I L D R A M M A MENSILE DELLO SPETTACOLO - ANNO LIV - N. 1-2 Gennaio-Febbraio 1978 - Lire 2.000 A / * * / 1 ì % & & ^ * V / 4 \ \ !■ ? ? f . 1 - COLLEZIONE TEATRALE “ Piccola Ribalta,, - Torino Testo N. CI. F a s c i n o d e l B r a s i l e Parlare del Brasile vuol dire descrivere un gi gante. La sua superficie, otto milioni e mezzo di chilometri quadrati, supera largamente quella del l'Europa Occidentale ed equivale a circa la metà di quella deli'America del Sud. Un'idea più esatta delle dimensioni di questo paese si può avere pensando che esso è grande ventinove volte l’Ita lia o che le spiagge del solo stato di Bahia sono lunghe poco meno di mille chilometri, quasi l'in tera lunghezza della costa tirrenica. In Brasile tut to è più grande, tutto è più intenso e non solo dal punto di vista geografico: le realizzazioni ur banistiche di S. Paolo sfidano, infatti, ogni nostra immaginazione; il caldo di Rio de Janeiro, almeno in certi giorni, è asfissiante, le fotografie delle ragazze brasiliane sono sulle pagine delle riviste di tutto il mondo, persino la frutta è più grande e più saporita di quella che siamo abituati a ve dere in Italia. In un viaggio in Brasile, però la cosa che mag giormente ci impressiona è la gioia di vivere dei brasiliani ed il folclore dei loro costumi che me ritano di essere conosciuti più profondamente. Molto, ad esempio, si è parlato del carnevale di Rio, ma non tutti sanno che per il «carioca », l abitante di Rio de Janeiro, la vita dell'Intero anno ruota intorno ad esso. Il carnevale di Rio, giustamente il più famoso del mondo, si prepara, infatti, tutto l'anno. Le musiche nascono nella « favelas » i quartieri po veri della città, dove i ritmi vengono composti e provati a lungo da tutto il popolo riunito nelle « scuole di samba ». In questa grande e pittoresca manifestazione appare vivissima l’influenza africana, della quale, comunque, la « macumba » è forse la testimonian za più eclatante. La macumba, infatti, non è soltanto un inte ressante spettacolo di varietà, come potrebbe ap parire agli occhi del turista più superficiale, ma piuttosto il punto di incontro del cristianesimo, religione ufficiale del Brasile, con gli antichi culti portati nel continente sudamericano dai primi schiavi provenienti dall’Africa. Il Brasile, è vero, non è soltanto il carnevale o la macumba, ma questi sono certamente gli aspetti più fantastici di questo paese. E raggiun gerlo non è poi così difficile come può sembrare in un primo momento. Coi moderni jets è possi bile, infatti, fare colazione in Europa e cenare a Rio. Il lunedì, mercoledì e venerdì di ogni setti mana voli diretti del l 'Alitai ia effettuati con aero mobili DC-10 collegano il nostro Paese con il Brasile. I voli in partenza da Milano compiono una breve sosta a Roma e da qui, con un salto di undici ore e mezzo si raggiunge Rio de Janeiro e quindi S. Paolo. inoltre, L'AIitalia, in collaborazione con gli Agenti di viaggio ha predisposto numerosi pro grammi turistici a prezzi estremamente conve niente che consentono di godere di queste e di altre esperienze al cui fascino nemmeno il turi sta più smaliziato potrà restare indifferente. / I l i t a l i a MENSILE DELLO SPETTACOLO - ANNO LIV - N. 1-2 - GEN. FEB. 1978 - LIRE 2.000 SO M M ARIO ODOARDO BERTANI MAURIZIO LIVERANI ROSARIO PORTALE CHRISTOPHER HAMPTON DANTE CAPPELLETTI MARCO TESEI ANGELO LIBERTINI DANTE CAPPELLETTI UGO RONFANI LUDOVICO INCISA UGO ROFANI UMBERTO BONETTI MAURIZIO LIVERANI ALBERTO TESTA Involuzione del gusto? 3 7 La prosa: recensioni (di O. Bertani, M. Guidotti, A. Libertini, D. Cappel letti, M. Liverani) lirica : 27 Avanguardia conciliante 29 Speciale Intervista a Paolo Grassi (articoli di G. Nastasi e D. Del la Porta) Intervista con John Russel Brown 41 51 Eclisse Totale 85 C'è posto per gli autori italiani? In terventi di Roberto Lerici, Nello Sàito, Franco Scaglia, Mario Moretti 89 Mi riconosco in « Ritratto d’ignoto ». Intervista con Diego Fabbri I premi « IDI » in Trastevere 96 97 Teatro e distribuzione. Intervista con Bruno D’Alessandro 99 Promosse l’attore a collaboratore. La mostra su Luchino Visconti 107 La guerriglia dal palcoscenico 111 Qui Londra: Avanti con gli anni ’50 113 Qui Parigi: La cantatrice sfrattata 115 Qui New York: due nuovi autori da tenere d'occhio 118 Un anarchico romantico 120 Lo stato soave di Elisabetta Terabust *‘I|J r Da questo numero, il primo del 1978, « Il dramma » viene stampato e di stribuito dalla Nuova Casa Editrice Cappelli di Bologna. Alla prima fase del rilancio della rivista fa seguito così un nuovo pe riodo nel quale riteniamo che possa essere definitivamente garantita la puntualità nelle uscite e un effettivo potenziamento redazionale. Ringraziamo gli abbonati e i lettori che ci hanno seguito finora e ci augu riamo di averli ancora con noi in un migliore 1978. IL DRAMMA Associato all’unione Stampa Periodica Italiana Comitato di direzione: Odoardo Bertani, Diego Fabbri, Mario Guidoni. Maurizio Livera- ni, Ugo Ronfani. Direttore editoriale: Carlo Fuscagni. Condirettore editoriale: Angelo Libertini. Responsabile: Diego Fabbri. Segreteria: Anna Maria Menna, Renata Fabbri. Redazione: Piazza in Campo Marzio, 5 - 00186 Roma - Tel. 657.307 - Nuova Casa Editri ce Licinio Cappelli spa - Amministrazione: Via Marsili, 9 - 40124 Bologna - Tel. 33 04 11 - Realizzazione editoriale: Wanda Buzzoli, Nuova Casa Editrice Licinio Cappelli, Via Niz za, 45 - 00198 Roma - Tel. 865.259 - Grafica: Marcello e Franca Rossetti - Roma - Re gistrato presso il Tribunale di Roma al N° 15230 del 20-10-1973 - Un numèVo"tC'2.000 - Arretrato L. 2.500 - Abbonamento annuo L. 15.000 - Estero L. 30.000 (IVA compresa) • c.c.p. 11036407 intestato a Nuova Casa Editrice Licinio Cappelli spa - 4.0124 Bologna - Spedizione in abbonamento postale gruppo lll/70%'*'! manose rifiTanchese non pubbJT- cati non si restituiscono - Pubblicità: S.I.P. (Società Internazionale Pubblicità) - Roma, Piazza Adriana. 12 - Tel. 6503 - Milano, Corso Venezia. 14 - Tel. 708001 - Distribuzione: Parrini Distribuzione, Roma - Stabilimento Poligrafico, Rocca S. Casciano (Forlì) L U D O V I C O Z O R Z I I L T E A T R O E L A C I T T À S A G G I S U L L A S C E N A I T A L I A N A F e r r a r a F ir e n z e V e n e z ia t r a il Q u a t t r o e il S e t t e c e n t o n e l l ’o t t i c a m u l t i l i n e a r e d i u n o s t o r i c o d e l lo s p e t t a c o l o . E IN A U D I In questa stagione si avverte una certa stanchezza del oubblico L’informazione è che, seccamente, il teatro di prosa ha perduto, la scorsa stagione, un milione di spettatori. Dopo tredici anni di recuperi, l’indice delle presenze ha avuto una flessione che è generoso non aggettivare, dato che supera il 15 per cento. Il colpo si abbatte in un mo mento delicato della vita teatrale italiana, visto che si sta concretando il passaggio del suo governo dal centro alle Regioni, e che si stanno elaborando, per un confronto parlamentare che non dovrebbe significare l’ennesimo in sabbiamento, diversi disegni di legge. Cresce, intanto, ogni giorno, l’apprensione per le difficoltà finanziarie, che toc cano istituti e compagnie, e colorano di estrema insicu rezza il futuro. Ma ci sono altri motivi, che rendono agitate le acque, ed è su questi che vogliamo ora soffer marci, quasi anche ad introduzione di un discorso appro fondito che, sulla realtà, sul volto, sulla reattività del pub blico, e sulla sua repentina fuga dalle sale sarà quanto prima da condurre, tenendo presente che le cifre sono l’esposizione di uno stato di cose complesso, da analiz zare su piani diversi. Anche perché non è un allontanarsi dovunque, ma in certe città e da certi luoghi, controbilanciata — e, sot tolineo, qualitativamente, da una presenza in aumento che si registra in provincia — dove esista un lavoro organiz zativo e promozionale; incremento che, quest’anno, ad esempio, ha assunto aspetti molto vivaci in Lombardia. Le oscillazioni, le spesso impreviste affluenze dichiarano un mutamento, una inquietudine, che sono in corso e che sono ancora da decifrare: è comunque posto in termini drastici per ogni teatrante il problema: Che fare? Per chi? Come fare un teatro italiano? Una stanchezza del pubblico s’era avvertita. Non pei il teatro in sé, ma per le sue offerte. Si andava consta tando una fase di rigetto per le proposte ufficiali. Una carenza di credibilità nei confronti di sigle. Una sordità ai richiami all’impegno. Un bisogno, quasi, di teatro al l’antica. Forse la tristizia dei tempi ha avuto un buon — anzi, cattivo — gioco psicologico. Ma si può supporre che la gente annusasse che il teatro stava dicendo di meno e meno bene di quel che non avesse fatto sino a ieri, e che cogliesse un certo smarrimento nel seno stesso dei In v o lu z io n e d e l g u s to ? suoi operatori. L’impasse degli Stabili non è stato che un iceberg di una situazione, che era di incertezza sui fini e sui metodi, sui contenuti e sulle forme. Non è un mistero, che l’avanguardia storica di casa nostra ha molte insegne spente, mentre proseguono poche ma salde ricerche con nuova provvista culturale (Castri, ad esempio). Ma essa ha sempre avuto un’area di godi mento elitaria, e non su di essa saranno da caricare re sponsabilità. Vero è, che essa non ha tentato di essere una interprete dei tempi, e che ha raccolto disagi impliciti senza neppure una base unificatrice di atteggiamenti del profondo. Più che di « scuola romana » dell’avanguardia, si può parlare di una opportunità e di un clima romani, di circostanze esterne ad incontri umorosi e a ricerche che, pur dilettose e raffinate, non si ponevano un problema di mutamenti sostanziali: la ricerca vera parte da un’idea del mondo, non viceversa. Il colloquio è apparso l’ultima delle intenzioni della avanguardia; ha avuto almeno il merito di svelare la speculazione imbastita su quella « par tecipazione », che era una coperta corta alle varie mo narchie. Il movimento dei gruppi di base non entra nelle statistiche, e presenta epifanie cangianti e poco sistematiche. Le cooperative — principio bellissimo, ma poi incro stato da molte « convenienze » non chiare —, dopo avere dissodato tanto terreno, si sono imbattute nella domanda: che fare? E sono stritolate dai costi. Non solo, perché rimaste indietro rispetto ad un’esigenza di configurazione strutturale, privilegiante lo spazio residenziale — dove il gruppo si dà una fisionomia — sul generoso itinerare, alla mercé di un mercato. Gli Stabili hanno scricchiolato sotto il proprio peso, e quest’anno, per fortuna, pare che alcuni mettano la testa a partito, mentre debbono ancora resistere a chi li vorrebbe gravare di competenze univer sali, pretendendoli insieme templi dell’arte e nurseries. Ma ormai tramandano l’ieri, e il loro modo d’essere esau risce sempre meno i bisogni di una società che emigra da tutto. Le compagnie di giro, intanto, annusavano il nuovo vento, e sciorinavano un repertorio di teatro leg gero, che più leggero non si dà. è trattenuto troppo a lungo sulla provocazione, ed ha schematizzato un’alternativa che, prima che sotto l’aspetto della storia — e dunque, della relatività — è caduta per la offesa al modo primario della comunicazione, per la sua impossibilità a sistematizzare e a profetare. L’esercizio di un intellettualismo forzato ha fatto il resto. Bisogno della parola, allora. Auspicato — sommessamente — ri torno della poesia. Desiderio di risapere il sentimento, e le gelose ragioni del cuore. Riconfermazione dell’individuo, e piacere di vedere riflessa in palcoscenico anche la pic cola vicenda, che anch’essa, poi, ricongiunge l’uno ai molti, e lo fa sentire meno solo. Questa angolatura a chi do mandarla, se non all’autore? E, specificatamente, all’au tore italiano. Contro il quale si levano spesso voci di disprezzo o