. In realtà, i tempi del teatro inglese non sono stati, da! dopoguerra in poi, gli stessi del teatro francese, e sulle rive de! Tamigi è lecita, oggi, un’esperienza centraliz- zatrice che non avrebbe piu senso sur Seine. Tutto questo risulta chiaro percorrendo i «Treni’anni di teatro inglese» di Patrizia Monaco e Gianni Poli: un rappor to chiaro, in cui non manca nulla dell’essenziale, sul ¡’«irre sistibile ascesa» di una drammaturgia che era parsa mori bonda (secondo il giudizio di Arthur Miller) fino alla metà degli anni Cinquanta e che invece dal ’56, dopo l’irruption di qualche giovane autore «arrabbiato» come John Osborne, liberatasi dalla pesante eredità del puritanesimo, ha ritrova to i fasti di tre secoli prima, quelli del regno di Elisabetta I. Gli autori — due giovani studiosi di teatro genovesi, che hanno compiuto lunghi soggiorni sulle rive del Tamigi — ol tre alla completa corresponsabilità del saggio si sono suddi visi i temi specifici. La Monaco ha scritto i capitoli «La sce na inglese nel dopoguerra», «Lo spazio teatrale di Peter Brook e la stagione della crudeltà», «I gruppi "Fùnge”» e « Terso gli anni Ottanta»: il Poli ha compilato «Ribelli tra rabbia e utopia», «Manierismo e assuefazione negli anni Sessanta e Settanta», « Violenza e irrisione nella dramma turgia di Edward Bond». La semplice elencazione di questi temi indica l’articola zione particolarmente ricca, pur nei limiti deI rapporto infor mativo, del libro della Monaco e di Poli. Fra l’altro, il discor so non resta circoscritto alla capitale, dove concentrato un terzo dei palcoscenici della Gran Bretagna, ma giustamente segnala la crescente vivacità dell’attività teatrale nella pro vincia inglese, dopo la guerra come conseguenza della chiu sura di sale londinesi danneggiate dai bombardamenti ed in seguito come risultato dell’introduzione de! sistema delle sovvenzioni pubbliche, che permise la nascita di una dram maturgia diversa da quella, prettamente commerciale, che si era accantonata nel West End di Londra. Non c è dubbio in fatti che la rottura col passato (un passato caratterizzato dall’estrema commercializzazione delle attività teatrali, e dal ferreo intervento della censura) si ebbe, prima, con la co stituzione (1946) dell’Arts Council ofGreat Britain, organi smo ufficiale per l’aiuto alle arti che permise di sovvenzio nare la costruzione di teatri e l’attività di compagnie, com presa l’apertura nel 1963 del primo Teatro Nazionale diretto da Laurence Olivier, e, poi, con la promulgazione del Locai Governmenti Act, che autorizzò le municipalità a veisate contribuzioni.finanziarie per spettacoli e ad aprite nuove sale a Chichester, a Nottingham, a Guilford. Subito dopo la guerra Laurence Olivier e Ralph Richar- dson diedero nuovo impulso al londinese Old Vie; ne! 53 Joan Littlewood installò il Workshop Theatre nei sobborghi della capitale, a Stratford, alla ricerca di contatti col pubbli co popolare (dando modo a Brendan Behan e Shelag Dela- ney di uscire dall’anonimato); qualche tempo dopo il «Cen tro 42» di Arnold Wesker animò dei festivals nei quartieri industriali, con ¡’appoggio dei sindacati; e intanto George Devine, dell’English Stage Company, partiva alla scoperta di nuovi autori che si chiamavano Osborne, Simpson, Jelli- coe, Arden, Wesker. Questi momenti di rottura e di rinnovamento sono chiara mente individuati nel libro, insieme a svelti riepiloghi sull ul tima stagione del «boulevard inglese» de! West End, sugli epigoni di G.B. Show, sull'influenza di Thomas Stearns Eliot e Christopher Fry. Poi il discorso s allarga all «il ruzione» dei giovani autori degli anni 50, a cominciare da quella «Pace della domenica» di Osborne che fu il segnate della ri volta contro i vecchi codici delPestablishment teatiale, ed alla quale seguirono i testi di Brendan Behan, di Ann Jel- licoe, di Shelag Delaney, di Willis Hall, di Alun Owen, di Arnold Wesker, di John Arden, di Norman Frederick Sim- pson, di Harold Pinter, di Peter Shaffer e di quanti altri han no ampiamente provato anche all estero, anche in Italia, la ritrovata vitalità della drammaturgia anglosassone. Ma questa è storia nota, e qui fermiamo l’elenco dei protagonisti della cronaca trentennale del teatro inglese scritta dalla Mo naco e dal Poli. Trent’anni di teatro inglese, di Patrizia Monaco e Gian ni Poli — Pan Editrice, Milano — Collezione «Il Timone» — Pagg. 220 — L. 2.500. Ugo Ronfani E Marco De Marinis Teatro e comunicazione Guaraldi, Firenze, pag. 159, Lire 2.500 Questo libro, della collana «Le giudi Guaraldi», è un serio contributo alle ri cerche sui rapporti tra teatro e comuni cazione, Di particolare interesse è II sag gio di Gianfranco Bettetini sulla semioti ca teatrale: l’intelligente studioso italia no ricompone i termini di una difficile ri cerca sui codici e sottocodici, esponen do molti problemi in una chiave di sottile provocatorietà. Il saggio bìbliograficc