MENSILE DELLO SPETTACOLO - Anno LUI - N. 9-10 - Novembre-Dicembre 1977 - Lire 2.000 I L D R A M M A A un anno dalla morte dello scrittore più amato, odiato, discusso, osannato dei no stro tempo. A f f a b u l a z i o n e d i P a s o l i n i c o n V i t t o r i o G a s s m a n C ’ è p o s t o p e r g l i a u t o r i R IS P O N D O N O : A M B R O G I - BR USATI - C A P P E LLI - DI M A T T IA - FABBRI i t a l i a n i ? T o r q u a t o T a s s o e ELABO R A ZIO N E IN DUE TE M P I DI R O M EO DE BA G G IS l a s u a c o m m e d i a 3 p f o t o M h a t u t t o e g r l a r a f i a e i l c i n e m a □ p e llic o le C o lo r P rin t p e r s ta m p e a c o lo ri □ p e llic o le C o lo r S lid e p e r d ia p o s itiv e a c o lo ri □ p e llic o le C o lo r M o vie p e r c in e m a a c o lo ri □ p e llic o le in b ia n c o e n e ro □ c a rte in b ia n c o e n e ro e a c o lo ri □ a p p a re c c h i ed a c c e s s o ri □ c a s s e tte m a g n e tic h e “ S c o tc h ” D i v i s i o n e F o t o g r a f i a 3M ITALIA S.p.A. - UFFICI: 20090 MILANO S. FELICE - SEGRATE - TEL. 7545 - STABILIMENTI: CASERTA - FERRANIA - FILIALI: TORINO - PADOVA - MESTRE - GENOVA - BOLOGNA - FIRENZE - ROMA - NAPOLI MENSILE DELLO SPETTACOLO - ANNO LUI • N. 9-10 - NOV. ■ DIC. 1977 - LIRE 2.000 MARIO FRANCESCHI MARCO TESEI MARIO GUIDOTTI DANTE CAPPELLETTI NICOLA CIARLETTA LUDOVICO INCISA ROMEO DE BAGGIS SERGIO LORI SERGIO LORI MAURIZIO LIVERANI ENZO MAURRI GIUSEPPE MANFRIDI ALBERTO TESTA GUIDO NASTASI S O M M A R I O 2 - Schiacciati dall’ideologia 5 - C’è posto per gli autori italiani? Interventi di Diego Fabbri, Franco Brusati, Vincenzo Di Mattia, Salvato Cappelli, Silvano Ambrogi 17 - Aumentano gli incassi, diminuiscono le novità 18 - Ritorno al teatro di parola 20 - La prosa recensioni (di Odoardo Bertani, Mario Guidotti, Angelo Libertini e Dante Cappelletti) 44 - Intervista con Gassman: perché Pasolini 49- La presenza del tragico in Pasolini 54 - Pasolini: l'ultimo dannunziano 57 - Torquato Tasso e la sua commedia 100 - Sarchiapone beffato da Gesù 105 - Elvio Porta parla della sua commedia «Premio Pirandello 1977 » 109 - I primi film dell’annata 115 - Cesare Meano a vent’anni dalla morte 118 - Il poeta e il palcoscenico 122 - Danza: il ritorno di Serge Lifar 126 - Scala bicentenarìa - Opera ringiovanita 129 - Libri (di Dante Cappelletti) Associato all’unione Stampa Periodica Italiana Comitato di direzione: Odoardo Bertani, Diego Fabbri, Mario Guidotti, Maurizio Liverani, Ugo Ronfani. Direttore editoriale: Cario Fuscagni. 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A Ve nezia si alternano mostre, proiezioni, rappre sentazioni, dibattiti: ogni aspetto della vita culturale dei paesi dell’est europeo, fino alla religione, diventa materia di nuove conoscenze e di polemiche. Politica invece di cultura ? Rischi di stru mentalizzazione e di propaganda ? Ossequio alle mode culturali ? Sfruttamento pubblicita rio ? E’ probabile che ci sia anche tutto que sto. La nuova Biennale lottizzata degli ultim i anni aveva spento via via entusiasmi e spe ranze. Ma quest’anno la grandezza del tema, la carica umana delle testimonianze, la lucidità delle analisi e la ricchezza della documentazio ne fanno di questa Biennale uno degli avve nimenti culturali più im portanti dei nostri giorni. A Venezia non sono venuti solo i massimi E ’ un bel motivo di vanto per la nostra so cietà e la nostra cultura il fatto di aver dato ospitalità agli artisti del dissenso socialista in una sede « ufficiale » come quella della Bien nale di Venezia, resistendo ad ogni pressione. Tranne qualche rara voce isolata, c’è stata una vera unanimità a favore dell’opportunità di questa manifestazione. Se talora ci assale il dubbio che il dissenso nei paesi « socialisti » sia forse una cosa trop po seria per potersi trovare a proprio agio nel clima un po’ frivolo o nella confusione in cui si svolsero le Biennali degli ultim i anni, que sta perplessità è subito allontanata dal pen siero che il fine questa volta giustifica dav vero i mezzi. E il fine più giusto ci sembra quello di spezzare coraggiosamente l’isolamen to in cui certi opportunismi diplomatici ri schiavano di rinchiudere gli intellettuali e gli artisti sovietici, cecoslovacchi, ungheresi, po lacchi, ecc... Un certo smarrimento può essere suscitato nel pubblico dal fatto che tutte le cose terri b ili che si sanno sulle persecuzioni cui sono P r i m e r i f l e s s i o n i trovato esponenti del dissenso sovietico e dell’est eu ropeo (in esilio per la maggior parte) ma a discutere con loro ci sono uomini di cultura di tutta l’Europa. Stupisce, caso mai, l’esigui tà della rappresentanza italiana. M olti nostri intellettuali, sempre pronti a firmare manife sti, hanno evidentemente rischioso esporsi nel dibattito sui d iritti dell'uomo in un’arena fuori del riparo del conformismo. Il contemporaneo svolgimento a Roma, a fine novembre, delle « udienze Sacharov », in cui l’elenco delle atrocità inflitte ai dissidenti ha assunto dimensioni che non potevamo im maginare, ha dato a Venezia uno sfondo di sofferenza che rende ancor più drammatico il nostro esame di coscienza culturale e morale. « La rivoluzione d’ottobre è morta e se polta » dice lo storico Amalrik; « Breznev non è né di destra, né di sinistra: è soltanto un fascista » dice il matematico Pliusc; « Dove c'è uno stato socialista, lì c’è un massacro di cor pi e di anime » dice la poetessa Gorbanieskaya. S c h i a c c i a t i sottoposti gli intellettuali dissidenti nei paesi comunisti (manicomi criminali, umiliazioni di ogni genere, prigioni e lavori forzati) non sem brano a prima vista avere uno stretto rap porto con certi quadri astratti o certe statuine non figurative che francamente non vorremmo avere sul comò di casa nostra, e che sono comparse in questi giorni sui giornali. Le avan guardie artistiche in generale sono una bel lissima cosa (anche se forse, qui da noi, han no già dato da tempo il meglio di sé) ma la libertà politica ci sembra ancora più bella. Chi avesse organizzato una mostra di artisti « dissidenti » tedeschi quando H itler e la sua banda sterminavano m ilioni di persone, avreb be in un certo senso operato una sineddoche, figura retorica che, come ci insegnavano a scuo la, sta a indicare la sostituzione del tutto con una sua parte. La cultura ufficiale sovietica (gli amici di quel Ciaikovski, direttore del giornale ufficiale dei letterati russi che è comparso tempo fa sui nostri teleschermi: potrà ribattere che l’ar te, veramente libera, non lo è mai stata, per- Nel momento in cui, si celebrano trionfali sticamente un po’ ovunque (anche alla nostra TV) i 60 anni della rivoluzione d’ottobre, que ste voci che raccontano il fallimento dei regimi socialisti, riaprono nuove riflessioni, in cui c'è sempre meno posto per le ambiguità e per le illusioni. Il primo dato che emerge dalle testimo nianze e dalle discussioni veneziane è proprio questo: il rilancio in term ini politici e cultu rali di un dibattito a grande respiro sulla cri si del marxismo, al di fuori dei m iti e delle attese utopiche. Il secondo dato riguarda il tema dei d iritti dell'uomo, che va oltre il dissenso nell’est eu ropeo e che chiede a ognuno molto più di un’opinione. Dice Roy Medvedev, un dissidente certa mente non antisovietico: « Poiché in Russia non è praticamente riconosciuto il diritto del le minoranze politiche di formulare e di espri mere la propria opinione, il proprio disaccor- do, essere un dissidente significa esporre se stessi e la propria famiglia a guai e pericoli... Anche se l ’estero non può in alcun modo risol vere i problemi sovietici, le forze dell’occiden te possono senz’altro aiutare molto l’evoluzio ne democratica dell’URSS ». Un terzo dato vai la pena di sottolineare: il dissenso è un grande fiume sotterraneo che si alimenta di in fin iti rivoli di idee, sogni, testimonianze, sofferenze, audacie e speranze. E' una grande corrente culturale inarrestabile, che quando riesce a esprimersi compiutamen te diventa patrimonio di tutti. Ha detto Mo ravia a Venezia « è un fatto solenne e com movente quest'appartenenza all’area culturale occidentale della letteratura russa e dei paesi dell'est europeo ». Il dibattito sul dissenso riguarda sopra tutto la sinistra, è stato detto. Dopo le prime settimane si è visto che le manifestazioni vene ziane chiamano in causa tutti, al di là delle etichette. C. F. ché sottoposta ai gusti del committente in epo ca medioevale e rinascimentale, ed ai gusti dei mercanti e delle élites nell'epoca dell’arte borghese. Potranno aggiungere che è discuti bile la libertà di un regista che in Italia voglia oggi fare un film manzonianamente non-eroti- co. Ma noi sappiamo che tutto questo non scal fisce minimamente l ’importanza culturale e po litica dell’iniziativa veneziana. Forse sarebbe giusto dire che c’è dissenso e dissenso, e che esiste una qualche differen za di peso specifico tra i quadri e le statuine di cui sopra e i m igliori lib ri di Solgenitzin o i più coraggiosi atteggiamenti di Sacharov. Questa Biennale ci invita a una particolare riflessione. Come diceva Mao, nel comuniSmo abbondano le contraddizioni. Anche gli intel lettuali si trovano in URSS in posizione con traddittoria. Da un lato è giusto dire che la mancanza di libertà di espressione colpisce scienziati, scrittori, pittori, scultori e registi più gravemente di quanto non colpisca gli operai e i contadini. Gli intellettuali sarebbe ro allora le vere vittim e del totalitarismo. Ma d’altro lato è anche vero il contrario, se dia mo alla parola « intellettuale » una sfumatura di significato leggermente diversa. Oltre a Ciai- kovski e a tu tti gli intellettuali consenzienti, non bisogna dimenticare che anche il lavoro politico è lavoro intellettuale, e direi che la ricetta sovietica sia quella che meglio consente l ’assoluto predominio della società politica sul l ’intera società civile (che riteniamo la più esatta definizione del totalitarismo). I l cosiddetto « socialismo reale » non è al tro che il compimento di un processo, avviato in tu tt’altro contesto, e che tende a fare del l ’intellettuale (o dell’intellettuale iperpoliticiz zato) il creatore di consensoIpotere all’interno di una società di massa pervenuta a un altis simo grado di malleabilità e plagiabilità attra verso i nuovi strumenti di comunicazione, ge stiti, appunto, da intellettuali. Questo fenomeno aveva fatto qui da noi la sua comparsa col fascismo, la cui matrice in tellettuale non deve essere sottovalutata. Pri ma di diventare un blocco di interessi econo m ici reazionari il fascismo era stato un’ideo- logia, una scelta culturale antiborghese che la sciava sperare a m olti intellettuali di poter « contare di più » nel nuovo ordine sociale istaurato dalla « rivoluzione fascista ». Ma la capacità del fascismo di abolire ogni divisióne dei poteri e assimilare a se stesso l’intera to talità sociale trovava un ostacolo nella contrad dizione tra le « idee » e gli interessi concreti di gruppi conservatori, che pur appoggiando il regime non avevano nessuna intenzione di lasciarsi spossessare dei loro poteri (economici o istituzionali) dalla « società politica » delle camicie nere. I l comuniSmo è invece il solo sistema ca pace di dare tutto il potere al politico/ intellet tuale, poiché il proletario (base teorica del potere sociale) è disposto a delegare intera mente al partito la propria rappresentanza. Questa sim ilitudine profonda nel modo di in tendere il rapporto tra intellettuali e potere spiega la facilità di certe trasmutazioni dal rosso al nero e viceversa, prima fra tutte quel la di chi passò dalla direzione dell’ « Avanti » alla marcia su Roma. Si potrebbe sostenere la tesi molto etero dossa secondo cui nel dissenso dei paesi socia listi il ceto intellettuale si manifesta vittim a di se stesso. I dissenzienti sono ferocemente L’ex direttore della TV cecoslovacca al tempo di Dubcek, Jiri Pelikan perseguitati da a ltri intellettuali che gestisco no tutto il potere, e che non perdonano loro il tradimento del proprio ceto. Dopo avere di strutto tu tti i poteri sociali alternativi, e so prattutto quello della borghesia che, lo si vo glia o no', è stata quasi sempre la principale garante della divisione dei poteri e cioè della libertà, gli intellettuali post-rivoluzionari resta no prigionieri di se stessi e dello strapotere unificato del proprio ceto, sim ili in questo a Re Mida che morì di fame perché trasfor mava tutto in oro. Gli intellettuali iperpoliti- cizzati restano intrappolati nelle strette maglie dell’ideologia da essi stessi elaborata con la funzione di essere l'elemento mediatore e omo geneizzante capace di consentire ad un solo soggetto politico la gestione del tutto. E ’ per questo che ci sembrano un pò inge nui quei dissidenti che pur dopo lunghi anni di campo di concentramento continuano a di chiararsi comunisti, ma vorrebbero un « comu niSmo liberale », o dal volto umano, vorrebbe ro cioè tutto il potere sociale ad un unico ceto e pretenderebbero che questo soggetto uni co non esercitasse il proprio totalitario pre dominio. Mario Franceschi o p i n i o n i a c o n f r o n t o C p ’ è p o s t o e r g l i a u t o r i i t a l i a n i ? D i e g o F a b b r i P e r u n t e a t r o s e n z a u n u n i c o a u t o r e L ’articolo « Come cambia il mestiere di scrivere teatro » di Roberto De Monticelli di quasi due mesi fa (3 settembre sul « Corriere della Sera ») non ha avuto il seguito di discus sioni che certamente si meritava. Se è vero che i teatranti hanno la parola facile 1 articolo avrebbe dovuto accendere una eccitante va rietà di scintille e di fuochi, magari anche sol tanto fuochi d’artifizio, ma comunque ricchi di bagliori colorati. Invece non ce ne sono stati o ce ne sono stati troppo pochi: e mi dispiace come credo debba dispiacere a De Monticelli poiché l’argomento che ha proposto è quello nodale a cui sono legate le sorti del nostro teatro, e se saranno « sorti progressi ve » o meno dipenderà proprio, quasi unica mente, dal « mestiere di scrivere teatro » dei nostri autori, di quelli già « ordinati » da una più antica vocazione a questo sacerdozio e, soprattutto, di quelli ancora « novizi » che do vrebbero essere i più. Mi ha colpito l ’articolo di De Monticelli ol tre che per l’analisi storica e drammaturgica del nostro più recente passato teatrale (dal Novecento in poi, che vuole poi dire da Piran dello in poi), per una coincidenza che mi ri guarda e mi chiama perciò in causa personal mente dandomi la gradevole illusione di es sere più giovane di quanto effettivamente io non sia. Quasi quarant’anni fa, in pieno clima fasci sta, spinto dallo stesso fervore (dalla stessa « vocazione ») che ha senza dubbio animato De Monticelli scrissi su una rivista di giovani che si stampava a Forlì, mia città natale, un articolo intitolato: « Necessità delle intenzio ni ». Dicevo allora che « il teatro perde con cretezza tutte le volte che perde contatto con 10 strato sociale che lo giustifica »; in quanto 11 teatro nasce, prima ancora che da una esi genza poetica, da « una preoccupazione o da un impegno sociale », e aggiungevo « che il tea tro è, all’origine, una questione di classe, o una polemica o una espressione di classe, sem pre » poiché il teatro « nasce in ogni epoca dal bisogno che ha — bisogno inconsapevole spesso — la classe dominante (dominante co me civiltà) di proporre al popolo una certa idea dell’uomo. ...Per questo — proseguivo — 10 stato civile del personaggio ha tanta im portanza ». E mi nasceva un sentimento di profonda delusione nel dover riconoscere che 11 personaggio che la società allora ci offriva « era privo di una indispensabile concretezza su cui poggiare » e concludevo: « Non c’è, in somma, un personaggio provvisto di un tale stato civile da consentirgli di diventare dram matico tra le mani del poeta ». A un teatro senza « intenzioni » opponevo un nuovo tea tro delle « intenzioni » anche a costo di gene rare nei prim i tempi « un brutto teatro, ma importante »; e chiudevo un po’ enfaticamen te: « Oggi il nostro compito è costruire con la nostra pena quel brutto teatro importante ». « Scrivere è come far l’amore » Ci siamo riusciti ? Non direi. « Ci fu solo un momento — scrive De Monticelli — durato pochi anni dopo la liberazione, in cui parve che nascesse un modello di teatro nel quale diversi autori potessero riconoscersi ». Perché questo felice e promettente « momento » non ebbe seguito ? « Se tutto ciò non è avvenuto sui palcoscenici, a livello di drammaturgia nuo va, italiana, non è giusto attribuirne la colpa solo ai teatranti. Bisogna mettere nel conto an che il tradizionale isolamento in cui vive l’in- tellettuale italiano, specialmente lo scrittore ». Sul perché di questo « isolamento » è facile, ma giusto, tirare in ballo la « società »: una società diversa da quella del 1937-38, ma con la quale, comunque, l'intellettuale non si è an cora amalgamato e non riesce ad esserne un interprete attendibile. Le parole di Pavese, testimone drammatico di questa dissociazione, valgono ancora oggi: « Si discute che cosa trat tare nei nuovi lib ri che scriveremo, che cosa raccontare, che temi, che argomenti, che con tenuti presentare. Però per scrivere qualcosa di nuovo, di diverso, non basta volerlo. Biso gna avere tutto dentro già da un pezzo. Do vremmo presentare i drammi e i personaggi della classe operaia: è, lo riconosco, un do vere che ci si impone per necessità storica. Ma scrivere è come far l ’amore: nessuno fa 1 amore per dovere, per teoria o per necessità storica. Queste cose o si hanno in corpo e al lora nesceranno e verranno fuori, o non serve discuterle perché rimarranno soltanto chiac chiere. C’è chi dice allo scrittore: devi essere col popolo, vivere a contatto con le masse, e i lib ri verranno di conseguenza. E invece io vi dico: non si deve aver contatto col popolo, ma essere popolo. Nel nostro mestiere non si va verso qualcosa, ma si è qualdosa. ... Per me il discorso è un altro: non si tratta di andare solo verso il popolo o verso la classe operaia, e basta, come se tutto il resto non esistesse più da questo momento. Si tratta, se mai, di andare verso l’uomo ». « I l teatro è stato sempre un occupazione della borghesia » Io facevo la mia indagine nel 1938-39, Pa vese scriveva ciò che si è citato più sopra giu sto dieci anni dopo, De Monticelli fa il suo bilancio (diverso, ma in sostanza sulla stessa tastiera) trentanni dopo Pavese. Gira e rigira siamo sempre lì, siamo alla ricerca di una « società rappresentativa », di una « classe » nuova. Esiste, oggi, una « classe operaia » che abbia le carte in regola per essere oggetto di teatralità ? Io ci speravo e in qualche modo ci spero ancora. Ho accettato di presiedere il « Premio Petito » a Napoli promosso dalla CISL nella speranza di veder salire alla ri balta personaggi nuovi, espressione di una nuova sensibilità, di una nuova problematica del mondo operaio, ma debbo confessare che, sotto questo aspetto, sono rimasto deluso. Que sti personaggi, questa problematica nuovi pro pri del mondo del lavoro non si sono visti, non ci sono stati. E questa non sembra sia una « condizione » solo italiana. Facendo una analisi degli spettatori dei massimi teatri in- glesi, Cushman diceva poco tempo fa: « E’ vero che il Nazionale ha un pubblico borghese, ma anche l 'Old Vie aveva un pubblico borghe se: in questo, come in a ltri Paesi, l ’andare a teatro è stata sempre un'occupazione della borghesia ». Ora uno scrittore, specialmente poi se di teatro, può creare opere drammatiche sulla condizione e sui conflitti di una certa « classe » sociale, non può però creare questa « classe », non può inventarsi una certa « società » se questa non c’è, se manca di una sua consape volezza, di una sua configurazione. Quarant’anni fa io, giovanilmente, utopisti- sticamente impegnato a tu tti i costi verso un teatro « rappresentativo », proponevo di inven tare anche quella « società che ancora non c’era » attraverso un « teatro brutto ma im portante »; avrebbe servito da specchio ancora deformante (cioè brutto) in cui la società si sarebbe in qualche modo ravvisata a poco a poco e forse scoperta o ritrovata (un aiuto dato dal teatro alla identificazione della so cietà). Rifondazione del teatro De Monticelli non ha, oggi, la mia inge nuità, non cade nel mio utopismo: fa una pro posta concreta, quasi tecnica con una sua pos sibilità di attuazione, vale a dire con una sua speranza di riuscita. Sottintende le carenze so ciali in cui ci si trova, ma propone un suo « progetto di fare teatro diversamente ». Dice: « Allo stadio attuale delle cose... il problema di fondo... non è soltanto di portare alla r i balta le commedie dell'autore italiano toglien dolo dalla sua condizione di intellettuale fru strato e solitario...: è di rieducare il pubblico alla dimestichezza con la novità italiana che dovrebbe essere, anziché un’eccezione, una con suetudine. Il problema vero è quello duna ri fondazione del lavoro teatrale sulla base delle nuove tematiche suggerite da una società che cambia e che, bombardata dai mass-media, può trovare nel teatro l ’unica risposta ai propri interrogativi non conformisti ». Ed ecco la ve ra novità della proposta: « Non si tratterà più allora di scrivere una commedia per que sto o quell’interprete: ma per un tema, all’in terno di un gruppo il cui contributo andrà ben oltre la semplice mediazione interpretativa del la parola ». (Le due parole in corsivo sono mie). « Quello del drammaturgo sarà, in pro spettiva, uno dei m olti « mestieri del teatro », che bisognerà avere scelto anche con qualche umiltà; alla pari, e in dialettica, con il mestiere dell autore, del regista, dello scenografo, del musicista che elabora gli spartiti per lo spet- tacolo »... « Ma questo nuovo ruolo del dram maturgo, questo collocarsi della parola sullo stesso livello degli altri contributi espressivi, è essenziale proprio per la comunicazione. Poi starà ai veri scrittori, all’interno di questa operazione multipla... imporre la preminenza della parola, farne l’architrave che porta il pe so maggiore ». Può esistere una fantasia di « gruppo » ? La proposta ci porta a una domanda: esi ste, può esistere una fantasia di « gruppo » ? Teoricamente forse sì, ma per convincermi concretamente dovrei vederla, sperimentarla nei risultati. Quello che m i allarma e mi rende dubbioso è la parità dei « mestieri del teatro » tra cui dovrebbe avvenire la collaborazione. Altrim enti chi potrebbe sostenere che, nei casi m igliori, i vari « mestieri del teatro » non ab biano da tempo collaborato nell’intim o ? Il « fare insieme » è stato uno dei m igliori risul tati dello spettacolo moderno, e in questo « fa re insieme » era coinvolto anche l'autore di sposto a collaborare col regista e con gli at tori. Mi spiace di citarmi, ma le mie esperien- Luigi Pirandello con i De Filippo ze con Visconti, Stoppa e la indimenticabile Morelli, e poi con De Lullo, la Falk e Valli, e più recentemente con Sbragia e il gruppo degli « Associati » si sono svolte proprio secondo il « modulo » collaborativo che De Monticelli propone. La differenza, forse sostanziale, con sisterebbe di non proporre più ai vari inter preti una commedia « già scritta », già fatta, ma, pirandellianamente, una « commedia da farsi insieme », un « tema » soltanto su cui lavorare in comune secondo la propria spe cialità, il proprio particolare « mestiere ». A pensarci bene questo progetto di rinno vamento, questa proposta integrale di « spet tacolo di gruppo » non tocca solo l’autonomia degli autori quanto, allo stato delle cose, oggi, il privilegio di cui godono i registi. Oggi nes suno oserebbe dire che il teatro sia in mano agli autori, ma tu tti dovrebbero riconoscere che è in mano ai registi. Questo progressivo colpo di mano è stato effettuato (motivo di merito e di progresso ?) come tu tti sappiamo dai « teatri stabili ». Dovevano dar vita, nelle intenzioni, a un nuovo teatro nazionale, dun que a una diversa drammaturgia nazionale, e sono serviti, dopo un trentennio di esercizio di potere quasi assoluto, a creare una ribalta di registi: pochissimi per la verità, anzi sem pre quelli, se pur valorosi. Pirandello finì in tribunale Mai — per la storia, e per la verità — che un simile privilegio sia stato esperimentato anche per una sola volta con un autore. Io, e mi scuso ancora di citarmi, quando sentii la vocazione di fare del teatro « integrale », di riunire cioè i diversi « mestieri del teatro », e agii a mio rischio esclusivo gestendo per due « stagioni » il « Teatro della Cometa » di Roma in anni piuttosto calamitosi (1960-62), ci rim isi un po’ di penne (almeno una diecina di m ilioni di deficit secco), e dopotutto, mi considerai ancora fortunato pensando al gran de Pirandello che finì in tribunale per la ge stione dell’ « Odescalchi », e disgustato scelse la via dell’esilio. L'indubbiamente provvido, sotto certi riguardi, Ministero dello Spettacolo che non tremò mai di fronte ai deficit dei « teatri stabili» e li sostenne, e li salvò, giu stamente, in nome della cultura, non ebbe mai l ’idea, almeno come correttivo, di pro gettare un teatro diretto da un autore e che si rivolgesse, modernamente, agli autori. E nemmeno oggi credo ci pensi. Oggi che gli « stabili » sono oramai quasi esclusivamente « accademia », come rimproverava già nel lon tano 1955 l ’inascoltato Mario Apollonio che in un dibattito al Circolo « San Fedele » di Milano si complimentava con Paolo Grassi per la pro va di coraggio dimostrata con la scelta di « Processo a Gesù » per il « Piccolo teatro ». Ora non si tratta più né di privilegiare gli autori o i registi, bensì i vari « mestieri di tea tro »: in altre parole i « gruppi », le « équi- pes » o i « collettivi ». E io dico: ben venga no. L autore sarà alla pari e in costruttiva dialettica con gli altri « mestieri del teatro ». Però non andiamo a occhi chiusi verso questa nuova esperienza: ragioniamo, discutiamo. Do mandiamoci: questa vagheggiata, e nuova, pa rità di « ruoli » o di « mestieri » (m i piace anzi veder rivalutato il « mestiere dell’autore » ad arte) corrisponde davvero alla natura, alla realtà propria del teatro ? E’ la proposta di una( utopia (sono ben disposto nei confronti dell'utopia!) che potrebbe suscitare nuove con fusioni o rappresenta ragionevolmente una so luzione che aiuterà lo sprigionarsi di una poe sia drammatica comunitaria, personalizzata non più in una singola sensibilità, ma in un concerto di sensibilità diverse, sì, ma legate tra loro da una fondamentale, bergsoniana « simpatia » di base ? E una im plicita domanda che anche De M onticelli si pone immediatamente dopo aver proposto il « progetto collettivo » allorché ipo tizza la probabilità che « all’interno di questa operazione m ultipla » ai veri scrittori capiterà quasi fatalmente di diventare « l’architrave che porta il peso maggiore » dell’operazione. Sempre feconda la cellula-parola In quanto a me, pur essendo aperto a tutte le speranze, resto persuaso che, nella sostanza, resti ancora fermo che « in principio è la pa rola », non fosse altro che come base su cui fondare qualsiasi progetto di spettacolo tea trale. Dire, proporre: facciamo un Pavese o un Masaniello o un Di V ittorio o un Belli per queste e queste altre ragioni poetiche, storiche e di spettacolo è già una illuminazione origi naria che fa parte della « cèllula o monade- parola ». Che poi questa parola-proposta-base zampilli dentro o fuori di un « gruppo » è una modalità, non un fatto essenziale. Quel che importa è che all'origine, « in principio », del moto creativo debba esserci una proposta, una intuizione, un progetto che definiremo, per intenderci, poetico. Su questa originaria pro posta lavorerà il « gruppo » nei suoi diversi « mestieri di teatro », per distruggerla o veri ficarla o accrescerla fino a che diventi opera compiuta. In fondo De Monticelli propone un nuovo e modernissimo monacheSimo teatrale a cui si ispirarono Copeau e i grandi maestri russi. Attecchirà da noi ? D’Amico diceva che gli italiani non possedevano, almeno natural mente, quella mistica disponibilità capace, se occorre, di annullarsi individualmente per va lorizzare « il collettivo ». Il « mattatore », da noi, ha sempre finito per distruggere o sover chiare « il collettivo ». E’ successo non solo a teatro, ma anche in seno alle varie comunità religiose: è sempre accaduto che l ’elemento polarizzante e informatore sia diventato, im ponendosi, o un Benedetto o un Tommaso o un Francesco... E siamo nell’ambito delle cose di Dio. Non vorrei che fosse l'affacciarsi, forse ne cessario, di una nuova generosa, suggestiva « intenzione » che anch'io invocavo negli anni fervidi della mia giovinezza teatrale. In m olti, allora, m i dissero con l ’intento scoperto di beffarmi, che di buone intenzioni era lastricato 1 inferno. Sarà anche: comunque al conformi smo consumistico o accademico io sono an cora disposto a puntare sulle « intenzioni ». F r a n c o B r a s a t i la « v e r g o g n o s a » p a r o l a R i v a l u t a r e Da qualche anno mi sono un pò allontanato dal teatro per dedicarmi alla regia cinemato grafica. Ho tuttavia deciso — alla cortese richiesta de « I l Dramma » — d’intervenire nell’ultimo dibattito sugli autori italiani, per molte ragioni che hanno finito per cristalliz zarsi tutte in un senso generale d’irritazione e di fastidio. Trovo abbastanza ridicolo che a discutere degli autori in Italia, siano quasi sempre, e soprattutto, coloro che di testi teatrali non ne hanno scritti mai, se ne hanno scritto non sono stati rappresentati, se sono stati rappre sentati non hanno avuto successo. Trovo stupido e umiliante che un autore debba passare metà dell’anno (come successo a me e certo ad a ltri) a sentirsi richiedere — da attori, registi, impresari, in modi cordiali, umili, amichevoli, pressanti o addirittura in tim idatori — una « commedia nuova », e l’al tra metà dell’anno a leggere che gli autori ita liani non esistono. Se non esistiamo perché ci chiedete dei testi ? Come non capire che è an che questo atteggiamento a darci talvolta nau sea del nostro mestiere, e a spingerci a cercare altrove più amabili accoglienze ? So bene che i fa tti miei non sono regola per nessuno, e che non è elegante né modesto citare se stessi. Ma. siccome la nostra è dopo tutto l’unica esperienza della quale abbiamo certezza, e alla quale possiamo fare riferimen to senza tema d’essere smentiti, proprio que sto, invece, io vorrei fare: esporre brutalmente e semplicemente il caso mio, ciò che è capi tato a me, e quello che so io. A ltri colleghi potrebbero dire la stessa cosa. I luoghi comuni che ho letto più frequen temente, nei vari interventi sull’articolo di De Monticelli, sono i seguenti: 1) Gli autori italiani non esistono. Non è vero. Io ho scritto quattro commedie, « I l Be nessere », « La Fastidiosa », « Pietà di novem bre » e « Le Rose del Lago». Tutte e quattro sono state rappresentate in tutta Italia. Le ultime tre hanno ricevuto dai critici, a Saint Vincent, il premio per la « m iglior commedia dell’anno ». Sono state inoltre rappresentate a Parigi, Londra, New York, Madrid, Belgra- II commediografo e regista cinematografico Franco Brusati do, Buenos Aires, ecc. ecc. L’ultima andrà in scena il gennaio prossimo al teatro Michel di Parigi, e la campagna abbonamenti (certo aiu tata dal successo francese del mio film « Pane e cioccolata ») ha già assicurato quasi tre mesi di repliche. Se noi non esistiamo, bisogna riconoscere che troviamo a volte dei modi molto rumo rosi per farlo. 2) Gli autori italiani non sono rappresentati dalle compagnie più importanti. Non è vero. E ’ sempre una bella tentazione fare il mar- tire, ma nel mio caso sarebbe disonesto e fal so. La mia prima commedia fu messa infatti in scena da Luigi Squarzina — con Laura Ada- ni — due mesi dopo ch’era stata scritta, e le altre mi son state quasi strappate di mano mentre ancor le scrivevo. Ecco la lista dei loro principali interpreti in ordine di tempo: Al- bertazzi, Ricci, Magni, Randone, Proclemer, Tofano, Brignone, Santuccio, Morelli, Stoppa, Occhini e Salerno. 3) Gli autori italiani non piacciono al pub blico italiano. Non è vero. Nessuna commedia mia ha mai avuto una gestione passiva, e l’ul tima ha incassato addiritura — ai prezzi di tre anni fa — quasi 350 m ilioni in 5 mesi. Questi son fatti, non chiacchiere. Ma son certo fa tti personali, e non dubito che l'aver osato esporli basterà da solo a far mi tacciare di presunzione e vanagloria. Vorrei quindi aggiungere qualche conside razione più generale. De Monticelli e Parise hanno scritto cose diverse, tutte molto acute e intelligenti, che in un punto almeno sembrano concordare: nel dubbio, cioè, che possa esserci ancora spazio, nella cultura italiana contemporanea, per la figura dell’autore teatrale solitario, che scrive un testo a casa sua, lo consegna a degli attori e chiede loro di rappresentarlo, possibilmente senza interpolazioni. A parte il disgusto (cui ho accennato prima) che si prova a far l'autore teatrale in un Paese dove non c’è successo di pubblico e di critica che ti metta al riparo dal rimprovero di non esistere, se quello che De M onticelli e Parise scrivono è vero — co me è vero — esso vale però per tutto il mon do, non solo per l’Italia. Autori nuovi e com medie nuove scarseggiano ovunque. In Italia la cosa è più evidente, io credo, per due m otivi: 1) I l teatro non è mai stato una forma mol to naturale d’espressione per i nostri autori (come il romanzo, del resto) e non bastano certo Goldoni e Pirandello (un siciliano edu cato in Germania) per poter affermare il con trario. 2) Noi siamo attentissimi alle mode e pro vincialmente timorosissimi di contraddirle. In Inghilterra — dove il teatro è veramente espres sione spontanea e profonda dello spirito na zionale — non ci si preoccupa di leggere « p ri ma » l’etichetta, per sapere se il vino di quel la bottiglia dovremo trovarlo buono o no. Tea tro d’avanguardia o tradizionale, politico o psicologico, gestuale o di parola, è in genere solo il peso specifico di uno spettacolo ad es sere considerato, e la sua capacità d’incidere sulle emozioni e sull’intelligenza degli spetta tori. Ed è questo che permette ai Pinter, agli Stoppard, agli Ayckbourn, di scrivere, di aver voglia di fare, e di esistere con dignità. Da noi ci si farebbe tagliare le mani piuttosto che rischiare di non essere à la page, come quelle debuttanti — scriveva Arbasino — che non bal lerebbero mai lo shake in tempi di rock and roll, o la samba in tempi di bossanova. E l’ul tima moda, in questo campo, è stata proprio l’eliminazione dell’autore, quale fastidioso co glione che può imbrigliare gli slanci creativi del regista e degli attori. De M onticelli suggerisce poi, per quel che ci riguarda, una terza ipotesi: gli autori ita liani sono non soltanto molto pochi (però esistono, bastano due o tre nomi a contraddire l’ipotesi del nulla) ma non sono accomunati da alcuna identità spirituale, non sono « coa gulati » da alcun movimento che dia un senso e una cifra al loro lavoro (come accadde, ad esempio, in Inghilterra per il « teatro degli arrabbiati » o in Francia per quello dell’ « as surdo »). E cita a contrasto il nostro Cinema, che ebbe — e forse avrà ancora — una grande stagione sull’onda di « movimenti » comuni. Ma su questo io non sono d’accordo con De Monticelli. A parte il « neorealismo » che ac comunò per un periodo nomi come quelli di Rossellini, De Sica o Castellani, a quale movi mento, a quale altro nome potremo accostare il grande cinema di Visconti ? E quello di Fel iin i ? E quello di Antonioni ? Mi sembrano al contrario così personali ed « unici », da smentire con la loro solitudine proprio la tesi che vorrebbe prenderli ad esempio. Resta però il fatto — e non posso certo ne garlo — che il rintocco funebre del « Vae solis », la spinta a un tipo di creazione col lettiva, sembrano generalizzarsi — definitivi ? passeggeri? — in tutto il mondo contempora neo. De Monticelli auspica una forma di col laborazione fra autori da una parte, ed attori, registi, scenografi, musicisti dall’altra, in cui i vari elementi dello spettacolo si combinino alla pari. « Starà poi ai veri scrittori — con clude il critico — imporre la preminenza della parola, farne l’architrave che porta il peso mag giore » (cioè, ancora una volta, qualcosa che non è alla pari). falsi redentori, pseudo ribelli, Ma anche per far questo, occorrerebbe re stituire credibilità a una « parola » che uomini politici, fin ti profeti e ignobili potenti hanno per decenni screditato e umiliato. Quale arma ha infatti in mano un autore — alla fin dei conti — se non questa vergognosissima parola ? V i n c e n z o D i M a t t i a I f a l s i b e r s a g l i d i D e M o n t i c e l l i Se c’è, come c’è, un feticismo degli oggetti, c’è anche la sua eresia: da un po’ di anni gli intellettuali hanno preso a infamare l’oggetto scrivania e l’oggetto sedia. Messi insieme, que sti due oggetti formano una macchina di per dizione morale. La posizione. « scrittore allo studio » o è iconografia qualunquista o è vizio solitario. E così la demagogia ha creato il nuovo prototipo dell’operatore culturale: è un esem plare che stenografa i discorsi dei comitati di quartiere, che arriva in anticipo sulle razzie terroristiche, che gira col registratore per le borgate. « Esistono ancora in Italia quei signori che si mettono davanti a una risma di carta bian ca ?... ». Caro De Monticelli, se, con tu tti gli scac chi subiti, dobbiamo prenderci anche il suo sarcasmo, non ci resta che andare al macello. La meditazione, l’analisi della realtà, l ’eser cizio dell’intelligenza sono veramente atti da mettere sotto processo ? Io non credo voglia arrivare a questo. Anche perché per quanto l'autore di teatro possa dare la sensazione di un uomo isolato, al di fuori del trauma della realtà sociale, questo è un falso perpetrato per emarginare sempre di più questo perso naggio pericoloso per i monopoli costituiti. Stupisce, inoltre, il risentimento con il quale De Monticelli si accanisce nei riguardi degli • autori italiani che accusa di non aver saputo creare un’aggregazione culturale e civile che operasse « uno smontaggio delle morali e del costume ». Ma aggregazioni di questo tipo non avven gono programmaticamente. De Sica e Rossellini non si sono seduti a tavola per dire « inventiamo il neorealismo ». Osborne e Wesker non si sono incontrati in un pub londinese per giurare davanti a una birra di fare gli « arrabbiati ». Sono coincidenze culturali, affinità di idee, diagnosi omogenee che a posteriori lo storico ha potuto accumulare sotto un’etichetta co mune. Da parte degli autori italiani un « preciso attacco alla realtà » è mancato per non aver saputo mettere a punto una strategia comu- Roberto De Monticelli che, in un articolo, « Come cambia il mestiere di scrivere teatro », apparso sul « Corriere della Sera », ha riaperto la polemica sull’autore italiano ne ? Può darsi. Ma la verità è che sono man cati gli spazi dove una strategia potesse svi lupparsi. Se gli « arrabbiati » inglesi sono esistiti, lo si deve a quel miracoloso spazio che è il « Royal Court » dove Osborne, Wesker, Pin- ter, Bond hanno potuto mettere in scena, ve rificare e fare apprezzare i loro testi. Questo è successo in una società culturale civile. Che dava e dà credito all’autore. Ma in Italia ? Crede veramente De Monticelli che siamo stati tagliati fuori perché non abbiamo avuto la capacità di stare al passo con la realtà ita liana ? Perché non siamo entrati nel merito di un dibattito civile, morale, di costume ? No, gli autori non sono « in cerca di perso naggi ». I personaggi ci sono, ci sono i testi. E per non generalizzare, vorrei parlare di esperienze personali. Un solo caso, per tutti. Da anni gira un mio testo: « I confessori » (« Il Dramma » - giugno 1974). Bene, tu tti gridano al miracolo — « un te sto straordinario » — ma nessuno ha il co raggio di portarlo in scena. Hanno paura. Per ché ? Perché per la prima volta un testo tea trale, e in maniera fortemente provocatoria, si inserisce nel dibattito cattolico. Hanno paura, i nostri registi, i nostri im presari, i nostri dirigenti di teatri a denaro pubblico, di quattro preti che si sbudellano per le loro crisi, i loro malesseri, le loro con traddizioni. Possono fare scandalo. E allora ? Chi non sta al passo con la real tà del proprio tempo ? Certo i ciliegi sono suggestivi, sono poetici, e sono anche una pertinente parabola dei no stri giorni. Ma a furia di ciliegi e di volponi i raccordi col nostro quotidiano sfumano, si appannano. E quando, un bel giorno, De Monticelli si rende 'conto della totale abdicazione ai pro blemi della realtà italiana, non se la prende col signor Strehler o col signor Squarzina. Se la prende con l'autore. « Cornuto e mazziato », come dicono al mio paese. «ANCHE I BANCARI HANNO UN’ANIMA » è una com media musicale di Terzoli e Vaiine con Gino Bramieri, Paola Tedesco, Valeria Valeri e Franco CremoninL La regia di quest’opera, che viene rappresentata nei princi pali teatri italiani, è di Pietro Garinei. Si tratta delle disavventure quotidiane di un impiegato, che sogna di evadere dalla routine e vivere una sognata avventura, fuori dagli schemi familiari. Lo spettacolo ha avuto il suo debutto a Milano il 7 ottobre e, successivamente, sarà presentato nelle maggiori città italiane. Nella foto, da sinistra: Paola Tedesco, Gino Bramieri, Valeria Valeri,. S a l v a t o C a p p e l l i Il s u c c e s s o s o l a s a l v e z z a Perfino il Rie e il Gian parlano male del tea tro italiano. La malasorte, per motivi di lavoro, mi ha costretto alla lettura di alcune edificanti e durissime dichiarazioni dei sullodati, sfogo destinato non agli amici di famiglia, ma alle orecchie, diciamo così, pubbliche e private degli spettatori in genere. Pertanto, questa è la con clusione, il Rie e il Gian si recheranno tra breve negli Stati Uniti alla ricerca di una pièce da portar qui tra noi. Per farci morire dal ridere, presumo, dopo che in Roma sono riusciti a far piangere le prime due fila di poltrone del Teatro Valle. Le altre, con i palchi, sghignazzavano vuoto assoluto. Detto ciò, a chi si accinga, come me adesso, a scrivere del teatro italiano, non rimane altro che ripetere all'infinito cose viste e sofferte da un paio di dozzine di anni. E' da un quarto di secolo, infatti, che tu tti insieme gli autori ripe tono le stesse inutilissime verità, ovviamente ri ferendosi alle persone di sempre oltre che alle sempiterne e strafallite, ma stabili istituzioni para-comunali, provinciali-regionali, statali; e per traslato, alle condizioni generali della cul tura italiana. Una cultura che provvede a trau matizzare sempre più gli ultim i rimasti a scri vere teatro (si tratta di una vocazione non di una scelta letteraria) seguendo due sistemi: disinteressandosene, oppure surrettiziamente intervenendo sui temi del cosiddetto impegno social-ideologico, da infliggere e agli autori e al pubblico innocentissimo. La critica, anche quella d’origine liberale, è ormai da tempo il braccio secolare che infligge le pene, tanto vero che il sostantivo « evasione » è diventato la frusta a nove code sui sederi di scimmia di quegli scrittori di teatro che cercano il vero o la verosimiglianza al di là dei m otivi del contendere ideologico tra l ’individuo e la sua collettività. Una collettività sempre più estra nea all’individuo, ma tabù crudelissimo in via di sostituire, addirittura totemicamente, l’idea di Dio non soltanto in terra, ma (a lasciargli tempo) anche in cielo. Tra le tante « impedimenta » per l’autore italiano c’è anche questa, antipatica, insistente, cattiva e stupida. L ’equivoco che ne nasce di laga. Sembra, ormai, che solamente al teatro sia affidato, e consacrato, l’impegno per una letteratura di rottura in ogni senso. I l roman zo, il cinema, la poesia, la musica ne sono esen tati, il teatro no. N ell’infinito mare dei luoghi comuni che funestano questo Paese, fino a ieri così intelligente, naufragano opere che in altro clima avrebbero ottenuto l’avallo cultu rale che meritano. La straordinaria malinconia di leggere colonne di piombo dedicate a testi senza nessuna importanza recitati davanti a un pubblico latitante, è pari a quella di veder li quidati con poche battute, autori e commedie di reale importanza. Allorché, poi, tali periti, a tempo pieno del lavoro altrui, si decidono a dimostrare qualmente possano, soltanto se lo vogliano, scrivere capolavori, si è visto e stra visto. L ’ultimo Kafka: ovvero della morte per noia, porta la firm a di un critico illustre, ma non so tra chi. Concesso con equità a Cesare ciò che a Cesare spetta, è altrettanto giusto esaminare altre responsabilità e colpe; in primo luogo quelle dell’attore, convenzionale, con l’apertu ra d’ala di un fringuello, solo attento a elu dere ogni e qualsiasi problema culturale; e in secondo luogo, il pubblico, in gran parte nuovo attratto allo spettacolo di prosa dallo sforzo pubblicitario e dai bassi prezzi dei teatri Sta bili: e quindi politicizzato senza accorgersene. Ora, se l’attore punta sul sicuro con un Piran dello di maniera, mettiamo, il pubblico che assiste allo spettacolo non è in grado non si dica di un giudizio, ma neppure di un con fronto o di un aspirazione. Dopo Brecht e Goldoni, allo spettatore « nuovo », di massa, indifferenziato, informale, non rimane che riconoscersi in opere che non ne sfiorano in nessun modo la coscienza. Ma leducato com’è, e non per colpa sua, questo pubblico è avvezzo a batter le mani, comunque e dovunque. Lo trasportano lontano dalla sua realtà umana e sociale di oggi (un teatro ita liano contemporaneo sarebbe il documento, an che se incerto, di tale realtà; mentre ai faci tori della società di domani, più utile appaiono gli autori defunti da rimaneggiare senza che nessuno se ne avveda o protesti) per dimostrar- gli che Shakespeare, si fa per dire, aveva pre veduto la repubblica popolare dell'Angola. Do po di che, lo spettatore è fritto. Dovunque si trovi applaude, e buona notte al secchio. A queste condizioni, i pochi rim asti ad ama re il teatro dirottano sullo spettacolo di prosa straniero. Ci rimangono male, è vero, in quan to peggiore spesso di quella di casa; ma al meno spesso, tuttavia, di quello firm ato ita liano; ma almeno, così sperano, salvo e libero dalla politica che tra noi avvelena anche i pesci nell'acquario della stazione di Roma. D’altronde, Carlo Maria Pensa ha perfettamen te chiarito la portata del disastro in atto e in fieri della drammaturgia nazionale, dettando per il Sindacato autori drammatici un’analisi che, per quanto mi riguarda, faccio mia. Pren dendo atto della polemica in corso a « propo sito della scarsa presenza di autori italiani vi venti nei cartelloni della stagione teatrale testé aperta », Pensa rileva « come a determinare l'attuale situazione, che non ha riscontro in nessun altro paese del mondo, abbiano con tribuito la politica di rifiuto costantemente adottata, salvo rare eccezioni, dai teatri sta bili; la sempre più invadente tendenza di re gistri e attori a sostituirsi, per malcelati in teressi economici, al lavoro dell’autore; il sub dolo atteggiamento della Rai-Tv che, m ortifi cando progressivamente la creatività della nuo va drammaturgia italiana, ha ridotto gli auto ri, nei m igliori dei casi, al rango di sceneg giatori ». Non continuo, perché chi legge è pienamen te persuaso della autenticità della diagnosi. Ma alla prognosi, chi ci crede ? Chi crede, cioè, che qualcuno mai risponderà all’appello di Pen sa e del sindacato « a tutte le libere e demo cratiche forze culturali del paese perché si im pegnino in una campagna tesa a fare dei teatri uno spazio aperto anche a problemi, personag gi, temi, esperienze, ambienti tipici della real tà sociale e morale del popolo italiano » ? Sarebbe troppo sperarlo, si immagini a cre derlo. I l fatto è che meno gli autori italiani si rap presentano, e più il teatro italiano affonda, s’impoverisce, offrendo spazio profondo per scorrerie di persone che, note in a ltri settori, improvvisamente gettano l'amo in quello sta gno, pescano un pesciolino d’oro, tornano trion fanti da dove sono venuti. Come in qualsiasi arte, c’è nel teatro una componente di pro fessionalità impossibile da sottovalutare. Sol tanto il pubblico nuovo che arriva in teatro dopo l’esperienza degli Stabili può, se tale pro fessionismo manchi, non avvedersene, e con sacrare un successo che tale non è. Rimane il fatto che la struttura stessa di un teatro vivo, il repertorio, è in Italia un miraggio. Com medie ottime, vivono il tempo di un respiro, una stagione. Impossibile che un attore d’im portanza riprenda l'anno dopo un testo già rappresentato con successo da un’altro impor tante attore. Si reperiscono soltanto testi per brevissime stagioni, e non quelli che avrebbe ro bisogno di ripensamenti e di realizzazioni di qualità. Non esiste né può esistere un teatro a più strati, se non esiste un repertorio — oltre Pi- randello s’intende. E un repertorio non si crea se non con sistematici ricambi, coinvolgendo sempre più, e professionalmente, l’autore in tutto il corso dell’operazione-teatro. Quell’au tore, detto tra noi, che serve a tutto o a nulla, come è dimostrato dalla miserabilità della si tuazione imposta dagli Stabili, da alcuni at tori, da certi registi, inconsciamente consociati a vivere da protagonisti un’arte che, fatalmen te, invece, li prevede (salvo l’attore) figurine a latere del processo creativo teatrale. Un’arte, il teatro, dove la parola è la manifestazione di un ordine differenziato e originale: quello di chi scrive. Come risolvere, in senso positivo, la triste questione ? Io non credo che gli autori siano in grado di imporre non dico la realizzazione delle opere, ma almeno una lettura. Con una azione di gruppo, non si toglierebbe dal fuoco neppure una castagna. Una categoria che se sciopera fa un piacere alle imprese, che potere d’urto possiede ? Nessuno, è meglio dirlo. E con i ragionamenti, non si avanza di un m illi metro. Dunque, il problema torna alle origini. La lotta deve essere individuale, condotta, in un prim o tempo, da quei pochi autori che per m eriti incontestabili hanno acquisito un certo spazio nell’industria italiana dello spettacolo. Imponendosi nei teatri con prodotti sempre più qualificati e m igliori, così da suscitare p ri ma curiosità e poi attenzione per ognuno che scriva, in Italia, teatro. N ell’insieme, le provvidenze m inisteriali so no sufficienti per iniziare una politica econo mica teatrale passibile di successo. Ma i testi italiani debbono essere rappresentati, a mio giudizio, non in teatrini di lim itata capienza, bensì da compagnie di giro capaci di attrarre vasti strati di pubblico. Sono convinto che die ci successi « veri » di testi italiani nel corso di una stagione teatrale farebbero a favore e onore del teatro italiano quanto venticinque anni di diatribe, rancori, proteste non sono riusciti a fare. S i l v a n o A m b r o s i « S t a b i l i » t r a n q u i l l i c o n i c l a s s i c i Si parla degli autori nazionali. E’ un fatto ricorrente. M olti equivoci vengono mantenuti, non sempre in buona fede. Esiste indubbia mente, a monte, un astio diffuso contro l ’au tore di teatro. Forse si tratta di pura e sem plice invidia sul piano creativo. Si sa: scri vere una bella commedia, coi meccanismi per fetti, è la cosa più difficile del mondo, quindi la più ambita. Una decina d’anni fa una rivista speciali stica intervistò narratori e poeti di fama, chie dendo perché non scrivessero per il teatro. M olti di essi diedero risposte incredibili, ta lune di una canagliesca scempiaggine, troppo plateale per individui intellettualmente e cul turalmente dotati, dichiarando di aborrire il teatro, questa forma ambigua e imperfetta di espressione. Ma quasi tutti, proprio a partire da quella intervista, cominciarono a scrivere per il teatro. I nomi sono lì, controllabili. Altre ragioni per questa emarginazione di tipo razzista, nei confronti dell’autore nostra no, sono di tipo politico in senso lato, quindi anche socio-economico. Nessuno vuole più ri schiare in una società che tende alla pianifi cazione e una « novità » italiana è sempre un rischio, specie se si confronta con i più col laudati classici. E' un rischio perciò pure la novità straniera che ha comunque avuto suc cesso al suo paese di origine. In questo caso possiamo dire perciò che non sussista un’av versione particolare per gli autori nazionali. E’ piuttosto il terrore di rimetterci economica mente con un'operazione non del tutto ga rantita. Non si può chiedere a un impresario p ri vato che mette in ballo i suoi quattrini di es- sere coraggioso. Questo però si deve chiedere a un teatro pubblico che impiega i soldi della comunità. E allora dobbiamo riconoscere che i teatri stabili hanno rinunciato in pieno alla loro funzione. Hanno messo in scena, da quan do sono nati e si sono diffusi, più di un m i gliaio di novità italiane. Ma solo una decina di autori hanno trovato negli stessi stabili la possibilità di scrivere una seconda commedia, e nessuno è riuscito a « insediarsi » in uno sta bile come m olti registi. Ecco, un primo elemento di emarginazione è risultato dal mattatorismo dei registi negli stabili e da quello degli attori nelle compagnie private. L’autore è sempre un incomodo in più. Ma anche la burocratizzazione degli sta b ili ha avuto il suo peso. Se si deve far appro vare il cartellone stagionale è molto più facile trovare un accordo tra i vari partiti e le va rie correnti, quando si propone un classico. Magari attualizzandolo artificiosamente. In più, Shakespeare lo conoscono tutti, anche i con siglieri di amministrazione che non hanno fat to il classico. Mentre una novità sfugge sem pre al controllo preliminare, può dispiacere a quel rappresentante del potere o a quell’altro. Meglio dire che non esistono autori nazio nali. Si crea così una specie di inconscio si stema di difesa, lamentando che non risulta no all’altezza dei classici. Quando scrissi la mia prima commedia « I burosauri », un cri tico notò che i personaggi di Cechov erano più vitali e im portanti dei miei. Neanche in seguito sono riuscito a raggiungere la gran dezza di Cechov o di altri classici. E’ giusto dunque che io muoia. [ T e a t r o S t a b i l e ) I d e l l ’A q u i l a J a n n o d e c i m o q u i n t o / s t a g i o n e 1 9 7 7 /1 9 7 8 W i l l i a m S h a k e s p e a r e A P I A C E R V O S T R O r e g i a A n t o n i o C o l e n d a s c e n o g ra fia N ic o la R u berte lli c o s tu m i A m b ra D anon m u s ic h e V itto rio G e lm e tti p ro ta g o n is ti G i a m p i e r o F o r t e b r a c c i o A n d r e a G i o r d a n a L o r e n z a G u e r r i e r i C a r l o S i m o n i d a l 2 0 o tto b re 1977 TO R IN O - TEATR O ALFIERI FIRENZE - TEATR O D ELLA PERG O LA R O M A - TEATR O A R G E N TIN A TRIESTE - P O LITE A M A ROSSETTI e in a ltre 2 5 c ittà p e r 5 m e si di re p lic h e I l t e a t r o i t a l i a n o i n c i f r e A u m e n t a n o g l i i n c a s s i d i m i n u i s c o n o l e n o v i t à La situazione del teatro italiano, al di là di ogni considerazione storico-sociale, può anche essere de sunta dalle cifre. Le statistiche, come è noto, non sono sempre significanti; non lo sono da sole. Biso gna, infatti, tener presente altri elementi di giudizio ricavabili dal contesto in esame (fattori sociologici e/o antropologici). Ciononostante i dati matematici e le percentuali, pur nella loro freddezza e « inespressività », possono dire molto a chi li sa leggere con attenzione. Diamo, ad esempio, uno sguardo alla situazione del teatro per quel che riguarda il numero delle rappresentazioni, la presenza del pubblico e gli in cassi dal 1952 al 1969 e in un secondo momento, al periodo successivo dal 1970 al 1975. Seguiranno poi le cifre relative al numero delle novità italiane rap presentate in una anno (dal 1969 al 1975). Dal 1952 al 1962 risulta che ci sia stato a teatro un calo degli incassi molto accentuato. Soltanto con il 1963 si è avuto un incremento medio annuo dell’ 11 per cento. Dal 1964 al 1969 le rappresentazioni riman gono fissate intorno alle 38.000 all’anno per 12 milioni di biglietti venduti. Quest’ultima cifra appare molto al di sotto dei 21 milioni del 1950 e dei 21,2 milioni del 1937 quando la popolazione era del 20 per cento inferiore a quella attuale. E veniamo ora alle novità italiane degli ultimi anni. Certamente e questo il problema più grave del nostro teatro: la scarsa presenza di autori nuovi e di testi validi. Nel 1969-1970 sono state messe in scena quaran tanove novità; nel 1970-1971 cinquantuno; nel 1971-1972 Comunque, dopo la leggera flessione del 1967-1968, dal 1970 in poi sia il numero delle rappresentazioni che i biglietti venduti e gli incassi sono aumentati pro gressivamente (si consideri però il rialzo « ogget tivo » del prezzo die biglietto). Si è passati, infatti, dalle 38.832 rappresentazioni del 1970 (12 milioni di biglietti venduti, 16,5 miliardi di incasso) alle 63.669 rappresentazioni del 1975 (18 milioni di biglietti ven duti, 37 miliardi di incasso). Nel numero delle rappresentazioni sono compresi, naturalmente, tutti i vari tipi di spettacolo teatrale: teatro primario di prosa, cabaret, dialettale, per ra gazzi, opere elaborate da testi precedenti. sessantacinque; nel 1972-1973 quarantanove; nel 1973- 1974 cinquantaquattro; nel 1974-1975 quarantasei te. L’impressione che se ne ricava (molto più di una impressione in realtà) è che molti di questi lavori sia no stati immediatamente sepolti. Non ci risulta di aver risentito di frequente questi titoli; anzi la loro « occasionalità » viene riconfermata dai nomi delle compagnie che le hanno messe in scena: per il 90 per cento compagnie private, cooperative e sperimentali; irrilevante la presenza degli stabili. L’elenco completo rivela che soltanto alcuni autori sono presenti con una certa regolarità: gli altri sem brano essere dilettanti o provenienti da altre attività artistiche. Il teatro, quindi, letto attraverso il filtro dei dati e delle cifre, sembra in ascesa: più rappresentazioni, più pubblico, più incassi. Ma non altrettanto si può dire per la nostra drammaturgia che, salvo alcune eccezioni, non risulta in grado di imporsi ed emergere. Pochi volenterosi mettono in scena lavori di cui già sanno in partenza la sconfitta. Nessuno dà dav vero uno scossone all’attuale situazione. Questa inca pacità a creare un circuito solido ed efficace tale da permettere ai nuovi autori di farsi conoscere è l'indice che qualcosa non funziona all'interno di tutta la complessa organizzazione del nostro teatro. Dobbiamo comunque dire che VIDI (Istituto del Dramma Italiano) si sta muovendo per favorire la rappresentazione di nuove opere di autore italiano. Infatti al Teatro in Trastevere è iniziata una rassegna (dal 9 novembre al 30 aprile) in cui verranno messe in scena le nove novità che l'Istituto ha premiato tra una rosa di diciotto drammi nell'ambito dei nuovi interventi promozionali decisi dagli aderenti. Le opere sono state scelte, oltre che per la validità del testo, anche per un preciso disegno produttivo. A ciascuno dei lavori prescelti sono stati assicurati sia tre set timane di programmazione al Teatro in Trastevere che un mese di rappresentazioni nel circuito nazio nale dell'ET I. Speriamo che questo 'sia soltanto un primo signi ficativo segno di rinnovamento e che il nostro teatro possa fare fronte con maggiore concretezza alle esi genze del pubblico: un pubblico sempre più interes sato ed attento ai repentini mutamenti della società contemporanea. Marco Tesei N o n o s t a n t e l a p o l i t i c a La notizia che il « Living Theatre » si stabilirà a Roma coincide con un fenomeno che caratterizza l ’attuale stagione e con il successo sostanziale di un’opera discussa e discutibile, ma innegabilmente im portante: « Affabulazione », di Pasolini, di cui parliamo in altra parte della rivista. Da questa coincidenza partiamo per alcune riflessioni che esponiamo ai nostri lettori. Chi scrive, ha sempre manifestato interesse per l’avanguardia. Ri cordo di essere stato uno dei prim i a seguire con curiosità e senza scandalizzarmi le uscite di Carmelo Bene in Trastevere, in Via della Lupa, in Via Gioacchino Belli, al Teatro delle Muse. E poi Mario Ricci e poi Nanni, i prim i cosiddetti « maestri » della « scuola romana » (ma l ’unico che meritava attenzione era Bene). In breve tempo, però, gli epigoni proliferarono, le cantine si moltiplicarono, sopraggiunsero i camions, mentre le neoavanguardie storiche si trasferirono nei velluti dei luoghi deputati (il Quirino, per esempio). Due anni fa si arrivò all’inflazione; un’inflazione che in parte c’è ancora. Il Che cosa produsse l ’espansione dell’avanguardia ? teatro del l ’Urlo e del Gesto, oltre ad altre forme di disintegrazione. Carmelo Bene in breve divenne un esponente del Vecchio Testamento, lui che parlava ancora. I discepoli del Living, di cui avevano mal digerito i nutrimenti, e quelli di Wilson, fecero a gara a sopravanzarsi in questo estremismo della non espressione. Era una gara a chi comunicava di meno, a chi avviliva di più la parola, la significazione, l’espressione. Il fenomeno aveva anche una sua contraddittoria connotazione politica. Tutta l’avan guardia, anzi, la neoavanguardia più spinta, era all’estrema sinistra, nasceva dalla contestazione post-sessantottistica (faceva eccezione Bene, che, in fondo, è un individualista, un rivoluzionario aristocratico, iso lato e borghese, il più geniale, anzi, l ’unico geniale; e anche furbo). Ed era gestita dall'estrema sinistra anche dal punto di vista strutturale e organizzativo, in patente contrasto con l'ideologia marxista che ha sempre fatto del neorealismo socialista la sua filosofia dell'arte, la sua estetica. Infatti: chi gestiva la rivoluzione teatrale ? Le cooperative, le associazioni culturali comuniste ed extra-parlamentari. Questi organi smi, parto dell'eversione sfruttava abilmente il sistema, cioè le leggi, trovando nelle regioni e negli enti locali i massimi sostenitori. Quello della neoavanguardia, quello dell’urlo e del gesto, a pen sarci bene, non fu affatto un teatro popolare, ma giacobino, con estra zione borghese, aristocratico, intellettuale. E infatti, nonostante avesse agito nel cuore dei quartieri popolari, a Trastevere, per esempio, o nelle periferie delle città, non ricevette mai adesioni di masse. Come invece le ricevette Dario Fo, il cui teatro mai ha prescisso dalla parola e dalla significazione e mai ha perso di vista il fine della comunicazione; discutibile quanto sia (e lo è; sia dal punto di vista estetico che sociale), quello di Fo è stato ed è un teatro popolare, a largo raggio, ancor più che nazionale. Ma perché le forze politiche della sinistra ufficiale hanno appog giato questo teatro dell’urlo e del gesto e anche quello del non gesto e del non urlo che contraddiceva con i princìpi estetici ed ideologici del marxismo la cui filosofia dell’arte— e lo ripetiamo — è quella del realismo socialista, sia in Russia che in Cina (su questo punto non ci sono divergenze)? Perché i partiti della sinistra ufficiale hanno soste nuto in tu tti i modi e soprattutto con rm ézzT còhcFéTf,^finànziàft;""legi- slativi, e cosi via, il teatro della non comunicazione che i lavoratori?- nemmeno quelli più evoluti, recepivano ? Quei lavoratori che pùre capivano e sostenevano Fo, ma poi si trovavano perplessi davanti agli attori delle cooperative, pur proletari come loro ? Per un motivo di chiaro calcolo politico. Anche il teatro della neoavanguardia, pur nella sua scarsa incidenza, serviva a scardinare il sistema, realizzava quel disegno di distruzione del teatro della comunicazione e della parola che in' Italia era stato prodotto dall’intelligenza borghese o comunque non marxista, laica e anche cattolica. Di qui l’appoggio al repertorio dellé cooperative (quasi tutte comuniste) anche se era un repertorio sostan zialmente di élite, di qui la sostanziale, erosiva critica al repertorio della chiarezza e della comunicazione o a quello della pura intelligenza o della poesia. Lo stesso Pirandello, in questi anni, è stato rappresen tato soltanto dal teatro privato, che non è in mano alla sinistra ufficiale come invece lo sono gli Stabili, grazie alla dissennata politica di cedi mento della Democrazia Cristiana. (Tranne una o due eccezioni, in tutta la penisola gli « Stabili » sono in mano a comunisti o socialisti o a democristiani criptocomunisti). Ebbene: a lungo andare questa situa zione è diventata insostenibile. E già si ravvisano i prim i segni d’in tolleranza. Lentamente si ritorna al teatro della parola. Lo dimostra il cartellone di quest'anno. Lo dimostra soprattutto il comportamento del pubblico che, ancorché spesso tradito dal sistema degli abbona menti fatto apposta per ingannare la gente, rifiuta il repertorio della non significazione e non protesta perché ormai in Italia il conformismo è così incarnato che non protesta più nessuno, di niente. Siamo certi che se non ci fossero « ordini superiori », certe mobilitazioni imposte dalle sezioni e dalle cellule, i « forni » davanti ai palcoscenici nei quali impera il teatro del nulla, si moltiplicherebbero; e quel teatro del vuoto, avrebbe quello che si merita: il vuoto. E se non ci fosse il teatro pub blico, la situazione sarebbe definitivamente compromessa. Mario Guidotti Scriveva Pasolini nel suo «Manifesto teatrale »_che il teatro della parola si rivolge agli intellettuali, ina solo per arrivare meglio alle classi 'lavoratrici. Noi crediamo che quindici anni dopo che Pasolini scrìsse quel suo manifesto, la situazione sia ancora cambiata. Il teatro della parola* può arrivare alle classi lavoratrici anché senza il filtro dell'interpretazione borghese. Le classi frastornate dalle urla e dai gesti; ma l’ubbidienza agli ordini superiori può avere un lim ite; esse dimostrano già di essere stanche e di preferire un re pertorio clic parli con i mezzi più naturali all’uomo, con quel donò che- là natura o Dio (e noi che siamo credenti diciamo Dio) ha dato' alTuomo e cioè la parola e una connessione di parole e quindi un di scorso e quindi una serie di discorsi contrapposti e quindi un dialogo. Ecco: il dialogo. Cioè l’essenza del teatro. Che è parola. Anzi, per noi cristiani, è Verbo. lavoratrici sono di Odoardo Bertani P R O S A r e c e n s io n i S t o r i e d e i b o s c o v i e n n e s e di Ódon von Horvàth Traduzione di Emilio Castellani e Umberto Gandini Regia di Franco Enriquez Scene di Sergio D'Osmo Interpreti: Corrado Pani, Valeria Mori- coni, Pina Cei, Micaela Esdra, Gior gio Vailetta Con l'allestimento di « Storie del bo sco viennese », ad opera del regista Franco Enriquez, il primo giorno at torno al pianeta, di recente scoperta, Ódon von Horvàth è compiuto. Ora attendiamo una seconda esplorazione, essendovi dell'altro e molto interes sante materiale drammaturgico oltre le quattro commedie (rammentiamole: « Notte all'italiana », Kasimir e Karo- line », « Fede, speranza, carità » e la citata) che Emilio Castellani e Umber to Gandini hanno tradotto e raccolto nel volume dell’editrice Adelphi. ^ L'autore, trentenne, fece conoscere nel 1931. L'ambiente è, sovranamente, Vienna, e la storia è quella, per niente lieta, di Marianne, figlia di un piccolo commerciante di giocattoli che, abban donato il fidanzato, un macellaio, si unisce a quel poco di buono di Alfred, già in relazione d'affari (scommesse sui cavalli) e di altro con la piacente vedova Valerie. Ripudiata dal padre e, in capo ad un anno, anche dall'amante, cui ha dato un figlio, Marianne finisce in un caba ret a fare un numero di nudo e poi anche in prigione per un tentato furto. (Sono chiarissimi in lei i tratti di quel Corrado Pani e Valeria Moriconi in « Storie del bosco viennese » 10 che sarà poi il personaggio di Elisa beth in ■■ Fede, speranza, carità »). I maneggi di Valerie — che nel frat tempo ha accalappiato, provvisoriamen te, un giovane di tendenze nazional- socialiste — per rimettere in sesto e cose altrui e proprie, sembrano avere successo, perché vediamo tutti in vi sita al bambino di Marianne, ospite della nonna materna, presso la quale la bisnonna, una pazza vive anche egoista. Ma qui apprendono che il pic colo è morto: la vecchia lo aveva lasciato apposta, una notte, fra due finestre aperte, e si era preso una broncopolmonite. Marianne non ha via d’uscita: si lascerà sposare — ma dentro si è spenta — dal tenace macellaio. I più ritengono che questo sia il capolavoro di Horvàth. Noi siamo di parere meno sicuro, e resistendo al fascino di una partitura variopinta, estrosa, tessuta di arguti contrappun ti, indichiamo, tra quanto conosciuto, 11 meglio in « Fede, speranza, carità », per l'asciuttezza del disegno, la con centrazione drammatica e un minor colore locale. Ma, mentre è probabile che tra le opere non tradotte si possa rivelare qualcosa di più alto ancora, avrà pure un significato che non pochi registi italiani, e tra i maggiori, dopo essere stati attratti dall’opera, abbia no lasciato perdere. Ma più colpisce il diverso approccio critico. E Chiusano parla di fiaba e di ■> tenero umorismo lirico, vivificato da un'ironia sempre sveglia e mai cat tiva »; il Castellani vi trova riflessa « una Vienna asfittica, pauperizzata, ba zar di espedienti e di svendite, mer cato delle ideologie... », dove la borghe sia svela « la bassezza, la credulità, la crudeltà fisica e mentale rimaste alla base del suo carattere e che aspet tando solo il nazismo per scatenarsi a fondo ». Su questa linea si pone Furio Bor- don nel prezioso quaderno approntato una luce sicura, a non dirci efficace mente che si tratta di piccoli mostri, il primo atto è ancora sufficientemen te orientato ad avvertirci di non ridere troppo, di non fidarci troppo. Poi, le intenzioni si stemperano, la giostra ed il comico prevalgono (tentatrici le fe ste ottobrine), e infine sono i perso naggi stessi a perdere i connotati, e diventare amabili o anodini. Abbiamo notato, oltre la carenza di un intervento fortemente interpreativo- critico, una specie di progressivo ab bandono di invenzione, certe perdite di ritmo nelle scene d’assieme, men tre la presenza di allogeni (un tede sco, uno sloveno e un sudamericano), per quanto pratici della nostra lingua, ci è sembrata piuttosto ingiustificabile e tale da proporre in termini perentori il problema dell'omogeneità espressiva della compagnia, qualità che è ancora da fondare. Ciò premesso, riconosciamo la digni tà formale della rappresentazione, una sua chiarezza illustrativa, con qualche prestazione degna di menzione: quella di Corrado Pani (un Alfred non troppo lontano dal brechtiano Mackie Mes seri, di Pina Cei (che intaglia con aspro vigore una Nonna infernale), di Micaela Esdra (vivida Marianne), e di Valeria Monconi, il personaggio, però, andrebbe reso tutt’altro che simpatico Una nota di favore per Alberto Di Stasio, nonché per Giorgio Vailetta ed Umi Raho. Z i o V a n i a di Anton Cechov Regia di Mario Missiroli Scene di Giancarlo Bignardi Interpreti: Gastone Moschin, Giulio Brogi, Cesare Gelli, Anna Maria Guarnieri, Pamela Villoresi, Gianna Piaz, Edda Valente e Giacomo Rizzo Costumi di Elena Mannini Si erano ridotti a quattromila e, dopo un anno di gestione organizza tiva da parte di Giorgio Guazzotti, sono diventati quattordicimila gli abbo nati del Teatro Stabile di Torino, cioè una garanzia di partecipazione ed an che una domanda di nuovo impegno. Domanda alla quale risponde lo spet tacolo di apertura della stagione, e cioè Zio Vania di Anton Cechov. .