quasi. È il vezzo italiano di distinguersi sempre, dal go verno come dal parroco. Non soltanto gli autonomi dis- « shopping ». Perché non è mai vero che il pubblico ha tirare pietre non autorizzate da un’innocenza. E più bravi ancora, nascondiamo la mano. In combutta, teatranti e pubblico hanno compiuto sforzi troppo esigui per cercare proprio attraverso un autore italiano i termini di un lin guaggio comune, la verifica della realtà particolare in raf fronto con quella, su temi analoghi, presentata dalle voci straniere. Gli autori italiani ci sono. Non procederanno per « ondate » e per « scuole », non faranno movimento, ma Eduardo e Fabbri, Lerici e Mainardi, Fo e Moretti, Brusati e Dursi, Sbragia e la Ginzburg sono nomi, ai quali non sappiamo che cosa, oggi, la scena francese potrebbe trionfalmente contrapporre. Con tre codicilli: il muro esi stente, sino a ieri, da parte dei letterati; il nuovo provarsi in teatro di gente d’altra arte e il presentarsi di giova nissimi autori; lo spessore di uno schedario di vocazioni dissuase dalla disattenzione altrui. Quanto alla figura del regista, sostituente quella dell’interprete mattatore, il tea tro italiano ha troppi debiti di riconoscenza, per sbrigar sene, come se non fosse quella che ne ha determinate non solo le caratteristiche, ma l’esistenza stessa secondo dignità. Il problema non è certo quello di abolire il regista — che è stato una conquista culturale del teatro —, ed il peggio (e il falso) sta nella sostituzione con l’autoregia e con la regia collettiva. Le creazioni di massa sono una scheda tuttora bianca. Involuzione del gusto? Rifiuto di pressioni ideolo giche? Rilassamento di quella tensione ideale verso valori civili sulla quale si era fondato il teatro del dopoguerra? E dunque, fine di un’epoca? Anche dell’altro. Un bisogno di nuovi ascolti, di voci diverse e più vicine, di un accostamento meno rigido agli sportelli di distribuzione e, infine, di un rinnovato modo di allestire. Un bisogno di nessuna intimidazione (se pur fatta a fin di bene), un fastidio per certi tam-tam. E, lo diciamo tra parentesi non tanto chiuse, i praticoni purtroppo ne hanno subito inventato altri, trovando la migliore accoglienza in tante e sedicenti autorevoli pagine dello spettacolo, dove oramai si rincorrono le intervistine e, sissignori, le « veline » men tre l’altro ieri si batteva sulla cultura e sul « servizio pubblico ». Concetto, questo, andato a sua volta in crisi circa i modi del proporsi e l’impegno che ne deriva per gli enti pubblici. Il divario delle soluzioni in corso rivela la difficoltà di estrarre una nuova interpretazione, dopo quella che ha avuto per strumento gli Stabili. Qualcuno, in verità, potrebbe ricordare Georges Dan- din, ossia alcuni anni di monotonia, la scorretta informa zione sul teatro contemporaneo, il disatteso pluralismo nelle scelte. La cancellazione di qualsiasi visione spiritua lista della vita non ha di sicuro invogliato fasce di citta dini ad una maggiore frequentazione, e troppi autori con temporanei o sono stati appena assaggiati o non sono en trati nell’udienza e, quindi, non hanno avuto la possibilità di incidere. Restiamo del parere, a questo proposito, che un dispiegamento di teatri stabili — fatto al momento opportuno — avrebbe indotto di necessità ad una varietà e ricchezza di nomi, e insieme a quella formazione di qua dri artistici e tecnici, la cui mancanza è ora tardivamente lamentata. Furoreggiano sempre gli uffici, ma la gente di palcoscenico làtita. Da una parte, dunque, tira l’evasione. Dall’altra, non tira più la gestualità. Da una terza, non tirano più tutto i registi. Sul primo fenomeno, scuotiamo la testa, perplessi sui risultati di tanto fervore, durato anni, di noi supporters di un certo teatro, e tacciamo, perché una eventuale ri sposta è contenuta nella possibilità di capire gli enigmi seguenti. La gestualità: un capitolo importante, ma che si Si tratta, invece, di riequilibrare il gioco delle parti, di arginare le sbandate nell’assolutismo, di rimettere in circolazione un elemento, anzi due, della fabbrica del tea tro. Il primo è l’autore contemporaneo, che deve riavere il suo spazio di libertà. Di fronte ad essa, non serve, è prevaricazione pura, l’intervento registico che alteri, som merga, vada « contro ». L’autore contemporaneo non è an cora storicizzato, e bisogna che gli sia lasciata fondare la propria identità. Non è lecita alcuna rivisitazione. Non ha nulla da aggiornare. È la parola che va lasciata autonoma e responsabile a misurarsi con la realtà e la fantasia. Nes- suno è competente a modificare un linguaggio che potrebbe essere quello del futuro. Rispetto e cautela debbono pre siedere all’opera di presentazione. Il secondo elemento è l’attore. Che da qualche tempo si muove, vuole dimostrarsi: è il ritorno di una storia; e il pubblico accoglie questa offerta. Di artisti, in effetti, c’è bisogno grande. Come c’è di. una spontaneità comuni cativa, che altre cure hanno per qualche tempo compresso. Il piacere di andare a teatro torna a passare per l’attore. Con la speranza che tra le generazioni non si sia creato uno jato. Naturalmente, sarebbe riprovevole infantilismo schematizzare, enfatizzare, negare presenze articolate, essere saturnini. La fuga in avanti è sempre uno sporco alibi, scopre il terrorismo implicito nella sentenziosità abrogativa. La natura vuole che ci sia aria e acqua e sole per tutte le speci. E qui non si vuole altro, che sottolineare questa ten denza dell’attore alla riemersione, collegata con il recupero della parola (che non Strehler s’è mai permesso di vio lentare), e ad una nuova intesa con l’autore, italiano nel caso nostro. Si notano sintomi di reciproca ricerca, il che implica anche ragioni di scrittura non astratta ma soprat tutto implica un nuovo giro di reciproci interessi. Occorre auspicare, che tali fatti non intercorrano a scopi divistici da una parte, commerciali dall’altra. Il teatro ha spesso voglia di fare un passo indietro. L’abisso lo tenta sempre un poco. Solo la coscienza critica dei teatranti ed una critica coscienziosa possono evitare a questo possibile nuovo corso di non procedere che ad una navigazione di piccolo cabo taggio, possono impedire che il teatro cada a oggetto di « shopping ». Perché non è mai vero che il pubblico ha sempre ragione. Non l’ha che raramente, e ce l’ha solo quando sa e capisce. E la diffusa leggerezza con cui si va a teatro, senza la più elementare biblioteca alle spalle non garantisce la portata culturale di nessuna nuova impresa di avvicinamento dello spettatore. I fermenti che vanno a fiorire sono accompagnati con augurio e vigilanza. Augurio e vigilanza che trasferiamo pari pari sulle proposte di legge, ov’esse badassero a codi ficare il dato, anziché acconsentire al teatro ogni diversità ed ogni incognita. La sua meraviglia, insomma. Sul che vorremmo garanzie, nel campo dei circuiti e dei nuovis simi organismi regionali. Il futuro è affidato all’uso della « certezza del rischio ». Odoardo Bertani NOTIZIARIO TEATRO Probabilmente l'originale televisivo « Ligabue » avrà nei pros simi mesi una edizione cinematografica. Ciò è dovuto all’ecce zionale accoglienza che il pubblico ha riservato al film scritto da Cesare Zavattini ed Arnaldo Bagnasco che ha avuto la regia di Salvatore Nocita; protagonista Flavio Bucci. I dati del ser vizio opinioni della Rai relativi alla terza puntata sono sorpren denti e superiori a qualsiasi attesa. La trasmissione, nel com plesso, ha ottenuto un altissimo gradimento: I'80 per cento (tanto per fare qualche esempio, il famoso « Sandokan » aveva avuto il 76 per cento alla terza puntata e il « Gesù » di Zeffirelli I'84 per cento alla prima puntata). Il Piccolo Teatro Città di Chioggia con « I pettegolezzi delle donne » di Carlo Goldoni ha vinto la trentesima edizione del festival nazionale dei gruppi di Arte drammatica della Flta-Enal che si è concluso al teatro » Marrucino » di Chieti. Sono iniziate in questi giorni a Spoleto le riprese di « Nora Flelmer » tratto da » Casa di bambola » di Ibsen, con la regia di Carlo Quartucci. Il film, che sarà programmato sulla Rete 2, è prodotto dalla Televisione, con la collaborazione della Re gione Umbra e del Comune di Roma. -¥■ L’attrice Elisa Ceganl ha vinto quest’anno la terza edizione del » Premio Pirandello maschere nude » che le è stato conse gnato ad Agrigento. Il premio assegnato nelle precedenti edi zioni ad Albertazzi e a Bosetti, è stato attribuito alla Cegani » per le diverse opere pirandelliane interpretate nel corso della sua attività artistica ». * Dopo le quattrocento reclte di « Trappola per topi » la Com pagnia del Teatro dei Satiri ripropone un altro classico di Agatha Christie, quel famoso « Dieci poveri negretti » che René Clalr, in cinema, fece diventare » Dieci piccoli indiani » e che, qui, ha cambiato ancora titolo ed è « Dieci negretti andarono... » in una nuova traduzione dello stesso regista Paolo Paoloni. ■¥■ Il drammaturgo inglese Terence Rattigan è morto nella sua vil la alle Bermude all'età di 66 anni. Rattigan era malato di cancro. Al suo nome sono legati grandi successi teatrali, tra cui » Tavole separate », « La Rolls Royce gialla », e « Il cadetto Winslow », molti dei quali erano stati tradotti in film di pari successo. A Sorrento, organizzati dal Centro di Iniziativa Teatrale in collaborazione con l'Azienda Autonoma, si sono aperti i lavori del PRIMO CONVEGNO DI STUDI TASSIANI dal titolo « Tasso nostro contemporaneo ». I lavori si concluderanno con una tavola rotonda alla quale parteciperanno, il 3 marzo, i professori: Gaetano ARFE', Diego FABBRI, Ruggero JACOBBI, Leone PICCIONI, Walter PEDULLA’ e con la rappresentazione il 4 marzo, al Teatro Armida di Sorrento, dello spettacolo: « Torquato Tasso e la sua commedia » elaborato e diretto da Romeo de Baggis. Le tavole rotonde sui temi « Libretto d'opera » e « Parole e musica », tenutesi a Firenze, in Palazzo Strozzi, costituiscono la premessa al Convegno: « Teatro tra Scapigliatura e verismo », di cui il Gabinetto G.P. Vieusseux ha preso l'iniziativa e che si svol gerà in più giorni nel 1978. Esse hanno Io scopo di predisporre alcuni materiali di discus sione per la manifestazione futura che si articolerà sui diversi aspetti del teatro nel periodo preso in esame: dal melodramma alla commedia borghese, toccando i testi dialettali, gli attori, le tecniche, la scenografia, l'organizzazione. NOTIZIARIO MUSICA Thomas Schippers, prematuramente scomparso qualche tempo ta, ha lasciato mezzo milione di dollari (oltre 400 milioni di lire) all’Orchestra Filarmonica di Cincinnati che ha diretto per oltre sette anni. * Per celebrare il cinquantesimo anniversario del suo debutto americano, Vladimir Horowitz è tornato ad esibirsi in concerto. La rentrée trionfale è avvenuta alla Carnegie Hall di New York. L'acclamatissimo maestro ha eseguito il « Terzo concerto » di Rachmaninov con l’Orchestra Filarmonica di New York diretta da Eugène Ormandy. Il concerto ha raggiunto l’incasso record di 168mila dollari (circa 150 milioni di lire). ■¥■ Deciso il cartellone del prossimo Festival di Salisburgo. L'inau gurazione avverrà il 26 luglio con « Il Cavaliere della rosa » di Strauss; seguirà - Il flauto magico » di Mozart. Le altre opere in programma sono: « Sant’Alessio » di Stefano Landi, « Salomé » di Strauss, « Don Carlo » di Verdi, Don Giovanni » di Mozart. L'orchestra filarmonica di Vienna terrà sette concerti, mentre nella sezione drammaturgica figurano le rappresentazioni del dramma - Jedermann » di Hugo von Hofmannsthal e la commedia » Le nozze di Figaro » di Beaumarchais. ■¥■ Presentato il cartellone della stagione lirica 1978 del teatro « Massimo Bellini » di Catania. La stagione, inaugurata con « Iris » di Pietro Mascagni, si concluderà il 