curato da Marco De Marinis rappresenta il corpo centrale di questo volume, utile allo studioso e a tutti coloro che voglionc meglio conoscere la letteratura sul tea tro. Furio Colombo, Roberto Grand Nora Rizza Radio e televisione Guaraldi, Firenze, pagine 174 Lire 2.500 Il quarto volume della serie «Guide Guaraldi» è dedicato alla Radio e alla te levisione. Questo libro contiene tre sagg sui diversi aspetti dei problema televisi vo, e sono, rispettivamente, di Furio Co lombo, Roberto Grandi e Nora Rizza. Se gue un saggio bibliografico e una biblio grafia generale di Roberto Grandi e Nora Rizza. Alessandro Cappabianca BNIy Wilder La Nuova Italiana, il Castoro ci nema, Firenze, pagine 114, Lire 1.400. Questa monografia su Wilder, scritta con molta lucidità da un Intelligente stu dioso di cinema, ha il grande merito di essere semplice alla lettura, mentre spiega la complessa poetica di uno dei più Interessanti registi americani. La mi sura strutturale e formalista fa parte del metodo di indagine di Cappabianca: qui, però, pur applicata, non è mai a discapito della fruibilità del discorso. Egon WELLESze Frederick Ster- nfeld (a cura di) Storia della musica Oxford — L’età dell’Illuminismo Feltrinelli, Milano, pag. 816, Lire 20.000. Il periodo preso in esame è quello che va dal 1745 al 1790 — la stagione dell’opera seria, Gluck, Mozart, le origini della sinfonia e della musica da camera —. Si è di fronte ad un’epoca della storia occidentale tra le più delicate. Noi abbia mo fatto in tempo a leggere la parte che riguarda Mozart. Le riserve che abbiamo riguardano una impostazione un po' set- torializzata (la divisione In generi della produzione mozartiana): ci pare un limite che, però, è riscattato dal grande rigore con cui è condotto tutto lo studio teorico pratico del Agostino Pisani Manuele mandolinista Goliardica, Cisalpino, pagine 169, Lire 2.500. Si tratta di una ristampa di un vecchio manuale Hoepll, edito nel 1923: è Inte ressante non solo per gli appassionati, ma anche per qualsiasi persona voglia tornare, con un certo «incantamento», alle memorie di uno di quegli strumenti che sembrano legati alle stagioni della moda. E forse per moda può risultare interes sante? Bruna Valenti La danza La Scuola, Brescia, pagine 11 6, Lire 1.600. Una storia della danza che fa affida mento soprattutto all'illustrazione grafi ca. Il periodo preso in considerazione è immenso: dalla antica Grecia fino ad oggi, alla «danza libera» di Bejart. Mario Federici Teatro Abete, Roma, pagine 594, Lire 6.000. Si tratta di sette drammi e sfondo sto rico e morale di un sensibile commedio grafo abruzzese. Dario Fo Ballate e canzoni Newton Campton, Roma, pag. 196, Lire 1.800. Un’opera dalle vaste proporzioni che, pur da una consultazione In biblioteca pubblica, cl sembra condotta con molto rigore. Giuseppe Vettori ha raccolto — con una blgllografla e con una più accurata discografia — centrotre testi dai diversi spettacoli di Dario Fo. AA. VV. Teatri e scenografie Touring Club pagine 1 91, Lire 8.500. Italiano, Milano, Questo volume fa parte della collana «Italia meravigliosa». Si affronta il tema del teatro e della sua scenografia In un excursus storico che va dal Rinascimen to ad oggi. Introduzione di L. Squarzina. Roberto Grandi e Giuseppe Ri- CHERI Le televisioni in Europa Feltrinelli, Milano, pagine 312, Lire 3.000. Informazione, cultura e spettacolo in un’indagine che privilegia il carattere so ciologico e un’analisi di tipo comparati vo. Antonio Serravezza Musica, filosofia e società-in Tb. W. Adorno Dedalo Libri, Bari, pagine 255, Lire 3.000. Uno studio serio ed accurato sul più grande sociologo deila musica contem poranea. L’indagine è anche il primo bi lancio sulla visione adorniana della mu sica, pur nell’interno di certe contraddi zioni che caratterizzano il pensatore francofortista. Alfredo Barbina (a cura di) Cronache e scritti teatrali di Corrado Alvaro Abete, Roma, pagine 500, Lire 6.000. Questi scritti di Alvaro sono molto im portanti, non solo perché rivelano le qua- iità teatrali dell’autore del famoso roman zo Gente in Aspromonte, ma perché ci rendono tutta la grande modernità di os servazione critica in un insospettato «teorico» della scena. In Alvaro, infatti, si scopre una quantità di osservazioni che sono di straordinaria attualità. Thomas A lcorn Fotografie Rizzoli, Milano pagine 62, Lire 4.000. La raccolta di una sessantina di foto grafie di un giovanissimo: Alcorn le ha prodotte tra i tredici e i diciassette anni, età in cui è morto. Semplicità, poesia, dolcezza e melanconia del quotidiano convergono in un quadro di autentica e rara semplicità. L I B R I U n " t e m p o n u o v o ” p e r G o l d o n i Affermare che tra il passare degli au tori, tra il nascere e il morire delle avan guardie Goldoni «resta», è dire cosa fin troppo ovvia. Goldoni resta perché la sua «commedia umana», sotto i travesti- menti