< Zio Vania » fu la prima commedia di Anton Cechov ad essere rappre sentata in Italia. Notizia modesta, e un po' meno scontata, se si rammenta che s'era nel 1922. Il ritardo della no stra cultura teatrale non poteva esse re più macroscopico, e del resto le diverse raccolte di critiche uscite in questi anni e relative ai decenni pre bellici — oltre che a ridimensionare certe firme — fanno constatare la pochezza del repertorio allora in cir- dal Teatro Stabile triestino, sofferman dosi e calcando sulla « vivisezione del mondo piccolo-borghese, i cui vizi, miti pseudoculturali, riti comunitari e cru deltà vengono sottoposti ad un'analisi che sostanzialmente si alimenta a un sentimento di disprezzo e a un giudi zio di condanna, e che formalmente si leggera, espediente sarcastico con cui decre tare il fallimento di un’intera classe sociale attraverso lo strumento spet tacolare da lei prediletto », ossia il genere della commedia popolare. traveste da commedia In effetti, a meno di scorporare il testo presente dalla restante opera di Horvàth e dai documenti che la corre dano (« io distruggo formalmente e drasticamente il vecchio Volksstuck », ebbe a dire l'autore), e a meno di non tenere conto né degli accenni a tri stezze ed ombre contemporanee, né dell’esplicita crudeltà dei due perso naggi del Padre e della Nonna, accom pagnata dall'intima laidezza e dall'egoi- smo degli altri, non si può non respin gere l’idea che « Storie del bosco vien nese » sia suppergiù un’operetta. E tuttavia, quel tanto di compassione di cui Horvàth avvolge anche i mascal zoni, insinua un sospetto di ambiguità tonale, che è un difetto rispetto all’ar te. Nella citazione dal Bordon abbiamo appena letto il problema rappresenta tivo inerente, problema che andrebbe affrontato con una parallela discussio ne sulla lingua horvathiana, sulla sua visione del mondo come « Kitsch », e via dicendo. Rappresentare Horvàth, trovare il se gno giusto di un'opera intrinseca al proprio tempo ormai calamitoso e ap plicata ad una cultura strumentalizzata per negarla, non appare impresa da poco, dovendosi partire da tutt’altro clima. È tuttavia, meglio — forse — sbagliare che tacere. Questa edizione di « Storie del bosco viennese » è la ventunesima del dopoguerra nel cam po europeo. Troviamo la scelta dello Stabile concretamente giusta, ossia coerente con l'impostazione di tenere continui i contatti con la cultura, di cui la città è stato un capolinea e un crocevia. Vero è che nel curriculum di Enri quez ci stava la prima informazione su Horvàth, ossia la messa in scena di « Kasimir e Karoline », a Roma. Questo nuovo intervento appare mi gliore avvicinamento all’autore, ma è pur sempre un incontro parzialmente realizzato. Nulla da dire sulle scene (un impianto piuttosto grandioso e funzionale; ma trasferibile dovunque?) di Sergio D'Osmo, che anzi opportu namente tracciamo la cornice entro colazione, e indirettamente motivano il recupero di autori e testi, che si è dovuto compiere in questo dopo guerra. Una nota informativa dello Stabile ci avverte, che l'edizione di queste « scene di vita di campagna » ora alle stita è la decima. Osiamo correggere: è la undicesima, ove si consideri auel- la preparata; nel 1952, da Fantasio Piccoli e presentata al Festival della prosa di Bologna: che qui si ricorda, se non altro perché nei ruoli princi pali comparivano un Romolo Valli, una Valentina Fortunato ed una Adriana Asti, giovani di belle e mantenute speranze. Ma potremmo anche dire: dodici, menzionando una~edizione che. durante ia guerra, circolò in Alta Ita- lia, essendone regista Enzo Ferrieri e, tra gli interpreti, annoverando Dia na Torrieri e Piero Carnabuci. Proce diamo. Dopo Sharoff (quattro edizioni), Vi sconti e Puecher — per citare- gli in contri più significativi — ecco Mario Missiroli affrontare il testo cechovia- no. È il ritorno felicissimo del regi sta deN’originale e provocatoria « Lo candiere » di qualche anno fa, che si era poi ingelosito di certe sue pre giudiziali, e mirava a stupire con una specie di gozzivig'ia scenica. Ora il suo estro nativo è guidato da una lettura non sopraffattrice e sostenuto da un mestiere ben maturo. Andiamo un momento da « Zio Va nia », da quest’opera che fece rina scere dalle ceneri il <■ Liescii », ossia il dramma che, circa dieci anni addie tro, nél 1882, era stato malamente accolto, sì da indurre Cechov a rifar lo, tenendolo però nel cassetto per sette anni. Se ancora sussistono parallelismi e momenti di oratoria — ossia non tut to è filtrato in stati d’animo e si estrae semplicemente dalla situazione, se non tutto è respiro dell’opera e non invece intervento dall’esterno —, tuttavia siamo prossimi al supremo punto di equilibrio, e la grande do manda sulla vita penétra nelle ossa dei personaggi, precisandoli in un mo mento di crisi storica ma anche esi stenziale, costruendoli nella loro sin gola verità controversa e magari « bi slacca », ma non per ciò meno reale. <• Scene di vita » dominate dal sen so del fallimento della vita: e nessuno se ne salva, anche se non tutti lo sanno (o fingono di non saperlo?). Il professor Serebriakov, che ha speso un esistenza a scrivere d'arte per non dirne nulla, sta in questo limbo d’am biguità: la sua prosopopea nasconde forse I avvilimento di uno scacco in tuito, e da ciò, con corretta psicolo gia, il suo vendicativo vessare gli al tri; ma assolveremo forse lo Zio Va nia, che perviene ad attribuire a cir costanze esterne la sua mancata sa lita alla chiara fama di un esemplifi cato Schopenhauer. Caratteri a metà, tarlati; autoemar ginazione di una classe; individuale agonia della fede, e quindi progres sivo avvilupparsi nell'atarassia, nel l’accidia, nell'afasia, mascherate ora dal parlottio quotidiano, ora da gesti eccentrici, ora da false passioni, ora da sogni e da miraggi. I miraggi della mente o del cuore sono il tessuto della commedia, che si innerva di temi assunti giustamen te come proposizioni d’effimero svilup po. Anche il piantare alberi di Astrov, il medico, quanto assomiglia a un ge sto di devozione, ad una solitaria con testazione, di cui però egli stesso comprende la inutilità, quando traccia le successive mappe della provincia, segnandovi la progressiva degradazio ne della natura. È un capitolo di ecologia che oggi cattura l’attenzione; ma non è da sot tolineare in sé e più che tanto, per ché qui c'è un raffinato rapporto spa zio-tempo, e ad essere tracciata è, nel fondo, una vicenda umana di arre tramenti, sino a dover riprendere — per resistere, per non arrendersi, per sopravvivere — il calendario da zero, a dover cioè dedicarsi al futuro, stabilendo un’ipotesi di rinnovamento, che non è nemmeno speranza, ma utopia, posto che non parte da nes suna visione nuova di assetti filosofi ci e sociali In mezzo, la giovane Sonia, votata allo zitellaggio, introduce la nozione di riposo e di risarcimento nella mor te, e adopera il « lavoro » non per una crescita personale e per un dovere sociale, ma come una specie di anal gesico contro l’infelicità del vivere. Sicché, non c’è un tempo reale per i personaggi, un consistere nelle coor dinate vuoi storiche, vuoi provviden ziali e metastoriche. Non c'è nessuna spiegazione del mondo, ed è meglio non chiedersela. Il « bisogna vivere » non ha una salda motivazione, è un rictus labiale; e il fatto s’è ristretto ad essere una fatalità grigia. Questo è un poco l’« a posteriori ». Cechov non scriveva con penna lut tuosa. È noto come, spericolatamen te, parlasse di « vaudevilles » a pro posito delle sue opere. Un’indicazione di genere da prendere con le molle, ma da non buttare via. E infatti, la storia delle messinscene cechoviane è anche quella del distacco dell’etichet ta stanislavskiana di •< teatro d’atmo sfera », per una presa in visione di retta dei movimenti, dei dettagli, de gli umori alterni, del controcanto pre senti nei testi, che volevano descri vere un oggi, e non rievocare un ieri, con personaggi già conoscitori del proprio destino, e quindi dediti a ve stirsi per il proprio funerale Su questa strada, che consente di far suonare più corde, già altri registi si sono incamminati. Ora, Mario Mis siroli ci dà, per « Zio Vania », una pro posta estremamente suggestiva Ha ri visitato i personaggi ad uno ad uno, ha annotato in ciascuno ciò che per essere ■< bislacco », adottando il voca bolo della traduzione di A.M. Ripelli- no, garantisce l'appartenenza alla nor malità (ed è un bel tratto d’umorismo cechoviano). E li manda in scena col loro spessore, le loro scorie, la loro disinvoltura. Non ha voluto forzare sul piano ideologico, farsi giudice, legge re... di più. Direi che ha cercato di assumere un atteggiamento cechovia no, di osservatore. Naturalmente, non li ha mandati allo sbaraglio, come pecore disperse. Andando per metafo re, diremmo che li ha messi su un vuoto e ordinati dentro una gabbia. La gabbia è la bellissima struttura scenografica eretta da Giancarlo Bi- gnardi, a due piani, di cui quello ter reno — gli interni per la vita di gior no — è cinto da finestroni a riquadri ferrigni, con sonori chiavistelli .Il vuo to è l’insicurezza, il febbrile volitare di anime in un mondo senza punti car dinali, e lo sfogliarsi delle possibilità di agire. In « Zio Vania » non avviene la tragedia, i due colpi di pistola non vanno a bersaglio, e dopo questa acme le acque turbate tornano a coprire una stagnante « routine » giornaliera (la terribile, quanto inconsapevole bat tuta della balia, sugli orari del pran zare) E tuttavia, per caso, una tra gedia non scritta è avvenuta La regia di Missiroli coglie la fragilità umana e la casualità dei gesti: di « scene » si tratta, di qualcosa di frammentario... Questa affiora da un tessuto recita tivo estremamente vivo, sino ad esse re brillante Nessun accumulo d'ombre, anzi un cedere al riso, con accenni di caricatura. Il bellissimo avvio salot tiero, la scena serale tra Elena e So nia, l’episodio degli spari (uno scoppio d’isterismo di Vania), l’asciutto recu pero della disperazione nel purissimo finale: sono i momenti più importan ti di uno spettacolo vibrante e inten so nei toni, avvedutissimo nella sin tassi e nella sillabazione mimica, che è un'autentica partitura stilistica. Nel concerto di una compagnia d’ac- cezione splende il Vania nevrotico, « critico » impersonato da Gastone Moschin con bravura piena, un Vania stroncato ma non piagnone, e sottil mente vorace d’una vita che gli sfug ge; gli accosterei il Serebriakov di Cesare Gelli che, finalmente, trasfor ma i suoi vizi (il colorire in eccesso, il razzolare tra gags pesanti] in virtù, ed inventa un personaggio di risibile « grandeur » con fantasia ricca e coe rente; molto bravo è Giulio Brogi nel la figura di Astrov, da lui resa aerea, staccata; e Monica Guerritore dà a Elena delicatissimi spasimi di sensibi lità; e Anna Maria Guarnieri coglie, coi suoi guizzi, l’anima ansiosa e for te di Sonia e la definisce con note limpide e struggenti, mentre Gianna Piaz, Edda Valerne e Giacomo Rizzo sono perfetti nelle rispettive caratte rizzazioni. L a p o t e n z a d e l l e t e n e b r e di Leone Tolstoi Versione e adattamento di Paolo Giuranna Regia di Paolo Giuranna Interpreti: Paola Mannoni, Valentina Fortunato, Giancarlo Sbragia, Miche le Placido, Laura Fo Scene di Eugenio Guglielminetti punto, non concernevano davvero la struttura o i caratteri, bensì la filo logia, ossia la trascrizione addirittura foneticamente precisa del dialetto con tadino. Novantanni dopo, che fare? Far parlare In lingua, sia pure con sprezzature e rustiche? Questione partecipe del problema glo bale dell’espressività scenica. intonazioni Paolo Giuranna ha scelto la strada della derussificazione. Il testo di Tol stoi gronda di realismo fin nei minimi particolari. Ma recuperare tutto quel l’arredo poteva rendere remoto e inat tingibile quel mondo, offrirlo alla cu riosità e non all'Interesse, dare un senso di riesumazione, considerando finita quella civiltà, piuttosto estranea. Ecco la scelta, allora, e si potrebbe dire l'invenzione, di un dislocamento dell'azione in un'area nostrana e più vicina nel tempo: l'agro pontino prima della bonificazione, servito da una par lata fondata, ma non assolutamente, sul romanesco, nel quale si inserisco no apporti di territori confinanti: dun que, non un ricalco su misura ma una lingua flessibile e più complesse esi genze di vibrazioni, di coloriture. Ora, emerge che l’intenzione si è tradotta in un linguaggio aspro e duro, radicale e faticoso, con vari livelli culturali; un linguaggio specchio di una condizione subumana, d’una con tristata ignoranza, ma diverso a se conda delle possibilità spirituali di cia scun individuo; un linguaggio indican te la schiavitù alla tradizione e agli istinti, ma anche, in taluni, lo sforzo di capire di più, di liberare una qual che luce di eticità a rompere la tene bra delle passioni bestiali. È il caso di rilevare la battuta con clusiva del dramma: « Da adesso non parlo più ». La pronuncia Michele, al termine della confessione delle sue colpe, confessione che lo vede addos sarsi anche quelle degli altri. È un afa sia che segue al momento in cui, parlando, s'è fatto uomo nuovo, ha spezzato le catene, ha lasciato il suo mondo atroce. È un'afasia non casua le: Michele ha speso tutte le parole che posséileva; altre non ne sa, e quindi non potrebbe che ripetere e ripetere. Il testo che nasce è, in un certo senso, parallelo al primo: fa registrare l’espressività di una diversa civiltà. L’operazione linguistica del Giuranna va intesa meno come un fissaggio ver bale, e più come una scelta di campo storicamente affine, per sue arretra tezze, a quello raffigurato da Tolstoi. Non è tanto una riduzione a un dia letto, quanto la ricerca di una osmosi e di un equilibrio fra il fatto, la testi monianza e il messaggio. Ne conse guivano alcuni obblighi nell'allestimen to, in parte ottemperati, in parte me no. Coerente ci è parsa una scelta di toni esacerbati, di emissioni compitate e sottratte alle finezze di un retro stante essere e recitare borghesi. A realtà miserabile, a rozzezza d’animo, ad animaleschi aneliti, a facili cedi- ■■ La potenza delle tenebre », quasi una novità. Dopo la rappresentazione del 1894 (con Ermete Zacconi e Ca millo Pilotto), che addirittura prece dette quella di Mosca, ritardata di nove anni sulla data di nascita (1886] del dramma, l'opera è mancata sui no stri palcoscenici, almeno a livello di edizioni importanti. E questo aggiunge merito — di là dai risultati — all’impresa della Coope rativa degli Associati e dell’Associa zione Teatri Emilia Romagna, che han no affrontato il lavoro tolstoiano senza pedane, senza una « letteratura », e quindi ponendo da zero il problema della messinscena del testo; anzi, pri ma di tutto quello della sua tradu zione. Infatti, « La potenza delle tene bre », se non è stato proprio trascu rato dall’editoria, ha sofferto però di disinvolte distrazioni a proposito del suo specifico linguistico. Se un aned doto afferma che il dramma fu scritto in tre settimane, in effetti, come chia risce Eridano Bazzarelli, si potrebbe parlare di « non meno di sette reda zioni ». Le ondate di varianti, ecco il Nella foto (da sinistra): Paola Mannoni, Giancarlo Sbragia, Valentina Fortunato menti alle tentazioni della vicina città (l'autore non salva nulla) non poteva non corrispondere un’estrema ruvidez za di modi e lo stento di articolare una comunicatività cui, normalmente, bastava un gesto, o un rapido motto. È una terra senza dolcezze, e divisa in tante solitudini. Personaggi, dunque, grossi e lenti, brutali e ignari, persuasivi nella loro greve concrezione esistenziale. Invece, la scena di Gianni Polidori — un ligneo contenitore drammaticamente crollato e aguzzo, con qualche accen no Identificatorio, vedi la ruota di mu lino — non si dispone sufficientemen te a cogliere ciò che il dramma porta di metaforico, ciò che vi alita di mi sterioso e di fatale, posto che di una storia di coscienza si tratta. Occorreva creare attorno alle parole un alone, un respiro di natura. La scena è, come dire?, troppo forte, e supera il reali smo, ma era meglio reinventarlo, e lasciar giungere luci d’acque morte e venti alti e cattivi. « La potenza delle tenebre » — bre ve promemoria — basata su un fatto di cronaca, è la vicenda di Nikita, giovane servo di fattoria, che si lega con la padrona Anissia, sposata a Pie tro, un contadino ricco ma infermo, non trascurando altre avventure. Fatto morire l'uomo da Anissia, istigata da Matriona, madre di Nikita, i due si sposano. Nikita, impadronitosi dei beni del defunto, se la spassa e ottiene anche i favori di Akulina, la figliastra, che resta incinta. Il bambino nasce e viene ucciso il giorno del fidanzamen to di Akulina con un giovane ignaro della situazione. A Nikita lo danno da seppellire. Il giovane, sventato ma non malvagio, finalmente si ridesta, e aiu tato dal padre, un innocente predica tore di Dio, svela la verità davanti agli invitati e si fa arrestare. È tutto noto: che Tolstoi volle scri vere un’opera edificante, senza nulla concedere alla pietà; che vi si svilup pano i temi del male che produce male e dell'espiazione che segue al peccato; che si tratta di una « mora lità sposata al più esplicito realismo » (il che non piace a D.P. Mirski, autore di una recentissima Storia della lette ratura russa, tradotta in italiano, ostile all'intero dramma, definito come una delle opere tolstoiane « meno riusci te »); che le donne vi ricevono con notati peggiori degli uomini, essendo esse le operatrici di ogni infamia e le meno propense a udire la voce dello spirito. La potenza del dramma supera le vicende narrate, perché ci accosta a spalancati abissi dell’animo e, oltre la una scena del « Volpone » di Ben Jonson contingente localizzazione, riporta a riflettere su categorie universali. Nella riduzione di Giuranna, il fuoco spiri tuale ci sembra che sia stato tenuto sostanzialmente acceso. Lo spettacolo, realizzato sempre dal Giuranna, è soli do e si dipana crescendo in vigore, ma ha un'incertezza di fondo tra la tentazione del rusticano e il fascino dell’astrazione. Nella sua corposa defi nizione dei tipi ha qualche eccesso, che può tradursi in effettismo, a sca pito dell'operazione chirurgica e maieu tica cui tende. Occorrevano qualche stupore, qualche sacralità più marcati. Degli interpreti, ricordiamo lo Sbra- glia, in una ricca e raffinata interpre tazione di Vito (ossia di Akim, nell'ori ginale); Michele Placido (Michele, os sia Nikita) è bravo a tradurre in ter mini moderni il suo personaggio, è spontaneo nel cinismo come nello smarrimento, ed abbastanza efficace negli impeti drammatici; Valentina For tunato si prodiga con bravura a scol pire vigorosamente i tratti diabolici di Marfisa (ossia Matriona) e Paola Man- noni è una vigorosa Antonia (ossia Anissia); da Laura Fo vorremmo più perfidia nel personaggio che è abbiet to, di Ada (cioè Akulina); il Giuranna compare magnificamente nella figura del lavorante Mitri, e lo costruisce con quell’amara arguzia che gli è con geniale, dando vita ad uno splendido « a solo » nel passaggio brechtiano sul denaro e la sua fruttificazione; di stra ordinaria bravura la piccola Cristina Paladino. V o l p o n e di Ben Jonson Regia di Luigi Squarzina Interpreti: Maria Scaccia, Gabriele La- via, Graziano Giusti, Alvise Battain, Ettore Conti, Anita Laurenzi, Erika Blanc Scene e costumi di Emanuele Luzzati « Volpone », di Ben Jonson, il gran de amico e rivale di Shakespeare. Il il poeta, si muta, senza letterato, smentirsi, nel drammaturgo. Stempera nel copione vasto e sapiente la me- moria dei cari autori latini, ma stabi lisce una storia e un ambiente affat to moderni. Intuisce Venezia opulenta, corrotta, campo d’estri e di mutazioni. Conduce a termine, fu detto, l’Areti no ma vorremmo ricordare, che il momento della somma abiezione (Cor vino che offre la moglie per ingraziar si, sanandolo Volpone e prevalere su gli altri due concorrenti alle sue for tune) ha qualche analogia con l’espe diente suggerito e posto in atto nella « Mandragola ». In una Venezia laica, si consuma un gran rito di accumulazione della ricchezza, si ripete l'adorazione del vitello d'oro. L’esecranda brama atta naglia molti e li spinge a gesti incon sulti, ma il centro dei loro interessi —- questo grande sportello bancario, questa grande cassetta di sicurezza, questo grande investimento (con futu ri frutti di iperbolica percentuale) che è Volpone, non è come loro possedu to dall’avaria Costui agisce da attua lissimo finanziere: punta sul credito, promette un favoloso incremento del capitale, e dà per garanzia — capita le interamente versato, sta scritto — nientemeno che se stesso II corpo di se stesso, la propria morte: così sarà libera la via ai forzieri, al « caveau ». Volpone ha — in qualche modo — questo volto imprenditoriale, questa grana da banchiere moderno che sot to sotto la dimostrazione del proprio fiuto negli affari e la bravura nel cala mitare fiducia e denaro ripaga più del guadagno inerente, del resto, Volpone stesso conosce la propria diversità: « io mi glorio più dello scaltro acqui sto della mia dovizia, che del felice possesso ». Egli non è una figura d'avaro, ma trasferisce in termini ma nageriali il congegno aulico della bef fa. E tuttavia, poiché ancora le sue unghie afferrano, egli non è ancora il massimo rappresentante di una pas sione divenuta vizio dell'intelligenza. Così, il genio di Jonson gli pone a fianco — come a nessun avaro, che è campione di solitudine, si potreb be — un « doppio », che è il sempi terno servo di commedia qui elevato a coprotagonista, e in cui l'antica vo cazione all'intrigo si sublima in una capacità creativa che si compiace del la propria dismisura. Ecco Mosca, che fa del tendere trappole un’arte fine a se stessa E infatti, finché coltiverà l’arte per l’arte, vincerà ogni ostacolo, e solo quando verrà anch'egli afferrato dall’ingranaggio e vorrà beffare il pa drone per utile proprio, allora cadrà alla portata della società e delle sue leggi, e sarà anch’egli sconfitto. « Volpone » è la commedia del ca muffamento più ancora che dell'astu zia volpina. Volpone che si finge mo ribondo (e poi dovrà, e sottolineo questo « dovere », che garantisce un minimo di positività all’ordine del mondo), che si finge ciarlatano (e qui Jonson ci offre una preziosa citazio ne storica), che si finge uscere, sì, ma che anche deve fingere l'inverso del proprio atteso piacere erotico, e quasi per contrappasso essere, in es so, condannato a mutar foggia. Egli non dice alla sventurata Celia: ecco, riconoscimi come uomo. No: si è ap pena tolto il robone, che subito la sua mente ripropone, per sé e per lei, una galleria di personaggi in cui ca larsi, senza essere mai se stessi. E in questo c'è una specie di con trapasso, ma dietro questa par di sen tire uno sghignazzo, la risata del Dia volo, che gode dello offuscarsi del l'immagine divina nello sperperarsi della integrità individuale. Chissà, se non si potrebbe rappre sentare questa commedia come un sogno, magari nuovamente approfittan do di quella tecnica psicanalitica, ap pena usata da alcuni, per definire Vol pone, come tipo psicologico, nel modo che si legge sul volume di Edmund Wilson. Si diceva « sogno », per sot tolineare la prepotente visionarietà dell'opera, il suo venire a noi conti infatti, nuamente per figure. Siamo, in un mondo di bestie, dai nomi dei personaggi sino alle immagini, alle metafore ricorrenti nel dialogo. Come se l'autore ci mostrasse un affresco, dove uomini travestiti da animali — anzi animali deformati da tratti uma ni — esprimessero nei gesti la inten zione severa di una « moralità » me dievale. Sicché, a continuare, sarà la rap presentazione, sarà la recita, che è cominciata a sipario alzatosi, e che della commedia un singolarissimo ca so di teatro nel teatro, non nel senso tecnico, ma per una specie di sottile eticità che tutela, per così dire, l’uo mo, per cui un « altro » da lui, cioè un personaggio, si assume i connota ti infernali; e se tale osservazione sembrerà strana, rientriamo subito nel l'alveo rilevando questa effettiva reci tazione condotta da Volpone e da Mosca, e in una prospettiva ribaltata, perché essa sta in primo piano, e dietro sta la Venezia complice; sma scherati la città verrà avanti per punirli. Nonostante se stes se, aggiungeremo, vista la qualità dei giudici che sarcasticamente Jonson ci propone. i colpevoli, Grandissima farsa a fosche tinte, « Volpone » — che il Bandini afferma va approssimarsi per molti aspetti « a esser tragedia, e nel senso più cano nico e austero del termine » — ha ora vita sul palcoscenico del Teatro Ar gentina, ad opera di Luigi Squarzina e del Teatro di Roma. Lo spettacolo tien poco conto dei soprastanti avverti menti, e punta sul divertimento pie no, organizzandosi perciò su un rit mo, che diremmo indiavolato, se l’ag gettivo non fosse stato logorato ai tempi del french can-can. E il grotte sco trionfante della scena finale del processo è il sigillo a una magnifica tenuta di ritmo, ad un incalzante se quenza di « flashes », ad una , giostra pazza di mostri morali, di ambigue apparizioni, di bavosi e criminosi de sideri. La scena è dominata da una stu invenzione di Emanuele Luz- penda l'intera parete di fondo è un zati: armadio, i cui sportelli, aprendosi, sve lano i tesori di Volpone; è un arma dio che ingloba e spreme lo stesso Volpone, e che successivamente ve dremo meravigliosamente scomporsi per definire altri luoghi. Esso incom be, col suo nero e il suo oro, come un apparato funebre, e da lutto ve stono Mosca, Voltore, Corbaccio, Cor vino, in questa farsa dove non si par la che di morte, e sintomi connessi. Il Volpone di Mario Scaccia è un imperioso racconto, detto con l'anima di un Don Giovanni a venire. Il ca rattere della sfida è, infatti, fortemen- mente espresso. Una specie di ebbra felicità creativa fa anelante ed inesau sto il Mosca dello squillante Gabrie le Lavia, che perviene ai limiti dello straniamento e persino della « clowne- rie » con limpidezza e forza di mezzi, studiandosi e vigilandosi in una pre senza, che è un implacabile motore. Graziano Giusti, Alvise Battain ed Et tore Conti si scatenano nella caratte rizzazione più drastica ed efferata dei pretendenti all’oro di Volpone. Toni Ucci è un piacevolissimo Sir Politic, mentre non ci è sembrata tutta nelle corde espressive di Anita Laurenzi la figura di Lady Politic impostata sul- l'esagitazione. La Celia di Erika Blanc è assai bella, ovviamente, e onesta; ma non giureremmo su di lei in se guito. L’immissione di questo ammic camento è garbatissima. Il concerto recitativo è pregevole, il dinamismo non affannoso, e la perentoria propo sta comica — mai depressa da facili ricorsi al mestiere o da appoggi este riori — si sviluppa senza smagliature. N o n è p e r s c h e r z o c h e t i h o a m a t o di Diego Fabbri Regia di C. Giuffré Interpreti: C. Giuffré, P. Quattrini, A. Ninchi e J. Di Benedetto Scene di M. Mammì Amore e morte: un binomio di cui si intrisero la cronaca e la letteratura alta e bassa. Quasi come contrappasso a teorie individualistiche sull’essere o esaltatrici del primato della passione sulla ragione. Ci ha vissuto sopra un filone del Romanticismo ma anche una sterminata biblioteca rosa. Si può sor ridere, ma i sentimenti ci sono e biso gna, con essi, fare i conti; ultima mente, è sembrato piuttosto « démo dé » intrattenersi sul cuore dell’uomo, esortato a vivere in modo complesso, impegnato, da responsabile della sto ria di tutti. Ma, quando non fa politica, non va allo stadio e non guarda la TV, l'uomo che fa? Ama ancora? La risposta si può supporre affermativa per tanta parte dei viventi. È incerto il capitolo dei giovani, ma chissà che proprio un rapporto con l’idea e la possibilità di amore, non debba collegarsi (sino a rovesciare in paura la relazione col mondo tutto) la loro angoscia, espres sa o no in modi anche aberranti? Diego Fabbri è un commediografo che all’amore ha dedicato parecchie sue opere, talvolta velando con for mule scherzose o paradossali, la real tà di un problema e le implicanze spirituali e le contraddizioni dei sin goli. La difficoltà d'amare diventa il rischio d'amare in « Non è per scherzo che ti ho amato », un dramma scritto più di cinque anni fa, e che solo adesso è andato in scena, avendo come punto di partenza il Politeama di Napoli, e affidandosi all’interpreta zione di Carlo Giuffré (al suo esordio come regista), Paola Quattrini, Arnaldo Ninchi e Ida Di Benedetto. titolo giornalistico; Il rischio totale dell'amore inteso come assoluto. Si può riassumere la presente favola in una battuta da logo rato innamorato respinto si uccide. Infatti, non accade altro, in apparenza, che non il fatto che Marco, un editore « self-made- man » di scarsa confidenza con la cultura e con le dimensioni più squi site della mente, si innamori di una collaboratrice, Lorenza, lasciata sola per due anni dal marito, professore che, recatosi ad insegnare in America, qui è stato per così dire rapito, e poi restituito, da una donna, in una « lia- son Dangerouse » da essa prima volu ta e poi spezzata. L’uomo, Luca, ma spera invano di essere riaccolto, e so spetta che questo accada, perché la moglie è divenuta l’amante di Marco, che a sua volta, convive con Ada, una donna impetuosa e originale; in effetti, Marco si è ormai staccato da costei, ma non c'è altro. Chi invece conclude è proprio Luca, che viene attratto da Ada. Un rapporto incro ciato, ma con un appoggio di meno, infatti, Lorenza non è stata e non sarà mai di Marco. Costui trova la forza di dichiararle il proprio amore, ma non trova corrispondenza. E allora si ucci de. Da una lettera, conosceremo la profondità del sentimento che alber gava in questo uomo rozzo, qualunque, sempre incerto su questo terreno. Amore e morte. È una realtà veri ficabile a più livelli, compreso ad esemplare quello del martirio, anzi, la religione addirittura si basa suH'amore. Qui ne troviamo un filone, sfruttato ma perenne. Nella specie, questo amo re di Marco assume i caratteri anche di una protesta, di una dichiarazione di legittimità e di qualità identificante del sentimento amoroso nell’ambito di una società che o lo respinge o lo consuma nell’indifferenza, senza porre se stessa in gioco. L'opera è dunque, come un tentativo di recuperare l'amo re in quanto valore, in quanto dote, segno e prova dell'uomo. Non l'amore che è sesso o contratto, ma l'amore che si determina in dedizione, in rico noscimento pieno dell'altro. Che chie de spazio e consistenza nella voragine di giorni fatui. Che tenta di rompere la solitudine, male onnivoro. Paralle lamente, il testo insinua — se voglia mo —• un sottile pirandellismo, perché si fa significativo in Marco il divario fra ciò che gli altri credono di un uomo e ciò che egli è. Ed è da questa distanza che nasce l’incomuni cabilità. Il lavoro di Fabbri si definisce più propriamente dramma che commedia, non solo per questo cadavere buttato nella partita esistenziale quotidiana, ma per le accuse implicite che con tiene, e per l’amarezza, l'inquietudine che lo percorre; aspetti « pochadistici » sono momentanei e superficiali; i toni grotteschi hanno una piega grigia e uno spessore di turbamento, perché in realtà i personaggi si vanno cer cando, e si vanno scoprendo nella irrisolvibilità del loro problema d’es sere. Offre un caso. Si assume il carico di un interrogativo su questa condizione umana, sul dono e sulla negazione dell’amore (Lorenza è, in verità, il personaggio più disperato), che chiamano in causa l'ordine del mondo (« ci deve essere da qualche parte una grande ingiustizia », pare a Marco, defraudato del diritto di citta- nanza ossia non potuto compiersi in esso, e secondo se stesso). Un disor dine, dice il testo, sigillando il suo pessimismo, che si avranno le spiega zioni e che sarà perdonato — se ce ne sarà bisogno — anche chi non ha potuto amare. Ad un’opera teatrale va poi chiesto di risponderci sulla scena, e qui « Non è per scherzo che ti ho amato » si rivela eccellente per fattura, per pro gressione drammatica, per sintassi di toni, intensità di scrittura, sorvegliata affabilità di linguaggio. Privo di com piacenze, il dialogo è un parlato im mediato e teso, e attua, magistral mente la tecnica della graduale sco perta, attraverso mille errori d'infor mazione, della verità individuale. L'autore lascia vivere fino in fondo i suoi personaggi, sino alla loro dia spora e al loro annichilimento, consen tendoci la pietà che non perdona e non giudica appropriandosi arbitraria mente un diritto di Dio. Il dramma è quindi affascinante in vito a recitarlo, nutrito come è di riso e di pianto, per il nervoso mutare del le situazioni; e lo porgono su una buona linea di comprensione e di espressioni, e gli attori, in uno spet tacolo bene impaginato dalla fredda e nuda scena di Maurizio Mammì (una scatola di pannelli a quinto componi bili)... C h i h a p a u r a d i V i r g i n i a W o o l f ? di Edward Albee Regia di Franco Enriquez Interpreti: Lilla Brignone, Alberto Lu po, Giampiero Becherelli e Serena Spaziani Scena da un bozzetto di Jack Frank furter « Chi ha paura di Virginia Woolf? », fu, nel 1963, un avvenimento. Enrico Maria Salerno, Sarah Ferrati, Umberto Orsini e Manuela Andrei, guidati da Franco Zeffirelli, proposero con grande successo la commedia, con la quale Edward Albee aveva raggiunto Broad- way, ad appena due anni dall'esordio, avvenuto con « Zoo Story », cui erano seguiti ■■ La morte di Bessie Smith » e « Il sogno americano »: tre atti unici, e poi il balzo. Il pubblico fu catturato e reso quasi sgomento dalla violenza verbale, dalla furia iconoclasta del l’opera, che si presentava come un crudele gioco della verità, come una vivisezione non solo privata, ma di una certa fascia sociale americana. Due coppie in una stanza: due docenti universitari con loro mogli; una differenza generazionale, e i giovani coinvolti, da testimoni che erano in partenza, nello scandaglio delle co scienze, nell’inventario dei fallimenti, dei compromessi, delle speranze cadu te e dei sentimenti morti. Alcool aiu tando. le Allora, cogliemmo soprattutto l'urlo e la rabbia, la denuncia e la spregiu dicata fluvialità verbale.. Ma è delle buone opere lasciarsi meglio cono scere nel tempo. E « Chi ha paura di Virginia Woolf? » è un grande eser cizio drammaturgico, e sarebbe un ca polavoro, se il finale fosse concettual mente coraggioso, come lo sono le premesse, se Albee avesse tirato le fila dei contenuti. Aggiungiamo subito, che la conclusione è tuttavia meno patetica di quanto allora non sia ap parso: in realtà, è percorsa da brividi, da interrogativi, sia pure ristretti a George e Martha — i protagonisti — e sul tema della loro possibilità di sopravvivere (meglio di come sia allo ra non abbiano vissuto) dopo avere consumato ogni ipotesi di rapporto. Colpiva, allora, ciò che il dramma conteneva di accusatorio nei confronti della società e nei riguardi della fami glia. Pareva che l’azione si esaurisse in una mostra di panni sporchi, in un « facciamola finita » coi miti, le ipo crisie, gli opportunismi. Ora, poiché il copione è a due piani, cominciamo dal primo, cioè quello dell’accusa alla civiltà. Ebbene, questo dialogo — che è una specie di « a parte » — tra il maturo professore di storia e il gio vane biologo sembra ora più legittimo che mai e più autentico di prima (e anche meno « americano »): la diffiden za nei confronti delia scienza non è davvero diminuita in questi lustri. D'al tra parte, la difesa dell'uomo, del suo diritto ad essere non soltanto libero, ma diverso, è un'affermazione morale che, se non estrapolata, avverte di procedere con cautela nello sbrigarsi del testo. Reclamare il valore della Storia sulla Sperimentazione è onorare il mondo e il pensiero che via via lo ha disegnato. Ed è, infine, amore. Questa parola « amore » sembra ca pitare male a proposito di un'opera, dove ognuno bada a travolgere l’altro. Credo che in parecchi si cogliesse, Una scena di « Chi ha paura di Virginia Woolf? » allora, l'odio come uno « status » tra George e Martha. Forse, si dovrebbe dire solitudine, e non dire odio. Dietro tutta la brutalità, dietro il reciproco massacro, sta, non risolto, il problema esistenziale, individuale, di una moti vazione di se stessi, e sta la confes sione di rapporti deludenti, perché cominciati senza fondamenti spirituali. Ma la necessità di essere in due si rileva sia dal nessun intendimento di separarsi, da parte di George e Mar tha, sia da un semplice verbo in prima persona plurale: « non potevamo », di cono entrambi alla fine, riunendosi in quel punto, a proposito del figlio non generato, e sostituito con un figlio immaginario, la cui uccisione appare del tutto coerente, perché segna la conclusione del periodo della finzione e apre lo spiraglio ad un rapporto semplicemente umano. Non potevamo generare: ed era un'impotenza del cuo re allusa dal riferimento fisico. Non c'è motivo di liquidare con « patetico », ciò che può anche essere inteso cri stianamente come « carità ». Carità dif ficile da conquistare, nel magma acido di uno stato di perdita di valori, verso i quali solo in extremis balugina una speranza. In questo dramma, pervaso di ango scia pura sotto il velame dei sarcasmi — sicché la scossa faccia pur cadere illusioni ed altro di men nobile, che a scoprirsi sarà l'infermità sacra della creatura, il suo mistero — c’è poi un personaggio che è sempre lasciato in un canto, e che vorremmo elevare a tragico emblema. È quello di Honey, la giovane e sprovveduta moglie di Nick, il biologo. È una figura che non va ridicolizzata, ma anzi raccolta con pietà dalla sua succube ingenuità, e dal suo inconscio bisogno di mater nità, essa vittima dell’egoismo del marito. Vien voglia di osservare, che un destino ben peggiore si prepara per la giovane coppia, che non avrà certo la possibilità di ritrovarsi, al termine del percorso pur accidentato, come è avvenuto per l'altra. La causa? È chia ro: la carenza culturale, l'ignoranza della Storia. Sicché si ricompone una bivalenza, ossia le conclusioni del dramma sono due e di segno diverso. Nel lato pessimistico, Honey si col loca come la più esposta al rischio dell'abbandono e della solitudine, con la sua fame di verifica di sé nella fecondità. Lo splendore dialogico del dramma di Albee si riferisce, dunque, ad una materia meno contingente del suppo nibile, e ciò che sembra il « plot » è, sotto il profilo del contenuto, un « sub plot ». L'importanza del testo è assai in ciò che lascia supporre, nelle pie ghe che possiede, nel trasferimento dal politico al filosofico. Concordiamo sulla opportunità della ripresa compiuta dalla compagnia che vede impegnati Lilla Brignone e Alber- to Lupo, con Giampiero Becherelli e Serena Spaziani. Lo spettacolo è stato curato da Franco Enriquez, che ha dato ad esso un bell’equilibrio, una fluidità sostenuta, una limpidezza di toni e un tocco in più di sensibilità. Allo scontro seducente, il regista ha preferito lo scavo, al virtuosismo la ricerca dei motivi più saldi del testo. Sicché bene si svolge un arco interpretativo in cui la disputa non è onnivora, e la spolia zione — ossia la liberazione — di sé prevale su quella dell'altro. Emerge l'aspetto della confessione, della pro blematica interiore, del ritorno a se stessi. L'operazione è resa convincente dal l'apporto squisito di una Lilla Brignone capace della più incisiva semplicità, ossia di tratteggiare una Martha forse meno americana, ma certamente più messa in discussione sul piano spiri tuale; e Alberto Lupo consolida via via un’interpretazione di George come uomo di inquietudini non egoistiche, e di provvisoria cattiveria (la difesa del l'animale braccato), e ci dà un perso naggio ricco di implicazioni, scenica mente persuasivo. Il Becherelli sostie ne un Nick finemente staccato nel suo cinismo, e Serena Spaziani giustamen te attenua i bamboleggiamenti e sot tolinea la « difficoltà » di Honey. Il suc cesso è stato vivissimo. Si recita al San Babila. Durante le repliche al Teatro San Babila di Milano, l'attore Alberto Lupo è stato colto da gravissimo malore. Ricoverato all'Ospedale di Nlguarda, vi è rimasto per molti giorni privo di conoscenza. Al momento di andare In macchina, le sue condizioni permane vano molto gravi. Seguiamo, come tut ti, questa dolorosa vicenda, con la più viva partecipazione I N B R E V E ¡ te a tr o Al Teatro d'Arte e Studio di Reggio Emilia è andato in scena « Il gioco del perché » (spettacolo di clown con draghi e cavalieri, tra giuochi e scherzi, pellerossa e ban diti) di Andrea Monachi già rappresentato per oltre 300 repliche. La seconda produzione di questa stagione è una no vità; « I canti del Friuli - leggendo e rileggendo Pasolini » a cura di Roberto Roversi. Accanto a queste attività, continua l’animazione nelle scuole e proposte di nuovi spettacoli per un <■ pubblico alternativo ». Ugo Fangareggi ha presentato all’Alberichino di Roma « Comunicazione », uno spettacolo rappresentato circa set te mesi or sono al teatro Sabelli. « Comunicazione » è composto di una quindicina di quadri nel corso dei quali Fangareggi affronta in chiave comica o ironica diverse fasi della vita dell'uomo, dalla nascita sino alla scoperta dell'età adulta e un simbolico ritorno-fuga allo stato sel vaggio. La colonna sonora comprende musiche di Beetho- veen, Mozart, Brahms. La stagione del Teatro Stabile dell'Aquila s’è inaugu rata con « L’uomo difficile » di Hoffmansthal, nell'edizione della compagnia « Gli Associati » (con la regìa di Sergio Fantoni). Oltre agli spettacoli prodotti dal « tsa », curati dal regista Antonio Calenda, sono in cartellone: « Il borghese gentiluomo » con regìa di Carlo Cecchi e « Zio Vania » dello « Stabile » di Torino, con la regìa di Mario Missiroli; « Terrore e miseria del terzo Reich » del « Teatro di Roma », con la regìa di Luigi Squarzina; « Il mandato » del « Gruppo della Rocca», con la regìa di Egisto Mar- cucci; « Storie del bosco viennese » dello « Stabile » del Friuli-Venezia Giulia, con la regìa di Franco Enriquez. Il gruppo « I Metavirtuali » diretto da Pippo Di Marca ha ripreso dalla stagione 1976-77 « Santo Genet comme diante e martire. » il testo è tratto liberamente dai romanzi di Genet: « Diario di un ladro », <■ Nostra Signora dei Fiori », « Mira colo della Rosa », Pompe Funebri » e dai lavori teatrali « Stretta Sorveglianza » e « Le Serve ». Per l’apertura della stagione 1977-78 la Compagnia Stabile Napoletana diretta da Nino Veglia ha presentato la novità in due tempi di Nino Masiello « A verità è zoppa, 'e sorde so 'ciunche, 'a furtuna è cecata » per la regìa di Giuseppe di Martino. Maria Luisa Santella e Mario Santella preparano con la loro compagnia teatro « Alfred Jarry » due novità: « La Medea di Porta Medina » e « Dove sta Zazà ». La prima andrà in scena all'Inizio di gennaio 1978, al San Ferdinando di Napoli, ed è tratta da un romanzo di Mastriani, da cronache originali della fine del '700 a Napoli e dal mito classico di Medea. Attraverso la fusione di questi tre elementi saranno impegnati circa venti attori, più cantanti e musicisti. La storia narra il dramma di Coletta Esposito figlia della Nunziata » (l’istituto dove venivano abbandonati gli ille gittimi), vittima di una società crudele e repressiva che emargina e condanna. La seconda novità rientra nelle caratteristiche di ricerca e di sperimentazione della formazione che fa capo ai Santella. ■< Dove sta Zazà » si colloca infatti in questa prospettiva: un testo sui problemi della donna in rapporto alla cultura meridionale e ai problemi di Napoli. di Mario Guidotti P R O S A r e c e n s io n i na che egli ama, moglie di un capi tano di lungo corso che la vede molto di rado e che dopo il primo figlio rego larmente la rifiuta come donna (anche perché ha un'altra famiglia in un altro porto). La « virtù » è anche donna e come tale è giusto che si realizzi con un uomo che, se non è il marito, può essere benissimo Paolino. Così la si gnora Perrella (tale è il cognome della signora) rimane incinta e la rivelazio ne avviene proprio nell'imminenza del ritorno del marito capitano, che è ap punto la « bestia ». Il professor Paolino deve salvare la virtù, cioè l’amante, e se stesso; soprattutto le apparenze. E dopo tutta una serie di vicissitudini grottesche, escogita e realizza un piano; da un amico farmacista farà inserire degli afrodisiaci in una parte del dolce che, invitato a cena, porterà in casa Per- rera e che riuscirà a far mangiare al marito di fronte al quale la moglie, sempre per volere di Paolino, si mo strerà discinta, come non era di con sueto, e attraente. La droga avrà il suo effetto e il marito compirà il suo dovere coniugale. Così il nascituro sarà attribuito a lui. La morale formale e borghese sarà soddisfatta, la virtù rimarrà tale e l'uomo si salverà grazie alla bestia. Fenoglio ha cercato di non calcare la mano sugli elementi pochadistici e c'è riuscito; ha anche evidenziato il potere strumentalizzante del maschio che salva la donna ma in realtà la mortifica. Gli attori lo hanno assecondato in queste sue intenzioni a cominciare dal l'ottimo Araldo Tieri nella parte di Paolino e da Giuliana Lojodice in quel la della signora Perrera. Il capitano era interpretato da Carlo Hinterman, ottimo anche Gianni Agus. La comme dia si replica al Teatro delle Arti. Araldo Tieri, Giuliana Lojodice e Carlo Hintermann in « L'uomo, la bestia, e la virtù » L ’ u o m o , l a b e s t i a e l a v i r t ù di Luigi Pirandello Regia: E. Fenoglio Interpreti: Arnoldo Tieri, Giuliana Lojo- dice, Gianni Agus, Carlo Hinterman È un Pirandello diverso (da quello o da quelli) che siamo soliti ammirare questo de •< L'uomo, la bestia e la vir tù », che risale al 1919. Minore? For se, ma comunque considerevole e inte ressante appunto per la sua diversità rispetto alle tematiche consuete della drammaturgia pirandelliana. Fu scritto che è, « una tragedia annegata in una farsa » e che ha anche delle ascen denze vicine e lontane, per esempio la pochade di fine secolo, l’intreccio che sa di Cinquecento, i caratteri del la novellistica trecentesca o della Mandragola. In verità tutti questi ag ganci esistono, ma annegati nell'uni verso pirandelliano, nella sua conce zione della vita e del mondo. E in questo senso ha visto il testo Edmon do Fenoglio, autore di una regia one sta e fedele ma anche acuta e intelli gente, che ha messo in evidenza alcu ni motivi di solito opacizzati nelle pre cedenti messe in scena. Tutto piran delliano è l’assunto della contraddi zione finzione-realtà, ipocrisia-verità. E vittima dell’ipocrisia del mondo è il protagonista, il signor Paolino, costret to dalle vicende a comportarsi in mo do diametralmente opposto a quello che egli vorrebbe, ma al tempo stesso commoventemente teso verso un ri spetto dei principi e della ■< virtù » che nei fatti contraddice. L’ipocrisia è una necessità del mondo; il profes sore ricorda che in greco ipocrites » significa commediante e che oggi se si vuole salvare la virtù bisogna reci tare. Paolino è l’uomo e la virtù è la don W i l l i a m S h a k e s p e a r e di Angelo Dallagiacoma Regia di Gabriele Lavia Interpreti principali: Nando Gazzolo, Maria Occhini, Vittorio Stagni, Da niele Valmaggi Scenografia di Giovanni Agostinucci Costumi di Gabriella Pescucci Musiche di Giorgio Camini Il 7 febbraio 1601 il partito guidato da Essex convinse la compagnia di Shakespeare a rappresentare il « Ric cardo Il » al Globe Theatre con l’in tento dì sollevare il popolo contro la Regina Elisabetta. Il « Riccardo II » fu quindi rappresentato proprio la vi gilia della sommossa. La scena della deposizione fu particolarmente applau dita. Il giorno dopo Essex invitò la po polazione di Londra a sollevarsi in suo favore. Nessuno rispose. Essex fu im prigionato e processato per alto tra dimento, quindi giustiziato. Sembrò che le cose si mettessero male an che per Shakespeare e per la sua compagnia, ma alla fine il dramma turgo si salvò grazie anche al suo patrono Southampton e alla sua aman te Dama Bruna, personaggio che com pare anche nei sonetti. Questo è l'unico elemento biografi co che si può riscontrare nel lavoro intitolato « William Shakespeare » che la compagnia di Nando Gazzolo e Ma ria Occhini hanno rappresentato al Quirino per la regia di Gabriele La- via, su un testo di Angelo Dallagiaco ma. Il testo aveva vinto tempo fa il premio Riccione. Lo spettacolo oscil la fra l'avanguardia e la tradizione, ma si impaluda in un equivoco di contenuto e di forma che alla fine lo rende poco accettabile al pubblico. Un’idea madre c’è: fra l'artista e il potere, la posizione del l'intellettuale coinvolto nel gioco dei potenti. Non è in fondo una novità neanche teatrale, ma Dallagiacoma vi punta tutte le sue carte. Ma non ri cerca tanto un approfondimento ideo logico, quanto una crisi esistenziale; quella crisi esistenziale che travagliò la vita di Shakespeare e che si ri scontra nella sua opera, specialmente neM'Amleto. Pertanto l'intreccio con i testi scespiriani è naturale; alle bat tute di Dallagiacoma si alternano quel le prese di peso dai grandi capolavo ri di Shakespeare e anche alcune scene. Il risultato è una rappresen tazione estremamente declamata, con l’intento di realizzare un puro teatro il rapporto M a l h u m o r di Maurizio Costanzo e Franco Scaglia Regia A. Trionfo Interpreti: A. Giuffrè, A. Mazzamauro, N. Riviè, S. Maria Costumi e Scene di G. Panni il libro si Da un romanzo pubblicato quattro anni fa, Maurizio Costanzo aiutato da Franco Scaglia ha tratto un lavoro tea trale che come intitola « Malhumor » e che si propone di far ridere » lasciando un amaro sapore in bocca, insomma una commedia al l’agro dolce, che raramente raggiunge il vero grottesco teatrale, ma che co munque sul piano del successo rag giunge l'obiettivo. Si tratta di un lavoro scritto con un certo mestiere e anche un certo gar bo, ma non portato molto oltre il livel lo del « divertissement », come forse era nelle intenzioni dell’autore (o au tori]. Franco e Carla sono gli emblemi delle mediocrità piccolo borghese, una coppia sulla mezza età, che vive piat tamente affogata nella monotonia della vita quotidiana. Lui è impiegato di ban ca, lei donna di casa. La loro squallida esistenza ha però uno scossone. Carla comincia a sognare che il marito ha un’amante e racconta il sogno a Fran co; il quale se ne appassiona tanto da indurla a far di tutto per continuare i sogni e quindi i racconti sentimentali e piccanti. Un personaggio si è intro dotto nella loro vita; Cristina, che è bella, straniera eccentrica ed eccitan te. Comincia così un gioco in cui il terzo protagonista non si vede mai ma, come personaggio, è solido e consi stente. Un gioco che svapora nella irrealtà e che si conclude con un epi logo che costituisce una vera trovata Nando Gazzolo e Maria Occhini in « William Shakespeare » di parola. Ma la personalità di Lavia si è interposta, anzi imposta, con una messa in scena in cui la parola per de gran parte del suo potere, in una orgia di luci ombre, quinte, fondali e musiche fortissime. Ripeto: lo spet tatore rimane non sconcertato come a certe rappresentazioni dell’avanguar dia, ma semmai annoiato e perde quanto di buono il testo poteva ave re; anzi: aveva. Intendiamoci: l’opera è di tutto rispetto, ma poteva avere un risultato migliore. La recitazione di Gazzolo è forse troppo televisiva e comunque incerta nella scelta di ritmo fra le declamazioni scespiriane e le battute dell’autore. Meglio impo stata ci è sembrata l'interpretazione di Maria Occhini. La scenografia è fir mata da Giovanni Agostinucci, i co stumi da Gabriella Pascucci, le musi che da Giorgio Camini. Anna Mazzamauro e Aldo Giuffrè in « Malhumor » e forse la cosa migliore della com media. Carla che non può più tener dietro all'ossessionante richiesta di so gni e di racconti del marito, il quale è arrivato a pensare Cristina come vera e non sognata, capisce che l’uni co modo per concludere è di morire e muore. Franco morta la moglie, aspetta l’arrivo dell'amante che infatti sopraggiunge ma ha la faccia della moglie. Forse anche a Franco si pro spetterà la soluzione di Carla. Dobbiamo rilevare che nella scher maglia dialogica fra Franco e Carla è inserito un « terzo », non personaggio, ma attore, una specie di commenta tore, di vecchio saggio, di narratore che parla in dialetto napoletano antico e moraleggia sulla situazione. Nel pri mo tempo compare anche, evocata, una collega d'ufficio di Franco, a ricon ferma della banalità di un’esistenza troppo comune. La commedia che si basa su un'idea abbastanza originale (e Costanzo è uno che ne ha) avrebbe forse guada gnato se fosse stata meno infarcita di battute giornalistiche e pseudo umo ristiche. Il dialogo in molti passi è inferiore alle situazioni. Ha invece giovato in modo decisivo per il suc cesso, la regia di Aldo Trionfo che ha concentrato tutto sul letto, luogo de putato, di sogni e di scontri e che è ricorso, come fa di solito, ad una significativa colonna sonora e a un gioco di trasparenze e di immagini proiettate. Degli attori dobbiamo dire che sono bravissimi, non solo l'esper to Aldo Giuffré ma anche la quasi debuttante in prosa, Anna Mazzamau- ro. Il commentatore napoletano era interpretato da Nello Rivié. L o z u c c h e r o i n f o n d o a l b i c c h i e r e Regia di Silvio Spaccesi Interpreti: E. Ricca, A. Moradei, T. Far nese, A. Belletti, E. Guarini, C. Bai- boni, A. Rendina Scene di Paolo Ferruzzi Musiche di Enzo Guarini Il teatro umoristico, autenticamente umoristico è oggi raro, anzi si riduce ad un caso unico. Più facile semmai è il testo così detto satirico che però è difficile; lo guastano quasi sempre intenzioni scopertamente politiche e implicazioni ideologiche. Il caso uni co o quasi è rappresentato da Ange lo Gangarossa, un giornalista militan te che come tale ha sempre avuto occasione di osservare la realtà e di ritrarla in aspetti più comici; che non significa sempre aspetti superficiali; Gangarossa dal 1972 affida i suoi te sti ad un attore con il quale è entra to in perfetta simbiosi; Silvio Spacce si, altro caso, anche esso unico, di attore umorista « ruspante » nel sen so più degno e meno retrivo della parola. L'accoppiata Gangarossa-Spac- cesi ha conquistato a Roma uno spa zio e un pubblico che molti teatri stabili e molte compagnie famose pos sono invidiarle. A Roma per alcuni anni il loro successo si è registrato al ridotto dell’Eliseo. Ora hanno do vuto trasferirsi al ■< Centrale » e non Protagonista de « Lo zucchero in fondo al bicchiere » è Pelagio Ramo- doro, un travet cinquantenne che ad un certo punto della sua vita, stanco della grigia « routine », della mono tonia di una esistenza tutta incanala ta nella vita familiare, decide di ope rare una brusca sferzata: cambia tut to, usi, vestiti, modo di dire; si li cenzia dall’ufficio, si veste da hippy e si adegua alla figlia ventenne che l’ha preceduto nella strada di questa innocua e pittoresca contestazione. Gli si oppongono la moglie e il suoce ro ma egli tutto e tutti travolge nella sua ribellione. ne dovrebbero scapitare: la fama del la bontà di questo nuovo spettacolo si diffonderà presto, stando almeno alle risate e agli applausi che han no accompagnato la « prima ». Anche perché questa volta c’è una novità nel lavoro che viene rappresentato ed è costituita dalla presenza di una idea e di un elemento paretico cala to nel comico. Insomma: il comico non è più fine a se stesso e la com media ha anche un suo significato so ciale e morale. « È impossibile ricordare qui tutte le vicissitudini che scaturiscono dal la decisione di Pelagio e che rivolu zionano la sua casa, nella quale fan no irruzione altri personaggi hippys e una contessa conservatrice. Ma an che la moglie alla fine è contagiata dalla nuova filosofia del marito e ab bandona la famiglia. Invece lui si ac corge che la sua rivoluzione si risol ve nel nulla. A cinquant'anni è diffici le cambiare rotta. Noi siamo come i treni, corriamo sui binari. Alla lunga è monotono, ma è tranquillo, sicuro. A voler uscire dai binari a tutti i costi, si corre il rischio di uno spiacevole impatto. La conclusione è quindi ve nata di amarezza; ma non troppo; an che l'amarezza può avere un risvolto comico. Spaccesi, anche regista è bravissi mo. La rappresentazione è armonica a tutti gli attori recitano sullo stesso registro, a cominciare da Eva Ricca, per continuare la Lina Moradei, Adol fo Belletti e tutti gli altri. Una nota zione particolare per Enzo Guarini, al suo debutto in prosa. Guarini, autore ed esecutore anche delle musiche è stata la vera rivelazione della serata nella quale ha interpretato due per sonaggi. È un attore comico versati le, di grandi qualità. Guarini che interpreta due personaggi ne « Lo zucchero in fondo al bicchiere di Angelo Libertini P R O S A r e c e n s io n i ben secondato daH'intelligente regia di Crivelli e da un gruppo di ottimi comprimari ma coronato da successo solo in parte: d'altronde lo spettaco lo regge nella misura in cui i due protagonisti e gli altri attori, ripren dendo certi schemi interpretativi di Fo o inventandone di propri, si preoc cupano non tanto della battuta sugge rita dal testo scritto quanto del gesto, dell'espressione, in un intelligente gio co di « gags ». In questa maniera le risate non mancano; quanto all'» im pegno », nei diversi significati che può assumere questa parola, sarà per un’altra volta. I d u e g e m e l l i v e n e z i a n i di Carlo Goldoni Regia di Luigi Squarzina (ripresa da Gianni Fenzi) Interpreti principali: Alberto Lionello, Camillo Milli, Raffaele Giangrande, Maddalena Crippa, Margherita Guz- zinati, Fiorenza Marchegiani, Renzo Fabris, Donatello Falchi Scene e costumi di Gianfranco Pado vani Musiche di Giancarlo Chiaramello Una scena delle « Farse di Dario Fo » con Rie e Gian L e f a r s e d i D a r i o F o Regia di Filippo Crivelli Interpreti: Rie (Riccardo Miniggio), Gian (Gianfabio Fosco), Laura Am- besi, Silvia Arzuffi, Patrizia Cecchi, Teresa Dossi, Gianfranco Cifali, Giorgio Giorgi Struttura scenica di Dario Fo Costumi di Pia Rame Musiche di Fiorenzo Carpi Il motivo di richiamo è quello di un incontro — Rie e Gian come interpreti e Dario Fo come autore — che do vrebbe garantire non solo molte risate ma anche un certo - impegno »: alla prova dei fatti, se la bravura degli interpreti è fuori discussione è inve ce l'autore a risultare tutt’al più ad un livello di onesto artigianato. Anche se in fondo queste quattro « Farse » (« La Marcolfa », « Gli imbianchini non hanno ricordi », « Non tutti i ladri ven gono per nuocere », « I cadaveri si spediscono e le donne si spogliano »), riprese ora dai due comici milanesi con la regia di Filippo Crivelli, non sono d'altronde la parte peggiore del la produzione teatrale di Fo, grazie anche ad un livello piuttosto mode sto di politicizzazione: si passa da un umorismo di sapore goliardico e dal consueto gioco degli equivoci a scherzi più sottili, quasi in chiave di surrealismo. Niente di più comunque (ed il discorso crediamo del resto possa estendersi a tutta l’opera tea trale di Fo) che un’occasione costrui ta su misura per un interprete; lo sforzo di Rie e Gian, in applicazione di tutte le risorse di un serio e vali do professionismo, è proprio quello di trovare una dimensione originale che non ricalchi troppo i moduli ca ratteristici del Fo attore. Uno sforzo I l p r i n c i p e d i H o m b u r q di Heinrich von Kleist Versione italiana e riduzione di Mario Moretti Regia di Marcello Aste Interpreti principali: Luigi Diberti, Adolfo Lastretti, Luciana Negrini, Marcello Bertini, Sebastiano Trin- gali Scene e costumi di Giovanni Lichen Il bicentenario — che ricorre que st'anno — della nascita di Heinrich von Kleist è senz’altro una buona oc casione per la riscoperta di questo drammaturgo tedesco, morto assai giovane (nel 1811) ma non senza aver dato ampia dimostrazione di una for te e contrastata personalità di narra tore e autore teatrale, partecipe di atteggiamenti ed istanze del più tipi co romanticismo e Insieme nettamen te in contrasto con molto di quanto il romanticismo finì per rappresenta re. In von Kleist la contrapposizione è soprattutto fra impulso, inteso il più delle volte come generosità ma anche come passionalità, e dovere, il cui punto di riferimento è la legge inte sa come disposizione interiore prima ancora che ordinamento sociale: un tema ricorrente — in termini netti o in formulazioni più sommesse in congiunzione con altri argomenti — in tutta l'opera di quest'autore, che tro va il suo coronamento ed anche la sua espressione più equilibrata (svi luppata coerentemente fino a trovare un’ulteriore motivazione che consen te lo scioglimento del nodo cruciale), ne « Il principe di Homburg », compo sto nel 1809-1810 (e quindi terminato solo pochi mesi prima della morte dell’autore) e pubblicato solo nel 1821. Il principe del titolo è un giovane eroe di tipico stampo romantico: ni pote e presumibile erede del Princi pe Elettore di Sassonia, comanda la cavalleria della marca di Brandebur- go nella guerra condotta dallo zio con tro lo svedese invasore. Durante la battaglia decisiva, ansioso di coprirsi di gloria agli occhi dell'amata princi pessa Natalia d'Oranje, disobbedisce agli ordini che gli imponevano di te nere la posizione e si lancia alla ca rlca: il suo attacco volge in fuga il nemico ma lo zio pur riconoscendogli pubblicamente il merito della vittoria, lo fa arrestare e processare da una corte marziale per aver dlsobbedito agli ordini. La sentenza è di morte e questa decisione semina sgomento in Molti sicuramente ricordano ■■ I due gemelli veneziani » del Teatro Stabile di Genova come uno degli spettacoli memorabili della nostra storia teatrale recente: infatti quella particolarissima messa in scena di Squarzlna sul testo goldoniano ed insieme sulla maniera della Commedia dell'Arte, indissolubil mente legata al nome di Alberto Lio nello impegnato al massimo delle sue molte risorse in un duplice ruolo di protagonista, risale alla stagione 1962- 1963 e da allora ha girato praticamen te tutto il mondo riscuotendo ovun que un successo a dir poco clamoro so. Era però dal 1971 che questi « Ge melli >> non venivano ripresi, tanto che si pensava avessero ormai concluso il loro ciclo: lo Stabile genovese ha voluto Invece riaprire il discorso, sem pre riprendendo la vecchia collauda- tissima regia di Squarzina — rico struita per l’occasione da Gianni Fen- zi — e riaprendo anche la collabora zione con Lionello, rimasta interrotta per qualche anno. Per quanto ci ri guarda, invece di riproporre qualcuna delle considerazioni fatte da tanti au torevoli critici italiani e stranieri nel corso di tutti questi anni, ci sembra più interessante verificare il rapporto fra lo spettacolo riproposto In questi giorni e quello presentato nel 1962-63, sul presupposto che non vi può esse re in alcun caso una vera identità a quindici anni di distanza. Non è nep- pur vero che, come per il buon vino, il passare degli anni abbia portato un miglioramento, poiché questa sembra l'« editio minor » rispetto piuttosto allo spettacolo che ricordavamo: in qualche misura può dipendere anche una certa mitizzazione del ricordo ma non mancano riscontri obiettivi: mol ti degli interpreti sono cambiati e non tutte le sostituzioni possono conside rarsi vantaggiose, mentre qualcuno dei « vecchi », compreso il bravissimo pro tagonista, dà qualche segno di stan chezza, risolvendo col mestiere quel le situazioni che una volta risolveva con l'entusiasmo fo magari rivelando il mestiere dove una volta riusciva a fingere assoluta spontaneità); inoltre il gioco delle - trovate » estempora nee, arricchito da tanti anni d’improv visazioni entrate poi stabilmente In repertorio, ha raggiunto ormai un tale livello di affollamento da far accen dere Il segnale rosso di ■< carico ec cessivo ». limitazioni si percepiscono soprattutto nel confron to: siamo sicuri che coloro che non conoscessero questi « Gemelli » rimar ranno colpiti (anche se questo gene re d’invenzione teatrale non è più, neppure da noi, così inedita come quindici anni fa) dal ritmo, dal mec canismo incalzante e collaudatisslmo nell'apparente gioco d'improvvisazione, dalla manifestazione di un'idea di tea tro come divertimento per gli inter preti ancor prima che per gli spetta tori. Insomma pur sempre un pezzo di gran teatro che vale sicuramente la pena di vedere e magari, sia pure in ■■ editio minor », di rivedere. Naturalmente queste tutti, dalla giovane principessa d’Ora- nje, alla principessa Elettrice, agli uffi ciali e soldati dell’esercito: solo il principe Elettore è fermo nella sua decisione di far rispettare la legge. Quanto a Homburg, dopo un attimo di smarrimento che lo porta a sacri ficare ogni dignità (e la stessa fidan zata, che dovrebbe andare sposa al re di Svezia in cambio della pace) pur di avere salva la vita, riacquista ben presto piena lucidità. Di fronte allo zio che promette di revocare la sentenza se egli dichiarerà di aver subito ingiustizia, dichiara invece che la decisione è perfettamente giusta e che dunque è assolutamente pron to a morire: chiede solo che la pace non sia mercanteggiata col sacrificio di Natalia ma sia conquistata sul cam po di battaglia. Quando infine tutto è pronto per l'esecuzione e tutte le suppliche sono il Principe Elettore state comprende che l’esercito non potreb be fare a meno del suo giovane eroe: quindi Homburg non sarà giustiziato ma ritornerà invece alla guida della cavalleria per quella che si preannun cia la battaglia decisiva. Non manca — sarebbe inutile negarlo — molta retorica di sapore prettamente roman tico: il giovane eroe impulsivo, una fanciulla amata pronta ad ogni sacrifi cio, rullo di tamburi e sventolar di stendardi: ci sono però riferimenti che vanno oltre questa sovrastruttu ra, contrasti d'idee e crisi interiori di sapore ben più moderno. respinte, Senza considerare che questo testo si presta meglio di molti altri a capo- volgimenti che sembrano suggeriti dallo stesso autore: non è affatto chiaro se i tradizionali valori roman tici che in conclusione trionfano sia no presi sul serio o piuttosto conte stati; se il momento che meglio cor risponde all'indicazione effettiva di von Kleist sia quello in cui tutto va miracolosamente a posto o piuttosto il momento della crisi, allorché tutto (a cominciare dal valore fondamenta le, l'onore) viene posto in discussio ne. Su questa ambiguità (o, se si pre ferisce, su queste indicazioni contra stanti) si regge l’attualità e l’impor tanza del testo, ma di tutto ciò rima ne solo qualche accenno nella messa in scena di Marcello Aste con la « Cooperativa Teatro '76 », in collabo- razione con Institut: una lettura diligente che sembra pren dere più sul serio la struttura roman tica della vicenda che non i riferimen ti di maggior attualità: manca soprat tutto un adeguato approfondimento della crisi del protagonista e degli altri personaggi che non può sempli cemente considerarsi — come sembra suggerire lo spettacolo — fase tran sitoria e necessaria verso il lieto fine. Anche gli interpreti (nei ruoli prin cipali Luigi Diberti che è Homburg, Luciana Negrini come Natalia, Adolfo Lastretti nella parte del Principe Elet tore e Marcello Bertini come colon nello Kottwitz) ci sono sembrati più convincenti in altre occasioni. il Goethe Una scena de « Il principe di Homburg » con Luciana Negrini e Luigi Diberti B a l l a t a e m o r t e d i P u l c i n e l l a c a p i t a n o d e l p o p o l o dal romanzo di Luigi Compagnone versione teatrale di Italo Dall’Orto Regia di Egisto Marcucci Interpreti principali: Dario Cantarelli, Giovanni Boni, Armando Spadaro, Gianni De Lellis, Secondo De Gior gi, Antonello Mendolia, Fiorenza Brogi, Dorotea Aslanidis, Mario Ma riani Scene e costumi di Luciano Damiani Colonna sonora e musiche originali di Nicola Piovani Al levar del sipario di « Ballata e morte di Pulcinella capitano del po polo » (dal romanzo di Luigi Compa gnone nella riduzione teatrale di Italo Dall'Orto, messo in scena dal « Grup po della Rocca » con la regia di Egisto Marcucci) un grande telone bianco rappresenta la facciata del caseggiato dove abita Pulcinella: alcuni tagli di sposti simmetricamente rappresentano poi le finestre dove si affacciano gli altri inconsueti abitanti del caseggia to, Cappuccetto Rosso e il Lupo, Ce nerentola, Biancaneve e la Regina cat tiva e via dicendo. Insomma i vicini di casa di Pulcinella sono i protago nisti delle più celebri favole: non è particolarmente originale né tro vata del telone, né l’idea di mettere in scena i personaggi delle fiabe per utilizzarli come simbolo poetico o po lemico di situazioni e problemi della vita reale, però la prima impressione è quella di un’invenzione teatrale va lida ed anche piuttosto suggestiva. Impressione che è peraltro destinata ad incrinarsi già nel prosieguo della prima scena, continuando poi a dete riorarsi sempre più man mano che lo spettacolo procede. la I motivi sono numerosi: alcuni che si potrebbero definire « tecnici », co me ad esempio l’insistenza eccessiva su argomenti anche di poco conto (come, ad esempio, la dichiarazione del Lupo e dell’Orco di essere scon tenti e stanchi del ruolo loro asse gnato dalle favole), quasi si volesse ro ribadire fino alla noia nell’atten zione del pubblico considerazioni che meriterebbero invece di essere trat tate con maggior leggerezza e rapi dità. Ce poi una sovrapposizione di materiali eterogenei, con salti di gu- sto anche particolarmente stridenti: da Cappuccetto Rosso e Biancaneve si passa ai mascheroni dei « reges » che sarebbero coloro che, nelle di verse epoche, hanno detenuto il po tere a Napoli, Vittorio Emanuele e gli Aragonesi, gli Americani, Hitler e Mussolini; nella stessa maniera si pretende di mischiare favola e storia, polemica sociale e polemica politica, il tutto condito con ricorrenti cita zioni di « napoletanità ». Proprio questo punto della « napo letanità » — che rimane oltretutto ab bastanza estraneo ad una compagnia teatrale che non ha avuto, prima d'ora, con Napoli legami diretti e neppure di repertorio — introduce considera zioni meno tecniche e più di sostan za: come c'è una retorica dell'antire- torica, da qualche tempo il luogo co mune su Napoli, lasciati da parte la cartolina illustrata, il sole e i man dolini, batte altre strade in apparen za radicalmente diverse, ma nella so stanza simili quanto a banalità nel momento in cui dalla vera denuncia sociale si passa alla maniera e cioè appunto-alla semplice ripetizione di luoghi comuni: così i napoletani ven gono presentati come un popolo di servi e di ruffiani, pronti alla ribellio ne ma anche alla sottomissione, ar mati soprattutto dei famoso « pernac- chio »; di tutto ciò Pulcinella, inter pretato da diversi attori in rappresen tanza delle molteplici facce del per sonaggio, sarebbe l'espressione più diretta ed autentica. Da parte nostra, pur essendo per fettamente consapevoli che Napoli esprime, oggi come in passato, una realtà spesso tragica, abbiamo ben altra stima del popolo napoletano e dello stesso personaggio di Pulcinella. E ci dispiace che al servizio di simili argomenti il « Gruppo della Rocca » metta tutte le risorse di un professio nismo il cui alto livello va riconosciu to anche in occasione di una prova così poco felice. Mario Mariani e Dario Cantarelli in « Ballata e morte di Pulcinella capitano del Popolo » di Dante Cappelletti P R O S A r e c e n s io n i presentazione « primaria », quello che « contiene » tutto il peso di un dram ma. Così, dei due momenti, l’uno re lativo alla struttura delia commedia borghese a intreccio, l’altro alla tra gica rappresentazione della pazzia — o ritenuta tale — di un uomo che si interroga nel proprio destino, prevale il secondo. Questo tipo di imposta zione, in qualche modo, doveva ren dere « esplicito » un sistema di ap parati: il teatro che esprime ogni rap presentazione come necessario ingan no, una sala imperiale fuori dal tem po, ma connotabile, il travestimento dei personaggi « borghesi » in perso naggi « storici », che godono quasi di questo gioco tragicomico. Personalmente, credo che questo ti po di impostazione dell’opera piran delliana sia tutt’altro che « facile ». Ha l’apparenza dello spettacolo <■ frui bile » e, per certi aspetti, lo è; ma soprattutto perché godibile e piacevo le da vedere. Se questo è un « pec cato », o un errore, occorrerà riflet tere un momento sul significato e i principali motivi di quest’opera tea trale. Mi pare abbastanza chiaro che, do po le precedenti « Letture » che Gior gio De Lullo, insieme a Valli, ha dato di Pirandello, uno si aspetti la novità, un nuovo piano di indicazioni. Questa edizione dell’ « Enrico IV», a prima vi