26 maggio. Le opere in programma sono: « Don Pasquale » di Donizetti, «La fanciulla del west» di Puccini, « L'annonce fait à Marie» di Renzo Rossellini, « L’oro del Reno » di Wagner, « Kovancina » di Mussorskij, « La traviata » di Verdi, « Capuleti e Montecchi » di Bellini. Per i balletti: « La bella addormentata nel bosco » di Ciaikovski e la trilogia « Apollon musagete » di Stravinskij, « Sinfonie bre vi » di Mario Zafred e « Il cappello a tre punte » di de Falla. ■¥■ Il Consiglio di Amministrazione dell'Ente Lirico Arena di Ve rona, ha approvato il cartellone della 56.ma stagione lirica, uni tamente al calendario degli spettacoli. La stagione 1978, che si svolgerà dal 23 luglio al 2 settembre, comprenderà 34 manifestazioni suddivise in opere, balletti e concerti. Le opere in programma sono: «Trovatore» e «Forza del de stino » di Giuseppe Verdi, « Madama Butterfly » di Giacomo Puccini. Gli spettacoli di balletto saranno 5. A conclusione della stagione verrà eseguita « La Dannazione di Faust » per soli, coro e orchestra di Hector Berlioz, Le preno tazioni per qualsiasi rappresentazione, sono cominciate presso gli uffici dell'Ente Lirico, il 15 gennaio scorso. * Thomas Schippers, il direttore d’orchestra americano morto ne gli stati Uniti a soli 47 anni, sarà sepolto a Spoleto. Lo ha di chiarato dalla Scozia, dove risiede, il maestro Giancarlo Menotti, il fondatore del Festival dei due Mondi, di cui Schippers è stato oltre che direttore musicale, uno dei più fervidi animatori fino a tre anni orsono. L'ATER (Associazione Teatri Emilia Romagna) ha presentato un cartellone per un centro di produzione di attività lirica e di bal letto. Il programma comprende « Rigoletto », « Emani » e « Oberto, conte di San Bonifacio » di Verdi; « Don Pasquale » di Donizetti; « Il barbiere di Siviglia » di Rossini; « Madama Butterfly » di Puc cini; « Una casa di morti » di Janacek; « The Beggars Opera » di Britten; cinque spettacoli di balletto. In tutto 114 manifestazioni. 74 per la lirica, 33 per il balletto e 7 per i recitals. ■¥■ Scelti a Roma i ragazzi che faranno parte della Giovane Or chestra della Comunità Europea diretta dal maestro Claudio Ab- bado. Si tratta di 15 ragazzi scelti tra violinisti, violoncellisti, flautisti, arpisti, fagottisti ed oboisti. Le selezioni, (presso le sedi Rai con la collaborazione del « Corriere della Sera »), sono servite anche a conoscere il livello tecnico e interpretativo dei nuovi talenti musicali del nostro Paese. * In occasione della « prima » di « Iris » al Comunale di Trieste, è stata inaugurata, nel Museo del Teatro Verdi, una mostra di documenti, in occasione del 25mo. della morte di Aureliano Pertil.e I documenti, di grande interesse e in gran parte inediti, raccol gono tra l’altro autografi di Puccini, Mascagni e Toscanini. ■¥• La vedova di Alfredo Casella, signora Ivonne, si è spenta al l'età di 85 anni in una clinica romana, per complicazioni bronco- polmonari. La sua scomparsa ha provocato grande cordoglio negli ambienti musicali romani, dove era ricordata quale pregevole pianista. Presentata alla Komische Oper di Berlino (RDT) l'opera puc- ciniana « Madama Butterfly » nell’antica versione originale del 1907, cantata in italiano. L'opera è stata presentata come « ricostruzione originale » tratta dalla partitura del maestro lucchese. -¥- La giunta comunale di Palermo ha deliberato la spesa di un miliardo e mezzo per i lavori di restauro del « Teatro Massimo ». II teatro, che ha oltre un secolo di vita ed è il terzo in Italia per importanza dopo « La Scala » di Milano ed il « San Carlo » di Napoli, è chiuso per inagibilità da quasi cinque anni. * Giancarlo Menotti, presidente dell'Associazione Festival dei Due Mondi, ha nominato il giovane maestro Christian Badea, nuo vo direttore musicale del Festival di Spoleto. Il giovane maestro, nato in Romania e non nuovo al Festival (nella passata edizione ha diretto « Maria Golovin » di Menotti), succede a Thomas Schip- pers, che ha avuto la responsabilità musicale del festival spole- tino per venti anni, fin dalla sua fondazione. Il Festival, che si svolgerà dal 28 giugno al 16 luglio prossi mi, si aprirà con « Falstaff » di Giuseppe Verdi. di Odoardo Bertani 1 \°N r®' «j* <^° L’UOMO DIFFICILE di Hugo Von Hofmannsthal Traduzione di Gabriella Bemporad Regia di Sergio Fantoni Interpreti: Sergio Fantoni, Claudia Giannotti, Carlo Valli, Liti iBosisio, Roberto Alpi, Anna Buonaiuto, Roberto Ballerio Marina Pitta Scene e Costumi di Sergio Rossi « L'uomo difficile » di Hugo Von Hofmannsthal è opera che, pensata nel corso di parecchi anni, lo scrittore vien nese portò a compimento nel 1918; la prima rappresen tazione avvenne a Monaco di Baviera nel 1921. E la prima annotazione par bene dover essere sulla sua apparente astoricità. Essa, Infatti, vien terminata quando l'impero austro-ungarico è in avanzata agonia; diciamo pure che è un mondo finito. E Hofmannsthal non era davvero uno spirito addormentato, assorto in esclusivi problemi di stile. In apparenza, dunque, abbiamo un'intatta Austria di ari stocratici, e, drammaturgicamente, una serie di conversa zioni, mediante le quali si alimentano malintesi d’ordine sentimentale, fino a che una giovane donna taglierà il nodo delle Ipocrite convenienze e delle reticenze, dichiarando il proprio amore aH'uomo in difficoltà di vivere. Osserviamo appena di passata il valore di rottura sot teso a questo gesto, collocato nell'ordito comico con pie nezza di argomentazione e come naturale momento di sviluppo della vicenda, che vede in girotondo mirabili figure proprie di una realtà che, mentre era descritta, si faceva più e più lontana. Nulla, si diceva, vien riflesso nel lavoro teatrale della grande tragedia che l'Europa attraversava. In essa, nulla è gridato, nulla vi si lacera. Il tema, già, non è diretta- mente affrontato. E tuttavia che sono i ricordi di guerra — tradotti in esperienza interiore — del protagonista, il conte Hans Karl Buhl, che significato ha la presenza del giovane e rozzo cameriere, se non di un accenno, este ticamente non incrementabile, ai fatti esterni in corso? Altro importava a Hofmannsthal, importava dare una risposta ai tempi dal profondo del proprio essere; senza tradire la propria parte. E allora, la commedia è, per intanto, un omaggio ed una elegia, alla civiltà che ha conosciuto sino all'ultima sua ora la raffinatezza e la bellezza, e che muore tra musiche squisite. In secondo luogo, essa esprime, nel protagonista, il senso della fine e della domanda. Essa va al feudo del momento storico, ed implica interrogativi, accuse, smarrimento, rifiuto. Sicché riguadagna una at tualità profonda, si colloca come testimonianza e profe zia: armoniosa, divertente qual'è in superficie, fra garrule dame e tronfi scienziati e mariti spodestati e sgradevoli tedeschi (tedeschi di Germania!), in effetti « l’uomo dif ficile » è un'opera della crisi. La lettura passa attraverso il protagonista, cui si vuole attribuire un raccordo con l’autore, che un grande amico dell'autore, Cari. I. Burckhardt, fermamente nega. E cer tamente non sarà il caso di insistere sui tratti del per sonaggio, figura di fantasia, prodotto della creatività, ma ciò che egli dice è tuttavia tutto o molto di ciò che lo scrittore pensa. Se è vero, e citiamo il Burckhardt, che Hofmannsthal volle svelare l’essenza reale di una classe sociale — cui non apparteneva — in una trascrizione leg gera e « con le virtù di quando aveva toccato l'apogeo » (ma il ricordo della guerra?), senza cadere nell'autobio- grafismo, è pur vero che in Karl si svolge un dramma aspro ed estenuante, e che la sua posizione è sempre quella di un estraneo, di un «diverso». Karl von Buhl: un uomo appartato, silenzioso, di una reticenza, che non è però alterigia; le donne e tutti ne sono affascinati; ha trantanove anni, e non si è ancora sposato. Sposarsi significherebbe decidere, e Karl vive nell’irresolutezza; non è malato di malinconia, ma di ti more di vivere. Da una sensibilità raffinatissima, ma anche dall'osservazione dei mondo, gli è nato dentro un disgusto, che coinvolge l’intero essere. « Il semplice fatto che si esprima qualcosa è indecente », afferma, motivando un'afa sia che non è noncuranza per gli altri (anzi, egli è estre mamente capace di amicizia e pronto a rendere servizi), ma rigetto di una logorrea che rispecchia solo falsi valori e perpetra ingiustizie e menzogne, e dunque è l'esito di un dolore prodotto dalla consapevolezza della « indicen- za » della parola fatua. Non soltanto, però, della parola che ostenta l'individuo. Trapela, nel personaggio, anche l’alto e severo concetto della invalicabilità della persona, il cui « segreto » non va messo in vetrina. Karl ha una virtù suprema: il pudore. È un senso del pudore, che si trasferisce dalla tutela del proprio « io » alla sfera dell'sgire. È piuttosto trascurato questo aspetto, che integra il primo. Se Karl teme la pa rola, in quanto suscita •< le più disastrose confusioni », vede anche che « c'è addirittura una certa imprudenza nel fatto stesso che gli uomini osino vivere certe cose! » dimostrando « un folle amore per se stessi » e un « acce camento » vergognosi. E a questo punto si chiarisce il livello etico di questa commedia così intensa e sottile, e della quale proprio il protagonista ci reca la profonda attualità, poiché, esten dendone il caso, noi avvertiamo tutta la pregnanza del problema della comunicazione; non solo, siamo anche richiamati al nostro dovere nei confronti delia parola, il che contiene altresì una precìsa memoria evangelica. Opera sapiente, abitata da personaggi rifiniti ad uno ad uno, in nessuna battuta casuale, « l'uomo difficile » è data ora in una edizione d'ardua esemplarità. Si deve a Sergio Fantoni una impostazione originale e, al limite, traumatizzante. Egli non rievoca una Vienna di maniera, non tenta la ricostruzione morbida e benigna, e non per incredulità verso il testo, ma, supponiamo, per diffidenza (giusta) verso la capacità comune di intendere il messaggio dell'opera, ed anche in relazione all'acutezza delle questio ni in essa incorporate. Le scene, mirabilmente luttuose in una evocatività leggera e luminescente dell'arredo ro cocò (sono di Vittorio Rossi), dispongono a un racconto violento e affronta, ironico e disperato, con accortissime deformazioni e tempi di analisi. La recitazione antinatu- « L'uomo difficile » di H. von Hofmannsthal: Sergio Fantoni e Anna Bonaiuto ralista si costituisce come stile, quasi come una equipol lenza linguistica del mirabile status poetico del testo. La rappresentazione mostra la coerenza di una impo stazione che sbatte una luce critica, finale su un mondo che tende a configurarsi come popolato di effimere far falle, di marionette schizofreniche. L'esecuzione, semmai, in un quadro suggestivo, presenta qualche particolare non risolto, qualche oscurità di segni in parti di contorno. Ma vi risplende la interpretazione di Sergio Fantoni, un Karl assolutamente plausibile; per l'attore, un traguardo di intelligenza e di espressività, un'affermazione di capa cità che gli consentono i maggiori confronti. Eccellente, al suo fianco, è Claudia Giannotti, che conferisce vibrante interiorità ad Helene; ottimo Carlo Valli, una lieta rivela zione il giovane Roberto Alpi; convenienti ai ruoli Liù Bosisio, Anna Buonaiuto, Antonio Ballerio, Antonio Ma- ronese e Marina Pitta. IL VALZER DEI CANI di Leonid Nikolaevic Andreev Traduzione di Gerardo Guerrieri Adattamento e regia di Giuseppe Pa troni Griffi Interpreti: Romolo Valli, Massimo Ra nieri, Franco Acampora, Pino Luon- go, Anita Bartolucci, Marisa Belli, Antonio Meschini, Gianfranco Mari Scena di Ferdinando Scarfiotti Compagnia del Teatro Eliseo Arrivato sulle scene italiane prima di Cechov, Leonid Andreev — pur aven dovi