d’epoca, è sempre vera: e il teatro ha bisogno di verità. Ma la permanenza di Goldoni non è soltanto recupero cul turale del passato, e neppure la rilettura goldoniana di questi anni si esaurisce nel la scoperta deH’inalterabilità dei caratteri e delle passioni dietro le convenzioni so ciali. Si torna a Goldoni convinti che il suo teatro possa essere riproposto alla luce delle nostre concezioni attuali della società, come suggerisce Guido Davico Bonino nella sua introduzione alle com medie che ha da poco pubblicato Gar zanti, nella collezione «I grandi libri». Il lavoro del Davico Bonino muove appunto dalla consapevolezza che si stia aprendo — in Italia e, forse, non soltanto in Italia — un «tempo nuovo» nell’ap proccio di Goldoni, destinato a rimuove re l’immagine che di lui, nonostante tut to, tenacemente resisteva, e che era di vulgata da manuali ed antologie di ispira zione idealistica, nella scìa della critica goldoniana del primo trentennio del se colo. La percezione del lettore medio era quella di un uomo di teatro che aveva fatto — dice il Davico Bonino — dell’au- rea mediocritas la sigla del proprio lavoro e della propria esistenza; di una persona lità sincera e delicata ma non profonda, di un carattere per istinto bonario ma poco propenso a prendere di petto gli ostacoli: e dunque l’immagine di uno scrittore abile a delineare soltanto dissidi di superficie, a velare le verità con l’iro nia, a ridurre i personaggi in silhouettes e i caratteri in caricature. È invece certo che al fondo di un Gol- doni mite e svagato s’agitavano passioni sociali, dettavano legge precise opinioni sulla società del suo tempo. Non occorre studiarlo — dice ancora Davico Bonino — attraverso gli schemi ideologici del russo Ginelegov, o col rigore dello stori cismo marxista di un Dazzi, per rendersi conto che Goldoni fu straordinariamen te lucido nel captare il paesaggio sociale, culturale, etico della Venezia del suo tempo, e nel fare non labili scelte di cam po. Si può senz’altro parlare di un’adesio ne del Goldoni «a queU’illuminismo po polare, legittimo ed importante anch’esso a fianco dell’alta filosofia» (Valeri), che si manifestava più come eti ca comportamentale che come riflessio ne ideologica. Con l’illuminismo Goldo ni «simpatizzò certo da orecchiante», ma pur sprovvisto del talento dell’utopista o della cultura dell’ideologo «sentì la nuo va morale con rigore ed entusiasmo». Finché, a partire dalle «Baruffe chioz- zotte» (1761), teatro e mondo della co scienza, con l’irrompere definitivo del popolo sulla scena, nel Goldoni coincise ro: «il popolo ha diritto di parola sulle assi della scena proprio perché nella so cietà è ormai in condizioni di supplire ai limiti vistosi dell 'altra classe, la borghe sia (l’aristocrazia è da tempo fuori gioco, quindi fuori scena). Il popolo è nelle «Ba ruffe» protagonista di teatro perché agli occhi del Goldoni è il solo che sembra avere delle risorse vitali, il solo a poter giocare un ruolo nuovo nel futuro della vita sociale». Nessun dubbio che, intorno al Goldo ni, questi veli siano stati squarciati anche, se non soprattutto, grazie alle messinsce na dei nostri uomini di teatro dal dopo guerra in poi: e qui vengono spontanei i nomi di Strehler, Visconti, Squarzina o De Bosio, fino alle recenti dissacrazioni di un Mario Missiroli, utili contro il resi duo, dolciastro «goldonismo». Chi voglia ripercorrere l'iter di qua rantanni di spettacoli goldoniani in Italia farà bene a leggere le pagine che, sull’ar gomento, ha scritto Raul Radice per il numero 3-4 della «Rivista Italiana di Drammaturgia», il trimestrale dell’IDI diretto da Egidio Ariosto, redattori Rug gero Jacobbi e Ottavio Spadaro. È un nu mero in gran parte dedicato a Goldoni, e che dunque viene anch’esso a conferma re (insieme a pubblicazioni sparse, fra cui da segnalare quelle del «Teatro Univer sale» di Bulzoni) 1’esistenza di quel «nuovo tempo» goldoniano di cui si par lava. Mario Baratto, che del Goldoni è uno dei nostri più esperti e sensibili scrit tori, propone una lettura del «Todero» affidata al presupposto che il commedio grafo sia andato più in là del semplice studio del carattere per estrarre dallo statuto sociale del personaggio «un’in venzione drattamurgica che va netta mente oltre, per coerenza di sviluppo, alla sua coscienza (e prudenza) ideologi ca; Davico Bonino fa un’analisi della «Famiglia dell’antiquario» come com media della crisi imminente di un indivi duo ma anche «delle strutture sociali e dei relativi modi di comportamento»; al tri riferiscono sulle fortune del Venezia no in Francia (dal dopoguerra), in Porto gallo (nel XVIII secolo) e in Cecoslovac chia (nell’ultimo decennio). Da noi le regie glodoniane che «hanno contato» a partire dal quinquennio 1935- ’40, epoca in cui l’opera del Goldoni fu indagata con coerenza e sistematicità, sono state almeno ottanta, secondo il di ligente inventarioVli Raul