sta, può sembrare senza particolari soluzioni, tutta risolta com'è nella vi sibilità di un'impeccabile realizzazione formale. Quando gli elementi dello spettacolo sono strettamente coordi nati tra loro, tanto che l’immagine che ne emerge, sembra vivere di una mi racolosa univocità, viene subito da pensare che le soluzioni trovate sono quelle ■< estetiche »; quindi si parla di estetismo. Una lettura superficiale di Una scena del secondo atto de L' « Enrico IV » di Pirandello E n r i c o I V di Luigi Pirandello Regia: Giorgio De Lullo Interpreti: Romolo Valli, Mino Bellei, Marina Belli, Mariella Fe- noglio, Pino Luongo, Antoni Meschini, Gabriele Tozzi, Gian Franco Mari, Gianni Felici, Franco Acampora, Gualtiero Isnenghi, Cesare Guerra e Alessandro Festa Scene e costumi: Pier Luigi Pizzi Omaggio all’Attore, silenziosa paura e oscuro vuoto: in queste corde si gioca lo spettacolo pirandelliano, « En rico IV », messo in scena dalla Com pagnia « De Lullo-Valli ». Oltre la di rezione, ormai acquisita, di un « di battito paraesistenzialista », si scopre la presenza di misteriosi presagi, di dati indecifrabili, non solo all'Interno della mente, ma anche fuori, nella realtà che ci circonda. I personaggi entrano in una anticamera scura, pie na di velluti rosso-scuro. Di fronte, l’immensa barriera di un sipario: im menso, alto, quasi chiuso. Una striscia di luce taglia questo corridoio, che solo queirampio telone separa dal Mistero. Lì Matilde Spina, Tito Bei- credi, il dottor Genoni discutono sul modo di presentarsi a Lui, il Senza- nome, che la follia, seguita ad una ca duta da cavallo, ha fatto chiamare En rico IV. Un tempo storico di qua, uno metastorico — più precisamente oni rico — di là. Entreranno nella sala del trono, parleranno vanamente con il re, ne usciranno e ne entreranno ancora, fino a trovare, uno di loro, la morte. E lui, il finto Enrico IV, ci fa conoscere tempi diversi del suo essere: prima pazzo, poi tornato in sé, poi di nuovo pazzo. Così, almeno, sembra: al pubblico, alla mente dello stesso Enrico, a coloro che lo vanno a trovare, vestendosi con i panni del l’epoca. L’operazione di De Lullo e di Valli ha teso ad evidenziare la tragedia del la solitudine del protagonista, renden do quasi esortativo il piano della rap i questo « Enrico IV » potrebbe essere anche liquidata così: il momento for male della rappresentazione è inecce pibile, non ci sono sfaldature, tutto è rigoroso fino al più puro calligrafi smo. Pirandello, allora, che fine ha fatto? Bene: Pirandello è uno di que gli autori che ti lasciano ogni volta sorpreso: come avviene, ormai, con i classici, ogni volta lo riscopri. E scopri che il grande drammaturgo è tanto più riconoscibile, se scavi in quella spe cie di prigione « estetica », dentro cui il regista e gli interpreti hanno com posto, dopo averli destrutturati, i vari motivi dell'opera e della poetica del l’autore. Sarebbe a dire che la cura formale, in questo spettacolo, assolve alla determinazione di quella linea di demarcazione tra verità e verosimi glianza, tra il falso e 1 autentico, tra il particolare e l'assoluto. La più vasta Categoria-Esistenza comprende, poi, tutte queste antitesi: le concretizza nella realtà di un rito, eterno e banale come la stessa vita; infine le contem pla come pure necessità. Per dare il maggior grado di plausibilità ad ogni motivo estetico occorre che la forma raggiunga il più alto livello di deter minazione: solo così è possibile giun gere aH’ambiguità, necessaria anima dell'arte. Mi pare che De Lullo, insieme a Valli e Pizzi, abbiano voluto sottolinea re, prima di tutto, il quadro rappre sentativo come modello estetico, con figurandone connotati concreti nel lo ro insieme, ambigui nel particolare. All'Interno di questa scelta, i motivi dell’opera pirandelliana acquistano una singolare palpabilità e sfuggono, tut tavia, ad una possibile definizione. La doppia verità, quella della dimensione personale e pubblica, viene espressa figurativamente: la scena è divisa in due piani, quello in cui si muovono i personaggi di contorno, quello in cui si esprime, dietro ad un cupo e pe sante sipario, la pazzia del protago nista, supposto Enrico Il gioco è così già denunciato, esposto ancor prima che si dipani nei suoi ritmi ritualistici. Ma, poi, il dramma si compone nella logica in terna e finisci per dimenticare quelle stesse regole che sembravano già es sere state previste. Enrico IV è solo, avvolto nel mistero della propria di sperazione; ti accorgi che non può comunicare e che la « fabula » è un pretesto per la vita stessa e per lo .. scandalo » eterno del teatro. Di qua scorre un piano di esistenze tutte protese alla ricerca di un definibile confronto con gli eventi: misera illu sione dei più, che vogliono scoprire il motivo dell’Essere, la natura di ogni forma visibile della vita. Di là, invece, scorre il cupo incedere della morte e l'esasperante attesa di un confronto dell’uomo con se stesso, con il proprio io. Pirandello, come altri grandi drammaturghi di questo secolo, aveva scoperto l’incertezza di ogni ve lentamente, IV. Una scena da « La gnoccolara » di Mario Santella rità e ne aveva fatto diventare l'ani ma stessa del suo teatro. In « Enrico IV », meglio che in altre sue opere, si esprime questa convinzione, men tre si definisce meglio la volontà di una misura rappresentativa. Ecco per ché la stessa dimensione temporale viene quasi distrutta, ridotta ad un puro e semplice riferimento, che poi è un dato grottesco e strumentale. La commedia borghese, che fa da con torno al tema, assolve essenzialmente alla cifra-pochade e diventa un labile contrappunto della condizione del « paz zo » Enrico IV. E' inutile sottolineare, ancora una volta, gli aspetti e i tanti motivi del l'opera pirandelliana; come sono poco più che uno schema di intreccio gli episodi che si svolgono intorno al pro tagonista. Valli, al meglio delle sue qualità espressive, sottolinea il mi stero di un esistere fuori dal tempo e, dopo averlo espresso, riconduce al buio dell'anima uno strazio che torna a nascondersi nell’oscurità dell'essere. Così ogni interrogativo rimane aperto e non sai se la pazzia, come ogni al tra forma di verità, sia componibile in un piano tangibile, quello cui aspi rano i personaggi di contorno che, per il folle bisogno della rivelazione, trovano, come nel caso del barone Belcredi, la verità della morte. Accanto a Valli, in questa bella edi zione dell'«Enrico IV» recitano: Mino Bellei (il barone Belcredi), Marisa Belli (Matilde), Antonio Meschini (il dottor Genoni). Inoltre: Mariella Fenoglio, Pino Luongo, Gabriele Tozzi, Gian Franco Mari, Gianni Felici, Franco Acampora, Gualtiero Isnenghi, Cesare Guerra e Alessandro Festa. L a q n o c c o l a r a di Pietro Trincherà Regia: Mario Santella Interpreti principali: Marialuisa e Mario Santella Costumi di Berto Lama Spesso, nella nostra tradizione tea trale, si ha la sensazione che molto sia ancora nascosto; che gran parte degli episodi della nostra scena siano stati affogati dal tempo, soprattutto da quello che ha potuto affermare le forme, definite « borghesi », del nostro repertorio più conosciuto. E’ per que sto che uno spettacolo come « La gnoc colara » non può non essere accolto con favore, anche per la possibilità, che contiene in sé, di fare giustizia di figure, apparentemente sconosciu te, del nostro teatro. Pietro Trincherà (1702-1755) è un drammaturgo di cui poco si sa: non ha l'onore di mensione nei banchi di scuola e, in definitiva, rimane una conoscenza, non sempre approfondita, dello specialista e stu dioso teatrale. Di Trincherà, la Compa gnia « Alfred Jarry » — che presenta, appunto, questa « La gnoccolara » aveva già messo in scena « La mo naca fauza », uno spettacolo grotte sco che metteva in luce la forza di questo notaio-scrittore, profondamente antiarcadico e grottesco. Siamo di fron te all’annoso problema del teatro in dialetto: « la lingua » napoletana si ri propone la sua necessità espressiva, misto di onomatopée e accesi colori, tonalità paramusicali con supporto di sfrenato « rumore » mi- tutta in mico. La strada del popolare, ripro posto nella sua marca di autenticità, non è senza equivoci, anche se si fa appello, In più di una occasione (come in questa, per esempio) ad un osten tato rigore filologico. Il popolare ri proposto alla misura originaria do vrebbe, ormai, creare una interessante dialettica in una cultura, come quella contemporanea, che vive dell'illusione di una qualche omogeneità. « La gnoccolara » è uno spettacolo nobilissimo: rigoroso, scenicamente piacevole, risolto nella globalità delle sue componenti e degli intendimenti. Eppure la lettura di questa messin scena sembra più chiara se la si fa in parallelo con La locandiera » gol doniana: con quest’opera ha in comune la storia (fabula) e il ruolo principale del personaggio femminile. Graziella, che fa gli gnocchi dalla mattina alla sera, nei bassi napoletani, ha dei cor teggiatori diversi da quelli di Miran dolina: intorno alla prima, alle sue giu noniche grazie, vi sono ruffiani, osti, teppisti e cicisbei scalcagnati; intorno alla seconda, invece, c’è una corona di cavalieri, conti e marchesi. Il tracciato della commedia, comun- que, è simile. Quello che, in ogni caso, caratterizza •• La gnoccolara » è un senso sottile e cupo del destino, una presenza di base del dramma, terreno su cui si sviluppano una serie conti nua di situazioni comiche e farsesche. Nei moduli di impostazione generale di questa messinscena si può consta tare l'eco della sceneggiata napoleta na, ma non è che un punto di riferi mento, un vago appiglio. Il regista ha tenuto dietro soprat tutto alla linea del popolare, intenden dolo nella sua connotazione di vo lontà libertaria e anarchica di valutare la realtà e di viverla. L'interpretazione della Santella è degna di ogni lode: nella sua ostentata vivacità, puoi sen tire l'avvertimento di un dolore uma no sopportato beffardemente, attraver so il privilegio del sarcasmo e di una naturale disposizione alla risata « pub blica », tra gli sguaiati rumori della piazza. La regia è di Mario Santella, anche interprete, insieme a Leonardo Pinzino, Mario Fiori, Paolo Giordano, Cetty Sommella. I costumi, colorati molto e anche efficaci, sono di Berto Lama. « D i a - L o g - N e t w o r k » di Robert Wilson e Christopher Knowles A Firenze, per la manifestazione di « Spazio Teatro Sperimentale » al Rondò di Bacco, è appena finita la 3a stagio ne di questa singolare minirassegna. Il programma prevedeva spettacoli che, in parte, erano già noti ad alcune fette di pubblico (il « Proust » di Vasilicò, « Cottimisti » di Remondi e Caporossi), ma anche novità come « Il talismano della felicità » di Leo De Berardinis e Perla Peragallo, « Dialogue » di Ro bert Wilson e Christopher Knowles, « Anthology Smann scroll » di Meredith Monk e il suo gruppo <■ Impedimen ti » del gruppo « Ouroboros ». Sono annunciate altre novità, ma per ora conviene fermarsi qui. Prima di tutto si deve constatare la riduzione del programma rispetto alla vastità delle rappresentazioni degli anni preceden ti: questo va a vantaggio di una mag giore possibilità, da parte del pubbli co, di potere assistere agli spettacoli (il pubblico è molto aumentato e il teatrino vicino Palazzo Pitti non riesce più a contenerlo, tanto più se le rap presentazioni si riducono ad uno o due giorni). Ma c'è, forse, anche una ragio ne di maggior cura e attenzione alle scelte. Personalmente ero molto at tratto dalla visione dello spettacolo di Robert Wilson; per questo l'ho scelto ritenendolo il più rappresenta tivo, e nel quadro della ricerca fio- Bob Wilson rentina, e in quello più ampio della ricerca teatrale internazionale. « Dia-Log-Network » — questo il ti tolo esatto dello spettacolo di Wilson e Knowles — è l’ultimo lavoro del ca pofila del cosiddetto « Teatro-imma^ gine ». A Wilson si devono spettacoli che sono rimasti famosi: penso a « Deafman’s Glance » (Lo sguardo del sordo), rappresentato a Roma nel 72, « The Ring of Spain » (1969), « A let- ter for Queen Victoria » (presentato a Spoleto nel 1974), « Einstein on thè Beach » (presentato alla Biennale ve neziana del 1976). Ricordavo molto bene « L’occhio del sordo »: mi aveva impressionato per la sua complessa struttura evocativa, per un misterioso quanto palpabile viaggio nel sogno e nelle memorie; uno spettacolo che è difficile raccontare, perché va visto, consumato nel suo farsi, perché diven ta una personale esperienza dell’Esi- stere (come dire dell’Esserci, o del- l’Essere-in). Nell’ « Occhio del sordo» si capiva come l’esperienza che Wilson aveva avuto nell’ambito dell'arte fi gurativa tornasse a naturale vantaggio di una riscoperta dell’immagine, mo netila e sintagma, paradigma del na scere stesso dell’oggetto visuale. Mi sembrava che il discorso di Wilson fosse il più corretto esempio di ricerca e analisi linguistica del teatro, rivisi tato nella sua coordinata comunicati va. Ecco, perché, poi, potevi spiegar telo in termini squisitamente esteti ci. Tuttavia non era mai operazione, ricerca pura, intervento: era anche questo, ma soprattutto era poesia; rappresentazione del rito scenico ri scoperto alle matrici della propria na tura, mentre nasce la coscienza del suo farsi, insieme alla coscienza delle possibilità creative del fare (la fanta sia). Ricordo l’assenza della parola e la magia della musica, di cui difficil mente riuscivi a determinare il ruolo (commento all'azione o evocazione di essa ?), perché ti appariva strettamen te connaturata all'evento. Wilson, suc cessivamente, è passato all’uso della parola nel suo teatro: mi riferisco, in particolare, a « A letter for Queen Victoria ». La combinazione parola-ge sto è stata naturale, prodotto di un necessario percorso del suo teatro. In « Dia-Log-Network » l'idea di Wil son è quella di ripercorrere le tappe del nascere della parola, di riconoscer la nella sua scomposizione, di riuscire a penetrarne le sue ragioni semanti che. L'intenzione è chiara, e non è, poi, tanto audace se si pensa ai suoi precedenti lavori. Ma l'intenzione, in teressante comunque, soverchia le lo giche rappresentative, diventa un dato talmente prevaricante che non sai più scoprirne logica le ragioni di una rappresentativa. Il processo di inte riorizzazione delle azioni — siamo di fronte ad una serie di « performan ces » — viene insterilito da una esasperante tautologia mimica, dove finisci per lasciarti dimenticare, vuoi al silenzio, al buio o alla noia (che la noia è prevista, come il sonno, del resto, nel teatro di Wilson: è un momento, non ultimo, del suo pro gramma). In dodici quadri, scanditi dal lento passaggio di un lenzuolo, con immagini infantili dipinte sopra, questo spettacolo apre, senza concludere, il ■< gioco » dell'oscuro nascere dei bal bettìi, fino al loro formarsi Parole. Lo stesso Wilson in scena, ripete mecca- nicamente suoni o parole che vengono da un registratore, accanto ad un gio vane che partecipa a quell'oscuro even to. Dietro, la figura femminile scivola muta, con lentezza esagerata, ammic cando ogni volta, un suo definitivo scomparire. Tutto è in bianco e nero: i colori non esistono, come se fossimo in un limbo eterno, prima che ogni cosa sia nata o dopo che ogni cosa sia stata. Come si può capire, anche da pochi appunti, l’intenzione di Wil son è tutt’altro che inutile. Però non c’è che il proposito: lo spettacolo è povero di idee, e questo dispiace an cora di più constatarlo per una figura che, come è appunto quella di Wilson ci ha fatto assistere agli episodi più affascinanti e ricchi della recente ri cerca teatrale nei mondo. Renato Zero « Z e r o f o b i a » Spettacolo musicale di Renato Zero Al ■■ Teatro Tenda » di Roma si è presentato Renato Zero, personaggio della musica rock, con un suo reper torio di canzoni, in parte già note, in parte inedite. Personalmente non sa prei dire con esattezza quali brani del cantante erano delle novità. Tutte le canzoni che ho ascoltato mi sono ap parse delle novità, perché nuovo mi è sembrato il personaggio Zero. Non è molto importante stare a vedere qui il valore estetico delle canzoni ascoltate; molto più importante mi pare il risul tato e il valore teatrale di questa stra na occasione definita dall’autore » Ze- rofobia ». Da un punto di vista formale lo spettacolo si inseriva nella scia dei « monologhi », di cui tanti ne ab biamo visti durante il corso della pas sata stagione. Ma tutto questo, in de finitiva, spiega solo un possibile at teggiamento legato alle ultime vicende del teatro. Dicevo che il personaggio Renato Zero ha delle implicazioni con la scena che non possono essere tré- lasciate. Il suo spettacolo si divide in due parti, per molti aspetti diverse tra loro. La prima parte è tutta gio cata sul ■< rapporto diretto » con il pubblico: il cantante dà l’impressione di voler sviluppare un tipo di impatto dichiarativo, creando una forma di com plicità irreversibile con i presenti. Non capisci bene se è più importante quello che dice o quello che canta. Alla fine uno può anche preferire il semplice ascolto delle sue riflessioni verbali. Non è difficile capire come questo modo di presentarsi alla gente sia di grande efficacia. Occorre bra vura — e Renato Zero mi sembra mol to bravo. Ma una volta che tra « mat tatore » e pubblico si è stabilito un rapporto di alleanza, il gioco è fatto. Renato Zero conquista il suo spetta tore perché si priva, intenzionalmente, degli artifici che apparentemente ren dono pubblico un personaggio: si ha la netta impressione che non ti voglia nascondere nulla, né la sua omoses sualità, né i segreti del suo privato e neppure le ragioni del suo « fare spettacolo ». Si potrebbe pensare che, in definitiva, egli raggiunga un can dore per molti aspetti disarmante, che ti rende istintivamente partecipe. La platea è di fronte ad uno spec chio in cui si può guardare con ironia e anche con compiacimento. Nella « di versità » di Renato Zero si può sco prire l'anima di molte altre forme di diversità che, nella vita di tutti i gior ni, si soffrono senza saperle o senza coscienza. Quando i giovani hanno la certezza di aver scoperto alcuni dei motivi che rendono infelice o poco chiara la loro esistenza, il rito giunge al suo massimo compimento. Zero ce lebra, con raffinata coscienza, i fasti del suo personaggio, soprattutto di quello musicale. Tutto questo avviene soprattutto nella seconda parte. Si ca pisce, quindi, che questo « Zerofobia » è uno spettacolo tutt'altro che « inge nuo »: ha in sé tutti gli elementi della teatralità, risolti in un perfetto equi librio e in una solida dimensione. Tut to il secondo tempo, quello più di chiaratamente musicale, è misurato sulle canzoni e, forse per questo, a me è sembrato meno interessante. Non privo, comunque, della sua effica cia: la conferma veniva dagli applausi continui della grande platea giovanile. C o n f e s s i o n e s c a n d a l o s a di Ruth Wolff (traduzione e adattamento di Duilio Del Prete) Regia: Giuseppe Patroni Griffi Interpreti: Edmonda Aldini, Duilio Del Prete, Isabella Guidotti, Ezio Marano, Veronica, Umberto Marino, Èva Axen, Antonello Fassari, Stefano Sabelli, Pierfrancesco Poggi Scene: Mario Ceroni Costumi: Gabriella Pescucci Musiche: Nicola Piovani Il movimento femminista, in America, ha creato anche un movimento dram maturgico, di cui la Wolff è una delle rappresentanti, legata aN'ultima ven tata del « neofemminismo » degli anni Settanta. L’opera « The Abdication » — nella versione italiana tradotta come Edmonda Aldini e Duilio Del Prete in « Confessione scandalosa » « Confessione scandalosa » — non pos siede, certamente, i motivi di una mi litanza che ha caratterizzato e carat terizza la donna americana: è sem plicemente un testo che si inserisce nel più vasto panorama drammaturgi co, con la semplice caratterizzazione di avere, al centro degli eventi, una donna. Quindi, « Confessione scanda losa », va letta per quello che è: un'opera teatrale, con tutti i pregi e i difetti che può possedere. I pregi mi sembrano soprattutto quelli di una af fascinante scelta tematica; i difetti, in vece, quelli di una certa fragilità di proposta, quando l’autrice privilegia la direzione psicanalitica, a svantaggio di uno spessore che l’analisi storica situa zionale poteva concedere, se approfon dita, di per sé. Questo lo devono aver capito sia il regista, Patroni Griffi, che il traduttore e adattatore Duilio Del Prete. Infatti le « correzioni » di « traiet toria » devono essere diverse, se si è giunti a cambiare il finale e introdurre qualche brano tratto dai documenti dell’epoca. * Confessione scandalosa » ripercor re, attraverso lo strumentale incontro tra la regina Cristina di Svezia e il cardinale Decio Azzolino, nel 1655, le tappe principali della vita di una don na, troppo presto [aveva sei anni) av viata al potere regale. L’azione viene circoscritta — o, meglio, trova la sua « convergenza » — nell’anticamera pa pale, dove la regina è costretta ad avere una lunga confessione, prima di poter giungere ad un colloquio con il papa Alessandro VII. Il confidente è il cardinale Decio Azzolino, prepo sto dal papa stesso a quel delicato compito, prima di ratificare la con versione al cattolicesimo della regina. La prima domanda che viene in mente è quella relativa alla funzione della storia in questo dramma. Ebbene: la storia non è che una indicazione for male, non assurge mai a categoria di « individuazione »; rimane un sempli ce riferimento, per abdicare tutto quan to alla contemporaneità del problema (perché vicino a noi). Questa scelta è, prima di tutto, compiuta dall’autri ce perché, si capisce, a lei interessa soprattutto il discorso psicologico sul personaggio. Se, in questo, si può ravvisare una direzione un po' scontata, occorre dire che il regista e gli inter preti hanno fatto un’operazione di gran de recupero, giocando teatralmente il personaggio nella corda dell’Atempo ralità, fino a rendere coincidenti i mo menti di un'esistenza. Infatti, le tre tappe umane fondamentali di Cristina vengono fuse in un’unica coordinata d’evento: la fanciullezza, l’adolescenza, la prima maturità della donna com pongono il prisma cristallino di una vita, la cui principale connotazione è la solitudine. La bambina scivola ac canto alla donna, la donna vicino alla sua adolescenza: la coscienza, presen te a se stessa, interroga il mistero del proprio dannato dolore, cerca un asilo, Nella foto una scena dello spettacolo, « Strindberg contro », con Barbara Valmorin, Aldo Reggiani e Roberta Greganti (prima a sinistra) una salvezza, uno spazio di impossibile quiete. Cristina confessa il calvario della propria vita sentimentale: il te nero affetto per una sua amica coe tanea, l'amore respinto per un giova ne e, infine, la passione che la coglie per il cardinale Azzolino. Anche que st'ultimo atto della sua disgraziata vita intima si rivela assurdo e impos sibile, come è stato il resto: Azzolino, morente il papa, si accinge a sostituir lo al soglio pontificio e lascia la donna alla propria solitudine. Cristina « ab dica »: la sua conversione al cattolice simo, ormai, non ha più molta im portanza; il suo stesso viaggio perde le reali motivazioni storiche, e non è stato che un viaggio all’interno della propria vita e del proprio dolore. Tutto il dramma ha la parvenza di una lunga seduta psicanalitica e, in effetti, l’autrice l’ha concepito come tale. Nella messinscena di Patroni Grif fi e nella interpretazione dell’Aldini- Del Prete, però, il testo si carica di suggestioni affascinanti. Cristina, in tanto, diventa la Donna, con tutte le sue contraddizioni umane e il peso ingombrante della Storia. Si riscatta con il suo rabbioso incedere, quasi a difendere la grande fragilità del suo cuore e della sua anima. Edmonda Al dini ha saputo dare a questo perso naggio una ricchezza di toni e colori ture, dal tragico, al comico, al lirico: sempre con una misura interpretativa molto rara. Del Prete ha disegnato un cardinale Azzolino, opacizzandolo di un sotterraneo e infido anelito al potere, quello stesso cui Cristina rinunciava per vivere, al contrario, alla sua vita di donna, di donna qualsiasi. Intorno ai due si aprono i bisbigli del passato, le immagini indelebili della memoria che, proprio perché può anche essere lontana, si può vivere nel candore delle nostalgie (come liricamente pal lide sono le belle scene di Ceroli e i costumi della Pescucci). Basta rasse gnarsi a saperlo guardare il passato, come può avvenire dopo una confes sione che rafforza l'anima, per quanto doloroso può essere il cammino di presa di coscienza. In questo senso, il buffone di corte, Brigido, finisce per acquistare una presenza emblematica e significativa: è muto e suona tanti strumenti; conosce la regina e sa il suo dolore (e forse per questo lei lo vuole sempre accanto a sé, quale ombra della sua coscienza, maltrattata ma necessaria). Gli interpreti, oltre al- l’Aldini e Del Prete, sono tutti in sin tonia con i loro personaggi. Mi piace ricordare Isabella Guidotti, una Cri stina adolescente, tenera ed acerba, pronta ad ogni prova con luminosa te stardaggine. E. poi Ezio Marano, la bambina Veronica (Cristina piccola), Umberto Marino, Èva Axen (l'amica) Antonello Fassari, Stefano Sabelli e Pierfrancesco Poggi, il bravissimo buf fone di corte. S t r i n d b e r g c o n t r o di Mario Moretti Regia: Lorenzo Salveti Interpreti: Aldo Reggiani, Barbara Val- morin e Roberta Greganti Mario Moretti è un autore genovese che, attraverso i suoi drammi, ha cer cato soprattutto di leggere la storia e la poetica di personaggi e figure della cultura, cercandone le radici e la necessità del loro lavoro creativo. Le opere di Moretti sono state messe in scena, per lo più, nei teatri « non ufficiali », ma soprattutto per un de stino che era legato all’attività di molti dei nostri giovani autori. Nel 1970 la Compagnia « Il Collettivo » aveva mes so in scena « Processo a Giordano Bru no » e, nel 1972, « La rivoluzione di fra Tommaso Campanella », opere di Moretti, cui fanno seguito •< Cuore di cane » (una riduzione da Bulgakov) e quest’ultimo «Strindberg contro ». C'è una coerenza e una precisa scelta tematica nella drammaturgia di Moretti: una ricerca delle oscurità che caratterizzano l’individuo contempora neo nel suo processo di alienazione; il bisogno di scavare nell'intimo, in una disperata ricerca di verità; la va nificazione, infine, di ogni possibilità alla certezza e, quindi, la conseguente accettazione di dolorose contraddizioni. « Strindberg contro » non è tanto una biografia sceneggiata del grande dram maturgo svedese, quanto un lavoro in torno ai motivi che hanno ispirato il suo teatro e caratterizzato io sviluppo della sua creazione estetica. Dell'uomo Strindberg sappiamo, attraverso questa rappresentazione, i fatti salienti della sua vita, ma fanno da contorno alla situazione drammatica vera e propria. Tutto avviene in una pedana circolare, una pedana bianca, cui fanno da sfon do le lontane pareti scure. Al centro l'Uomo (Strindberg) e, intorno a lui, nella follia di balletti aritmici, due fi gure femminili, che circoscrivono gli episodi fondamentali di un evento umano. Da una parte, la Donna-Casa, dall'altra, la Donna-Paesaggio. In que sti due dati emblematici scorrono le angosce di un protagonista emarginato della storia, le immagini che affollano la sua mente di uomo e d'artista, le riflessioni che non trovano mai un corpo esterno quale prodotto compiu to della mente. L’aver dato uno spes sore così importante alla donna, mi sembra molto giusto: Strindberg ne era ossessionato, tanto da farla diven tare una delle misure più importanti della sua poetica. Attraverso l'imma gine femminile, si possono meglio ripercorrere tutti gli incubi dell'auto re, non solo quelli esistenziali, ma anche quelli poetici e filosofici. Certo, un autore come Strindberg mette sul tappeto un’infinità di temi: la sua vi sione enormemente avanzata del teatro (da lui si può far partire anche la gran de corrente espressionista: il suo na turalismo non fu che un episodio e, in fondo, un dato di partenza); la ri flessione conflittuale sul pensiero po sitivista (accanto al niccianesimo, at tentamente studiato e solo in parte condiviso); lo spiritualismo che lo por ta ad un cristianesimo infarcito di pie tismo e, più tardi, di generico esote rismo orientaleggiante. Temi che si coagulano in una visione pessimistica dell'uomo, impossibilitato a raggiun gere il Bene e la Felicità: nell'uomo è Antonella Sten! ed Elio Pandolfi eternamente presente una oscurità ambigua, che lo lega inesorabilmente a se stesso, in una prigione esisten ziale, da cui non pare liberarlo nem meno la morte. Ma questi sono sol tanto appunti, dettagli che vengono in mente lì per lì, mentre scopri quanti motivi ancora possono essere ritrovati nell’opera strindberghiana. L'autore ha cercato di assecondare, con questo spettacolo, la lettura di più motivi, legati all'autore svedese, anche strut turando un dramma a « montaggio pa rallelo »: l’insieme viene descritto da diverse circostanze che, spesso, han no un loro valore autonomo. Anche in questo senso è stata utilizzata la mu sica, come « evento » a sé (le musi che sono di Beethoven, Bach, Schu mann e Bellmann), come episodio tra i tanti episodi. La regia è molto aderente alle in dicazioni del testo e, nell'insieme, molto lucida e senza compiacimenti. Molto bravi gli interpreti: Aldo Reg giani, che dà una dolente e allusiva immagine di uno Strindberg a noi molto vicino; Barbara Valmorin, una sottile e ambigua Donna (la Donna- Casa); Roberta Greganti una infida e raffinata Immagine femminile (la Don na-Paesaggio). E ’ u n m o m e n t a c c i o . . . R i d i p a g l i a c c i o ! di Dino Verde e Bruno Broccoli Regia: Riccardo Mantoni Interpreti: Antonella Steni, Elio Pan dolfi. Con Renato Cortesi, Patrizia Fanelli, Mauro Bo sco, Lilly La Verde, Milly Falsini, Bruna Feirri. Musiche: Nello Ciangherotti Scene: Enzo Celone - Costumi: Enrico Rufini - Coreografie: Fausta Mazzucchelli insieme, Dopo quattordici anni e undici spet tacoli la Compagnia Steni- Pandolfi si divide. Impegni teatrali di altro tipo, da una parte, impegni cine- tografici, dall’altra, portano — almeno momentaneamente — su strade diver se e due attori. Il loro primo spetta colo è del 1963 e si intitolava « Scan zonatissimo » (con loro, c’era anche Alighiero Noschese). Nel 1968, con Nino Taranto, mettono in scena « La brutta époque », l'anno successivo, in vece, è la volta di « Lo stivale dei miei stivali », cui seguiranno « I com promessi sposi » e « Noi per voi ». Questi, alcuni dei titoli più significa tivi dei lavori della Compagnia Steni- Pandolfi che, tra l’altro, hanno avuto un fortunato periodo di successi anche in televisione. I testi dei loro spet tacoli hanno avuto in Dino Verde, a volte coadiuvato da Bruno Broccoli, l'au tore fisso. « E’ un momentaccio... ridi pagliaccio » è uno spettacolo che non si discosta molto dai precedenti: la sa tira politica fa da base ad una serie di quadri e scenette, labilmente col legate tra loro da un filo conduttore (l'Italia in crisi). « Non è facile fare della satira politica in Italia — ha di chiarato recentemente la Steni in te levisione — perché i personaggi della vita pubblica, nel nostro paese, non cambiano mai, sono sempre gli stes si ». E bisogna dare atto della verità di questa osservazione. In fondo anche i temi che i due comici hanno portato in teatro sono, più o meno, gli stessi: la loro è una operazione di « spec chio » sulla cronaca, su personaggi e avvenimenti della storia presente. Non vi sono propositi mediativi: tutto è scoperto, come la stessa anima di una comicità che giunge, diretta, ad un pubblico da anni affezionato alla coppia di attori (ed è un pubblico piut tosto vasto). Al Sistina si ripete, co me sempre, il successo di questi due personaggi del leggero che, siccome bravura ne hanno da vende re, faranno senz’altro spettacoli più compiuti e articolati in futuro (anche per questo, forse, hanno sciolto la Compagnia ?). teatro F r a s i d ’ a m o r e di Benedetto Margiotta Regia: Tonino Nitti Interpreti: Claudio Carafoli, Cristina Noci, Claudia Poggiani Costumi: Federico Wirne Scene: Paola Cialfi Musiche: Stefano Marcucci Come si può prendere sul serio ii kitch, tanto da farlo diventare ogget to di un’assurda e sarcastica attenzio ne: questa indicazione ci viene da uno spettacolo di alcuni giovani, che mi sembra necessario prendere un momento in esame. « Frasi d amore » è un excursus sui « modi » delle con venzioni amorose, soprattutto di quel le del « borghese triangolo », colto nel quadro del primo trentennio di que sto secolo, e riverificato negli anni Cinquanta. È curioso come, da questa comparazione, venga fuori una grot tesca immutabilità delle « convenzio ni », di quelle, ovviamente, che riguar dano la sfera dell'intimo. Quindi: Lui è innamorato dell'Altra, ma di not te, nei sogni, la moglie coglie co modamente i suoi bisbigli. Lei pen sa di potersi vendicare? Non si sa. Spostati i casi, dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, le cose non cambiano molto: la passionalità dell’amore è sempre « violenza d'amore » e le frasi sono sempre le stesse. Se le voles simo verificare anche oggi, forse, sco priremmo la loro necessaria banalità. E potremmo ridere sulle nostre pas sioni e il nostro modo d’amare. Que sto discorsetto non vuole essere che spettacolo puro. La forma scelta per la rappresentazione è quella cabaretti stica, ma di un cabaret molto sofisti cato e intelligente. Le musiche, di Marcucci, con motivi costruiti su pa role d'epoca (del '20 e del ’30) sono efficacissime. Il regista ha voluto, poi, fare una operazione sull'attore e vi è pienamente riuscito. interpreti I tre sono uno più bravo dell'altro e asse condano molto bene lo spirito del testo e deH'impostazione registica. Claudia Poggiani ironizza sulla flem ma femminile e viperina della don na anni trenta; Cristina Noci presen ta un personaggio di ostentata e di vertente grossolanità borghese; Clau dio Carafoli dà vita alla figura di un « povero uomo » schiacciato dalle don ne. Tre attori che ben si amalgama no in tre pezzi di bravura che fon dono in uno spettacolo tutto da go dere. Speriamo soltanto che lavori come questo non rimangano nelle can tine o piccoli locali romani. Un momento della messinscena di « Frasi d’amore ». Nella foto: Claudia Poggiani con il regista Tonino Nitti e Stefano Marcucci, autore delle musiche I N B R E V E t e a t r o ■ Strehler ha presentato il 2 novembre a Parigi il suo « Re Lear ». Com'è noto, il regista italiano gode di larga fama in Francia, dove è apprezzato da pubblico e critica. Anche il <> Re Lear » ha riscosso pieno successo. Strehler, che ha molti progetti in attivo, pensa di poter realizzare per la televisione italiana un ciclo di sei-sette puntate su Goldoni: un kolossal che, affrontando la vita del grande commediografo, ne mette in evidenza le varie tappe umane ed artistiche. Italiana Teatro Amatori La trentesima edizione del Festival Nazionale della (FITA), aderente Federazione all’ENAL, si è svolta al Teatro Marrucino di Chieti duran te il mese di novembre. Tutte le precedenti edizioni del .Festival si erano svolte a Pesaro. Sono circa una tren tina i gruppi che hanno partecipato alla rassegna. I PREMI IDI PER IL 1977 Premio per un'opera di autore italiano: a Ignazio But- titta per « Vasa i dinari e sputaci » messa in scena dal Teatro stabile di Catania. « Premio per la migliore regìa » di una novità italiana: a Francesco Macedonio per le regìe dell'« idealista » di Fulvio Tomizza (Teatro stabile di Trieste) e di « L’Amleto non si può fare » di Vittorio Franceschi (Cooperativa Nuova Scena). lauro d’oro » destinate ai migliori « Maschere con interpreti di novità italiane: — Marcello Bartoli per Lazzarino de Tormes » di Giorgio Celli (Cooperativa Gruppo della Rocca); — Rosa Di Lucia per « Senza patente » di Gavina (Compagnia il Patagruppo); — Corrado Pani per ■< L'idealista » di Fulvio Tomizza (Teatro stabile di Trieste); — Franca Rame per « Parliamo di donne » di Dario Fo (Compagnia Fo); —- Mila Vannucci per « Le cugine » di Italo Svevo. « Premi speciali »: —• Cooperativa Pier Lombardo per la presentazione — Giancarlo Sepe per le sue originali elaborazioni delle opere di Giovanni Testori; drammaturgiche. Enrico Montesano interpreterà, in marzo, la figura di « Rugantino », nell'omonima famosa commedia musicale di Garinei e Giovannini, che avrà una nuova edizione sempre con la presenza di Aldo Fabrizi e Bice Valori. La commedia musicale avrà anche una trasposizione tele visiva a colori. « I confessori » di Vincenzo Di Mattia, un testo tea trale che <■ Il Dramma » ha pubblicato nel numero di novembre del 1974, è andato in scena al XXX Festival Nazionale di Pesaro. Tra le novità che hanno riscosso maggiori consensi « Ecco qui glorioso paese... » di Dino Coltro, « La morte nel letto di Don Felice » di Antonio Petito, « Il vento e i giorni » di Alfredo Balducci, « Pas sando il fiume colgo un fiore d'ibisco » di Èva Franchi, •< Essere fiori » di Mario Cudignotto, « Gli altri » di Gianni Cieri. Nel corso della manifestazione si sono svolti alcuni convegni: su « Teatro e Regioni », relatore Duccio Faggella, direttore dei servizi culturali della regione Toscana; « Rapporto tra l'Università e il Teatro nell'ordi namento regionale », relatore Federico Doglio; « Scuole di Teatro e movimento degli amatori », relatore Ruggero Jacobbi; « Per una politica teatrale nelle Marche: pro poste e progetti di legge », relatore Francesco Sorlini. Al Teatro Municipale di Reggio Emilia, con il patro cinio della Regione Emilia Romagna, si sta svolgendo una mostra documentaria «Visconti: il teatro». I materiali esposti sono diversi e danno un panorama completo del l'attività scenica del grande regista. La mostra è aperta fino al 2 gennaio 1978 ed è stata coordinata da Caterina D'Ami co, da tempo attenta ricercatrice delle diverse testimo nianze di lavoro del grande maestro del nostro cinema e teatro. Contrariamente al cinematografo, dove si continuano a registrare basse affluenze di pubblico, gli spettacoli teatrali romani hanno richiamato, e richiamano, salvo qualche meno fortunata eccezione, un uditorio senza dub bio superiore alle previsioni. I classici come gli autori d’oggi, gli spettacoli di grande impegno culturale quanto la commedia o la rivista incassano bene. « È una parte che ti spreme e ti spacca le ossa. lo non l’ho trovata meno spossante della "Santa Gio vanna d’Arco", che pure è più lunga. E questo accosta mento con la Pulzella non mi dispiace neanche tanto. Sono certamente donne tanto diverse, ma ambedue sono combattive e decise. E ambedue alla fine, vincono ». Così ha commentato la Plowright, interprete femminile di « Filumena Marturano » di Eduardo De Filippo, la com media che sta ottenendo un vivo successo a Londra, per la regìa di Franco Zeffirelli. s p e c i a l e I n t e r v i s t a c o n G a s s m a n P e r c h è P a s o l i n i Un incontro con Gassman è molto stimo lante, perché in lui, nella sua esperienza di attore, si sintetizzano gran parte dei m otivi dell’esperienza scenica dal nostro dopoguerra ad oggi. Il suo lavoro ha compreso un reperto rio vastissimo, ed è stato marcato anche da lunghe assenze dalla scena e una vasta espe rienza come attore cinematografico. A Gass man viene voglia di fare un’infinità di doman de; personalmente, qui, vorrei riportare un colloquio che comprende qualche appunto-ri flessione sull'attore e il suo ultim o lavoro tea trale, « Affabulazione » di Pasolini. D. Che senso ha, per lei, essere attore: for se essere un mattatore ? R. E' difficile giudicare se stessi. Mi chia mano « mattatore » da tanto tempo, ma per ché ho dimostrato, anche con i fatti, una certa nostalgia per una necessità ad una forte pre senza sulla scena. La prima parte della mia carriera è stata marcatamente egocentrica, alla ricerca di una piattaforma molto accentratrice. Ma quello che può avere un minimo di interes se è proprio la nostalgia, che corrisponde ad una mancanza, ad una lacuna, di una concezio ne più libera, più fantastica dell’attore stesso, rispetto a quella che è la proposta comune, media, nel nostro paese soprattutto. C’è sta ta — e qui vedo anche una certa responsa bilità nell'opinione specializzata italiana — una visione dell'attore in term ini di livellamento: troppo razionale, credo. Si è tentato dispera tamente di spegnere, così, quelle che rappre sentano le radici storiche ed esistenziali del ruolo e l’immagine dell’attore. Io non voglio fare delle « riproposte », perché non credo alla stessa riproposta della religiosità del teatro in una direzione classica: in questo mi trovo d’ac cordo con Pasolini. Penso al « Manifesto per un nuovo teatro »: se non rappresenta una ve ra e propria rivoluzione teorica, lì Pasolini di mostra lucidamente che non esiste più quel tipo di religiosità diretta che si ascriveva alla nostra più vicina tradizione, come non esiste più una concezione possibile di teatro, inteso come « culto sociale » o « storico »: perché non esiste più la società per rispecchiare questa realtà. Ma Pasolini stesso insiste sulla perma nenza del rituale: altrim enti il teatro perde la sua funzione originaria e non ha più senso. Allora « rituale » vuol dire anche questo, se condo me: un diniego totale del realismo nella scena. Il teatro non è un fenomeno realistico. E’ un fatto simbolico, comunque emblematico: altrim enti non è teatro. In questo senso mi sento un mattatore: amo la visione dell’indivi dualità, liberata anche nella zona dell’irrazio nale. E, in questo senso, vedo, anche se da lontano, la piccola radice magica di questo mestiere. D. Mi viene spontaneo, a questo punto, chie derle se, nel suo lavoro di attore segue un pre ciso modello. Penso, ad esempio, ai grandi tracciati ascritti all'interpretazione attoriale: da una parte la linea psicologistica di uno Stanislavski, dall’altra quella « straniata » di un Brecht e, infine, la cifra « critica » di Di derot. si adolescenziale che si proietta nell’esperienza di questi giorni. D. Parliamo di « Affabulazione », di questo dramma che ci indica un « teatro di parola ». Pasolini, da un lato, m i sembra molto chiaro in questa sua definizione; al tempo stesso lascia aperti spazi ad equivoci e ambiguità. R. Per rispondere sinteticamente a questo ampio problema, dirò che m i sento di condi videre gli insegnamenti di un Diderot. Mi vie ne naturale di « non-nuotare » nel personaggio, di non affogarmi totalmente nella mimesi, di non essere prigioniero di quella parte « sen timentale » delle immagini che, per conto loro, esprimono dei sentimenti. Lo stesso Brecht avvertiva, comunque, che le sue regole di tea tro non dovevano essere prese alla lettera. Do veva, però, rimanere un necessario distacco col personaggio: può essere l'ironia, l'autocritica, la voglia di comunicare altre idee e non solo gli abbandoni delle passioni e dei sentimenti. Comunque, se dovessi definire il lavoro del l'attore direi, con Camus, che egli è il corpo attraverso il quale si esprimono le storie della grandezza. Attraverso il corpo e, quindi, nel l ’acme della passione, della tensione vocale, anche. E’ fatale: bisogna « tornare indietro » perché altrim enti tutto si annulla, non si vede. L’urlo protratto, non è più un urlo: è un si lenzio. Ecco: in questo sono diderotiano. Cer to, per Diderot, c'è poi anche una indicazione costante di ironia, e io credo molto alla di- stanziazione ironica. E’ uno dei m otivi per cui, dopo tanto lavoro sui classici, mi piace, ogni tanto, tuffarm i nella farsa più sfrenata, nella corrida, nella « bagarre ». A questo punto, parliamo del suo debutto nel teatro (1943 con « La Nemica » di Nicco- demi). Percorriamo, pian piano, le tappe fon damentali del suo lavoro: le esperienze del tea tro popolare e gli anni sessanta. Fino al suo rifiu to per la scena. E poi il « ritorno »: la proposta di « Kean », l ’ultim o spettacolo, p ri ma di questo, sotto il tendone romano. Sono tappe di una costante attenzione al teatro per una sua possibile soluzione anche sociale, me glio sociologica. Gassman parla con serenità di tu tti quei momenti; riconosce i suoi errori, ritrova, in fette di passato, un entusiasmo qua R. In realtà il testo di Pasolini è molto am biguo, in tu tti i sensi. Un testo criptico, m i sterioso, indecifrabile, credo, anche a lu i stes so. E in questo risiede la sua teatralità: una teatralità completamente anomala, diversa, al lusiva. La bellezza di « Affabulazione » è tutta contenuta nel linguaggio, nella parola vista non solo come momento di comunicazione ra zionale, ma anche come espressione totalmen te libera. In Pasolini vi è più di un motivo per pensare al teatro di Artaud: come nel gran de pensatore e drammaturgo francese, anche in lui la parola teatrale è vista come un germe di infezione; un teatro che è vicino alla pesti lenza, con la differenza, squisitamente pasoli- niana, di una indomabile vocazione poetica e una incredibile innocenza. D. Che cosa l'ha interessato, in particolare, del testo di Pasolini ? R. Credo di essere rimasto affascinato da un'opera che ha, in sé, una vitalità e un senso attivo della morte; di una morte da cui possia mo apprendere i lontani albori che ci spinsero a vivere. Sono sicuro che in me, nella mia personale esperienza, questo spettacolo lasce- rà una grande traccia. Questa volta sono sa lito sul palcoscenico non per esibirmi, ma quasi per trovare un ristoro terapeutico. In Pasolini c’è un senso virile della disperazione, accanto al coraggio e la disposizione al sacri ficio. E’ il coraggio che ammiro di Pasolini, subito dopo la bellezza e la poesia della sua lingua. Moravia ha detto che « Pier Paolo Pa solini è stato il più grande maestro della lin gua vivente, e anche un grande manierista ». Era capace di scriveve di qualunque cosa: era un fabbro della lingua tra i più affascinanti che la cultura italiana del dopoguerra abbia mai conosciuto. Dante Cappelletti lina scena di « Affabulazione », a sinistra Roberta Paladini, Luca Dal Fabbro, a destra Vittorio Gassman A f f a b u l a z i o n e di Pier Paolo Pasolini Regia: V ittorio Gassman. Interpreti: V ittorio Gassman, Corrado Gaipa, Silvia Monelli, Luca Dal Fabbro, Roberta Paladini, A ttilio Cucari, Vanna Polverosi, Alviero M artini. Allestimento scenico: Gabriele De Stefano. Musiche: G. Gabrieli. Adattamento di Fiorenzo Carpi. Quello che ha sempre colpito, in Pasolini, è il suo innato bisogno della provocazione. Non c’è ambito della cultura che non sia sta to « toccato » dal giudizio di Pasolini. Spesso si è avuta una sensazione di disagio, anche perché l’intervento pasoliniano non era mai formulato in semplici moduli polemici: le sue idee rimuovevano le ombre di fa tti che a noi sembravano leggibili in quell’oggettiva compo sizione. Ci si poteva chiedere se il suo fosse un bisogno folle di esibizione o una necessità di turbare l'ordine delle cose. Tuttavia il suo intervento — per quanto « disturbatore » — agiva sempre in senso progressista, anche se aveva le connotazioni dello scandalo. A volte, accanto all’intervento, Pasolini sviluppava una sua teoria dell’episodio preso in esame. Pen siamo, per esempio, al cinema: la sua espe rienza di regista lo aveva portato ad una serie di riflessioni che, in fondo, vogliono diventare delle vere e proprie linee teoriche. Quando af fronta il problema del linguaggio filmico, Pa solini discute sulle idee dei grandi teorici del linguaggio, da Saussure fino agli ultim i for malisti. In « Empirismo eretico » — tanto per ci tare un esempio —, accanto a una miscellanea di interventi-ipotesi, c’è anche quella relativa al film . Pasolini volle trovare il modo di de finire l'unità fondamentale della forma cine matografica: il cinema. Il suo discorso è luci dissimo, motivato come sempre, anche se ti accorgi, alla fine, che la sua, in definitiva, è un'ipotesi. Intanto, però, quell’ipotesi ha avuto la sua collocazione critica, e non puoi fare a meno di prenderla in considerazione. Succede la stessa cosa per il teatro. Pasolini si pone di fronte alla scena con occhio molto scettico per quanto riguarda la realizzazione della dram maturgia contemporanea. Riconosce la gran dezza di Brecht, osserva poco convinto le ul time esperienze di teatro gestuale, guarda con occhio sospetto gli ultim i esperimenti di poli- tica teatrale. Per un momento ti viene il dub bio che la scena, con tu tti i suoi problemi, non lo riguardi molto da vicino. Poi scopri che è soprattutto la distanza che si frappone tra la sua « ipotesi » e la realtà, quello che maggiormente lo induce ad una specie di silen zioso riserbo. Di nuovo, la sua idea emerge da una for mulazione quasi « scandalosa » del teatro: è il « Teatro di Parola ». « Per me i tempi di Brecht sono fin iti », dichiara Pasolini — e l’idea stessa di un teatro popolare, come tea tro di intervento sulla base popolare (vedi an che i nobili esempi di un Majakowsky o di un Esenin, con i loro esperimenti nelle fabbriche) è, per lui, un’idea ingenua. Il teatro, per Pa solini, non è popolare. Ed ecco che la sua ipo tesi la puoi accusare di aristocraticismo. In vece Pasolini, in una sua ennesima forma di provocazione, dimostra come la scena deve avere un autore che sa cosa dire al pubblico; sarebbe a dire che tra emittente e fruitore, per dirla in gergo corrente, ci deve essere un co dice di riferimento omogeneo. Solo in questo caso, secondo Pasolini, il teatro acquista vita. L'esempio, che portava sempre, del teatro ate niese, è il più efficace per dare una precisa idea di come in Pasolini fosse chiara la cate goria Rito: solo se il Rito non è inteso nella sua primigenia remota, ma nella costruzione raggiunta attraverso il Sociale, perché su que sta base può nascere il vero rito, quello cul turale. « Il teatro di Parola ricerca il suo spazio teatrale non nell'ambiente ma nella testa. Tecni camente tale spazio teatrale sarà frontale: te sto e attori di fronte al pubblico: l’assoluta parità culturale tra questi due interlocutori, che si guardano negli occhi, è garanzia di reale democraticità anche scenica ». Pasolini affer mava che il teatro si deve rivolgere ai bor ghesi perché sono costoro che lo vedono. Na turalmente non bisogna intendere le afferma zioni pasoliniane come una dichiarazione con tro la volontà di coloro che vogliono fare una diversa e più ampia propaganda teatrale (la ricerca di base ecc.): il suo intento era quello di chiarire gli equivoci che, a suo avviso, cir condavano la scena. Tutto questo si riverbera anche nella concezione dello spettacolo in sé: occorre ridare valore alla parola, che l’attore deve dire in modo da farla ascoltare. L'azione è un momento secondario rispetto alla neces sità, secondo Pasolini, di tornare a quella dolce e soave esperienza di un poetico rapporto di comunicazione. « Il linguaggio e quello che vedrete è un linguaggio difficile, facile per i pochi lettori »: queste parole, dette da Gassman, all’inizio del dramma sono quasi l ’emblema di quest’opera pasoliniana. La scena — riassunta in un pia no verde, inclinato, con sullo sfondo una spe cie di lapide, mentre, dall’alto, piovono dei lam pioni cim iteriali — la scena, dicevo, è la oscu ra « culla » di un uomo in crisi, che scopre la propria solitudine. Sogna, lui, il Padre e dice: « Tutto comincia con questo sogno. / Sogno che io, però, non ricordo. / Tutto, meglio, ri comincia — se è mai cominciato: qualcosa, già, nella mia vita... ». Il Padre non conosce più se stesso e, per questo, non può fare a meno di cercarsi: altrim enti sarebbe la morte. E contro la morte lotta furiosamente, e la sen te come un’improvvisa malattia, che lo ha col to di sorpresa. E’ il Figlio che ossessiona la sua esistenza, la Forza che, inesorabilmente, si estranea da lui. Per questo, il Padre inter roga il Figlio, sperando di conoscere la verità che quello nasconde. Il Padre, industriale lom bardo, scopre la necessità di una Vita, e non può fare a meno di viverla. Il Figlio è, ormai, il Presente e il Futuro: per questo motivo è diventato il Padre. E’ una verità che ango scia e tortura l ’Uomo, lo pone di fronte alla necessità dell’esistenza e alle leggi inesorabili del Destino. Come spiegare una cosa simile ? Essa stessa è una malattia, un’ombra impla cabile che stanca l’anima e la rende priva di forze. La ricerca di una risposta, di un signi ficato, viene inghiottita dal Passato, da dove la Verità nacque e prese consistenza. Ecco che, durante la malattia, nell'inferno del delirio, giunge la figura di Sofocle che dice: « Bene: tu cerchi di sciogliere l’enigma / di tuo figlio. Ma egli non è un enigma. / Questo è il pro blema... / Non si tratta, purtroppo, di una ve rità / della ragione: la ragione / serve, infatti, a risolvere gli enigmi... / ma tuo figlio — ecco il punto, ti ripeto / non è un enigma. / Egli è un mistero ». In queste affermazioni del dram maturgo sembra sintetizzarsi la ragione del dramma pasoliniano. Il Figlio aveva accoltel lato il Padre, ribellandosi alla sua volontà di possesso; con lo stesso coltello, il Padre, alla fine, ucciderà il Figlio. Opera che pone in primo piano lo scontro generazionale, « Affabulazione » è tutta sospe sa in una serie di rimandi simbolici, dalle di verse possibilità di lettura. Da una parte po tremmo individuare, nella necessità di identità Padre-Figlio, il bisogno della continuità stori ca, il bisogno di non-morire a questo evento misterioso che è la vita stessa. Dall’altro lato, non possono mancare spunti di lettura relativi Vittorio Gassman e Luca Dal Fabbro in « Affabulazione » ad un sogno letterario frustrato dalla stessa storia: con il tempo cambiato anche i m otivi che ne determinano il suo inesorabile incedere. I sogni di una sperata evoluzione non si iden tificano più con i programmi e le ipotesi ela borati dal pensiero. Infine, vi è una lettura più squisitamente « teatrale »: la Verità pos siamo conoscerla solo se riusciamo a rappre sentarla, proprio come afferma esplicitamente Sofocle. Pasolini non ha voluto darci delle pre cise indicazioni, ché l'ambiguità è, probabil mente, la chiave più giusta di questo suo dram ma. Tuttavia non ha lasciato di farci intuire gran parte dei m otivi che erano alla base del suo pensiero, della poetica e della sua poesia. V ittorio Gassman ha dato una interpreta zione del Padre — nella doppia veste di attore principale e regista — di impegno eccezionale, raggiungendo toni di altissimo livello. Se c’è un modo per capire, concretamente, la lezione pasoliniana sul « teatro di parola », credo che occorra, ormai, rifarsi a questo spettacolo: tut to è da ascoltare e tutto si ascolta alTinterno di un processo comunicativo di limpida neces sità. Per m olti giovani, il grande attore sarà una stupenda rivelazione, per a ltri la conferma di un suo perenne cammino verso diversi e sempre più articolati modelli interpretativi. Gli attori di contorno si amalgano felicemente con lo spirito e l ’impostazione registica data al dramma; tra essi colpisce Corrado Gaipa (che interpreta la figura di Sofocle). Le musiche sono state curate da Fiorenzo Carpi e propon gono, molto felicemente, alcuni temi di Ga brieli che danno un giusto spessore mistico alla rappresentazione. D. C. (le fotografie sono di Diletta D'Andrea) A c c a t t o n e , E d i p o r e , V a n g e l o s e c o n d o M a t t e o L a p r e s e n z a i n P a s d e l t r a g i c o o l i n i tre Vorrei fare alcune considerazioni sulla pre senza del tragico in Pasolini, soprattutto in riferimento a film: Accattone, Vangelo secondo Matteo, Edipo, film che secondo me formano una trilogia. Una trilogia circolare, come si vedrà, che dall’Accattone passa al Vangelo e dal Vangelo passa o rimanda a Edipo e di qui torna all’Accattone. Un tema come quello del tragico esige un tragos, un capro espiatorio (che Hegel chia mava « colpevole innocente »). Ebbene, tragos nella poetica di Pasolini è 1' « accattone », il « povero », la cui nozione risale al « Discorso della montagna » o delle Beatitudini, le quali confluiscono tutte nella fondamentale beatitu dine della povertà. Beato significa « separato »: separato vo lontariamente dallo statu-quo per contrappor si, in nome d’un fine creduto e professato co me giusto, alla temperie ingiusta dello statu- quo: ingiusta, in quanto emarginante alcune persone o classi di persone. La confluenza delle 9 o 7 beatitudini (9 per Matteo, 7 per Luca) nella povertà (il cui significato causante ce l’addita come una « carenza », una « privazio ne ») ci raffigura il povero come un oppresso a causa della giustizia (parole del Vangelo). E Cristo è Colui che, beatificandoli, li separa dagli altri e li raccoglie tu tti intorno a sé, questi poveri, diventandone il leader. Li sce glie così, in quanto oppressi dalla giustizia « legale », ossia dalla giustizia consacrata dallo statu-quo (e che quello statu-quo, a sua volta, consacra): statu-quo che emargina i « caren ti », i « privi », i « poveri ». * * * teatro, che (Noto tra parentesi alcune analogie: una col teatro, l'altra con la nozione di partito. in Agnus volontario e nel Col recentissimo Amore lib ri miei, editi da Bulzoni — ho incentrato ap tema della emarginazione, pro punto sul transitivo — due inique le assurde spettandolo come una « finzione volontaria » dello statu-quo, atta ad eroderlo e a ma scherarne finzioni o con venzioni che lo costituiscono: finzione con clamata da attori e spettatori, ossia da una parte della società che, a tal uopo, si stacca dalla restante e si accinge a vedere la stessa cosa, ossia a rappresentare — e meglio direi « presentifìcare », « rendere presente » — lo statu-quo appunto da mascherare. Una parte della società, insomma, che si emar gina da sé, per scoprire le emarginazioni esi stenti: ecco il teatro, il quale comporta quin di — come ho press’a poco scritto nei citati lib ri — « il formarsi spontaneo di una società nella società: di una società concorde nel re carsi a vedere la stessa cosa. Di una società, i cui membri non coesistono in virtù di un con tratto che li veda convergenti, ma si m obili tano parallelamente per un interesse comu ne ». E tant’è, parimenti, d'un PARTITO, il quale è composto da un gruppo di persone che si separano dalla maggioranza per unirsi è procedere insieme sul fondamento di prospet tive comuni. A teatro, ci si reca per vedere in sieme la stessa cosa; ad un partito si accede per vedere le cose nella stessa maniera. Come fece appunto Gesù coi suoi apostoli. Costoro, unendosi con lui, si posero ex lege per denun ciare la legge. E’ in questo senso, radicale, che va intesa, a parer mio, l’attitudine di Pasolini a non ser virsi di attori professionisti. Nel film di Pa solini, gli attori sono presi dalla strada. Ma precisamente — ed è ciò che conta — Paso lini, gli attori li prende tra gli amici, i suoi amici: coloro che lo affiancano e lo seguono in una comune missione. Nel Vangelo sono riconoscibili tutti, questi amici: da Alfonso Gatto ad Enzo Siciliano. Ciascuno di essi in terpreta un apostolo. Proprio come accadde nel tempo e negli atti di Gesù, Pasolini chiama gli amici dalle loro sedi e se li trae dietro impresa. Nel m obilitandoli ad una comune Vangelo Pasolini m obilita pure sua madre: ma fermeremo dopo l'attenzione su questo particolare a mio avviso importantissimo). Oppresso a causa della giustizia è, dunque, l ’emarginato. L’emarginato è cieco, costretto alle tenebre. tutte La ritroveremo nel finale dell 'Edipo, que sta cecità dell'accattone. In quel finale, Edipo è visto come un mendicante cieco proprio per ché non vede la luce della giustizia legale (di Tebe) che lo esclude, né vede (non è in grado di vedere) la luce di una utopica giustizia su intesa come carità, periore, d’una giustizia come amore, che reintegri le emargi nazioni. Giustizia, questa, del Cristianesimo, che l ’Edipo greco non può vedere in quanto non è ancora sorta, ma che neppure l’Edipo di Pasolini — o, piuttosto l’Edipo-Pasolini — è in grado di vedere poiché questa speciosissi ma giustizia non è scritta, non è data, ma b i sogna conquistarla ora per ora, e lui, accat tone, non ha i mezzi (gli occhi), né si trova nelle condizioni d’averli, per conquistarsela. De vono quindi pensarci gli altri, a mostrare a costui (che né l’ha né la vede) la luce della giustizia. Ma quali « altri », se gli altri lo emar ginano e lo accecano ? Torna imminente l’ora del Vangelo : titolo che si trova nel mezzo della trilogia, ove convergo no come ad un miraggio due preistorie del Cri stianesimo: quella sociale dell’antico Edipo e quella individuale del moderno Edipo che s’identifica con Pasolini, alias con l'accattone della prima fase della trilogia. incalzante questo za, quando questi si mette a lavorare, ma non ce la fa, non sa lavorare, gli mancano i mezzi le forze, la capacità, per lavorare perché non ha mai lavorato, è nato « disoccupato » (leggi: emarginato). Ed è questa innocenza, identifi cante padre e figlio, che porta a identificare l'accattone-neonato (o accattone fin dalla na scita, o accattone-cieco) con Cristo, col figlio: il presagio di tale identificazione è già nella colonna sonora del film, nella più volte ripresa Passione di San Matteo di Bach. Ed eccoci al film del Vangelo secondo Matteo. Nel Vangelo secondo Matteo troviamo l'unica possibilità offerta al povero per apri re gli occhi e vederci. Questa possibilità non è data tanto dalla pur leggibile presenza del Discorso del Monte, dove sono capiti così bene e la sorte degli emarginati e il metodo del loro riscatto; ma è data da coloro che realmente sappiano dar atto della lettera del Discorso del Monte, che concretamente si di spongano ad alienarsi nel povero, a mettersi al suo posto, affinché questi riesca a vedere la luce della giustizia che lo reintegri dall’emar- ginazione: dato che è proprio in questo auto- alienarsi effettivo negli esclusi, in questo as secondarne l ’innocenza fino in fondo e acco munarsene la sorte, che consiste in ultim a ana lisi quella giustizia superiore (o giustizia tout- court) del Cristianesimo, tanto spesso evocata, ma solo letteralmente, nella parola carità. Ed ecco, nel Vangelo pasoliniano, la persona che è in grado di capire quella innocenza e di interpretare la carità: la madre. Ma quale ma dre, se ce ne sono due? l'innocente: Il cieco è colui che non vede, che non sa: « innosco », non so. Cieco è il bambino, che non è tanto 1’ « infante », che non parla, quanto il neonato che non vede perché non ha ancora aperto gli occhi. L'ac cattone è un neonato che non ha ancora aper to gli occhi perché non può, non riesce ad aprirli. Quest’immagine, tu tt’altro che pasco- liana del fanciullino, nasce insieme con l'ac cattone nel film omonimo e gli resta paral lela. Il bambino è in tale film il figlio del protagonista, che il padre deruba della cate nina perché ha bisogno di soldi, e che si lascia derubare senza neppure accorgersene: si lascia spogliare, estraneo, dell’oggetto prezioso, come dei pannolini quando la mamma lo sveste. Il parallelo con la sorte del padre è proprio in questa cecità, in questa innocenza. La ritro veremo infatti nel padre, la medesima innocen- Ma, prima di tutto, che cos’è la carità? E’ l’amore. Ma quale amore ? Ci sono due tipi d’amore: c’è un amore che chiamerò « contrat tuale », l ’amore prodigato da chi vuol essere riamato (« Ti amo perché mi riam i »); e c’è un amore « transitivo », l'amore che prescinde da ogni richiesta di ricompensa. La carità è que st’ultim o amore: vedilo rappresentato nella famosa Lettera ai Romani di San Paolo, que st’amore, e ivi identificato con la giustizia, principio della quale non è la legge (criticata nel cap. X III) ma appunto la carità (con cui s'intitola il capitolo che segue subito dopo: il cap. XIV). E effettivamente, una società giusta, sem bra non si possa istituirla altrim enti che sul fondamento di tale principio: il che vuol dire sull’inclinazione (leggi: libertà) di ciascun sin golo verso l ’altro, al fine d’interare insieme il tutto (società) che li contiene e li rende com prensibili. Lungi da essere un agglomerato, il quale, composto di parti omogenee, la società è un tutto, composto di parti eterogenee, da cui si richiede la massima autonomia per la tenuta del tutto. Ora, tale autonomia è quella che la singola parte riconosce all ’altra parte, non già quella che essa conserva e difende per sé. L ’illusione liberale è di ritenere che una so cietà si costituisca col rispetto reciproco delle eterogeneità, ossia sul fondamento di un con tratto attraverso io do’ per avere, amo per essere amato e via di cendo, e cioè non do’ nulla e non amo nessuno, poiché sia il dare che l’amare (che sarebbero le mie azioni transitive) rifluiscono in realtà su di me: sono azioni riflessive. Il preteso principio di coesistenza è, in ultim a analisi, un principio di repulsione, di esclusione reci proca, mirante unicamente a non disturbare lo statu-quo dell'altro, a salvaguardare insom ma le cosiddette « libertà negative », mante nendo inalterata la situazione sociale, perpe tuando quindi le disuguaglianze, favorendo in fine le emarginazioni. in definitiva, Quantunque nella prassi secolare se ne sia tradito lo spirito, il Cristianesimo rifiuta co stituzionalmente il contrattualismo, in quan to rovescia — come s'è accennato citando San Paolo — il principio della legge modella trice quale fondamento di giustizia, e prospetta come modello l ’azione « inim itabile » (quale è sempre del resto qualsiasi vera azione, che riceve il suo im prim atur dalla « singolarità » di chi la compie) di Cristo (cioè di un uomo esemplare che si è sacrificato per gli altri), donde l ’osservanza del modello (o ricezione del dono di Cristo), in quanto richiede la m obili tazione totale della libertà, additerebbe — in ultim a analisi — l'imitazione come « interpre tazione », e questa come una tensione opera tiva ad alterum, ossia come carità: « Ama tevi l ’un l'altro come io vi ho amato » (Gv. 13, 34). Ecco l ’amore transitivo. Ma il povero non vede tutto questo, non ha i mezzi culturali per apprenderlo. Ci vogliono dunque gli altri, per immetterlo nella condizione di averli. (La borghesia non s'arresta, e inventa la impropriamente beneficenza, denominandola « carità ». Da secoli si va incontro ai po veri, ma con bei discorsi e ostentate elar gizioni di inutile denaro o di pietistici gesti. Nel caso-limite, sono pronto a soccorrere il singolo bisognoso, pur di levarmelo dalla vista perché la sua presenza m'infastidisce: ma di fronte a una massa di poveri, è giocoforza o che fugga o che invochi i carri armati). Nella foto Silvana Mangano e Pier Paolo Pasolini durante la lavorazione del film « Edipo re » dre. Ma quale madre, se nel suo Vangelo ce ne sono due? Quale madre ? Ecco la chiave felicissima del Vangelo secondo Matteo: lo sdoppia mento di Maria. La prima Maria è la ma dre biologica di Cristo: la madre giovane, una ragazza qualsiasi, una donna come le altre (la parola « virgo » che le compete, non significa in realtà che « donna »), la purezza della quale risiede nella fede di Giuseppe, nel credito che questi le accorda (1). Le seconda Maria è la madre metabiologi ca, adulta, la madre che vede e lascia andare il figlio per la sua strada, sulla via che egli ha liberamente scelta, e che sappiamo consistere nell’autosacrificio per gli altri. Chiameremo cristianamente Mater dolorosa questa secon da Maria. La comprensione di tale sdop piamento pasoliniano, ce la schiude il Vangelo di Giovanni nel passo delle Nozze di Cana, Dov’è insomma la carità? Chi è vera mente in grado d’interpretare questo difficile concetto cristiano e di prodigare realmente la ma- l'amore transitivo? Secondo Pasolini: dove Maria s’avvicina al figlio e gli dice che è finito il vino, e il figlio le risponde con una frase che è la più ellittica e misteriosa che egli abbia mai pronunciato: « Che c’è fra me e te, donna ? Non è venuta ancora la mia ora » (Gv. 2, 1-4). Che volle dire Gesù con queste pa role ? Ancora una volta egli diede atto che su perava il principio biologico del sangue. Maria che pur lo aveva generato, era una donna come tutte le altre; ma nell'ora che lo avrebbe per so, quando cioè egli avrebbe realizzato intera mente se stesso, allora sì, allora sarebbe stata da lui riconosciuta come madre: matrice im mensa, non di nascita, ma di vita. Questo tema della Mater dolorosa rito r na in un altro autore che è stato molto vici no a Pasolini, in Moravia. Moravia, nel Dio Kurt, ricostruisce in ambiente nazistico la vi cenda di Edipo e immagina una Giocasta che, diversamente dalla Giacosta classica, non solo è consapevole di accoppiarsi col figlio, ma, at tratta nel giuoco con la minaccia che, se non agirà come deve, il figlio sarà impiccato, ac cetta questo ignominioso compito per salvare il figlio. Questa donna, descritta da Moravia con estremo pudore, è realmente una Mater dolorosa che, offrendosi al frutto del suo grem bo, compie il supremo sacrificio materno (2). Il problema che ritorna è, insomma, sem pre quello dell'uguaglianza, della non sopraf fazione, e il Cristianesimo rimuginato trava gliosamente nella mente di Pasolini offre come garanzia la grossa e onerosa responsabilità del la libertà personale. Senza questa libertà non è possibile la carità, e senza la carità non è possibile un’interazione umana — in cui cia scuno sia attivamente partecipe — del tutto sociale. Perché — si badi — l’interazione del tutto non manca mai, avviene sempre in ogni caso: solo che non tu tti gli uomini hanno la fortuna di concorrervi attivamente; m olti vi concorrono passivamente, cioè la subiscono, come accade nel ristagno delle divisioni so ciali, dove una parte si mimetizza con l'altra pur di non muoversi, o perché non può, o perché non sa, o semplicemente perché non vuole muoversi. Il Povero, l ’Accattone — su cui è puntato il mio discorso pasoliniano — non può muoversi. Nel Vangelo pasoliniano la Mater dolorosa è la madre stessa di Pasolini. Questa identifi cazione ci apre le porte alla comprensione del- l 'Edipo. A ll’Edipo di Pasolini, naturalmente, o meglio all’Edipo-Pasolini, come ho già avuto occasione di precisare. E interessante è appun to questa nuova identificazione dell'Autore con fase della Che questo Edipo sia Pasolini stesso è di mostrato dall’inizio del film , autobiografico, o simulante l'autobiografismo (non sono edot to nella biografia di Pasolini): nascita di Edi po, il padre del quale è un ufficiale nella vec chia uniforme col colletto chiuso, casa Liberty ecc. E altrettanto dimostrabile m i sembra che questo Edipo-Pasolini (specie se lo revisionia mo dal finale del film , ove ci appare come un accattone cieco) sia il povero: il povero che si è dimenticato di Cristo col quale s’era identificato nel Vangelo secondo Matteo trilogia), poiché non (seconda riesce più a capirlo, non ha più i mezzi culturali per capirlo, ed è povero proprio per questo. Al culmine della sua storia, del resto, nel grido fatidico « Dio, perché m ’hai abban donato? », anche Cristo vacillò, temendo di non aver capito nulla e di morire invano. La espressione « Dio m ’abbandona » ritorna in più d’uno degli ordierni teologi della « Morte di Dio ». Dio è Colui che ci lascia. Non è a caso che, dopo torni alla preistoria del Cristianesimo, impersonan dosi nel povero del suo, cioè del nostro, tem po: d’un tempo in cui il Cristianesimo sembra morire, ma nello stesso tempo sembra nascere (o « rinascere », come è proprio a tale dottri na che ci parla di due nascite: una biologica e l ’altra metabiologica, o, che è più calzante, di una nascita dalla morte). Ma torniamo alle due madri. il Vangelo, Pasolini, Edipo, mentre poco fa l ’abbiamo visto iden tificarsi, partendo dall’ « accattone », con Cri sto. Dopo un inizio autobiografico, ci ritrovia mo nel solco dell’Edipo classico, finché non arriviamo scopertamente all’incesto. Ora, un artista così accorto come Pasolini non poteva non capire che, scoprendolo sullo schermo, quest’incontro proibito di Edipo con la madre avrebbe perso molto del suo mordente, poiché, uscendo dal segreto d’una paurosa nozione, avrebbe del pari scoperto il trucco della fin zione scenica, recuperando la quiete all’animo allarmato dello spettatore. Lo spettatore, in altri