conosciuto momenti trionfali, co me quando la rappresentazione di «La vita dell'uomo» ad opera della compa gnia Melato-Sabbatini, nel 1923, fu sa lutata da una quarantina di chiamate — non vi ha resistito, né sul piano dell'interesse critico, né su quello del la rappresentazione. A nostra cono scenza, l’ultima apparizione di opere di Andreev in palcoscenico risale agli an ni '42-'43, quando Anton Giulio Braga- glia, col suo Teatro delle Arti, allestì Ekaterina Jvanovna (debutto al Manzo ni di Milano) e poi « Anfissa », pro tagonista Diana Torrieri. È, dunque una specie di colpo di scena questo recupero di un autore dimenticato in blocco, mediante l'al lestimento di « Il valzer dei cani », compiuto dalla Compagnia del Teatro Eliseo. Andreev e il suo doppio. Il suo dedi carsi prima alla letteratura e poi, co me del resto Cechov e Gorkij, al tea tro, esperienza che abbraccia gli an ni dal 1905 al 1916; il suo progressi smo che si ribalta in opposizione (non proprio immotivata) alla Rivoluzione di Ottobre; il suo rapporto d’amicizia e di scontro con Gorkij; i due binari della sua arte, volta per un verso al sogno, alla rappresentazione di miti, ■■ Il valzer dei cani »: Romolo Valli e Massimo Ranieri (foto Tommaso Le Pera) al simbolismo e, per un altro verso, alla analisi dell'animo umano, ad uno psicologismo agganciato ad una filo sofia del nulla; e l’alternarsi delle forme realistiche con quelle di un espressionismo « barocco », messo in evidenza da Paolo Chiarini. « Il valzer dei cani », sotto il profilo del « genere », non sposa strettamente né il filone realistico-psicologico, né quello delle visioni generali, delle esplicite dichiarazioni di individualismo e di pessimismo, delle influenze niet- schiane. Direi che, invece, ne compie una sintesi. Il sottotitolo: « Poema del la solitudine » significa certo che l'au tore è in fase di riflessione e in ef fetti l'opera è intrisa di autobiogra fismo. Conosciamo, ora, Enrico Tille, gio vane uomo di banca che, mentre si accinge a festeggiare con alcuni amici le prossime nozze, e li ha invitati per l’occasione nell’appartamento che sta arredando con grande speranza di col locarvi una lunga felicità, riceve la fidanzata, Elisabetta. Ma c'è il breve annuncio, ch’essa ha dovuto piegarsi alla volontà dei genitori, e che si è quindi sposata con un altro. Tutto crolla per Enrico, il quale co mincia a condurre una doppia vita: funzionario impeccabile e in avanza mento da un lato, frequentatore di bettole dall’altro. E non soltanto, per ché egli si compiace di architettare un colpo grosso, che imbecillità de gli altri non potrebbe impedire. Com pagno di bevute e di macchinazioni, uditore paziente è un amico di gioven tù, un misero impiegato di polizia, che egli si trascina dietro e che adopera per i suoi sfoghi, approfittando della sua pochezza mentale e della sua fra gilità di carattere. La vendetta contro la società rima ne un vaneggiamento; in realtà, la so litudine è un tarlo che gli rode l'ani mo, e gliela consuma nel giro di tre anni, in capo ai quali Enrico si uccide. Il dramma contiene altri personaggi e altre cose: un fratello, Karl, cattivo e incline al delitto, del quale basterà dire che il rapporto con Enrico non risulta né dialettico, né complementa re: si tratta di un personaggio non motivato, in cui la « minorità » non sale a livello di coscienza, non ne fa un emarginato; una figura priva di interesse e che non fa paura. Poi c'è Elisabetta, l’indegna, che — perduti marito e figlio — viene a visitare la casa che non è stata sua, e capisce d'avere sbagliato. La donna è sì figura funzionale, per ché ribadisce il tema bellissimo del lavoro, che solo in parte è quello del la solitudine, ma che è soprattutto un soffocato lamento sulla vita cui non se data vita. La casa interrotta, la culla vuota; il dramma è in questo senso crescente di delitti verso l'esi stenza, di aborti interiori, di fecondità negata. Il pessimismo è totale, e colo ra di progressiva desolazione questo itinerario umano di rimpianto per le cose che potevano essere e non sono state, perché gli uomini uccidono l'amore. O, forse, nemmeno esiste. Quanto meno, se è da leggere co me sesso: non per caso le due donne del dramma riprendono un tema caro ad Andreev (come a Strindberg, ma in senso opposto o quasi, ossia non da misogino radicale). Alla Giuliani, « Il valzer dei cani » non piace proprio: lo definisce «uno zibaldone dei più ricorrenti motivi an- dreeviani ». Può darsi, ma ne abbiamo appena data una proposta di lettura, che ci sembra unificatrice, specchio di una sincerità umile, di un soffrire coerente nel protagonista. E se l'ope ra non ha né continuità, né grandezza, non è peraltro da buttare via, e il buono che contiene basta a legittimar ne una rappresentazione. La casa è il motivo musicale — ben più del valzer, che rappresenta un momento polemico — e il regista Giuseppe Patroni Griffi lo individua opportunamente, anche se poi si la scia andare a scrivere la sciocchezza degradante che « le case non hanno bi sogno di Dio ». Il dramma di Andreev, semmai, dimostra il contrario. Ed è vero, senza forse, che questa casa ideata da Ferdinando Scarfiotti non « parla », come pareva che il re gista volesse. È vasta e fredda, quasi assente dal dramma. Del resto tutta l'impostazione è freddamente razioci nante, e taglia in due il corpo dell'ope ra, staccando il protagonista dagli al tri. Da un lato, l’umanità disperata di Enrico, dall’altro lo schematismo del contorno, con note di ambiguità quan do lasciti intravedere — in Karl e in Katiusca —, sotto la perversità o sotto la mollezza, uno spunto di contestazio ne, piuttosto gratuita. L’orrore per il realismo induce poi a camuffare il personaggio di Katiu scia (ma Andreev lo chiama Fekluscia) che, da una sua disfatta autonomia, da una sua ben russa atrofia morale, dalla sua maschera di umiliato e of feso, di parassita, viene trasformato in una figura composita di giullare, Charlot, guaglione napoletano e «fool» messi insieme. Finisce col parere — persino —• il pupazzo percosso di « Il rumore » di Boris Vian. Lo spettacolo ha come cifra di base la violenza dei rapporti (sino a cambiare la scena fi nale del terzo atto, quando è Enrico ad imporre ai suoi ospiti di ballare come cagnolini) e insiste per una re citazione dura, eccitata, a scatti, scon trosa. I personaggi si riducono talvol ta, a marionette, con gesti di studia ta secchezza, di espressioni, che ri sulta però applicato (e non digerito). Si concedono anche delle opinabili « gags » e non ignorano il pubblico, cui capita che si rivolgano. 1 risultati sono alterni: il movimento iniziale ri sulta forzato e difficoltoso, il terzo atto è molto bello per coerenza, in ventiva e colore drammatico, il quarto, già debole nel testo, non trova la temperie necessaria a preparare il sui cidio. Romolo Valli sostiene con forza per suasiva e limpida naturalezza il ruo lo di Enrico; alla sua solida interpre tazione non fa davvero riscontro quel la di uno spaesato, meccanico, scola stico Massimo Ranieri; Franco Acam- pora (Katiuscia) offre interessanti ap punti, motivi stimolanti, per un perso naggio bellissimo che è ancora da riu nire, e che è più plausibile nelle debo lezze che negli scatti; molto brava è Anita Bartolucci (Eugenia « La Matta ») per la decantazione non disumanizzata del suo ruolo e di efficace intensità Marisa Belli (Elisabetta); Pino Luongo è Ivan, il cameriere, assurdamente in carognito. LA DOPPIA INCOSTANZA di Pierre Carlet de Cnamblain de Mari vaux Traduzione e regia di Andrée Rutf Shammah interpreti: Giuliana De Sio, Giorgio Me lazzi, Gianni Mantesi, Flavio Bonacci Cesare Ferrario, Tatiana Winteler Valeria D’Obici Scene di Maurizio Fercioni Musiche a cura di Fiorenzo Carpi Compagnia « Franco Parenti » La rappresentazione di « La doppia incostanza » costituisce un avvenimen to, posta la latitanza pertinace quante involontaria di un così preciso mae stro di teatro dai cartelloni; non so lo, ma cerchereste invano in biblio teca un congruo volume di traduzion e almeno un saggio di parte italiana Basta leggere le parole che Andrée Ruth Shammah premette alla sua tra duzlone e al suo spettacolo, per prò vare un sollievo. Svanisce il terrorisme delle « chiavi » — se ne condanne l’abuso corrivo, ovviamente, e nor l’aspetto metodologico —, e si instau ra quello della proposta di un autore penetrato, ma non reso monocolo, non inverosimile a se stesso. Allo schema tismo si sostituisce la rappresentazio ne, che da sé ci fa riconoscere an che i limiti di un discorso, ma pari- menti ha un valore di ipotesi, di rap porto, di conoscenza dei termini, e insomma è dopo di essa, che si può cominciare a discutere e non invece a ripetere e a venerare il « verbo » ag giunto. Basti considerare — l’argomento ca sca bene — quale leccornia poteva es sere, per un regista di ostinato ideo logismo, questa storia di giovani chia mati a integrarsi in un mondo non anagraficamente adulto, ma fornito dei mezzi del potere. E invece, ci sono state risparmiate denunce e condanne. Disposizione intelligente e onesta, dunque, quella con cui la Shammah s'è fatta esploratrice di un mondo citato male perché ignoto, offrendoce ne l'esempio con l’allestimento della prima commedia di Marivaux, allora trentacinquenne, molto cara a lui co me ai comici del Teatro degli Italiani; poi retrocessa a vantaggio di altri ti toli, e recuperata in epoca recente per una sua complessità e polivalenza, che fugano ogni idea di oziosità e di eser cizio, e le restituiscono emblematici- tà ed incertezza, in collegamento con una società, ma anche con una filoso fia personale. A questo punto è pro prio Marivaux a dover essere inter rogato come moralista « furioso » co me sé dicente « filosofo per natura », e a risponderci che non occorre sbrac ciarsi dal pulpito, ma che bisogna co noscere il cuore e constatare l'esisten te. Saper vedere, voler distìnguere; è la ragione che rispetta, e dunque, senza confondersi, garantisce la liber tà degli altri. Marivaux instaura un processo di chiarificazione (nel quale la parola acquista una funzione alta mente etica, proprio perché evita il semplicismo che non identifica), che conduce alla verità; la quale verità è « altra ». Filosoficamente, si avverte la controvertibilità. L’uomo che non è quello che appariva e si credeva. La ambiguità è un dato. La modificazio ne è un uscire da un travestimento. « La doppia incostanza » è una com media di illusioni (travestimenti della mente) e di travestimenti reali ed em blematici insieme (quello del Principe per conquistare Silvia). E allora « La doppia incostanza »? Commedia d’amore, per definizione au torevole (Arland). Ma perché non an che di costume, e sociale e filosofi ca? L'analisi amorosa ha pur luogo in una corte, e Arlecchino si trova a con trapporre il suo mondo di valore al sistema che gli vien dato di cono scere, e un singolare personaggio di corte provoca un dibattito sull'onore. E pareva la vicenda, tenera e gaia (e che potrebbe persino richiamarci al- « La doppia incostanza »: Giorgio Melazzi e Gianni Mantesi (foto Pietro Privitera) lo Shakespeare lirico, quello delle fo reste e dei sogni) di Silvia e di Ar lecchino, due giovani amanti contadini, che si ridestano nel Palazzo del Prin cipe, il quale li ha rapiti perché è in namorato di Silvia ma non vuole otte nerla con la forza, bensì con il con senso d'entrambi. L'energico rifiuto iniziale non sarà davvero definitivo. La conclusione vedrà Silvia sposare il Principe e Arlecchino la cortigiana Fla minia, astuta e determinata. Il che sembra piuttosto siglare la soddisfa zione dell'autore per una scommessa vinta — ossia per aver risolto i pro blemi dell'arte, e appagata una curio sità d'indagine — che non dare un senso, una sistemazione alla storia. La moralità è tutta