Radice. Come dire che si è provveduto, in questi qua- rant’anni, ad un opportuno depoussiéra- ge del Goldoni, finalmente sottratto al vortice carnevalesco delle maschere del la Commedia dell’Arte, e che è davvero giunto il tempo di vederlo — sia detto senz’ombra di retorica — come un anti cipatore, della moderna società. Ugo Ronfani Il monologo, dunque, è tornato sui no stri palcoscenici, e già v’è chi riconosce in questa presenza la conseguenza dell’alto costo degli spettacoli. Quali che siano i motivi veri di questa riapparlzione di un genere drammatico che sembrava pressoché scomparso, è Interessante Indicare nella nuova leva di autori-attori di monologhi un giovane ro mano, già definito «nuovo Fregoli»: è Carlo Verdone, regista di «superotto» un derground e di documentari, diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia, che ha composto in uno spettacolo di un’ora, Tali e quali, una vera galleria di tipi, senza truccarsi, senza fare ricorso a mezzi scenici vistosi, ma ricorrendo sem plicemente alle sue capacità di trasfor mista mimico e soprattutto vocale. Pas sando dal sacerdote di campagna che fa una predica, al professore di matematica che improvvisa una lezione assurda, al marito sadomasochista, alla comparsa di Cinecittà, al regista arrivato, Carlo Ver done sfodera con sicurezza qualità di mimo, di imitatore, di attore fuori di ogni scuola, con quel tanto di selvaggio che lo preserva da ogni accademia e lo tiene di stante da ogni prototipo. Il numero che ottiene maggior successo è quello dell’intervista a Ponte Sisto ad una serie di passanti trovatisi di fronte a un suici dio di due vecchiette. Ognuno dei pre senti ha visto una cosa diversa: e c’è an che chi crede di aver visto barche, tron chi d’albero, o addirittura due cervi, il successo attenuto da Carlo Verdone nel suo recital all’Alberichino è stato decre tato dal pubblico e dai critici. Bruno Gentili Lo spettacolo nel mondo anti co Laterza, Bari, pag. 127, Lire 2.000. Indagine sul modo di «fare teatro» nell’età ellenistico-romana. Sono messi in rilievo questi problemi, che sembrano caratterizzate la pratica teatrale in quel periodo: la strutturazione antologica, il virtuosismo del bel canto, l’adattamento di un contesto a diverse realtà culturali. L'autore mette molto bene in risalto come il problema delle «contaminazioni» è alla base di una corretta valutazione anche della drammaturgia classica. Fernardo Trebbi Il testo e lo sguardo Pàtron, Bologna, Lire 3.900. ricomporre tutti i temi relativi al film e all’opera del regista, del quale esamina una singola scena. Roman Gubern Immagine e messaggio nella cultura di massa Liguori, Napoli, pag. 342, Lire 6.000. Questo volume di Gubern è interes sante per il modo con cui è condotta un’analisi della cultura di massa, attra verso il filo delle immagini. Anche se in alcune parti l’opera appare unpo' troppo «sintetica», il pregio del lavoro rimane in tatto, anche per la chiarezza con cui è condotto. Gianfranco Maselli Il cercadischi Mondadori, Milano, pag. 304, Lire 900. S e g n a la z io n i Guido Davico Bonino (A CURA DI) Il testo italiano — La commedia del Cinquecento Tomo primo — Einaudi, Torino, pagine 528, Lire 7.000. Sandro Zambetti Rosi La Nuova Italia, «Il castoro Cine ma», pag. 148, Lire 1.400. Fernando Di Giammatteo (A CURA DI) Lo scandalo Pasolini Bianco e Nero, Roma, numero 1/4, 1976 Una minuziosa analisi di un «micro-te sto» cinematografico: la sequesenza fi nali di «Professione: reporter» di Anto nioni. Seguendo la metodologia di una certa scuola francese, l’autore cerca di Una guida all’ascolto e alla scelta di di schi e musica. Si va dal Medioevo fino ai nostri giorni. Nel volume sono compresi anche consigli sul modo di formarsi una discoteca. C arlo Salinari ‘Saviane La Nuova Italia, «Il Castoro», pag. 80, Lire 1.400. Giordano Bruno Il Candelaio Rizzoli, Milano, pag. 328, Lire 2.500. Dino Cafaro Lettera aperta Sallustiana, Roma, pag. 52, S.I.P. Rita Cirio Dodici cenerentole in cerca d’autore Qaudragono Libri, Conegliano, pag. 28, Lire 4.900. Massimo M archelli Francois Truffaut Moizzi, Milano, pag. 93, Lire 1.800. Renzo T ro tta Sidney Pollack Moizzi, Milano, pag. 93, Lire 1.800. Milosz Teatro Jaca Book, Milano, pag. 155, Lire 2.500. Mariapia Fanfani Cina un quarto del mondo Fabbri, Milano, pag. 238, Lire 35.000. Rita Giuliani Andreev La Nuova Italia, «Il Castoro», Fi renze, pagg. 135, Lire 1.400. G illo D orfles Il divenire della critica Einaudi, Torino, pag. 278, Lire 8.000. Jean A. Keim Breve storia della fotografia Einaudi, Torino, pag. 138, Lire 2.500. Enrico Fubini L’estetica musicale dell’anti chità al settecento Einaudi, Torino, pag. 162, Lire 2.500. Massimo Mila Madera musicista europeo Einaudi, Torino, pag. 131, Lire 2.000. Calzavara Elisa - Enrico Celli Il lavoro di spettatore Armando, Roma, pag. 291, Lire 4.000. i n □ B A Barga, un piccolo co mune nella valle