termini, uscendo da un’attesa pavida e morbosa, avrebbe raccolto dallo schermo non altro che un normale incontro di uomo e don na. Ebbene, proprio qui il punto in cui lo sdop piamento delle madri osservato nel Vangelo offre a mio avviso la riprova della sua già considerata ragione. La Giocasta di Pasolini è la madre giovane, la madre biologica: una donna come le altre, pungente nel suo fasci no, aggressiva e proprietaria nel suo amore, che è dunque tu tt’altro che transitivo. Madre giovane e madre biologica s’identificano, in essa, nella fem m inilità tout-court, come nel- per la sua strada), ma la biologica giovane ma dre, una donna come le altre, che s’ucciderà appena verranno acciarate le proprie identità, e che quindi non potrà volontariamente la sciarlo libero al suo destino. Per cui potremo dire che, sopravvivendo a Giocastra (la ma dre giovane), l'Edipo di Pasolini non conoscerà la madre adulta lo lasci liberamente compiersi nella sua pienezza: che, in a ltri termini, non sarà in grado di ri conoscere la sua ora, la quale verrà per caso, come successe all’Edipo del mito. (Mater dolorosa) che Chi lascerà andare, infatti, questo Edipo per la sua strada ? Non ci sarà certo un'Anti- gone a prenderlo per mano; ma — peggio — non ci sarà più (l’ha smarrita) una Mater dolorosa (come nel Vangelo) che confidi nella sua libertà. Tornerà accattone, e cieco realmente questa volta (come lo divenne l’Edi- po mitico), a chiedere l’elemosina al passante indifferente che lo lascerà marcire nella sua emarginazione. L ’accattone è ora sicuramente, a parer mio, l'uomo moderno che non riesce ad essere cri stiano (ne sente tutta la difficoltà, pratica e teorica), che non riesce ad attingere la fede: quella fede che l ’obbliga ad operare nel sen so e in misura della realtà, ch'egli avrebbe il compito — come cristiano — , il solerte e oneroso compito di « riconoscere ». Quest ac cattone è il povero di spirito: colui che dichiara la sua estrema carenza di mezzi onde attingere il Cristianesimo e sentirsi efficace mente fratello di Cristo e figlio di Dio. « Dio è Colui che m ’abbandona » — sem bra ripetere Pasolini, echeggiando teologi della « Morte di Dio », i quali, riecheggiando a loro volta la drammatica domanda di Cristo (« Dio, Dio, perché m ’hai abbandonato ? »), serbano in segreto quest’altra frase di Cristo: « Ancora un poco e mi vedete, ancora un poco e non mi rivedrete ». Nicola Ciarletta i Una scena dell’« Edipo re » con Franco Cittì e, di spalle, Ninetto Davoli l’ancor giovane Maria quando nelle Nozze di Cana avverte il figlio che è finito il vino (3). Di fronte all’Edipo-Pasolini, dunque, cioè al povero che ha mancato la sua identifica zione con Cristo, non sta quella che egli potrà riconoscere come sua madre (o « mater dolo rosa »: colei che lo avrebbe lasciato andare (1) Se non la credesse pura, e cioè innocente, non colpevole, San Giuseppe dovrebbe ripudiare Maria co me infedele: invece non lo fa, ed è a causa della sua fede che viene definito « giusto », titolo che a rigore non gli spetterebbe perché, non ripudiando Maria, s’è scostata dalle leggi. (2) Del resto, anche sull’incesto, non c’è da mera vigliarsi che il Cristianesimo non vi annetta quel l'importanza stroncatoria di tabù che tutte le religioni vi annettono. Il Cristianesimo è veramente al di qua di ogni tabù. Esso è chiamato con ogni sforzo — costi pure il sacrificiq della vita — al solo compito di riconoscere la realtà. Perciò, dinanzi all’incesto, il suo interesse precipuo è di esplorarne le cause che lo determinano, le quali non potranno che essere sempre d’ordine sociale: negli ambienti alti, l'incesto sarà determinato dall’ambizione di tenere integra nel sangue la compagine familiare; negli ambienti bassi, dove si è costretti a convivere sovente tutti in una stanza, l'incesto sarà determinato, può darsi, dalla disperazione stessa e dal bisogno esplosivo d’uscirne. (3) Ben altro il caso della vecchia Sara, moglie di Abramo, della quale c’è da dire che, seppure essa è madre biologica di Isacco, lo è per fede, cioè per sacrificio volontario, e perciò non può essere con fondibile con le altre donne, ma è invece riconosci bile come MADRE, nonché « donna libera » — come conferma San Paolo nella Lettera ai Galati. A m a t o , o d i a t o , d i s c u s s o , o s a n n a t o L ’ u l t i m o d a n n u n z i a n o Pasolini è il D’Annunzio mancato della se conda metà del Novecento italiano. Mancato perché il suo estetismo represso è più tormen toso e tetro della continua estroversione dan nunziana; mancato perché mentre D’Annunzio trova nell attivismo il suo alibi esistenziale, Pasolini non lo trova nell’opposizione o nel l ’utopia rivoluzionaria; mancato perché men tre D’Annunzio è in ogni senso, migliore o de teriore che sia, il « poeta soldato », Pasolini non riuscirà a essere un « poeta militante ». Mancante infine perché mentre D’Annunzio entra nella storia con le buone o con le cat tive, Pasolini è viceversa fuori dalla storia, re spinto sulle rive della nostalgia e del rifiuto. La storia italiana degli anni ’10 non può fare a meno di D’Annunzio; Pasolini nella sto ria italiana degli anni ’50 e degli anni '60, la storia della modernizzazione e dello svilup po della società italiana, è un contrappunto minore. La sua rivendicazione della società ru rale è un grido tardivo; il suo marxismo po sticcio dell’era dello sviluppo cade in pezzi so lo nei suoi bellissimi saggi degli anni ’70 che sono dei saggi già postumi, una triste ballata saggistica intorno a un modo di vivere che proprio la cultura aulica, né nazionale né po polare, da cui è pervaso il ceto intellettuale italiano negli anni dello sviluppo, ha schernito e poi ucciso. Nella società italiana dei suoi tempi D Annunzio è un personaggio, un per sonaggio^ eccessivo, sovraccarico di cattivo gu sto, grondante di retorica, ma sempre un per sonaggio; Pasolini resta nella penombra di una letteratura che non si fa vita. D’Annunzio con quista la città, la Roma o la Genova del '15, la Fiume del '19; Pasolini è prigioniero di un su burbio miserabile che non lo accetta e poi l ’uccide. D'Annunzio inventa uno stile, una po litica immaginosa che ha per fig li non solo il « radioso maggismo » o l’avventura fiuma na o la liturgia fascista ma anche la contesta zione del ’68 e la piccola comune di Parigi; come ha dimostrato Michael Ledeen nel suo saggio « D’Annunzio a Fiume », la Reggenza del Camaro è la prova generale degli attivism i del secolo, non solo di quelli reazionari ma anche di quelli progressisti, dall’autogestione corporativa al femminismo, alla rivoluzione delle nazioni proletarie, al non allineamento. Pasolini non giunge a Fiume, s’arresta alle bor gate. Forse si risparmia la troppo lunga so pravvivenza di D ’Annunzio, il monologo auto celebrativo degli anni del Vittoriale; ma la sua fine sotto un cielo di periferia, se non ha la pretesa enfatica del crepuscolo dannunzia no, se non esala l ’odore di chiuso e di fio ri ap passiti dell’ultima atmosfera dannunziana, ha un' suo squallore solo in parte cancellato da un involontaria um iltà nel suo meccanismo tragico. Solo il fallimento, dunque, separa Pasolini dal poeta di Pescara. Solo l'insuccesso come vate, come poeta civile, come espressione ne gativiZ' o positiva ma necessaria e inevitabile di un’epoca nazionale divide Pier Paolo ' Pa solini da D Annunzio, ma Vambizione è quella medesima di essere il cantore della società pro fonda, della nazione vera, d'interpretarne lo slancio contro ogni supposta deviazione. Ma se D’Annunzio, come prima di lui in un modo ancora parziale Carducci e Pascoli, è un pro tagonista, il poeta delle folle, sia pure della piccola borghesia frustrata e arrabbiata, Pa solini è solo; gli uomini dello sviluppo, gli uo m ini dell'europeizzazione italiana non leggono Pasolini e Pasolini non si accorgerà dello svi luppo mentre è in corso, se ne accorgerà solo dopo, quando è troppo tardi, quando la sua poesia è ormai inutile. I l grande appuntamen to tra il poeta e l ’Italia in trasformazione non avviene. L ’Italia in trasformazione resta senza poesia e senza poeti. Ma le somiglianze con D'Annunzio riman gono. C'è la polemica contro il presente con siderato grigio, opaco, banale, ovvio; l ’attac camento di Pasolini alle radici rurali della il sublime arcaismo società italiana ricalca condo gli schemi della ragione, ma secondo le spinte emotive. Certo, Pasolini pone un interrogativo: il dan nunzianesimo è ormai impossibile ? il filone dannunziano ha terminato tutto il suo ciclo passando dall’epica falsa dell’ottimismo ad ol tranza all’epica egualmente falsa del pessimi smo ad oltranza, dalla mezza verità dell’Italia marmorea alla mezza verità dell’Italia di fan go ? Forse è troppo presto per affermare se il dannunzianesimo, anche nella sua versione pasoliniana, non ha più cittadinanza in un Ita lia europeizzata o se esso continua il suo corso sotterraneo per emergere un giorno con impe to alla superficie in forme imprevedibili e stu pefacenti. Ma in ogni caso Pasolini non è al l’avanguardia di una generazione di poeti pro letari, non è il Majakowski della sinistra ita liana: egli appartiene nel bene e nel male a una generazione di intellettuali che ha co stantemente privilegiato sull’Italia della realtà, l ’Italia dell’utopia. Probabilmente c’è ancora da scoprire e da valorizzare il Pasolini degli ultim i saggi; ma Pasolini come figura pubbli ca, come personaggio rappresentativo è l'u l timo dei dannunziani. Ludovico Incisa 6 6 I I D r a m m a * a u g u r a a i l e t t o r i b u o n e f e s t e pastorale di D’Annunzio che è sempre un’uto pia provinciale. C’è l’esaltazione della gioven tù che per D’Annunzio è sfigurata dalla pace, per Pasolini dallo sviluppo; una gioventù che può sperare la sua realizzazione piena solo dal sacrificio in guerra per D’Annunzio, dalla po vertà o dalla scelleratezza o dall’emarginazione sociale in Pasolini. C’è un compiacimento cru dele e atroce che rasenta il sadismo sia nel D’Annunzio di certe prose e di certi racconti come nel Pasolini dell’ultima serie filmistica. C’è l’identificazione della vita, del senso del l’esistenza con l’imprevisto perpetuo, con la disponibilità all’avventura che è l’avventura m ilitare per i personaggi di D’Annunzio o l av ventura teppistica dei ragazzi di vita pasoli- niani. I l mondo di Pasolini, dei suoi romanzi e dei suoi film s (specialmente gli ultim i quat tro dal « Decamerone » ai « Racconti di Can terbury », da « M ille e una notte » ai « Cen toventi giorni di Salò »), è un dannunzianesi mo capovolto, ma benché capovolto rispetto all’ideazione originaria, il mondo di Pasolini rimane dannunziano: i personaggi di Pasolini non sono meno dannunziani dell’aristocrazia smaltata che popola le opere del maestro; il loro egocentrismo è assoluto, il loro diritto a una vita senza lim iti e senza freni è affermato costantemente, il loro romanesco non è meno ricercato del linguaggio di Stelio Effrena o di Corrado Brando. I l sottoproletariato di Pa solini non è meno trasfigurato delle élites dan nunziane. Calandosi dai salotti della Roma um bertina, dalla tolda delle navi venete, dalle case patriarcali dell’Abruzzo, alle case popo lari della periferia, il superuomo rimane su peruomo. La rapacità meschina del teppismo periferico è certo del tutto priva di grandio sità, ma proprio la sua abbiezione disperata l’accosta allo spirito di preda dei personaggi dannunziani di cui gli effimeri bagliori del ver bo del poeta non riescono a nascondere il vuo to e quindi la disperazione. Pasolini porta egualmente fino all’assurdo l’approccio politico dannunziano. I l suo pre decessore, eletto deputato, passa clamorosa mente dai banchi della destra verso la sini stra, proclamando di andare « verso la vita ». D'Annunzio non trova la vita né a sinistra né a destra ma inseguendo il suo disegno perso nale, pur contagiando le folle con la sua esal tazione. Pasolini sceglie nella stessa maniera il marxismo come vita ma non riuscirà mai a viverlo perché il suo modello politico non è ideologico ma personale ed è perciò irridu cibile al collettivismo, all’utopia del collettivo. Come D’Annunzio, Pasolini rimane nella terra di nessuno del populismo, oscillando non se- I N B R E V E t e a t r o Tre nuovi spettacoli e la ripresa di un quarto costi tuiscono il programma di lavoro della « Cooperativa Attori e Tecnici » per la stagione 1977-78, la cui attività si svol gerà soprattutto nella regione Umbria, in particolare nella città di Terni e nelle zone limitrofe. Il primo degli spettacoli in programma è «Torquato Tasso e la sua commedia », spettacolo che verrà realiz zato in collaborazione con artigiani e artisti locali (fale gnami, tipografi, allievi della scuola di musica, sarti, scul tori, ecc.). Seguiranno: italiana « Vaudeville D'antan » di Gerardo Guccini, premio Idi, « La disfatta di Barletta », di Silvano Spadaccino, con musiche e regììa dell autore, e la ripresa di « Nozze con ospiti » di Peter Weiss, regìa di Attilio Corsini, già allestito dalla com pagnia. la novità Per dimostrare che esiste una drammaturgia italiana, in risposta a quanti (critici e letterati) sostengono il contrario, il Teatro in Trastevere si è trasformato, que st anno, nella più grande vetrina della nuova produzione teatrale Italiana. Promotore della rassegna l’Istituto del Dramma Italiano. Si è cominciato con « Strindberg con tro » di Mario Moretti, interpreti Aldo Reggiani, Barbara Valmorin, Roberta Greganti, regìa di Lorenzo Salveti; è seguito « Don Juan » di Dacia Maraini, messo in scena dalla compagnia Mezzera-Modugno-Bizzarri, con la regìa di Fernando Vannoni. Gli altri spettacoli sono: « Il Bian co, I Augusto e il direttore », di Massimo Castri (compa gnia La Loggetta di Brescia); « La soffitta dei ciarlatani » di Vittorio Franceschi (cooperativa Nuova Scena); « Opera, ovvero scene di periferia », di Carlo Quartucci e Roberto Lerici (Laboratorio Camion); « Felicitas » di Mario Pro speri (teatro popolare di Roma); « L'isola dei morti, variante » di Fabio Doplicher (La Fabbrica dell’attore); « Vaudeville D’Antan » di Gerardo Guccini (Compagnia Attori e Tecnici); « Polizia è bello » di Alberto Bevilacqua e Roberto Mazzucco. Robert Wilson sta rappresentando in varie città italia ne il suo ultimo spettacolo, •< Dia Log - Network ». Altri gruppi, come quello di Jerzy Grotowski e dei « Cuatro- tabalas », sono impegnati in seminari e sperimentazioni tra Milano, Firenze e Roma. Il notissimo testo teatrale dei due autori americani Goodrich e Hackett, « Il diario di Anna Frank », viene rappresentato in una nuova edizione a cura della « Coope rativa teatro mobile », diretta da Giulio Bosetti. Il ruolo della giovane ebrea uccisa dai nazisti è, questa volta, affidata alla interpretazione della cantante Nada Malanima. Mario Ricci è stato confermato alla Presidenza del- l'ATISP per il biennio 1978-79, nel corso dell'Assemblea svoltasi il 9 novembre all'AGIS. Nel Comitato esecutivo sono stati eletti Vitiello, Mazzali, Margio, Picchi, Quar tucci e Remondi. Era inevitabile che il secondo spettacolo della sta gione parigina del Piccolo Teatro di Milano, il « Re Lear », suscitasse reazioni diverse. « Per chi non capisce l'talia- no — scrive "Le Figaro” — le quattro ore e mezzo dello spettacolo esigono una rude e paziente attenzione. Ma una volta passato lo smarrimento, una volta entrati nella profondità della tragedia, la regìa di Strehler ci afferra e ci rapisce ». Per "France Soir" non è stata forse una buona idea presentare ai francesi, nella lunghezza di origine, l’opera mostruosa e difficile di Shakespeare. Da martedì 25 a giovedì 27 ottobre, si è svolta ad Albano Laziale la seconda edizione del Festival nazionale per autori, voci nuove e complessi. La manifestazione, organizzata da Valerio Valeri, è stata patrocinata da « Paese Sera », dall’Amministrazione comunale, dall’Azien da di soggiorno e turismo laghi e castelli romani e dal Comitato dei festeggiamenti locali. La cooperativa « Il Gruppo Popolare » metterà in scena « Don Giovanni e Faust » di C. D. Grabbe, con la colla borazione del Goethe Institut. La traduzione del testo è di Paolo Chiarini. La regìa di Marco Parodi. Le scene di Gianmaurizio Fercioni coadiuvato da Gianni Garbati. I costumi di Rita Corradini. Gli interpreti sono: Andrea Giordana, Flavio Bucci, Michaela Pignatelli. II « Gruppo Popolare » metterà anche in scena il lavoro di Roberto Lerici « Bagno finale » interpretato da Massimo De Rossi. Infine sta per iniziare un lavoro « collettivo » di Silva no Ambrogi, Gaio Fratini, Roberto Mazzucco, Pierfran- cesco Paolini dal titolo « Parolone paroline parolacce ». Un nuovo spazio polivalente si è aperto a Roma, il Politeama, nella vecchia sede del Folkstudio. LI Poli teama intende svolgere un programma continuo, dal teatro sperimentale ai concerti, fino all'organizzazione di uno spazio, aperto tutti i pomeriggi, dove sia possi bile bere tè, incontrarsi, ascoltare musica, consultare riviste, ecc. I L D R A M M A T o r q u a t o T a s s o e l a s u a c o m m e d i a E l a b o r a z i o n e i n 2 t e m p i d i R o m e o d e B a g g i s *... e l'esca un foco apprende, che vive quando spento è chi l'accese ». XLVII Personaggi Torquato Tasso - Alessandro (Pantalone) Comediante - Leandro (zanni) Cornelia Magagna (zanni) Pugliese Franceschetto - Romano Gialaise Formicone (Capitano) Napoletano Pasquina (Servetta) Pugliese Alberto (Pedante) Manilio (Vecchio) Bianchetta (Ruffiana) Romana Leonora (Vecchia) Camillo (giovane innamorato) in lingua Flavio (giovane innamorato) in lingua Flaminio (giovane innamorato] in lingua Lavinia (giovane innamorata) in lingua Ersilia (giovane innamorata) in lingua Che Torquato Tasso abbia o meno scritto la commedia che conosciamo e gli attribuiamo col titolo di Intrich i d’Amore, è questione tut tora aperta e dibattuta. Sul fronte della critica varie sono le opinioni, talora in aperto contra sto tra loro. La prima notizia che si ha della commedia è di una sua rappresentazione avve nuta a Caprarola da parte dei locali Accade mici che la recitarono alla presenza del cardi nale Odoardo Farnese ed in seguito la pubbli carono nel 1603 a Viterbo. Gli Accademici inol tre la fornirono di un titolo, del quale era p ri va, di un prologo ed infine di alcuni intermezzi. Trascurarono però di la commedia fosse giunta nelle loro mani. Questo solo fatto autorizzò il Serassi, in pieno sette cento, a ritenerla opera degli stessi Accade mici ed in particolare di Giannantonio Liberati, autore del prologo e degli intermezzi, nonché di una tragedia di sant’Eustachio e di una successiva favola boschereccia: Erillo. I l ca- valier Giovan Battista Manso, amico personale e primo biografo del poeta, aveva in preceden za negato, fin dalla sua prima apparizione in volume, che la commedia potesse essere opera del Tasso, ma non aveva potuto impedire che essa venisse divulgata, almeno sette edizioni solo nel seicento, e favorevolmente accolta dal tramandarci come A. Allori - Ritratto di Torquato Tasso pubblico in numerose messe in scena tra le quali un rifacimento a Catania col personaggio di Magagna che parla in dialetto siciliano. Si verificava così un fatto clamoroso, purtroppo non insolito nelle nostre lettere. I censori dalla lunga barba bianca, come li chiama il Pedrina, sminuivano il valore di un’opera che al con trario il pubblico mostrava di apprezzare. Non staremo adesso qui a ripercorrere le movimen tate vicende che la commedia conobbe nel cor so dei secoli. I l giudizio sostanzialmente più. equilibrato espresso su di essa è, a nostro av viso, quello di Angelo Solerti, il quale non nega al Tasso la paternità dell’opera ma ri conosce nella commedia, così come ci è per venuta, la mano degli Accademici. A questo si aggiunga la conoscenza e la dimestichezza che Torquato ebbe coi Comici Gelosi, la prima compagnia teatrale profes sionistica, dai quali presumiamo abbia appre so le prime fondamentali regole dell’arte, cioè del mestiere. Questi comici erano di casa a Ferrara ed al Duca Alfonso piaceva averli con sé al punto che non esitava ad im prigionarli pur di trattenerli. Dai documenti riguardanti l’infermeria del carcere, nel periodo della lun- ga detenzione del Tasso, risulta che egli ebbe a compagno di prigionia, in una delle celle attigue del sotterraneo, un non meglio spe cificato comediante, quasi certamente un ge loso. La loro influenza a Corte era enorme, tanto che lo stesso Duca, in periodo di car nevale, amava mascherarsi da zanni, per la qual cosa venne anche ripreso dal pulpito da un predicatore francescano. Essi recita vano la commedia e la tragedia e furono i prim i a rappresentare, verso la fine del luglio 1573 all'isoletta di Belvedere, la favola bo schereccia del Tasso: Aminta. Regista d’ecce zione dello spettacolo, diremmo oggi, Tasso medesimo che completava così, accanto a quei comici, la sua formazione scenica iniziata tanti anni prima a'Sassuolo col dirigere una com media del padre suo Bernardo e proseguita in Francia nel 1570 in occasione della prima apparizione all’estero della Commedia dell’Arte italiana. A Corte i Gelosi rappresentavano com medie di zanni, cioè canovacci che avevano per lo più a protagonista Pedrolino, una maschera che in seguito Flaminio Scala rese famosa. La consonanza de gli Intrich i d'Amore con i ca novacci della Commedia dell’Arte si rivela per altro anche in questo, oltre che nelle tirate e nell’intreccio. Chi può negare infatti a Ma gagna « falso ruffiano », a Magagna « finto assassino », a Magagna « mercante fallito », le qualità della Maschera ? Altro avvenimento di grande importanza è la rappresentazione dell'abbozzo di Cornac chie, un canovaccio dell’arte steso da Torquato e da lui stesso interpretato nella parte del pro logo e diretto avendo ad interpreti tu tti cor tigiani appartenenti alla Corte. Questo abbozzo contiene già nella tela e nella lista dei personaggi più di una sorpren dente analogia con gli Intrichi d'Amore, tale da costituirne, a giudizio dei più, la sua na turale premessa. Tasso riprese dunque, nel carcere-manicomio di sant’Anna dove era sta to relegato, lo scenario che gli era servito a Comacchio con l’intento di apporvi « l’ultima mano ». Questo particolare risulta, ed è l’uni ca testimonianza diretta dell’autore, da una lettera che il poeta inviava da sant'Anna in da ta 16 giugno 1586 al suo amico ed editore Gio- van Battista Licino, nella quale lo informava di essere prossimo ad ultimare una sua co media, scritta per soddisfare la richiesta di donna Virginia de Medici nel cui aiuto con fidava per la tanto sospirata e prossima li berazione. Conclusione alla quale non gli riuscì mai di pervenire. Avvenimenti ben più lieti stavano frattanto maturando e non avrebbero tardato a produrre i loro effetti. Torquato venne presto liberato e lasciò frettolosamente di notte Ferrara per Mantova, abbandonando verosimilmente in sant'Anna frammista ad altre carte. la commedia Nel tentare di dare oggi una lettura con temporanea a quei lontani avvenimenti, ci è parso di non poco conto ricostruire l'intricato itinerario spirituale del poeta durante la sua lunga e dolorosa carcerazione in sant’Anna. Abbiamo pertanto cercato di cogliere Tasso nella sua estenuante lotta combattuta contro le forze esterne, il potere ducale che lo aveva relegato come matto in prigione, e le forze interne del suo male stesso, il fantasma oscu ro della pazzia. A questo punto ci pare che Tasso venga a riassumere emblematicamente in sé, con una evidenza davvero impressionan te, in una parola la diversità dell’intellettuale e del l ’artista nei suoi d iffic ili rapporti col potere politico e con se stesso. E ’ risaputo infatti co me Tasso viva un periodo storico sconvolto, profondamente lacerato che si riflette nella rappresentazione, al quale egli aggiunge le sue angosce personali e la sua inquietudine d’arti sta, in una parola la sua malattia. tutte le ambiguità, le contraddizioni, La complessità della trama della comme dia testimonia così l'irrequietezza del suo spi rito. Tutti questi intrichi che si snodano, si accavallano, si susseguono gli uni agli altri, non fanno che esprimere il caos ed il disordine che regna nel mondo. Un mondo popolato di gente che riflette il caos della vita; si dispera, si rammarica, si rimprovera, passa dalla credu lità alla disperazione. Tutti questi intrichi non hanno però la spensieratezza dei giuochi d’amo re, ma suscitano a lettura finita una vaga e sottile angoscia. Questi amanti vengono con tinuamente beffati da un destino impietoso e crudele, che si svolge altrove e col quale essi non entrano mai in rapporto diretto, purtutta- via ne subiscono tutte le bizzarre combinazioni e gli strani casi. D’altra parte la variopinta e spesso inestricabile ridda di intrichi collaterali, che ha confuso più di un critico avvertito come confessa il D’Amico, sembra non avere altro scopo che ingrandire e deformare l’intreccio principale e la medesima situazione ripetuta ora in chiave lirica, ora in chiave grottesca, ora comica. In questo senso ci è parso giusto interpretarla come raffigurazione di un sogno, cioè come una visione, una fantasia, una memoria appunto, strumenti privilegiati della creazione e della poesia. Un sogno del quale Tasso medesimo è spettatore e protago nista insieme e dal quale pure non può prescin dere. I l documento di un’anima che anela alla grandezza ed alla libertà ed è costretta, suo malgrado, a non vedersi riconosciuta né Tuna né l’altra in un mondo che disillude in conti- la nuazione le sue speranze, reprime, intimida, inganna, deride e non fornisce che soluzioni parziali e provvisorie. La nostra rappresentazione si svolge tra questi due termini, entro questi due netti con fini: la prigionia e la liberazione, destinate come sono a non concludersi mai entrambe, un pò come la commedia. Nella sua intricata trama di incontri e di scontri, di elusioni e di mascheramenti, insino al suo improvvido finale, essa diviene infatti una rete di problemi solo apparentemente risolti in un universo co stantemente turbato. I l lieto fine non potrà essere che apparente; un accomodamento mo mentaneo, non già una conclusione definitiva. D’altra parte concludersi significherebbe darsi una fine, giungere non solo a sciogliere tu tti gli intricati nodi della matassa e risol vere tutte le complicazioni, ma darsi una ve rità e conforme a questa risolversi nel ruolo assegnato dal destino. Il nostro Tasso rifiuta l’uno e l’altro e per ciò stesso è incapace di dare un termine alla propria commedia alla quale rimane sempre di apporre, di volta in volta, « l’ultima mano ». Non rimane che l’at tesa operosa e paziente che qualcosa cambi; il lento progredire della realtà per mezzo di continui accomodamenti sempre precari, sem pre instabili. Svanito il sogno, arrestatosi momentanea mente il turbinìo della favola, restano nello sfondo le atrocità, l’eco sbiadita di un mondo di violenze e di sopraffazioni, mentre si fa strada una nuova consapevolezza. Quella li bertà che viene accordata non può essere an- ch’essa che passeggera, tale cioè da preludere a nuove inevitabili prigionie come ad altrettan te successive liberazioni nel flusso ininterrotto ed implacabile dell’esistenza. Resta la coscien za della insussistenza di qualsiasi approdo e della illegittim ità di un ordine che è sempre inadeguato e comunque arbitrario. Romeo de Baggis P r i m o t e m p o La scena è divisa in due sezioni: la parte inferiore rappresenta il carcere-manicomio di Sant’Anna in Ferrara, dove Torquato Tasso fu rinchiuso, a seguito di violente intemperanze, la notte dell'H marzo 1579 e da dove non uscì definitivamente che la notte del 12 luglio 1586, alle ore due di notte. La cella, quella almeno che ancor oggi viene indicata come la più probabile in Sant'Anna a Ferrara, ha il pavimento in terra battuta, la volta bassa ed un piccolo finestrino che dà sulla strada. Qui Tasso trascorse oltre sette anni della le sua travagliata esistenza, privato di libertà e di tutti i conforti, in preda ai mali più dolorosi, come ci testimoniano le lettere. In alto, invece, è la pedana dei comici; coi siparietti, le ceste e tutto l’armamentario con sueto per una rappresentazione della Comme dia deM’Arte. Tasso conobbe i Comici Gelosi. Diresse poi un canovaccio improvviso a Comacchio nel feb- tutte braio 1577 e, con ogni probabilità, ce lo ha la sciato scritto appunto nella commedia de « gli intrichi d’amore », alla quale è possibile che in questi anni di cupa e mortificante prigionia egli riandasse con la memoria, per alleviare le sue sofferenze oltreché con l’intento di finirla. Quando ad un certo punto i due mondi divisi della realtà e del sogno confluiranno in uno solo, la pedana verrà rialzata e servirà da grata, in un mondo che resta pur sempre prigione per la fantasia allorquando cadono le labili distanze che separano il fantastico dal reale. Avvertenza: Per il linguaggio si è preferito conservare, fin dove si è potuto, la grafia origi nale. Accanto a ciascun personaggio si è vo luto indicare un diverso dialetto, spesso rica vato dal contesto, del quale gli attori faranno un uso discreto per renderne il sapore ed aumentare così, anche sul piano linguistico, la babele degli intrichi e dei personaggi. Scena Prima Palcoscenico vuoto. Settembre 1578. Strada tra Novara e Ver celli, all'Imbrunire. Tasso, in abito di sconosciuto pellegrino, fer mo al centro del palcoscenico, con una sacca al piede e le spalle rivolte al pubblico. Si ode un latrato di cani confuso con gridi, sempre più vicino. Tasso si volge in direzione del rumore. Entrano in scena alcuni uomini, tra i quali un giovane di diciotto-vent'anni. Giovane (rivolto al Tasso): Ditemi, per cortesia, Tasso: A Vercelli vorrei giungere questa sera, ov’è il vostro viaggio? se l’ora il concedesse. Giovane: Voi potreste forse arrivarvi se non fosse che il fiume Sesia, che passa dinanzi alla città, e che divide i confini del Piemonte da quelli di Milano, è in modo cresciuto che non vi sarà agevole il passarlo. Sicché vi consiglierei che meco questa sera vi piaces se d'albergare, che di qua dal fiume ho una picciola casa ove potrete star con minor disagio che in altro luogo vicino. Tasso: Sulla ripa del fiume prenderò consiglio, il vostro parere, se passar oltre secondo o se fermarmi. Giovane: lo andrò innanzi, allora, e vi servirò da guida. (Tasso si guarda attorno). Tasso: lo non fui mai in questo paese; percio- ché altra fiata che andando in Francia passai per lo Piemonte, non feci questo camino; ma per quel ch'a me ne paia, non ho ora da pentirmi di esserci passato; perché assai bello è il paese, e da assai cortesi genti abitato. Giovane: Ditemi, di grazia, chi siete, e di quale patria, e qual fortuna in queste parti vi con duce? Tasso: Sono nato nel regno di Napoli, città famosa d’Italia, e di madre napolitana; ma traggo l’origine paterna da Bergamo, città di Lombardia. Il nome e il cognome mio vi taccio, ch’è sì oscuro che, purché io pure il vi dicessi, né più né meno sapreste delle mie condizioni. Fuggo sdegno di principe, e di fortuna; e riparo non ho alcuno. Privo del la patria, spogliato delle fortune, vado erran do con disagio e con pericolo; tradito dagli amici, offeso dai parenti, schernito dai ser vitori, abbandonato da tutti. In un medesimo tempo il corpo infermo e l’animo travagliato dalla dolorosa memoria delle cose passate, dalla noia delle presenti, dal timore delle future. La fortuna contraria più che mai fos- se: amici non ho e non conformi al mio desi derio, perché vorrebbero quelle cose ch’io non voglio, e a quelle ch’io voglio non sono favorevoli in modo alcuno. Padrone non ho, né vorrei averne, s’egli non fosse tale che volesse farmi un sicurissimo ozio da stu diare. (Si ode, vicinissimo, il rumore del tuono e delle acque che vanno ingrossando). Giovane: Guardate! L’aria già comincia ad anne rare e tutto intorno è cinto di nuvoli e quasi pregno di pioggia. Tasso: Al fiume, presto, al fiume. Giovane: Il fiume è in siffatto modo cresciuto chè più dentro alle sue sponde non si tene. Tasso: È vero. Niuna saetta uscì giamai di arco con maggiore velocità. Giovane: Il passatore poi, m’è stato detto, non vuole spiccarsi dall’altra riva, ed ha negato di francesi che con insolito compenso avean voluto pagarlo. (Ancora un tuono). tragittare alcuni cavalieri Tasso: La necessità mi astringe ad accettar quell’invito che per elezione ancora non avrei ricusato. Giovane: Sebbene avrei voluto piuttosto questo favore riconoscere dalla vostra volontà che dalia fortuna, piacemi nondimeno che ella abbia fatto in modo che non ci sia dubbio del vostro rimanere. Tasso: Se a voi piace, allora, quanto prima rice verò il favore d'essere albergato, tanto più mi sarà grato. Giovane: Mio padre ne sarà contento. Venite, dunque. La casa non è lontana. (Escono. Tuona). (Buio). Scena Seconda Si illumina in alto la pedana dei comici. Gli attori appaiono disposti come nel cele bre quadro del museo Carnavalet nel quale si sono voluti riconoscere i Comici Gelosi. Leandro: Oh che dolore, oh che pietà che m’han dato e danno tuttavia queste povere donne le quali, intesa da me la repentina morte del signor Alessandro, oltre Tessersi vestite tut te di negro ed annegrito ancora con panni le mura della casa, han prima con basse e poi con alte voci così dirottamente pianto, che sarebbe ben di pietra chi non piangesse come ho pianto anch'io, con tutto che sappia questa morte non esser vera, ma finta dallo stesso Alessandro per alcuni suoi capricci, lo sono stato Timbasciatore di sì trista no vella: e, sebbene Timbasciatore non deve portar pena, pure mi pare che alcuni mi miri no con occhi storti e mostrino di non poter sopportare ch'io dimori oltre in quella casa, onde son risoluto d’uscir fuori così per tema di qualche disordine, come per trovare il detto Alessandro mio padrone e persuader lo che lasci questi vestiti d’Astrologo con i quali intende chiarirsi se Cornelia e Camillo son fedeli: perché conosco in una affetto smisurato di moglie, e nell'altro sincerità grande di servo. Cornelia: Oh, marito. Ersilia: Oh, padre. Camillo: Oh, padron mio. Leandro: Ma senti come piangono. Lavinia: Olà, quel giovane. Leandro: Chi mi chiama? Lavinia: Che gridi e che pianti sono quelli che si fanno in casa della signora Cornelia? Capitano: Ditemi, di grazia, perché si piange in casa del signor Alessandro? Pasquina: Olà, ferma; che la padrona desidera sapere che romore è in casa della nostra vicina. Leandro: Eeeeh, che cosa è questa? Come pos so rispondere a tanti e ad un tempo? Ho altro da fare, né so quel che cercate. Se volete, io vado per i fatti miei e non curo saper qli altrui? (Leandro si dilegua). lo potrete sapere da loro, che Pasquina: Oh, come è fantastico! Andrò a dire alla padrona che ho veduto un uomo a guisa di in un tratto. lampo, che apparve e disparve Capitano: Ah, mal creato pultrone, te ne fuisti eh? Sennò t ’avria insegnato la crianza e co me se responne ai pari miei. Il pover’uomo, al lampeggiar del mio volto, al tuono orribile della mia voce, stordì, si smarrì, e certo cadrà morto da qualche parte. Ma non è stato il primo e manco sarà l’ultimo. (Le luci si spengono sulla pedana, sull'ulti ma battuta del capitano). Scena Terza Prigione dello spedale di Sant'Anna. Una cella nuda e vuota. 15 aprile 1579, mercoledì santo. Tasso è buttato su di un pagliericcio in ter ra, con le spalle ridosso al muro. Porta la camicia di forza. Tasso: La mia calamità grida così altamente, che il suono de le sue voci mirabili arriva per l'universo; onde sordo è chi non l’ode, e chi non l’esaudisce, severo. (Buio). Scena Q uarta La pedana dei comici. Siparietto dell’esterno piazza. Gli attori sono ancora tutti in scena, disposti a gruppi. Cornelia: Dunque Alessandro è morto? Dunque Alessandro mio non vive? Come non muori, Cornelia, se non vive più colui che era la vita tua? Ohimè, che io scoppio di doglia. Non mi trattenete, di grazia, che io voglio uscir le strade sappiano che io sono la misera, che io sono l’infelice. fuora scorrendo per Camillo: Infelice è veramente colui che non può soffrire le sue infelicità, poiché le disgrazie non uccidono gli uomini, ma il non aver pa zienza in quelle. Datevi dunque pace, ferma tevi pure, dove volete andare? Cornelia: Dove mi mena il duolo, a piangere e sospirar sempre, perché le disgrazie che toc cano il cuore malamente si possono soffrire. Oh, marito mio caro. Oh, vedova infelice. .acciò tutto Camillo: Se le lagrime, signora mia, fossero potenti a risorger morti, non farei altro che piangere per ritornare in vita colui da chi confesso questa vita e quanto tengo. Ma se nulla ottengono, non piangete, di grazia. Consolatevi ormai. Cornelia: Come posso consolarmi, poiché oggi giacciono a terra tutte le mie speranze, tutte le mie consolazioni? Morte non fu giamai così beata, come sarebbe stata la mia se io fossi morta appresso colui senza del qua le morrò mille volte il giorno. Così, lascia temi andare. Che io muoia. Che morte sola darà rimedio a tanti affanni. Camillo: È possibile, signora, che in tutte le vostre azioni vi siete dimostrata sempre pru dente, in questo caso, perdonate, fate cosa da pazza? Si perdono pure al mondo i padri, le madri e i fratelli, e non se ne fa tanto strepito quanto ne fate voi. Cornelia: Ma questa è perdita pur grande. Quan do il marito è buono com'era Alessandro mio. Camillo: Questo Io so e perciò, per rimediare a tanta perdita, io direi con licenza vostra che voi vi accasaste di nuovo. Cornelia: Come? lo, risposarmi?... Che dici? E dove troverei mai un altro Alessandro? E, se pure lo trovassi, non vorrei far torto a quel l’anima benedetta, né dar materia alle genti di mormorare così presto contro di me. Camillo: E che importa? Quell’anima vi scuserà, lo fate per necessità e non per che voi volontà. Cornelia: Ah, sì, per necessità. (Prende Camillo e lo tira in disparte). Quando, per caso, mi venisse alle mani un uomo di quell'essere e di quelle rare qualità che sei tu, non vi met terei troppo tempo in mezzo. Camillo: lo, signora? Cornelia: Tu, sì, che io amo più che da figlio e che, tirandomi di parola in parola, sarai causa di farmi prendere qualche risoluzione. Camillo: Risolvetevi, signora, che io già mi ri solvo trovarvi un partito che sia di comune soddisfazione. (Cornelia si allontana). (Solo). Non v’è dubbio alcuno che di rado si recupera l’occasione che si lascia perdere, lo vedo chiaramente che Cornelia ha chiuso nel suo petto l'istesso foco che io tengo serrato nel mio; ma le nostre fiamme non possono esalar fuori, perché ella teme che non li sia da vero figliastro e così combatte con l’impossibile di potermi avere per ma rito. E d’altro canto, conoscendo l'indegnità mia, non oso di scoprirmi. Ma sciocco che io sono a lasciarmi uscir di mano così buo na fortuna. E forse son questi i primi colpi fatti da te, o Amore? Ma disleale e ingrato Camillo, che fai? Che pensi? Non ti ricordi dei benefici ricevuti? Non ti vergogni a man car di fede a chi con tanta fede volle eleg gerti per suo figlio? Violare letto? Prendere per moglie la moglie? Questo è il premio che rendi? Questa è la riverenza che porti a chi ti giovò, a chi ti fu padre? Ritor na, ritorna in te. Scaccia questo rio pen siero dall’animo tuo. Muori più presto che fare cosa così indegna di te. Ma che colpa è la mia, se Amor mi sforza, mi spinge e mi sprona? Poiché amo e sono amato; men tre amo e sono amato da Cornelia, non mi è lecito. Sono amato da Ersilia, sua figlia stra, e io non l’amo. Amo Lavinia, figlia di messer Alberto, ed ella non mi ama. Che strani lacci, che arme inusitate son queste, con le quali mi hai ferito e preso? (In un altro punto della scena, frattanto è comparso Flavio travestito da Cosmo). Lavinia: Ma ecco Cosmo, il moro di colui che il suo è veramente più che barbaro crudele. Pasquina: Cosmo ... ssst. Flavio: lo son Flavio e non Cosmo. Quel Flavio aborrito dalla crudele Lavinia, come si abor risce la febre. lo son colui che, avendola amata per molto tempo, in ricompensa del- l'amor mio non ho ricevuto altro che ripul se, dispregi e un continuo no. Intanto che, dandomi in preda alla disperazione, son fug gito di casa lasciando il mio padre vecchio, e non tenendo altro figlio che me, vive di scontentissimo. Pasquina: Ma che ha? Che dice? Lavinia: Indica me, ma non l'intendo. Flavio: Diedi nova che ero andato alla guerra di Fiandra, ed è un mese che vado vestito da servo, tinto da moro per non esser cono sciuto, ponendomi ai servigi del Napolitano col proposito che Lavinia, amando quest’uo mo così fieramente, potessi come a suo ser vo aver comodità di parlargli, e vedere se ella sentiva dolore della mia disperata par tita, e seppure la sorte mi avesse concesso di commuoverla ad aver qualche pietà di me. Lavinia: Cosmo, oh insomma. Flavio: Ma ecco che in sua presenza perdo quel le parole che in sua assenza dico mille volte l’ora. Lavinia: Cosmo, che fai qui? Che cerchi? E dov’è il tuo e mio signore? Flavio: Cerco chi trovo e non trovo chi mi cer ca, perché conforme a quel che voglio, sotto altre forme cerco chi trovo sempre contra ria al mio volere. Ma tu che sei qui ora, perché di nuovo cerchi quel che non volesti mai, né mai cercando altrove trovasti meglio ch’ai tuo voler corrispondesse? Lavinia: Tu non rispondi a proposito, seppur non vorrai dire che fanno molto a proposito mio le tue prime parole, perché cerco colui che trovo sempre contrario al voler mio; e se ben lo cerco di novo, non è come tu t'ima- gini, che non lo volesse mai, sapendo che non desidero altro che l’amato, ma non aman te tuo padrone. Flavio: Ahimè. Lavinia: Tu sospiri, e perché? Ti dispiace forse che il crudele mi è crudele? Leva su gli occhi. Parla. Flavio: Ahi, sorte crudele. Lavinia: Sorte veramente crudele, poiché mi sforza ad amar un uomo così ingrato. Flavio: Ahi, Flavio. Lavinia: E a Flavio, che m’ha amata tanto, vuol che io riversi questo rio costume, che ucci dendo quel misero mi rido del suo morire. Flavio: Ma ecco mio padre. Meglio che io fugga di qua. (Flavio esce, quasi scontrando Alberto e Ma nilio che sopraggiungono). Alberto: Quae de novo emergunt, novo indigent auxilio. A nuovi affanni, nuovi rimedi. Lascia te dunque, messer Manilio mio, il tanto con dolervi della fuga, o vogliamo dire della per dita di vostro figliuolo, e a questo nuovo accidente porgete nuovo rimedio; come sa- rìa in disporre altrimenti della vita e della robba vostra. Perché il figliuolo che è vizioso e disobidiente al padre deve essere privato dell’eredità; autore Eschino Prelio in certa orazione a Rodio, anco tutte le leggi ne par lano diffusamente. Manilio: Il mio giustissimo dolore mi ha di sor te penetrato il petto, che non posso far altro che dolermi continuamente, considerando che non avevo al mondo eccetto quest'uni co figliuolo cresciuto con tante delizie, con tanti commodi, sotto speranza che egli do veva essere il bastone della mia vecchiez za; ed ora me lo vedo tolto, non so da chi, non so come, non so dove sia capitato. Alberto: Felix quem faciunt aliena pericula cau- tum; casus dementis correctio fit sapientis. Felice colui il quale è reso prudente dai peri coli altrui; la sventura dello stolto serva di lezione al saggio. Di modo che io mi risolvo, e così si devono risolvere tutti i padri di famiglia, a farsi cauti con l'esempio vostro, cioè di non allevare i figliuoli con tanti com modi e permetter loro tutto quello che di mandano, poiché deteriores omnes licentia sumus, e così queste licenze sono le spinte che traboccano li figliuoli e sono le cause potissime che danno poto amaro alIi poveri padri. le stirature? Lasciamolo Manilio: Perché di me stesso? Debbo dolermi della madre che non mi ha lasciato riparare al danno che io prevedeva doverne succede re. lo pure le diceva: vedi, moglie mia, che Flavio è troppo licenzioso, mira che è discor retto, non ti opporre quando io lo castigo, lascia fare a me. Si, a punto nulla fa, anzi in collera mi replicava: non avemo altro che questo figliuolo e tu pensi farlo morire sot to fare, perché quando l’arbore è buono, è meglio il frutto. A chi potrà rassomigliarsi, se non al padre? E con simili girandole, a poco a poco, cre scendo di male in peggio m’ha indotto a questo pessimo termine. Alberto: Ecco il frutto che si ha dai figliuoli (tra sé). Povero vecchio, mi fa pietà, lo vo glio pur seguirlo, acciò non si disperi in tut to, che veramente il cuore addolorato più si consola con le parole, d’un amico che con tutti gli altri rimedi del mondo; e poi per la salute dell’anima sua, inspiciendum est quod evenire potest. È da vedere quel che ne può seguire. Instit. De rerum divi. Illud quaesitum. (Escono). (Bianchetta tira da parte Flaminio, travestito da spagnolo). Bianchetta: Fatevi qui dietro, signor Flaminio, che io vò chiamarla e con bel modo vi farò comparire che Ersilia crederà che voi siate il capitan Lopes, suo antico innamorato, per il quale ella si more, in modo che forse otter rete oggi il desiderio vostro. Flaminio: Deh, Bianchetta, in te sta la salute e la vita mia, che per il resto mi vi farò cono scere persona gratissima. Bianchetta: Non dubitate punto, signor Flaminio, che chi è vecchia all'arte non si può ingan nare. farvi. mas fuerte. Flaminio: Deagamos ahoras las burlas. Battide Bianchetta: Oh, così vi voglio. Tic, toc, toc. lo batto al vento. Ma eccola. Flaminio: Ecco pur quello splendore che allu ma le tenebre, rischiara gli abissi e abbel- la il tutto. Ersilia: Chi è che batte così forte? Ah, siete voi Bianchetta? Che cercate? Bianchetta: Certo di farvi sempre servizio e pro curo cosa che risulti in beneficio vostro. Ma, prima che io parli d'altro, ditemi che lutto è quello che portate? Ersilia: È morto il signor Alessandro, mio padri- io corri Flaminio: Alla giornata vedrete che sponderò a questa vostra amorevolezza. Bianchetta: Non voglio niente, guarda, che seb bene avrei bisogno d’una gonnella di sotto, non me ne curo. Flaminio: Oh, che solenne mariola. Riposatevi sopra di me, Bianchetta mia. Avanti ora, chiamatela pure. Bianchetta: Toccarò piano la porta. Tic, toc. Ohi mè, non sente nessuno. Flaminio: Toccate più forte. Bianchetta: Vorrei parlaste spagnolo, per assue gno, in Genova. Bianchetta: Iddio li dia santa requie e a noi commoda sanità, vita lunga e denari da spendere. Voi sapete, signora mia, quante volte con le braccia aperte e con le lacrime agli occhi mi avete pregata che io dispo nessi il capitan Lopes ad amarvi, e perché sempre l’ho trovato duro, oggi per buona sorte mia, l'ho mollificato di sorte che vorrà far quanto voi volete. E già che quest’altra occasione vi dà il luogo e la buona fortuna, 10 direi che non la lasciaste passare. indurato Ersilia: Vi ringrazio, Bianchetta mia, della vostra la durezza del buona volontà; ma perché capitan Lopes mi ha di sorte il cuore che giammai si farìa molle, ho mutato quel pensiero, impiegandolo tutto ad un altro soggetto degno di essere amato. Eh, così va 11 mondo! Adesso che egli vuole, io non vo glio, e vada l’un per l'altro. Flaminio: Ohimè, che sento? È possibile che in ogni abito, in ogni occasione questa cru dele mi sia crudele? Ersilia: E con ciò, me ne vado. Serva vostra. Flaminio: Aspettate un poco. Che fretta. Ersilia: Che voce è questa? Bianchetta: Del capitano Lopes, figlia. Flaminio: Espetta ono poquitto, per vida soya. De manera che Vuestra Merced quiere che yo muera? Ersilia: Crepa. Flaminio: Y los dir da veros? Ersilia: Da vero. Flaminio: Y perqué? Ersilia: Perché non posso più amarvi. L’amore che vi portavo allora l'ho collocato in altri. Bianchetta: Aspettate, signor Flaminio, chi sa, forse la ruota della fortuna sarà rivolta in favor vostro e sarete voi. Flaminio: Piacesse a Dios. Digame, sennora mia, qui es esto affecionado di Vuestra Merced? Qui sa se fosse Flaminio? Ersilia: Che Flaminio e Flaminio. La fiamma di colui, sebbene è cocente, non basterà mai a scaldarmi, non che a cuocermi. Flaminio: Ah, io non sono ingrata, disleale, disamorevole Ersilia. Ecco che il capitan Lopes, ma l’infelice Flaminio che vive tra cocentissime fiamme. Che t ’ho fatto io che m'odii tanto? Qual segno d’amore e di viva affezione non t ’ho mostrato sempre? Perché godi delle mie fiamme? Perché fuggi chi t'ama? Perché dispregi chi t'adora? Ahimè, che non posso più dire, vinto dal profondo dolore. Ersilia: Dunque non siete il signor Lopes? Dun que siete Flaminio? Ahimè, che io fingeva di non volerli bene per confirmarlo tanto più nell'amor mio. Ma già che sono ingan nata da voi, mi doglio che non siete il mio bene, e voi doppiamente odio e dispregio. Andate in malora, ch’io serro. Flaminio: Che dici, Bianchetta? Bianchetta: Che posso dire? Se non che ragio nevolmente vi potete dolere. Povero giovane. 0 donne ingrate, che la colpa è la vostra, per non amar chi v’ama. (L’oste mette i tavoli fuori. Dalla casa esce Magagna, piangendo). Magagna: Ohimè, Uhimé, Ahimè. Camillo: Tu pur piangi, Magagna? E non consi deri che col tuo pianto accresci il pianto della signora Cornelia? Parmi che quanto più ti è detto, tanto manco intendi. Magagna: lo non piango altrimenti, ma questo è un certo rimedio da far passare il pianto. Camillo: E come? Magagna: Pigliate le prime tre sospiri che ho fatto, come dire l’o da l'Ohi mè la u dall'Llhimé e l’a da l’Ahimé, e con giungetele insieme, che dicono? lettere delli Camillo: O... v... a. Ova. Magagna: Bravo. Datemi una frittata e, se pian go più, ditemi un tristo. Dovete pur pensare che da questa mattina all’alba, che si seppe la nova della morte del padrone, non ho magnato; come volete dunque che v'inten da? Non sapete quel proverbio: che il vacuo ventre volentieri le parole non intende? Camillo: Ahi, che altro tarlo mi rode, altro mal mi penetra, altro coltello mi passa il cuore. Magagna: DiavoI, fallo tu che se morisse que- st’altro, eccoti Magagna Magnus Carlus. Ma ditemi, padrón mio, che cosa avete? Perché mutate di colore? Voi non parlate: olà, che dite? Dove pensate? Camillo: Penso, ma voltiam di qua. Magagna: Di grazia. Camillo: Dove siamo? Magagna: Questo è un altro introppo. La cosa non è lesta, voi smaniate. Camillo: Ma che ti pare? Farem niente? Magagna: Niente. Camillo: Pensi tu che mi voglia bene. Magagna: Bene. Camillo: Che si dirà? Magagna: Dipende. Camillo: Se io mi scopro, sarà bene? Magagna: Mica tanto. Camillo: Perché? Magagna (con la mano come se piovesse): Non è la stagione adatta. Camillo: E se mi scopro, che farà? Magagna: Vi ricoprirà, se vi vuol bene. Camillo: Che mi potrà capitare? Magagna: Che vi pigliate un raffreddore. Camillo: Dici?... Etcì. Voltiam di qua. Magagna: Ohimè, questo povero uomo non ha luogo permanente, e io con tante volte mi muoro dalla fame; e così egli non fa niente, e io non farò bene, perché di niente si fa niente, e non fa bene chi non mangia bene; se posso scappar niente, a lasciarlo sarà bene, che per me non voglio niente, se io non trovarò bene. Sediamo. (Magagna costringe Camillo a sedere al ta volo dell'osteria all'Insegna della campana. Subito l’oste porta il vino. In alto appare Franceschetto). Franceschetto: Signora si, staitene sicura che m’avertirò d'ogni cosa. In buona fé, che se la signora madre mi darà sempre questi mostaccioli, io li farò servizi de l’altro mon do. Mi ha detto che io debba spiar secreta mente quel che tratta il signor Camillo con Magagna, per riferirlo poi a lei. Mi disse che erano nella strada, e non vi sono. Ma eccoli pure: mi starò qui dietro. Camillo: Sappi, Magagna, che non è uomo, in questo mondo, tanto savio, né tanto fedele, che non si ritiri al suo commodo ogni volta che gli si attraversa qualche proprio inte resse. Magagna (beve, si liscia la pancia mentre s'ac corda con l'oste sui piatti da portare): E chi non lo sa, padrone? (indica sulla lista). Que sto, questo e questo... tutto. E facciamo pre sto. Perché tutti naturalmente desideriamo che più presto n’avanzi la robba, che ne manchi. Camillo: Sappi ancora che colui si deve chia mare amico, che confida liberamente all’ami- co le cose che portano pericolo di levarli la vita. Franceschetto: O Dio, non posso sentir molto bene. Magagna parla di robba e Camillo di levarli la vita; qualche tradimento faran no alla signora. Passerò pian piano innanzi per sentir meglio (si ritrae). Magagna: Eh, quietatevi. Perché non dite? Camillo: È perché mi si appresenta occasione di accomodarmi per sempre, non avendo altri a chi possa confidare un secreto di tanta importanza eccetto te, per l’animo che ho avuto sempre di farti piacere, di modo che non da servo ma da vero amico t ’ho riputato, vengo a conferir teco l’intrinseco del cuor mio. Magagna: Troncate le cerimonie, signor Camil lo, che con li servidori fideli come sono io basta dir fa, che subito è fatto. Camillo: Or intendi, lo, riputato da tutti figlio del signor Alessandro, non sono né fui gia- mai suo figlio... Magagna (spruzza tutto il vino): Prrrr... Franceschetto (passa travestito da gendarme e si fa riconoscere): Sono io, Franceschetto. Camillo: Ma servo, e per dir meglio, schiavo, riscattato dal signor Stefano suo fratello; il come, il quando, il dove, il donde, e chi son io, noi so. Ma so che si ritrova scritto in un foglio di carta che egli diede serrato al signor Alessandro a tempo che moriva, con ordine che non s’aprisse se non passava il decimo anno della sua morte; che già quest’anno era la morte del signor Alessandro non faceva mia ultima io sapesse chi sono, forse non mi sarebbe difficile tentare quel che tento adesso. l'ultimo, se morte con rovina, perché se Franceschetto (ripassa travestito da balia): Oh, oh, oh, Camillo è schiavo. Tu non mi bat terai più, poiché non mi sei fratello. Magagna: Schiavo? Ah, ah, Camillo è schiavo. Adesso è il tempo della sorte mia. Camillo: Talché, come fortuna e amor vuole, ritrovandomi... Magagna: Come a dire innamorato. Camillo: Così non fosse. Magagna: E io similmente mi trovo innamorato. Camillo: Di chi? Magagna: E voi di chi? Camillo: Di una che mi tiene il cuore. Magagna: E io di una che lì tengo il cuore. Camillo: Beato te, poiché tenendo il suo cuore, tieni quanto desideri. Magagna: Anzi, beato voi che tenete il vostro cuore dentro il suo, e non io che non posso tenere il cuore mio dentro al suo. Franceschetto (passa questa volta dentro una la cuffietta da poppante): carrozzina, con Sono sempre io, Franceschetto. Camillo: Tu burli, ma io voglio dire... Magagna: Taci, aspetta, ferma, non passar in nanzi. (La carrozzina si arresta. Franceschet- to preoccupato sporge il capo interrogativa mente). Già che Camillo e io siamo tutt’uno, procuriamo entrambo farci bene. A me par rebbe che non vi discopriste esser schiavo, ma starvi sotto la medesima credenza di esser figlio del signor Alessandro, perché così facilmente vi potrete pigliar Ersilia sua figliastra per moglie, e io copularmi con la padrona. Franceschetto (ancora nella culla): Ersilia mo glie di Camillo? Oh, buono. Ma quel copu larmi, io non l’intendo. (La carrozzina esce). Camillo: E questo è quel che più mi tormenta, perché se io non mi scopro, non posso otte nere quanto desidero; se io mi scopro, pas sare» un mare di pericoli, uno con Lavinia e l'altro in casa. Oh, sorte crudele. Aver, amando, due ferite in un medesimo tempo, e il rimedio che giova all’una, noce all’altra. Lavinia mi rifiutarà tanto più sapendo l'inde gnità mia, la qual s’io nascondo non potrò ottenere Cornelia, cuore del mio cuore. Che debbo fare? Che debbo dire? Che mi con sigli, Amore? Se io ho Cornelia e non Lavi nia, morrò per Lavinia; se ho Lavinia e non Cornelia, morrò per Cornelia. Magagna: Che Cornelia? Che Cornelia? Che levar Cornelia parli di Cornelia? Non mi che ha più di tre anni benedetti che mi cosse il cuore, di sorte che sono diventato fornace ardentissima che non faccio altro che cocere carboni, cenere e facelle. Franceschetto (sollevandosi da dentro una cesta col solo capo da pirata. Solleva la benda che gli copre l'occhio e si fa riconoscere): Mi riconoscete? Sono sempre io, Franceschetto. Oh, che beN'intrigo d’amore; di Lavinia, di Cornelia e d’Ersilia. Li ho intesi, si. Voglio no uccider la signora. Magagna pigliarà per moglie Ersilia e Lavinia Camillo. Non mi gab bate, affé (richiude la cesta). (Entra Gialaise, capitano napoletano, seguito da Flavio, finto Cosmo suo servo). Gialaise: La importanzia sta, Cosemo, ca li pri mi moti non songo in potestà nostra, né l’ommo tene li compassi, quanno ha da di cere con arcuno, ca non eccede li tiermini. Tu boi ivi che io avessi sciaccato a chillo, e non consideravi che se io avisse accomen- zato a dareli, che Laverìa sciattato con li sogozzoni? Ed eccome poi di zeppo e di peso 'ncoppa a Torre di Nona. Dico 'ncoppa pecché 'ncoppa stanno li Cavalieri di Sieggio come songo io. con tante considerazioni, e mentre è provocato si può Flavio: Padrón mio caro, al duello non si va l’uomo risentire liberamente là senza timore della giustizia. Se io fosse sta to in voi non avrei comportato per la vita che colui mi chiamasse animale, come chia mò Vostra Signoria, ma subito gli rispondeva con una mentita tosta, e avrei anco messo mano alla spada. Gialaise: Si ignorante, e perzò dici accosì. Nui autri Napolitani, ca sapemo le regole delli duelli, non potemo, se bè bolessemo, errare. Hai da sapere che la mentita bisogna ch’ag- gia fondamiento. Ecco mo: tu me dirrai na cosa, chilla cosa non è vera, la mentita vale; ma dicennome che è vero, la mentita no' serve. troppo, ma Flavio: Dunque è vero che voi sete un animale. Gialaise: Songo loicamente però. Pecché ognuno di nui è animale razionale. Quanno m’avisse ditto animale irrazionale, allora laveria mentito e rutto li dienti de chiù. Flavio: Ma non vi avendo messo né razionale, né irrazionale, eccetto che in còlerà vi disse animale, séguita di ragione che voi sete un animale irrazionale. Gialaise: È possibile ca quanto chiù stai co mico, tanto manco sai? Poiché non t'averti- ste de chiIlo arteficio usato pe me, ca pe sapere in che maniera isso l’avea ditto, io lo provocai dicendoli mulo cornuto. Flavio: Sì, ma non fu a tempo, che lui s'era ordinarie. Gialaise: Ch'hai detto mo? Flavio: Dico che mi fate veder cose straordi Gialaise: E beder te ne faraggio perzì. Tu bidè mo ca la segnora Lavinia, la patrona de chilla narie. pettare? partito da un pezzo e non l’intese. Gialaise: Che non m’aggia intiso, peio pe isso. Ma nui lassammo andare un poco li duelli e pariamo no poco di amore. Ma scopattami prima la cauzetta; ccà, ccà, vicino allo tal lone. Flavio: Non vi sta pur un pelo, che volete sco- Gialaise: E tu scopetta. Ca una delle cose prin cipalissime ped accattarese amore è la poli- eia. Massime chilli poi ca se la fanno co perzone magnate e d'importanzia, come fazzo io, ca me sdegno a fare l'amore se non fosse quarche prencepessa, duchessa, mar chesa, o ch'avesse almanco titolo di -con tessa. Flavio: E che vuol dire che vi vedo pur smaniare per amor di Pasquina, fantesca di messer Alberto? Gialaise: lo pretenno chella no’ per autro, ca pe variar pasto, e per averene allo quaderno mio, ch’a perzona parzionarella ci scrisse l’autro ¡orno. Flavio: Lo credo, perché queste son le sue cose cornutiella, se martoria pe me, e io chiù non la pozzo patire. Flavio: Ahimè! Gialaise: Che cosa hai? Flavio: Mi dolgo, padrone, del torto che fate a quella povera signora, che essendo così bel la, virtuosa e ricca, non ve ne dovreste sde gnare a prenderla per moglie. Gialaise: Ca dici? Ca dici? Lo segnor Gialaise Formicone, ca sta d'ora a ora pe farese spe dire la causa soia d’entrare en Sieggio, se bole pigliare la figlia de no lettore de Stu dio? Sfratta da ccà. Se no’ me fosse d'af fronto di affrontarete in presenzia mia, te darìa na mazziata bona, azzò no' te scappas sero chiù simili parole dalla vocca. lo volevo dire che è peccato a non amarla, amandovi ella con tutto amore e affezione. Gialaise: Bè, de chell'autra manera buoi dicere tu. A chesso te rispondo che essendo amore un desiderio di conseguire na cosa amata, io non la desiderando, issa non me pò con seguire. Flavio: Mi pare che la conseguenza sia contro di voi; perché essendo amore un desiderio di conseguir la cosa amata, come dite, volen dovi ella deve pur conseguirvi. Gialaise: Hai rascione, affé. Aggio equivocato, lo bolevo dicere ca non volendola io, issa non me pò avere. Flavio: E questo pure v’è contro a rispetto di Flavio: Pasquina. tete avere. Gialaise: Oh insomma, bisogna ca la femmena cessi e si sottometta all’ommo, e non volen do l'ommo, non potè la femmena sforzarlo. Dunque essendo io ommo, e non volendo Pasquina, bisogna ca issa se sottometta a me; e pe lo contrario poi, non bolendo Lavi nia, issa non me pò sforzare. Hai la intesa mo la conclusione? Che le femmene a di- spietto loro bisogna ca stiano sotto a nui. Flavio: Oh, che sensi diabolici. Gialaise: Tropoloici, buoi dicere tu. Impara, im para. Ma ecco Lavinia co chella cornutiella de Pasquina. Retiramoci ccà e spiamo ca cosa dicano. Lavinia: La mia trista fortuna, che dai primi anni mi privò del padre, queM’istessa mi fa oggi il peggio che può farmi, avendomi im presso nel petto l’amore di colui che ha il cuore non sol di pietra, ma di durissimo smalto. Gialaise: Chessa parla de me cierto e, se bene n’aggio pietade, no’ pozzo sopplire a tante, pe vita mia. Flavio: O sciocche donne, o donne ingrate, o crudelissime donne. Pasquina: E perché non fate, padrona mia, come vi disse Bianchetta l’altro giorno? Ama chi t ’ama, e chi non t'ama lascia. Che ne volete fare di questo Gialaise, poi che non vi ama? Gialaise: E lo Segnore dove l'hai lassato, male criata? zoè mo... Pasquina: Amate il signor Camillo che vi ama tanto di cuore che, alla fede mia; ne ho com passione ogni volta che mi dice: « Pasquina mia, prega per me, raccomandami alla si gnora. lo muoro per lei, ed ella non si cura di me; che certo mi fa venir voglia di pian gere ». Gialaise: Tu vide in quanti modi me preiudica, chessa latrina. Flavio: Che dite di latrina? Parlate onesto. Gialaise: Non è chilla ca tu pensi. Dico latrina, latra piccirilla. Ma sentimmo, sentim Lavinia: Ahimè, non posso amar altri; essendo amor per destino e non per elezione. Mi destinò la sorte ad amar costui, e non posso, e non voglio elegger altri. Pasquina: Non potete, perché non volete. Forse che Gialaise è più bello del signor Camillo? Val più la grazia, l’essere, anzi una parola sola di Camillo, che cento GiaJaise. Che Gialaise, solamente lazzaro che tiene. Flavio: Qui cadrebbe al proposito la mentita. Gialaise: Eh no, pecché all’assente e morto non il nome si fa ingiuria. importa chesto? Lavinia: Pasquina, non è bello quel che è bello, ma quel che diletta e piace. Agli occhi miei piace e diletta tanto quel traditore, che fuor di lui ogni bello mi par brutto. Pasquina: Un’altra cosa che l’altro giorno mi la tua ignorantone, che disse padrona. Una bestia, un paté la milza e ha l’asma. il suo creato: mira chi ama Gialaise: Chi diavolo nce l'ha ditto? Tu sì stato? Flavio: lo? Non per certo. Ah, padrone, io tal cosa? Dio me ne guardi. Gialaise: La borria accidere, chesta fauzaria. Lavinia: Non è vero, ma lo dicono artificiosa mente per levarmelo dall’animo, e fanno peg gio, perché quanto più si batte il sigillo tanto più s’imprime. Credete forse che io sia così sciocca che non mi avveda d’ogni cosa? lo so che più volte averno ragionato insieme, e mai il signor Gialaise s’è dimostrato tale. Pasquina: E se amore vi ha fatto stravedere? Gialaise: La mala pasqua che ti venga, Pa Pasquina: Mi disse ancora che ha avuto il mal francese, e che non è più uomo. squina. Gialaise: E come? Flavio: Che non volendovi ella, voi non la po Flavio: E voi ci sete presente. Come dite di no? Gialaise: Ci sono, e non ci boglio essere. Che Gialaise: Circa lo mal francese, è lo vero. Ma in quanto all'esser ommo, songo chiù ommo ora che mai. Lavinia: Dimmi, chi è questo creato che te l’ha detto? Pasquina: Il moro che si dimanda Cosmo. Gialaise: Ah, traditore. Flavio: No, certissimo. Lavinia: Oh, oh, questo Cosmo è sospetto, per ché altre volte mi ha riferite mille bugie; anzi dubito che egli sia ruffiano di Camillo. Gialaise: Ah, vegliacco infame. Flavio: Muora disperato se è tal cosa. Gialaise: Ma chi nce l’ha ditto? Flavio: Noi so. Gialaise: Come lo sa? Flavio: Noi so. Gialaise: Conosciame a me? Flavio: Conosco. Gialaise: Te boglio spanzare. Flavio: Spansame. Gialaise: Non te boglio spansare mo, ma me ne boglio informare meglio. Flavio: Informase Vostra Signoria, che mi tro- varà innocentissimo. Pasquina: Non può stare che Cosmo m'abbia detto la bugia, perché mi vuol bene, mi ama, mi pizzica, mi gratta la mano, mi dà mille cosette; e io voglio ancor bene a lui, sà? Gialaise: E chisso da chiù. Confessati, e zitto. Flavio: O Dio, che possono fare li testimoni falsi. vuol bene? Lavinia: Ma aspetta. Come sai che Cosmo ti Pasquina: Lo so perché me lo ha detto lui, e per questo io fo quanto egli mi commanda. Lavinia: Che cosa ti commanda? Pasquina: Mi ha commandato che quando io veggio Gialaise, lo fugga, lo scacci e l’odii come la morte. Gialaise: Ca dici mo, vegliacchissimo Cosemo? Flavio: Costoro mi han veduto del certo, e ne Pasquina: E chi non lo sa? Oh, oh, non te I ho detto ancora? Egli spasima e muore per me. Lavinia: Sì, ah? E perciò ne dicevi male, per levarmelo dal cuore. Tu sei da tanto? Tu ardisci opponerti aM’amor mio? Gialaise: Mor mio? Lavinia: Tu sei causa del mio travaglio? Gialaise: Mio conguaglio? Lavinia: Per te non mi ama colui, per te m’odia? Gialaise: Pe te me fuje, Pasquina? Lavinia: Non so chi mi tiene che non ti cavi gli occhi. Tò, tò, ribaldella. Tò, tò, traditora. Gialaise: Appila, zitto? Sentimmo, sentimmo, Lavinia: Donque lo signor Gialaise fa l’amore vogliono far corrivi. sentimmo, ca poi... con te? Pasquina: Ohimè, che colpa è la mia? Basta, che io non li voglio bene. Gialaise: Cuosemo, m’hai sprofonnato, tu m’hai acciso. Pe te me scaccia Pasquina, pe te mi fugge ogn'ora. Flavio: Ecco come si paté a torto. Lavinia: Ah, ingrato e veramente sciocco Gia laise. Ingrato, che paghi d’ingratitudine a chi ti serve, a chi t ’adora. Sciocco che, disa mando me che son pur della qualità tua, ami una vii femminella. Gialaise: Ah, pazza Pasquina, ca lasci la rosa e pigli la spina. Lasci me ca te boglio, ca te pozzo fare patrona, e pigli chiIlo ca non ti buole e non ti puote far autro ca fantesca. Pasquina: Che siano maledetti quanti Gialaisi si trovano. (Lavinia e Pasquina escono). Gialaise: Ecco oscurato lo mio sole, perza è la luce, e tutto per causa tua, ruffiano di Ca millo, traditore dei padroni tuoi. Spogliati ccà mo, spogliati chessi vestiti; dammi ccà chessa spata. Priesto, non tricare più. Flavio: Non vi accostate, di grazia, che questa spada bisognarà pigliarla per la punta; e forse che la giusta cagione che ho di lamen tarmi si sfogarà sopra di voi; e se pur ne volete, mettete mano. Gialaise: No’ nce sarìa l’onore mio a mettereme co no vaiassone, e massime co no desperato corno sì tu. Averemo tiempo. Su, lasciami annare dallo Governatore, ca a forza o bona voglia bisognarà ca restituischi la robba allo patrone. (Esce) Flavio: O sorte crudele. O stelle inimiche. O cie li, perché non mi cadete sopra? O terra, per ché non m’inghiotti? O acqua, perché non m’affoghi? Fuoco, perché non m'ardi? Aere perché non m’ammorbi? Ma perché mi man tenete in vita? Per farmi sentir maggior pena che di morte? Che chi ha per contrari la sorte, le stelle, i cieli, il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra non merita di viver più. (Le luci si spengono sulla pedana). Scena Q uinta Prigione di Sant’Anna. Novembre 1579. Notte. Tasso sul pagliericcio. Rumori misti a voci umane. Tasso si solleva. Dal fondo appare un comi co, vecchio e lacero. Tasso: Chi sei? Attore: Un comediante, Vostra Signoria. Tasso: Si, sento spesso i tuoi passi ed i tuoi lamenti attraverso il muro. Attore: Ed io sento i vostri, signore. Tasso: La nostra comune condizione, attore, non ha eguali. Attore: I topi nella mia cella squittiscono, si gnore, e la notte non mi fan dormire. Tasso: E tu credi forse che io riesca? Lunghe notti trascorro insonne e la luce del mattino non mi reca alcun beneficio. Ma vieni avanti, recitami qualcosa, attore, che sempre è infi nita malinconia che mi tormenta. Anzi no, aspetta. Zitto, che non ti sentano. Ti inaspri rebbero la pena di sicuro. Attore: lo non so perché son prigione, signore. Tasso: Tu no, ed io neppure. Ma ben lo sa chi ci priva della libertà e quasi della vita stessa, che si può dir mal viva, e ci impedisce la gioia del poetare e dello scrivere e ci vuole muti e spenta la nostra voce e ci trattiene per nostra custodia e cura, come dicono. Per guarirci nel corpo e nello spirito. Perché noi siamo malati, attore. Pazzi alla catena. Lo sapevi tu questo? Perché non sanno più che farsene di noi: tu attore, io poeta. Che senso ha? E col timore di continua prigionia molto accrescono la nostra mestizia, e le purghe e le privazioni ci aiutano a guarire dei nostri falli. Il mondo Invecchia, attor.e, ed invecchiando intristisce. Attore: lo non vi intendo, signore, lo ho sempre fatto l’attore e non saprei fare altro. Anche se non potrò più recitare, rimarrò attore tutta la vita. Tasso: Sssst, non dirlo. Nascondilo accurata mente. Ascolta bene quello che ti dico. Tienilo gelosamente racchiuso nel tuo cuore e non farne mai parola con alcuno. Attore: Così farò, signore. Tasso: Un giorno, in altri tempi, conobbi gente della tua condizione. Ganassa ed i Comici Gelosi. Attore: « Virtù, fama ed onor ne. fer Gelosi ». lo son un di quelli, signore. Tasso: Vieni allora, comediante Geloso. Unisciti a noi. Entra anche tu a far parte del sogno. (Si cambiano a vista in Alessandro e Lean dro). (Buio). Scena Sesta Pedana dei comici. Compaiono Tasso come Alessandro e Comediante come Leandro. il Alessandro: È inutile, Leandro; che, sebbene la vita inquieta non è altro che una continua morte, e la sospizione non si toglie se non con l’esperienza di veder il contro di quel che l’uomo sospetta, pure godo di questa mia inquietudine e dei travagli infiniti che ho patito e pato a star tanti mesi fuori di casa, e a ritrovarmi oggi travestito da astro logo, che infine mi quieterò l’anima dal so spetto. Che, se sarà così come temo, ella conoscerà che il marito che ha sale in zucca sa cuocere i capricci della moglie; in quanto a lui poi, quanto più può lo sdegno di un padrone verso un servitore che gli si rende ingrato. Ma quando sarà il contrario, come pare che tu mi vada ragionando, ella avrà da me l'affetto d’amoroso marito e lui di padre. Ed ora dimmi, come si comportò Cornelia quando seppe della mia morte? E che disse Camillo? Leandro: Oh, appena intesa da me la notizia, ella cominciò a gridare forte: Alessandro mio, o Alessandro mio dolcissimo. Si squar ciò le vesti e, come forsennata, sbatteva il capo or qua, or là. E Camillo dirottamente piangeva; sì che credo il dolore abbia di modo trafitto l’animo di entrambi che vivran no sempre sconsolati, fin che non di disco pra il vero. Si vestirono subito di lutto e tutta la casa si mise in profonda mestizia. Alessandro: Ogni estremo è vizioso e nessun violento è durabile. Sappi, Leandro, che que sti loro eccessi non fanno che confermarmi nei miei sospetti, perché quando si piange di cuore non si piange di fuore, come dice quel proverbio. la Leandro: Padrón mio, fantasia vi raffigura tutte queste cose, poiché non mi posso im maginare che chi sente affanno di dentro debba rider di fuori e al contrario debba pianger di fuori chi sente gioia di dentro. Alessandro: Se Cornelia e Camillo avessero in tensamente sentito questa nuova, non avreb bero così presto potuto mandar fuori lamenti e i loro eccessi son come la febre effimera che di fuori venendo violenta scaccia il fuoco cattivo di dentro e non dura troppo. Leandro: Adesso conosco chiaramente che la gelosia non è altro che una rabbia causata da falso sospetto e da timor vano e da stra vagante frenesia. Perdonatemi se ve lo dico, padrone, che da sospetto in timore, da timo re in frenesia, da frenesia in gelosia, e da gelosia sete venuto in una rabbia tale che non mi parete Alessandro, ma una vipera tutta piena di veleno. Ritorniamo a casa, lasciamo queste vesti, e credete che vostra moglie è prudente, onorata e bella. Alessandro: Ahimè, che