prima, nelle pie ghe. Ma quante altre cose stanno den tro la commedia! Due viaggi, intanto. Ossia quello di Silvia dentro il pro prio sentimento, con uno spasimo che quasi invoca un procedimento psica nalitico: ciò, nel cono visuale di Ma- rivaux, che guarda con ironia e appren sione insieme, e pesca la categoria eterna del femminino, con la sua de bolezza e la sua furberia. Comunque, è stato un viaggio verso la verità in teriore. Anche Arlecchino lo compie, ma in subordine, rispetto all’intensità dei suoi rapporti con una società di cui scopre le leggi, per rifiutarle, ma rendendosi conto della loro esistenza, e alla fine accordandosi col Principe su un legittimo diritto di opposizione. E' una modificazione importante, e que sta fine dell'Isolamento nella campa gna sembra quanto mai contrastare con l’ideale voltairiano espresso nel «Candide ». I presenti eroi entrano nel la vita; usciti da un’isola di sogni in fantili, sperimenteranno d'ora in poi com’essa è. Ma anche il Principe — perché fingere di no? — cambierà: non avrà una vita molto tranquilla, con Silvia vicina e Arlecchino alla porta! Di fronte a questi risultati nettamen te etici ed etico-politici, mi sembra che rischino il « moralismo » giudizi, pur sottili e non bendati, come quello di Anouilh, che vede in « La doppia incostanza » « la storia elegante e raf finata di un crimine ». Il « criminale » è il Principe (e il resto, con lui) che compie, partendo col vantaggio della posizione e della corte complice, una opera di convinzione, che potrebbe an che definirsi di corruzione. Se piace, sia così. Ma l'incostanza non si addice tanto al mutamento del cuore di Silvia, quanto al cedimento autonomo di Ar lecchino verso Flaminia. E Silvia non è traviata, ma accede a un amore con sapevole dopo il flirt adolescenziale, ch’ella stessa legge e allontana con molta acutezza. Come che sia, è poi la poesia ma- rivaudiana che ancora incanta, incarna ta in una struttura teatrale di limpi da necessità. Questa sostanza poeti ca — che non è formalistica — la ri troviamo nella traduzione, così «parla ta » senza sfacciataggine e senza in volgarimenti, omogenea nel tono, pre cisa e morbida insieme. Lo stesso cli ma è trasferito nello spettacolo, così attento e pulito, dove abita il meglio di un Marivaux non stravagante, non lezioso, non arrendevole; dove lievita la problematica ampia e viva dentro le misure consegnate del suo stile; dove si riconosce la lucidità di analisi in- telletttuale degli insopprimibili moti del cuore. La regista ha voluto un ambiente di moltiplicazione e di mistero; di favola; fors'anche una specie di gabi netto medico. E, se ha aggiunto (in Recitazione appagatrice per cambio di qualche taglio al testo) un pittorico « fool », un folletto servizie vole e silenziosamente apprestatore di atmosfere (alla Watteau, ma anche al la Shakespeare), ha poi suggerito a Gianmaurizio Fercioni una scena tut ta porte e specchi — uno spazio nudo e bianco — sormontata da cortine di nuvolette allusive dell'empireo in cui si colloca il trono solare del Princi pe. Sempre di Fercioni i costumi squi siti anche per la loro arguta allusi vità, con la invenzione squillante del la bianca camicia di Silvia. forza identificante. Diciamo della giovane Giuliana De Sio, che l'agra e agreste Silvia configura come persona, dando le spessore drammatico, e insomma garantisce una genuina vocazione, con un po’ di confortante « naiveté », pe raltro già provveduta di indirizzi e di comunicativa. Un bellissimo Arlecchi no è quello di Giorgio Melazzi, che nella « memoria » di antichi lazzi in nesta una grinta, una perplessità, un buon senso, un egoismo infine di gran de spessore umano, mediante una re citazione d’eccitante improntitudine, diretta e fragrante d'invenzioni. La bravura di Gianni Mantesi si manife sta nella figura del cortigiano, che qui assume una sulfurea iperbolicità. Mol to persuasivo è, come Principe, Cesa re Ferrario, che espone una riflessiva malinconia. Flavio Bonacci è un ado rabile Trivellino, tutto finissimi contrap punti. E ricordiamo ancora la inappun tabile Tatiana Winteler e Valeria D'Obi ci. La coordinata colonna musicale è di Fiorenzo Carpi con inserti di Haen- del, Corelli e Marais. Spettacolo lu cido, garbato, efficace. E diciamo: istruttivo, a proposito di Marivaux e di come si fa teatro (i personaggi sembrano nascere lì, in palcoscenico). rendersi sospetta di corritività verso i gusti più facili? Insomma era stata vera gloria? Eb bene, lo spettacolo attuale ci sugge risce che forse non di tutta quella glo ria, ma anche forse di un po’ meno del successivo supercilioso rifiuto il «Cirano » era degno. Diciamo, in bre ve, che forse adesso possiamo soppe sarne le vere qualità, e restituire la opera ad un proprio contenuto di qua si inconsapevole — e inattesa — serie tà e modernità. Se una commedia con siderata datatissima e persino logorata dal successo consente una nuova let tura critica, e se ne avvantaggia, può ben darsi che quella giustizia le debba essere resa; e se accade che, infine, costringa a qualche brivido di commo zione, a un silenzio teso, a un sussul to del cuore, vorrà pur dire che una verità umana è stata espressa, che si è toccata una corda indistruttibile del la persona, e che un risultato este tico è stata raggiunto. Significa che nel « Cirano » anche la poesia ha com piuto una visita, pur breve, contro e per Edmond Ronstand. Per arrivare a cogliere questa for ma dell'opera, occorreva turarsi le orecchie e risciacquare la pronuncia. È quello che ha fatto Franco Cuomo, che ha tradotto in prosa gli squillanti alessandrini, stando alla larga ormai da ogni consumato proposito di demi stificazione ed invece acutamente ri cercando grumi e possibilità di un discorso libero di orpelli manieristici e di esteriore sonorità. Versione at tenta, la sua, e purificatrice, e libe ratrice di nuove ipotesi non snatu ranti il personaggio, ma in grado di arricchirlo e di avvicinarcelo. E l'aver mantenuto, in un paio di occasioni ce lebri, il dettato del Giobbe, risulta uno specimen arguto, una citazione persino dovuta. Questo Cirano, allora. Lo spadacci no e la « love story » certamente. E la sua eccentricità. Ma non più una figura di bei gesti, di guasconate, di vocalizzi sotto il balcone, e ridevol- mente grafomane; tutto teatrale, in somma, tutto fuori da sé, quasi con dizionato ad un ruolo; Cirano, perso naggio da recita serale, dopo la quale riporsi, vuoto. Questo Cirano compie le cose del copione, ma è un personaggio che ve de se stesso. Non solo, ma funge da elemento chiarificatore della realtà. Egli è un uomo diverso. Il naso abnor me è un segno; lo scherzo anatomico palesa una diformltà interiore. Cirano è l'uomo che possiede una coscienza di sé e il dono della fantasia. Ciò lo mette contro, ciò dà fastidio, ciò si paga con la solitudine. E in lui sono il coraggio civile, ma anche la timi dezza di fronte alla vita, quand'essa non è la routine del servizio militare e il tran tran dei rituali sociali, ma domanda all'essere e impegno sui va lori fondamentali. CIRANO di Edmond Ronstand Traduzione di Franco Cuomo Regia di Maurizio Scaparro Interpreti: Pino Micol, Fernando Pan nullo, Giulio Pizzirani, Piero Nuti, Ra chele Ghersi, Evelina Nazzari Scene di Josef Svoboda e Roberto Francia Costumi di Vittorio Rossi Compagnia del Teatro Popolare di Roma « Cyrano de Bergerac » ottant'anni dopo. La « commedia eroica» che re stituiva ai francesi un ideale di eroe romantico in cui sublimarsi e faceva riascoltare la dumasiana leggenda dei moschettieri, il dramma di spada e di amore, d'estro e di sacrificio, la ro manzesca vicenda tessuta su un per sonaggio esistito nel 1600 ed i cui connotati ben parzialmente corrispon dono a quelli della creatura di Edmond Ronstand, ritorna su un palcoscenico italiano. È un colpo di scena, ma un colpo sicuro. E vi ricompare quanto mutata dall’iconografia corrente, o meglio ri masta nella memoria di chi nel teatro non è più un viaggiatore senza baga glio, ma un testimone d'un poco di storia. Tutta la tradizione, condivisa di qua e di la dalle Alpi, irrorava di re torica or sospirosa or magniloquente il testo, ne traeva i gesti vistosi e l’ardente tabulazione, ne esaltava la ondosa melodiosità prodotta dai versi, ora sprezzanti ora di estenuata liri cità; dai versi, per noi, di Mario Giob be, la cui traduzione si potrebbe an che definire un fatto creativo aggiun to, tanto preciso e compatto era il mondo da lui identificato con capzio sa fascinosità linguistica. Generazioni di spettatori avevano ascoltato il Tumiati, il Ninchi, il Cervi, fremendo e commovendosi, e l'ultima edizione, quella del 1953, pareva bene costituire un estremo omaggio ad una arte — se mai arte era •— legata al proprio tempo, esauritasi nel compito di opporsi alla moda naturalista. Che spazio, quale udienza, per quale ne cessità riproporre l’opera, così sover chiamente celebrata per decenni, da Nei confronti di un « diverso », di uno che non sta al gioco e che si av verte di qualità più fina, la società reagisce facendosene trastullo e tenen dolo lontano. Ma, temuto e boicottato, Cirano opera da specchio critico, mo stra la futilità del contorno, e dà al la finzione il nome che essa ha. Il primo a fingere, naturalmente, è lui: già quel naso non è un camuffamen to? E la voce prestata a Cristiano? E le lettere scritte per lui e per sé a Rossana? Sicché, quando la rappre sentazione nel mondo dei vivi finisce perché qualcuno ormai aspetta di spe gnere le luci e andare a casa, la luna che vistosamente scende e si offre a balcone è un oggetto di teatro, è l'illusionismo disvelato, è l'avviso di una menzogna Insostenibile e di una restituzione dell'anima autentica. Anima sofferente, inquieta; repressa per non darla in pasto agli altri che non l'avrebbero compresa, e coperta da un reticolo fitto di segni devianti, in cui si mescolano l'ironia rivolta a se stesso e il sarcasmo sparso sugli altri. Una sottile distanziazione da sé consente a Cirano di salvare il meglio di sé, come intellettuale e come uo mo, dopo aver dato agli altri l'illu sione di averlo catturato e goduto nel suo esibizionismo duttile a seconda delle circostanze. Quella che egli ha portato avanti è stata una contesta zione rivolta a tutti, e non meno alla propria differenza, alla propria infer mità. L’eroe aggressivo e romantico è divenuto un antieroe frustrato e dispe rato, un uomo di crisi esistenziale e di estraneità storica. « Cirano » di E. Rostand, nella foto Pino Micol Non gli resta, pertanto, che la re cita, e « La recita di Cirano» è il ve ro titolo di questo allestimento. Ecco, dunque, un personaggio non più patetico o roboante, ma composi to, pregnante. Che, del vecchio, senza rinnegarlo estrae i semi fecondi e si ricompone per sé una maschera e un volto e si colloca con gli altri in una conflittualità razionale; che occupa i vari livelli della reattività individuale ed esprime dalla dicotomia di sé una drammaticità scura e scabra. A sostenerlo, è la sensibilità estre ma, è la vocazione espressiva di Pino Micol, che un personaggio reso così complesso e difficile penetra — per fino aggiungendo ombre e inquietudi ni — con mirabile intelligenza, dipa nando poi un gioco recitativo super bo di convenienze e di impertinenze teatrali, ed elevando Cirano a una tra gicità che, contenendo il grottesco, ri sulta di amarissimo impasto, e di gran de forza comunicativa. Cirano e il suo doppio, dunque; che, rappresentando si, salva la ragione e la propria ve rità. Da quanto s'è detto deriva un gros so elogio per Maurizio Scaparro espo stosi — nel suo Teatro Popolare di Roma, etichetta neanche questa volta tradita ed anzi ancor più onorata — al rischio d'una carta sogguardata con diffidenza, ma vittorioso della partita per avere saputo non solo sgombe