del Ser- chio, si svolgerà anche quest’anno, per l’undicesi ma volta, un’intensa sta gione dedicata alla lirica ed allo studio della lirica. La manifestazione inizierà il primo agosto e sarà divi sa in due momenti: il primo eminentemente didattico, il secondo incentrato sull’al lestimento di alcune opere pressoché sconosciute. Si studieranno, sotto la guida di autorevoli specialisti, fra l’altro: interpretazione ed approfondimento stilistico delle opere di repertorio, analisi delle partiture, tec nica direttoriale, regia, sce nografia, luci, costumi, ecc. Saranno una trentina i film italiani che partecipa no quest’anno al festival cinematografico di Mosca. Per quanto riguarda i film in concorso, Michail Alexan drov, il direttore del Festi val di Mosca, ha dichiarato che la sua attenzione si è soffermata su quattro pelli cole: «San Babila ore 20» di Lizzani, «Signore e si gnori buonanotte» di Age, Comencini, Bernardi ed al tri, «Una vita venduta» di Aldo Fiorio e «Anima per sa» di Dino Risi. È stato inoltre reso noto dal vice ministro della cultura che Valerio Zurlini sarà il mem bro italiano della giuria e che è un progetto, a Mosca, la realizzazione di un film di Michelangelo Antonioni, «L’Aquilone», da girare in teramente nell’URSS con soli capitale sovietici. È stata organizzata nell’Anfiteatro della Quer cia del Tasso, a Roma, una rassegna di folk e jazz or ganizzata dal circolo Mura les con la collaborazione del comune. Hanno suona to, fra gli altri, il collettivo musicale «l’Officina» di Si racusa, il trio del sassofo- e nista Massimo Urbani, il quartetto del sassofonista e glautista Maurizio Giam- marco, il trio di Roma e la Old Time Jazz Band del trombettista Luigi Toth. Sotto il patrocinio dell’UNICEF si è svolto al Teatro delle Fonti a Fiuggi uno spettacolo nel corso del quale è stato conse gnato il premio «Sagittario d’oro» a diversi personaggi del mondo dello spettaco lo. Madrina della manife stazione è stata Giulietta Masina, quale ambasciatri ce dell’UNICEF per l'Italia. La giuria presieduta dal maestro Mario Zafred ha assegnato, tra gli altri, il premio all’attrice Lilla Bri- gnone. È tornato in Italia, per tenere dei concerti al Mu sic Inn, il clarinettista e compositore californiano Bill Smith, che visse a lun go a Roma negli ultimi anni cinquanta facendo concer ti e dischi con l'America Jazz Ensemble, da lui fon dato col pianista Johnny Eaton. Suonano adesso con lui il batterista Pepita Pignatelli, il pianista Enrico Pieranunzi ed il giovane contrabbassista Marco Fratini. Sullo schermo del Filar monico di Verona è di tur no, quest'anno, il cinema delle Repubbliche Sovieti che. La metà dei film che si proiettano fanno parte del le repubbliche Federali; il film di Ali Kamraev, «L’uomo insegue gli uccel li» ha aperto la settimana che è stata completata dal la «personale» dell’anziano documentarista Roman Karmen del quale s stato presentato, l’ultimo giorno, anche il suo più recente la voro «Il cuore di Corvalan» del 1975. John Hedgecoe Fotografare Mondadori, Milano, pagine 256, 850 ili., Lire 10.000. Il problema della fotografia visto so prattutto nell’aspetto della sua tecnica. Ne consegue anche una ipotesi: impara re a riprendere la realtà è, più o meno, come riconoscere tutto il valore del reale fotografato. Laura Bonaparte Giuliano Montaldo e «L’Agnese va a morire» Contemporanea, Milano, pag. 95, Lire 1.800. Un volume in cui ritroviamo dei passi scelti dalla sceneggiatura del film di Montaldo, interviste agli attori e un’anto logia della critica al film. Gisele Freund Fotografia e società Einaudi. Torino, pag. 184, Lire 3.000. Il significato della fotografia come in terpretazione, mistificazione e informa zione della realtà. Uno studio che, pur in certi limiti, ha la caratteristica di «discor so aperto». Immagine fotografica e so cietà si confrontano: attraverso le riviste specializzate, popolari ecc. Chito Guala Il quotidiano come ideologia Lacaita, Manduria, pag. 190, Lire 4.000. Ricerca sociologica sul quotidiano genovese II lavoro. Con tremila questio nari si indaga il rapporto tra il giornale e il lettore. Quello che più interessa è la possibilità di riconoscere, in questo lavo ro, una verità di carattere generale: l’in formazione di massa e i suoi possibili condizionamenti. George Steiner Morte della tragedia Garzanti, Milano, pagine 272, Lire 2.000. Il significato della tragedia, la sua so pravvivenza e i motivi che compongono questo genere. Si segue il lungo percor so del fenomeno dal mondo greco fino ad Ibsen. Fabio Donato Masaniello Editoriale Scientifica, Napoli, pag. 110, Lire 6.000. Attraverso una serie di fotografie, una specie di «trasposizione in immagine fis sa» del fortunato spettacolo teatrale, la prefazione è di Armando Pugliese. Mario Scaccia Zio Cardinale Trevi, Roma, pag. 144, Lire 2.500. In questa commedia abbiamo il debut to come commediografo di Mario Scac cia. La