prudenza, onestà e bel lezza di rado si congiungono insieme. Poiché la bellezza di una donna non è mai sicura, e quel che da molti è desiderato vanamente si guarda. Risolvasi ognuno che chi ha donna bella per moglie ha da combattere con la pazzia, perché bellezza e pazzia sono due fide compagne che non si lasciano mai, me diante la qual pazzia consuma la vita e la facultà del marito. Insomma chi si marita con donne belle s’apparecchi a sopportar la mala ventura. resta povero, Magagna: Come sarebbe a dire le corna. Alessandro: E peggio ancora. Giacché mentre il povero marito riposa, ignaro, gli innamo rati gli vanno attorno alla casa, occhiando alle finestre, scalando le mura, sonando ci- tere, vegghiando alla porta, concertando con ruffiani, discoprendo il tetto e, da ultimo, gli tolgono la vita o fanno che per il dolore si muoia. E così infamato e morto. lamentare un certo amico mio che ha la moglie brutta, poiché potrà vivere senza timore e sospetto alcuno. Alessandro: E chi non lo sa? Colui che ha la moglie brutta tiene sicura la fama, è servito da principe, è amato cordialmente, vive quie to, ha carezze dell’altro mondo, aumenta in facoltà, e la pece negra che lavora l'argento e la scorza aspra che conserva l’albero tenero. Leandro: Dunque non si deve insomma quella bruttezza è Leandro: Signor mio, io non posso disputar con esso voi, ma vi esorto che non vi lasciate vincere dalla passione di questa maledetta gelosia. Alessandro: lo mi debbo sincerare, Leandro, dell’amore di Cornelia e di Camillo. Non pretendo indovinare, né mi curo di sbagliare per viver cauto. Ma ecco Franceschetto, mio figliuolo. Intendemo quel che dice. (Franceschetto, nel suo ultimo travestimen to, attraversa la scena). Franceschetto: O schiavo traditore, se vivo il signor padre non faresti così. fosse Alessandro: Parla di schiavo, nomina me e si dispera. Che domine sarà? Costui certo par la di Camillo. Leandro: Ogn’ombra vi par Camillo, così^ forte tiene astratto dall’esser l'immaginativa vi vostro. Alessandro: Ascoltiamo un poco, che dai figli uoli e dai matti si discoprono i fatti. Franceschetto: Bella, per Dio. Camillo pensa maritarsi con la signora madre e far del padrone di casa. Ma io, ma io ... lascia fare a me. Alessandro: Che dici, Leandro? Parti che io mi sia ingannato? Franceschetto: E Magagna dice pur egli che è innamorato della signora e fanno questio ne insieme. Però quel copulare, io non l’in tendo. (Esce). Alessandro: L'hai sentito, Leandro? Il fatto è fatto e la cosa è chiara; non bisognano più testimoni, non giovano altre prove. Deh, Cor nelia, questo è l’amore, questa è la fede che si deve portare ad un amorevole e fedel marito, come sono stato io? Così presto ti sono uscite di mente le promesse e i giu- ramenti che non avevi altro* bene che me? E che se mai io morivo prima, ti saresti se polta viva? Mentitrice, disleale. Ben me ne sono accorto, con ragione ho sospettato. Dissi il vero che il violento tuo dolore dove va durar poco. 0 finta, disonesta. O Camillo ingrato, che di estraneo ti elessi per figlio, ed ora mi sei traditore. Maledetto l'uomo che confida nei figli d’altri, crescendoli in casa per suoi propri, non pensando che que sti intessono molti inganni, e come a quelli che sono del tuo sangue, ti cercano di bere il sangue, la vita e l’onore. E che più? Se oggi non si ha bene dai figli propri, come io ne dovevo sperare dai figli d’altri? Non pos so aver pazienza. Voglio entrare in casa ed uccider l'uno e l’altro. Leandro: Fermatevi, padrone, che le cose mal fatte, dopo commesse, più presto si posso no riprendere che emendare. Come volete correre così in furia, e commetter un ecces so di tanta importanza, senza aver altra in formazione? Se per sorte non fosse così, in che modo potreste emendare questo delit to? Han tanta forza le passioni in noi, ch’ai spesso ci fan parere una cosa per un altra; e perciò bisogna prima intendere, vedere, toccare con mani, e dopo eseguire. Ferma tevi, di grazia, e non credete così facilmente ai figliuoli, che quando non sanno esprime re bene i fatti, ti mettono in nova confusio ne. Che certezza potete avere del detto di Franceschetto? Sarà meglio ricorrere all’arti ficio dell’Astrologo, come avete detto prima; perché discorrendo, intendendo, parlando, ne verrà forse alle mani quel che andate cer cando. l’ira, perché essa, esaltando l’intelletto nostro, ci turba la ragione. Ma mi servirò del tempo e del l'opportunità; che, come disse quel .valen tuomo, il conoscer del tempo e il servirsi dell’opportunità fa gli uomini prosperi. Alessandro: Orsù, voglio vincer Leandro: Ora sì che l’intendete. Andiamo di qua che, pensando meglio, in ogni modo pigie ranno qualche buona risoluzione; perché le cose che si pensano maturamente partori scono divinissimi effetti. (Escono. Siparietto. Leonora, Lavinia e Pa squina). Leonora: lo non capisco, figlia, a che servono tanti ricci e tanti lisci. Basta a lavarti con l’acqua pura come facevo io al mio tempo; poiché voialtre giovani sete a guisa di vetro che tentato si rompe, e ogni poco l’ammac- chia; talché bisogna stia chiuso, che non sia tocco, e lavarlo semplicemente, che stia net to, e non ammacchiarlo con tante lorde cose che vi mettete sul volto. Mi hai intesa? Lavinia: Vi ho intesa, ma... Leonora: Che vuol dire quel « ma »? Lavinia: Ma voi altre donne, perdonatemi se ve 10 dico, come giongete al secco, dite: al mio tempo non fu così. Al mio tempo feci, al mio tempo dissi: non avvertendo che il mon do è stato sempre come oggi e se a voi pare altrimenti è perché, essendo vecchia, vi è mancato il potere e non il volere. Leonora: A me questo? Così si tratta la madre? Questa è la riverenza che mi porti? Questi sono i consigli che ti ho dati? lo son vec chia? Da che tempo in qua sei divenuta così sfacciata, presuntuosa e ignorante? Va via, non mi star più dinanzi, (Lavinia esce). Povera Leonora, misera Brianda, a che strano passo ti vedi. Pensavi pur d’avere una figlio la che doveva esser la quiete della mente tua, e ora la vedi correre in fretta a ruvinarti del tutto. Se la mia trista fortuna mi ha toc co sin adesso nella robba, nelli mariti e nel la persona propria, al presente per colmare 11 sacco, tenta di toccarmi anche nell'onore. Ma che fa Pasquina che non viene? (Chia ma). Pasquina... Pasquina (da dentro): Signora... Leonora: Che fai? Perché tardi tanto? Pasquina: Adesso adesso, che mettevo l’aco al buco del filo. Leonora: Come? Pasquina: L’aco ... (sbadiglia). Ma già, tanto non capite. Leonora: squina? gli occhi. Imbriaca che sei, ancora dormi, Pa Pasquina: Non dormo, no, ma tenevo serrati Leonora: Vieni fuori, oh insomma. Non ti ver gogni a farmi star tanto in strada? Pasquina (comparendo): Eccomi. Leonora: Allora? Pasquina: Sappiate, signora, che Lavinia è una triste figliuola. Fa certe cose che non mi piacciono, e io volendola avvisare, mi ha dato delle busse che ancora mi fa piangere. Leonora: E cosa fa? Dimmelo, Pasquina mia, che oltre ti vendicherò delle busse, ti pro metto ancora un beveraggio d'importanza. Pasquina: Perdonatemi, signora, che non lo pos so dire, perché mi ha minacciata dicendo: se tu dici che io faccio l’amore con il Napoli tano, t ’ucciderò tutta tutta. Leonora: Dunque con il Napolitano fa l'amore? Bella scelta, per certo. Vieni qua, dimmi, il Napolitano è innamorato di lei, o ella di lui? Pasquina: lo non dico questo, siatemi testimo nio, ma lo dite voi. lo so che si muore per quel balordo e lui non la può soffrire. Leonora: Ah, sì, eh? Lascia fare a me. (Rientra in casa). Pasquina: Signora, non dite che sono stata io che ve l’ho detto, che passerei pericolo del la vita. (Si volta). Alla fé, che imparerà a batter le serve senza proposito. (Vede com parire Gialaise). Ah, Gialaise! Gialaise: Pasquina... Pasquina: Uffà. Gialaise: Ferma... tu me buoi muorto, Pasquina, se non fai che fuireme. Anzi, quanto chiù me fuji, chiù ti viengo appriesso. Pasquina: Ma tu che vuoi da me? Lasciami stare che non ti voglio, no, no, e no. Gialaise: E io ti voglio, si, si, e si. Ahi! Pasquina (ride): Ah, ah, ah. Gialaise: Ca ridi? Traetorella ca squarti cori, sparti pietti, apri vene e bevi sangue delle perzone. Non fuire, per l'arema delIi muorti tuoi. Vide ca faremo ridere Roma, oie, ca se tu curri da ccà, io te viengo da ccà. Pasquina: Oh Dio, come sei fastidioso. Non t ’ac costare, vedi, che ti darò un pantofolo sul mostaccio. Gialaise: Accideme, ca non me curo de morire pe chesse mano bellissime, ianchissime e nudissime, chiù belle, chiù ¡anche e chiù nude della bella, ¡anca e nuda mano ca disse lo Petrarca. Pasquina: È pur lì, e mi vien pur dietro. Vatti con Dio, lasciami andare presto a casa. Gialaise: Fermati no autro pocorillo. Ferma, non ti straccare a correre. Aggi allo manco pietà de chissi delecatissimi piedi. Non fare corno fece Dafne e chilla ca se chiamava Siringa ca, secondo dice lo Metamorfosio, la prima pe fuire Apollo diventò lauro, e l’altra pe fuire lo dio Pane si converse in canna. Pasquina: A che servono queste favole? lo non ti intendo, né ti voglio intendere. Va via, va va. Gialaise: Non sai che gli esempi movono -chiù ca non movono le parole? Ti metto chisso esempio 'nante azzò sani, aiuti e soccorri uno ca è feruto, muorto, arzo per amor tuo. Pasquina: Vorrei che da vero fosti ferito, morto ed arso, per non sentirti più. Vedi, se non mi lasci, griderò forte. Gialaise: E io strillerò chiù forte, per farete perzì castigare dalla iustizia, se mo me vuoi accidere, pecché chi può sanare chillo ch'ha male, e non lo sana, l’accide. Pasquina: Non ti vergogni? Sei gentiluomo e ami una servitrice? la fa diventare nobele, essendo Gialaise: Lo faccio pe sementare la nobeltade meia; pecché l’ommo incorporándose con la donna la femmena materia ca concepe e non dà. Tale ca tu conceperai la nobeltade ca ti darag- gio io e sarai chiamata la signora Pasquina, e non Pasquina. Pasquina: T’aggiri se pensi ingannarmi sotto queste false promesse. Che così dite voi altri uomini, insin che avete l’intento vostro; ma poi ne piantate nel bel mezzo. Gialaise: Non me fare iurare, Pasquina, ca io dico lo vero, e la ragione è chesta: io songo nobele e ricco; non me manca autro pe stare contiento, eccetto d'avere no viso d’angeli Ilo corno chisso tuo, che Angelina ti dovresti chiamare, e non Pasquina. Pasquina: S'è così, perché non prendi la signora Lavinia, che è bella, ricca e nobile, e poi t ’ama tanto che è peccato a non amarla? Gialaise: Amore non è autro ca compiacimento. A me non compiace Lavinia, e perzò non la pozzo amare. Pasquina: E tu non compiaci a me, e perciò non posso amarti. Gialaise: Beata a te se me ami, Pasquina. Ca oltre l’essere di Sieggio e ricco, songo non- demeno valoroso con l'arme in mano, ch'à no bisuogno vaglio pe quattro, e pe sei an cora. Dimandane la chiazza dell’Ormo a Na- pole, quanno me furono sopra na centinara di Spagnuoli, ca feci no fiumale di sangue. Pasquina: Per staccarmi da costui, vuo' servirmi d’un bell'inganno che mi è sovonuto or ora. Gialaise: Ca marmori tra te stessa, Pasquina mia? Pasquina: Dico che vorrei vedere la prova or ora. Fate conto che ti fosse un inimico da vanti, l’altro di dietro, l’altro dal lato sinistro, e l'altro dal destro. Come faresti a guar darti da tutti? Gialaise: Chisso è facelissimo. Ecco ccà. lo met to mano contra de chisso ca me vene denan- te, e poi salto di quarto contra de chisso ca vene de sinistro; sbando da schiena contra de chisso autro ca vene da destro, e poi co na bella girata corro contra da chillo ca vene dereto, gridanno: Ah, mulo cornuto! Ah tra demento, ah? Con inganni, ah? ed entro in casa. Pasquina: Or resta tu ingannato, che ti lascio Gialaise: Ah, cornutiella, fuiste, neh? Non te curare ca se no autro iuorno m’incappi alle mano, non me scapperai chiù. Ma bestiale ca songo io, dannare accosì reserbato con le donne, le quale non sanno resistere alIi fatti, se bene resisteno alle parole. Doveva venire subbeto alIì fatti e lasciare lo circue- to di tante parole. Ma che pozzo fare se Amore m’have levato lo intellietto, la memo ria e la voluntade, de manera ca non songo chiù lo signor Gialaise? lo conosco aperta mente ca chesta non è. pare mia, non è tanto bella corno l’ommo si pensa. Vedo che m’odia corno la quartana, e non pozzo fare ca non li voglia bene. Anzi, quanto chiù mi strazia, tanto chiù me sforza ad amarla. Ora provo ca non nce può mettere né freno, né legge agli amanti. Fio perzo Cuosemo, ca mera tanto fedele servidore; essa mi burla, io mi consumo, lasso l’esercizio della cavalleria, non penso ad autro, non mancio, non bevo, ed eccoti no iuorno na nuova ca Io segnor Gialaise è muorto. E diceranno chi11i Cava lieri: guai e mala pasqua li vienga, poi ca volette amare Pasquina. Ma chi esce de là? Non vorria ca me trovasse co la spaia sfo derata. Voglio ritirareme per infoderarla, poi ché per la còlerà non mi è concesso di po terla infoderare ccà così priesto. (Gialaise esce. Siparietto. Compaiono Cor nelia e Magagna). Magagna: Quanto è detto, è detto. Basta a sa pere che Camillo è un tristo figliuolo, aman do Lavinia contro la volontà vostra, e dando vi buone parole si consuma di robba e di vita a spendere e spandere a ruffiani e mes saggeri. Cornelia: Ah, Camillo, disleale. Camillo disamo revole. Camillo che t'ho riputato da figlio e t ’ho amato più che me stessa. E ora, a mal grado mio, senza parlarmi niente, prendi per moglie Lavinia, non ti curando di me? Ed è vero, Magagna? Magagna: Tre palmi più della verità. Ed ècci un’altra cosa che non si vergogna a dire: faccio più stima delle scarpe di Lavinia che di cento Cornelie. Che Cornelia? Adesso che è morto mio padre, terrò Cornelia sotto que sti piedi. Cornelia: Ahimè, come sempre restiamo ingan nate noi altre povere donne. Chi avrebbe mai pensato che sotto le dolci parole di Camillo si nascondesse il veleno? Ah, ingra to. Ah, traditore, falso, perverso, iniquo. Magagna: Mi dispiace, padrona mia, di codesta còlerà che vi pigliate. Lasciamo andar Ca millo e fate come vi dico. Accasatevi con messer Manilio che vi richiede o con quel- l'altro che arde e avampa per amor vostro. E quest’altro sarìa meglio e più al proposito mio. Cornelia: Chi è costui? Dimmelo, acciò mi pos sa risolvere. Dimmi, dunque, chi è cotesto giovane? Magagna: Oh, potta del mondo, attaccossi al giovane. Padrona mia, costui che io dico non è giovane, né vecchio, ma fate conto che sia dell’età mia. Cornelia: Come si dimanda? Magagna: Si confronta col nome mio. Cornelia: Dove abita? Magagna: Vicino a voi. Cornelia: È gentiluomo? Magagna: Signora no. Cornelia: È ricco? Magagna: Non è tal cosa. Cornelia: È bello? Magagna: Questo non ha. Cornelia: È dotto? Magagna: Mica. Cornelia: È valoroso? Magagna: Questo li manca. Cornelia: Che può avere dunque di buono, se gli mancano tutte queste cose buone? Magagna: È valoroso al letto, dotto alla bocco- ■ lica, bello magnatore, ricco di vane speranze, e gentiluomo che non sa fatigare. Ma poi ché voi sete nobile, ricca, dotta, bella e va lorosa, che ne volete fare di valoroso, dotto, bello, ricco e nobile, se non di uno che vi serva di dentro, come di fuora la trabacca? Cornelia: Parlate da par vostro. Ma è possibile che io non possa sapere chi è costui? Magagna: Mi vergogno a dirvelo. È uno che vi ha servito molt’anni, e voi meglio lo potresti rimunerare che accomodarlo in questa sorte. Cornelia: Tu sei pertinace. Dimmi chi è. Magagna: lo. Cornelia: Tu, sei? Magagna: Signora no, non sono io. Ma quando fosse io, che fareste? Cornelia: Che farei? Dillo tu, che so che dirai mi converrebbe fargli tagliare la faccia, la lingua e le braccia per esempio di tutti li sciagurati. Magagna: Signora no, non sono io. Cornelia: Voglio in ogni modo saperlo. Chi è? Chi è? Magagna: Ohimè, io. Cornelia: Tu sei? Magagna: Signora no, non sono io. È un altro. Cornelia: Chi è quest'altro? Magagna: lo. Cornelia: Oh, vigliacco, infame, ti cavarò gli occhi. Tu hai tanto ardire? Ti pelarò la barba. Magagna: Signora no, non son io. Cornelia: Or prendi, in malora, questo pugno. Magagna: Non te lo dissi io che disegno di pover'uomo non riesce? Non fate, di grazia, fermatevi che non son io. Ma quando dissi io, volevo dire... io non sto commodo adesso di dirvelo. Ohi, ohi. (Cornelia rientra in casa. Magagna resta a terra, tutto dolorante). O Magagna, in che mare magno ti sei ingol fato. Come ne potrai uscire? Mirate Amore in che amaro umore mi ha posto, in farmi innamorare di una cosa contro natura. Per ché se naturalmente ogni simile appetisce il suo simile, come dire il gallo la gallina, il paparo la papara, il corvo la cornacchia, il tauro la vacca, il cavallo la giumenta, l'asino l'asina, e voi siete informati che li signori amano le signore, li mezzani le mezzane, li poveri le povere, li servidori le fantesche, io mo che son servidore e amo la padrona, non è cosa contro natura? E il peggio è che se lo sa la corte, voglio esser abbrugiato senza infami? Pregiudicarai proposito. Deh, Magagna, can mastino, Maga gna, senza giudizio. Pigliate questo pugno, che lo meriti. E poi quest’altro, e quest’altro ancora. Non ti vergogni a pretender tanto? Tu, tu sei da tale? Ora piglia quest'altro. Dal l’altra parte risponde Magagna e dice: non dar, di grazia, che chi procura innalzarsi non fa male. È questa forse la prima padrona che s'è attaccata con li servidori? Allego solitus et consuetus. Dunque fatevi indietro, pugni. Ah, traditor Magagna, farai tu come fanno gli altri servidori tu all’onore del tuo padrone che ti è stato tan to cortese? Per il pensiero solamente meriti un altro pugno, e poi un altro. Replica Ma gagna, et dicit: che colpa è la mia se Amore è cieco e non mi fa vedere? Dunque se non son io, ma Amore, indietro pugni. Ah, vi gliacco, con Amor ti scusi? Deh, che è quel la maledetta frenesia e non Amore? Dunque se sei tu, pigliati questo pugno, e poi que st'altro. Ferma, dice Magagna, che essendo per via di matrimonio, cessa ogni difetto. Dunque indietro, pugni, e seguitiamo l’amo rosa impresa. (Magagna afferra la corda e si cala nel piano sottostante). Scena S ettim a Prigione di Sant'Anna. È l'alba. Dal finestrino entra una debole luce. Tasso si sveglia di soprassalto e si solleva dal giaciglio. Osserva lo zanni che scende lungo la corda dalla pedana alla prigione. Tasso: Chi sei tu che vieni a visitarmi a que st’ora, nel mentre giaccio coi sensi non for temente legati al sonno ma così leggermen te che il mio stato è ancora mezzo fra la vigilia e la quiete? Parla. (Lo zanni abbandona la corda per lo spaven to e si lascia cadere. Si lamenta, nasconde la testa ed agita le gambe in aria). Sei tu forse quello spirto gentile che suoli favellarmi nelle mie immaginazioni? (Lo zanni nega scuotendo la testa). Sì, sì, mi pare di conoscere la tua voce alla sua soavità, percioché non suona come l'al- tre favelle mortali, ma in modo così dolce ch'io argomenterei che tu fossi spirito di paradiso che, pietoso dei miei affanni, di scendessi dal cielo. (Lo zanni si dimena e si dispera). Ma se angelo non sei, né anima felice, che puoi essere? (Reazione dello zanni che vorrebbe parlare). Demone o anima infelice non stimo che tu (Lo zanni scuote la testa e nega). ... né so se i notturni fantasmi siano alcuna cosa oltre queste. Ma forse questo mio è sogno e tu altro non sei che fattura della mia immaginazione; e sogni sono stati tutti i ragionamenti che teco ho fatti per l'adie tro... (Lo zanni annuisce e si ritrae timoroso, men tre Tasso gli si accosta). ... conciosiacosaché, mentre il corpo dorme, l’anima non suole star oziosa; ma non po tendo esercitarsi intorno agli obietti este riori, si volge a quelle imagini delle cose sensibili, delle quali ella ha fatto conserva nella memoria, e di foro compone forme, in modo che non è cosa fuor di noi, che den tro simile al vero non possa figurare, e mol te volte accoppia quelle che non si possono accoppiar per natura. Laonde io dubito tut tavia di sognare, e di sillogizzar sognando, e che questa mia non sia veduta o udita, ma di udire e di vedere imaginazione. (Tasso siede accanto allo zanni). Ma dimmi, ti par ch'io sogni? Se dormissi, non potrei né vedére, né udire, percioché il sonno è legamento di ogni senso; ma io pur vedo. Se rivolgo gli occhi a quella finestra vedo che per le sue fessure già entra il nuo vo sole, sì puro e sì chiaro ch’è indizio di felice giornata. Odo parimenti la tua voce così distinta, che non ho di che dubitare. Pure, come posso credere che questa visio ne non possa esser falsa? Vedi come, per il mio vaneggiare, nato da soverchio d’affan no, io sempre torni nelle mie dubitazioni ed ai soliti sospetti? È vero che quel che s'ima- gina sognando è molte fiate così somiglian te che da uomo che sogni non può esser distinto; ma ben colui ch’è desto può age volmente conoscere la differenza delle cose vere e dell’apparenti. Così, se mi reco a mente alcun sogno passato, m'avedo di leg gieri di non sognare; poiché, mentre nei sogni non è ordine né continuazione, que sto ha le sue parti composte con tanta pro porzione che pare che il vero con il vero fac cia armonia. Laonde mi risolvo che questo tra i sogni non debba esser annoverato. Di sogno mi pare piuttosto che meriti più con venevolmente gran parte della mia vita pas sata; percioché in lei nulla rimirasi di vero, nulla di sincero e di puro, nulla insomma di stabile e di costante. (Tasso si alza, mentre lo zanni continua a guardarlo sbalordito e confuso). Or m’accorgo, dunque, d'esser desto o alme no vicino al destarmi, e d’aver dormito tut to quel tempo che alla considerazione di sì fatte cose non ho aperti gli occhi. (Buio). Scena O ttava Comacchio. Febbraio 1577. La corte è in attesa di provare il canovac cio sotto la direzione di Torquato. Intorno fer vono i preparativi. Tasso ordina la scena e diri ge l'esecuzione. Contessa di Sala (che impersona Lavinia): Tas so, diteci, cosa dobbiamo fare? Tasso: Vi dirò, signore, un po’ di pazienza. La sciatemi prima sistemare l’apparato. Isabella Bentivoglio (Leonora): Ah, non mi sono mai divertita tanto in vita mia. Lucrezia Bentivoglio (Pasquina): Questo carne vale del 1577, qui a Comacchio, è certo il più festoso che la corte estense abbia mai conosciuto. Anna Bendidio (Bianchetta): Il Duca, col nano suo Morgante, sta sempre in maschera e ieri l’altro lo ridussero a far da frate. Ercolino Tassoni (Camillo): Tutto ieri poi è tra scorso in giuochi, banchetti, balli e crapule varie, che ne siamo ancora tutti malconci e storditi. Ippolito di Gianluca (Magagna, zanni): Nel men tre, fuor di Ferrara, infuria la peste. Ercolino Tassoni: Solo voi, contessa di Sala, vi mostrate sempre fresca e desiderosa di nuo vi trattenimenti, come sarebbe il torneo di dame e questa nuova burla della commedia di Torquato. Conte di Scandiano (Gialaise): Ed eccoci, per compiacervi, noi stéssi gentiluomini e voi dame della corte a far da istrioni. Isabella Bentivoglio: Tali, per eccellenza e per l'invidia dei nostri bravura, da suscitare famosi comici Gelosi. (Tasso prova la pedana). Tasso: Sì, mi pare che possa andare. Proviamo un po’ quel siparietto. Facchino (Comediante-Leandro): Tira un po' quel siparietto... Tasso: Va bene, d'accordo. I lumi, ora. (Vengono disposti i lumi). Contessa di Sala (rivolta a Camillo): Ditemi, Er cole, non ho ancora visto scendere vostro fratello il conte Guido Tassoni. Ercolino Tassoni: Temo che non lo vediate così di buonora, signora. È ancora impegnato in camera sua con quella gentildonna piacenti na, vostra compagna, che iersera, come re dei festeggiamenti, si fece condurre a forza spogliata nel suo letto. Contessa di Sala: Credete scenderà per la reci ta, prima di sera? Ercolino Tassoni: Molto dipende dal giovamento Isabella Sburlatti, che trarrà dalla signora suppongo. (Tasso chiama gli attori). Tasso: Venite, signori. Prendete posto. Ora toc ca a voi. (Parte degli attori sale sulla pedana, altri rimangono ai lati). Contessa di Sala: Ah, finalmente! Ercolino Tassoni: Allora, Tasso, spiegateci bene la scena. Tasso: Beh, non c'è molto da dire. Voialtri, poye- ri giovani, siete stati ridotti in schiavitù dal la bellezza di queste signore ed ora ne an date, travestiti da schiavi, ad implorarne la grazia. Lavinia è qui! Venite, contessa di Sala (la dispone). Qui Cornelia e voi, signo ra Anna Bendidio, statevi qui dietro, pronta a comparire. infatti che il vostro personaggio della ruffiana com paia sul finire della scena. Il canovaccio prevede Bianchetta (prendendo posto, alla contessa di Sala): Eccoci così di nuovo insieme, dopo la quintana. Tasso: Allora, è tutto a posto? Bene. Non fate caso a me se qualche volta entrerò in scena per correggere posizioni e sistemare le rob- be. Avanti. Musica. (Salgono Camillo, Flaminio e Flavio, vestiti da schiavi). Camillo: La vera amicizia è quella dove i corpi sono diversi e la volontà non è più d’una. E poiché noi tirati dalla nostra mala sorte, confidandoci insieme, siamo uniti talmente che di tre persone si è fatta una sola volon tà, quello che ho chiamato insin adesso tri sta fortuna, spero chiamarla buona per l’ave- nire. Flaminio: Così si deve fare e noi abbiamo già fatto, poiché io liberamente concorro a dar Lavinia, mia sorella, a Flavio; e voi concor rete al pari a darmi la signora Ersilia; e uni ti poi spenderemo la vita, nonché l’artificio di parole, per farvi ottenere la signora Cor nelia, giacché non è vostra matrigna. Flavio: Veramente l’amico è un nome desidera bile, un rifugio d'infelice, un ricevitore di segreti, una quiete indeficiente, una felicità perpetua. Anzi, il sole, l'acqua e il fuoco non è più utile agli uomini, quanto è utile il vero amico. L’esperienza si vede oggi in persona mia, che senza darvi cosa alcuna mi avete offerto tutto quel bene che potesse aver mai in questo mondo. Camillo: E in questo si conosce il vero amico, quando senza disegno giova all'amico suo; perché incostante e perfido è colui che affet ta l'amicizia solamente per suo commodo. Orsù, attendiamo alla nostra impresa. Giac ché siamo vestiti da schiavi, con queste bar be posticce, non per altro eccetto che da noi stessi, con bell’artificio facciamo prova di persuadere a queste signore donne che ci siano amorevoli, stante che esse solo si Flavio: oppongono al voler nostro. Accostiamoci, che se io non erro, mi par di veder la signo ra Lavinia in finestra. Ed è pur essa. State saldo, signor Flavio. In vederla mi trema il cuore, suda il volto e aggiaccia il sangue. Non mi fido di parlare. Parlate voi, signor Camillo. Lavinia: Oh, chi siete? Che volete? Camillo: Siamo tre poveri gioveni lungo tempo schiavi dei Turchi e di corto liberati. Sia mo venuti da Vostra Signoria per dirle due parole: s'ella di degnarà d’ascoltarle, noi fa remo l’opera di carità chiestaci da uri altro povero schiavo, ed ella si libererà del pec cato nel quale se persisterà la vedremo or ora traboccare nell'Inferno. Lavinia: Questo è un gran premio. Dite pure. Camillo: Un gentiluomo di questa città, ritrovan dosi schiavo con noi, ne raccontò un gior no che, avendo lungo tempo amato la grazia e la bellezza vostra... Flavio: Con quel vivo e sincero amore che si possa amar già mai. Camillo: ... fu da voi discacciato, si partì e fu per disgrazia preso dai Turchi. Flaminio: Noi fummo dipoi liberati ed egli restò. Flavio: Voi siete quella per cui paté la catena e i ceppi. Camillo: Così vi preghiamo che abbiate com passione di quel misero... Flavio: ... di quell'infelice ... Camillo: E non comportate che, amandovi, si muora in tante pene. Flaminio: Se gli promettete la grazia vostra fare mo che il padre lo riscatti... Flavio: E quando non lo facciate di ciò degno, si contenta più tosto morire sotto quelle catene. Lavinia: Ditemi, chi è questo giovane? Flavio: Il misero ed infelice Flavio. Lavinia: Basta così. Non occorre dir altro. Camillo: E perché? Lavinia: Giungeste tardi, avendo rivolto l’animo mio in amar un gentiluomo chiamato Camillo. Flavio: Camillo? Flaminio: Che? Camillo? Lavinia: Premiando così il vivo amore che mi porta. Camillo: Camillo non l’ama, statene sicuri. Lavinia: Camillo mi ama, e io l’amo. Non acca de darne conto a voi. Andate via, e scrivete a Flavio che se vuol morire, muora. Flavio: Ah, Camillo. Flaminio: Questo tradimento, Camillo? Flavio: E Lavinia tanto crudele che vuoi che io muora. Dolente Flavio, tradito daM’amico e disprezzato da chi ami. Camillo: Non vi cada questo nell’animo. Confi date in me e credetemi che io non l'amo più, né voglio amarla, né so nulla di quanto ha detto. Fermi, no, che fate? Non vedete che è sua imaginazione? Flavio: Ah sì, eh? Camillo: Non vedete che sono sue parole det tate dall’odio grande che vi porta? le Flaminio: Su, asciugati lacrime, Flavio. E non ti disperar per questo. Al primo colpo non cade l'arbore. Flavio: Fermi, vedo uscir Cornelia. Flaminio: Accostiamoci qui, presto. Camillo: Ahi, Camillo, ahi. Amore fa l'istesso effetto in me che ha fatto nel signor Flavio. Parlate voi, signor Flaminio. (Escono Cornelia ed Ersilia). Cornelia: lo lo starò qui fuori aspettando; non voglio che né anco salisca in casa, voglio discacciarlo, me ne voglio mangiare il cuore. Infame, che mai fosti figlio di Alessandro. Traditore, che meriti ogni castigo. Ersilia: E via, signora madre, non correte in furia, raffrenate la collera. Chi sa se sarà vero. Vedremo d’informarci meglio. Salite ad alto, non conviene a star su la porta. Ma chi sono quelli? Flaminio: O gionta felice. Vi sta ancora la si gnora Ersilia. Ohimè, ch'io tremo e sudo. Fla vio, parlate per me, dopo che io avrò par lato per Camillo. Cornelia: Che cercate, gentiluomini? Flaminio: Cerchiamo Camillo. Cornelia: Chi Camillo? Flaminio: Camillo, nostro fratello. Cornelia: E dove sta? Flaminio: Sta in cotesta casa. Cornelia: Che cosa avete a far con lui? Flaminio: Vi diremo. Noi siamo Ragusei ed era vamo quattro fratelli: Camillo e noi. Accad de che fummo tutti presi dai Turchi, e Ca millo per buona sorte fu riscattato dal signor Alessandro, vostro marito, il quale lo chia mò e lo reputò per figlio suo proprio. Ha voluto anco la buona sorte che noi ancora siamo stati liberati, e venuti in Genova tro vammo il signor Alessandro morto, e ci fu riferito che Camillo si trovava qui in Roma, dove gionti ne siamo incontrati con lui; e dopo li cari abbracciamenti ne mostrò la ca sa, commettendoci che dovessimo venire a trovarlo. Cornelia: Che favola è questa? Flavio: È il vero certissimo. Anzi, Camillo ci ha confidato un segreto che, quando fossi mo sicuri di non offendere le orecchie vo stre, ci risolveremmo a dirlo. Cornelia: lo vo’ pure sentire il fine di questa comedia. Dite liberamente. Flaminio: Egli si ritrova così invaghito della bellezza vostra che, sebbene il suo petto arda come fornace ardentissima, non ha ani mo di scoprirsi e manda per mezzo nostro a farvelo intendere. Camillo (suggerendo): Se vi degnerete di accet tarlo per marito. Flaminio: Per marito. Camillo: Anzi, per servo. Flaminio: Per servo. Camillo: Che dico? Per schiavo. Flaminio: Per schiavo. Flavio: Che dite, signora? Cornelia: L’ingratitudine dei benefici ricevuti rende inabile l’uomo ingrato a riceverne de gli altri, lo amavo Camillo al paro della mia vita, ma poiché si è mostrato fraudolente e ingrato, l’odio a morte. Ora lo aspetto per scacciarlo di casa, come merita. Camillo: Che ha fatto Camillo? Egli fu sempre grato, fu sempre fedele. Cornelia: Non dite il vero, che fu ed è un tradi tore. Fu perché, fingendo con me dell'amo revole, ha amato Lavinia, tanto che mo la sposa. Flavio: Che dite? Flaminio: Che sento? Camillo: Non è vero. Flavio: Non era vero, eh? Camillo: Ma volete che io non lo sappia? Che doppia disgrazia è questa di Camillo, discac ciato a torto e chiamato falsamente traditore. Flavio: Non parliamo più di Camillo, ma di un altro povero giovane che con Camillo abbia mo ritrovato. Flaminio: Flaminio. Che, amando con tutto il cuore Ersilia, vostra figlia, è stato da lei trat tato male. Flavio: Laonde come disperato era risoluto di uccidersi, se noi non ¡'avessimo impedito. Flaminio: Sanate un che si muore, soccorrete un che si strugge. Flavio: Accettate un per marito che vi sarà ser vo e schiavo in perpetuo. Cornelia: Che dici, figlia? Ersilia: Dite a Flaminio che s’uccida a sua po sta, che poco o nulla mi si dà della sua morte. Ma cara madre, giacché me lo chie dete, che ne direste di lasciare a me Ca millo? Flaminio: Che? Camillo? Flavio: Di nuovo Camillo? Camillo: Oh, no. Povero me. Cornelia: Queste erano le lagrime? Questa era la compassione che avevi di Camillo? Per questo mi persuadevi? Per questo mi tratte nevi? Tira via, fraschetta, levamiti dinanzi, non mi ragionar più di quel traditore. E voi, perché v'odio come fratelli di Camillo, anda te a mal viaggio, e dite a Camillo che a que sta casa non osi accostarcisi più. (Escono). Flaminio: Ah, Camillo, Camillo. Così si fa, Ca- miIlo? Dunque Ersilia è pur tua? Dunque Ersilia per te non m’ama? Flavio: Per te Lavinia mi fugge? Per te Lavinia m’odia? Parla, traditore, disturbator di nostra pace. Parla. Che dici? Camillo: E che volete che io dica? Non vedete che tutte le stelle mi si son congiurate con tro? Uccidetemi, fatemi uscire una volta per sempre da tante pene, da tanti tormenti, lo disamato da chi m'amava, e per maggior pena amato da chi non voglio amare, e per maggior tormento riputato traditore da quel li che desidero servire, pensando di farmi bene ho fatto la mia rovina manifesta; e così mi trovo povero, discacciato, senza Cornelia, senza Ersilia, senza Lavinia, e senza amici. 0 Fortuna, Fortuna, contra di te grido, con- tra di te inaspro. Saziati pure. Tasso: Bene. Avanti ora, Bianchetta. (Landa deserta dell'inizio. Tasso guida per mano il giovane attore e Bianchetta, mentre s’alza il vento e infuria la tempesta). Bianchetta: Chi sarà costui? Morto non è, per ché non vi è sangue né ferita. Mi par che respiri. Olà, quel giovane... Camillo: Ecco, apriche piagge, non correre, l'er- be fioriscono su Fonde, e tirando il carro del sole non giunge la nave a tempo. Oh, quan te stelle per la campagna. Soldati, non son io, no... Tasso: Vien meco tu che fuggi. Passa, torna, che io non ti lascio. Bianchetta: Ohimè, che fate? Dove mi menate? Non mi stracciate. Lasciatemi. Camillo: Mirate la nave che bolle, e la luna intorno, s’uccide, e le lumache corrono. Che strani paesi! fonte si beve intorno il Bianchetta: Povero giovane, delira. Riparatevi, signore. Tasso (tenendo Camillo abbracciatoJ: « Qual sono, qual fui, che chiedo, ove mi [trovo, Chi mi guidò, chi chiuse, Lasso! chi m’affidò, chi mi deluse ». Camillo: Gli uomini e le donne ridono tutti. La tempesta fu breve. Corri, corri, arriva, arri va, ti seguo, si. (La tempesta cessa). Ma dove sei, Camillo? Dove sono gli amici? Ognun ti lascia. Che posso fare, abbando nato e solo? (Luci. Musica. Di nuovo tutta la corte riuni ta. Si balla il « ballo della torcia ». Entra un cortigiano, affannato). Cortigiano: Basta, smettetela con queste insul saggini. Il Duca Alfonso cerca il suo Mor- gantino e, poiché non lo trova, sta venendo da questa parte, adiratissimo. (C'è un comprensibile fermento in scena a questa notizia. Gli attori-cortigiani si passa no parola l ’un l'altro). Contessa di Sala: Il Duca sta venendo qui... Ercolino Tassoni: Presto, presto... Anna Bendidio: Il Duca, il Duca... (Le signore si rassettano gli abiti, si aggiu stano le acconciature. Tutti s’inchinano rive renti in attesa dell’ingresso del Duca. Solo Tasso resta ritto e come sorpreso di tanta confusione. Indugia. Li guarda con sussiego nel mentre s’inchinano. Sembra non voglia cedere. Silenzio. Poi, ad un certo punto, s’inchina anche lui). Buio. S ipario S e c o n d o t e m p o Scena Prima 1580. Carcere-manicomio di Sant’Anna. 16 giugno La cella nuda e vuota. In alto, in fondo, la grata. Tasso è su di uno sgabello. Legge, studia o scrive, al fioco lume di una candela posta su di una cassa. Entrano i guardiani. 1° Guardiano: Animo, signor mio, ci sono per voi delle novità. 2° Guardiano: E tali che si spera ne restiate questa volta soddisfatto. (Tasso non li guarda neppure, ma si limita a passarsi una mano sugli occhi affaticati dalla lunga veglia). 1° Guardiano: Il clementissimo nostro Duca, per farvi cosa gradita e rendervi meno dura la dimora qui in Sant’Anna, vuole che voi non abbiate più a giacervi sul pagliericcio in ter ra, ma che abbiate un letto vero, come co stuma ai cristiani. 2° Guardiano: Vi manda perciò questo baldac chino nuovo a quadretti con un tamarazo, una coperta azzurra, e lenzoli di tela. (Tasso non si muove). (I guardiani si guardano tra loro, sconcertati. Poi decidono di portar dentro egualmente le suppellettili). 2° Guardiano: Vi manda, inoltre, il ritratto del vostro signor Padre, come da voi ripetuta- mente richiesto. (A guesto punto Tasso scatta dallo sgabello e, senza dire una parola, strappa dalle mani dell'uomo il ritratto di Bernardo e se lo strin ge al petto). (Gli uomini escono e chiudono la porta). (Tasso si stacca il quadro dal petto e lo guarda). (Buio). Scena Seconda La pedana è stata rialzata e funge da grata. Il palchetto dei comici è posto ora al centro della cella. Sono in scena Tasso da Alessandro astro logo, Gialaise capitano napoletano ed il Come diante, che segue sempre Tasso, da Leandro. Alessandro: Se ben comprendo alla vostra fisio leone e sete per nomia avete un cuor di riuscire d’ogni impresa, per difficile che sia. Gialaise: È troppo Nondimeno, considerando la potenza d’Amo- re, vi pronostico che fra pochi giorni vi sot tometterete al suo imperio. lo vero, per l’arema delli muorti miei; e tu sì no bravo ommo avenno- me innovinato quanto tiengo allo stomaco, ca per amore di Pasquina si sface dintro la zuifatara di Pozzuolo. Alessandro: E quel che è peggio, ti fa amar chi t ’odia, e odiar chi t'ama. Gialaise: Da ccà la mano, ca te boglio essere scavottolo incatenatissimo poiché me tocchi l'osso piccirillo e me dai allo vivo. Hai da sapere ca io amo Pasquina, e issa m’odia; e fuggo poi Lavinia sua padrona, ca m’ama sprofondatamente. Alessandro: voi dite Lavinia, figlia di Leonora, che abita in questa casa? Gialaise: Appunto. Como diavolo sai chesso? Alessandro: So tutto, te l’ho detto. E ti dirò un’altra cosa, che questa Lavinia è amata da altri ed ella li odia a morte. Gialaise: Pure chesso ce sta scritto? Ed è lo vero, ca secondo aggio inteso poco 'nante da issa proprio, nella strata, e aveva inteso chiù prima da Cuosemo, servitore meo, no cierto Flavio figlio di Manilio l’amava quan to se poteva amare, e issa non volendolo amare, se pose in desperazione e se n’andò alla guerra. Appriesso dopo l’ama no cierto Camillo, e issa pe lo contrario non l’ama. Ben che mo intienno ca singa tornato Flavio, e hanno fatto na cierta 'mbroglia, e Camillo e Flaminio. Leandro: Sentite, padrone? Ecco che Camillo ama altra donna che Cornelia. A poco a poco si dischiarerà il vero. Alessandro: Sì, ma tu non intendi quella cosa d’imbroglia. Lascia fare a me, che ne caverò il costrutto. Gialaise: De ca cosa ragionate insieme secreta- mente? Lo boglio intennere, alla fè. Alessandro: lo parlo che voi dite Camillo, figlio di Alessandro genovese, il quale già è morto. Gialaise: Fusse muorto diece anni arreto. Ca singano mardetti quanti genovesi si trovano. Alessandro: E perché tanto male? Che cosa vi ha fatto? Gialaise: Se isso non veniva ccà, Camillo non ce sarìa benuto, e Pasquina non terrìa la parte sua, ca pe conseguenzia me dà so- spietto ca se amano io piglio palicchi. insieme, e Alessandro: Di sorte che il padre ha da portar Cornelia. questo. Gialaise: È lo vero, pe vita tua. Aspetta, aspetta ca mo me n’allecordo. Leandro: Or sentiamo che altro intoppo sarà Gialaise: Stannome a sguazzare co na signora romana delle principalissime, spiai ca in cierte case rotte lloco vicino, si travestiva no da schiavi Camillo, Flavio e Flaminio. Camillo diceva ca essenno muorto Alessan dro, quale veramente non l’era padre, se boliva sfocare la fantasia co Cornelia, Fla minio co n'autra giovane ch’have lo nome in Lilia. Alessandro: Ersilia, volete dir voi. Gialaise: Si, si, Ersilia. Ora mirate ca fa la virtu- te a sapere onne ncosa. E Flavio co Lavinia. Chesso è chiIlo ca intesi. Lo muodo no me curai d’intennerlo, pecché in chello medesi mo istante venne la detta signora, e brac- ciannome dereto, e scoppannome docemente 'ncoppa Io Metto, le feci compotare « luna quater latuit ». Alessandro: Ahimè, ahimè. Leandro: Che fate, padrone? Che cosa avete? Dissimulate, non vi scoprite. Volete credere alla dapocagine di costui, che secondo voi l'imboccate le parole così aggiunge e rigiun ge a suo modo? Alessandro: Servo traditore, moglie infidele... l’iniquità del figlio? Ah, non è giusto, signor Giovan Luigi. Gialaise: Ora lassamo no poco stare chissi cun- ti, ca io non pe autro songo benuto a tro- varete avenno intiso la fama tua, eccietto pe sapere ca fine averà l'amore mio co Pa- squina, e sa ti fidi di farmela disonestare. Alessandro: Adoprarò tutta l'arte, metterò ogni cura che restiate soddisfatto; ma prima vor rei intendere l’imbroglia che dite aver ma chinata Flavio, Camillo e Flaminio. Gialaise: Se voi sapite onne ncosa, come 'no sapite chess’autra ancora? Alessandro: lo so che Camillo è innamorato di lasciami. Leandro: Che fede si può prestare alle sue parole? Che se Camillo e Cornelia s’amas sero, come voi supponete, stando essi insie me, non avrebbero bisogno di travestirsi, né d'artificio, né d’imbroglia, come dice questo vantatore. Alessandro: Ohimè, Leandro, che io me lo vedo come in uno specchio. Gialaise: Ca dite di specchio? Lo boglio inten- nere, alla fè. Alessandro: Diciamo che dentro uno specchio vi faremo venire la vostra Pasquina più bella che mai. Gialaise: Aspetta, aspetta. Ecco ccà lo spiec- la saccoccia; no te l’aggio intro chio, ca tricare chiù, pe vita toia, fammela benire chella cornutiella e poi se hai bisuogno di quarche favore a Napole, appriesso chilli reggienti, presidenti e lo Viceré, lascia fare a me, ca te siervo alla coscia. (Compare Pasquina). io Pasquina: Bisogna avere cento braccia, dugento mani e quattrocento piedi per servir la pa drona. Mi manda a vedere se venisse in casa lo strofilo o il strongolo, non me ricor do bene. Ma ohimè, ecco Gialaise. Vuo’ le spalle, e passar pian piano per dietro fermarmi lui si parte. in quel cantone sin che Gialaise: Signor astrologo, te bedo moto cogitabondo. Ca dici? Non darai chesso gu sto a chi prova di continuo l’amoroso disgu sto? Leandro: Averti, padrone, che quella figliuola che è passata di là, credo certo sia Pasqui na. Dissimula, fingi e vedi di dar la pastura a questo bufalo vestito di seta. Alessandro: Lasciane a me il pensiero. Or tieni così lo specchio, signor Giovan Luigi, e mira bene colei che sta dentro. Gialaise: Oh, meracolo grandissimo! Oh, vertute terribile! Chesta è Pasquina. È puro issa, Pasquina. Oh, Pasquina. Non bole dicere autro, eccietto ca me passi ccà na spina. Abbracciami, baciami, vita mia, baciami, ba ciami. Alessandro: State saldo, signor Giovan Luigi, indietro, perché si l’incanto e Pasquina ci dispar guardatevi di voltarvi disfarrebbe rebbe per sempre. Gialaise: Si, se io fosse pacchiano come fu Orfeo, ca pe voltarese indietro perdé la sua Euridice o Euridice; non m’allecordo mo sa bole essere breve o longa; ma starò contem plando sempre chesso spiecchio, dove s’in- serra quanta bellezza ha sotto e sopra l'uno e l’autro cuorno del Tauro e la fanciulla di Titone. Leandro: Oh, che solenne bestione. Gialaise: Chesto è n'autro diavolo. Pasquina ride e pare che se burle de me. Alessandro: Bonum signum. È segno di mitiga zione, è segno di pace. Gialaise: 0 gioia mia bella, famme no segno di pace, e no di guerra, lo me t'arrenno, me te dò per vinto, accostate, parlarne, basciami, balsamo aromatizzante. Ora chessa sì che è bella. Me fa le fiche. A che proposito? Alessandro: Dinota che appresso le frondi ti darà li frutti preziosissimi. Gialaise: S’abbassa mo, e piglia na preta da Alessandro: Significa volersi inchinare alle tue voglie, e romper la durezza del suo cuore. Gialaise: Alza pe dareme e poi se retira. terra. Alessandro: Dimostra esserti stata crudele e ora, pentita, si ritira. Gialaise: Adesso torna a ridere, e pare ca co le cinabrissime labra me dica: bestia, bestia. Alessandro: Eh, non signore, se ben dice: ben mio, sta; ben mio, sta. Gialaise: Oh, bene mio, sto. E se tu me pro io staraggio tanto quanto metti de stare, piace a chessa faccia d’imperatrice. Leandro: O modello di tutte le sciocchezze e vanità del mondo. Gialaise: Aspetta no poco; sbatte mo lo pugno sopra la chianta della mano, e par che dica: schiatta, schiatta. Alessandro: Pesta li duri e crudelissimi suoi pensieri, per farli molli e pietosi. Gialaise: « Pietà, signora mia, pietà signora, Dell'arma ca pe te s’afflige e accora ». E dì ca lo Petrarca faccia li vierzi accosì pronti come li faccio io. Leandro: E dì che si trovi un altro sciocco come sei tu. ponta piede. Gialaise: Adesso auza la gamba pe dareme na Alessandro: Denota che la bellezza sua sarà sollevata accostandosi a voi. Gialaise: Chesso ce lo prometto cierto, ca la faraggio allo manco nobile de cinco quarte. O Pasquina, passi allo quinto napoletano Sieggio. Leandro: Oh, che passato possi essere per le picche. Gialaise: Mira che atto è chiIlo; se congiunge le mani alla banda destra, e inchinando la testa alla sinistra pare ca se maravigli de me. Alessandro: Dice che tosto vi giungerete insie me, e si maraviglia come Amore dolcemente l’aprirà il lato manco per voi. Gialaise: Così proprio fece allo Petrarca: «Amor con la man destra il lato manco / M’aperse». O vita mia, bellina, zuccarina, dolcina, mel- lina, mannina, Pasquina. Leandro: O guffone, bestione, cicalone, asinone, ignorantone. Gialaise: Ora chisso sì, ca è segno de crudele. M'ha dato no punio alle spalle, e sbatten- nose le mani vicino all’orecchie, se n’è sfrat tata vassa vassa dentro la casa, lassannome scuro chiù ca la pece negra. Leandro: Bellissima proprietà, del certo. Alessandro: Ferma, signor Giovan Luigi. Oh, che mirabil segreto col dar del pugno ti risve glia. Con le mani alle orecchie e con l’intrare in casa t ’avisa che bisogna trasformarsi in quell’animale che ha l'orecchie così lunghe, e le sbatte in quel modo caminando così basso. Gialaise: Ca? Ca? Trasformarse in un asino? Alessandro: Di quella sorte sei per entrare, animali? altramente non vi sarà garbo; perché, essen do serva, non avrà altra comodità di questa. Gialaise: Dunca, dunca, dunca. Non me lo fare dicere, pe vita tua, ca in pensarvi solamente mi schiatta sso pormone. Dunca lo signor Gialaise in un a? Alessandro: In un asino, signor si. Lo voglio finir io, poiché voi lo lasciaste. Forse sete più di Giove che non si sdegnò trasformarsi in tauro e in cigno per conseguir Europa e Leda? Gialaise: Ora mo si, ca m’affoca lo cauzone. Vi ca ncè differenzia da chesso a chello, quanto dallo cielo alla terra. Alessandro: E che differenza c'è? Non sono tutti Gialaise: Songo animali troppo, ma songo ani mali chiù onesti ca non è l'aseno. No' bor- rìa ca se sapesse tale cosa a Napole, pe la vita de tutti li muerti miei. Alessandro: Mi fate ridere contra mia voglia, vedendo che incautamente preiudicate alla bontà de quel venerando. Volete veder se l'asino è buono? Che quando si vuol descri vere la bontà di un uomo, si dice: è tanto buono, che è un asino. trasformò Gialaise: Hai troppo rascione, alla fè. Alessandro: Dall'altra banda io non voglio che attualmente vi trasformate in quell'animale. Ma fare una forma simile a lui, dentro la quale andrete voi e intrando in casa di Pa squina senza sospetto delle genti, l'aprirete; restando voi l'istesso che sete al presente, godrete facilmente la vostra desiderata. Gialaise: Aspetta, aspetta, ca mo m’allecordo in qualmente re Mida pure se aseno, de modo e de manera ca se l'ha fatto chello ca fu re, lo puozzo fare ancora io, ca songo cavaliero privato. Tanto chiù di chessa sorte ca m’avite ditto voi, signor astrolego mio. Ora, suso alle mani; tacite la forma ca mi trasformo. Alessandro: Di grazia, al tocco delle 24 ore verrete a trovarmi nel palazzo dove io sto, che trovarete ogni cosa in ordine. Gialaise: E io in chesso miezzo voglio ire a studiare Apuleio ne l’asino aureo, pe pigliare li giesti e lo muodo di corno m’aggio a gover nare, ca persi a esser asino nce buole capi tanía. Leandro: Non molta con voi, perché vi siete naturalmente. Gialaise: Vaso la mano di Vostra Signoria, signor astrologo mio. A rivederci, scavottolo vostro. Alessandro: A Dio, capitano. Leandro: Va pur con la malora, pailón di vento che sei. (Gialaise esce). Alessandro: Chi vide mai, Leandro, un uomo così sciocco come costui? Crederà anco che è calda la neve e freddo il fuoco. Leandro: Crederà in fine quanto voi volete. Ma come faremo se ritorna per la trasforma zione? Alessandro: Non mancheranno occasioni per distorlo da questo proposito. Or va, persuadi mia moglie che, essendo venuto un astro logo d'importanza in questa città, lo faccia venire in casa per pronosticare e vedere come passeranno le cose sue, e con questa occasione speriamo scoprir paese e certi ficarci del tutto. Leandro: Ma Cornelia, padron mio, non è così sciocca né così imprudente che, alla voce, non vi riconosca per il marito. Alessandro: Non mi riconoscerà, stai certo. Per ché in bocca simili palle che mi renderanno balbuziente. Or va. ingannerò mettendomi io la Leandro: Dio voglia che sortischi in bene, per ché il fondamento che si fa sopra un mobile, convien che rovini. (Mentre va). Mancava adesso il sospetto del Napolitano per far volare tanto più il cervello del padro ne. lo pur cerco, come creato amorevole e fedele, di ritrarneli quanto posso, ma indarno m'affatico. Bisognarà che corra questa bora- sca, insin che il vento della verità rassereni il cielo e acquieti il mare di tanti travagli. (Dal fondo compaiono le Maschere che, len tamente ed in silenzio, circondano II Come- diante). 0 mondo, veramente mondo d’ogni bene. Che è pur bene in te, ma non lo dai come a cosa propria, ma lo depositi per qualche giorno, togliendolo poi quando l’uomo pensa di vi vere più sicuro. In te non si trova stabilità, né fermezza alcuna; che a pena posto l’uo mo la togli subito. Non così tosto ci fai gustare il dolce, che diffondi l'amaro. Al mezzo del piacere ci sturbi. Non finisce il riso, che interponi il pianto. Non passa giorno senza molestarci, e in fine ti giuochi di noi alla palla, che, sbalzandoci più in alto, più ci abbassi. Mi sero è dunque colui che in te pone spe ranza, come è veramente misero e infelice il padrone che, sperando esser in grembo alle grazie, si ritrova oggi il più discontento del mondo. in possesso di una cosa, ce Scena Terza Sull’ultima battuta di Leandro, Tasso ha un moto di stizza. Si strappa di dosso l'abito da astrologo e lo getta in terra. Lo calpesta. Si il accosta al suo tavolo e traccia in fretta alcune parole sulla carta. Tasso (legge, mentre scrive): Poiché non mi è possibile rimuovere dall’animo degli uomini quella opinione che, per mia sciagura e per altrui malignità, credo si sia divolgata... (insoddisfatto, straccia foglio poi rico mincia). Sono alcuni anni ch’io sono infermo, e l'in fermità mia non è conosciuta da me; non dimeno io ho certa opinione di essere stato ammaliato. Ma qualunque sia stata la cagio ne del mio male, gli effetti sono questi: rodimento d'intestino, con un poco di flusso di sangue: tintinni ne gli orecchi e ne la testa, alcuna volta si forti che mi pare d’averci un di questi orioli da corda; imagi- ' nazione continua di varie cose, e tutte spia cevoli; la qual mi perturba in modo ch’io non posso applicar la mente agli studi pur un sestodecimo d’ora; e quanto più mi sfor zo di tenervela intenta, tanto più sono di stratto da varie imaginazioni, e qualche volta da sdegni grandissimi, i quali si muovono in me secondo le varie fantasie che mi na scono. Oltre di ciò, sempre dopo il mangiare la testa mi fuma fuor di modo, e si riscalda grandemente; e in tutto ciò ch’io odo vo’, per così dire, fingendo con la fantasia alcuna voce umana, di maniera che mi pare assai spesso che parlino le cose inanimate; e la la notte sono perturbato da vari sogni; e talora sono stato rapito da l’imaginazione in modo che mi pare d’aver udito, se pur non voglio dire d’aver udito certo, alcune cose e grida di uomini e particolarmente di donne e di fanciulli, e risa piene di scherni, e varie voci d’animali che da gli uomini per inquie tudine mia sono agitati, e strepiti di cose inanimate che dalle mani de gli uomini sono mosse, cosicché quando io prendo il libro per studiare o la penna, odo sonarmi gli orecchi d’alcune voci ne le quali quasi di stinguo i nomi di Pavolo, di Giacomo, di Girolamo, di Francesco, di Fulvio e d’altri che forse sono maligni e della mia quiete invidiosi. (Lo zanni esce dal gruppo delle Maschere e si avvicina al Tasso. Gli altri seguono, stupiti ed incuriositi, i suoi movimenti). Maschere (in silenzio, con meraviglia): Ooooh! (Lo zanni raccoglie l'abito stracciato che il Tasso aveva gettato in terra, gli si accosta di nuovo. L'obbliga a rimetterselo. Silenzio. Tasso ubbidisce). (Buio). Scena Q uarta Entra Magagna che trascina per un braccio Ersilia. Magagna: Talché... Ersilia: Talché con ragion mi doglio e posso dolere, che io sono la più scontenta tra le scontente giovani del mondo. Magagna: Questo pianto è proprio come il fumo dell’arrosto, che non ti giova a niente, per ché ti bisogna venire al monasterio, al tuo marcio dispetto. Camina dunque, e lascia tanti « talché », se non vuoi che ti calchi con un calcacoppolo la coppola. Ersilia: Eh, Magagna, il dolor non è perché io vadi al monastero, ma perché mi manda in quest’ora così sola, senza compagnia. Poteva pur tardare insino a domani. Magagna: Signora no, perché dice quel prover bio: il mal che tarda, piglia vizio. Averten dosi la signora che voi bestialmente sete innamorata di Camillo, farà bene a farvi pas sar di questa vita presente. Ersilia: Come di questa vita presente? Dunque mi farà morire? Magagna: Oh, potta, che m'è scappata. Ersilia: Ritorniamo a casa che, se sarà così, mi contentaré volentieri, pur che mi conceda che avanti la mia morte possa vedere o parlare al mio dolcissimo Camillo, il quale dà lume a questi occhi e dà spirito a queste labbra. Magagna: Tu ti pensi con le tue parole inzuc cherate farmi tornare indietro, ma t ’inganni, a fé. Camina pure, perché la vita presente non s’intende di farti morire, ma di passarti di questa vita presente, cattiva e triste, che menavi, a vita onesta e santa, come sarà al monastero. Ersilia: Eh, Magagna, non si cangia pensiero per cangiar loco. Quanto più m’allontano dal raggio del mio sole, tanto più crescerà in me il desiderio di scaldarmi al suo caldo, lo amo Camillo con zelo di matrimonio e questo zelo è pur onesto e santo. Ma che che cosa fai? Magagna: Mi accomodo questo pugnale, dubi tando di qualche repentino assalto, perché a colui che accompagna temine bisogna an dar vigilante. Ersilia: Si che, essendo questo mio zelo così onesto... Ma che motivi son cotesti? Magagna: Mi metto in guardia, e provo come ho da investire e offender colui che per sorte ne volesse assaltare. Ersilia: E perciò sarà bene a ritornare a casa, che l’andare a quest’ora per queste strade sospette mi inconve niente. temere d'alcuno fa meni? Magagna: Tu zappi nell’acqua, se pensi di ritor nar indietro. Camina e zitta. Ersilia: Fammi questo piacere. Magagna: Non posso. Ersilia: Per grazia. Magagna: Camina. Ersilia: Per pietà, almeno. Magagna: Mica. Ersilia: Oh, come sei crudele. Magagna: Crudelissimo. Ersilia: Che ferro ti cadde dalle mani? Dove mi Magagna: Orsù, già che siamo al loco deter minato, in questa parte rimota dove non saremo visti dalle genti, acconciati, Ersilia, e pazienza. Ersilia: Che pretendi di fare? Magagna: Di rompere... Ersilia: Che? Magagna: II stame. Ersilia: Che stame? Magagna: Vitale. Ersilia: Che vitale? Che vuoi? Magagna: Pertuggiare. Ersilia: Che? Magagna: Il donne! Ersilia: Che donne? Magagna: Vuoi la palla, mo? Acconciati, e zitta. Ersilia: Se pensi offendermi l’onor mio, morrò più presto. Magagna: Non voglio cotesto. Ersilia: Ma che vuoi? Magagna: Sei mai stata uccisa, tu? Ersilia: Io, no. Magagna: Piai parlato con nessun altro, che fos se stato ucciso? Ersilia: Neanco. Perché? Magagna: Acciò ti fossi informata della strada per la quale si camina alla morte. Ersilia: Ahimè, mi avedo che mi vuoi far morire. Magagna: Penso di si. Ersilia: E perché, Magagna mio? E perché tanta crudeltà? Ersilia: Magagna: Non ti bisogna più « mio », né « cru deltà ». Raccomandati l’alma, e finiamola. lo, morire? lo morire per le tue mani Magagna? E perché? Che t'ho fatto, io? Qual cagione ti move? Qual ragione hai? Ersilia: Se non burli, Magagna, come è Magagna: Risolviti presto, e dimmi come vuoi che ti uccida: sotto, da mezzo, o di sopra? tuo costume, dimmi il vero; che cosa ti spinge a volermi uccidere? lo so che non ti offesi mai, anzi ti ho giovato sempre. Da te come da te, non hai cagione di farlo. La signora, se bene è matrigna, e non madre, non sarà. Camillo mio neanco. Magagna: A che fine lo vuoi sapere, se a te non serve più di sapere le cose di questo mondo, avendo da passare all'altro? Accon ciati, su, cala la testa, e a perdonare. Ersilia: Deh, ferma, di grazia, fermati per cor tesia, Magagna. Magagna: Son sordo. Ersilia: Una parola. Magagna: Non sento. Ersilia: Sei turco? Sei barbaro? Magagna: Turco e barbaro. Levati, che ti dò. Ersilia: Eh, per vita tua, te ne prego, te ne sup plico: ascolta una parola. Magagna: Or dì, presto, che non vorrei che col il caldo del mio raffreddasse Ersilia: Dimmi, di grazia, chi ti ha ordinato che tardare si furore. mi uccidi? Magagna: Pur siamo al medesimo. Or leva, e non più parola. in breve, Ersilia: È stata la signora, Magagna? Magagna: Non so. Ersilia: È stato Camillo, che sdegnato forse delle indebite ingiurie dateli per Cornelia, e d’averlo scacciato di casa, cominciarà a ven dicarsi contra di me? Magagna: Quietati, che non è Camillo che ti fa morire; ma per dirla la signora Cornelia è causa che, amando più che la vita sua Camillo, ella disegnava pigliarselo per marito, e tu avendoli guastato il giuoco per le mani, ti darà scacco matto di pedina. Ersilia: lo morrò per questo? Ah, Cornelia, Cor nelia, che non da matrigna ma da propria madre t ’ho servita e onorata sempre. S’era tale il tuo disegno, me Io dovevi dire; che io contentissima restava in tu contenta e un tratto, bastandomi solo il mio Camillo nell’istessa casa. Magagna: Orsù, non più parole. Fermati che io Ersilia: Aspetta un poco, per pietà, insin che dichi due altre parole. Magagna: Ma siamo brevi, e presto, che io intanto passeggio. Ersilia: In che orrendo spettacolo ti vedi, Ersi lia infelicissima. Oh, cara mia madre, s'ora mi vedessi. E, o Alonso, mio carissimo pa dre, dove sei? Che ricasandoti con Cornelia, morendo poi mi lasciasti piccola, raccoman data tanto a questa crudel Medea. Vedi, vedi, che ora mi fa condurre al macello. Deh, spietata mia sorte, giorno infelice che io nacqui. Perché non mi affogai nella culla, poiché per amor io moro? Perdonami. Ca millo, e ti prego a ricordarti che quanto mag giormente si puote amar, t'ho amato io. aspettare, darti. lunga, non accade più in ogni modo di Magagna: Troppo sei lo mi risolvo Ersilia: Deh, Magagna, che crudeltà è questa? Che ti ho fatto io? Ricordati pure che tu alzo. eri servo di mia madre. Pensa all'affezion grande che ti portava mio padre. Considera che tu m’hai cresciuta sopra codeste brac cia; ed ora sarai omicida quasi di te stesso, quasi del tuo sangue? Magagna: È troppo il vero, ahimè. Ersilia: Non sai che sempre t ’ho sovenuto? Non ti ricordi che ti ho difeso? Chi riparava ai tuoi danni, se non io? La borsa non ti fu sempre aperta? Che m'hai cercato che non ti ho dato? Insino alle camicie ti ho concie di mia mano. Magagna: È troppo il vero. Uh, uh, uh. Ersilia: lo ti facevo magnar per tempo, ti ser bavo anco le reliquie della tavola, ti ho ripu tato da fratello, ti ho amato da sorella; e ora tu che dovevi essere il riparo della mia vita, il difensore della mia persona, hai ani mo di uccidere me, povera innocente infe lice pupilla? Ahimè, come non piangi per compassione? Magagna: Non pianger più, che mi tiri l'anima dall'antiporta del cuore, lo me ne pento. Ecco qua il pugnale. Uccidimi tu perché il torto è mio, la ragione è tua. Overo mettia mo mano al rimedio per salvare l’uno e l’altro. Ersilia: Il rimedio è facile. Lasciami andare, che io ti prometto partirmi di qua, con proposito di non ritornarvi mai più. (Escono. Compaiono Camillo, Flavio e Bianchetta.) Camillo: Non posso comprendere, Bianchetta, a che fine hai voluto che io mi rivestisse da Camillo e lasciasse quei panni da schiavo, quali veramente mi si convenivano, poiché dalle fasce mi furono dati in sorte. Perché? Flavio: Neanco io posso imaginarmi, Bianchetta, a che fine hai voluto che, spogliandomi da schiavo, mi rivestisse da Cosmo e ritor nasse a servire il Napolitano. Bianchetta: Signor Camillo e signor Flavio, sete giovani, e la gioventù non ha freno, ma vi lascia correre disordinatamente. Attaccatevi sempre ai consigli dei vecchi, se volete star bene. Queste che voi chiamate disgrazie, a rispetto dell'altre che abbiamo patito noi, povere vecchie, sono appunto come il piscio del gatto ad una gran pioggia; e noi che patite l’abbiamo, avemo anco il rimedio; che sapete pur quel proverbio: vanne al patito e non al medico. State dunque di buon animo e lasciate fare a me, che alla fine la pratica vince, lo vorrei che qui fosse il signor Fla minio, che sentisse anch’egli il mio diségno; ma si partì senza farmi motto. Orsù, rimet tetevi qui dietro ch’io vo' prima tentar Lavi nia. Appresso, signor Camillo, andremo da Cornelia e tenete per fermo che Bianchetta imbiancherà oggi il tinto dei vostri cuori. Batto l'uscio e voi all’erta. Tic, toc, tic, toc. Lavinia: Chi è? Chi batte? Bianchetta: Sono io, figlia mia senza peccato. Venite a basso, che vi ho da dir cose di grandissima importanza. Lavinia: Aspettate pur, Bianchetta mia, che Bianchetta: Quando le cose hanno buon prin la metà. Che dite, signor adesso vengo. cipio, sta fatta Flavio? Flavio: Ahimè. Bianchetta: Voi sospirate? Flavio: Sospiro perché natura, facendola così bella, non la doveva fare sì crudele. 1 Bianchetta: Riposatevi, che col tempo e con la paglia si maturano le nespole. Ma, olà, cheti, che già viene. Lavinia: Che cercate, Bianchetta? Dite breve mente quanto avete da dire, perché non vor rei che la signora madre mi cogliesse sola in porta. Bianchetta: Sarò breve, e così faccia Iddio la vostra ostinazione e lunghi gli anni a voi e a chi v'ama con perfetto amore. Lavinia: Se non m'avete a ragionar d’altro che d'amore, fate fine, e ritornate quando volete a casa vostra. Bianchetta: E perché? Sete voi di stucco? Voi sete pur di carne e d'ossa, così ben com posta e formata dalla natura che a viva forza bisogna ch’ivi s'annidi amor con arco e strali. casta e vergine. Flavio: Ecco nova Lavinia: L'amor mio è la risoluzion fatta di viver invenzione di farmi affatto disperare. Bianchetta: Che cosa è questa? E Camillo? Lavinia: Camillo non fu giammai amato da me; né l’amo, né l’amerò. Camillo: Ecco, Flavio, la mia innocenza. Lavinia: Di Flavio non accade parlarne, perché merita di stare perpetuamente in galera, do ve si trova ai presente. Flavio: Ecco, Camillo, la mia morte. Camillo: Soffrite, e sperare. Flavio: Una speranza mi resta, di non sperar più in tanti modi, che tenti di Bianchetta: Ma che t'ha fatto quell’infelice che farlo salute. lo strazi morire? Lavinia: Se io pensava che tu m'avessi a ragio nar di Flavio, non mi calavo a basso per tutto l’oro del mondo, e se non vuoi altro, a Dio. Flavio: Ahimè. Bianchetta: Ferma, scioccherella che sei, e pen sa bene che questi capelli , d'oro, queste ciglia d'ebano, queste guance di rose, que ste labbia di coralli, questi denti di perle, questo collo di neve, questo petto di latte, diverranno col tempo bianchi, bige, pallide, livide, nere, affumate e oscure. Anch’io, come sei tu, sono stata bella; anch’io, come fai tu, feci la ritrosa, la rigida, la crudele; ma nell’ultimo fui vinta dall’umiltà grande, dal soffrir lungo e dal patir molto del mio gentilissimo amante; e avertita del mio erro re biastemai il tempo perso e la mia sorte, che non mi diede persona che m'avisasse di queste cose. Sì che prendi l’aviso già che l'hai, e muta, muta pensiero, scioccherella che sei. Camillo: Oh, come dice bene. Flavio: Ma predica al deserto. Camillo: Soffri, e odi. Lavinia: Dimmi un poco, Bianchetta, non ti son pur diventati i capei bianchi, bige le ciglia, pallide le guance, livido il labro, neri i denti, affumato il petto? Che m’importa dunque d’esser crudele o pietosa se sarà tanto così come così? il collo e scurato Camillo: Questo è un bel passo da sciogliere. Flavio: Se ben lo scioglie, non farà niente. Bianchetta: Importa, figlia mia, che non ti rendi ingrata alla natura che ti creò bella, dotata di tante grazie, di questi tuoi doni, per esser pietosa e non crudele, che s’altramente fos se, t ’avrebbe dato coda come a serpe, unghie come a grifone, veleno come a basilisco, piede come a cavallo, bocca come a leone, e denti come a cinghiale. Talché, dispensa meglio questi doni di natura, e muta, muta pensiero, semplicetta che sei. Lavinia: E non son ben dispensati, stando così Bianchetta: Sarian ben dispensati, senza maritarmi? figlia mia, quando da principio ti fossi eletta questa strada andando in monastero. Ma poiché sei rimasta nel seculo, è forza che ti mariti e godrai il dolce nome di madre, il gusto soave dei figliuoli e il perpetuo contento del ma rito. altro che Flavio. Lavinia: Quando ciò fosse, mi risolverei d amar Flavio: Intendi? Camillo: Taci. Bianchetta: Chi? Ditelo liberamente, che io vi prometto di interporre l’aiuto ed il consiglio mio. Lavinia: Quello stesso che ho amato e amerò sempre, come voi sapete. Dico il mio Giovan Lui... che sente. Oh, cruda più che la tigre. Flavio: Ah, non potè finir « gì », per la dolcezza Bianchetta: Dunque volete cangiar questo con quello? Val più un pelo di Flavio che cento Giovan Luigi. Lavinia: Amor me lo impresse nell’animo, che né lima d’altrui persuasione, né scarpello di maldicenza me cuore. lo scancelleranno mai dal Bianchetta: Orsù, poi che così vi piace, a me anco piace. State allegra, che vi servirò in modo tale che questa sera avrete in casa il vostro Giovan Luigi. Lavinia: Volesse Dio. Bianchetta: Così sarà, e intenderete, lo so che egli non vi ama. Lavinia: È vero, il crudelaccio. Flavio: E voi la crudelissima. Bianchetta: E so, di più, che egli ama Pasquina. Lavinia: È vero. Pasquina (è comparsa alla finestra)-. Son qua. Bianchetta: Oh, che bel colpo da mastro che farò. Aprite bene l’orecchie. Io tengo stret tissima amicizia con Cosmo, servitore del Napolitano. Non lo conoscete voi? Lavinia: Conosco. Bianchetta: Oh, se costui per buona sorte mi capitasse ora avanti, sarìa molto al propo sito. Camillo: Vai innanzi,’ Flavio. Flavio: Già mi mettevo in via. Bianchetta: Ma eccolo. Oh, che buona fortuna. Cosmo?... Ehi, Cosmo... Flavio: Chi mi chiama? Oh, sei tu Bianchetta? Vi è la signora Lavinia ancora? Bacio le mani di Vostra Signoria. Lavinia: Ben venga il mio Cosmo. Flavio: Mio? È troppa grazia questa, che s’io Lavinia: Dico mio, che tu sarai il mio medico, fosse vostro, non andrei così come vado. se lo vorrai. Flavio: Così fosse servizio a Vostra Signoria di accettarmi, come io servirei volentieri per medico. Bianchetta: Or lasciamo questo, e intendi bene quel che si desidera da te. Tu sai già che il tuo padrone ama scioccamente Pasquina e disama questo ritratto della bellezza del mondo che l’ama con tanto amore. Flavio: Così noi sapesse. Or dite. Bianchetta: Per condurlo qui in casa della si gnora Lavinia, tu fingendo gli dirai che Pa squina è inchinata già alle sue voglie e desi dera che se ne venghi in forma di molinaro col sacco in spalla, come se venisse a pi gliare il grano; ed entrato si rimetta dentro la prima camera terrena, dove trovarà na scosta Pasquina. Flavio: Beh, che faremo con questo? Bianchetta: Faremo così che in luogo di Pasqui na si riponerà nascosta lì dentro la signora Lavinia; dove, standosi al buio, credendosi il Napolitano far con Pasquina, farà con La vinia. Intendi? Flavio: Intendo, perché no? Anzi, vi prometto Bianchetta: Orsù, le cose son in rassetto. Anda servire adesso adesso. tevene sopra, signora Lavinia, e mettetevi al l'ordine, che fra poch’ore sarete soddisfatta. Lavinia: Mi raccomando, e in man vostra ripon go l'onore e la vita mia. Bianchetta: Riposatevi, che sarete servita. (Lavinia esce). Orsù, che fai? Che pensi, Flavio? La conclu sione è fatta per gli ignoranti. Non intendi mo l'artifizio mio? Concludi, corri, va, met titi l’ale, e trova un abito di molinaro, col sacco e barba posticcia, ed entra in luogo del Napolitano in quella camera, dove poi non si trovarà Giovan Luigi con Pasquina, né Lavinia con Giovan Luigi, ma una coppia di voi felici amanti. Flavio: Sarei veramente felice quando entrassi come Flavio e non come Giovan Luigi. Bianchetta: Pazzo che sei. Sai tu che diceva la buona memoria di mia madre? Come la don na dolcemente prova, lascia la strada vec chia per Intendetemi ancor voi, signor Camillo. la nova. Camillo: lo vi intendo, vi ammiro, e stupisco Pasquina: Ah, così è?... Vuo’ informare di tutto del vostro mirabile artificio. la padrona. (Pasquina chiude la finestra e si ritira. Com pare Cornelia). Cornelia: Incauta e misera che io sono. Che faccio? Chi mi trasporta? A che fine sono qui? Dove ne vado? Che penso? Che parlo? Non ho luogo, né pensiero, né parlar fermo. Ogni luogo m’attrista, ogni pensiero m’an noia, ogni parlar m’affligge, s'io non veggio, s'io non penso, s'io non parlo di Camillo mio. Vorrei ire dove egli sta, pensar col suo pensiero, e parlar con esso lui, ma non pos so, infelice me, che io stessa fui ministra del mio danno. Non lo doveva scacciare, non pensarli male, non parlarli sdegnosa. Scioc ca Cornelia, che volevi più? Lo spazio di tanti mesi che secretamente l’avevi amato s’era rinchiuso in un punto solo che, dicendo di sì a quei schiavi suoi fratelli, Camillo era pur tuo. È vero che ti giovava la morte di Alessandro, per aver più sicuro il giuoco; ma noi potevi eseguire, dubitando che Ca millo non ti fosse veramente figliastro. Ma poiché, insensata, fusti certa che non ti era niente, che egli ti amava, ti voleva, ti ado rava, perché lasciasti? Deh, misera. Ecco da un inconveniente se guir l’altro. Puote tanto in te lo sdegno, la gelosia, che esponesti a morte Ersilia, quella povera figliuola, che al presente sarà stata uccisa; cose indegne non solo di te ma di tutte le donne indegne. Nondimeno, che pos so fare se Amore mi predomina, mi consi glia, mi scompiglia? Venga pur l'astrologo a sicurarmi che Camillo fia qui, che mi ama, l’odiasti, perché lo che ritorni a casa, e muora Ersilia, muora il mondo, e muora io, che morrei felice. Bianchetta: Eccola. Fermati, che io vado. Camillo: Ricordatevi di non publicare che io sia innamorato di lei, né ella di me, poiché il negozio passa ancora segreto. Bianchetta: Volete imparare alla gallina di ru spar, voi? Cheto, e senti. Oh, che pietà. Oh, che fallo ha commesso, morir senza causa. Povero giovane. Cornelia dolente, che farai sentendo la sua morte? Cornelia: Ohimè, Bianchetta parla di morte. Mo rir senza causa. E parla di giovane. Costei sarà del certo Ersilia. Misera me, siamo scoperti. Bianchetta: Mi scoppia il cuore pensando con qual pietà, con qual umiltà chiedeva aita e cercava soccorso. Deh, se in me fusse la forza come è l’avrei tratto da quel pericolo. Cornelia: Vorrei fuggire, ma non so dove. Bianchetta: Deh, signora Cornelia, sete qui? A tempo vi trovo, ma trovar non vi vorrei, dovendovi dir cose di tanto dispiacere. Gio vane infelice. successo? Parla, raffrena le lagrime. Cornelia: Bianchetta, tu piangi? Che cosa ti è l’animo, Bianchetta: La giusta occasione che mi invita a piangere mi fa ingorgiar le parole, che non possono uscir dalle fauci. In che parte, ahimè, in che parte di Tartaria, ahimè. Piangi ancor meco, misera Cornelia. Cornelia: Tu vuoi ch'io pianga senza saper la causa del pianto? Bianchetta: Non lo sai, no? Lo sai molto bene, ma fingi di non saperlo. Era pur del sangue del tuo marito, e ti voleva tanto bene che non dovevi corportar la sua morte. Cornelia: Che dici, Bianchetta? Bianchetta: Dico che per un minimo sdegno non si doveva mandar a morire. Dovevi aspettare, che il tempo avrebbe accomodato ogni cosa. Cornelia: Ohimè, sallo altro che tu, Bianchetta mia? Bianchetta: E chi altri volete che lo sappia? Cornelia: Se mi ami, Bianchetta mia, come cre do, taci e tieni secreto, e prendi da me quel che vuoi, che quanto è fatto, è ben fatto. Camillo: Ben fatto, dice? Ohimè, costei mostra saper la morte mia, e ne gioisce. Bianchetta: E via, Cornelia, non siate così cru dele. Lasciate la còlerà, aiutate, soccorrete, che avete tempo. Cornelia: Come tempo? Dunque non è seguito l'effetto? Dunque ancor vive? Bianchetta: Vive e si raccomanda a voi. Cornelia: Ah Magagna, Magagna. Camillo: Intendo già. Magagna era il traditore. Cornelia: Dovevi eseguir l’ordine mio, e non lasciarti pigliar a parole. Camillo: La cosa è chiara. Bianchetta: Signora Cornelia, di che parlate voi? Cornelia: E tu di che parli? Bianchetta: lo parlo di quel povero carcerato. Cornelia: Che, Magagna è carcerato? Ed Ersilia dove sta? Bianchetta: Che Ersilia? Che Magagna? lo dico di quell’infelice Camillo vicino a morte se voi non soccorrete. Cornelia: Camillo? E dove sta Camillo mio? Camillo: Quel «mio» importa. 