rare la scena, ma poi stabilirvi un lin guaggio casto e fervido, sigla di una operazione culturale raffinata, come quella che analizza statuti teatrali, rap porti sociali e campi interiori, senza lasciarsi dominare dalle teorie, bensì coi vari strumenti riscattando Cirano in una serie tematica oggettivizzata — canto e controcanto — su uno schema di raddoppio (crudele) della figura, che evita lo psicologismo e non si rag gela in pura denuncia. La scena di losef Svoboda e Rober to Francia (elementi lignei essenziali calano su un palco ondulato) e i bel lissimi costumi di Vittorio Rossi si offrono ad una scansione rappresenta tiva estremamente limpida e armo niosa, e suggestiva per una essenzia lità non frettolosa, e felice di ritmi e di movimenti. Nel bel gruppo spicca la personalità dell'esperto Fernando Pannullo, prezioso Conte di Guiche; d’ottima misura è Piero Nuti e di squi sita arguzia Rachele Ghersi, mentre eccellenti sono le caratterizzazioni di Giulio Pizzirani. Rossana è Evelina Naz- zari, figlia d’arte ed esordiente: non pretendiamo da lei una « preziosa », ma ci interroghiamo sull'esistenza di mez zi sufficienti ad integrare il candore e l'acerbità aggraziati d’oggi. Impecca bile la animosa giovanile schiera cir costante. Un « Cirano » sfrondato e di poche piume, ma di una intensità interiore, che conquista altresì le platee. a modo suo. Iniziativa non necessaria, anche perché ciò che Bùchner voleva dire è detto da lui benissimo ed è sufficiente. Questo manipolare — an che con tutta discrezione — la pasta altrui è una operazione che ha fatto il suo tempo, e che ha prodotto spes so dei guasti. La commedia poteva essere presentata se l’allestimento voleva conseguire una ragione precisa, tenendo semplicemente conto della in trinseca ambiguità (ambiguità come scelta artistica) e della sua impor tanza storica. Vediamo « Leonce e Lena » com'è. La favola mostra una buffa corte e un principe — Leonce — intriso di tedio della vita che, il giorno delle nozze, fugge in compagnia di Valerio, un servo fattoglisi amico e di semplici gusti. A un certo momento del loro peregrina re, incontrano Lena, pur essa vagabon da per interiore inquietitudine. Lena è la principessa destinata a Leonce. I due non si conoscevano e non si riconoscono; s'innamorano, e vanno mascherati a corte, dove sono tutti di sperati per le nozze sfumate. La pre senza delle due maschere permette di dare luogo comunque alla cerimonia, LEONCE E LENA di Georg Biichner Traduzione di Umberto Gandini Regia di Alessandro Fersen Interpreti: Antonio Salines, Oreste Riz- zini, Franco Giacobini, Torivio Trava- glini, Olga Gherardi, Carola Stagna to, Patrizia Sacchi Scene di Emanuele Luzzati Costumi di Santuzza Cali Teatro Stabile di Bolzano « Leonce e Lena » di G. Biichner: Antonio Salines e Oreste Rizzini (foto Studio Pedrotti) dopo la quale la verità viene disvela ta. Leonce succede al padre e comin cia un’era d'ozio, un'età della pancia all’aria. Sembra una lieta fiaba per ragazzi. Al contrario, è la metafora di una con dizione umana storicamente databile. Di facciata sta la satira della corte, da riferirsi alla vita sclerotizzata degli statereiIi germanici, e qualche studio so ha voluto vedere — il Dolfini, ad esempio — nell'ironica e deflagrante rappresentazione, alla Heine, di un si stema sociale asfittico, l'elemento uni tario dell’opera. Siamo di diverso pa rere, ossia consideriamo questo gioco non già come il segnale di un clima, ma come lo schermo di una rabbia Passò come una rapida cometa, ma lasciò nel cielo una strada indelebile. Diciamo di Georg Bùchner, i cui ven- tiquattr'anni desistenza bastarono a lui per la fama e al teatro per rinno varsi, anche se il suo seme giacque a lungo sotterra, fin quando non lo riconobbero gli Espressionisti. « La morte di Danton », « Woyzek », « Leonce e Lena »: un trittico di capo lavori diversi ed esemplari per orien tamento di contenuti e innovazioni strutturali. I primi due sono conosciu ti: il «Woyzek» è stato più volte rap presentato, lo scorso anno dagli Associati. Ora, Ales sandro Fersen, con il Teatro Stabile di Bolzano, propone il terzo, ma un po’ il « Danton » appena ben più profonda, cui la derisione va fatta risalire. Dobbiamo cioè riportarci a Leonce, in quanto sia lo stesso autore, reduce da ustionanti avventure rivoluzionanti. Altrimenti, manteniamo una dicotomia nociva all'arte conseguita da codesto « scherzo » e ipotizziamo una spensie ratezza, una allegria che contraddicono alle ragioni profonde — la delusione, il rifiuto — della commedia. Leonce, dunque. Le cui ascendenze non sono ormai un segreto per nes suno. Amleto, in primo luogo, e so prattutto nella accettazione splenetica (oggi superata) del personaggio; e poi Ponce de Leon di Brantano, e il Fan- tasio di De Musset e lo stesso Danton bùchneriano; insieme con Valerio, poi, dà occasione ad un rapporto che è va gamente quello di Don Chisciotte e di Sancho Panza, l'uno coi suoi ideali, l'altro con la sua concretezza. Leonce è dentro la noia di una vita che si finge tale e che innalza ideali flaccidi. Anzi, ne blatera, ma non ci crede. (Ed è lo stesso autore che, sconfitto, guarda dentro le proprie fru strazioni). Egli è solo, incapace di agi re. Di fuggire, al più, e di cercare la morte, spaventato da una possibilità di gioia, quasi per fermare quell'atti mo felice nel sentimento della sua irrepetibilità. Con un salto che impli citamente significa indifferenza per il gesto, Leonce appena trattenuto dal buttarsi in acqua, accetta di sposarsi con la sconosciuta, tanto per compia cere alla corte, dove tornano e dove si inseriranno, la ruota della storia avendo immobilmente seguitato a ma cinare il nulla. E la vicenda buchne- riana ha una coerenza, se il finale ri badisce, con il senso dell’inutilità, la iniziale manifestazione di crisi, se alle forme cortigiane si dà un valore allu sivo e non assoluto, se si coglie la parola « fine » scritta per sé e per gli altri da Buchner. L'intervento di Fersen nasce da due convincimenti: che « Leonce e Lena » sia un'opera aperta; che sia estrema- mente contemporanea, e che il suo protagonista sia vivo e moltiplicato in tanta gioventù d'oggi. Di conseguenza, ha infilato, specie nella prima parte, citazioni di autori consonanti con Bùch- ner, da De Musset a Tieck, da Brenta no a Heine a Baudelaire. Gli incastri non stridono, o non striderebbero, se non fossero accompagnati dall'ingresso di alcuni personaggi inediti, cioè da giovani molto nostri contemporanei, con tanto di chitarra, che alla fine invaderanno il palcoscenico cantando un ritmo d'oggi. E poi, il Leonce di Buchner e i suoi nuovissimi compagni si equalizzano, disponendosi di fronte alla platea come i ragazzi che popo lano, non aspettando niente, le scali nate offerte da un lavoro antico. Si tratta di apporti piuttosto illu strativi ed epidermici, di citazioni di una cronaca risaputa e non di una ri scoperta di radici e di addentellati fi losofici o storici. Più efficace la ridu zione di Leonce e Lena a marionette, ossia la loro totale reimmissione nel la corte. Trovata di rilievo, cui Fresen aggiunge una modificazione di stampo ideologico, allorché fa che Leonce la sci il potere e si mescoli ai giovani. Questo rende certamente un'immagi ne scorretta di Buchner, e sembra an che imporre la approvazione di una protesta, i cui errori, i cui limiti, la improduttività sono ora davanti cui agli occhi di tutti. A parte questo giovanilismo, lo spet tacolo ferseniano offre una godibilità che parte dalla preziosa immaginazio ne di Emanuele Luzzati (che crea, se condo il suo stile, un intreccio cen trale di scalee barocche) e da quella di Santuzza Cali, ideatrice di stupendi costumi, onde la corte si presenta co me un carillon di gessose statue so verchiate di paludamenti. Il regista gio ca a « ridurre » e carica un meccani smo di arguti sberleffi, mentre si svi luppa invano una ricerca d'umanità e di consistenza nella figura di Leonce sostenuta con secca drammaticità, con intelligente grafica, con accenti di pu ra malinconia da Antonio Salines. Al Salines dà ottima replica Oreste Riz- zini, che è un Valerio di succose ri sorse. Inappuntabili, tra gli altri, Fran co Giacobini (il Re), Torivio Travagli- ni, Olga Gherardi; Carola Stagnaro (Lena) e Patrizia Sacchi (Rosetta) so no presenze dignitose. IL MATRIMONIO PER CONCORSO di Carlo Goldoni Regia di Lorenzo Grechi Interpreti: Riccardo Pradella, Paride Calonghi, Gianni Quillica, Adriana Di Guilmi, Natale Ciravolo, Adele Pel- legatta, Valeria Falcinelli Scena di Angelo Poli Compagnia del Teatro Filodrammatici Scritta a Parigi e felicemente rap presentata a Venezia, « Il matrimonio per concorso » è l’opera di un Goldoni nel cui animo si agitano i fantasmi del « Ventaglio », di imminente stesu ra. Dal capolavoro a questa, per quan to concerne l’arte, ci corre. E tuttavia, sarebbe possibile sbagliarne l'attribu zione? La gaiezza composta, la fre schezza dei tipi, l’amabile osservazio ne dei costumi, i guizzi d'una auten ticità interiore nelle fanciulle, come non riconoscerli consanguinei di tanti altri casi e tratti? E, iri carenza contingente d'ispira zione rimane a Goldoni una mano ma la commedia è gistrale di facitore: una meraviglia tecnica, è una scom messa con le difficoltà dell'intreccio. Nessuno si provi a dipanare la tra ma; basti dire che, dalla balzana idea di Pandolfo, mercante italiano di mez za tacca pervenuto a Parigi, di pub blicare su un foglio la disponibilità di una figlia da marito, visitabile a do micilio, cioè alla Locanda dell'Aquila, nasce un'incalzante serie di accidenti e di equivoci; vuoi per esservi nel medesimo albergo una coppia simila re, vuoi per essersi la giovane — Do- ralice — già impegnata con l'amabile oste — Filippo —, vuoi per la curio sità suscitata dal bizzarro annuncio tra i francesi (e l’autore coglie la dif ferenza umana partendo da un Caffè nel giardino del Palazzo Reale), che accorrono con animo tra l’ironico e lo sprezzante alla locanda, dove, natural mente, saranno poi fatti ricredere da un Goldoni in esilio, ma patriota. (Un Goldoni, che discutendo di teatro ita liano e francese, lascia altresì traspa rire l'amarezza di una sua difficile, per non dire impossibile integrazione). L'accumulo degli scambi di persona, il proliferare degli errori e delle ba ruffe è la materia su cui si esercita il grandissimo Artigiano, con una lu cidità scaltra e con un senso della progressione e del dinamismo davvero prodigiosi. Il risultato è un irrefrena bile divertimento, che trova esca an che nell’arguta e molteplice ritratti stica. La parola « pochade >• è stata estrat ta da molti, a proposito di «Il matri monio per concorso ». Una paternità? No, si tratta solo del fatto che la pre sente commedia e il genere citato ve rificano insieme un’idea di teatro, quel la dell’inganno, dell'intreccio e del mo vimento, che puntualmente ricorre nei secoli. Ma c'è un discrimine di fondo, tra le due proposte, costituito dalla assenza, nel testo goldoniano, della malizia, del letto. La Locanda dell'Aqui la non può essere l’Albergo del Libero Scambio. E tuttavia, la commedia è regolata da una necessità di esattissime en trate, e frulla, rallegrandosi in sé, le occasioni di quiproquo e persino di travestimento. Si potrebbe argomenta re una sua qualità aperta, ed è appi gliandosi all’astrattezza e alla traspa renza di questo gioco teatrale, alla sua indifferenza etica, che il regista Lorenzo Grechi ha riproposto un co pione giacente al buio da tempo im memorabile. Il Grechi — utilmente sgombrando il campo di vezzi e birignao remoti — ha spostato verso di noi l’ambienta zione, e ha annullato la distanza — non poi abissale — tra l'originale 1763 e questo Ottocento teatrale avanzato (la « pochade » non è mai apparsa preoccupata dell’esistenza