storia è ambientata negli ultimi anni del governo pontificio: contornato da una serie di singolari personaggi, cam peggia la figura iilumitata di un popolare cardinale che, in fondo, capisce la ne cessità dei nuovi tempi. Gino Stefani Introduzione alla sem iotica della musica Sellerio, Palermo, pag. 229, Lire 4.000. Un saggio di particolare interesse per «addetti ai lavori»; l’approccio semiologi- co allo studio della musica viene, qui, esemplificato con tutta una serie di spar titi musicali e con intelligenti progetti se miotici. Meri Franco-Lao Basta: storia rivoluzionaria dell’America Latina attraverso la canzone Edizioni Jaca Book, pagine 352, Lire 5.800. Un libro che, a tredici anni dalla sua prima edizione, appare meno manicheo, più meditao e oggettivo. La storia di una tragedia politica che va da Cortez a Mon- tezuma fino al regime di Pinochet: il tutto espresso nel filo conduttore di 195 can zoni, di cui l’autore pubblica anche le musiche. AA. VV. Dedicato a Pier Paolo Pasolini Gamma, pag. 178, Lire 3.500. Un’antologia di scritti sul regista, scrit tore, uomo di teatro che fu Pasolini. Fra gli altri saggi è di particolare interesse quello di Grazzini e di Carlo Bordini. Gaetano Romanato Pirandello e il suo teatro Istituto Padano di Arti Grafiche, Rovigo, pagine 225, Lire 3.500. Pirandello come autore di grande at tualità: questo è il generico assunto di un volume che, analizzando quarantatrè commedie, non contribuisce a «partico lari» recuperi della poetica pirandelliana. Gildo Moro Il teatro di Carlo Terron Patron, Bologna, pag. 179, Lire 3.700. In questo libro l’autore cerca di mette re in rilievo la presenza dell’autore in Ita lia. E Terron, di cui esamina tutta la pro duzione drammaturgica, è figura che suggerisce molti spunti per una ricca analisi. Jean Mairet La Silvanire Bulgari, Roma, pag. 437, Lire 11.000. Curata da Daniela Della Valle, viene presentata la «tragicomédie-pastorale» che fu scritta nel 1630. Il discorso non ha solo il significato di un mero recupero: ne emergono spunti di grande modernità, tutti da gustare. Federico Garcia Lorca Teatro Breve Giannotta, Catania, pagine 81, Lire 1.500. Marco Gaido Radio Libere? Arcana, Roma, pag. 167, Lire 2.500. Abbiamo, per la prima volta tradotte in italiano, tre opere di Lorca che si riferi scono ai moduli dell’avanguardia simbo- lico-surrealista. Si tratta di La passeggiata di Buster Keaton, la ragazza, il marinaio e lo stu dente, Chimera. Cronisttoria dell’avvento e dello svi luppo delle radio libere nel mondo. L’autore cerca di mettere soprattutto in rilievo come qualsiasi radio — e per prime proprio le radio libere — per so pravvivere deve sapere a chi si rivolge, qual'è il suo pubblico. l e t t e r e a " i l d r a m m a ” E g e m o n i a d e l l o s b a d i g l i o ? Caro Direttore, Nel nostro paese il conformismo della co siddetta «cultura di sinistra» si sta dimo strando ancora più noioso di ogni altro con formismo politico corrente. Esso infatti in Italia è la somma di più conformismi: il conformismo fascista, scivolato, grazie alla mediazione di «Primato» e dei Litto- rali e grazie alla scaltra indulgenza di To gliatti, in un antifascismo di maniera, in un populismo opportunista; il conformismo stalinista, importato ne! dopoguerra daU’URSS 0non dimentichiamo che alme no per una dozzina di anni dal ’44 a! 56 molti intellettuali italiani hanno creduto o finto di credere alle grottesche versioni dif fuse dal potere sovietico sui processi de! '3 7 e sulle atrocità staliniane); il conformismo folkloristico-liberatorio che si rifa ad auto ri e disegnatori come Podrecca e Galanta- ra nonché a! «Don Basilio» del ’48); ed in fine un quarto conformismo, che si preten de snob e cosmopolita ma è fatto da piccoli borghesi di provincia che sono stati a Pa- rigi e che prendono regolarmente fischi per fiaschi, confondendo la sociologia con la letteratura, Dario Fo con Marceau. Quanto valga questo mostriciattolo con tre teste e mezza (il quarto conformismo è, come il visconte di Calvino, un conformi smo dimezzato) lo abbiamo potuto consta tare nell’imbarazzo con cui la cultura di si nistra ha accolto nelle settimane scorse due dei massimi scrittori del nostro tempo, due spiriti liberi (e quindi liberi anche di sbagliare) come l ’argentino Borges e il franco-rumeno Jonesco. Non potendo ne gare la grandezza di Borges e di Jonesco, «nostri» «nostr» hanno cercato con oscure circonlocuzioni di dimostrare come le loro simpatie politiche — certo discutibili come nel caso di Bòrges ma comunque da collo care, come egli stesso ha giustamente ricor dato in un contesto diverso da! nostro — fossero da collegare a un supposto rincre- tinimento senile, a! rimbambimento dei due scrittori. Sconfitta nel confronto con la vera cultura, la «cultura dì sinistra» ha creduto di trovare pane per isuoi denti nel dilemma Fo o ZeffìreUiproposto dalla con temporanea nelle due reti