0 Amore, aiutami. Bianchetta: Nel carcere, condannato a morte. Cornelia: A morte? E perché? Bianchetta: Perché il povero giovane, avendo inteso da non so che schiavi che Vostra Signoria l'aveva discacciato di casa, si mise in tanta disperazione che scorrendo la città capitò in un luogo dove in quel punto era stato ammazzato un uomo; e sopravenendo la corte, e non trovando altro che lui, lo prese e menò in prigione. Egli, perché stava nel caldo della sua disperazione, confessò averlo ucciso per assassino, e così è stato condannato alle forche. Al presente avertito dell’errore, e principalmente che il morire è una mala cosa, si duole, si macera e si con suma che morrà senza colpa e senza aiuto di nessuno, lo passando di là lo viddi, ed egli mi si buttò al collo con le braccia del cuore, non potendo con le mani, legate a torto da quei lacci. Mi pregò strettamente che vi pregasse che l’aiutaste, poiché potete aiutarlo. Cornelia: Ah, Camillo, Camillo. Meriteresti la forca da senno, per la tua ingratitudine, per la tua infedeltà. Pure, vinta dall’amor grande che io ti porto, voglio in ogni modo aiutarti. Ma che rimedio vi sarà, Bianchetta mia? Bianchetta: Il rimedio sarà quella cosa per cui s’impastano tutte le cose. Cornelia: Che? Non v’intendo. Bianchetta: La pecunia. Cornelia: Bastano cento scudi? Bianchetta: Credo di si. Cornelia: E se non bastano, non mi curo di but tar via la robba, e appresso la vita. Dilli che stia di buon animo, che appresso manderò il mio procuratore. Camillo: Io mi ravivo tutto. Oh, come falliscono al spesso li giudizi nostri. Bianchetta: Signora mia, il pericolo sta nella tardanza, e perciò state contenta di dare a me il recapito, perché dove comparisce il Marchese di Santa Croce, non servono li procuratori. Cornelia: Dite bene. Aspettate, che vado a pi gliar i denari. (Esce). Bianchetta: Ecco due tordi ad un laccio. Che dite, Camillo? Non son io valorosa più della Amazone? Avremo denari freschi, speranze calde e buona volontà. Camillo: Voi meritate un colosso a perpetua memoria d’un’opra così rilevata. Ma che fare mo appresso? Bianchetta: Fermati, metti l’ale, e poi vola, e vola pian piano, che chi camina pian piano tu sai che fa buon passo. Ma, olà, rimette tevi nel pagliarotto, che già torremo i tordi, per noi fatti tornesi. (Torna Cornelia). Cornelia: Prendi, Bianchetta. Torna presto, soc corri quel misero, che, scampando uno, scamparai due vite... ahi (sviene). Bianchetta: Ohimè, tramortì, cadde. Che farò? Cornelia, Cornelia. Camillo: Tristo me. Vita mia. Cuor mio. Cor nelia cortesissima, che col pensiero di sal varmi, ne morrai tu degna di viver sempre. Cornelia: Camillo. Camillo: Cornelia. Cornelia: Camillo mio, sei qui? Camillo: Cornelia mia, sei viva? Cornelia: Viva, per viver sempre per te che sei la vita mia. E tu, come sei vivo, s’io t ’avevo già per morto? Camillo: Non potrò mai morire mentre sarai tu viva, perché sempre m’avivi col tuo vivace affetto. Cornelia: Entra, che poi diremo tutte le cose Bianchetta: Ite a goder, amanti, che io stipo i a pieno. contanti. Scena Q uinta C’è una gran confusione in scena. Le Maschere si rincorrono l ’un l'altra; scher zano, ridono, suonano campanelli, provano ad alta voce, accordando qualche strumento musi cale, spostano carte, aprono i bauli, ecc. Tasso passeggia nervosamente tra loro, av volto in una coperta. Spesso si arresta, si alita sulle mani, è colto da un dubbio. Riprende a camminare. Voce del Tasso: Del folletto voglio scrivere alcuna cosa ancora. Il ladroncello m’ha ro- bati molti scudi di moneta; né so quanti siano, perché non ne tengo il conto come gli avari: ma forse arrivano a venti; mi mette tutti i libri sottosopra: apre le casse; ruba le chiavi, ch'io non me ne posso guardare. Sono infelice d’ogni tempo, ma più la notte; né so se il mio male sia di frenesia o d’altro: né ci ritrovo miglior rimedio che il mangiar molto e compiacere all'appetito per dormir profondamente. Digiuno spesso; e spesso, senza digiuno fatto per divozione, digiuno perché sento lo stomaco pieno; ma quelle volte non dormo. E benché mi venga fame, abbia gusto delle vivande che son delicate, mi paia di poter digerire, dorma spesse volte quietamente, e faccia lunghi sonni, nondi meno non mi pare d’aver alcuna sicurezza della vita; e la qualità del male è così mara- vigliosa, che potrebbe facilmente ingannare i medici più diligenti: onde io la stimo, opera zione di mago. E sarebbe opera di pietà ca varmi di questo luogo, dove agli incantatori è concesso di far tanto contra me senza timor di castigo, perché hanno il favor dei principali; e la verità è oppressa dai miei nemici, che sono molti e di molto potere ed implacabili. (Lo zanni improvvisamente con un gesto fa zittire le Maschere). Zanni: Sssst... (Silenzio). tra la servitù de Tasso: Signor Maurizio, Vostra Signoria si ricor di ch’io ho quaranta anni, e più; venti dei quali ho spesi la casa la prigione... Onde sarebbe d Este, e ne tempo di por fine alle speranze o con la disperazione o con la grazia, come più con verrebbe a la grandezza loro, e a la qualità mia e dei miei falli; dei quali attribuisco una parte alla fortuna, un’altra alla natura, e v'ha parte ancora la violenza e l’inganno dei ne mici; di maniera che la mia propria è la mi nore, e la più leggiera. Abbiatemi compas sione, e sappiate ch’io son misero perch'il mondo è ingiusto. (Lo zanni prende Tasso, tra l'ilarità gene rale. Lo imita, lo beffeggia e da ultimo lo pone a sedere su di uno sgabello al centro del palcoscenico). (Da questo momento in poi le scene si sus seguiranno veloci su quattro pedane, poste a varia altezza, tutt'intorno al Tasso, ed in seguito simultaneamente). Scena Sesta Prima pedana. Lavinia, sola. Lavinia: Prima che io vadi nella camera terrena, dove starò aspettando il. sole di questi occhi miei, son risoluta di venire in porta per vedere se mia madre o altri sopravenis se; ma, poiché nessuno vedo, vado più sicu ra nel campo dove Amor dolcemente mi mena. Ma, ahimè, chi mi assale e pretende? Chi mi lega e ritiene? Che gelo è questo che mi va per Fossa? E chi mi vieta che non vadi? Mi avedo, misera, che Amor e Onor contendono insieme. Amor consente, Onor dissente. Amor invia, Onor disvia. Amor ac- cende, Onor aggiaccia. Amor permette, Onor vieta, che io non vadi. Ahi, che tra il si e il no, tra male e bene, tra fuoco e giaccio, e tra senso e ragione, finalmente mi trovo. So che se dal fuggir Giovan Luigi che mi fugge, e non lasciar Flavio che mi segue, è male I'amor di quello, sta bene l'amor di questo. Il fuoco dell'uno non arde, il giaccio dell’altro riscalda. Il senso mi distoglie, e la ragion mi raffrena. Non so che mi fare. Aiutami, Cielo, che in te sperando spero, e se ben vado, farai che resti salvo l’onor mio, e che io rispondi all’amor di colui che di ragione deve essere amato. (buio) Seconda pedana. Flavio solo, vestito da molinaro. Flavio: Ecco pur, cieco e semplice Flavio, che inavedutamente corri alla tua morte, a guisa di cieca e sempliciotta farfalla, che vaga del lume, suol volare su gli occhi altrui, che fastidito nell’ultimo da gli importuni assalti, l’uccide. Così tu, misero, per godere il lume del tuo vivo sole non t ’avedi che Lavinia, fastidita al fine della tua importunità, e mag giormente da" quest’abito che porti addosso, ti cacciarà via; e tu vinto dal profondo do lore ne morrai del certo; e del certo ne morrò. Infelice me, non tanto per causa del mio danno, quanto per il dispiacere che si prenderà la mia crudelissima nemica. Ma poiché Amor mi ha posto come segno a strale, è forza che io mi espona a quest’al- tro pericolo; che se bene l’uomo misero non crede a gran speranza, dopo la notte ne viene il giorno, appresso il torbido il sereno; e in fine che non può far un cuor continuo amando? Entrerò pure. (buio) Terza pedana. Franceschetto, solo. Franceschetto: Così si fanno le belle burle. Ca millo si credeva di aver colto il pero, ma io glie l’ho tratto dalle mani. Come lo viddi entrare in camera con la signora madre, pen sai subito alle triste miserie che, se ben son figliuolo, nacqui con li denti in bocca, e m’avverto d’ogni cosa. Càncaro, che dolci bascini si davano l’un l'altro. E allora pian piano volevano serrar l'uscio, ma mi misi a pianger e gridar forte, intanto che la signora uscì fuora, per saper la causa del mio pianto. Ma io, tutto malizioso piangendo, fuggendo, ed ella appresso, mi ridussi sotto la cantina, io letto: dove presto presto gettai un sasso nella cisterna, e poi subito con un salto passai da quell’altra porta, lasciando mia madre gridando: « Figlio mio, che sei caduto nel pozzo ». E, facendomi sopra di novo, serrai destro destro la camera dove stava Camillo disteso sul lo serrai con questa chiave che porto meco. Adesso che il merlo è in gabbia, non potrà entrare in selva, e mi risolvo di riferir il tutto a quell’uomo che trovai con Leandro, perché mi parlò un’altra volta in piazza, promettendomi un cappello con le piume e mi 11’altre cose, pur che io le dicessi quanto si fa in casa. Alla fè, ora che sta sotto le reti, li voglio schiacciare il capo, e io averò il cappello con le piume bianche, e mia madre possa perder Tanche. (buio) Quarta pedana. Pasquina, sola. Pasquina: Oh, che bel colpo. In un taglio tron- carò doi rami; la superbia di Lavinia e l’im portunità di Giovan Luigi. Quella imparerà non batter più le serve, e questo di non travagliar le donne da bene. Così paté chi prosume troppo; così merità chi disturba i fatti altrui. La vecchia traditora ha ordito la bella tela, ma io gli ho rotto il subbio nelle mani, di modo che non lo potrà più avolgere. Intesi già tutto il concerto allora, quando mi trovai a tempo in la finestra; che ora ho messo il cardine sulla porta della camera, dove prima era entrata Lavinia in loco mio, e dove appresso è entrato il gentil molinaro, di modo che non potranno uscir fuora men tre che io vado a chiamar la madre, il padre- gno e il fratello, per far castigar l’uno e l’altro. Dice bene quel proverbio di messer Alberto: chi noce altrui, paga con il tempo i falli sui. Vado di qua, che la strada è corta. (Luce su Tasso). (Tasso ride, applaude ogni volta battendo forte le mani, e partecipa non senza curio sità e meraviglia allo svolgersi degli intrichi attorno a lui). Tasso: De le camicie ho gran bisogno. Qui comincia a far caldo; e il vin fresco, e la neve, e il ghiaccio mi cominciano a piacere. Vorrei guarire in questo modo, poi che non ho potuto risanar con sciroppi e con le me dicine che non mi son state date, lo son pieno di tutte le malinconie, e di tutti i‘ pen sieri, e carico di tutti i fastidi del mondo; laonde ho bisogno d’allegrarmi, e di con forto; né posso averlo se non libero. (buio) Scena S ettim a Prima pedana. Camillo ed Ersilia vestita da moro. Camillo: Poiché Cornelia è perfida e crudele, dirò che ognuno è pèrfido e crudele, lo cre devo fermamente che l’amor suo fusse vero e che avesse pietà di me; ma fu finto l'amo re, fu cruda quella pietà. Ella m’introdusse bellamente in camera, ma uscendone poi, mi serrò dentro, con animo senza dubio di farmi uccidere, come ha fatto della povera Ersilia. Ma Dio, che spesso aiuta gli inno centi, mi mise in cuore che io calasse dalla finestra, la quale se ben è alta, mi son pur salvato illeso. Onde ella, ritornando con gli assassini resterà con il suo inganno ingan nata. Ma chi è quel giovinetto moro, che timido e sospeso se ne vien di là? Ersilia: Le pene mi son care, e li martirii mi son dolci per te, caro e dolce mio bene. Ma, eccolo, sbigottito e pauroso. Ohimè, tremo e temo. A Dio, quel cavaliero. Camillo: A Dio, quel giovinetto. Ersilia: Godo almeno di un saluto furtivo. Camillo: Che cerchi? Dove vai? Ersilia: E dove volete che vada, avendo ritro vato quel che andavo cercando? L’aria di Vostra Signoria mi piace tanto che, volendo, vi vorrei servire. Camillo: Vanne pure, che io ho altri pensieri nel capo. Ersilia: E io son qui per levarvi ogni pensiero, sicuro che conoscendo il mio servizio, ne re starete contento per sempre. Ma dove an date? Camillo: Dove mi piace. Che ne vuoi saper tu? Ersilia: Vuo’ saperlo, perché vi sarò sempre appresso come servo, che volontariamente mi vi dono. Camillo: Ti ringrazio di questa buona volontà. Procacciati d’altro padrone, che io non ho bisogno di servi. E pur mi sei dietro. Vat tene, dico. Ersilia: Non posso. Camillo: Oh, questa sarà bella. Che vuoi? Ersilia: Servirvi. Camillo: A me non serve il tuo servire. Ersilia: E a me giova che io vi servi. Camillo: Se tu non mi lasci, mi farai uscir dal manico. Ersilia: Fate come volete. Camillo: Tira via, fraschetta, non mi rompere il capo. E pur mi segui? Or prendi questo cal cio. Vattene in malora. Ersilia: E questo ancora sopporto pazientemente. Camillo: Ahi, che passò il tempo che io domi nava. Mi trovo adesso in così misero stato che lo cambierei volentieri col più vile e abietto del mondo. Ersilia: E perché? Camillo: Perché ho perduto ogni mio bene. Ersilia: 0 Dio, chissà se intendesse me. Aiuta mi, sorte. Camillo: Tu parli fra te stesso. Che dici? Ersilia: Mi doglio che non m'aiuta la sorte. Camillo: E a me peggio. Ersilia: Signor mio, quantunque giovane, so mol ti rimedi e ho pratica di molte cose che, volendo conferir meco i vostri segreti, cre do che vi potrà giovare. Camillo: Il mio male è senza rimedio. Ersilia: Ad ogni male è rimedio, fuorché alla Camillo: Ahimè, morte crudele. Ersilia: Dunque morte v'ha tolto il vostro bene? Camillo: 0 Ersilia, causa d’ogni mio tormento, d'ogni mio danno. Ersilia: Che sento. Dunque questa Ersilia è morte. morta? Camillo: Morta. Ersilia: E la sua morte vi duole? Camillo: Duole. Ersilia: Dunque voi l’amavate? Camillo: No. Ersilia: Perché allora la vorresti viva? Camillo: Per vederla in maggior tormento che di morte. Ersilia: Ahimè. Camillo: Perché ti duoli? Che cos'hai? Ersilia: Un dolor colico che spesso mi tormenta. Camillo: Hai bisogno di aiuto? Ersilia: No, che m’è già passato. Per quel mio stringere che ho fatto sopra la pancia. Camillo: Orsù, che io vado. (Luci residue su Tasso). Tasso: Perché debbo io non sol folle ma for sennato esser giudicato? Chi è stato ucciso da me, chi ferito, chi percosso? O chi alme no m’ha dimandato piacere che non labbia compiaciuto? Se dunque niuno mio scritto mi condanna per forsennato, se niun’azione mia, con qual ragione il signor Duca di Fer rara vuol come forsennato tenermi prigione? (buio) Seconda pedana. Alberto, Manilio, Magagna, Cornelia. Alberto: Chi tarda ad attendere mostra di voler negare e pentirsi della promessa. Ma, ohi mè, parmi sentir romore in casa della signo ra Cornelia; e se io non erro la voce è di Magagna. (Magagna esce piangendo e Cornelia col bastone in mano). Magagna: Ohimè, signora padrona mia, che ma le ho fatto io? In che t'ho offesa? Cornelia: Infame, omicida, traditore. Così si uccidono le povere figliuole? Ti farò mettere un capestro al collo. Magagna: Questo è un altro diavolo. E che col pa è la mia, se voi medesima me l’avete comandato? Ma non me ne curo, purché sia mo impiccati insieme, giuntamente, per ve dere se potessimo fare un figlio in aria, poi ché non l'avemo potuto fare in terra. Cornelia: lo te l’ho comandato. Dunque perché il padrone si trova in còlerà e comanda una cosa ingiusta e fatto scelerato, il servitore l’ha da eseguire? Signor no. Dovevi conside rare che io per còlerà lo diceva, e non che fosse stata così la volontà mia. Magagna: Di maniera che se io non l’uccideva, averia fatto meglio? Cornelia: Meglio, sì. Manilio: Questi parlano di uccidere. Che domi ne sarà? Che dite, messer Alberto? Voi sete cambiato in vista. Che vi è successo? Alberto: Oh, che intrico. Oh, che disturbo. Sap pi che questa è Cornelia, mia prima moglie. 10 la riconosco molto bene. Misero me. Né mi posso imaginare in che modo sia viva, s’io l’ebbi già per morta. Magagna: Se per sorte Ersilia fosse viva, che forfante. Magagna: Non tei diss'io che il povero va sem pre per terra? Orsù, ti voglio dir la verità. Ersilia è viva, come tutti li viventi. Cornelia: E dove sta? Magagna: Si è vestita da uomo e va cercando 11 suo Camillo. Cornelia: Che, Camillo? Per questo è fuggito dalla mia camera? Per andare a trovare quel la sciaguratella? Questo è concetto fatto da te. Ah, traditore, assassino, a me questo tra dimento. Ah? Magagna: Ora questa si che è bella. Se Ersilia è viva, è male. Se è morta, è peggio. Che domine pretendete da me? Che cercate? Non volete che Ersilia sia viva? Cornelia: Adesso vorrei che fosse morta. Magagna: Di questa maniera bisognerà tenere affittata la natura, che a modo vostro faces se e disfacesse le persone. meriterei? in casa. Cornelia: Meriteresti che io ti facessi ritornare Magagna: E niente più? Cornelia: E che più? Magagna: Quell’altra cosa. Cornelia: Che cosa? Magagna: La promessa. Cornelia: Che promessa? Magagna: Il matrimonio tra te e me. Cornelia: Tra te e me? Ah, vigliacco, poltrone, Cornelia: Non più parole. T'ho inteso già. Prov vedere io di sorte che tutti e tre restiate castigati. (Luci residue su Tasso). Tasso: A me, signori Napolitani, le camere dei giudici furono stanze dei barattieri, a me le chiese e i conventi dei sacerdoti, spelonche di ladroni, a me i parenti e gli amici, carne fici ed esecutori dell’altrui inaudita crudeltà. Terza pedana. Leonora, Pasquina, Alberto, Manilio. Leonora: Bada, Pasquina, che tu non t ’inganni, come suoli al spesso. Dimmelo chiaro: hailo tu veduto con gli occhi propri? Pasquina: Con gli occhi propri. Leonora: Entrar nella camera? Pasquina: Nella camera. Leonora: Come? Pasquina: E Lavinia entrò prima di lui. Leonora: Come? Pasquina: Prima di lui. Leonora: E, non così forte, che non son sorda. Pasquina: E li ho serrati di fuora. Leonora: Ah, traditori, disonorati. Parimi mil- l’anni che io mi sfoghi sopra di voi. Alberto: Moglie carissima, donde venite? Dove in còlerà? Che cosa andate? Perché sete ci è? Leonora: A tempo vi ritrovo, marito mio caro. Alberto: Che altro disturbo è questo? Entrate Andiamo, entriamo in casa. pur, messer Manilio. Manilio: Intriamo. Infine è vero che le disgra zie non vengono mai sole. (Luci residue su Tasso). Tasso: signor Maurizio, quando sarà quel gior no ch’io possa respirare sotto il cielo aper to, e ch’io non mi veda sempre un uscio serrato davanti, quando mi pare d’aver biso gno del medico o del confessore? (buio) Alberto: Traditore Quarta pedana. Alberto, Manilio, Flavio, Leonora, Gialaise. infame, a questo modo si tratta, ah? Così si fa in casa degli uomini onorati? Te ne farò pentire di sorte che, restando degli altri esempio, biastemerai il giorno che venisti al mondo. Strasciniamolo qui fuora, messer Manilio, così come sta dentro nel sacco, acciò passando la corte, lo porti di peso in prigione. Manilio: Ogni peggio se le conviene a questo ladro, che l'ho grandemente contra i Napo litani, che essi furono causa che Flavio mio se ne fuggisse. Non posso saziarmi di darli con li piedi, e con il bastone. Ah forfante, forfante, piglia questa, e poi quest'altra. Flavio: Ohimè, non più, abbiate compassione. Leonora: Compassione, dice il ribaldo. Dateli, uccidetelo senza pietà, mariolo Napoletano. Gialaise: Che? Tu ne menti pe cierto, con tutto che la mentita è secreta, poi che per la soperchiaria no lo pozzo dicere in publico. Ma che diavolo napoletano sera chisso? Me boglio accostare chiano, chiano, e fingere 10 Spagnolo. Baso las manos de vuesas mes- tedes, sennores gentiles hombres, que grit- tos, que rumores, que cosas son estas? lo quiero entendere el todo, porque soy el Capitan de la guardia, i provedere de manera che la yustitia tienga el suo lugar. Alberto: 0 signor Capitano, a tempo sete giun to. Entrando in casa ho ritrovato un ladro che allora m'involava certe robbe, rimetten dole dentro un sacco. Lo giunsi a tempo con questo gentiluomo, amico mio, e a suo mal grado l'abbiamo serrato nell'istesso sacco per farlo castigare dalla giustizia. Manilio: Giusto giudizio di Dio, che il debito delitto sarà punito con l’istesso mezzo che 11 delinquente si preparava pregiudicare agli onori altrui. Leonora: Signor Capitano, opratevi di grazia che sia rigorosamente castigato questo traditore che si persuadeva Roma esser Baccano. Gialaise: Non tenga miedo, sennora mia, y non dudar, sennores gentiles hombres, que sarà castigado muy rigorosamente. Però digame, Vuestra Merced, quién es este ladron? Alberto: Un certo napolitano, ed è l'istesso che dissimulava il cavalier, vestito tutto di seta e d’oro, che poi travestito da molinaro è intrato in casa a farmi questo tradimento. Gialaise: Y corno se gliama? Alberto: Si chiama Gialaise. Gialaise: Di chi? Alberto: Gialaise Formicone, cred'io. Gialaise: Come deavolo va chessa cosa? lo son- go ccà, e credo pure ca songo io, e non autro. Come dunque io medesimo pozzo essere dintro lo sacco e essere ccà in per sona propria? Avìssime fatta qualche burla l'astrologo, a fareme andare senza licenzia mia in forma de molenaro? lo spanto, io stu pisco, io traseculo. Manilio: Noi credemo, signor Capitano, che mentre Vostra Signoria si è appartato da noi, si spanta e maraviglia come il Napoli tano, che stava con tanta riputazione, abbia fatto questo disonore a se medesimo e alla patria sua. Gialaise: Anzi es por cierto. Pero dezime dove... che de veros este ombre que està en el saco es Juan Luis Formigone? Manilio: Egli stesso. Or sentite il suono, che io toccarò il tamburo. Ah, vigliacco infame, or prendi questo calcio. Flavio: Eh Dio, non avreste pietà d'un povero giovane che per amore si è trasformato in questa sorte? Gialaise: Per amore è trasformato? Dunque, son io, ché per amore di Pasquina dovea go in aseno. Ma poi con venire trasformato sidero ca le medesime mano e co ristessi piedi e co lo medesimo cuorpo. No però ho sospetto ca no sia ccà l’aseno e là dintro lo sacco Gialaise. Dispia- cemi ca lasciai lo spiecchio all’autre cauze, pecché boria vedere se songo io. Ma me ne boglio informare. Si esperan, sennores, este qui està serrato en el sacco, es propriamen te Juvan Luis, o otro in suo lugar? io songo ccà, co Alberto: lo dico che egli è, e non altri. E quel lo che tiene di novo è l’abito da molinaro solamente. Portisi dunque in prigione que sto mariolo napoletano. Gialaise: Ora me boglio scoprire. No’ me preiu- dicate, di grazia, e no dicite accossì, ca li veri Napolitani no songo marioli, ma buoi autri forastieri che nce benite ad abitare. Motta dello munno, ecco ca io mi levo la varva. Ecco ca io songo lo signor Gialaise, e no chillo ca sta intro lo sacco. Ca mo vao accossì, vao pecché me piace, pe com- piacire a na signora ca bole ca io in che- st’abeto trasa in casa sua. Alberto: Perdonateci, signor Giovan Luigi. La còlerà, il giusto sdegno e il creder che era vate lì dentro, mi han fatto trasportare, che altramente non si sarebbe detto. Manilio: Quel che si dice mentre l'uomo sta in còlerà, si può sodisfare con la sodisfazione che v’ha dato messer Alberto, e che vi dò anch'io, signor Giovan Luigi, cioè che non si sarebbe detto se non fusse stato quella credenza. te nce adonare chiù, pe grazia. Gialaise: Ve la perdono pe chesta vota, ma no Leonora: Ohimè, che miracoli son questi d’oggi. Orsù, vedasi chi è colui che sta dentro il sacco. io da me stesso lo Manilio: Aspettate, che voglio sciogliere. Flavio: Ah padre. Ah, signor padre. Manilio: Ahimè, figlio. O Flavio, mio caro. O mondo, o tutti, aiutatemi. Ecco qui Flavio, ecco qui il mio desiderato figliuolo. Gialaise: Chisto me pare Cuosemo alla voce, se bene no tiene la varva dello colore de prima. Manilio: Levati su, vita e anima di questo mio debil corpo. Oh, Flavio, dimmi come sei qui, e come ti trovo in quest'abito. Impetratemi prima perdono da messer Flavio: Alberto e dalla signora Leonora, che poi vi dirò succintamente il fatto. Alberto: Dite pure che, secondo vi sarà l’onor nostro, così faremo deliberazione di esegui re quanto si ha da fare. (buio) Scena O ttava Pedana centrale. Tasso da Alessandro, Comediante da Lean dro, Cornelia. Alessandro: lo ti dico, Leandro, che l'onore s’ha da preporre a tutte le cose; e di due mali, si deve eleggere il manco. Sarìa manco male a tormi la vergogna con la morte di Cornelia e di Camillo che restar favola delle genti. Leandro: Molte cose diciamo a sangue caldo che, raffreddato, poi non si mandano in ese cuzione. Talché, evitando questo presente eccesso che vi preparate di fare, evitarete anco il secondo, con più onor vostro, con quiete della mente e con salute dell'anima. Alessandro: Il sangue non raffredda mai a chi fa stima dell'onor suo, ma sempre bolle, sempre freme insieme, se non si risolve in vendetta del ricevuto oltraggio. le mettono in seno, se Leandro: Nelle cose che sono secrete, io non so questo onore di che colore si sia; se però da noi stessi non vi mettiamo sopra il tinto, come fanno alcuni, che si ponno celar le corna in fronte. Ditemi: chi sà, o chi saprà, o chi si potrà imaginare mai questo fallo di Cornelia e Camillo, se da noi stessi non lo pubii- chiamo? Alessandro: Il secreto che passa per bocca- d'uno, non è più secreto. Franceschetto lo sa, Io sai tu; e quando tu e Franceschetto noi sapeste, lo so io, la mia coscienza che vale per mille testimoni. Lascia fare a me. Adesso che il traditore è serrato in camera, secondo mi ha riferito Franceschetto, il co lore sarà di sorte che il rosso del sangue coprirà il verde della loro lascivia speranza. (Compare Cornelia). Leandro: Ecco qui, signora Cornelia, l’astrologo che io vi ho proposto. Confidate liberamente alla virtù sua, che come prudente e saggio darà efficace rimedio alle vostre disaventure. Cornelia: L’effigie veramente è veneranda. Spe ro che gli effetti saranno corrispondenti. Alessandro: Que... Quella che è masta di tutte le cose, l'esperienza dico, vi farà certa la spe... speranza ch’avete in me. Cornelia: Ohimè, questo balbutire mi dà sospet to, già che si dice: guardati dai segnati. Alessandro: Disegno segni mirabili nella vostra effigie; e perché sono cose di molta impor tanza, ritiratevi in quel cantone, Leandro, acciò senza sospetto ella mi possa manife stare il vero. Leandro: Di grazia. Alessandro: Se a voi piacesse, signora, che noi andassimo sopra, io andarei volentieri, per poter più diffusamente ragionare. Cornelia: Non importa. Cominciate a dir qual cosa qui che, essendo il luogo rimoto, non sarà disdicevole. Alessandro: Voi, primieramente, sete innamo- morata. E questo amor vostro cominciò molti mesi avanti che morisse vostro marito. Non è vero? Leandro: Dio non voglia che cada al primo assalto. Alessandro: Non accade a sospettar di nulla, né io già com a parlar fra voi stessa, che prendo il tu... tutto. Cornelia: Voi mi mirate così volto. Che cosa disegnate? fissamente nel Cornelia: Me... Mentre visse l’infelice consorte, non amavo altri che lui, e al presente non mi è rimasto altro amore che dei propri figli. Leandro: Oh, che saggia risposta. Alessandro: Del figliastro, dovevate dir voi, e non del figlio. Leandro: Ohimè. Cornelia: lo non so che dite. Leandro: Oh, buona. Alessandro: E vi dirò anche una profonda parti colarità, che la morte di vostro marito vi piacque grandemente, per aver la comodità di sodisfarvi insieme. Che dite? Leandro: Tienti, Cornelia. Cornelia: Dico che v'insognate. Leandro: Buona. Alessandro: lo non m'insogno, ma segno la ve rità. Anzi, vi chiarirò di più, che sete venuti all'atto prossimo col baciarvi insieme mo poco avanti. Potete negar questa? Leandro: Salda. Cornelia: lo stupisco. Leandro: Ohimè. Cornelia: Ditemi, chi è costui che v’imaginate? Alessandro: II nome in particolare non possia mo saper noi, Ma solo che al presente si ritrova serrato nella camera vostra. Cornelia: Chi? Alessandro: Costui che io dico, che arde, come ardete voi d’un ¡stesso amore. Cornelia: Andate, andate in buon ora; e cercate ingannar altri, che Cornelia non si lascerà ingannar da voi. Alessandro: lo non inganno nessuno, e voi non sete ingannata da mé; ma per farvi cono scere che io dico il vero, andiamo di sopra, che trovaremo il drudo serrato in capitolo. Cornelia: E se non vi sarà? Alessandro: Se non vi sarà, dirò che la virtù mia è falsa. Ma se vi sarà? Cornelia: Se vi sarà, dirò che io stessa sono una rea femmina. Ma che altro volete patir voi, se non vi sarà? Alessandro: Se non vi sarà, datemi delle basto nate. Ma che altro volete patir voi se vi sarà? Cornelia: E se vi sarà, uccidetemi. Alessandro: Alla prova, e vedremo se ci sarà. Se non vi sarà, sarete vincitrice. Cornelia: Andiamo di sopra. (Escono). l’ha introdotto Leandro: lo tengo per fermo che Cornelia sarà vincitrice e Alessandro confuso, perché trop po alla sicura in casa. Or ecco come i giudizi umani sono al spesso fallaci. Alessandro giudicava la moglie diso nesta, e la sua imaginativa aveva talmente chiuso il fatto, che ancor io stavo nel mede- desimo fallo; ed ora si trova tutto il con trario. Imparate, voi altri mariti sospettosi e gelosi, imparate a fuggir questa maledetta gelosia, e lasciate le mogli in libertà loro. Non siate causa di procurare a voi stessi il danno, perché molte volte s’inaspra la don na con le vostre stirature; e, credetemi, che quando la donna vuole, vi farà le fuse torte, se bene aveste gli occhi d’Argo, l’astuzia di Ulisse, e la sapienza di Salomone. Ma scioc co che son io. Che faccio qui? Sarà bene a salir sopra, per riparare e soccorrere a qual che inconveniente che potesse succedere; che stando all’assedio Amor e Gelosia, facil mente potrebbono mandare questa casa a sangue e a fuoco. E io ch’ho incominciato a difender l’impresa, debbo di ragion seguir la, perché si dice: non chi incomincia, ma chi persevera. Tasso è ora fermo al centro del palcosce nico, ancora con la coperta sulle spalle. Il Comediante, lacero, è rannicchiato ai suol piedi. Tasso: Nulla è costante, e tutto è mutevole. i miei travagli, lui discendano tutti Questo pensiero in me è così assiduo che sopisce e vince ogni altro pensiero, ogni altra preoccupazione. E ben conosco come da le mie lunghe tribolazioni. E per quanto mi ci affatichi intorno, invano mi ci affatico. Che, se soffriamo e non godiamo d’alcunché mai stabilmente, e precari sono i nostri beni, e fallaci le nostre speranze, è perché il mondo è instabile ed insicuro. La soluzione dei nostri casi, nella ingarbu gliata matassa degli intrichi, non potrà mai essere altro che una sosta, una pausa, un momentaneo e provvisorio accomodamento, un nuovo passaggio o solo un cambiamento nella innumere varietà e quantità di modifi cazioni possibili. Non vi sarà mài una vera fine, e quella che chiamiamo conclusione non è che una soluzione apparente. Sai come immagino il mondo io, amico? Lo immagino governato da un capriccioso commediografo che sperimenta tutte le infi nite possibilità che gli offre l’intreccio: mor ti presunte, scambi di persona, agnizioni, equivoci, mascheramenti; e di volta in volta componga un ordinato congegno pronto a saltare immediata mente dopo, con la stessa apparente credi bilità del precedente. Può anche accadere che non sempre si tro vi una soluzione soddisfacente, e non si riesca ad impedire che si avanzino nuove domande ancor più inquietanti di quelle cui s’è dato una temporanea composizione. Ma questo fa parte del giuoco. Così va il mondo, amico. Un ordine è stato turbato e perché torni l’armonia nell’universo, occorre una sua ricomposizione. Quanto poi durerà, questo noi non possiamo dirlo. (Tasso torna di nuovo Alessandro). in aria e a ricomporsi Alessandro: Non mi sono ancora totalmente risoluto, Leandro, che se ben non abbiamo trovato Camillo in camera, può stare che destramente si sia nascosto in altro luogo. Leandro: Ormai, padrone, non mi è rimasto con cetto né parola di potervi dissuadere e levar questa frenesia di capo, lo vi dico risoluta- mente che Cornelia è casta più che mai, che Camillo è fedele, e che Franceschetto è stordito. Andiamo dunque a rivestirci e ritor niamo a casa. Alessandro: Aspetta, vuo’ prima vedere questo foglio che mi lasciò il signor Stefano con condizione che non s’aprisse se non dopo dieci anni di sua morte. (Legge). Leandro: Padron mio, che segni fate? Che cosa Alessandro: Camillo è Persio. Cornelia gli è è cotesta? madre. un tratto. Cornelia: Persio era mio figlio Leandro: Che intrico è questo? Districatelo ad Alessandro: Mi tolgo la barba, mi scopro Ales sandro, fuora d'ogni sospetto. Cornelia: O cara pupilla degli occhi miei. O ma rito mio dolcissimo. Chi mi ti tolse? Chi mi ti dà? Raccontami il tutto e rallegrami dop piamente. Alessandro: Dirò la somma qui fuora, che den tro poi diremo diffusamente il tutto. Ecco, Camillo, ora Persio, vostro figlio, che nel sacco di Famagosta fu menato con voi pri gione, fu venduto poi così piccolo a mio fratello, il quale avendo avuta piena infor- mazione di voi e di Muzio vostro marito, già ucciso nella battaglia, e di tutto il suc cesso, lo scrisse in questo foglio, piacendoli che si chiamasse Camillo a memoria d’un suo primo figliuolo. E perché dopo, senza sapere che fuste quella, vi presi per moglie e l’amor naturale all'inconosciuta oprava tra di voi e Camillo, che vi amavate scambie volmente; io, sospettando della fede dell’uno e dell’altro, diedi nome esser morto, e in quest'abito ho fatto esperienza che ambedue sete fedeli e casti. Cornelia: Deh, che io diceva che l'amor che io portavo a Camillo era troppo grande. O Ca millo, ora Persio mio, figlio caro, lo ti bacio figlio e non amante. Camillo: O vive fiamme d’amore, come sotto le ceneri abbrugiavate intensamente. O madre, amata sotto coverta damante. Il tuo figlio t ’ama e t ’abbraccia non da amante ma da madre sua amatissima. Magagna: Saria giusto che io baciasse ancora, prò rata temporis, mentre son stato amante come esso. Cornelia: Fuora le vesti negre, fuora il lutto, facciam festa, perché il marito ed il figlio ho ritrovato ad un tratto. Alessandro: Il figlio avete ritrovato, ma dubito che perderete il marito, poiché è viva Brian- da, mia prima moglie, quale è Leonora, mo glie di messer Alberto, mastro de’ studi. Cornelia: E io dubito che Alberto sia Muzio, mio primo marito. Intriamo dentro che, se sarà così, voi da un lato ed io dall’altro, resta remo contenti. Magagna: Questa è la volta ch'io mi faccio dot tore in tutto e per tutto. Entriamo pure, che stando tutta la casa in allegrezza, Magagna magnarà quanta magnativa li verrà magnani mamente innanzi. Scena Nona Prifha pedana. Alberto, Manilio, Bianchetta, Leonora. Alberto: Bene merentibus praemia tri bui oportet. È d’uopo elargire premi a coloro che hanno ben meritato. E per questo non accadrà rin graziarmi, messer Manilio mio, poiché alla virtù e meriti di Flavio vostro figliuolo è stato poco premio l’averli dato Lavinia per moglie, concorrendoci di più l’affezion gran de e la stretta amicizia che è sempre stata tra di noi. Manilio: Sono infinite le grazie e i favori che mi avete fatti, e perciò non mi sazio mai di ringraziarvene. Bianchetta: lo stupisco di così buona e repen tina nuova. Alberto: Basta: quanto si è detto, è detto. E pro curiamo in ogni modo di ritrovar Alessandro per saper se è vivo che, come ci ha detto Leonora, adesso Brianda, è suo primo marito. Manilio: Veramente se fosse così come avete detto, sarebbe una bella congettura, poiché si farebbe un onesto scambio tra di voi, che ciascheduno si pigi ¡aria la prima moglie. cose son queste. Bianchetta: Che altre nove care, che altre rare Alberto: Ohimè, che fra questo dolce s’inter pone l’amaro di Persio, mio figlio, il quale credo sarà morto. Manilio: Può stare che Alessandro abbia riscat tato vostro figliuolo e dato nome d’esser suo figlio proprio. Alberto: E può stare ancora che Alessandro ab bia fatto di lui come feci io di Flaminio che, essendo egli figlio di un certo Hermando spagnolo, me lo pigliai per figlio proprio, e da Consalvo lo chiamai Flaminio, acciò non fosse riconosciuto. Bianchetta: Or senti quest'altro. Manilio: Di maniera che Flaminio non è vostro figlio? Alberto: Signor no; che, come vi ho detto, fu figlio d’un Hermando Contiero, il quale abi tando in Malta con la moglie, che si chia mava... Bianchetta: Erminia. Alberto: Si, si. Ma che voce è quella? Sete voi, Bianchetta? Come lo sapete? Bianchetta: Son io, si. Mi son fermata a sentirvi, e temo che questo Flaminio non sia fratello di Ersilia. Alberto: Di chi Ersilia? Bianchetta: Seguitate l’istoria, che poi vi dirò. Alberto: Dicevo che Hermando Contiero, abitan do in Malta con Erminia, sua moglie, ordiva non so che tradimento alla religione, laonde il gran maestro procurò d’averlo nelle mani; ma egli avertito di ciò se ne fuggì con tutta la casa, dismenticandosi per disgrazia di quel figliuolo che s'allattava in casa della nutrice; quale, per timore che come figlio di rubello non avesse portato la pena del padre, consultandosi meco, che ero allora in Malta, lo chiamammo Flaminio, sotto co lore che era mio figlio. La nutrice poi entro pochi mesi si morì, e il figliuolo restò in mio potere. De lì a certi anni me ne venni a Roma, e non seppi mai nova di questo Her mando, né della moglie. Bianchetta: Non più, non più, la cosa è certa. Hermando, per non farsi conoscere, si mutò nome, chiamandosi Alonso, e chiamò la mo glie Isabella, la qual partorita Ersilia si morì. Ed egli, Scasandosi con Cornelia, si morì similmente. Alberto: Che dite, Banchetta? Dunque Cornelia prima di Alessandro ebbe Hermando, o vo gliami dire Alonso, per marito? Càpperi, e son dui dopo me. Bianchetta: Si. Oh, che caso stupendo. E Flami nio, che nulla sa di questo, è innamorato della propria sorella. Alberto: E come sapete voi tanti particolari? Bianchetta: Lo so, perché allora io praticavo in casa d’Alonso, il quale nell’estremo di sua vita mi publicò tutto il successo; e Cornelia me l’ha confermato poi con Ersilia, a fine che io procurasse di saper nova di Consalvo. Or va indovina che era Flaminio, lo non intesi mai il più bell’intrico di questo. Leonora: A tempo vi ritrovo, messer Muzio, e non Alberto. E il ritrovarvi a tempo giunse consolazioni alle mie consolazioni, già che gionti possiamo andare in casa della signora Cornelia, voi per ritrovar la vostra prima mo glie, e anco Camillo, che è Persio vostro figliuolo; e io per ritrovar Alessandro, mio primo marito, già che è vivo e sta nell’istes- sa casa, e così uniti rifermaremo il negozio, di sorte che ciascuno rimarrà soddisfatto. Seconda pedana. Flavio, Lavinia. Flavio: Sì come l'aurora, squarciando i cieli della notte oscura, apporta seco il lucido giorno, e il sole rompendo i duri giacci fa che cor- rino acque limpide e chiare, così voi, anima dell’anima mia, con l'aurora della grazia vo stra spezzando le notti delle mie disgrazie, m’avete apportato un giorno felicissimo, e col sole delle bellezze vostre, rompendo la dura crudeltà, fate correre una mare di gioie e di consolazioni, dove io, godendo voi che sete vaga più che l’aurora e bella più del sole, mi reputo il più felice e il più contento del mondo. Lavinia: E io, Flavio mio dolcissimo, combattuta da un falso pensiero che l’amor vostro non fusse stato finto con disegno d’ingannarmi, già che mi conosceva indegna di voi, mo strai d'odiarvi a morte e amavo altri della mia qualità. Ma poiché ho conosciuto chiara mente che m’amate con puro e sincero amore, vi certifico che quell’odio era appa renza, e che oggi v'amo e amaro sempre più che me stessa; essendovi degnato (Faccet tarmi per moglie non per mia bellezza, come dite, ma per vostra bontà e cortesia. Flavio: Per le bellezze esteriori, e maggiormen te per quelle dell’animo, io vi amo e onoro. Così come farò sempre, non solo da marito, ma da servo obedientissimo. Lavinia: Sarò io obedientissima e serva di voi, mio marito e mio signore. Terza pedana. Camillo, Ersilia, Flaminio, Gialaise, Bian chetta. Camillo: Ersilia, tu? Ersilia: lo, crudele. Quella che volevi morta. Camillo: Oh, anima mia, occhi un tempo discari; volto che m’intorbidavi, adesso m’assereni; bocca che amara m’apparve, e adesso miele distilla. Parlami, bocca. Girati, volto. Mira temi, occhi cari. Volto sereno, bocca suave, ecco il vostro amato Camillo che v'ama, vi contempla, v’ammira. Ohimè, che il vento abbraccio. Dove sei? Chi mi ti tolse, Ersilia mia? Sei forse l'ombra sua? E se pur sei l’ombra, ritorna a consolarmi; e se pur sei Ersilia, come ti parti senza esser vista? Tu non mi scapperai. Flaminio: Né a me più scapperà. Gialaise: Tenetela stretta, chella mariolella, ca pare sia chella ca se trasformava in tante forme, allo tiempo antico delIi Romani. Ersilia: Deh, lasciatemi, di grazia, andare. Che volete da me? Chi sete voi? Camillo: Sono il vostro Camillo. Ersilia: Allora mio, e non adesso. Flaminio: E io il vostro non mai Flaminio. Ersilia: Adesso mio, e non allora. Gialaise: E io lo signore Gialaise. Ersilia: Non vi conosco, gentiluomo. Gialaise: E io te boria conoscere. Camillo: Dunque, non mi ami? Ersilia: No. Flaminio: E me ami? Ersilia: Si. Flaminio: Deh, se è vero che con il tinto di fuora ti hai levato anco il crudo di dentro, dammene segni più certi; sana e salva un che si muore. Perché tardi a rispondermi? Rispondimi, vita mia. Non sarai tu la vita mia? Ersilia: Si. Camillo: E del tuo Camillo? Ersilia: No. Camillo: Instabil tempo, voglie mutabili, donne perverse, amor crudele, infelice Camillo. Flaminio: lo non posso più diré, impedito dalla gioia immensa che sento in udir che io son vostro. Bianchetta: Che vostro? Fermatevi, non date la mano, Ersilia. Statti, Flaminio, che non sei più Flaminio ma Consalvo figlio di Alonso, che era Hermando padre di voi; e voi sete fratello e sorella. Gialaise: Chesso è n'autro cunto dell’uorco. Ersilia: Che dite, Bianchetta? Dunque Flaminio è Consalvo, mio fratello? Flaminio: Che baie sono queste? Se io son figlio di messer Alberto, come posso esser fratello di Ersilia? Bianchetta: No, voi sete figlio di Hermando e perciò sete veramente fratello e sorella. Gialaise: Saldo, ca essa a poco a poco ritornarà la mia pecché uno l’ha renunziata, e l'autro le fratello; donca azziccaraggio io. Ersilia: Ahimè, che più volte ho detto fra me stessa che gli occhi e il volto di voi, signor Flaminio, si rassomigliavano alla mia madre. O Consalvo e non Flaminio, o fratello e non marito. Flaminio: O sorella e non moglie, così t'abbrac cio e ti bacio; e quell'amore intenso che era di moglie, resta amore sviscerato di sorella. fuoco. Eccomi, Ersilia mia, così tutto tuo come prima desiderasti, e come credo che al presente desideri. Camillo: O castissimo Quarta pedana. Franceschetto, Magagna, Pasquina', Gialaise. Franceschetto: Balia forte, balla, balla. Balla forte il mio Magagna. Se non balla, a fè, non magna. A fè, non magna, se non balla. Magagna: Dammi tu delle fescelle, Ch'io son stracco di ballare. Vuoimi dare, vuoimi dare, Vuomi dar delle fes, fes, fescelle. Franceschetto: Oh, oh, vuol dir frittelle all’usan za di Puglia, e dice fescelle. Tu stai fresco, poiché cominci a perder l'R. Magagna: Dammene un altro po, po, poco. Franceschetto: Piano, che te le darò tutte. Apri la bocca. Non è buona? Magagna: Bonissima, ma pochissima. Mena, me na un altro po, poco. Franceschetto: Poiché tu sei goloso, te ne darò assai assai, purché salti a passar questa bacchetta, come fa in casa. il nostro cagnolino Magagna: Si, si, purché l’abbia tu, tutte. Franceschetto: Tutte, or salta. Tu non ci vedi, poveruomo, da questa parte, dove vai? Oh, bella. Cascò con la sua lotta. Magagna: Dormiamo tutti insieme, che io mi stendo e coleo. Franceschetto: Su, alzati, su, balla, balla. Pasquina: Ma che cos'è? Siete matti? Ferma, semplicione che sei. Magagna: Chi è quella che mi batte e parla all’usanza di Puglia? Ehilà, chi sei tu? lo miro, e pur mirando trovo che tu sei Genti lesca. Ti conosco, si, figlia mia. Pasquina: Che Gentilesca, lo mi chiamo Pa squina. Magagna: Ti è stato cambiato il nome, ma tu figlia mia, che sei essa certissimo, t ’ho cercata tanto tempo, che a questo fine sono venuto a Roma, dove intesi che eri capitata, e mai ne ho potuto aver nova, lo ti abbrac cio, ti piglio in braccio, figlia mia. Pasquina: Lasciami stare, vedi, che ti darò un pugno in questo viso di ladro. Gialaise: Lasciala stare, sai. Or dimmi mo, Pasquina, al presente Gentilesca, non vi con tentate d’incorporarve co la mia nobeletate? Pasquina: lo farò quel che farà il mio messer padre. Gialaise: Dà ccà la mano, Pasquina, ca solo in toccarti sei fatta illustrissima. Ora voialtre femmene sete avvertite. No dateme chiù fastidio co tante suppliche ca me spedite onne iuorno. Lo capitano Gialaise Formicone sposa Pasquina, ora Gentilesca, e no’ pò più amare a niusciuna. Pasquina: Entra dentro, che giusteremo i pesi e le misure. Scena Decim a Pedana centrale. Quando le pedane intorno sono tutte accese, e le rivelazioni avvengono contemporaneamen te, d'improvviso l'azione si blocca, il rumore cessa di colpo. Tasso avanza verso il proscenio. Tasso: lo son libero, per grazia del serenissimo signor principe di Mantova: e benché la for tuna m’abbia privato di tutti i suoi beni, non ha potuto privarmi di quelli della natura. Onde se mai vi rallegraste ch’io vi fossi fratello, ora non dovreste dolervene; o do lervi solamente dei miei i quali sono stati vari e grandi, e lungo tempo mi hanno infelicità: ornai dovrebbero aver fine. (Un urlo di esultanza accoglie queste parole, poi i comici escono alla spicciolata. Tasso si ritira verso la sua scrivania, per rigovernare le carte). tenuto soggetto a varie infortuni, Bianchetta: E che faremo noi, Magagna, così soli soletti e senza compagnia? Magagna: Che cosa vorresti che facessimo? Bianchetta: Quel che han fatto gli altri. Magagna: E che han fatto gli altri? Bianchetta: Sono entrati. Magagna: E noi entriamo. Bianchetta: Si, ma entriamo come essi; e vorrei che voi prima entraste in me, come entra l’ape nella pecchia, lasciandovi il me, mele. Magagna: Il me, mele? Mirate che sapor di boc ca, e che menar di coda, e che sorte d’in chini te fa la pecchia vecchia. Bianchetta: Vecchia son io? Me vedi vecchia nella scorza, ma nel medollo son giovane più d’ogn’altra. Ma ritiriamoci insieme, che 10 ho ducento scudi in contanti, e mill'altre coselle da viver sempre bene, senza invidiar altri. Magagna: Ducento scudi in contanti e altre cose? Entra dentro, che con la pecunia nu merata si farà tra di noi la copulata. (Escono anche loro e la scena resta vuota. 11 nudo palcoscenico dell'inizio. Sole, in mezzo alla scena, le casse e la vali gia del Tasso. Tasso si guarda attorno, richiamato indietro da una voce). Comediante: Signore... Signore... fa per uscire, è (Il comediante ha la faccia bianca da pierrot, in marsina e bombetta, scalcinato vaga bondo. Tasso si volta). Comediante: Non mi riconoscete? Sono il come diante prigione. Vi ricordate di me, signore? Tasso: Certo che me ne ricordo, amico. Ma che fai ancora qui? Perché non te ne sei andato via con gli altri? Comediante: Vi aspettavo, signore, lo non pos so. lo son di carne, e non della loro fattura di sogno. Tasso: Va, esci anche tu. Il mondo, attore, ha ancora bisogno di noi. Va. lo non posso portarti con me. Ciascuno riprenda la sua strada, lo a poetare, tu a vivere. S ipario I N B R E V E t e a t r o Il Teatro Stabile di Catania festeggia il suo ventesimo anno di attività. Essa è incentrata sulla drammaturgia italiana, siciliana in particolare, ricavata da un'imponente tradizione, modernamente rivista. È stata questa la linea dello Stabile di Catania dalla fondazione ad oggi: delle 131 opere prodotte » nelle precedenti diciannove sta gioni, ben 107 — di cui 27 novità assolute — apparten gono al grande repertorio siciliano. Il cartellone per la stagione 1977-78 comprende cinque spettacoli di produzione propria, tutti testi italiani: « Dal tuo al mio » di Giovanni Verga (che ha già inaugurata la stagione il 3 novembre) per la regìa di Lamberto Puggelli; « Annata ricca » di Nino Martoglio, per la regìa di Giu seppe Di Martino; ■< Il mostro », novità di Chigo De Chiara, regista Romano Bernardi; « Cittadino Nofrio » di Antino Russo Giusti, con la regìa di Turi Ferro; « Nel paese della zagara » di Luigi Capuana, per la regìa di Di Martino, destinato ai radazzi. La Cooperativa Stabile del Teatro di Roma « Checco Durante » con Anita Durante, Leila Ducei, Enzo Liberti, ha presentato al Teatro Rossini « Er marchese der Gril lo », una divertente e caratteristica commedia di Dome nico Berardi nella libera rielaborazione di Enzo Liberti che ne ha curato anche la reaìa. Al Teatro Erba di Torino, Gipo Farassino ha aperto la stagione 1977-78 con una nuova commedia tratta dal repertorio piemontese: <■ Gallo, fa nen Taso! » (■■ Gallo non fare l’asino! »), tre atti di Amilcare Solferini, uno deali autori oiù sianificativi del teatro Diemontese. Il cartellone della stagione 1977-78 del Teatro Stabile di Torino è composto da 13 spettacoli; due sono prodotti dall’ente torinese, e precisamente « Zio Vania » di Cechov e ■< Verso Damasco » di Strindberg, entrambi con la regìa di Mario Missiroli; quattro sono realizzati da altri Teatri Stabili: « L’anitra selvatica » di Ibsen, con la regìa di Luca Ronconi dal Teatro Stabile di Genova; « Storie del bosco viennese » di Von Hovarth, regìa di Franco Enriquez, Tea tro Stabile di Trieste; « A piacer vostro » di Shakespeare, regìa di Antonio Calenda, Teatro Stabile dell’Aquila; « Leonzio e Lena » di Buchner, regìa di Alessandro Fer- sen, Teatro Stabile di Bolzano. Cinaue soettacoli sono orodotti da CooDerative e tra queste il Centro Teatrale Emilia-Romagna - Gli Associati e il Gruppo della Rocca. Le compagnie private sono la Proclemer-Albertazzi con « Antonio e Cleopatra » di Shakespeare e la regìa di Roberto Guicciardini e la Compagnia di Prosa del Teatro Eliseo diretta da Giorgio De Lullo e Romolo Valli con « Il valzer dei cani » di Andreyew e la regìa di Giuseppe Patroni Griffi. Un recital del poeta Evgenij Evtuscenko (alcune delle sue liriche anche recitate da Vittorio Gassman) e un con certo con due giovani solisti sovietici di fama interna zionale ha avuto luogo al Teatro dell'Opera di Roma per la manifestazione organizzata dall’Associazione italiana per i rapporti culturali con l’Unione Sovietica, in occa sione della celebrazione del sessantesimo anniversario della Rivoluzione d'ottobre. Protagonisti del concerto sono stati il pianista Andrej Gavrilov, che ha eseguito musiche di Prokofiev, Ciaikovski e Balakirev, e il violinisti Viktor Tretjakov il quale, accom pagnato al pianoforte dal maestro Eraskin, ha eseguito musiche di Sciostakovic-Cyganov e di Beethoven. La seconda rete televisiva della Rai ha indetto il « Premio Sandro Giovannini » per una commedia comico brillante in ricordo del commediografo e regista scom parso nella primavera scorsa. Il premio è dotato di cin que milioni di lire; si provvederà, inoltre, all'allestimento teatrale e alla messa in onda televisiva del testo. Il con corso è aperto a tutti. atto della durata di un'ora. Le opere dovranno essere originali e inedite, in un La cooperativa Gruppo del Sole che da anni opera nel campo dell'animazione e teatro-ragazzi presenterà: « Alice nel quartiere delle meraviglie », dedicata al problema del verde e dello spazio quotidianamente negato ai bambini dalla struttura dei quartieri delle grandi città; « La rivolta dei manichini », storia di quattro manichini che prendono coscienza del loro stato; « Scusa Befana ai giocattoli pen siamo noi! », sulla riscoperta e reinvenzione del giocat tolo; « Dietro le maschere », sulla riscoperta della ma schera. Da gennaio il Gruppo del Sole metterà in scena altre due novità assolute: « Cosa bolle in pentola? » e ■< Bau Bau », sulle paure infantili A N a t a l e i n T V " L a c a n t a t a d e i p a s t o r i ” S a r c h i a p o n e b e f f a t o d a G e s ù Dopo il grande successo ottenuto dovunque con la sua Gatta cenerentola, l'estroso musi cista Roberto De Simone, napoletano quaran taquattrenne, fondatore ed animatore numero uno della « Compagnia di Canto Popolare », sta preparando un nuovo grande spettacolo musicale — modernissimo melodramma — i cui protagonisti saranno le tradizionali ma schere di ogni tempo, intese anche come « ma scheramento dell’attore ». Intanto ha ultimato la registrazione, negli studi televisivi di Na poli, di una sua originale Cantata dei pastori (da Andrea Perrucci, poeta dialettale seicen tesco che si celava sotto il nome accademico e professorale di Dottor Casimiro Ruggiero Ugone). Sarà trasmessa a colori in due pun tate, all’antivigilia e alla vigilia di Natale, nel l ’interpretazione dello stesso De Simone nei panni di Giuseppe, di Fausta Vetere (Maria Vergine), Isa Danieli ( l’arcangelo Gabriele), Tonino Pierfederici (il pastore Armenzio), Ma rio Sansullo (Benino), Virgilio Villano (il pe scatore Ruscello), Patrizio Rampetti (il cac ciatore Cidonio), Giuseppe Barra (il vagabon do Razzullo), Giovanni Mauriello (Sarchiapo ne), Mario Merda, Orazio Orlando e Franco Javarone (i diavoli). Scene di Mauro Carosi, costumi di Odette Nicoletti. Orchestra del l’Unione Musicisti Napoletani, con elementi della « Scarlatti ». La parte musicale sarà pre ponderante rispetto al testo, riscritto dal De Simone, intende così « rivisitarlo » ribaltandolo sul piano dell’opera buffa set tecentesca in chiave ironico-grottesca. tre secoli d’ininterrotta tradizio ne — dice De Simone — ed una complessità di numerosi fattori caratterizzano la Cantata dei pastori, che è una delle più sentite mani festazioni napoletane legate al Natale. Si trat ta di una rappresentazione di argomento sacro che, ritualmente, si faceva a Napoli e che si fa tuttora in provincia nel periodo che va dalla notte di Natale all’Epifania con una lar ghissima partecipazione popolare ». il quale « Quasi Quale regista, Roberto De Simone si man tiene lontano dal più vieto folklore parteno peo senza tuttavia dimenticare il periodo in cui La Cantata fu scritta — 1698 — e rap presentata per la prima volta a Napoli. Fin da allora quell'opera rozza ma classicheggiante offriva invitanti occasioni di evadere dal te sto. Di tali possibilità approfitta dunque l'au tore della Gatta cenerentola tentando con la Cantata — asserisce — « un recupero critico nella sua peculiarità musicale » sempre tenen do presente — oggi come quasi tre secoli fa — il presupposto del divertimento, scaturente soprattutto dalla contrapposizione dei due di versi caratteri dei personaggi più comici del lo spettacolo, Razzullo e Sarchiapone, sino al tardo Ottocento linguaggio scurrile da guitti detti « castelleggianti » in quanto vivevano in baracche nei pressi del Castello Maschio Angioino. interpretati con Perché De Simone ha riscritto la Cantata ? « Perché oggi — dice — non è sopportabile una fedele rappresentazione del testo origi nario. Ne ho tentato una nuova " lettura ” cri tico-storica e al contempo, ovviamente, spet tacolare, con tutte le caratteristiche del me lodramma e con l ’accompagnamento di un'or chestra barocca formata da archi, cembalo, due oboi, due corni. Ne ho riscritto interamente anche lo spartito musicale, salvando solo tre pezzi: Quanno nascette Ninno, di Sant'Alfon so de’ Liguori, 'O zampugnaro a Napule di Raffaele Viviani e Nascette lu Messia. Ho gi rato alcune scene in esterni a Capri, nella Grotta di Matermagna, ed altre nel Castello di Lettere. Ho inventato gags inediti, ma so prattutto punto a riportare il melodramma alla sua funzione di totale popolarità. Il me lodramma in mezzo alla strada, ad esempio, come rito gestuale. Non per niente la mia Can tata — aggiunge De Simone — ha inizio al tramonto con una processione di demoni, vi sti però non proprio quali incarnazione del male ma come espressioni di fuoco. Quando la processione giunge presso il sagrato di una chiesa, vediamo una zingara leggere la mano alla Madonna predicendole la nascita del Re dentore. Poi la processione entra in chiesa, e sembra che stia per avere inizio una specie di sacra rappresentazione; senonché tu tti si ac corgono subito che non di una chiesa si tratta, bensì di un teatro vuoto, con platea e palchi senza spettatori. E ciò sta a significare che il pubblico della originaria Cantata è morto. C’è oggi un nuovo pubblico, che non si vede, ma che si sente. In fa tti i diavoli, con lazzi infantili (e non certo osceni come quelli di una volta) rispondono alle imbeccate degli spettatori ». I diavoli, come già nel Settecento e nel l ’Ottocento, si fanno ancora apprezzare in una serie di form idabili cadute. Chiedevano addi rittu ra il bis, a Napoli, quando Belzebù, incate nato, crollava alla ribalta. Ciò avveniva m olti anni fa, prima della guerra nei teatri popolari, in pieno clima natalizio. Era un demone sim patico, che doveva girare tre o quattro volte su se stesso e quindi gettarsi di peso a terra, cadendo sulla spalla destra e sollevando il cor po con le gambe in aria. Per far ciò doveva mantenere l ’equilibrio sul braccio sinistro pog giando una sola mano a terra; ed era costret to a restare a lungo in quella scomoda posi zione finché duravano gli scroscianti applausi al suo indirizzo, tanto calorosi che si vedeva costretto a ripetere l ’acrobazia più volte dati gli insistenti « bis ». Povero diavolo: non sem pre era al centro di calorosi battim ani in quanto, impersonando il Male, non di rado veniva perfino fischiato e beffeggiato, specie dagli scugnizzi presenti in platea. Nell’anteguerra viveva un attore specializ zato nel sostenere il ruolo di un diavolo « ca rogna », e il popolino si era talmente convinto che fosse diabolico anche nella vita che il po veretto non poteva passeggiare tranquillamente in strada senza essere additato e schernito. Lo stesso attore, nei momenti più intensi della rappresentazione, veniva non di rado centrato da un fitto lancio di pomodori e ortaggi vari. A volte cerano spettatori che, ebbri per il trop po vino bevuto a cena, si toglievano le scarpe per gettargliele addosso in palcoscenico. Al termine dello spettacolo, tuttavia, il pubblico lo ricompensava con una calda ovazione, pie na ricompensa al miracolo del rito teatrale, con gli spettatori che diventavano quasi prota gonisti mentre alla ribalta c’era un attore che ' si offriva in olocausto. Ed era incredibile che uomini e donne del popolo napoletano, in lotta continua per la sopravvivenza quotidiana, potessero partecipa re così ingenuamente ma tanto intensamente alla falsità scenica: proprio come accadeva per le « sceneggiate ». E dire che fra quegli spettatori m olti erano uomini rozzi abituati a destreggiarsi con maestria nella giungla del la vita. Era il tempo in cui al vecchio Teatro San Ferdinando (quello esistente prima che l’edi ficio venisse ricostruito da Eduardo De Fi lippo dopo che era stato distrutto dai bom bardamenti) la compagnia stabile del cavalier Federico Stella mieteva grandi successi con spettacoli popolari in titolati Ciccio il pizzaiolo del Carmine, Lo sgorbio di Borgo Loreto, La bella di Porta Capuana, Le due orfanelle, La cieca di Sorrento. Una scena de « La cantata dei pastori » Approssimandosi però il Natale, la « sta bile » del cavalier Stella cedeva il posto alla « Compagnia Pastorale » di Antonio De Can- giani, specializzata appunto nella popolarissi ma rappresentazione della Cantata dei pastori, che andava in scena la sera del 24 dicembre, con due recite: la prima alle ore 21 e la se conda a mezzanotte. E non c’era capofamiglia, a Napoli, che non portasse a teatro i ragazzi a vedere i « diavoli », ovvero le « Furie vinte dalla potenza divina dell’Arcangelo Gabriele ». Asmodeo, Astarotte e Belzebù erano i diavoli inviati sulla Terra da Pluto per insidiare Ma ria e Giuseppe, per tentare di « farli fuori » onde evitare la nascita del « Verbo incarnato ». Fra tu tti i diavoli il preferito da Pluto era Belfagor. A ltri tipici personaggi della famosa Cantata erano il venerando pastore Armezio e i suoi figli Cidonio (robusto cacciatore), Rusceglio (gentile pescatore) e Benino (il più piccolo, gracile e dormiglione). Da quest’ultimo, il vec chio padre apprendeva che stava per nascere un bambino divino — era un sogno profe tico — ed allora tu tti gli altri pastori segui vano la via indicata loro da una stella: era la stessa Cometa che indirizzava ì Re Magi alla grotta di Betlemme, dove in effetti si avverava il sogno di Benino. Appariva così in scena un suggestivo pre sepe vivente, mentre tu tti alla ribalta intona vano in coro la dolce e melodica cantilena Tu scendi dalle stelle..., ripresa subito, a piena voce, dal coro del pubblico. Tutto ciò accadeva dopo che i diavoli avevano invano contrastato la nascita di Gesù Bambino. Non erano però tanto Belfagor, Belzebù, Astarotte ed Asmodeo i beniamini degli spetta tori quanto due caratteristici personaggi co mici, tipici napoletani furbacchioni e sfaccen dati, carichi di verve, i quali davano vita ad esilaranti duetti, zeppi di battute salaci, anche grossolane ma sempre ben azzeccate, che non di rado si ispiravano ai fatti del giorno. Que sti due spassosi personaggi si chiamavano Raz- zullo e Sarchiapone. Erano tanto popolari che non pochi popolani si immedesimavano in essi e il loro già pittoresco linguaggio, durante le feste natalizie, risultava ancor più colorito ed arricchito quasi dalle stesse parole già udi te in scena. « M i pare proprio Sarchiapone... » diceva ad esempio un panettiere al vicino pe scivendolo; il quale di rimando, ribatteva: «E pigliateve allora ’sto capitone!...». Nel testo originario il comico era soltanto Razzullo; in successive edizioni gli si aggiun se, come « spalla », l'ancor più comico Sar chiapone, autentico buffone, che fece divertire perfino un critico illustre come Renato Simoni, venuto da Milano a Napoli apposta per assi stere, almeno una volta, al più tradizionale spettacolo natalizio allestito all'ombra del Ve suvio. Ecco quanto, fra l ’altro, scrisse il Simoni a conclusione di un suo memorabile articolo: « Al Sarchiapone, un nanerottolo balordo e chioccio, si era aggiunto un altro mezzo scian cato altrettanto scempio; e l’uno e l ’altro, con Razzullo alla testa, facevano i loro sberleffi, le loro parate, le loro cascate, i loro tonfi e i loro ballonzoli... Ed è forse per questa immissione squinternante e soverchiante della farsa che la Cantata non se ammuffita nelle pagine dei libri. L’apporto popolare la tiene in vita. Il pubblico le comunica il suo riso aizzante, l'approva e la disapprova con umore ed estro burlesco; in terrompe il dialogo, spesso lo copre addirittu ra con l’intreccio dei motteggi, il saettìo delle apostrofi crude, le interiezioni e le obiurga- zioni lepide, solo acquetandosi quando appa riscono i personaggi sacri ». Assieme a Renato Simoni, in quella lonta na vigilia di Natale 1934, al teatro Partenio, in via Foria, c’era anche Luigi Pirandello. Gli spettatori vicini, notando la sua barbetta che gli conferiva una « certa » aria tanto signorile e professionale, credettero che egli fosse l’au tore della Cantata e lo applaudirono clamoro samente. Rammenta in merito Peppino De Fi lippo: « Mi impensierivano i lanci di palle di carta, di mozziconi di sigarette accesi, di qual che ortaggio e persino di scarpe che il pubbli co si scambiava tra i palchi e poltrone, loggio ne e platea. Lo avessero saputo, quegli scal manati maleducati, che l’uomo al nostro fian co, con baffi e barbetta mefistofelica, pallido in volto, modesto nell’aspetto e umile negli atteggiamenti, seduto fra loro, sorridente e incuriosito, era il più celebre commediografo del mondo: Pirandello ». « Il chiasso di quella sera era insopporta bile. Lo spettacolo ebbe inizio tra una selva di fischi, u rli e sberleffi. Furono di prima sce na la Madonna e San Giuseppe. Quest’ultim o raccoglieva, indifferentemente, la maggior par- tanto insopportabile, In quello stesso te dei dissensi, che erano diretti non alla fi gura del marito della Madonna, ma all’attore dialettale che lo rappresentava. Dal loggione, dalla sala, turpiloqui di ogni genere, parolacce da far restar col fiato sospeso. Meno male che Pirandello non ne poteva capire il senso. Non dimeno, ad un certo punto azzardai: " Mae stro, volete andar via ? ” . " No, no... è inte ressante ! E’ interessante ! ” . E lì rimanemmo fino alla metà del primo atto; poi il chiasso divenne così infernale che il critico Achille Vesce insistette presso il maestro per andar via, e tu tti e tre, come Dio volle, riuscimmo a guadagnare la porta di uscita. Non appena fuori, nel corridoio dei palchi, rivolgemmo a Pirandello ancora le no stre scuse per averlo condotto, con tanta poca previdenza, in un inferno addirittura. " Per ché ? ” disse " è stata una cosa gustosa e ve ne ringrazio ” . istante ci raggiunse l’eco di una violenta " fischiata ” , compatta, e prolungata. " Cosa è ?” , chiese il drammaturgo. Andai ad osservare dalla fes sura della porta che immetteva in platea. Pi- randello mi seguì, ed insieme guardammo ». « In scena era entrato l ’Arcangelo Gabriele, calato dall’alto, legato in vita da una solida corda, la quale si era impigliata, e l ’Arcangelo, tra risate e fischi del pubblico, era rimasto con i piedi per aria non riuscendo a toccare terra e andando un po' su e un po’ giù con tutto il corpo, girando su se stesso ora da un lato ora dall’altro, a causa dell’attorcigliamen to della corda che lo sosteneva. Furono la Ma donna e San Giuseppe a fermarlo, trattenendo lo una per una gamba, l'altro per l ’altra, e in questa situazione continuarono a recitare mentre l ’Arcangelo, di tanto in tanto, lanciava tremende bestemmie a quella parte del pubbli co che lo beffeggiava e a quelli che lo avevano calato giù e non riuscivano a mollarlo. Piran dello ne rise divertito ». Tanti anni sono passati, ed ora giustamen te la Cantata viene riproposta davanti a m ilioni di telespettatori in una nuova forma musicale che ironizza sulla lotta condotta dalle forze del Male per impedire la nascita del Redentore. « A proposito della Cantata — conclude De Simone — si è potuto parlare di teatro baroc co, religioso-gesuitico, popolaresco, di fenome ni ascendenti e discendenti di varie culture, ma l'unica realtà viva rimane a Napoli la po polarità di Razzullo, di Sarchiapone e degli al tri personaggi della Cantata come figure che ritualmente evocano quel particolare clima di attesa per l'evento messianico caro in special modo al mondo degli oppressi e degli emar ginati ». Sergio Lori A J o r g e G u i l l é n , D i e g o F a b b r i , G i o v a n n i M a c c h i a i l p r e m i o A n t o n i o F e l t r i n e l l i 1 9 7 7 Il nostro direttore, Diego Fabbri, ha vinto il premio Feltrinelli 1977 per il teatro. Il conferimento del premio è avvenuto il 9 dicembre scorso all'Accademia dei Lincei, presenti, tra gli altri, il ministro della Pubblica Istruzione Malfatti, il ministro dello Spettacolo Antoniozzi, il sottosegretario ai Beni culturali, Spitella. Pubblichiamo il comunicato ufficiale dell'Accademia dei Lincei con cui sono stati resi noti i nomi dei vincitori. « Il Premio Internazionale “ Antonio Feltrinelli ” per la Poesia, di L. 25.000.000, è stato attribuito al Prof. Jorge Guillén. La Commissione giudicatrice era composta dai Proff.: Gianfranco Contini (Presidente); Umberto Bosco, Giovanni Macchia, Natalino Sapegno, Aurelio Roncaglia (Relatore). Jorge Guillén, nato a Valladolid nel 1893, è considerato il maggiore lirico vivente di lingua spa gnola. Tutta la sua produzione d'un cinquantennio è stata raccolta nel 1968 sotto il titolo di Aire nuestro. Non a caso questo libro è stato pubblicato in Italia e contiene, tra l'altro, felicissime tra duzioni da poeti italiani, quali Leopardi e Montale. Guillén, infatti, ha stretti legami con il nostro paese dove ha soggiornato e operato a lungo: e se ne avverte il segno non superficiale nella sua crea zione. Questa costituisce un tutto organico, imponente per mole e di squisita eleganza. L'entusia smo vitale dell'Invenzione vi è sempre lucidamente dominato dal rigore intellettuale della forma. Anche l'attività critica, esercitata da Guillén su autori spagnoli antichi e classici, conferma lumino samente la sua capacità di vivere dall'interno l'esperienza della poesia ». « Il Premio “ Antonio Feltrinelli ” per il Teatro, riservato a cittadini italiani, di L. 10.000.000, g stato attribuito al Dott. Diego Fabbri, Presidente dell'E.T.I. e Direttore della rivista teatrale “ Il Dramma La Commissione giudicatrice era composta dai Proff.: Ettore Paratore (Presidente e Relatore), Umberto Bosco, Vittore Branca, Quintino Cataudella, Giovanni Macchia. La Commissione ha deciso a maggioranza di conferire il Premio “ Antonio Feltrinelli ” 1977 per il Teatro, a Diego Fabbri, giudicandolo l’unica vera forza del teatro italiano contemporaneo, che in una lunga serie di drammi ha espresso una meditata e sofferta parola di fede e di speranza in un mondo che sembra avviato a disgregarsi ». « Il Premio “ Antonio Feltrinelli » per la Storia della Letteratura, riservato a cittadini italiani, di L. 10.000.000, è stato attribuito al Prof. Giovanni Macchia, professore ordinario di letteratura fran cese nella Facoltà di Lettere dell’Università di Roma. La Commissione giudicatrice era composta dai Proff.: Natalino Sapegno (Presidente), Umberto Bosco, Vittore Branca, Gianfranco Contini, Giorgio Petrocchi (Relatore). Giovanni Macchia, professore di Lingua e letteratura francese nell'Università di Roma, è uno dei più geniali saggisti del nostro tempo, critico dotato di acuta sottigliezza introspettiva e di elegante sensibilità per i valori formali (come nelle sue più note monografie e sillogi di studi, dal Baudelaire critico del 1939 a La caduta della luna del 1973, sino ai recentissimi II silenzio di Molière e Baudelaire). Notevolissimo è in Macchia il senso della storia politico-letteraria e della temperie ideologica della cultura di Francia, come nella sua importantissima Storia della lettera tura francese (1961-1974), originale ricostruzione del pensiero e della poesia francesi collocati nel l’orizzonte della cultura europea, con singolari esplorazioni di personalità minori e una meditazione intensa di rilettura dei classici ». E l v i o P o r t a p a r l a d e l l a s u a c o m m e d i a “ P r e m i o P i r a n d e l l o 1 9 7 7 ” L ’ o p e r a ’ e m u o r t e ’ e f a m m e Lo. scrittore Elvio Porta, con L’opera ’e muorte ’e famme, ha vinto la settima edizione del Premio biennale di teatro « Luigi Piran dello » (4 m ilioni) bandito dalla Cassa di Ri sparmio per le Province Siciliane. A questa decisione è pervenuta, a maggioranza, la giu ria presieduta da Raul Radice e composta da Alberto Blandi, Carlo Bo, Sandro D’Amico, Roberto De Monticelli, Natalia Ginzburg, Car lo Laurenzi, Leonardo Sciascia, Luigi Squarzi- na, Renzo Tian, Giorgio Zampa. Segretario Aldo Scimè. Il testo del Porta, riprendendo il tema che ispirò John Gay per The Beggar’s Opera, dalla quale a sua volta è derivata l’Opera da tre soldi brechtiana, lo immette in una Napoli di miseria e di corruzione, ritratta con i toni di una satira insieme amara e pietosa, e lo svi luppa con un linguaggio all’interno del quale un dialetto fastosamente teatrale e filologica mente rigoroso prolifera in strumenti dram maturgici diversi, nella tradizione dei comici dell’arte, del teatro epico, della sceneggiata, del caffè concerto napoletano e della comme dia popolare di Viviani. Così una ricerca di specifici elementi linguistici si realizza in una partitura teatrale. La giuria ha inoltre deliberato di attribuire il Premio internazionale « Luigi Pirandello » (una targa d’oro raffigurante lo scrittore agri gentino, opera dello scultore Em ilio Greco) al regista cecoslovacco Otomar Krejca per il suo contributo ad una nuova drammaturgia dello spettacolo attuata con consapevole fer mezza durante la grande stagione del teatro Za Branou, nella migliore tradizione della sce na e della cultura cecoslovacca. La giuria ha infine proposto al Presidente della Cassa di Risparmio avv. Vincenzo Gium- marra, un particolare riconoscimento al prof. Paul Renucci che ha approntato, per la colle zione de La Pleiade di Gallimard, l ’edizione in francese di tutto il teatro di Luigi Pirandello. Si tratta della prima traduzione integrale e fedele dell'opera pirandelliana, gran parte del la quale era nota in Francia solo attraverso vecchi e infedeli adattamenti. Elvio Porta, 32 anni, napoletano, dopo aver compiuto esperienze di critica ar tistica e letteraria, scrisse la sua prima opera teatrale, Barocco con strumenti {rappresentata all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica) nel 1969. Quindi si è occupato di sceneggiatura ( Il ba rone rampante di Italo Calvino per la televisione), finché nel 1974 compose, in collaborazione con Armando Puglie se, quel Masaniello che è stato uno dei maggiori successi di pubblico e di critica di quella stagione, prolungatosi poi nella successiva. Al « Settembre al Borgo » di Casertavecchia sono state rappresentate due sue opere scritte per l’occasione: nel 1975 Jesus e nel 1976 ’O juorno ’e San Michele, di recente ripreso con vivo successo anche a Na poli, per la regia di Mico Galdieri, e nell'interpretazione di Aldo Giuffrè e Ida Di Benedetto nei ruoli principali. Ad Elvio Porta abbiamo posto le seguenti nove domande, ed egli ci ha così risposto. Domanda: — Che effetto fa, ancora giovani, vincere un premio importante come il « Piran dello ». Speravi davvero di vincerlo ? Risposta: — Un effetto piacevolissimo. E’ la stessa gioia che si prova quando non solo si Una scena de « II Masaniello » di Elvio Porta riesce ad esprimere con chiarezza qualcosa che abbiamo dentro, ma si riesce anche ad es sere capiti. Speravo di vincerlo ? Sì. Non lo credevo, ma lo speravo. D: — Com’è nata l ’idea di scrivere « L’opera 'e muorte ’e famme » ? R: — L’idea di « rileggere » un'opera da tre soldi, ambientandola a Napoli, nacque tre anni fa, quando, con Armando Pugliese, pensavamo ad uno spettacolo che dovesse seguire il Ma saniello, e che ne costituisse una continuazio ne di discorso, ma non di « filone ». L'idea spettacolare e tematica è venuta invece matu randosi attraverso tre stesure successive nel corso degli ultim i tre anni. D: — In sintesi, di che si tratta ? R: — In sintesi, lo spettacolo tratta delle vi cissitudini attraversate dal popolo di Napoli nell’ultim o dopoguerra, quando la condizione colonialista, che il Nord opera contro il Sud da più di cento anni, si riacutizzò nel fervore della ricostruzione. Napoli si venne a trovare ancora una volta nella condizione di una co lonia, guidata appunto da una élite coloniale preoccupata di mantenere il suo potere su un popolo che aveva come sola risorsa l'arte di arrangiarsi in alternativa all'emigrazione. L'am biente è appunto quello dei « mestieri arran giati », delle propagande elettorali basate sul meschino ricatto di un lavoro qualsiasi, anche al di fuori della « legalità ». E’ la storia dei « grandi elettori » e delle m ulticolori corti di disperati che sono costretti ad accompagnarli. D: — Quale regista e quale compagnia mette ranno in scena la tua « Opera »? E quando ? R: — Spero di ricostituire, con la messa in scena dell'Opera 'e muorte 'e famme, il for tunato e proficuo « sodalizio » con Armando Pugliese, nato m olti anni fa, all'epoca dell'Ac cademia d’Arte Drammatica, e culminata con il Masaniello. Credo che la realizzazione do vrebbe avvenire l ’anno venturo. D: — Collaborerai strettamente con il regista, quando cominceranno le prove della tua « Ope ra », oppure gli darai carta bianca ? R: — Si può collaborare sempre alla riuscita di uno spettacolo pur restando strettamente nella sfera delle proprie competenze. Non cre do che la « collaborazione » tra un autore ed un regista debba lim itarsi alla presenza rigida dell’autore che difende il suo « capolavoro », dalle grinfie di un « nemico » che vuole rovi narglielo, in alternativa ad un disinteresse to tale per la messa in scena. La « carta bianca » sta nella stima e fiducia reciproca che fa na scere una proficua collaborazione. D: — Hai trovato difficoltà prima di riuscire a fa rti rappresentare un tuo lavoro destinato alle scene ? R: — No. D: — Quali sono i registi e gli attori di oggi che preferisci e ai quali affideresti molto vo lentieri un tuo testo ? E perché ? R: — Ho una profonda stima per un numero di attori e registi di ogni parte d’Italia troppo vasto per poterli elencare tu tti e con i quali ho in piedi ottim i rapporti di lavoro. Ciò po sto, aggiungo comunque che, se potessi, vor rei sempre affidare la realizzazione dei miei lavori a registi ed attori napoletani, con i quali sono comuni le radici, ed anche le sofferenze che abbiamo dovuto affrontare prima di riu scire ad affermare un teatro così rigorosamen te « nostro ». Con loro posso condividere la gioia di lavorare finalmente con l'orgoglio del la nostra cultura, di cui ci siamo riappropria ti, e della nostra lingua, che possiamo usare ri gorosamente senza più il peso di uno snobismo umbertino ed emarginato che ci imponeva di vergognarci perfino del nostro accento. Ricor do che prima del successo di « Masaniello » era assurdo pensare di poter rappresentare fuori da Napoli dei lavori scritti in un rigo roso napoletano, ed ogni tentativo in questo senso veniva guardato anche dagli stessi « na poletani » come un progetto di un folle. D: — Che cosa hai in preparazione R: — Ho in preparazione un film che sarà in terpretato da Nino Manfredi e da Ugo To- gnazzi, tratto dal libro « La Mazzetta » di At tilio Veraldi, e sceneggiato con Luciano De Crescenzo. Poi un programma televisivo musi cale in quattro puntate per la RAI, « Passa porto Rosso », una storia di emigrazione del prim o Novecento; poi un secondo film , di cui non annuncio niente per la solita scaramanzia, ma da realizzare sempre con Nino Manfredi; poi un altro programma in cinque puntate per la TV dal titolo « I l paese di Pulcinella ». Nel frattempo spero di mettere anche in sce na 1' « Opera ’e muorte 'e famme ». D: — Come penseresti di poter risolvere, se tu avessi pieni poteri, l ’eterno problema della crisi del teatro nazionale ? R: — Il teatro nazionale, secondo me, non è affatto in crisi, specialmente se guardiamo l ’enorme crescita delle presenze di pubblico teatrale negli ultim i anni. Tenderei comunque a favorire quei gruppi che operano una « po litica dei prezzi »: abbiamo sperimentato di persona che si può fare lo stesso incasso ne cessario a far sopravvivere una compagnia praticando dei prezzi che arrivano ad un mas simo di duemila lire (meno di un cinema di prima visione), col risultato di portare a tea tro una sempre maggiore quantità di pub blico. E’ ovvio che per una politica di questo genere bisogna anche « scrivere e recitare per il pubblico », invece che per raggiungere sol tanto a tu tti i costi il numero di « borderò » necessario ad accaparrarsi i contributi m ini steriali. Per troppi anni teatro di prosa aveva assunto la forma asettica del tempio « barboso » di una cultura rarefatta e per elet ti. Solo da pochi anni, finalmente, si è tornati a scrivere veramente, come dicevo prima, per il pubblico, il quale dimostra il suo gradimento affollando le sale, le tende, e tu tti quegli spazi che il teatro ha saputo inventare. il Sergio Lori C e l a m e t t i a m o t u t t a p e r f a r v i a r r i v a r e I n r i t a r d o » . . . o p e r f a r v i a r r i v a r e p r i m a ? Ora però i treni sfrecciano sulla nuova linea, più veloce e più corta, e guadagnano moltissimo in tempi di percorso anche sulla vecchia linea, aiutando i pendolari e le merci ad arrivare prima. ■" Certo gli inconvenienti esistono, i ritardi continueranno ad esserci. Ma sdamo lavorando per eliminarli. Si dice: “Non funziona niente, quelli delle Ferrovie sembra proprio che lo facciano apposta a farci arrivare in ritardo...”