di altre clas si). Del resto siamo in un giro di commercianti, che è una fascia socia le un po’ a sè stante, con alcune sue leggi immutabili. Naturalmente, il re gista ha eccitato i toni, fatte sgran chire le gambe, caricato a fondo un meccanismo inesorabile di mimica, di recitazione, di tempi. Ma ha, con la sua operazione, resa plausibile una ri presa, che si realizza seguendo con molta misura un lontano consiglio del- l'Ortolani, ossia di dare licenza al l'estro dell'attore. Sicché, torniamo un poco alla com media dell’arte, alle trovate e agli «im provvisi » alle gags arlecchinesche, ln- somma, è una piacevolissima vetrina, un liberarsi della fantasia, una ricer ca d’un linguaggio scenico che ripassa e rinfresca un prezioso tesoro comi co. Senza una smagliatura o una ca duta ‘i gusto, e appena con qualche ridondanza. Nel secondo tempo, poi, si hanno dieci minuti di concertato perfetto, di glorioso girotondo e con trappunto, di vertiginose sequenze espressive. Un traguardo che sotten de un addestramento minuzioso, un la voro preparatorio estenuante. Risaltano, così, la professionalità e l'intelligenza e la comunicativa raffi nata e affabile della compagnia dei Filodrammatici, con un Riccardo Pra- della che, in Filippo, mostra, da attore brillante, di personalizzare interessan ti doti comiche; con un Paride Calon- ghi che fa giocondamente di Pandolfo uno sciocco roboante; come un Gianni QuiiI¡co che crea un Roberto a tutto tondo, operando anche sul piano di una psicologia complessa; con la Di Guilmi smancerosa a dovere; con un Natale Ciravolo che è un vivacissimo e impeccabile Roberto. Si integrano assai bene le due nuove arrivate, e cioè Adele Pellegatta, una Lisetta di buon temperamento, e soprattuto Va leria Falcinelli (Doraliee), una giovanis sima ricca di malizia e di duttilità, per la quale si possono formulare bel le ipotesi di carriera. Le scene, molto graziose, sono « al l’italiana ■> ossia uno spiritoso recupe ro di pittoricismo, e le firma Angelo Poli, cui si devono anche i pertinenti costumi. Lo spettacolo restituisce il piacere del teatro. Una scena di « Matrimonio per concorso » (foto Ciminaghì) di Mario Guidotti il contrappunto dialettico di Riccardo, la madre, la moglie di Edoardo IV, sua vittima, che egli seduce sulla bara del marito, la vedova di Enrico VI, Lady Anna, una cameriera che funziona da tramite e che Riccardo chiama Buckin- gam, e madama Shore, amante di Edoar do IV e poi di Hasting. Riccardo III, nella sua scelleratezza non mira tanto al potere quanto a distruggere l'equi librio apparente dello Stato; e le donne sono strumenti di questa sua diaboli ca aspirazione, più che della sua lus suria. Forse anche per questo le pre senta come donne-oggetto. Ma in veri tà dare una interpretazione del fatto che le faccia ripetutamente e totalmen te spogliare a intervalli regolari e ne tenga una, sempre completamente nu da, muta dall’inizio alla fine, sdraiata e rotolantesi, è impresa ardua. Il pubbli co che ha velleità intellettuali si sfor za alla ricerca dei vari significati di questi spogliarelli, l'altro può ricever ne un'impressione erotica. Il contorno Una scena di « Riccardo Ili » delle donne serve comunque a esalta re il dominio del maschio Re. È un do minio friabile sul quale si è ironizza di continuo. E in questo Carmelo Bene è bravissimo anche come attore (e regista e addirittura autore). Del resto lo spettacolo è tutto costruito per lui e intorno a lui, con un fasto, un rigore espressivo e una impeccabilità tutta ad uso del protagonista. È superfluo forse dire che Carmelo Bene vestito da dandy ottocentesco, ricorre a tutto l'armamentario scenografico a lui con geniale, a gesti, oggetti e operazioni che ben conosciamo: ciarpame, mani deformi, guanti, tibie, teschi ecc. La co lonna sonora di musiche di Luigi Zito accompagna e amplifica la personalis sima recitazione nasale e canagliesca di Bene in gran forma, e delle sue donne (Lidia Mancinelli, Maria Grazia Grassini, Daniela Silverio, Susanna la- vicoli, Laura Morante e Maria Boccuni, sinceramente brave oltreché decora tive) . RICCARDO III (DA SHAKESPEARE) secondo Carmelo Bene Regia, scene, costumi di Carmelo Bene Interpreti: Carmelo Bene, Lydia Manci- nelli, M. Grazia Grassini, Daniela Sil- verio, Susanna lavidoli, Laura Moran te, Maria Boccuni Musiche di Luigi Zito Scene realizzate da Walter Pace Dopo « Amleto » e « Romeo e Giu lietta », Carmelo Bene ha rivisitato Shakespeare in « Riccardo Ili ». Chi co nosce Carmelo Bene sa che cosa fa quando si avvicina ad un testo. Non lo rappresenta perché crede nel teatro della <■ non-rappresentazione », ma ne anche lo dissacra nel senso più comu ne del termine come può fare un Trion fo o un Periini. Semplicemente compie una operazione « di una precisione chi rurgica », « sottrae il testo » come dice un suo esegeta, per vedere quello che succede, distrugge i significati per la sciare i significanti e ricompone una opera secondo i suoi elementi costi tuzionali spogliati di ogni sovrastruttu ra. Ne derivano spettacoli che non si possono paragonare ad altri, che hanno un loro metodo, e che ormai da anni fanno discutere critici e pubblico. Il quale pubblico rimane sconcertato, fra l’ammirazione e il rifiuto, quando si trova dinanzi a « non-rappresentazioni » per le quali non è sorretto o aiutato da ricordi o da punti di riferimento. Ci spieghiamo: « L’Amleto » o « Giulietta e Romeo » erano conosciuti da tutti e lo spettatore che voleva aggrapparsi a un filo narrativo, poteva farlo nelle versioni « secondo Carmelo Bene ». Il « Ricardo 111 » è meno noto e più confu so e quindi la maggiore parte del pub blico si affida a suggestioni e godimen ti visivi e auditivi se vuole trarre qual cosa di positivo dal rapporto con ciò che avviene nel palcoscenico. Per chi non lo ricordasse, Riccardo III si chia mò tale dopo essere stato semplice- mente il Duca di Gloucester, aver com messo una serie di misfatti che alla fine provocano la sua rovina e quella morte in battaglia preceduta dalla fa mosa invocazione •< Un cavallo, un ca vallo, il mio regno per un cavallo ». Dei personaggi del testo originale di Shakespeare, Carmelo Bene sopprime tutti i maschi, lascia il protagonista e sei donne, sei figure che costituiscono tonio Calenda A PIATFR VOSTRO d¡ William Shakespeare Traduzione di Antonio Nediani e An Regia di Antonio Calenda Interpreti: Giampiero Fortebraccio, Car lo Simoni, Raffaele Uzzi, Giorgio Lo pez, Nicola Giambuzzi, Umberto Bor- tolanl, Leonardo Marino, Antonio Sca- lemi, Aldo Puglisi, Sergio Salvi, An drea Giordana, Loredana Gregolo, Lo renza Guerrieri, Rosa Maria Spena, Igea Sorini Scene di Nicola Rubertelli Costumi di Ambra Danon Musiche di Vittorio Gemetti Teatro Stabile dell’Aquila Il Teatro Stabile dell'Aquila ha ripre so una delle più poetiche commedie di Shakespeare, •< As You iike it », che in italiano è stata variamente intitolata. Sembra che la traduzione ■■ A piacer vostro » sia la preferita ed infatti è stata scelta da Calenda che, oltre ad essere regista è anche il traduttore dell’opera. Negli allestimenti italiani ha sempre creato dei problemi per la sua complessità, ma ha riportato anche dei successi come quello fir mato da Luchino Visconti trentanni fa all ’Eliseo ; ma in quella occasione c'erano la scenografia e i costumi di Salvador Dalí, mentre in questa oc casione proprio la scenografia, di Ni cola Rubertelli è il lato più discutibile dello spettacolo. « A piacer vostro » è una delle com medie più liriche e meno problemati che di Shakespeare e fu scritta sul finire del '500 prima del periodo dram matico di Amleto. La sostanza è tutta poetica, senza implicazioni problemati che: o meglio, i problemi cl sono, ma sono sommersi dalla grazia, dal garbo, dalie mire linguistiche. È una commedia corale, dove prati camente è impossibile trovare un pro tagonista e il cui Intreccio è pratica- mente inesistente. Tranne che all'inizio, si svolge quasi tutto nella foresta di Arden che è uno dei luoghi deputati del teatro scespiriano. Nella foresta di Arden si è rifugiato il duca in esilio Una scena di « A piacer vostro » con la sua piccola corte di fedeli; so praggiungono poi, per sfuggire alla per secuzione del duca Federico, fratello e usurpatore dell'esiliato, altri perso naggi come Orlando con il servo, Oli viero fratello cattivo di Orlando, Rosa linda figlia del Duca in esilio la quale nella foresta diventa Ganimede, Celia, figlia del duca Federico e cugina e amica di Rosalinda e altri cortigiani fra cui Jaques, complessa figura di giovane malinconico filosofo. Nel bo sco, lontano dagli intrighi della corte fioriscono i canti e gli amori, Rosalin da ama ed è riamata da Orlando, fi glio di una vittima del duca Federico, ma, travestita da uomo, non è da pri ma riconosciuta dall'amante. Altri amo ri si intrecciano, fra cui quello del buf fone Paragone con la contadinella Audrey. Come abbiamo detto è impossibile ricostruire la vicenda. Avvertiremo co munque che essa è a lieto fine: il du ca cattivo viene convertito mentre sta per varcare la soglia della foresta e uc cidere ¡1 fratello. In sostanza, è la fo resta che vince, è la natura di cui il bosco, in Shakespeare, è sempre il simbolo. La fuga nella foresta di Arden è la fuga dal mondo crudele, pieno di cattiverie e di delitti. Nella foresta si vive una vita diversa, in una atmosfe ra pastorale rarefatta, in cui tutti di ventano innocenti e fanciulli. Ogni per sonaggio è un'eco pallida di quello che fu nel mondo cattivo. Priva di svolgimento dialettico e di problematiche, non si pensi però che « A piacer vostro » sia priva di una sua interiore filosofia. Questa c'è ed è espressa soprattutto dai personaggi di Jacques e del buffone Paragone: consiste nell'invito al sogno, alla fa vola, alla follia. La regia di Calenda ha puntato su questa tenuità e poeticità dei testo, appoggiandosi notevolmente sulla mu sica e sui versi, accentuando la cora lità, ma con ciò minimizzando lo spes sore dei personaggi. La scenografia ha rinunciato ad ogni figurazione natura listica della foresta, collocando gli at tori in un grande parallelepipedo se condo noi limitativo e opprimente. For se anche questo ha messo in eviden za una recitazione accademica e sco lastica in qualcuno come Andrea Gior dana. Del numerosissimi attori sono particolarmente degni di lode Giampie ro Fortebraccio, Carlo Simoni, Lorenza Guerrieri, Rosa Maria Spena, Umberto Bortolani. IL MAESTRO PIP di Nello Sàito e L'UOMO COL MAGNETOFONO di J. J. Abrahams Regia di Mario Ricci Interpreti: Luigi Vannucchi, Giovanni Scene di Claudio Previtera Costumi di Rita Corradini Musiche di Alvin Currin Poggiali Mettiamo in risalto, innanzitutto, il fatto importante: l'avanguardia è ospi tata ufficialmente al teatro di Roma, con un testo che le appartiene di di ritto e con un regista esponente della cosiddetta scuola romana. In secondo luogo compiaciamoci che un autore di riconosciuto valore, ma sempre rele gato ai margini del grande giro, venga proposto alla critica teatrale dopo che quella letteraria, quasi trent'anni, l’ha riconosciuto ottimo narratore. Nello Saito, infatti, esordì come romanziere trentanni fa, con « Maria e i soldati »; è un germanista, ordinario all'Univer sità di Roma, ma da dieci anni si è dedicato al teatro sperimentale e di avanguardia con raro impegno e con risultati critici notevoli. Questo suo la voro « Il maestro Pip », è del 1969 e potrebbe apparire datato (appunto per la sua polemica anticonsumistica, che emerse in quegli anni) se non a- vesse un lievito di autentica poesia scenica e linguistica al di fuori del tempo e se non avesse trovato un ag- giornatore e manipolatore (ma conge niale) come Mario Ricci. Originaria mente di due atti, il lavoro è stato ridotto a uno, abbastanza lungo, che è il piatto forte dello