televisive di «Gesù di Nazareth» e di «Mistero buffo». Apparentemente il terreno sembrava fatto apposta per una bella figura degli intellet- tuali di sinistra. Apparentemente la cultu ra di sinistra giocava nel suo campo. Da una parte la visione «tradizionalista» e quindi «retorica», «obsoleta», «interclas sista», «non rivoluzionaria» di Zeffirellì, dall’altra parte la visione «progressista» e quindi «iconoclasta», «dissacrante», «co raggiosa», per non dire «eroica» di Dario Fo e Franca Rame. Ma ancora una volta la trappola dell’irrimediabile provinciali smo italiano con il suo dialetto romanesco- marxista è scattata. Il « Gesù di Nazareth» si difende da sé: decine di milioni di spet tatori dall’Italia all’Inghilterra, agli Stati Uniti, dimostrano che il lavoro di ZeffìreUi ha avuto una sua presa. Arturo Lanocita ha steso il necrologio de! «Mistero buffo» con un ’eleganza epi grafica: «Con evidenza, lo spettacolo è ca rente di senso comune e di eleganza men tale. Anche la beffa vuole uno spolvero di pensiero e di grazia. L'ubriacatura di Fo, nel finale, con il vino delle nozze di Cana, creato dal primo miracolo di Cristo, è anch’essa strumentalizzata dal potere, il mostro a cui Mistero buffo non cessa di im precare, precisando sempre a quale latitu dine vada collocato il potere cattivo». Ma il risultato di tutto questo è la noia. Due anni almeno di egemonie della cultura dì E r r a t a c o r r ig e Alla voce «Teatro per ragazzi — Attività di animazione», per una svista tipografica, non era incluso, nel numero precedente de «Il Dramma» (vedi «speciale Teatro in Lombardia), la Compagnia Sociale «Teatro Studio’75». Ce ne scusiamo con i lettori. Tra l’altro, la Com pagnia opera nella Regione Lombarda dal 1973 e quest’anno ha rappresentato «Come per tro vare lavoro Arlecchino», di cui vediamo una scena foto, con gli attori Nino Carillo ed Enzo Forcellini. Autore dello spettacolo è Walter Mauri e la regia è di T. Pendoli. sinistra ed il risultato è un immenso sbadi glio. Il vero ed unico mistero buffo della cultura italiana degli anni ’70 sarà forse per la storia di domani questa «egemonia dello sbadiglio». Mario Rossetti — Roma ad attraversare la ribalta e altre questioni di rilevanza universale. Tolte via le super ficiali problematiche dal «famigerato» Solzenicyn, intellettuali dei due paesi, han no poi, per giorni discusso e litigato sulla parola e sul gesto; favorevoli al gesto gli italiani (che di parole contro il regime pos sono dirne a migliaia), favorevoli alla pa rola i russi (che non possono parlare). Chi aveva scritto tale copione? Pirandello? Da rio Fo? Certamente i più hanno smarrito l’iro nia; e alcuni vanno anche perdonati perchè un viaggio a Mosca beh è pur sempre qual cosa. Ma di Sartre sapevano? Oppure è di ventato reazionario anche Sartre? Non voglio essere ironico. Vorrei soltan to agitare un problema, chiedere di saperne di più su quel dibattito a Mosca e, magari, allargare il discorso in casa nostra. So che ci sono tanti altri problemi importanti di cui discutere da noi. ma anche questo ria perto da Sartre non è poi un problema così secondario — o no? Adolfo Lippi — Roma A M o s c a ! a M o s c a ! Caro Direttore, a Parigi, Sartre e Simone de Beauvoir han no ricevuto i resistenti sovietici. Con Brez nev a due passi. A Mosca, Breznev assen te, i padroni dei teatro ufficiale sovietico hanno ricevuto molti uomini di teatro ita liani. A Parigi, Sartre ha detto: «Io penso che poiché la opposizione politica e anche quella normale delle libertà civili non sono assolutamente ammesse in URSS, poiché le persone che sono qui escono dai campi e dalle prigioni dove erano per delitti di opi nione, è indispensabile e normale che dei democratici liberi, francesi, prendano la difésa di ciò che essi vogliono, pensano, amano e cioè li considerino uomini come loro». A Mosca il signor M.L. Ciausov, capo della direzione dei teatri al Ministero della cultura ha parlato del «famigerato» Solzenicyn e di «altra simile gentaglia» e dei loro «sporchi, luridi» tentativi di infan gare la cultura sovietica. A Parigi, intellettuali francesi come Ro land Barthes, Pierre Daix, Eugenio Jone- sco, Maurice Clavel hanno applaudito Sartre. A Mosca Ciausov che accoglienza ha avuto? Poiché gli avvenimenti erano concomitanti, l ’episodio merita riflessioni ulteriori. E per riflettere bisogna leggere l ’articolo di Roberto De Monticelli pubbli cato su «lì Corriere della sera» del 23 giu gno, articolo dove si fa la cronaca dell’in contro di Mosca. Di cosa hanno parlato e su cosa hanno discussogli uomini di teatro italiano coi «compagni» sovietici? Ma «naturaliter» di ciò che è fondamentale per l’uomo dei due popoli: di «quarta pare te», di arco voltaico che si stabilisce tra palcoscenico e platea, insomma di paura ENTE N A ZIO N ALE PER L’ENERGIA ELETTR IC A PER UNA MIGLIORE E PIU' ECONOMICA UTILIZZAZIONE DELL’ENERGIA IL FRIGORIFERO Per