. Ma siamo sicuri che è proprio così? Guardiamo le statistiche: la maggior parte dei ritardi è provocata da lavori in corso per potenziare gli impianti e migliorare il traffico. Perchè solo lavorando per modernizzare e rendere più snelle ed efficienti le infrastrutture (e quindi rallentando molti treni) è possibile farvi arrivare prima. Sembra un assurdo: si arriva in ritardo per arrivare prima. Ma è proprio così. Un esempio? Per diversi mesi tutù i treni hanno rallentato a Settebagni presso Roma, per collegare la “Direttissima" ai binari di quella stazione. I p r i m i f i l m d e l l ’ a n n a t a U n a s t a g i o n e C I N E M A p a r t i c o l a r e Sono stati assegnati i massimi premi del ci nema italiano, i « nastri d’argento » ai quali han no concorso tutti i film italiani proiettati nell’an no 1976. Non c’è da rallegrarsi molto di tali frutti di un’annata che è stata tra le più infelici della storia del nostro cinema. Tre o quattro opere si sono elevate sulla generale e mesta mediocrità; film come « Il deserto dei tartari », « Casanova », « Un borghese piccolo piccolo », « L’ultima don na » alimentano pur sempre la speranza, assicu rando la continuità di uno stile e di una tradi zione. D’altra parte il 1978 già si annuncia ricco di lavori e di esperienze narrative. Dunque, almeno apparentemente, il cinema italiano è ai suoi consueti livelli, forse anche * in ripresa. Ma che sia ripresa autentica, e non l’ingannevole progredire di una macchina cari cata troppo tempo prima, ancora non sappiamo. Accade infatti qualche cosa facilmente prevedi bile, ma che nessuno può ancora spiegare (per ché riguarda soltanto il nostro cinema): il pub blico diminuisce ai film nazionali, non diminui sce, spesso aumenta, ai film americani. immeritevoli: Molte pellicole nazionali tribolano nelle se conde, terze visioni, nelle periferie, nelle pro vince più eccentriche; molte non arrivano nem meno al noleggio, e di queste ve n’è almeno una settantina giacenti a Roma (e fate il conto dello sperpero di denaro, di energie, che tale ban carotta comporta). Intendiamoci, non sempre i film rifiutati sono la diffidenza dei noleggiatori e degli esercenti, la loro inca pacità di discernere il buono dal cattivo, è so vente una cieca fatalità. E’ evidente tuttavia che costoro, in questo fare di ogni erba un fascio, non sono altro che gli strumenti più o meno consapevoli di uno stato d’animo popolare. E' l'unico sintomo davvero grave della crisi; tanto più grave in quanto il cinema di questi anni non ha perduto la sua capacità espressiva. In un certo senso, il fenomeno fa paura perché siamo ancora in grado di produrre opere di stile eccellente. In altre parole, non è affatto vero il cinema che italiano non sappia raccontare delle storie; è che racconta in modo egregio, spesso avvincente, con nobiltà e pulizia, delle storie che non interessano più. Scorriamo, infatti, i titoli di questo inizio di stagione; e non preoccupiamoci del loro valore, diciamo, formale. Nella quasi totalità essi com pongono lo stranissimo panorama di un paese che non esiste in natura; anche quando c’è dramma, è dramma convenzionale, assunto assai spesso da altri tempi. Stanno accadendo tante cose in questi anni, capovolgimenti di coscien ze, turbamenti collettivi, sciagure immense e inesplicabili, eroismi e scelleratezze: che trac cia hanno lasciato nel nostro cinema ? Nessuna. Le eccezioni non mancano. Ad esempio « Pa dre padrone » dei fratelli Taviani. Al sadismo sociale dell'ambiente, il mondo dei pastori sar di, si aggiunge il sadismo familiare, rappresen tato con crudezza spietata. L’insistenza con la quale il padre-padrone vuole rendere schiavo il figlio, indurlo alla soggezione perché non si ri belli alla sua condizione di paria, non ha quasi nulla di umano; è già roba da Dachau. La figura di questo genitore è un quadro clinico già ben noto agli psichiatri (manca soltanto un’indagine sulle tare ereditarie). Un tentativo di spiegare questo padre tiranno psicologicamente lo isole rebbe da quel contesto sociale nel quale tutti lo vedono, e in virtù del quale merita di essere considerato, e lo porterebbe in un altro contesto, al quale certamente appartiene, ma nel quale lo può collocare solo Io psichiatra. Le azioni di questo padre sgorgano da profondità sconosciu te, indecifrabili nella loro abiezione. Su questo punto il film (di notevole valore: per questo se ne discute) i fratelli Taviani avrebbero dovuto essere più chiari per evitare che la figura del padre possa essere circoscritta nei limiti di un caso patologico. 'Nell'attuale fase pulviscolare che sta attra versando il cinema italiano, sempre più sminuz zato nella produzione di commediole, in cui uni loro squallida mediocrità ca alternativa, alla Due immagini dal film « Padre Padrone » di Paolo e Vittorio Taviani casalinga e dialettale, è la esibizione in serie di avvenenti fanciulle, « Padre padrone », con « Una giornata particolare », rappresenta, fatte queste riserve un colosso di pensiero creativo. Anche il film di Scola, si sente subito, è fatto di buona stoffa. Il breve incontro in un falanste rio della periferia romana, sul tetro e rutilante scenerio di una adunata oceanica (l'arrivo a Ro ma di Adolfo Hitler), di due opache esistenze, una massaia e un omosessuale è pervaso da un patetico charme. I due (mentre di lontano giungono gli echi delle scalmanate littorie) si comprendono subito. Non perché si sentono soli dali nella solitudine, ma perché sono due anime vicine, che cercano un affetto. Per accettare que sto sentimento cui non manca la convinzione di una sincera simpatia e di una profonda affi nità, dovrebbero però abbattere troppi divieti; purtroppo gli « imperativi dell’ora » di mussoli- niana memoria costellano di stop anche la vita dei sentimenti. Se con « Una giornata particolare » siamo in piena temperie fascista, con « Nenè » sia mo sospinti indietro al 1948. Si tratta di un’inda- gine della psicologia infantile; il caso di un bambino di sette anni, vivente ancora nella zona fluida degli istinti innocenti e delle sensazioni incomunicabili e l’impossibilità di intendersi con il mondo degli adulti. Non c’è nulla in questo film che non abbiamo incontrato sullo schermo mille volte. Ma fino a quando l’immagine è là che scorre davanti a noi, siamo nell'assoluta impossibilità di ricordarcene, perché il cinema di Samperi ha la misteriosa proprietà (che pos siede il cinema quando è tale) di presentare la realtà come se fosse continuamente inventata. Che dire di « Al di là del bene e del male » di Liliana Cavani ? Lo spettacolo è valido nel- l’ambientazione assai curata; per il resto è co me impedito a defluire normalmente da ambi zioni storiografiche (d’una storiografia inedita su Fredrich Nietszche e Lou Salomè, raccolta dalle labbra di qualche burlone) oltreché dalle dilatazioni e deformazioni di erotismi presi da di versi arsenali filmici, cui la regista, nel suo orgoglio di provocatrice, non ha creduto di do ver rinunciare. Il film partecipando di due na ture, la spettacolare e l'ideologica, senza ab bracciarne nessuna delle due, risulta campato nel vuoto e quanto mai gratuito. Le vie dell'in successo sono imboccata stavolta dalla Cavani, nasce, a lume si naso, dall’insicurezza che affanna i cineasti italiani di buon nome, divisi tra il desiderio di restare fe deli all’impegno creativo delle loro prime prove e il timore di non reggere il passo con la cas setta. Le statistiche dimostrano che il mezzo più sicuro per chiamare spettatori sono i film porno ? Ebbene: ecco la Cavani nascondere il nodo della sua storia tra le fiamme del sesso. Chi non sappia dipanarlo non avrà modo di la gnarsi: gli resteranno sempre due ore di svago stuzzicante basato su combinazioni triangolate. A ll’attivo di questo avvio di stagione va ascritto: « lo ho paura » di Damiano Damiani imperniato su motivi che ricorrono nelle crona che recenti; strategia della tensione, servizi se greti. Un film avvincente grazie anche all'inter- pretazione di Gian Maria Volontà. infinite, ma quella Diverso il caso di « Gran bollito », un film che, evocando i crimini di molti anni fa — quelli della saponificatrice Cianciulli — ha un carat tere meccanico, legnoso, tra macabro e carica turale. Gli addendi sono di prim’ordine: la sce nografia, i costumi, le luci, gli arredi, le angola zioni della macchina da presa, gli attori, soprat tutto gli attori. Ma al dunque, cioè alla somma, il risultato lascia freddi, distaccati. Quando di un film che si sdipana sotto i nostri occhi, sia mo attratti più dai dettagli esteriori ed epider mici che dallo sviluppo del racconto, vuol dire che il regista si attiene al tran-tran del mestiere, indice di stanchezza. Il caso di Bolognini fa da spia a una situa zione generale. Il cinema italiano nei suoi anni gloriosi si pose su una strada difficile: quella della reattività istintiva, anche sentimentale, ai fatti della vita. Ogni film era una immagine della vita amplificata dalle emozioni dell’artista. Oggi l’artista, a quanto pare, non reagisce più; si guarda intorno e vede molto poco, né fatti né problemi né personaggi. Si volge al passato con animo stanco affidandosi al suo superiore me stiere. L’Italia è piena, al contrario, di perso naggi nuovi: il cinema degli ultimi tempi quanti ne ha riconosciuti ? Maurizio Liverani I N B R E V E j c i n e m a Il regista tedesco-occidentale Werner Herzog, premio speciale all’ultimo festival di Taormina per il suo « Stros- zek », ha in progetto di girare una nuova versione del classico muto, « Nosferatu » di Friedrich Wilhelm Murnau. Si è svolto a Salerno un convegno organizzato dal Sindacato nazionale giornalisti cinematografici italiani su « Televisioni private e produzione cinematografica » in cui, con lo sguardo rivolto al futuro, si è affermata la neces sità di giungere, una volta superati con la nuova legge regolamentatrice gli attuali conflitti tra le televisioni pri vate e il cinema, ad una collaborazione produttiva tra le due forme di « mass media », come già è in atto tra il cinema e la TV di Stato e come avviene in vari paesi stranieri. Un primo passo verso un avvicinamento che è nell'ordine naturale ed ineluttabile delle cose, appena terminato il periodo « selvaggio ». Per l'edizione 1977-78 dei « David di Donatello » le votazioni saranno effettuate da una giuria permanente composta da esponenti delle attività professionali del cinema, della cultura e dell’arte, che visionerà i film in anteprima all’auditorium dell'Agis o nella sala del- l'Anica. Le cosiddette ■■ giurie di pubblico » sono abolite e sostituite da spettatori delle normali sale cinematografi che che parteciperanno alle votazioni dei film ammessi al concorso a mezzo delle apposite schede distribuite dagli incaricati dei premio « David ». Il Ministro Bisaglia ha fatto approvare dal Consiglio dei Ministri lo schema del disegno di legge con il quale viene sciolto l'Ente Autonomo Gestione Cinema e smem brate, con l'assegnazione ad enti diversi, le tre società che lo costituivano. Con il prossimo 31 dicembre l'Unitalia cesserà defini- vamente la sua attività. Il 1° gennaio prossimo, inoltre, cesserà la sua attività il Centro nazionale sussidi audiovisivi, un ente dipendente dal Ministero della P.l. destinato alla diffusione della cul tura cinematografica nelle scuole, che avrebbe dovuto funzionare con una dotazione di 50 milioni all'anno, insuf ficiente a pagare i 30 dipendenti. I N B R E V E c i n e m a Nella sua assemblea generale, tenuta a Parigi, il con siglio internazionale del cinema e della televisione (Une- sco) ha proceduto al rinnovo delle cariche sociali. È stato eletto presidente un italiano: il professor Mario Verdone. Milos Forman, autore tra l’altro di <■ Qualcuno volò sul nido del cuculo », ha iniziato nei pressi di New York le riprese di « Hair », la versione cinematografica del famoso musical degli anni Sessanta le cui rappresen tazioni sono state proprio di recente riprese in un teatro di Broadway. La sceneggiatura reca la firma di Michael Weller. Il film è prodotto dalla United Artists. Il commediografo francese Jean Genet farà presto il suo esordio come regista cinematografico. Genet, inizierà le riprese del suo primo lungometraggio — « La nuit venue » di cui ha naturalmente scritto anche la sceneg giatura — a Parigi e le concluderà in Spagna. Il produt tore del film per la cui realizzazione sono stati stanziati sette milioni e mezzo di dollari, è Claude Nadjar. Nel cast non figurano attori di rilievo. L’attore francese Jean-Claude Brialy tornerà l'anno prossimo alla regìa portando sugli schermi « Les petits film sarà Anouk matins ». L’interprete principale del Aimée. Jean-Claude Brialy ha girato quest'estate a Roma un film per la regìa di Steno ed ha avuto come partners Mastroianni, Ustinov, la Andress e la Belli. Il regista francese André Cayatte sta girando un film sul commercio internazionale di armi. Il titolo provvi sorio del film, « La ragione di stato » è stato sostituito in quello di « Il mercante di armi ». Interprete principale della nuova pellicola di Cayatte sarà l'attore Jean Yanne. La cineteca culturale « Filmclub » di Rimini e Riccione ha inviato ai ministri dello Spettacolo, dei Beni culturali, della Pubblica istruzione e ai presidenti della sezione italiana dell'Unesco e della Regione Emilia-Romagna, un appello per « il salvataggio di alcune pellicole rarissime che si trovano in fase di decomposizione ». Sono stati allegati alle lettere alcuni spezzoni di pellicola irrime diabilmente danneggiati tratti da un vecchio film. « Purtroppo — ha detto il regista e critico José Pan ieri, direttore della cineteca culturale "Filmclub" — le pellicole hanno una durata limitata nel tempo e comun que, soprattutto quelle più antiche, vanno conservate in celle speciali a temperatura ed umidità particolari. Per poter garantire una lunga conservazione del patrimonio filmico, occorre anche effettuare dei controtipaggi e delle ristampe su pellicole nuove. Malgrado i nostri appelli — ha proseguito Pantieri — nessuno ci ha ascoltato e adesso dobbiamo constatare con rammarico che alcuni film si sono decomposti irrimediabilmente. « Abbiamo tuttavia salvato quasi un migliaio di film rari del periodo 1900-1930, soprattutto con la collabora zione di istituzioni francesi, ma speriamo che anche in Italia ci siano riconosciuti al più presto gli aiuti neces sari per salvare questo patrimonio culturale ». Il « Centro nazionale studi pirandelliani » ha organiz zato un convegno di studi ad Agrigento dal 6 al 10 dicem bre e che ha avuto come tema « Pirandello e il cinema ». Articolato in due sezioni, una letteraria ed una cinema tografica, il convegno è stato aperto da una relazione di Giuseppe Petronio. I dibattiti sono stati coordinati da Nino Borsellino, Francesco Callari, Giorgio Santangelo e Ruggero Jacobbi. Attorno al convegno si sono svolte diverse manifesta zioni culturali: una mostra internazionale di pittura sui luoghi pirandelliani, una rassegna retrospettiva del film e del filmato televisivo pirandelliani, un premio riservato agli studenti dell'ultimo anno delle medie superiori, un premio per la migliore tesi di laurea e il premio per un atto unico, giunto alla seconda edizione. La 34a edizione del Concorso internazionale di cinema tografia sportiva si terrà come lo scorso anno a St. Vin cent. Accordi in tal senso sono stati definiti con i rap presentanti della Regione Valle d’Aosta e della SITAV, Colombi e Fiore, nel corso di appositi incontri, svoltisi presso il Comitato organizzatore il cav. lav. Bruno Pazzi. Diramati gli inviti ai Paesi partecipanti per il tramite delle rispettive amba sciate e degli uffici culturali, sono stati discussi e defi niti i criteri di selezione delle opere da ammettere in concorso, che per l’edizione 1978 dovranno privilegiare la qualità rispetto alla quantità. la sede deH’AGIS, presente per a l t u o s e r v i z i o d o v e v i v i e l a v o r i l e C A S S I D I R I S P A R M I O l e R A N C H E D E L M O N T E I N B R E V E c i n e m a Sette film hanno rappresentato il cinema italiano alla sesta edizione del Festival cinematografico di Teheran, che si è svolto nella capitale iraniana dal 15 al 27 novem bre ed alla quale hanno concorso complessivamente 108 pellicole suddivise in sette sezioni e cioè: 24 in con corso, 24 neirOmaggio al music-hall americano, 12 nella sezione II cinema ha occhi ed orecchi, 12 nella retro spettiva dedicata a King Vidor, 12 in quella riservata alle opere di Carlos Saura e 24 nel Panorama dei regi sti iraniani. S’intitola « Fiori secchi alle pareti » e sarà diretto da Nadia Werba il primo film della cooperativa ■■ Gyneka » costituita da donne che, partendo dall'analisi della pro pria esperienza professionale e creativa nel campo degli audiovisivi, si propone di approfondire il discorso sulla situazione femminile. Il film, che verrà girato entro il primo trimestre del 1978, sarà interpretato da Francesca Codispoti, Marcella Michelangeli e Carla Romanelli. « In Italia, come nella maggior parte degli altri paesi, non esiste ancora un cinema femminile, nel senso di un cinema che abbia un’impronta femminile. Ci sono don ne registe, sì, ma i loro film non sono molto diversi da quelli fatti dagli uomini »: con questa premessa, seguita da un chiarimento (« Non sarò certo io a darla, questa impronta femminile. Ma è importante che a me e ad altre donne ne venga data la possibilità, almeno »), la scrit trice Edith Bruck, italiana di origine ungherese, debutta nella regìa. Ha cominciato a girare il suo primo film, « Ragazzo con violoncello », una vicenda ispirata a un fatto di cronaca di alcuni anni fa: un quindicenne, in uno scompartimento di un treno, uccise una professoressa che lo aveva schiaffeggiato dopo che lui le aveva acca rezzato una gamba. All’inizio dell'estate ha ripreso regolarmente le pubbli cazioni un’altra gloriosa testata, « La Rivista del Cinema tografo » (Anno 50), che presenta alcuni cambiamenti nella direzione, assunta da Don Carlo Baima (non dimen tichiamo che la rivista è espressione dell’Ente dello Spet tacolo d'ispirazione cattolica), mentre responsabile è stato nominato Ludovico Alessandrini. Affianca i due direttori un ampio Comitato di redazione di cui è coordi natore Francesco Bolzoni, mentre Aldo Bernardini, del quale la rivista ha pubblicato una lettera sul n. 4, non fa più parte della redazione. Il terzo festival cinematografico di Parigi si è concluso assegnando tre premi conferiti da una giuria di critici cinematografici nominati da una stazione televisiva: il pri mo, ex-aequo, al canadese Chi ha visto il vento » di Allan King e all'iraniano « Mina cycle » di Darius Mehe- jui, uno speciale all’australiano « L'ultima onda » di Peter Weir. Il film « Una giornata particolare » diretto da Ettore Scola e interpretato da Sofia Loren e Marcello Mastroian- ni è stato segnalato quale rappresentante dell'Italia alla giuria che dovrà scegliere i cinque candidati al Premio Oscar per il miglior film di lingua non inglese. La segnalazione è stata fatta da una commissione riu nita presso l’Anica, e composta da rappresentanti dei produttori, dei distributori, dell'esercizio, dell’Ente gestio ne cinema, del Sindacato giornalisti cinematografici e di Unitalia Film. La proclamazione dei Premi Oscar dopo le votazioni tra i membri dell’Academy of motion picture arts and Sciences di Hollywood avverrà il 3 aprile 1978 presso il Music center di Los Angeles. Con la ripresa autunnale ecco riapparire nelle libre l'autorevole rivista del rie, completamente rinnovata, Centro Sperimentale di Cinematografia, « Bianco e nero ». Abbandonata l’impostazione monografica, attuata per alcuni anni e inaugurata sotto la direzione di Rossellini, Ammannati e Di Giammatteo, la rivista torna alla formu la antologica con saggi, articoli vari, note, recensioni e documenti. Al direttore, che resta Ernesto G. Laura, si affianca come redattore capo Guido Cincotti e un comitato di direzione composto da Ammannati, Cincotti, Grazzini, Kezich, Laura e Massimo Mida. Tra gli spettatori ad alta frequenza cinematografica, il 22,6 per cento sono anche frequentatori di sale o luo ghi di fruizione culturalmente qualificati. Il positivo rap porto tra i due tipi di frequenze è uno dei dati più significativi emersi dalla recente indagine sul pubblico cinematografico effettuata dalla Doxa per iniziativa del- l'Agis, d'intesa con l’Anica, l’Ente gestione cinema e il Sindacato critici sotto il patrocinio del ministero dello Spettacolo. C e s a r e M e a n o a v e n t ’ a n n i d a l l a m o r t e U n s o r r i d e n t e s i g n o r e d e l t e a t r o lui teatro. Pare giunto alle scene come autore, sarà meglio pre cisare, che da gran tempo conosceva il demone del infatti che, prima di allora, avesse scritto, o avviato, e subito gettato nel cestino ben ventisette commedie ! Inoltre, e questo è certo, aveva fondato e diretto nella sua Torino il « Teatro del Nuovo Spirito » cimen tandosi in alcune regie: Don Giovanni di Zorilla, Pelleas e Melisanda di Maeterlink, Il revisore di Gogol, scelte tutte significative dove è facile avvertire il suo amore per il mito letterario, per il simbolismo, per l’ironia. Ma torniamo al 1937. Nel dicembre di quel l’anno fu rappresentata al Teatro delle Arti di Roma, auspice Anton Giulio Bragaglia, Nascita di Salomè. Della commedia s’innamorò Kurt Sauer, un avveduto critico e traduttore tedesco (così poco nazista che un tribunale speciale lo fece fucilare nel giugno 1943) il quale aprì a Salomè ed al suo autore le porte di mezza Eu ropa. Sulla spinta di uno straordinario successo, Meano dette al teatro nel breve giro di circa tre anni Spettacolo fuori programma, Melisenda, per me, Avventure con Don Chisciotte, Mille sima seconda, La morte di Ulisse, I secoli non bastano: tutte (fatta eccezione per le Avven ture) ebbero il loro battesimo all'estero e, seb bene ignorate dalle compagnie italiane di mag giore richiamo, collezionarono centinaia di re pliche a Berlino, a Vienna, a Monaco, a Praga, a Dusseldorf. Nella stagione 1942-43, al Deutsches Theater di Praga furono rappresentate a giorni alterni Nascita di Salomè e Melisenda per me: caso insolito, se non unico, giacché le due opere, si mili nel tono, non hanno alcun legame di vi cenda o di personaggio. Sostenere che allora il teatro di Meano trovò vita difficile nel nostro paese perché assoluta- mente lontano dalla retorica fascista sarebbe una grossa bugia. Lontana dal fascismo era la maggior parte del repertorio italiano che pure teneva il cartellone portando applausi agli attori — Ma perché.? Alla domanda che si sentiva rivolgere an che in pieno 1957 rispondeva stringendosi nel le spalle con un sorriso insieme malizioso e malinconico. Credo che veramente, a venticin que anni da quella esperienza, Cesare Meano non sapesse dare una risposta nemmeno a se rimaneva un mistero, stesso; anche per quasi lontane congiunzioni astrali, il fatto che, commediografo un tempo rappresentatissimo fuori d'Italia, avesse trovato assai minore fortuna sui nostri palcoscenici, nonostante il favore di molti critici italiani. la conseguenza di Chi abbia cominciato a frequentare i teatri solo nel dopoguerra difficilmente può rendersi conto di come un simile fenomeno, fra la vigilia ed i primi tempi del conflitto mondiale, fosse occasione di stupore, di articoli, di polemiche ecc. Lo spettatore di cui sopra infatti, avendo nella memoria o sott’occhio i cartelloni delle varie compagnie di prosa di questi ultimi anni, sa bene come, per contare le novità italiane di un'intera stagione, bastino le dita delle mani; che se poi dalle novità volesse escludere, con le riduzioni di romanzi, le «riletture», i « di e da », i « secondo Tizio », gli basterebbe una mano sola, anche mutilata. Ma in quell'epoca, certo non fortunata per molti notissimi motivi, fortunato era chi colti vava Tartigianato dello scrivere per le scene. Un esempio ? Nella stagione 1938-39 le novità italiane (forse pecco per difetto) furono qua- rantasette, senza contare le dialettali. Una con ferma ancora più probante ? Nel Dramma n. 340 della vecchia serie, il critico Mario Corsi anno tava sgomento che « appena (!) una quarantina di commediografi ha promesso, o annunciato, lavori nuovi per la prossima stagione » ossia per Tanno teatrale 1940-41. C’è da meravigliarsi se fece scandalo il « caso Meano » ? Mi sem bra di no. Lo scrittore era giunto alle scene (trascuro un’opera giovanile) sul finire del '37, dopo an ni di onorata milizia letteraria e giornalistica; ed incassi agli impresari. Da Ho sognato il Pa radiso di Cantini (1939) a L'ippocampo di Pu gliese (1942) quasi tutti i personaggi di succes so che apparivano in quel periodo sulle nostre scene davvero non avevano a modello l'eroe mussoliniano. E poi, se la vena ironica di Mea- no poteva destare preoccupazioni, il regime era pronto ad accontentarsi di qualche ritocco, co me d’altronde aveva sperimentato lo stesso scrittore: perché da Nascita di Salomè si fa cesse un film di cassetta con Armando Falconi e Conchita Montenegro, la più rigorosa censura cinematografica aveva chiesto soltanto che i soldati dell’imperatore romano divenissero sol dati di un ipotetico monarca orientale. (A Francoforte una volta fecero di peggio. Accortisi che Die Geburt der Salome era una storia di giudei, l’intitolarono Die zwei Gesichter einer Kònigin, I due volti di una regina, sosti tuendo Cleopatra a Salomè ed il trimviro Mar- c’Antonio al tetrarca Erode; già che c’erano — ad un italiano la moltiplicazione evoca tragiche memorie — invece di una testa mozzata, quel la del profeta Giovanni, ne misero dieci). Non credo nemmeno che Meano sia stato vittima, proprio nel periodo della maggiore no torietà, di una congiura organizzata, anche se certo ebbe avversari e concorrenti dei quali, debbo precisarlo a suo onore, mai lo sentii la mentarsi. Direi piuttosto che le difficoltà ita liane gli vennero — uso un’espressione del gergo sportivo — perché correva da isolato. Anzitutto, il suo teatro era fuori della vena borghese-intimista nella quale s’inserivano i no stri più fortunati commediografi; scaturiva da un’interiore ansia di poesia ed era di origine — solo di origine, si badi — letteraria e colta. Egli amava partire da un mito, da una storia dive nuta leggenda, da un romanzo, e simili avvìi erano graditi agli spettatori di lingua germa nica, sempre disposti all'evasione lirica, in di mestichezza con gli scrittori fiabeschi dello « Sturm und Drang »; il nostro pubblico invece si metteva subito in sospetto, sentendosi chia mato a fastidiosi ricordi del ginnasio o del li ceo. Inoltre il suo civilissimo gioco non diveniva mai parodia di facile presa e piuttosto si tra duceva in spiritose, intelligenti favole che ave vano l’ambizione di gettare nell’animo dello spet tatore il seme della riflessione, del ripensa mento una volta calato il sipario. Ma da isolato corse soprattutto perché non trovò o, meglio, non cercò l’alleanza con nessuna compagnia. Non ebbe, come altri, da scrivere per la Ricci- Adani, per la De Sica-Rissone-Melnati, per Rug gero Ruggeri, per Dina Galli e via dicendo, per coloro insomma che alla fine d'una stagione era no soliti annunciare per quella prossima nuove commedie di Tizio e di Caio, ancora senza ti Fra tolo. Correva svantaggiato, certo. E inutilmente molti nostri critici, anziani e giovanissimi, ne decantarono l’estro, l’arguzia, la finezza, la mo dernità che si specchiava in una tradizione tutta italiana. Fu, prima che un’ingiustizia, una illogicità. Ancora più illogico, ancora più grave fu che, finita la guerra, la musica per Meano non cam biasse. C’era sete di nuovo, di non conosciuto (e con questa scusa fu contrabbandata anche merce di nessun valore) ma il grande giro del nostro teatro continuò ad ignorare le sue opere. Quelle poche che furono rappresentate degna mente (interprete principale di Fondarono una città fu l’intelligente e sensibile Sergio Tofano) non ebbero le sale teatrali di maggior prestigio e tanto meno l'appoggio delle istituzioni più forti. A ll’autore nuoceva, probabilmente, anche l'es sere stato infinite volte citato, additato, elo giato. Da un certo punto di vista, proprio quel gran parlarne rendeva particolarmente rischioso portare in scena Meano. Ormai, nell'ambiente, tutti sapevano a memoria i titoli delle sue com medie, anche se pochi le avevano lette. A ll’innato signorile distacco nel considerare le cose del mondo, e quindi anche del mondo teatrale, si aggiunsero per lo scrittore — che non era vecchio — i guai di una salute non brillante. Spesso era costretto fra le pareti di casa, dove continuava però il suo lavoro. Fu vicedirettore della rivista Teatro-Scenario e si riaccostò ad un antico amore, la radio. Per il Programma Nazionale radiofonico scrisse fra l'altro una fortunata serie, Incredible, ma vero, dove raccontò le avventure di alcuni personaggi storici poco conosciuti (fratelli e sorelle minori di Salomè) dei quali rievocava con un gioco sottile e garbato le memorie, i sogni, le gesta. l'autunno del 1957 sembrò stare meglio ed accettò l’incarico di direttore del Teatro « Città di Palermo ». Ci parlammo per telefono poco prima che partisse da Roma. Fu facile per me avvertire nelle sue parole, pur dette con la misura e l’eleganza consuete, una festosa commozione per la nuova avven tura. Aveva sopportato i forzati riposi senza in fastidire gli altri ed immiserire se stesso nelle lamentazioni, nel malumore; ma molto gli era pesato non lavorare quanto e come avrebbe voluto. l’estate e Ora, i gioiosi propositi per la Sicilia, l’ansia bellissima di riprendere il colloquio interrotto con gli attori, il palcoscenico, i manifesti, i tro varobe, il pubblico di una sala teatrale mi con fermavano che mai il fuoco si era spento in lui. Poiché aveva promesso al Programma Nazionale radiofonico il testo per una commedia musicale, gli domandai a che punto fosse. S’era parlato di due ben diversi temi fra i quali era combat- tuto, tanto da avviarne contemporaneamente la stesura; per quale s’era deciso ? Mi rispose con candida malizia: « Ho cominciato a scrive re una terza storia; spero tanto di non far fia sco e che possa piacere ». Ecco: Meano era tutto lì, nel cercare il meglio senza contentarsi di quello che già andava bene, nella totale man canza di sicumera, nella felicità di preparare una bella sorpresa. Con la nuova commedia mu sicale in testa se ne partiva felice per Palermo, a dare amoroso avvio a quel Teatro, ad inaugu rare la stagione con Lazzarina fra i coltelli di Rocco di San Secondo (« un lavoro scorbuti co » disse; e si sentiva che la prova non facile l’affascinava). A Palermo — dove un mese più la sua avventura ter tardi avrebbe concluso rena — doveva definire il cartellone che in tendeva completare con altre due commedie note ma « da combattimento »e qualche opera di autore giovane, anche esordiente. Perché Meano, commediografo di risonanza mondiale, sapeva che, nel teatro, può esserci gloria per tutti, si rallegrava del successo dei più giovani, dava ad essi consigli in semplice amicizia (così come umilmente ne chiedeva) senza provare né timore né invidia. Esempio raro. Un sorridente onesto signore. Enzo Maurrì I N B R E V E ¡ te a tr o Il Sindaco di Parigi, Jacques Chirac, intende dare un grande sviluppo all'attività teatrale della capitale fran cese. A tale scopo ha destinato il tre per cento del bilancio municipale per « rianimare » teatro, musica, espo sizioni, musei. Jean Louis Barrault che non aveva mai avuto sovvenzioni municipali in trentuno anni di vita teatrale, riceverà un notevole aiuto. Al San Leonardo di Bologna è andata in scena ■< La soffiata dei ciarlatani » di Vittorio Franceschi con scene e costumi di Bruno Carotalo e con la regìa di Francesco Macedonio. La commedia in due tempi si ispira all'« Au- lularia » di Plauto. « Buffone delle Puglie » è stato definito da Claude Bagnieres, sul supplemento de « Le Figaro », Carmelo Bene, dopo la presentazione al Festival d’autunno di Parigi, del « Sade ». *< Ecco una compagnia e un attore — scrive l'articolista — che hanno ottenuto un certo successo nella provincia meridionale italiana. Ma non c’è stato nessuno per denunciare l’accecante sconvenien za del loro viaggio parigino prima di offrir loro i biglietti? C'è in questo una manifesta incompetenza del responsa bile dei programmi ». Carmelo Bene ha replicato: « I cri tici italiani possono stare tranquilli. In Francia ci sono critici più cretini di loro ». Nella foto: Maila Nosiglia e Gianluca Faviglia in « Abelardo e Eloisa » di R. Duncan, in scena al « Grattacielo » di Livorno, per la regia di Giorgio Fontanelli. In Abelardo, la tentazione del compromesso, generosa ma deludente, è stata proposta — o meglio — incarnata da Eloisa. E’ stata espressa dunque nella sua dimensione più privata ed intimistica — al massimo — sugli equilibri della cellula primaria, la coppia. C o n s i d e r a z i o n i s u l l e l e t t u r e p u b b l i c h e d i v e r s i I l p o e t a s u l p a l c o s c e n i c o Durante l’ultim a stagione tea trale uno dei più noti teatri ni dell’avanguardia romana, il Beat ’72, ha inserito nei suoi programmi un ciclo di « rea- dings » poetici intitolato: « Un poeta alla settimana ». Tutti i nomi più significativi delle u lti me generazioni letterarie (quel le del dopo '63, tanto per in tenderci) hanno settimanalmem te partecipato a questi spetta coli-lettura il cui allestimento scenico è stato affidato al regi sta Simone Carella. Tale avve nimento, che nel fermento tea trale della capitale non è stato certo privo di risonanza, ci of fre la possibilità per una serie di significative considerazioni circa quello, che nel corpo del l ’articolo, per rapidità d'infor mazione, definirò sinteticamen te come « lo spettacolo di poe sia ». « Spettacolo di poesia » credo sia infatti più appropria to del .comunque usatissimo, termine inglese: « reading » (let tura) che implicherebbe una semplice declamazione del te sto poetico senza nessuna spe cifica definizione scenografica o di tecnica scenica in generale (costumi, m otivi gestuali, suoni ecc.). E’, ad ogni modo, indi spensabile partire proprio dal semplice « reading » per recupe rare le premesse storiche dell’ odierno spettacolo di poesia; sa rà, anzi, assai interessante veri ficare come risulti assia più au tentica e significativa, perché in gran parte svincolata dai ri schi di un'inquinante connestio- ne fra due diverse forme espres sive (la letteratura ed il teatro), e tradizionalmente certificabile la semplice lettura di una com posizione lirica piuttosto che la sua complessa immissione in un ben definito meccanismo tea trale. le prime porte Non ci sarebbe già difficol toso rintracciare nell'ambito del salotto letterario, prima di corte poi borghese, dell'alta cul tura dei caratteristici esempi di letture pubbliche di versi da parte dell'autore stesso. Non sono stati pochi, anzi, i nomi illu stri della letteratura che, quasi completamente sconosciu ti, hanno avuto la possibilità di aprirsi in questo modo. Ma in tal caso ci troviamo in una condizione abbastanza particolare: la let tura viene proposta non come fatto spettacolare ma come og getto stimolo per un intervento critico. La poesia non risulta essere un testo terminato da esi bire ma un atto creativo in ge nesi ancora passibile di m odifi che; ecco dunque che per il poe ta lettore gli spettatori non so no pubblico nel senso teatrale del termine ma una sorta di sapienti e severi giudici dai quali ci si attende conferme o verifiche tutte inerenti alla di mensione letteraria dell’esibi zione. Ma cose del genere av vengono tutt'oggi all’interno dei vari ritro vi culturali im provvi sati ovunque. Ben altra forma di « rea ding », nel quale già giostrano tutte tournée per dei precisi m otivi teatrali, è quello che andava facendo per il Nord America, con il suo « The reaven » (il corvo) Edgar Allan Poe. Era il 1845, la poe sia era appena stata scritta e bruciata come una fiamma sul le pagine dell’ « Evening M ir rar ». La suggestione emanata dai reiterati e spietati sussurri del corvo demonio fu enorme. Poe si organizzò una vera e propria le più im portanti città americane, ma anche paesi e paesini non rimasero esclusi, e per la prima volta, per lui, iniziò a battere la grancassa del successo. In i zialmente usufruendo di un semplice sgabello, poi facendosi allestire veri e propri palchi, il grande scrittore di Boston pas sava di piazza in piazza reci tando prima solo « Il corvo » e poi anche altre sue liriche dinnanzi a folle credibili ed in credibilmente affascinate sia dalla poesia, sia dalla magne tica bellezza che il Poe, si dice, possedesse. In tempi ben più vicini a noi la lettura pubblica di testi poe tici si è arricchita di ulteriori ed im portanti funzioni. Pensia mo a quanta parte hanno avuto nella politica dissentista sovie tica i versi urlati da Evtuscen- ko, non meno violentemente te strappati dalla voce alla pa gina di quelli di Majakovskij per la rivoluzione (« Ogni sua parola era come un treno che irrompesse tra la folla, quasi volesse massacrarla » dirà Vik- tor Sklovskij). La lettura di poesie da parte dei loro stessi autori può an che risultare, oltre che defini zione corale di un'intenzione politica, anche il momento mag giormente dinamico e, per m olti versi, chiarificatore di un’intera cultura. E’ questo il caso di quell’area creativa americana formatasi, e in buona parte ri- soltasi, negli anni '50 e ’60, nota come la Beat Generation. Me morabile resta ancora oggi la prima lettura pubblica di « The howl » (l’urlo) di Alien Gin- sberg fatta dall'autore nel 1956 a San Francisco. In questo ca so i « readings » si investono di ulteriori motivazioni sociali ed ideologiche. Non si tratta più della proposta di un singo lo poeta all’attenzione di molti, bensì di veri e propri enormi convegni nell’ambito dei quali il gran numero degli artisti con vocati crea un’atmosfera di uni forme fermento espressivo non. attribuibile ad un solo scrittore. A questo punto una delle in teressanti considerazioni previ ste in apertura può essere que sta: quali differenze teatrali in tercorrono il l’attore ed poeta che sale sulla scena ? fra Allen Ginsberg durante un suo viaggio in Italia desiderio di socializzare imme diatamente questo atto creati vo, può essere considerato co me un primo e grosso stimolo alla lettura pubblica. Un altro motivo agisce in mo do determinante nel differen ziare l'esibizione scenica di un poeta da quella monologica di un attore e si tratta di un ele mento dettato dall’acquisizione di un fascino ulteriore operato sul pubblico al quale è lecito, nel caso del poeta, identificare il protagonista con l’interprete stesso del testo. E’ questa una suggestione particolarissima di natura per nulla in scena, infatti, un dato cataliz zatore dell’attenzione critica dello spettatore risiede proprio nell’analisi, più o meno emo zionata, che questi fa circa l’abi lità dell'attore di produrre co me suoi i pensieri di un’altra mente. L’attore, dunque, come intelligenza che tanto più è grande tanto più s'adopera per neutralizzarsi e per filtrare un’ altra intelligenza: l’eterno gioco dei doppi che genera i fascini teatrale: più inquietanti ed ambigui del teatro. Tali distanze nel caso dello « spettacolo di poesia » non sono da superare sulla sce na poiché non sono mai esistite nemmeno prima della realizza zione scenica. Eppure non a tut ti gli autori è concessa la ca pacità necessaria per recitare pubblicamente i propri pezzi. Da cosa dipende dunque questa capacità ? Direi essenzialmente dalla conoscenza, pressoché per fetta, degli strumenti di lavoro relativo all'arte poetica più che a quella recitativa. Quindi dal la conoscenza di tutto quell’en- troterra febbrile che precede e determina la costruzione di un verso per passare dalla sonori tà astratta di una lettura men tale alla fonica di un atto in terpretativo. Il poeta deve es sere in grado di capire il ritm o per trasformarlo in respirazio ne, d’intuire un’accellerazione o d'individuare una cesura da rendere con uno stress vocale o una rotura improvvisa del tim bro, il poeta deve sapere come superare la scomodità metrica In entrambi i casi si può rite nere che la presenza scenica determina uno stesso processo: grazie ad un intervento fisico (sia esso operato dall’attore o dal poeta interprete) la lettera tura diventa teatro. E' su di un altro piano che si profilano le differenze. Mentre l’attore mo nologante tende inevitabilmen te a fisicizzare il testo per rea lizzare una sua azione creativa, al momento, stimolato da una forma espressiva (la pagina scritta) che non è sua, il poeta dicitore, rispondendo ad una sua precisa volontà, rimane completamente impastato nella materia astratta e sonora delle parole poiché in esse è relega to il suo atto creativo che pre cede l’elaborazione teatrale. Il Allen Ginsberg e Giuseppe Ungaretti durante un reading tenuto dai due poeti a Spoleto nel luglio del 1967 di un enjembement e come va lorizzare o neutralizzare un ac cento, come creare, infine, scar ti espressivi all’interno di un medesimo tono. La poesia è un fatto di pura voce, il gesto non serve, la mimica facciale può essere solo d’ausilio marginale ad una struttura artistica co munque autonoma. Non è un caso che un poeta come Dylan Thomas fosse un superbo lettore delle difficilis sime liriche di Hopkins e che per tali letture venissero usati i più grandi teatri americani. Per leggere della grande poe sia si tratta di possedere quel lo che W illiam Carlos W illiam, riferendosi a Pound, definì « l’orecchio mistico » del gran de poeta. Naturalmente non ci possiamo attendere di avere sempre esempi e riferim enti tanto vertiginosi ma la regola credo sia giusta. In teatro, dunque, sia l’attore che il poeta officiano un rito ma i term ini delle loro litu r gie sono diversi; il poeta cele bra con la voce i suoi emblemi: le categorie dell’anima, poche ed im m utabili, stabilite nei pe si in fin iti e rapsodici della pa rola, mentre il mattatore dal testo dipana una fantasia di espressioni tutte recuperate nel la sua propria fisicità e nel suo organico affermarsi sul pub blico. Ma concludendo il cerchio, segnato fra lo storico ed il teo rico, che siamo andati traccian do, è necessario stabilire il per ché di questo eccezionale recu pero del brano poetico sulle sce ne operato proprio nei circuiti solitamente adibiti a quell’avan guardia da tempo tesa alla to tale frantumazione d'ogni sup porto letterario. Non per nulla non si tratta, nella fattispecie, di semplici « readings » ma, fi nalmente, di quei veri e propri allestimenti per i quali è sta ta coniata la denominazione: « spettacolo di poesia ». In tali allestimenti l'autore diventa so lo uno degli elementi, anche se sempre il più importante, della rappresentazione. Attorno ad esso sono messi in moto tu tti gli usuali m otivi di un parti colare sperimentalismo sceni co: uso sincopato e schizoide delle luci, impasti di fonemi e litanie astratte incise e trasmes se da im pianti nascosti, simboli scenografici di duchampiana in tellettualità, accellerazioni ed interruzioni improvvise di mo vimenti, balenanti fluttuazioni d’ombre ecc. L’integrazione è spesso sommaria ed il pericolo di produrre un manufatto reso ibrido dalla molteplicità e dalla eterogeneità degli ingredienti usati è grosso e, purtroppo, ra ramente evitato. E’ comunque indubbio che l ’iniziativa presa dal Beat ’72 con il ciclo « un poeta alla set timana », nella certa buona fe de della sua accurata organiz zazione, ha avuto il merito di riproporre, al di là di ogni fa cile e pericoloso dilettantismo personale, un dato fra i più in teressanti storia del l ’espressione artistica. della Giuseppe Manfridi T E A T R O T A D E A PIAZZA MANCINI TEL. 39.39.69 - 39.98.58 R O M A T E A T R O T E N D A S T A G I O N E 1 9 7 7 - 7 8 dal 4 al 16 ottobre RENATO ZERO PRESENTA « ZEROFOBIA » (Malattia in due tempi, in ventata, contagiata e sof ferta da Renato Zero) dal 18 al 30 ottobre La Compagnia Alfred Jarry presenta: « LA GNOCCOLARA » di Pietro Trincherà con Ma rialuisa e Mario Santella. Regia di M. Santella. dall '11 novembre al 20 dicembre dal 25 dicembre al 22 gennaio VITTORIO GASSMAN in « AFFABULAZIONE »» di Pier Paolo Pasolini. Re gia di V. Gassman. LUIGI PROIETTI presenta « A ME GLI OCCHI, PLEASE ». di Roberto Lerici. dal 24 al 29 gennaio ORNELLA VANONI e i NEW TROLLS dal 1 febbraio al 26 marzo dal 7 aprile al 7 maggio Una novità italiana di Vin cenzo Cerami Una novità italiana di Ro berto Lerici Regia di Luigi Proietti CARMELO BENE presenta « S.A.D.E. »» ovvero Decadenza e liberti naggio del complesso ban distico della gendarmeria salentina. Regia di C. Bene. I l r i t o r n o d i S e r g e L i f a r “ D é m o d é ” “ o r é t r o ” ? D A N Z A Le apparizioni di Roland Petit con la sua compagnia in Italia sono sempre state rare e sporadiche, governate non si sa bene da quali intendimenti ma è ormai risaputo che le visite delle compagnie in « tournées » sono pilotate esclusivamente dalle agenzie e quindi da cri teri commerciali, non di certo conformemente alle esigenze dell’arte e della cultura. Credia mo che Roland Petit non sia mai venuto a Roma. La Scala gli aprì le porte negli anni Sessanta e persino la Fracci fu interprete di alcuni suoi balletti (« Le Loup », « La Chambre », « Les De- moiselles de la nuit ») poi tutto finì nel dimen ticatoio. Noi, Petit siamo sempre andati a cer carlo in giro per il mondo, per lo più nella sua Parigi, ancora lo scorso mese di gennaio per la nuova edizione di « Schiaccianoci ». Avendo perso le rappresentazioni di Trieste e perciò la versione di « Coppelia » essendoci del tutto sconosciuta, siamo corsi verso la metà di ot tobre a Napoli, ben sveglia, a quanto pare, nei ranghi direzionali del suo Teatro San Carlo (in settembre c’era stato Béjart con il Balletto del Ventesimo secolo) un po’ meno avanzata nel suo pubblico con vecchie signore reazionarie alla « prima » pomeridiana) e giovani settari. Se oggi una versione coreografica di « Coppelia » è accettabile è proprio questa dell’estroso Ro land. spumeggiante come una bottiglia di cham pagne, caustica come un intruglio papato di smi tizzante ironia e di umorismo amaro. Siamo in presenza di un autentico creatore appartenente al filone del balletto moderno come lo è Jerome Robbins, più profondo questi nelle strutture in terne e, in altro modo, del pari piacevole, in più rivolto ad una problematica costante del suo Paese che naturalmente sfugge al coreografo francese. E' assai curioso come Petit riesca sempre meglio nel trattare la commedia con i toni del dramma, poiché lo spirito dissacratore gli appar tiene mentre gli è più difficile, diciamo meno congeniale, assumere la maschera tragica (si veda « Notre Dame de Paris »). Sono i toni rosei velati di grigia melanconia a riuscirgli meglio, ed è soprattutto il gusto per l’operetta, il mu- sichall che egli ritrova ogni volta con scoppiet tante invenzione. Partendo dal suo solido im pianto accademico acquisito alla scuola del- l'Opéra, lo trasforma, deformandolo, creando un linguaggio che gli appartiene dai tempi felici deH'immediato dopoguerra dei « Ballets des Champs-Elysées » e dei « Ballets de Paris », forte del retroterra dell’Opéra e della sua pas sione per il teatro leggero, per la commedia pic cante o per le storie fantastiche che si rianno dano alla realtà di ogni giorno. Sogni e realtà sono da lui mischiati e spesso il risultato tocca le regioni della poesia. Per questa « Coppelia » Petit situa l’azione in una guarnigione, memore delle fanfare di Offenbach, dei suoi galop e del can-can, sposta la storia d'amore nel triangolo Svanilda-Coppelia- Coppelius, veste la « redingote » dell'artigiano- mago, getta languidi, quando non lividi bagliori sulla commedia che si fa dramma di un uomo deluso. Con le scene e i costumi eleganti di Ezio Frigerio, un Franz aitante (Rudy Brians), una Svanilda in boccio ma già brillante (Mireille Bougeois, nuova speranza della scena coreo- grafica francese), un corpo di ballo scattante aH'unisono, qualche solista di notevole stile (il nostro bravissimo Luigi Bonino), questa fia ba-dramma è credibile, attuale non solo teatral mente ma nei suoi più riposti contenuti (l’auto matismo e l’uomo che non riesce a dominare la macchina) con una nota sentimentale sconfi nante nella tristezza. Ritorno di Serge Lifar all’Opéra! Lifar è una figura di centro nella vita ballettistica francese di questo secolo. Nel 1929, quindi circa qua- rant’anni fa, egli entrava all’Opéra di Parigi come interprete e coreografo del balletto « Le Creature di Prometeo » di Beethoven. Prove niva dal grande movimento dei Balletti Russi di Diaghilev, ultima scoperta di questo scopri tore di talenti e in seno a questa celebre com pagnia si era messo in evidenza come danzatore lui nel quale la meloplastica delle linee insieme all’intensità espressiva costituivano le doti pre cipue. Appena avviato da Diaghilev alla coreo grafia ma con una piccola composizione di non grande rilievo (una nuova versione del « Re nard » di Stravinski dopo quella di Bronislava Nijnska, da riconosciuta maestra, artista, ispiratrice insostituibile), Lifar provvide al rin- sanguamento della danza all’Opéra. Creò un re pertorio incentrato naturalmente soltanto su sue creazioni e si adoprò affinché le serate di bal letti aM'Opéra diventassero una parte essenzia le nella vita artistica parigina. Si accompagnò egli stesso a celebri danzatrici del suo tempo, beniamine del pubblico quali Spessivtseva, Chauvirè, Darsonval, Vyroubova, Daydé. Duran te gli anni scuri della guerra egli non smise di lavorare aM'Opéra e ciò gli procurò qualche noia. Dopo una breve permanenza nel dopo guerra presso il Nouveau Ballet de Montecarlo, Lifar ritornò alla sua compagnia che egli innalzò ad alto apprezzamento internazionale (venne pu re in Italia in varie occasioni a Firenze, Milano, Roma). I suoi « addii » non furono mai defi nitivi. La sua partenza nel 1958 segnò un pe riodo di declino nella compagnia di danza che parve perduta senza il personaggio che le aveva costruito intorno un edificio di apprezzabilità e di fama. Molti gli inviti a grandi coreografi ma evidente la mancanza di un’unità direzionale. Suoi lavori tornarono ad essere comunque ri proposti nel 1969. Oggi in cui la compagine di danza del teatro pare tornata ad un livello di eccellenza tecnica, il teatro gli riapre le porte con un « Homage à Lifar » che si riassume in un programma di suoi balletti e in un’esposizio ne sulla sua opera nelle sale adiacenti alla platea. Lo spettacolo si apre con un « défilé >* del corpo di ballo sulla marcia dell’opera « I Troia ni » di Berlioz, niente di più trionfalistico e pomposo, oltre che nello stile del palazzo Gar- nier. E’ un biglietto da visita del teatro e del l’artista che ha sempre amato, di sviscerato amore, la « danse d’école », una specie di eser citazione sublimata dello stile neoclassico da lui stesso instaurato aM'Opéra sulla scia della grande iniziatrice Bronislava Nijinska e del con tinuatore George Balanchine. Tutto lo spettacolo con le immagini della Mostra ci parla dell'edu cazione di Lifar, della sua estetica e del suo mondo. Ci troviamo di fronte ad una retrospet tiva, ad una « personale », quindi inutile insi stere sul lato « rétro », come alcuno ha fatto a Parigi, o « démodé ». E’ certamente chiaro che questi balletti recano tutte le caratteristiche dell’epoca in cui furono composti e soprattutto il gusto alitante nell’aria sia « Phèdre » di Coc- teau-Auric (1950) che « Les Mirages » di Cas- Nanon Thibon e Cyril Atanassoff nel balletto « Les mirages » di Cassandre-Saugnet-Lifar all’Opèra di Parigi sandre-Sauguet (1947), molto meno « Suite en blanc » che è del 1943 ma che per la sua natura astratta si fa più indefinito. Mentre « Phèdre » mantiene intatta la sua forza, « Les Mirages » col suo carico di simbolismo resta più difficile da digerire oggi specie per il suo svolgimento tortuoso quando non faticoso. L’esecuzione è eccellente e si appoggia su una distribuzione di interpreti quanto mai variata. Il grande pre gio della serata sta appunto in questa parata di « stelle » le quali possono cambiare a se conda della serata che avrete scelto. Per conto nostro ricorderemo Wilfride Piollet, Jean Pierre Franchetti, Christiane Vlassi, Cyril Atanassoff, Charles Jude, Libane Oudart, Michael Denard, Ghislaine Thesmar ma alle altre repliche si sono fatti valere moltissimo anche Nanon Thi bon, Patrice Bart, Noélla Pontois, Dominique Khalfouni, Claude de Vulpian, Claire Motte, Geor ges Piletta, Florence Clerc, Jean Guizerix e mol ti giovanissimi che sono venuti a ringraziare alla ribalta con il loro « Maitre », festeggiatis- simo sia dopo il « défilé » che al termine della esaltante serata. Alberto Testa informazione sociale E d u ca zio n e s tra d a le n e lla sc u o la I r a g a z z i c i g i u d i c a n o Un ragazzo di 12 anni, alunno di una scuo la media inferiore, da un microfono davanti ad un’aula affollatissima di giovanissimi stu denti, di insegnanti, alla « Il Conferenza na zionale dei giovanissimi sul traffico » del mag gio 1977 così si esprimeva: in modo giusto Né a casa né a scuola ci insegnano ad affrontare il problema del traffico. Al massimo cercano di terrorizzarci con le conseguenze. Ci rifiutiamo di osser vare delle regole senza che esse ci vengano spiegate: vogliamo un rapporto diretto con i vigili urbani e le forze dell'ordine. Chiedia mo che i problemi del traffico siano dibattuti non solo a scuola ma anche in seso alla famiglia ed ai comitati di quartiere. Proponia mo inchieste che denunciano la mancanza di segnali e di altri elementi indispensabili al l'arredo stradale; invitiamo gli organi com petenti ad un impegno più assiduo e concreto perché vengano messe in atto le norme pro poste dalla CEE in materia di educazione stradale ». Questa lucida affermazione di un ragazzo che si affaccia ora ai problemi della vita so ciale, come centinaia di altre dichiarazioni, registrate nel corso dei dibattiti nelle scuole medie inferiori, richiama l’attenzione sulla va lidità dell’opera di educazione stradale intra presa dal Ministero dei Lavori Pubblici nelle scuole, con l’ausilio organizzativo dell’Istituto Nazionale per la Comunicazione. Da ormai due anni, infatti, si svolge nelle scuole medie inferiori italiane una campagna continua ed organica di educazione stradale promossa dal Ministero dei Lavori Pubblici d’intesa ed in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione e coordinata ed or ganizzata dall’Istituto Nazionale per la Comu nicazione. La necessità primaria di quest’opera di educazione civica e di battaglia di difesa del la vita (tuttora nel nostro Paese si registra, a causa di incidenti stradali, una media di 25 morti ogni 24 ore) è fuori discussione e richiede soltanto una collaborazione più co sciente e maggiormente dinamica delle fa miglie e di tutte le autorità locali competenti, il valore di questa azione informativa e for mativa consiste nel metodo totalmente in novativo adottato e nei risultati ottenuti su un fronte di 8.780 scuole, 6.780 Presidi, 230 mila insegnanti, 2.500.000 alunni. Il Ministero ha affidato all’Istituto Nazio nale per la Comunicazione un compito non limitato a divulgare le norme di comporta mento sulla strada e ad informare sui pro blemi del traffico, ma teso a promuovere la partecipazione attiva dei docenti e degli alun ni attraverso una serie di manifestazioni au togestite dalle classi dove i ragazzi divengo- Oltre 100 alunni delle scuole medie inferiori di tutta Italia autogestiscono la loro conferenza no protagonisti diretti ed indiretti e non pas sivi assimilatori di nozioni. insegnanti Il metodo innovativo che consente l’auto gestione e la partecipazione personale, cioè la vera presa di coscienza da parte degli in segnanti e degli allievi, è sintetizzato nel l’operazione « una redazione in ogni classe »: ogni anno il Ministero dei Lavori Pubblici di stribuisce capillarmente agli il materiale di base informativo per tre grandi settori: il comportamento dell’utente della strada; la strada ed i suoi problemi; gli in cidenti e loro cause. Da questo momento in ogni classe, gruppi di lavoro oppure singoli alunni, sotto la guida dell’insegnante promuo- movo indagini, ricerche, dibattiti, inerviste sul campo con Autorità ed esperti della circola zione, con le diverse categorie di utenti (tas sisti, camionisti, ecc.), studi su problemi lo cali del traffico, ecc., infine sintetizzano ia loro conoscenza ed esperienza diretta in un elaborato che viene inviato ad una Commis sione nazionale giudicatrice. La Commissione selezionatrice in base an che al filtro di Commissioni e riunioni regio nali convoca gli autori dei migliori elaborati, unitamente ai rispettivi insegnanti, a parte cipare alla « Conferenza Nazionale dei gio vanissimi sul traffico » dove i ragazzi espri mono le loro scelte, le loro proposte formu late in modo totalmente autonomo perché la Conferenza è da loro autogestita, mentre in segnanti ed esperti assumono solo le vesti di consulenti. instaurato con Al metodo nuovo l’orga nizzazione di « una redazione in ogni classe » hanno corrisposto risultati confortanti: sia nell'anno 1976 che nel 1977 hanno parteci pato ogni anno oltre 400.000 alunni con mi gliaia di elaborati; nella « I Conferenza Na zionale dei giovanissimi sul traffico » (Pesa ro, maggio 1976) autorità, tecnici, esperti, sono rimasti impressionati dalla maturità e dalla fondatezza delle proposte operative di questi ragazzi di 10-14 anni; nella II Confe renza (Pesaro, maggio 1977) gli oltre 100 giovani protagonisti hanno voluto individuare i termini di un rapporto del tutto nuovo cioè (sono parole dei ragazzi): « raggiungere quel la auspicata collaborazione tra scuola e le autorità proposte al traffico in maniera gra duale, logica e concretamente proiettata nel tempo ». Da questa mozione degli alunni è nato l’argomento che informa la campagna di edu cazione stradale scolastica per il 1978: « Co il mondo della scuola può collaborare me con le autorità competenti per il migliora mento della circolazione ». La campagna si concluderà con la « III Conferenza nazionale dei giovanissimi sul traffico » il 30 aprile 1978 a Montecatini. S c a l a b i c e n t e n a r i a O p e r a r i n g i o v a n i t a A l l a r g a r e i l p u b b l i c o Due cartelloni, a pochi giorni di distanza l ’uno dall’altro, hanno attratto negli ultim i tempi l’attenzione degli appassionati di mu sica lirica. I l primo, quello della Scala, farao nico e destinato a celebrare il bicentenario del teatro; il secondo, meno appariscente, ma non privo di interesse e di solleticanti alle stimenti, del Teatro dell’Opera di Roma. Alla Scala, dunque, avremo opere, balletti e concerti, quasi senza soluzione di continuità, fino al termine del prossimo anno e, a giudi care dalle scelte compiute, niente è cambiato nella linea programmatica seguita dal Teatro; linea di cui abbiamo già avuto dimostrazione nelle precedenti stagioni. Spettacoli di altis sima qualità, esecutori superbi, interpreti ec cellenti, anche quest’anno. Carlo Maria Badini, nuovo sovraintendente e discendente diretto di Ghiringhelli e di Gras si, ha ereditato una stagione già in parte deli neata dai suoi predecessori, ma della quale — come dice lui stesso — « ci assumiamo inte ramente la paternità ». Una lunga stagione- maratona, che ha sempre più lo scopo di al- largare il suo pubblico e che, per questo, si trasferirà anche in « a ltri luoghi che non sia no quelli della tradizione ». Lo stesso concetto, sebbene in term ini più ristretti, sarà sviluppato quest’anno dall'Opera di Roma. Al secondo anno di gestione, abil mente condotta da Luca di Schena e Gioac chino Lanza Tomasi, il Teatro uscirà dal « vec chio Costami », per portarsi all’Argentina, nel le scuole e in periferia. E ’ stimolante vedere quanta buona volontà, quanta voglia di fare, sia presente al vertice direttivo. I l programma stesso appare migliorato, rispetto agli anni pas sati, sia nella partecipazione di nuovi e valenti direttori d’orchestra, sia nell’assunzione di un nuovo direttore del corpo di ballo e nuovo maitre de ballet, sia nell’ « incontro » con nuo vi interpreti vocali, fra cui — attesissima — Marilyn Horne. Tutto lascia sperare, dunque, che l’Opera di Roma lungi dall’aver risolto i propri pro blemi, rinasca a nuova vita. Guido Nastasi I p r o g r a m m i d e i d u e t e a t r i Presentato a Milano, nel corso di una affollatissima conferenza stampa, il cartellone « monstre » dei bicente nario scaligero. Si tratta di una lunga stagione *■ non stop », la più lunga nella storia del teatro milanese, che si articola in ben 646 manifestazioni, di cui 97 di lirica, 85 di balletto, 231 di concertistica e 233 varie. L'inaugurazione si è avuta alla data tradizionale del 7 dicembre e, tranne una pausa nel prossimo mese di ago sto, sì protrarrà fino al 31 dicembre 1978. Il 7 dicembre è stato dunque rap presentato il Don Carlo di Verdi nel la revisione di Ursula Gùnther e Lu ciano Petazzoni; in un’edizione critica che, come lo stesso direttore artistico Abbado aveva annunciato, ■< ha recu perato anche i tagli fatti da Verdi stesso a Parigi ». Direttore, dunque, Claudio Abbado, regista Luca Ron- coni, scene e costumi Luciano Damia ni. Interpreti: Freni, Obrastzova, Car reras, Cappuccini, Ghiaurov. Di Verdi saranno rappresentate altre quattro opere: Un ballo in maschera (Abbado, Verrei — al suo esordio in quest’opera —, Obrastzova, Pavarotti, Cappuccini), I Masnadieri (da oltre un secolo non rappresentata a Milano: Gavazzeni, Maliponte, Casellato Lam berti, Manuguerra, Nesterenko), La forza del destino (Mehta, Caballé, Car reras, Cappuccini, Ghiaurov), Il Tro vatore (Mehta, Marton, Cossotto, Do mingo, Milnes). Le altre opere in programma sono: Il ratto dal serraglio, diretto da Seger- stam, con la regia di Strehler, scene e costumi di Damiani; Madama But terfly, direttore Prêtre, regia Lavelli; Tristano e Isotta (in lingua originale), diretto da Kleiber; Manon Lescaut, di rettore Prêtre, regia di Visconti, nel l'edizione di Spoleto. Nutrita anche la presenza di com plessi stranieri: la Staatsoper di Vien na con Fidelio, diretto da Bernstein e una serie di concerti sinfonici diretti dallo stesso Bernstein e da Bòhm, con musiche di Mozart, Schubert, Beetho ven; l’Orchestra sinfonica di Chicago, diretta da G. Solti e l'Orchestra sin fonica di Leningrado, diretta da Mra- winskij e Jansons. I balletti si sono aperti con Omaggio a Picasso, con le coereografie di Bor- toluzzi e le scene e i costumi di Mon- tresor. Proseguono con La bella ad dormentata, coreografia e regia di Nu- reyev; Per due, celebri « pas de deux »; Esoterik Satie; uno spettacolo con musiche di Berlioz; la ripresa di Ex- celsior; Cinderella di Prokofiev e Gi- selle di Adam. Anche la stagione dei concerti è particolarmente nutrita. Ricordiamo sol tanto tra i direttori, oltre a quelli già * TSi I OQ § Infine nominati, Ceccato, Soudant, Leinsdorf, Giulini. Altre manifestazioni si alterneranno alla Piccola Scala, al Lirico e al Pa lazzo dello Sport; sono previste una ri presa de « Al gran sole carico d’amo re » di Nono, una novità « Gesualdo da Venosa» di Gino Negri con Milva, l'Opera del mendicante di Britten, Ope ra di Berio. Inoltre una Messa da re quiem di Verdi, diretta da Abbado