il più conveniente funzionamento del frigorifero è opportuno tenero presente che: — l'ubicazione ideate è nel punto più tresco del locale, con una distanza, tra la parte posteriore e la parete, sdtficiente per l'areazione; — nella regolazione del termostato va scelta la temperatura meno bassa che consenta una soddisfacente conservazione degli alimenti: 6 Inutile • dispendioso un freddo più intenso: — il numero e la durata delle aperture degli sportelli, specialmente per lo scomparto dei surgelati, devono essere ridotti il più possibile per evitare fughe di freddo; — lo spessore di ghiaccio sulle pareti interne non deve raggiungere i 5 mm: se lo sbrinamento non è automatico, occorre provvedere ma nualmente, secondo il libretto di istruzioni; — le guarnizioni difettose degli sportelli devono essere sollecitamente sostituite: rappresentano una falla nell'Isolamento termico. non eccessivamente sporchi; bretto di istruzioni fornito dal costruttore; LAVABIANCHERIA E LAVASTOVIGLIE Per quanto riguarda le macchine per lavare {lavabiancheria e lavasto viglie), la scelta va fatta dopo aver esaminalo le caratteristiche e le pre stazioni dei vari modelli, tenendo ben presenti le esigenze familiari. Per l’uso dei due tipi di macchina si consigliano i seguenti accorgimenti. — la messa in funzione quando si è raggiunto un carico completo; — la scelta di programmi abbreviati e a temperatura ridotta per carichi — lo sfruttamento di eventuali dispositivi economizzatori, secondo il li — la frequente pulizia del filtro. LO SCALDACQUA Lo scaldacqua è un importante consumatore di energia elettrica: merita pertanto particolari attenzioni. Le dimensioni devono corrispondere ai fabbisogni della famiglia: avere uno scaldacqua troppo grande comporta l'onere di una fornitura di acqua calda in parte non utilizzata. Poiché i lunghi tubi di raccordo sono causa di perdite di calore, è im portante ubicare lo scaldacqua il più vicino possibile ai punti di più frequente prelievo dell'acqua calda: se tali punti sono distanti fra loro, considerare la possibilità di installare due scaldacqua di dimensioni ridot te in luogo di uno piu grande. Il termostato, che fissa la temperatura massima dell'acqua, può essere regolato a 60-C, riducibili a 45"C nel periodo estivo. Regolare a tempe rature più alte viene a costare di più e non porta sensibili vantaggi. Conviene tenere inserito lo scaldacqua solo di notte, per avere acqua calda al mattino. L'acqua calda costa: perciò non deve essere sprecata lasciandola scor rere inutilmente o gocciolare da rubinetti difettosi. L’ILLUMINAZIONE Parliamo della più diffusa applicazione elettrica, l'illuminazione. La sorgente luminosa da preferire è il tubo fluorescente: costa di più all'atto dell'acquisto e dell'installazione, rispetto alle lampade a incan descenza, ma dura sei volte tanto e, a pari flusso luminoso consuma meno della metà. Cosi si riguadagna il maggior costo iniziale. Sono in commercio tubi fluorescenti con gradevoli tonalità di luce. Tra le lampade ad incandescenza quelle di maggior potenza (watt) danno più luce in proporzione al consumo è meglio usare una o poche lampade grandi piuttosto che molte piccole, é bene ricordarlo nella scelta dei lampadari, dai quali bisogna pretendere anche un buon rendimento lu minoso, non solo yn effetto decorativo. É inutile e dispendioso lasciare accese luci nelle stanze vuote; per certe attività (lettura, conversazione, lavori a maglia o di cucito) è più comoda e conveniente un'adeguata illuminazione localizzata piuttosto che una luce sfarzosa in tutta la stanza. Pareti e soffitti chiari giovano al > rendimento luminoso e, quindi, all'economia. La pulizia delle lampade e degli apparecchi illuminanti è indispensabile per mantenere un buon rendimento luminoso. UTILIZZA MEGLIO L’ENERGIA ELETTRICA DARAI UN CONTRIBUTO ALL’ECONOMIA NAZIONALE AVRAI UNA BOLLETTA MENO CARA N u o v a s e r i e D R A I L Piazza in Campo Marzio, 5 - 00186 Roma A M M L a r i v i s t a c h e d a o l t r e 5 0 a n n i r a p p r e s e n t a l a v o c e p i ù l i b e r a d e l T e a t r o | 1 < | » s E ~ 5 8 ^ < «; o ^ oc > £ ^ Q — " — > ■S - à — « -S 1 - 8 O !§ o « S 3 2 « C « 5 2 .S* « -8 s * 3.1S E I ° -ò | S a ì : 5 -a .2 Ò 0 < N H 3 • Q. ° S à • • 1 c ° - z 0 1 s • « c . 5 o *5 i o : o • i o o £ 3 ; » : : 2 : : « : : | : o> CO O a> C/5 5> Ò ¿1 5 : : i I x" "X / \ / \ \ / “ à ¿ S S I i I ! -S ? i I 8 I = i H I ! s a | | | 6 5 s s t a a 0 | ¡e i ° s j «SQ - » N t •- 3 y 3 • - m 2. ffS s u s ’,,< & b a i S ? i =3 2 ~ ™ o « = .2 ° S Z zi t S -g .2 ^ - 5 l* '- C c lO uj*j 0 - c »' 3 q.’.= .£ ,S o Z ^ < o .2 -j£ S -, “ cC < < ¡/j£ £ £ -S ri , . Q« <0 a> i t i vJ q. l. 4>u Tóma) c ^ c h O c O _!2 u w

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Il dramma : rivista mensile di commedie di grande successo. - Torino : Grandi firme, 1925-1992.

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