e, probabilmente, In Duomo; l’Histoire du soldat di Strawinski; l’Heure espagnole e l'Enfant et les sortilèges, diretti da Prêtre. il 7 dicembre 1978, non più come inaugurazione, ma come proseguimento della stagione, verrà riproposta la recente edizione scali gera del Simon Boccanegra, di Verdi. A tutto questo, si aggiungono una serie di concerti alla Scala in occasio ne del 150° della morte di Schubert; un ciclo di concerti da camera con mu siche di Liszt e Bartok, i concerti per lavoratori e studenti; musiche di J. S. Bach; tutta la serie di recital di cantanti lirici; l’ormai consueto pro gramma decentrato In Lombardia e de cine di altre attività collaterali. Con una conferenza stampa, per la prima volta aperta al pubblico, è stato anche presentato il cartellone dell'Ope ra di Roma. Qui, Verdi non fa la parte del leone; è presente, infatti, solo con Emani. Il cast però, risulta abbastan za gradevole: Bartolettl, Casellato Lamberti, Gulin, Bruson, Rinaudo. La stagione ha inizio il 20 dicembre con Tancredi, di Rossini, nell'edizione critica di Philippe Gosset e col finale tragico di Ferrara. L'opera sarà con certata e diretta da Gabriele Ferro, la regia, scene e costumi di Filippo Sa- njust, protagonista l’eccellente Mari lyn Horne. Sempre Gabriele Ferro, dirigerà la seconda opera in programma: Lucia di Lammermoor, protagonista la Deute- kom. Altre opere in cartellone sono: Boris Goudunov nell’edizione originale, protagonista Ruggero Raimondi; l'Ope ra del mendicante con l’allestimento della Piccola Scala; Tosca con Teresa Kubiak, protagonista; Il vascello fan tasma in lingua originale, diretta da von Matacic; Thais protagonista Elena Mauti Nunziata, diretta da Giovanni- netti. Alla musica contemporanea è dedi cata una intera serata con Sancta Su sanna di Hindemith, Collage III e Dies irae di Aldo Clementi [prima esecu zione assoluta), Oedipus rex di Stra winski. Tre le serate dedicate al bal letto; la prima comprendente: I sette peccati capitali dei piccoli borghesi, di Brecht-Weill; Soft blue shadows, con musiche di Fauré; Twilight, con musiche di Cage e Gounod-divertimen- to con musiche di Gounod. La secon da: La bella addormentata di Ciai- kowsky. La terza, infine, comprendente un'opera di un autore italiano contem poraneo; Daydreams e Vespri, quest’ul timo con musiche di Verdi. La •• London Simphony Orchestra » ha annunciato che il direttore italiano Claudio Abbado assumerà l’incarico di primo direttore dal settembre 1979, in sostituzione di André Previn. L'Associazione Siciliana Amici della Musica (Palermo), di cui è responsabile Francesco Agnello, ha presentato il programma della stagione 1977-1978. Tale programma è impostato sulla base di tre cicli dedicati a Schubert (di cui ricorre il centocinquantesimo anniversario della morte), al periodo tra modernità e tradizione (1880-1910) ed infine alla musica religiosa antica e contemporanea. Il ciclo tra « modernità e tradizione » sarà affidato alle orchestre della Radio-Televisione di Berlino, di Katowice e di Radio Belgrado, nonché al pianista Oppitz, a Salva tore Accardo e J. Klein, al Duo Salvetta-Ballista, ecc. La stagione sinfonica 1977 del Teatro Comunale di Firenze, in corso di svolgimento. Gli ultimi quattro concerti per 12 serate saranno diretti da Ettore Gracis, Ezra Rachlin, Gabriele Ferro e Lucas Vis. Le musiche saranno di Vivaldi, Strawinski, Gabrielli, Nono, Schutz, Beethoven, Rachmaninov, Webern, Mahler e Mozart. Roland Petit, di ritorno in Italia dopo il successo della scorsa stagione d'autunno « Notre Dame » ha presentato al San Carlo una esecuzione integrale del balletto « Cop pella » di Delibes. Anche l'E.A. Teatro Verdi di Trieste, analogamente ad ad altri teatri non solo lirici, ma di tradizione, accom pagna il proprio cartellone con una serie di conferenze- prolusioni che hanno lo scopo di fornire un’illustrazione storico-musicologica delle varie produzioni operistiche in cartellone. È stata già la volta di Fedele D'Amico che ha presen tato Turandot », l'opera inaugurale e di Franco Serpa cui è stato affidato il capolavoro wagneriano « Il vascello fantasma ». Seguiranno Mario Morini che parlerà il 5 dicembre su <■ Iris » di Mascagni, Luigi Roni (6 gennaio) su « Spar- tacus » di Khaciaturian e, sempre a gennaio il 23, Mario Messinis su « La vedova scaltra » di Wolf Ferrari. In febbraio le due prolusioni previste saranno tenute da Giuseppe Pugliese (l’8) che si intratterrà su « Elettra » di Strauss e Luigi Pestalozza (il 20) su ■■ Pagliacci » di Leoncavallo e « Sette canzoni » di Malipiero. Giovedì 9 marzo si avrà l’incontro con l'autore e pre cisamente Giancarlo Menotti che presenterà la propria opera « L'ultimo selvaggio », una novità per Trieste. Chiuderanno le conferenze Paola Isotta (23 marzo) e Marcello Conati (12 aprile) che parleranno, rispettiva mente, su <■ I pescatori di perle » di Bizet e su ■ Luisa Miller » di Giuseppe Verdi. La 55a stagione lirica al teatro dell’Opera di San Fran cisco è stata inaugurata con un trionfo prevalentemente italiano. « Adriana Lecouvreur » di Cilea, magistralmente diretta dal maestro Glanandrea Gavazzeni, per la regìa di Raf Vallone, ha infatti come protagonista spesso accla mata a scena aperta, una eccezionale Renata Scotto, assieme a Giuseppe Taddei, Elena Obrazova e Giacomo Aragai. In pochi minuti sono andati esauriti i posti di platea, delle gallerie; in poche ore finiti anche i restanti posti di palco dei teatro La Fenice di Venezia per il concerto di Yehudi Menuhin che ha accettato l'invito dell’Associa zione « Omaggio a Venezia » e ha suonato, senza alcun compenso, nel concerto per Venezia al quale hanno preso parte anche II maestro Zoltan Pesko con l'orchestra della Fenice e il violinista Uto Ughi. L’incasso verrà diviso’ tra « Omaggio a Venezia » (per il restauro di opere d’arte) e la scuola di violino che porta il nome di Menuhin a Londra. La stagione 1977 del teatro di tradizione Comunale di Treviso si è inaugurata con « Don Giovanni » di Mozart. Nello spettacolo figuravano i vincitori del Concorso « Toti Dal Monte 1977 » indetto dallo stesso teatro. Ha diretto Armando Gatto, la regìa di Flavio Ambrosinl e le scene ed i costumi sono di Giancarlo Bignardi. Una francese di 21 anni, Frederique Cambreling, ha vinto il primo premio del Concorso internazionale di arpa intitolato alla memoria della celebre Marie-Antoniette Cazala, virtuosa di questo strumento. Venticinque arpisti venuti dal mondo intero hanno partecipato alla rassegna, la più importante di quelle che si svolgono ogni anno in Francia. La manifestazione ha avuto luogo nella sugge stiva cornice della chiesa romana di Gargilesse, città del- l’Indre (un centinaio di chilometri a sud di Parigi), cara alla scrittrice George Sand L’orchestra da Camera del Festival Pianistico Interna zionale di Brescia e Bergamo, diretta da Agostino Orizio e con la partecipazione solistica dei violinisti Giovanni Guglielmo, Giuseppe Magnani, Gigino Maestri e Astore Ferrari, del flautista Peter Lukas Graf, dell’oboista Michael Kuhn e del fagottista Oscar Trentin, ha effettuato una tournée in Francia. La trentaduesima stagione sinfonica dell'Aquila è stata inaugurata con l'Orchestra Filarmonica di Leningrado. Durante l’intero arco della stagione concertistica ver ranno eseguiti, di norma ogni domenica pomeriggio, 82 concerti di cui 36 all’Aquila centro; 14 decentrati in altre città; 18 riservati al Circolo Giovani Amici della Musica. Alla stagione invernale farà seguito quella estiva « Musica e architettura » che prevede l'esecuzione di 14 concerti nelle Basiliche aquilane e nell’Auditorium regionale di San Domenico. Successo italiano alla VII edizione dell'» Arpa d’oro», il concorso musicale riservato ai giovani di tutto il mondo che il quotidiano di Belgrado « Politika » organizza ogni anno. Tre giovani pianisti italiani hanno ottenuto il primo premio: il diciassettenne Filippo Bianconi, migliore soli sta; i gemelli modenesi Camillo e Umberto Bertetti, ven tenni, miglior Duo. Nell’ambito delle « Journées Internationales de Musi- que Ancienne », che si svolgono a Neuchatel (Svizzera), un corso di « interpretazione vocale », dedicato a Monte verdi ed alla « Monodìa Fiorentina », è stato tenuto dalla professoressa Nella Anfuso, di Firenze, studiosa ed ese cutrice a livello internazionale di musiche antiche. La danzatrice Carla Fracci è giunta a Sydney per una serie di 14 recite di « Giselle » al Regen Theatre di Sydney. La Fracci ha detto ai giornalisti di aver inter pretato almeno 500 volte II ruolo di « Giselle » e di non essersi mai annoiata. Nel rinato Interesse per l’opera italiana preverdiana, una serie di manifestazioni culturali si accentra a Londra, su Gaetano Donizetti e la sua musica. Con il patrocinio dell'Istituto Italiano di Cultura, diretto dal professor Mario Montuori si è aperta alla Central School of Art and De sign dell’Università di Londra una mostra fotografica dedi cata al compositore bergamasco. Il 10 ottobre scorso è iniziata al teatro sociale di Mantova la stagione lirica che è stata inaugurata dal bal letto « Cinderella » di Prokofiev nell'allestimento del Tea tro « Alla Scala », con Luciana Savignano e Paolo Borto- luzzi protagonisti. Il Teatro Massimo di Palermo ha istituito 43 centri di animazione, 22 in scuole anche a Trapani e nella provin cia e 21 in rioni di Palermo. Vi si svolgeranno seminari e concerti. La stagione sinfonica 1977-78 del Teatro Comunale del l’Opera di Genova ha avuto inizio il 1° dicembre con l'oratorio « Giovanna D'Arco al rogo » di Arthur Honegger. La direzione d'orchestra è affidata a Vladimir Delman. Per le parti recitanti principali sono stati scritturati Valeria Moriconi e Raoul Grassi11i. I cantanti sono stati Ileana Sinnone, Carmen Gonzales, Tullio Pane e Giancarlo Turati. La regìa è di Franco Enriquez. di Dante Cappelletti L I B R I FILIPPO CANU La guardia al bidone Edizioni Della Torre, Sassari, pag. 55, Lire 1.000 Filippo Canu è alla sua seconda opera teatrale — la prima si intitolava « Un marziano in redazione » — e mo stra un’effettiva maturità drammaturgica. In « La guardia al bidone », quello che colpisce è il modo con cui I asse storico dei grandi avvenimenti viene reso legittimo solo in quanto esiste una più concreta realtà, quella delle pic cole cose quotidiane. Il «microcosmo» è l'essenza stessa di ogni grande episodio; la gloria, come le sconfitte, si misura nei fatti minuti. Siamo negli anni che vanno dal '40 al '45, in un piccolo centro della Sardegna. Tutta la vicenda avviene in una stanza-soggiorno di una famiglia di un modesto negoziante. In quell’ambiente, giungono, concreti e vivi i « rumori » della storia, di quella più grande, che sembra accadere « altrove », e trovare solo punti di riferimento nel candido entusiasmo della pro vincia. In questa casa il fascismo entra soprattutto attra verso l'eco delle parate mussoliniane, la voce Insistente della radio, il desiderio di « gloria » che prende i giovani, indotti a sognare l'avventura della guerra. Giorgio, adole scente, vede i miti del regime attraverso la figura del l’amatissimo zio Mario, fascista accanito ma politicamente ingenuo. Mario è l’esempio di quale successo poteva avere l’Ideologia fascista nelle menti semplici e acritica mente entusiaste. Antonio, il padre di Giorgio, è una solitaria figura di uomo, intento a cogliere, in quel mo mento, soprattutto le possibilità del futuro. Poi c’è Anna, la figlia che ha 17 anni e il fidanzato Sandro, presto con vinto a diventare fascista. Qualche altra figura completa questo semplice quadro di provincia, dominato dall’insof ferenza per II lento scorrere del tempo. La guerra sarà il momento che unificherà ogni parte d'Italia attraverso due realtà; la paura e la morte. Sandro parte per la Russia mentre Luigi, un amico di Mario, specula con la borsa nera. Povertà e dolore dominano l’umile casa, in quell'angolo sperduto di terra, dove il fascista Mario, desideroso di gloria e onori, si mette a fare la guardia ad una torre d’allarme, consolandosi delle parole del duce: « la patria si serve ugualmente al fronte che mon tando la guardia ad un bidone di benzina ». In questo dramma di Canu, quello che conta sono le piccole cose: della vita e della storia. Gli affetti familiari e una costante ironia, sottile e leggera, danno corpo a una serie di « episodi » dell’esistenza anonima di « quei più », che hanno vissuto la grande tragedia per la con quista della libertà. GUIDO DAVICO BONINO Il teatro di Harold Pinter Editore Martano, pag. 184, s. p. L’analisi del teatro di Pinter si mostrerebbe assai com plessa, se si volesse ricomporre la poetica del dramma turgo inglese all'interno di una corrente del moderno tea tro o di un preciso movimento culturale. Davico Bonino, sulla scorta di una serie di studi che ha compiuto in sede universitaria, ha battuto una strada critica che gli ha per messo di individuare importanti modelli di lettura del l’opera pinteriana. Lo studioso, infatti, si è affidato allo studio della parola, ricercandone, nella lingua originaria, Il valore semantico e il peso drammaturgico. In questa forma di decomposizione dei testi di Pinter, Davico Bo nino permette al lettore di percorrere le principali tappe dei motivi ispiratori, di trovare il senso di un silenzio parlato che, apparentemente, sfugge ad una possibile analisi. Nel teatro di questo importante autore inglese tutto scorre nell'ombra delle situazioni, dove domina la categoria di una ignota « necessità »: la teatralità stessa vive di un'intima logica rappresentativa. I personaggi sembra che si riferiscano sempre ad « altro », che evitino una loro implicazione con i fatti, come a lasciarli andare in un loro movimento. La paura dell'ignoto, fuori dalla « stanza », come l'angoscia della propria identità, si soli difica in un nulla, di cui II tempo è solo una misera e casuale forma di indicazione. Ogni mondo umano rimane chiuso nella propria prigione oscura, dove si finisce per scoprire il senso inesorabile della fine. Pinter si rifiuta di porre, esplicitamente, il disegno delle psicologie, ma esse non si annullano nella semplice prevalenza del fatto. La parola dovrebbe soverchiare tutto: ogni forma di pos sibile verifica di rapporto umano. E Davico Bonino ha giustamente puntato la sua analisi critica proprio sulla parola, dalla quale ha tratto la matrice e l'anima stessa di tutta la costruzione estetica pinteriana. GIANFRANCO BETTETINI e MARCO DE MARINIS Teatro e comunicazione Editore Guaraldi, pag. 160, Lire 2.500 Questo volume fa parte di una collana di strumenti bibliografici, le « Guide Guaraldi ». Si tratta di una inte ressante iniziativa editoriale che mira a fare il punto della situazione sugli studi intorno a importanti fenomeni della nostra cultura. La prima parte del libro contempla un saggio di Bettetini, che sviluppa, in chiave semiotica, il problema della comunicazione teatrale. Le riflessioni dell'acuto studioso si articolano sia su di un piano squisi tamente teorico, che su quello metodologico. In sostanza, in questo primo saggio, abbiamo una serie di indirizzi per percorrere, più organicamente, le tappe di uno studio dei materiali relativi ad una letteratura sul teatro. Il saggio bibliografico di De Marinis è una ricogni zione, più che esauriente, sugli studi compiuti intorno alle varie forme della comunicazione teatrale. Oltre alla vastità di indicazioni, possiede anche una sua compiu tezza. Questo libro è utile allo specialista e, al tempo stesso, a chi si volesse accostare ad uno studio critico dell’evento teatrale nelle sue diverse componenti. PIER GIORGIO TONE: Murnau; BRUNO DE MARCHI: Szabò; ENRICO GHEZZI: Kubrick; ENRICO MAGRELLI: Altman; ALFREDO ROSSI: Kazan; GUIDO FINK: Lubitsch (tutti editi da La Nuova Italia, « Il Castoro Cinema », Lire 1.400 ciascuno) Queste monografie di grandi registi cinematografici confermano la validità e l'importanza di questa collana per il cinema che La Nuova Italia, sotto la direzione di Fernaldo Di Giammatteo, porta avanti. Ogni autore è trattato da uno specialista e viene analizzato in più mo menti: la formazione estetica, le scelte registiche, i sin goli film. Particolarmente interessante è il saggio di Ghezzi su Stanley Kubrick. Di questo grande regista americano, di cui ancora la critica non ha messo bene a fuoco tutte le principali componenti della sua poetica, l'autore offre uno studio molto attento e acuto. Colpisce il rigore con cui Kubrick affronta temi diversi, apparen temente lontani da loro, imparentati, più di quanto non si creda, da un itinerario artistico molto omogeneo e complesso. Molto belle anche le altre monografie. Quella su Lubitsch si raccomanda per la completezza e il rigore con cui è condotta, quella su Szabò offre la possibilità di conoscere uno dei registi ungheresi più interessanti e significativi, mentre quella su Murnau, il famoso regista tedesco di L'ultima risata », risulta un'organica rifles sione su uno dei maestri del cinema internazionale. Alfredo Rossi è l'autore della monografia su Elia Kazan: il regista americano è tra i più discussi interpreti della cultura e della società americana. Di Kazan si può met tere in evidenza una certa « discontinuità » estetica, accanto ad un suo perenne rinnovarsi soprattutto nei valori più squisitamente cinematografici. La monografia su Altman, di Enrico Magrelli, propone una rilettura delle opere di questo grande regista « sociologico ». L'analisi delle opere altmaniane giunge fino all'ultimo suo film: il discusso e straordinario « Tre donne ». LAMBERTO TREZZINI Geografia del teatro. Rapporto sul teatro italiano d'oggi Bulzoni Editore, pag. 238, Lire 6.000 Il libro di Trezzini tende ad analizzare le strutture teatrali in un quadro socio-economico, da cui traspare lo stato di una notevole arretratezza della nostra organiz zazione. Il rapporto tra le buone intenzioni e le realizza zioni si conferma, purtroppo, una costante a tutto disca pito delle seconde. In capitoli diversi, l'autore affronta problemi come le strutture dello spettacolo di prosa, il teatro come pubblico servizio, il ruolo della cooperazione teatrale, fino al mercato teatrale. Ne emergono pessimi stiche riflessioni sugli ultimi trent’anni della nostra storia teatrale, piena di contraddizioni, in una società in costante rinnovamento. WILLIAM SHAKESPEARE Le tragedie Mondadori, pag. 1072, Lire 10.000 Giorgio Melchiorri, nel curare questi nove volumi dedi cati al teatro shakespeariano, ha tenuto presente la necessità di giungere al più vasto pubblico possibile; al tempo stesso non ha messo in secondo piano quelle che sono le esigenze di lettura di uno specialista. L’opera comprende il testo in inglese e le relative traduzioni, compiute da singoli autori. Ricordiamo, tra i vari, quelle di Quasimodo, dello stesso Melchiorri, fino ad Agostino Lombardo. La cura nel recuperare la fonte originale e quella di riportarla in una lingua italiana, più adatta pos sibile, fanno di questa iniziativa una delle più valide « offerte » alla drammaturgia, in questi ultimi tempi. Una volta tanto è il caso di raccomandare ai lettori una viva curiosità per un'opera che, come questa, giunge come un contributo alla riscoperta costante di uno dei più ric chi drammaturghi della storia della nostra letteratura occidentale. Ed è sempre un’autentica sorpresa. LORENZO ARRUGA La Scala Electa Editrice, pag. 318, ¡IL, Lire 20.000 Questo bellissimo volume, dedicato al Teatro alla Scala di Milano, è concepito non solo per il gusto degli appas sionati del melodramma, ma anche per coloro che, in qualche modo, hanno seguito poco la storia e le glorie di questo prestigioso teatro italiano. La Scala è, del resto, I N B R E V E I te a t r o Si sono concluse a fine settembre negli studi televi sivi di Milano le registrazioni del « Commedione di Giu seppe Gioacchino Belli, poeta ed impiegato pontificio » un testo di Diego Fabbri, dedicato alia vita e alla figura del grande Poeta. La messa in onda avrà luogo solo dopo che « Il Commedione » che andrà in scena nei prossimi mesi, avrà esaurito il ciclo delle rappresen tazioni teatrali in molte città italiane, cioè verso la fine dell'anno prossimo. Si tratta di un felice progetto di collaborazione fra teatro e TV, auspice Paolo Grassi, nuovo Presidente della RAI, che evidentemente non ha dimenticato le sue gloriose origini di « teatrante ». Regi sta e protagonista, sia in teatro che alla TV, è Giancarlo Sbragia. Altri interpreti: Sergio Fantoni, Valentina For tunato, Paola Mannoni, Paolo Giuranna, Claudia Giannot- ti, Piero Tordi. Scene e costumi di Gianni Polidori. DIEGO FABBRI Processo a Gesù Mondadori Editore, Serie « Oscar », pag. 99, Lire 1.500 Diego Fabbri è uno dei più signifi cativi rappresentanti della cultura ita liana contemporanea. Nella sua opera si coagulano molti motivi d'impegno letterario e civile, volti a dare una nuova faccia al nostro teatro, dal dopo guerra ad oggi. Intellettuale teso a dare a questa figura un ruolo molto concreto — quello dell'operazione cul turale: si vedano gli anni della sua di rezione della Fiera Letteraria fino ai recenti interventi sul teatro e le sue strutture —- Fabbri non ha mai scisso la sua pratica di drammaturgo da quel la di attento osservatore e « speri mentatore », in senso galileiano, della realtà. Da questo punto di vista, mi pare di estremo interesse la pubblicazione di « Processo a Gesù », forse l’opera più felice dell'autore, al tempo stesso emblematica per la definizione della scena italiana degli ultimi vent’anni. In « Processo a Gesù » possiamo tro vare, a prima vista, un riferimento ai moduli del teatro pirandelliano: la sce na come « dato scoperto » della rap presentazione, l’idea di più verità allo interno delle apparenze, la verifica tra il dato soggettivo e quello ■< esterno ». Sono momenti che Fabbri descrive più nell’apparato del discorso scenico che nella sua sostanza. Al fondo, infatti, permane un senso più sottile e miste rioso di una remota ritualità, dove prendono corpo e si compongono i dubbi e le angosce dell'uomo. Da Pirandello, Fabbri mutua, inizial mente, il senso di una « continuità » della vita scenica, che trasforma con accenti personali originali. I personag gi, nell'opera di Fabbri, non reclamano la loro verità apparente contro quella soggettiva: sono spinti alla costante osservazione di una fragilità del senti mento dell’Assoluto, convinti di posse derlo e di non saperne scoprire fino in fondo le dimensioni e la portata. La consapevolezza che il peccato è quasi una tragica necessità deM'uomo, apparenta il drammaturgo italiano a certi grandi del teatro francese (vedi Péguy, per esempio) e sembra quasi di rintracciaro, a volte, un’ombra di vago giansenismo. Anche questo spiega perché, nel mondo cattolico, l'apparizione di » Pro cesso a Gesù » fu, inizialmente, accol ta con molto riserbo e anche con mal- celata polemica. Al fondo c’è, prima di ogni altra cosa, il bisogno di un confronto con la Verità, bisogno che oltrepassa, ovviamente, certi limiti del l'ortodossia cattolica. Del resto questo tipo di sentimento porta Fabbri ad una visione tragica della vita umana, visio ne che soltanto più tardi riuscirà a mitigare attraverso una bonaria ironia e una melanconica accettazione dei mali dell’esistenza. Processo a Gesù » rimane, comun que, una tappa fondamentale nel tea tro del drammaturgo romagnolo, come rimane una tappa fondamentale del teatro italiano. Per Certi aspetti, oggi, quest’opera ha tutte le caratteristiche della classicità: la forma stessa del dramma, pur non escludendo la cate goria storica, assurge a significati autonomi, tanto da rendere validi e positivi, oggi, i contenuti. La verifica può essere fatta da ciascuno e appare evidente da un'attenta e ordinata let tura del dramma: quelli che sembrano dei motivi legati ad un'« eventualità » storica si scoprono necessari a una nuova ■< codifica »; il che vuol dire che possono essere reinterpretati per l’in timo beneficio, che posseggono, del l'ambiguità poetica. Il tema di « Processo a Gesù » non è solo quello tout-court della fede, quanto quello della possibilità alla fede (e alla sua necessità nell'uomo). Il dramma prende le sue mosse dalla notizia che alcuni rabbini avevano vo luto ricostruire il processo che i loro antichi predecessori avevano fatto a Cristo. Quel processo si riapre, ma, questa volta, ad essere processati sono i cristiani, nel loro modo di sen tire e vivere la fede. Vi sono due ordini di personaggi: i recitanti (i Giu dici e la « troupe » dei Testimoni: costoro vivono la doppia dimensione di figure evangeliche e quella del ruolo « teatrale ») e gli spettatori. Si apre un dialogo tra le due parti, con scambio di idee e di ruoli, fino a che, tra i due gruppi, emergono le rispet tive responsabilità e la necessità di doverle riconoscere. L'urto fatale a cui si giunge non è componibile se non all'interno di una legge d’amore: qui viene fuori un cri stianesimo che invoca l’Azione, la Pra tica, il rapporto concreto tra uomo e uomo. Emergono, al tempo stesso, gli smarrimenti dei singoli personaggi, ognuno avvolto in un dolore che, vis suto soggettivamente, sembrerebbe in compatibile con quello degli altri. La ■■ legge d’amore » è, invece, nel con forto di una solidarietà e comunione con gli altri. L'uomo solo esclude dalla propria vita Dio stesso e la solitudine è la prova tangibile del peccato del l'uomo. La linea del discorso drammaturgico di Fabbri è certamente legata ad una lettura cristiana, tuttavia mi pare che questa cifra sia assolutamente esten dibile. È la stessa struttura del dram ma che lo permette, con i suoi « mo vimenti » interni, con l’accentuazione di un esistenzialismo rivisitato in pos sibili « soluzioni » sociologiche, oltre la dimensione mistica e trascendente. Una rilettura di « Processo a Gesù » mi sembra necessaria anche in teatro, dove credo potrebbe rappresentare, per tutti, una sorpresa. > A b b o n a t e v i a I L D R A M M A La più p re stig io sa riv is ta dello sp e ttacolo Ad ogni abbonato ve rrà dato in om ag gio uno fra i seguenti volum i della M u rsia Editore: P. G rassi: « Q uarant’anni di palco- scenico » L. Lap ini: «Il te a tro fu tu ris ta italiano» C. A lib e rti: « Il te a tro dei pupi » G. P. B runetta: « Il cinem a italiano fra le due guerre » A. C anziani: « Il cinem a francese de gli anni d iffic ili » uno di quei fenomeni che emblematizza la cultura musi cale, e al livello italiano e al livello internazionale. Lorenzo Arruga ha voluto ripercorrere le principali tappe della sua gloria. Giustamente, l’autore fa anche una intelligente rassegna degli spettacoli più significativi, e giunge anche ad analizzare il recente « Simone » di Verdi, nell'edizione Abbado-Strehler. Le immagini che illu strano il testo sono di prezioso ausilio per il lettore, che può, così, meglio ricomporre i dati di un'antica pratica della nostra vita scenica. Ricordiamo, in apertura al volu me, un intervento di Paolo Grassi che, al Teatro alla Scala, ha dedicato molti e fecondi anni della propria atti vità (e, senza dubbio, la sua gestione rimarrà memorabile nella storia del teatro e del melodramma). Chiaro e intel ligente è anche un breve saggio introduttivo di Mario Labroca. In questo volume, dedicato al grande teatro mila nese, vi sono molti spunti di ricerca e molte indicazioni, laddove l’analisi di Arruga, appassionante e sottile, vuole lasciare aperto al lettore lo spazio per una sua personale e successiva fruizione del melodramma. E lo stesso fatto di farci capire che nell’Opera non vi è solo la cultura del passato, ma anche e soprattutto lo spirito e i valori del tempo contemporaneo, è, forse, cosa che molti di noi devono ancora capire a fondo e meglio valutare. "Basti vedere come l'autore, molto giustamente, dedica ampio spazio al mimo, al balletto, alla coreografia: momenti attraverso cui lo spettacolo lirico acquista il necessario spessore di fenomeno, che si fa e si compone, nella naturale e magica concomitanza con la musica e il canto. Un’arte d’équipe, il melodramma, che ha esaltato e subli mato, nel suo composito stato, lo spettacolo come gioia del momento visivo, nell’ansia perenne di palpabili emo zioni. GIUSEPPE TAROZZI Non muore la musica Sugar Edizioni, pag. 296, Lire 5.500 Questo libro è dedicato alla vita e all’opera di Arturo Toscanini. L’autore non ha voluto compiere un’operazione per gli specialisti e per gli addetti ai lavori; d’altro canto, non ha neppure seguito le strade di una facile e sem plice agiografia. Da questo volume noi ricaviamo, attra verso il rigore di una ricerca compiuta con diversi mate riali (molti dei quali anche di prima mano), soprattutto il senso del lavoro sulla musica, compiuto da uno dei più grandi direttori d'orchestra di tutti i tempi. Toscanini — nato a Parma nel 1867 e morto presso New York nel 1957 — aveva alcune' caratteristiche di fondo: una memoria prodigiosa, una lucida visione dell’insieme, come convergenza « necessaria dei minimi dettagli », una vo lontà di trasmettere ogni minima intuizione all’orchestra. Sono tratti che non possono, da soli, darci ragione della sua grandezza; ci possono, però, aiutare a capirlo e a saperlo giudicare in un ampio spazio di esperienze musi cali e culturali. Gli episodi che rendono interessante la sua carriera e la sua vita sono molti; tra i tanti non si può dimen ticare il suo rifiuto, nel 1931, a dirigere alcune marce ufficiali del regime fascista: per questo fu clamorosa mente schiaffeggiato. La coerenza delle sue idee si accompagnava ad una grande coerenza nel lavoro musi cale: da questo, forse, si può spiegare anche la sua forza che, come direttore, diventava uno strumento o una connotazione indimenticabile delle sue splendide invenzioni. U . H u r s i a e d i t o r e Premio Viareggio del Presidente 1977 Una vita per il teatro: dalle prime battaglie giovanili alla fondazione del « Piccolo » di Milano, alla sovrintendenza alla Scalatila presidenza del la Rai-TV. seconda edizione P a o l o G r a s s i Q u a ra n t'a n n i d i palcoscenico a cura di Emilio Pozzi MURSIA 352 pp„ 73 ili. t.t., L. 5.800 Stralci di alcune recensioni del libro: « Grassi è l’unico uomo di teatro a livello internazionale che l’Italia possieda; è, come vuole il suo mestiere, un incantatore di serpenti, un impasto tra Ziegfield e i grandi capocomici di una volta . » Leonardo Vergaci - Corriere della Sera « Per noi che facciamo teatro Grassi resta un ineguagliato produttore di teatro di grande livello, un modello che ha lasciato a distanza gli imitatori... » Giorgio Prosperi - Il Tempo * * * « ...biografia pubblica e privata di Paolo Grassi, corredata di un prezioso autoritratto che il protagonista offre al lettore senza indulgenze e con qualche civetteria, dal quale la sua personalità erompe con onesta prepotenza, con generosa sincerità, con disarmante candore, con insopprimibile inclinazione a essere consapevolmente sgradevole nella schiettezza... » Pier Maria Paoletti - Il Giorno « La risposta alla domanda “chi è Paolo Grassi?” sta in tutte le pagine di questo libro dove il Renzo Tian - Il Messaggero personaggio si espone a luce piena, senza defilarsi mai... » « Se si vuole tentare un bilancio di questo quarantennio di vita teatrale di Paolo Grassi si deve partire dalla coerenza di intenti e di realizzazioni, che esso vanta e che costantemente ne rapporta le tappe alle origini nei fermenti antifascisti e culturalmente europei della Mi Pasquale Guadagnolo - Avanti! lano fra le due guerre... » * U . M u r s i a e d i t o r e BRUNO DE MARCHI (a cura di) La critica cinematografica in Italia Editore Marsilio, pag. 124, Lire 2.800 Qual è la funzione del critico cinematografico e in quale direzione si sviluppa il suo lavoro; infine, quale il suo metodo? Sono degli interrogativi che non perdono la loro necessità e si impongono per una valutazione più corretta di un modello molto importante di opera zione intorno al cinema. Un gruppo di ricercatori del- I Università Cattolica di Milano, guidati da Bruno De Mar chi, ha cercato di fare il punto della situazione. Dapprima sono stati rilevati, su un campione di 96 critici cinema tografici di tutta Italia, i diversi modi di approccio: da un lato, si è ritenuto opportuno fare una distinzione tra critico di riviste e giornali specializzati, e critico di quoti diani. In questo senso si è rilevata una diversa imposta zione nella metodologia analitica, in rapporto al quadro di informazione: il lettore che desidera un modello di confronto valutativo; il lettore che cerca dei termini di orientamento. Ma su questo, in fondo, tutti, in linea di principio possono essere d’accordo. Quello che è interes sante — tra i vari dati che la ricerca contiene — è l'estrazione culturale (e il tipo di formazione) del critico: in generale, è laureato in lettere, ed esercita questa professione perché spinto da un interesse e una forma zione del tutto personali. È facile dedurre come anche il criterio di valutazione subisca notevoli oscillazioni: e in rapporto al tipo di esperienza di ciascuno, e in rapporto ai vari mutamenti, che intervengono nel lavoro svolto all’Interno di un peculiare quadro di riferimento. Per me glio mettere a fuoco il peso « di informazione » che la critica ha sui vari giornali, è stato campionato un gruppo di 8 quotidiani e 14 periodici, nell'arco di tempo che va tra il marzo e il maggio del 1973. I dati che emergono dal lavoro sono diversi e di grande interesse. Siccome la ricerca è tutt’altro che superficiale, vale la pena citare alcuni dei risultati che emergono. Per esempio l’imba razzo che ha il critico a definire il proprio ruolo, oppure la « nevrosi » per « una valutazione sommaria » (forzosa mente sommaria) dei critici dei quotidiani (dove il pro blema principale è quello di una fretta imposta dai tempi estremamente veloci dell'informazione). Questo, tanto per dare un minimo accenno ai molti problemi che da questa ricerca emergono. Rimane, comunque, il fatto che, nel critico, si riassume la necessità mediativa dell’interpre tazione, da parte di un largo pubblico (a volte meno largo: nel caso delle riviste specializzate), sul fenomeno cinematografico. Questo, indubbiamente, è il « ruolo » più tangibile e ovvio del critico cinematografico (ma il di scorso, comunque, potrebbe valere anche per quello tea trale). Alla ricerca sono annessi importanti interventi: uno, di Grazzini, ci sembra degno di essere ricordato in particolare. GIANCARLO CASTELLI, MAURO MARCHESINI Robert Altman Contemporanea Edizioni, pag. 125, Lire 1.800 Questo volume dà il via ad un’altra collana di cinema che la Casa Editrice Contemporanea intende sviluppare, accanto ad iniziative prese da tempo da altri Editori. L impostazione della lettura del cinema, in particolare dell'autore che viene presentato, segue i criteri dell’ana lisi di tipo strutturale. È una linea di indagine rispetta bilissima e può dare non pochi frutti, se non si lascia prendere dall’euforia di un certo « facilismo scientifico » che può derivare dai criteri di formalizzazione (in questi ultimi anni si è assistito ad una vera produzione inflazio nistica di « letture semiologiche », per lo" più con un fastidioso carattere terroristico). In questo caso, però, siamo di fronte ad uno studio serio e approfondito su uno dei registi più stimolanti che l’America ha in questo momento. Nelle varie sezioni di questo saggio possiamo seguire i motivi che hanno ispirato — e ispirano — l’opera del grande regista americano, il suo metodo di lavoro, le costanti della sua ricerca. Una monografia certamente esauriente che, tra l’altro, mette in luce, il rapporto tra lavoro registico, condizione produttiva, opera zione estetica. Per questo, una figura, come quella di Robert Altman, non poteva essere che la più emble matica. GIANNI RONDOLINO Storia del cinema Editrice UTET, tre voli., pag. 464, 485, 528, Lire 75.000 È vero che il cinema ha una storia non lontana. Poco più di cento anni ci separano dai primi esperimenti, quelli che meglio si sono concretizzati nel lavoro dei Pionieri (si pensi ai fratelli Lumières). Il cinema ha anche una sua definizione estetica, spesso ambigua. La sua caratte ristica di mezzo di comunicazione di tipo tecnologico gli ha invalso, da parte di molti intellettuali —• comunque della nostra cultura ufficiale e spesso più accreditata — una certa diffidenza e la considerazione di un episodio espressivo « minore ». Nel cinema è stato sempre difficile poter individuare il valore della creatività individuale, valore-peso che, in generale, ha permesso, nella storia del gusto, una valutazione estetica. Oscillante tra Diver timento e Creatività artistica, il cinema è stato visto come una specie di scandalo del gusto e prodotto di una cultura, che si è identificata troppo spesso con l'in dustria. Vi sono state battaglie filosofiche, movimenti culturali, polemiche che, in qualche modo, si sono trasci nate fino ai nostri giorni. Mi vengono in mente le con siderazioni critiche di alcuni tra i Francofortisti, e in particolare le lucide osservazioni di un Benjamin (cfr. « L'opera nell'epoca della sua riproducibilità tecnica », una serie di saggi che Einaudi pubblicò in Italia alcuni anni fa). Per sua stessa definizione, quindi, il cinema rimane ancora oggi avvolto in una serie di ambiguità, spesso confuso tra il fenomeno di costume e le possi bilità, che ha, di rinnovare la più avanzata civiltà delle immagini. In tante direzioni si può studiare il cinema che, comporlo in una storia organica, può, di per sé, rappre sentare un rischio. Rischio che Gianni Rondolino ha corso, cercando, in qualche modo, una soluzione. Sopra alla sua storia del cinema non possono essere evitate polemiche, anche perché discutibile e, per forza di cose unilaterale, risulta la sua scelta (scelta che, in ogni caso, l'autore doveva compiere). Personalmente credo che l’errore di operazioni del genere sia quello di affidare un lavoro così imponente alle nobili energie di un solo autore. In questo caso è evidente che il punto di vista deve essere preci sato in un'ipotesi, una delle possibili sul cinema e la sua storia. Infatti, quella di Rondolino, è l'ipotesi della ricono scibilità, nel singolo, del dato creativo. La sua storia del cinema è la storia di coloro che hanno contribuito, soprat tutto in senso estetico, al progresso dell’arte cinemato grafica. È ovvio, quindi, che manchi, tra le voci omesse, un film come « Via col vento », episodio tra i più eclatanti della nostra storia del costume e dell'industria cinemato grafica (anche se, per quanto mi riguarda, non posso cre dere che in un film come quello non vi sia un organico in quanto carico di lavoro sul gusto e un’importante operazione estetica: e non solo di quell’estetica genericamente definita del « consumo », facente parte della più vasta categoria del Kitch). Invece il cinema di un Grifi — tanto per citare un esempio recente — è onorato di una sua precisa presenza, indicazioni nuove, per quanto concerne la possibilità di sviluppo della Forma cinematografica. Ad ogni modo, nell’ottica scelta dal l’autore, si riscontra una rigorosa coerenza, e questo non è cosa dappoco. La storia del cinema di Rondolino, è la storia delle grandi personalità, che hanno contribuito alla crescita estetica di una nuova forma di espressività in direzione d'arte. Chi volesse trovare la dimensione socio logica, o economica, del cinema rimarrebbe deluso: sono aspetti che ognuno deve ricavare, per proprio conto e attraverso le indicazioni che l'autore ha fornito. Rimane, comunque il grande valore divulgativo dell'opera, che rac coglie, senza dubbio, gli eventi più significativi (soprat tutto in senso estetico, come si diceva prima] di cine matografie di tutto il mondo. PATRIZIA CARRANO Malafemmina. La donna nel cinema italiano Guaraldi Editore, pag. 259, Lire 4.500 Qualche anno fa, negli studi monografici di « Bianco e Nero », apparve un’interessante ricerca di Cinzia Bellu- morl dedicata alla donna: era uno dei primi organici lavori del problema del lavoro femminile nel cinema. Ora è uscito questo volume che, più che una « geografia » dell'apporto della donna al lavoro cinematografico, vuole esplorare i termini di un rapporto di subordinazione a cui è costretta la donna stessa in un mondo particolarmente maschilista e « fallocratico ». Il lavoro della Carrano si pone sulla scia di una certa militanza moderata del fem minismo e, per motivi diversi, è degno di attenzione pro prio per i problemi che apre e gli interrogativi che pone. GIOVANNI GRAZZINI Gli anni Sessanta in cento film Laterza Editore, pag. 324, Lire 3.300 Giovanni Grazzini propone la seconda raccolta di un gruppo di recensioni cinematografiche: precedentemente si era rivolto agli anni Settanta. È curioso come una specie di « cronaca ragionata » (così potrebbe anche essere definita la critica che si legge sui quotidiani) diventi efficace strumento di riflessione: sulla società, su un periodo storico, sulla cultura e ¡I costume. In realtà le osservazioni di Grazzini sono sempre molto attente e, già in partenza, si pongono come acuto osservatorio cri tico del fenomeno cinematografico. È facile seguire una linea di congiunzione tra i vari film esaminati, tale che ci consenta un significativo tratteggiato della nostra sto ria del cinema, di quello più recente. GOFFREDO FOFI Capire con il cinema Feltrinelli Editore, pag. 396, Lire 2.500 Comincia con il 1963 e finisce nel 1975, la rassegna di opere cinematografiche prese in esame da Goffredo Fofi in questo suo ultimo volume. Precedentemente, con « Cinema italiano: servi e padroni », l'autore aveva mosso una certa guerriglia contro l'ufficialità di molto cinema: in particolare aveva ostentato una certa irriverenza nei confronti di molti cineasti italiani (ma non solo italiani). Fofi ebbe molta fortuna: la cultura giovanile postsessan- tottesca si era riconosciuta in quella sua opera di demi stificazione, quasi con la gioia di liberarsi da una forma di « orribile plagio storico ». In questo nuovo libro, l’autore ripercorre la linea di una sua militanza politica, linea che, in qualche modo, accomuna i suoi diversi interventi. Ma prevale, ormai, la condizione « dell’intellettuale reduce » (reduce da una battaglia che aveva promesso speranze e cambiamenti radicali). In quest’ottica, questo volume è senza dubbio di grande interesse, ma a condizione che si eviti di sen tirsi coinvolti in una sorta di « nostalgia », fuori luogo e senza senso. Con le schede cinematografiche di Fofi, in fondo, possiamo giungere alla conclusione che il cinema va capito: allora ci aiuta a capire. Forse non si può pretendere, semplicemente, di « capire con il cinema ». TULLIO KEZICH Il mille film Edizioni II Formichiere, pag. 653, 2 voli., Lire 10.000 Per seguire dieci anni di cinema, percorrendo le tappe più significative e caratterizzanti, questi due volumi di Tullio Kezich risultano uno dei contributi più importanti che, in questi ultimi tempi, ci viene offerto. Si tratta di 1284 schede di film, raccolti dal lavoro settimanale che un critico intelligente e sensibile ha svolto con coerenza e sottile senso critico. A Kezich dobbiamo una specie di piccola rivoluzione nel modo di impostare la recensione cinematografica e delineare più speditamente una guida alla lettura filmica. Prima di tutto, lo studioso triestino ha ridotto ai tratti essenziali il racconto della trama filmica: con poche ed efficaci frasi circoscrive gli avvenimenti (la fabula). Il resto del discorso punta a risolvere i dati tematici (i contenuti) e i tratti squisita mente filmici. In Kezich scompare per sempre la figura del critico tradizionale, legato al » pezzo di letteratura », a tutto vantaggio di una caratterizzazione prammatica del cinema. Un esempio che molti dovrebbero seguire, sia come modello di lavoro, che come indicazione di metodo. Un contributo per una conoscenza del cinema, per quello che sostanzialmente è: forma di spettacolo, elaborazione di un lavoro in senso estetico e, infine, riflessione che si affida al dato, piuttosto che alla significazione di quello. GIANNALBERTO BEUDAZZI Mei Brooks, l'ultima follia di Hollywood Il Formichiere Editore, pag. 218, Lire 4.500. Nella fertile bibliografia dedicata al cinema, questo volume dedicato a Mei Brooks è molto interessante, perché mette in evidenza come la felicità di rapporto che il cinema americano ha intessuto con il pubblico, in realtà, dipenda da una coscienza che gli autori hanno degli umori di una civiltà che, in molti, e da tempo, definiscono di massa (che non vuol dire « massificata » e basta). L’autore, in una monografia dedicata a Woody Alien, nella « Collana II Castoro » della « Nuova Italia Editrice », aveva già analizzato alcuni degli aspetti del cinema di Brooks. Ora, con più ampio respiro, Beudazzi offre un disegno più completo, e del regista e, più in generale, di una parte delle nuove tendenze del cinema americano. IGOR STRAVINSKY e ROBERT CRAFT Colloqui con Stravinsky Editore Einaudi, pag. 345, Lire 9.000 Vi è una certa tendenza della letteratura e della sag gistica contemporanea alla riproposta dei grandi maestri della nostra storia del gusto in una chiave « interna ». In altri termini: osserviamo tutta una letteratura che tende a farci partecipare del lavoro creativo degli artisti, percorrendo le principali tappe del loro pensiero, illu strandone i momenti della creazione estetica. Questa for ma di « episodio » la riscontriamo anche nella dramma turgia più recente, e mi pare che risulti un'operazione in molti casi interessante ed anche utile. Questo volume di » confidenze » di Stravinsky con il suo assiduo e acuto collaboratore, Robert Craft, è una preziosa testimonianza, che ci aiuta meglio a conoscere il percorso e la dimen sione dell'arte del grande compositore russo. L’abitudine ad esprimere in sede teorica le linee del proprio lavoro è molto antica, e la possiamo trovare in molti musicisti, fino a quelli contemporanei. Stravinsky, comunque, non si fa soltanto portavoce della propria poetica musicale, ma offre anche ampia testimonianza di una sua espe rienza culturale e umana, che si è dispiegata compieta- mente in questo secolo, dagli inizi fino alla morte, avve nuta nel 1971. In questo volume, incontriamo personaggi che hanno caratterizzato la scena di questo secolo, dalla musica, alla danza, alla letteratura. Da un lato ¡I « debito » che il grande compositore dice di avere nei confronti di Debussy, dall'altro l'incontro con personaggi come Diaghi lev, nel quadro dei mitici anni <■ parigini ». E poi l’amicizia con Valéry, Auden, Dylan Thomas. Adorno aveva contrap posto l'arte di Stravinsky, vista come fenomeno restaura tivo, a quella di Sconberg, che mirava ad una costante evoluzione. Forse era un modo troppo semplicistico per giudicare i due grandi personaggi, in particolare era una implicita condanna che il francofortlsta operava nei con fronti dell'arte musicale del grande russo. Le riflessioni che incontriamo in questo volume, spesso, ci aiutano a ridimensionare certi luoghi comuni. Scopriamo come in Stravinsky il concetto di conoscenza e quello di creazione estetica andassero di pari passo: perché ■< un capolavoro è più probabile che capiti al compositore dotato del più alto grado di sviluppo del linguaggio ». In affermazioni di questo tipo possiamo riconoscere una riflessione, sulla estetica, tutt’altro che regressiva. Questo volume aiuta veramente a togliere di mezzo molti degli equivoci che, su certi aspetti dell’arte stravinskiana, si erano formati. In più vi è tutta una parte di soavi memorie, quelle del- I incantata infanzia, in una Russia zarista, vissuta dal maestro con ingenuità, la stessa ingenuità che coloriva I giorni « prima del diluvio ». LUIGI DELLA CROCE Le 107 sinfonie di Haydn Editrice EDA, pag. 380, Lire 4.000 Questo volume dedicato ad Haydn si basa, sostanzial mente, su due direzioni: quella relativa alle annotazioni compiute dallo studioso americano C. Robbins Landon, uno del più autorevoli critici della musica del grande musicista viennese, e quella di un attento ascolto disco- grafico delle opere qui prese in esame. In questo modo ne risulta una esauriente trattazione della sinfonia hay- dniana, che ha la manifesta ambizione di avvicinare il pubblico italiano a questo maestro della musica, a torto poco ascoltato. Nel volume abbiamo dapprima una trattazione bio grafica del musicista, poi tutta una parte dedicata al problema della composizione: infine una parte, la più ampia, che prende in esame le singole sinfonie. A con clusione di questo interessante volume abbiamo una bibliografia e una discografia essenziali. MARGARITA WALLMANN Balconate del cielo Garzanti Editore 1976, pag. 287, Lire 5.500 Margarita Wallmann inizia la sua carriera come danza trice: per un incidente, però, è costretta ad interrompere la carriera. Non abbandonò il teatro: vi entrò ancora più risolutamente, divenendo regista. Il suo lavoro è stato rivolto soprattutto alla scena lirica e non ha conosciuto soste. In questo volume troviamo, attraverso la struttura autobiografica del racconto, circa cinquant'anni di spetta colo internazionale. L'autrice, parlando del suo lavoro e di se stessa, ci offre una serie di ritratti di personaggi illustri: da Toscanini alla Garbo, dalla Harlow a Von Karajan. Il tutto è raccontato con molta semplicità — soprattutto con molta serenità —- tanto che questo volu me scorre molto piacevole alla lettura. Un appunto sol tanto: tanta « Storia » passa nel lavoro e nella vita di questa grande regista, tuttavia quello che le interessa è il lavoro artistico, indipendentemente dal perché e dal come è nato. I personaggi soffocano i quadri di realtà in cui sono inseriti. Non è il caso di dire che questo è semplicemente un limite; in ogni caso rappresenta una scelta di racconto che, per alcuni, può apparire discu tibile. MASSIMO MILA Lettura della Nona Sinfonia Einaudi Editore, Lire 3.600 Le ipotesi sulla lettura della Nona Sinfonia di Beetho ven sono molte; in particolare si possono sintetizzare due posizioni: quella di coloro che vedono in questo importante episodio uno dei punti massimi dell'arte del grande musicista tedesco; l'altra, che è portata a riscon trare, invece, un carattere di involuzione o riflessione musicale senza particolari novità. Mila, in questo saggio, ripercorre, con rigore filologico, le tappe della creazione e della successiva storia della sinfonia. In ogni caso, ben duecento pagine sono dedicate all'analisi formale della partitura: questa parte del libro è comprensibile soltanto a coloro che hanno una certa conoscenza della musica, come fatto tecnico. Questo, naturalmente, non impedisce di giudicare positivamente il lavoro di Mila: rivolgersi agli specialisti è, spesso, anche una necessità (anche se non è indispensabile). AA.VV. Top Music 77: vademecum della musica pop, jaz, d’avan guardia e delle sue strutture 1975-77 Editrice Arcana, pag. 250, Lire 3.000 È un libro « da usare », come viene detto al lettore, esplicitamente. Una specie di inventario della « musica da vendere ». Un’operazione del genere non può che essere giudicata positivamente. Il controllo delle forme musicali, soprattutto di quelle che, in questi ultimi tempi, hanno decretato la cosiddetta « alternativa » è un discorso serio e che merita attenzione. Fino a che punto la cultura cosiddetta « giovanile » vuole rompere con i canoni dell'industria culturale? E perché c’è un’esplosione, nel quadro dell'industria della musica, proprio del genere di protesta? Sono interrogativi che sorgono spontanei, dopo la lettura di questo volu me, che ha il suo principale pregio nel darci un primo inventario della musica, genericamente definita « d’avan guardia ». L. FEBVRE, H.-J. MARTIN La nascita del libro Laterza, 1977, voli. 2, Lire 5.800 Il problema del libro e del suo significato culturale e sociale non può, oggi, non essere preso in esame. In particolare, può diventare un modo per riconfermare più critici contatti con il mondo dell'odierna comunicazione: si pensi al passaggio da una cultura « scritta » ad una di tipo « iconico ». Ambedue i volumi percorrono le prin cipali tappe dei nascere e svilupparsi di una presenza sociale del libro, dai primi « caratteri mobili », nel Quat trocento, fino alla grande circolazione libraria del secolo dei lumi. I due libri si fermano, nella loro trattazione, proprio alle soglie del Settecento, quasi a dimostrare che un esame successivo del fenomeno implica un tipo di analisi diversa o « diversificata ». Col Settecento, e più ancora con l’Ottocento, nasce una nuova epoca per il libro, strumento non solo delle classi egemoni, ma anche di propaganda di una cultura borghese. Il Novecento, poi, svilupperà, a sua volta, ancora una diversa dimensione, quella dell'apporto di altri mezzi di comunicazione di massa. Gli autori, comunque, ci mostrano molto bene la presenza sociale del libro, in una società, come quella preindustriale, dove ha, come si è detto, un valore di « egemonia di classe ». Ancora il rapporto tra pubblico e lettore, così come lo possiamo concepire oggi, non si è affermato: il libro si conferma come splendido omaggio di una casta sociale a se stessa; svolge un grande ruolo di spinta verso una nazionalizzazione delle varie culture nei diversi paesi. Questi aspetti sono messi in evidenza con intelligenza, mentre si pone l'accento sulle principali svolte della nostra storia contemporanea e l’affermarsi e il mutare della nostra civiltà. R. DE FUSCO La riduzione culturale Dedalo Libri, 1976, pag. 192, Lire 2.000 De Fusco è un attento studioso del modello culturale di cui ci informa la società di massa. In particolare i suoi lavori, fino ad oggi, erano tesi a verificare i legami tra l’architettura e i suoi processi comunicativi. In questo libro lo studioso napoletano ha esteso la sua analisi a tutto il campo della ricerca intellettuale, cercando di fare un punto della situazione per quanto riguarda il signifi cato di cultura in rapporto alla società di massa. De Fusco cerca di chiarire le varie accezioni e i valori di una più corretta definizione dell’attuale cultura, sottoli neando come essa non sia valida se non c'è una precisa scelta della gestione e relativa trasmissione. Operando questa distinzione, l'autore ipotizza la necessità di una informazione per un pubblico « criticamente e politica- mente avvertito ». Da cui ne conseguono dei livelli attivi di partecipazione. Le indicazioni dell'autore non mancano di suggestione e, in ultima analisi, si pongono come attenta e meditata riflessione sui possibili significati del l'attuale « rinascita » del messaggio culturale. Noi, altre. Immagini e storie di donne (fotografie di Marina Guerra e Nino Monastra) Edizioni Grafis, pag. 153, Lire 4.000 Da qualche tempo a questa parte, i libri di fotografia hanno risvegliato l’interesse di editori e pubblico. Spie gare questo fenomeno in tutte le sue componenti non è facile. Forse il bisogno di puntualizzare, e meglio appro fondire, I indagine di alcuni aspetti della nostra realtà culturale, spinge alla riflessione circoscritta, quella che, per una forma di illusione, potrebbe darci la fotografia. Questo volume presenta le fotografie di Marina Guerra e Nino Monastra sulla realtà della donna che lavora nei campi. Il tentativo degli autori — in gran parte riuscito — è quello di assolvere alla voce di una serie di racconti e vicende umane: alle brevi storie raccontate dalle donne, si accompagnano i documenti della loro vita di sacrificio e, spesso, di emarginazione. Certo, l'immagine fotografica restituisce più direttamente i dati della realtà, sover chiando, in certi casi, i dati che emergono dalle testi monianze verbali. VITTORIANO RASTELLI Fotografare con successo Rizzoli Editore, pag. 142, Lire 3.000 Tra i vari libri che riguardano la fotografia, questo, di Rastelli, si deve segnalare per la chiarezza espositiva e perché rivolto ad un vasto pubblico. Il proposito di indi rizzarsi soprattutto ai fotografi dilettanti è espresso anche nell’introduzione del libro. Con un corredo di utili foto grafie (dello stesso autore) e di schemi illustrativi, que sto volume di Rastelli costituisce una guida piana e pia cevole alla fotografia. MARSHALL McLUHAN La galassia Gutemberg Armando, 1976, Lire 6.000 Il pensiero di Mcluhan ha interessato, da alcuni anni a questa parte, gli studiosi della cultura e della società di massa. Spesso si è parlato del pensatore americano anche a sproposito: le sue idee sembravano più adatte alla provocazione che al confronto dialettico. Di McLuhan dobbiamo ricordare « Gli strumenti del comunicare », ope ra che non era priva di un certo « scandalo » e che è giunta prima di « La galassia Gutemberg ». Il pensiero dello studioso, per la verità, ha avuto da noi una divulga zione di tipo più mediativo che altro (si pensi alle trat tazioni di Umberto Eco in « Apocalittici e integrati »). In quest’ultimo saggio, che appare forse troppo in ritardo, possiamo trovare gran parte delle indicazioni dell'autore, esposte con suggestione e con affascinanti motivazioni. L oggetto d'interesse è quello del passaggio da una civil tà orale a quella scritta, e poi dall’uomo « tipografico » a quello « elettronico ». Le domande che solleva l’autore non possono non destare il vivo interesse di sempre, anche se molte polemiche si sono smorzate. GIANNI BORGNA, SIMONE DESSI’ C’era una volta una gatta Editore Savelli, pag. 160, Lire 1.800 Questi tre volumi sono dedicati alla canzone di prote sta, a quella canzone che, per molti anni, ha voluto evitare di essere ■■ consumata » nel quadro della più retriva industria culturale. Il libro della Marini, famosa ricercatrice di canti e musiche popolari, oltre che can tante, ha il grande pregio del documento, della testimo nianza di un'esperienza, vissuta e sviluppata dal '70 ai nostri giorni. Le sue ballate sono il preciso punto di convergenza di una sua militanza politica e un'esplora zione etnologica: direzioni che ha sempre perseguito, fino alle ultime felici esperienze dei suoi cori femminili. Negli altri due volumi, attraverso i testi delle più signi ficative canzoni, si tratteggiano, da un lato, le tendenze alternative degli anni sessanta, dall’altro, i modelli di rapporto e confronto tra militanza politica e realtà storico culturale. ARMANDO PETRUCCI .¡bri, editori e pubblico nell'Europa moderna. Guida storica e critica .aterza, 1977, pag. 294, Lire 3.000 3IOVANNA MARINI talia quanto sei lunga Editore Mazzetta, pag. 130, Lire 1.500 BERTELLI, DELLA MEA, MANFREDI, MARINI, MASI, PIETRANGELI La chitarra e il potere Editore Savelli, pag. 170, Lire 1.600 GYORGY LUKÁCS Il dramma moderno Sugare Editore, pag. 174, Lire 3.200 GIUSEPPINA RESTIVO La nuova scena inglese: Edward Bond Editore Einaudi, pag. 186, Lire 2.400 PAOLO PETAZZI Alban Berg Feltrinelli Editore, pag. 360, Lire 3.500 PATRIZIA VIOLI I giornali dell'estrema sinistra Garzanti, pag. 188, Lire 1.800 ALESSANDRO PORTELLI La canzone popolare in America De Donato Editore, pag. 315, Lire 4.500 CARMELO ALBERTI II teatro dei pupi e lo spettacolo popolare siciliano Editore Mursia, pag. 189, L. 3.800 LUIGI ROSSI Dizionario di balletto Della Danza Edizioni, Vercelli, Lire 7.000 ALBERTO TESTA Discorso sulla danza Trevi Editore, Roma, pag. 363, Lire 5.000 GIANNI MASSARO L'occhio impuro Sugare Editore, pag. 193, Lire 2.800 ETTORE SCOLA e RUGGERO MACCARI Una giornata particolare Edizioni Longanesi, pag. 144, Lire 3.200 LIA LAPINI il teatro futurista italiano Edizioni Mursia, pag. 165, Lire 3.500 ROBERTO DE SIMONE La gatta cenerentola Einaudi, pag. 131, Lire 2.000 TONY D’URSO e FERDINANDO TAVIANI Lo straniero che danza Cooperativa Editoriale Studio Forma, pag. 240, Lire 6.500 FRANCESCO PAOLO MEMMO Pratolini La Nuova Italia Editrice, pag. 145, Lire 1.400 FRIEDRICH DÜRRENMATT Il complice Einaudi, pag. 62, Lire 1.200 FRANCESCO MUZZIOLI Eluard La Nuova Italia, pag. 149, Lire 1.400 L I B R I r i c e v u t i EDWARD ALBEE Marina Einaudi Editore, pag. 63, Lire 1.000 ROMANO LUPERINI Slataper La Nuova Italia, pag. 96, Lire 1.400 PETER ROBINSON Asylum Einaudi Editore, pag. 63, Lire 2.000 RUGGERO BIANCHI Asimov La Nuova Italia, pag. 156, Lire 1.400 INGMAR BERGMAN Immagine allo specchio Einaudi Editore, pag. 105, Lire 2.000 LANFRANCO BINNI Dario Fo La Nuova Italia, pag. 102, Lire 1.400 GUIDO DAVI CO BONINO (a cura di) Il teatro italiano; la commedia del Cinquecento Einaudi, pag. 528, Lire 7.000 MARIO VERDONE Le avanguardie storiche del cinema Società Editrice Internazionale, Torino, pag. 231, Lire 3.000 PAOLO MAURI Malerba La Nuova Italia Editrice, pag. 90, Lire 1.400 BARBARA LANATI L'avanguardia americana. Tre esperimenti Einaudi, pag. 178, Lire 3.000 FRANCA RAME (a cura di) Le commedie di Dario Fo Einaudi, pag. 215, Lire 2.500 EDGAR MORIN I divi Garzanti, pag. 200, Lire 1.500 RITA GIULIANI Andreev La Nuova Italia, pag. 134, Lire 1.400 CLAUDIO VARESE Torquato Tasso. Epos-Parola-Scena D’Anna Editore, pag. 240, Lire 5.000 PIER PAOLO PASOLINI Affabulazione, Pilade Garzanti, pag. 244, Lire 5.000 " B l a n c d e B l a n c s ” P r i n c i p e d i P i e m o n t e . L o s p u m a n t e f a t t o s o l o c o n u v e b i a n c h e . E c c o p e r c h é è c o s i d i v e r s o . D i v e r s o . S e c c o . L e g g e r o . P r o f u m a t o . R a f f i n a t o . P e r c h é f a t t o s o l o c o n u v e P i n o t b i a n c h e c o l t e i n u n p r e c i s o m o m e n t o H .......... - j. d e l l a m a t u r a z i o n e . C i n z a n o p e r n o n s b a g l i a r e . S u b i t o a c a s a v o s t r a u n t e l e v i s o r e a c o l o r i c o n s o i e L . 2 8 . 0 0 0 a l m e s e ! REX 26” ULTIM O MODELLO SENSORIZZATO ______ OFFERTA ECCEZIONALE V A LID A DAL 3-10-77 _ T e l e v i s o r e R E X 2 6 ” c o l o r s e n s o r i z z a t o a c c o n to L ir e 5 0 .0 0 0 • 9 24 ra te d a L ir e 2 8 .0 0 0 m e n s ili . . . a f f r e t t a t e v i , q u a n t i t a t i v o l i m i t a t o _______________ a ltre e c c e z io n a li o c c a s io n i ra te a li ! ----------------------- • LAVATRICE REX * ACCONTO L. 15.000 e 12 RATE DA L. 15.000 • LAVATRICE ZOPPAS ACCONTO L. 20.000 e 12 RATE DA L. 15.000 • LAVASTOVIGLIE ZOPPAS ACCONTO L. 20.000 e 12 RATE DA L. 15.000 • LAVASTOVIGLIE REX ACCONTO L. 25.000 e 12 RATE DA L. 18.000 • FRIGORIFERO CASTOR 230 It. bianco con congelatore acconto L. 20.000 e 12 rate da L. 18.000 • FRIGORIFERO CASTOR 230 It. tipo noce con congelatore acconto L. 20.000 e 12 rate da L. 20.000 0 CUCINA a gas REX acciaio inossidabile automatica coperchio cristallo e girarrosto ^ CUCINA REX color legno 4 fuochi con vano laterale acconto L. 15.000 e 10 rate da L. 15.000 acconto L. 30.000 e 12 rate da L. 20.000 1000 ALTRE OFFERTE NEL SETTORE ARREDAMENTO O R G A N I Z Z A Z I O N E A N T O N I O M A Z 2 A M A U R 0 ROMA • • • V ia P rin c ip e E u g e n io , 19-21 - T e l. 7 3 2 2 9 0 - 7 3 1 2 3 6 3 PIAZZA VITTORIO V ia A c q u a B u lic a n te , 4 5 4 7 - T e l. 2 7 0 8 9 2 V ia C a v e , 3 9 4 1 - T e l. 7 8 2 7 2 5 1 C o m p r a r e u n a n o s t r a c a s a è a n c o r a u n a f f a r e a l l e c o c h n e d i z i o n i e c c e z i o n a l i t i p r o p o n i a m o : 0 % 1 contanti 0 4 mutui al 6% - 7% % 0 5 % dilazioni fino a 10 anni al 1 2 % scalare I N P I U ’ T I D I A M O • Ampia scelta di ubicazio ne e di tagli di apparta menti. • Reddito garantito • Accurata selezione nella scelta dei materiali • Tecnologia avanzata degli impianti • Razionale distribuzione degli spazi • Sistema di vendita diretta • Particolari facilitazioni di • Possibilità di permute con • Amministrazione gratuita pagamento il vostro appartamento della nuova proprietà EUR 80 A (JP £l_|^ (Via del Tintoretto - prossimità Tre Fontane). 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Si legge che i primi brindisi li facevano i crociati, figuratevi, pri ma di partire per la Terrasanta. Al zavano e facevano tintinnare il bic chiere quando si imbarcavano, in terra di Puglia, per l’Oriente. Il grande porto delle Crociate era Brin disi, quel saluto da allora si chiamò allo stesso modo. Ma certo esisteva da prima, chissà in quale modo. Anche i romani antichi, per esem pio, avevano l’uso di alzare e toc care i nappi in onore di qualcuno, tante volte quante erano, le lettere del nome. Esagerati ! E c’erano an che allora vini frizzanti, se non pro prio spumanti nel senso preciso che intendiamo noi oggi. Ma lo spuman te vero e proprio esiste da un tempo molto più vicino. Opera di un frate. Era il frate cantiniere del conven to di Hautvillers, vicino a Reims; a lui venne in mente di correggere un certo difetto del vino della zona, che a primavera ricominciava a fer mentare e facilmente si guastava. Pensò di strumentalizzare quel di fetto — come si dice oggi — creò il metodo champenois che consiste nel seguire, nel provocare anzi (se manca) questa seconda fermenta zione in bottiglia: e poi continuare la cura del vino, in modo che i depositi causati dalla fermentazio ne vengano piano piano portati nel collo della bottiglia, poi fatti uscire, mentre lo stesso vino riceve una certa aggiunta di mistura segreta per dargli una impronta speciale. Ma anche da noi c’era stato qual cosa di simile, nei secoli, solo che non se ne era raccolta testimonian za cosi precisa, la tradizione era rimasta confusa; non siamo così bravi, in Italia, a valorizzare quello che facciamo. Eppure, anche da noi esiste una produzione di spumanti che ha secoli di vita, e ci sono spu manti fatti con le stesse rigorosis sime regole del metodo champenois, il metodo studiato appunto dal fra te dom Perignon, e perfezionato con lunga pazienza da altri specialisti. Ci sono da noi spumanti fatti col metodo champenois e sarebbe an che più giusto deciderci a parlare di metodo classico, perché la prima definizione fa venire in mente una specie di sudditanza che non ha mo tivo di esistere. Intendiamoci: ci sono champagnes come ci sono spumanti italiani di grande classe, gli uni e gli altri: e dirlo forse sono più gli stranieri, nei nostri confronti, che non i nostri stessi connazionali. Da noi pesa una mentalità ancora provinciale, a vol te; quel che è fatto in casa non con ta. Oppure, c’è il fatto che i nostri spumanti, anche i più raffinati, co stano molto meno di quelli impor tati. A molti basta questo per pen sare che gli altri devono essere mi gliori. Oppure, non lo pensano, anzi sanno che certi nostri spumanti han no un prestigio mondiale (come af fermò, il famoso Simon, il più gran de esperto esistente in materia): ma si vergognano a offrire que sti gioielli della produzione enolo gica italiana perché pensano che i loro ospiti non lo sappiano e scam biano certe scelte per desiderio di spendere meno. Allora, scegliamo secondo i nostri gusti, secondo il valore reale, non secondo pregiudizi esterofili o falsi problemi di « comparire ». Non si tratta di dare l'ostracismo a ciò che viene da fuori, ma di togliere l’ostra cismo a quello che si fa in casa — se ne vale la pena, come vale —, senza complessi di inferiorità. E sa rà più bello, in questo spirito, al zare i calici, in ogni momento fe lice. Tra l’altro, anche certe idee, certi luoghi comuni sul modo di bere gli spumanti vanno riveduti. Non è affatto vero che lo spumante si beva solo al dessert. Molti esperti addirittura capovolgono il discorso. Non c’è niente di meglio, dicono e scrivono, che un bicchiere di spu mante fresco, leggero, all'aperitivo, se vi piace l’uso dell’aperitivo, per predisporre il palato e lo stomaco al cibo. Non c’è niente di meglio che un buon spumante su antipasti, minestrei zuppe, pesce, insomma anche a tutto pasto, quando ne ave te voglia, quando capita. Sul dolce, invece, dicono gli esper ti, lo spumante secco brut (che è quello a cui ci si riferisce in tutti questi discorsi) non sarebbe proprio l’accompagnamento migliore: a quel punto vanno bene vini passiti, li quorosi. Ed è anche vero. Ma come si fa a rinunciare alle bollicine au gurali, nel grande momento, quando il mo sull’orologio scocca mento magico? A. P. l’ora, Per assicurare la serietà, anzi il rigore nella produzione degli spu manti italiani classici secondo il metodo champenois, si è costituito nel 1975 uno speciale Istituto i cui aderenti si impegnano a osser vare un regolamento ferreo e ad aprire le porte a qualsiasi controllo. All’Istituto Spumante Italiano Metodo Champenois aderiscono le case: Antinori, Calissano, Carpené, Malvolti, Cinzano, Contratto, Equipe 5, Ferrari, Fontanafredda, Gancia, La Versa. Nella foto uno dei più prestigiosi esperti mondiali l’americano Henry Rubin, si documenta presso lo stand dell’Istituto alla fiera di Verona. I A b b o n a t e v i a I L D R A M M A l a p i ù p r e s t i g i o s a r i v i s t a d e l l o s p e t t a c o l o i n I t a l i a I n o g n i n u m e r o d e “ I l D r a m m a ” - T e s t i i n t e g r a l i d i n o v i t à i t a l i a n e e s t r a n i e r e - L e r e c e n s i o n i d e i p r i n c i p a l i s p e t t a c o l i t e a t r a l i - T u t t e l e n o t i z i e d i t e a t r o , m u s i c a c i n e m a , t e l e v i s i o n e j Nuova se rie I L D R A M M A Piazza in Campo Marzio, 5 - 00186 Roma Italia S o sten itore annuo sem estrale Estero annuo sem estrale una copia L. 50.000 L. 15.000 L. 8.000 L. 30.000 L. 15.000 L. 1.500 Scrivere nella causale in STAMPATELLO il nome, cognome dell'abbonato, e l’indirizzo ,on il CAP. u L a p r e s e n z a A l i t a l i a n e l l o S p o r t Il nome dell’Alitalia, negli ultimi tempi, ap legato con sempre maggiore frequenza pare alle principali manifestazioni sportive nazionali ed internazionali. Recentemente, la compagnia di bandiera è stata nominata « Vettore Privilegiato » per il biennio 1977-1978 dal CISM (Conseil Interna tional des Sports Militaires), l’organizzazione che comprende i comitati sportivi militari di oltre 60 paesi di tutto il mondo. Inoltre, in occasione dell’ottava Assemblea Generale dei Comitati Olimpici Nazionali (CNO) che si è svolta nell’aprile scorso ad Abidjan, unitamente alla riunione del Comitato Esecu tivo Internazionale, il Ministero dello Sport del la Costa d’Avorio ha richiesto la collaborazione dell’Alitalia per l’assistenza e l’organizzazione di questa manifestazione. Proprio per svolgere nella maniera più ido nea questa particolare attività, l’Alitalia ha isti tuito nella sua organizzazione un servizio ad hoc in grado di fornire una assistenza differen ziata per i viaggi di atleti, di delegazioni uffi ciali e di « fans ». Questo servizio denominato « Olympia Service » prevede anche una assi stenza diretta sui luoghi dove si svolgono le gare, effettuata da personale specializzato del la Compagnia. C’è da aggiungere che l’Alitaiia non parte cipa allo Sport solo indirettamente attraverso il servizio aereo, ma ha in atto una serie di ini ziative che portano i colori della Compagnia proprio sui campi sportivi. Il « logo » Alitalia è ormai familiare agli ap passionati di automobilismo che hanno visto la Lancia-Alitalia Stratos vittoriosa nei più im pegnativi rallies internazionali e più volte vin citrice del campionato del mondo. Fra breve la compagnia sarà presente an che al campionato motonautico 1977 che si svol gerà in Italia, Svezia ed Inghilterra, così come fu presente lo scorso anno ad Ostumi ai cam pionati mondiali di ciclismo su strada, in qua lità di vettore ufficiale. L’Alitalia non poteva mancare nel mondo dello sport più popolare in Italia: il calcio. In collaborazione con « Domenica Sprint » edita dal TG2 e con i maggiori quotidiani sportivi italiani, la compagnia ha istituito un premio de nominato « il Rifinitore dell’anno », che verrà assegnato a fine campionato, al calciatore che ha effettuato più passaggi-goal. Menzione particolare merita poi « Onda G », una iniziativa in collaborazione col « Corriere dello Sport» che si rivolge esclusivamente ai giovani, proponendosi di riunire in un ideale club tutti i ragazzi che vogliono fare dello sport. Queste iniziative confermano come l’Alitalia nell’attuale momento di rilancio, è presente in tutti i campi... compresi quelli sportivi. / I l i t a l i a .^jppral Ç^gï -...

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Il dramma : rivista mensile di commedie di grande successo. - Torino : Grandi firme, 1925-1992.

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