spettacolo al « Flaiano ». Sàito, cattedratico di professione, ha scelto la scuola per realizzare la sua vocazione di contesta tore teatrale, sia pure una scuola ele mentare, ma sempre autoritaria e bu rocraticamente gestita dal potere. Una scuola dove campeggiano due perso naggi: il maestro Pip e lo scolaro Pop, il primo (Luigi Vannucchi), alto, magro, « follia fatta carne compressa come in un tubo », il secondo, "dali’aspetto melenso... condannato a una perenne obbedienza”; fra i due è riproposto il rapporto « padrone-servo » o anche « potere-vittima», ma in un modo così confuso, così delirante che ad un certo punto sembra che i due elementi della dialettica si scambino i ruoli. Che co sa succede fra i due personaggi posti in una aula che è tutta una grande lavagna inclinata, l'uno su una catte dra, l’altro su un banco nel quale non riesce a piazzarsi? Nient'altro che un dialogo farneticante, interrotto da un rotolìo intermittente di materiali sco lastici: gomme, lapis, pennini, appunta lapis, tutti ingranditi a proporzioni pa radossali. Questi materiali, per ordini superiori, debbono essere distrutti, consumati ai più presto; è ciò che il maestro si sforza d'insegnare allo sco laro. Il sistema alimenta così la scuola, ha necessità di produrre; e per salvare il sistema con la produzione, è neces sario distruggere; lo scolaro è obbliga to a gettare tutto in un grande cestino nel quale a un certo punto sparisce egli stesso e che ha un valore emble matico, così come il banco e la cat tedra. Ma non basta questa distruzio ne. Il terribile maestro, alla fine, ne escogita un'altra; il provveditore gli impone di ospitare trenta alunni di una altra scuola ed egli, sempre per salva re il sistema, attua uno sterminio di stribuendo ai malcapitati caramelle avvelenate. È ovvio che uno spettacolo di que sto genere è inenarrabile cronachisti camente. Ne abbiamo indicato i signi- ricati per così dire ideologici: la con testazione nella scuola, il rapporto in segnante-studente-intercambiabile. Lo Luigi Vannucchi ne « Il Maestro Pip » di Nello Sàito scontro fra la cultura ufficiale e il sottosviluppo, la logica della distruzio ne e quella della produzione. Ma più che i significati s'impongono il ritmo e il linguaggio; il primo è stato lieve mente forzato dal regista che ha im presso una recitazione frenetica, il se condo traduce in termini di delirio una razionalità, una lucidità allucinanti. Lui gi Vannucchi ha recitato con perfetta aderenza al testo e alle intuizioni dei regista sull'erta scena di Claudio Pre- vitera, e Giovanni Poggiali, nella parte dell’alunno, è stata una lieta conferma delle sue capacità, spiritosi i costumi di Rita Corradìni. Il secondo tempo è consistito in un esempio di teatro-documento. « L'uomo col magnetofono » (« dramma in un at to con grida d’aiuto di uno psicanali- sta») è la registrazione di uno scontro realmente avvenuto tra uno psicanali sta e il suo paziente. Questa registra zione, quando apparve (nel '69, contem poraneamente alla nascita del lavoro di Sàito) suscitò l'interesse di Sartre e di Pontalis, che ne scrissero; essa ha un altro punto di contatto con il lavoro di Sàito; anche qui c’è un rap porto dialettico, anche qui ci sono solo due 'personaggi, l'analizzato e l'analista; ma qui è il primo che si rivolta e do mina. Anche in questa seconda parte Mario Ricci, già regista dell'Immagine, ha dato risalto alla parola subordinan do ad essa la visualizzazione (più o meno applicata come nella prima par te). Hanno recitato gli stessi attori, nella stessa scena (colori cambiati, na turalmente). ■■ Le case del vedovo »: Giulia Lazzarini, Gianni Santuccio, Tullio Valli, Piero Sammataro (foto Ciminaghi) LE CASE DEL VEDOVO di George Bernard Shaw Traduzione di Luigi Lunari e Paola Ojetti Regia di Carlo Battistoni Interpreti principali: Gianni Santuccio, Giulia Lazzarini, Piero Sammataro, Gigi Pistilli, Tullio Valli Scene e costumi di Paolo Bregni Per la prima volta il nome di George Bernard Shaw trova posto nei cartel loni del Piccolo Teatro di Milano e il testo prescelto è addirittura il primo della vastissima produzione del com mediografo irlandese, » Le case del ve dovo », che debuttò sulle scene bri tanniche nel 1892: si possono comun que già riconoscere in questa comme dia [l'autore, per quanto debuttante in tale sede, aveva alle spalle una lunga esperienza come romanziere, critico letterario, musicale e teatrale) un sa- nipntp mpctiprp -- cnppip ridila cnctrn- zione dei dialoghi — e una certa ca pacità di satira pungente e spesso spi ritosa. Sarebbe veramente troppo, pe rò, pretendere di trovare in questa sa tira riferimenti di attualità solo perché si parla (ma in un contesto ben diffe rente da quello del giorno d'oggi) di speculazione edilizia: in realtà il tea tro di Shaw, brillante e spiritoso fin che si vuole, è per il resto lontano da noi (come in qualche modo aveva pre visto lo stesso autore) ben più di quanto giustificherebbe la data di na scita dei suoi testi più noti. Di tutto ciò sembra essersi reso pienamente conto il regista Carlo Battistoni che sospende lo spettacolo — grazie an che alle scene e ai costumi di Paolo Bregni — in una dimensione quasi ir reale di ordine, nitore, eleganza: in somma il « buon tempo andato » come può venire riproposto e reimmaginato nel ricordo e nella fantasia, in contra sto d'altronde — come vuole il mec canismo polemico tipico di Shaw — con la durezza, l’insensibilità, l'egoismo e addirittura la disonestà e la corru zione che i protagonisti nascondono dietro la loro apparenza inappuntabile. E' difficile però prendere sul serio que sto risvolto polemico e rimane ben più credibile l'atmosfera di eleganza vittoriana così felicemente ricreata da attori come Gianni Santuccio e Giulia Lazzarini (lo speculatore Sartorius e sua figlia Bianche) e solo apparente mente contraddetta da personaggi co me il giovane Henry Trencle, che fi nirà per sposare Bianche, e l'esattore — poi elevato al rango di ideatore e organizzatore di grosse speculazioni — Lickcheese (interpretati rispettivamen te da Piero Sammataro e Gigi Pistilli); neanche loro alzano mai troppo la vo ce, come richiede del resto lo spirito e la lettera del testo, riproposto fin troppo fedelmente da uno spettacolo che rappresenta per regista, scenogra fo e interpreti quasi un esercizio di calligrafia. L'IDIOTA di Angelo Dallagiacoma da Feodor Do stoevskij Regia di Aldo Trionfo Interpreti principali: Bruno Cirino, Leda Negroni, Roberto Bisacco, Franco Trevisi, Luigi Onorato, Lorenzo Piani, Ghita Sestito Scene di Emanuele Luzzati e Giovan ni Licheri Costumi di Piero Tosi Colonna sonora a cura di Aldo Trionfo Diamo pure per scontato che è im possibile o quasi trasformare un capo lavoro della narrativa come « L’idiota » di Feodor Dostoevskij in un’occasione teatrale altrettanto valida: peraltro il testo di Dostoevskij offre una tale ric chezza di motivi ispiratori che tante sono le possibilità e le angolazioni che si offrono a quegli uomini di teatro che volessero tentare l’impresa; come han no fatto Angelo Dallagiacoma e Aido Trionfo — che hanno curato rispetti vamente la riduzione e l’adattamento del testo e la regia teatrale — senza però riuscire a recuperare veramente nessuna di quelle emozioni, di quelle occasioni dello spirito che fanno gran de il romanzo e delle quali neppure lo spettacolo teatrale può fare eviden temente a meno, magari per sostituir le con un agitare di tendaggi rossi nei quali i protagonisti si drappeggiano con movenze da diva di film d’altri tempi. Basterà questa brevissima de scrizione per comprendere come, fra tutte le firme in calce a questo spet tacolo, quella che conta di più — nel senso di determinare maggiormente lo spettacolo stesso — sia la firma di Trionfo: il suo metodo è, come al so lito, quello di scomporre l'unità narra tiva originaria (in questo caso rispetto al romanzo di Dostoevskij) per riutiliz zare il materiale disponibile di avveni menti di personaggi, di sensazioni, di dialoghi, di grandi temi di fondo (in somma tutto ciò che, amalgamato però in un'unità difficilmente scindibile, co stituisce un capolavoro come « L'idio ta », scomposto e selezionato secondo la particolare sensibilità del regista), Leda Negroni ne « L’Idiota » (foto Donatella Rimoldi) cioè soltanto una raccolta di immagini secondo la fantasia (e, a questo pun to, la ripetizione di una •• maniera » or mai parecchio sfruttata) di un regista. Fra gli interpreti Bruno Cirino, che è il protagonista, fa del suo personag gio un dimesso omino alla Charlot, in sistendo molto sul lato « divertente », ed è una soluzione magari in carattere con le possibilità dell'attore ma certo lontana dallo spirito di Dostoevskij: abbastanza di maniera (la maniera di Trionfo, naturalmente, e cioè molto sopra le righe) tutti gli altri fra i qua li la migliore è sembrata Leda Negroni come Nastasja Filippovna. secondo un gioco di citazioni e di al lusioni che dovrebbero ricostruire nel l’attenzione dello spettatore il testo originario in un insieme di Impressio ni e di situazioni determinate a sugge rire il particolare angolo di lettura adot tato dal regista. Una tecnica già adot tata ed anzi inventata da altri, che può senz'altro dare risultati felici: può es sere anzi più logico riproporre in tea tro un capolavoro della narrativa più per impressioni che seguendo una pun tigliosa linea descrittiva. Occorre pere capacita di autori, chiarezza d'idee ed un’eccezionale attitudine a tradurre la fantasia in immagini non solo belle a vedersi ma che esprimano anche i ne cessari significati: a questo proposito bisogna sottolineare che Trionfo è di solito considerato fra i registi più ric chi di fantasia mentre in realtà sono anni che ripropone le stesse soluzioni, colorate e fragorose finché si vuole, ma che esauriscono appunto il loro contenuto e la loro funzione in un po' di colore e un po’ di fragore. Resta dunque inteso che questo « Idiota » non è — se non in minima parte e cioè nell’estremo recupero della citazione — Dostoevskij, e questo magari pote va essere messo in preventivo fin dal l'inizio, ma il rischio è che non sia nep pure qualcosa di diverso, che risulti CIRCO EQUESTRE SGUEGLIA di Raffele Viviani Regia di Armando Pugliese Interpreti principali: Antonio Casagran de, Angela Pagano, Giuseppe Ana- trelli, Nando Di Lena, Nunzio Fumo, Nicola Di Pinto, Biancamaria Vaglio Scene e costumi di Bruno Garofalo Musiche di Raffaele Viviani a cura di Nicola Piovani Passato e presente del Teatro di Roma si incontrano intorno a questo spettacolo: il passato nella dedica a Vito Pandolfi, primo Direttore Artisti co dello Stabile romano e studioso di teatro al quale in particolare si deve l'attuale risveglio di interesse per l'o pera di Raffaele Viviani, risveglio che del resto prende le mosse da quel « Napoli notte e giorno » che il Tea tro di Roma presentò nel 1967. Il pre sente nelle difficoltà finanziarie che fanno sì che questo « Circo equestre Sgueglia » sia per quest'anno l'ultima produzione dello Stabile romano, men tre un altro spettacolo previsto in cartellone slitterà alla prossima sta gione. Che il confronto sia, almeno in questa occasione, a tutto vantaggio del passato è confermato anche dal para gone diretto fra gli spettacoli: indub biamente dignitoso, con qualche inven zione anche di notevole livello, il Vi viani proposto oggi da Armando Pu gliese, ma certo — pur nella diversità dei testi prescelti e dunque nelle di verse chiavi espressive — tutt'altra « Circo equestre Sgueglia »: la parata cosa era il memorabile allestimento di Giuseppe Patroni Griffi, dieci anni fa. Armando Pugliese si è conquistato fra i giovani registi di teatro nostrani una rapida e meritata notorietà con il « Masaniello »: sarebbe vano cercare però in ■■ Circo equestre Sgueglia >■ il ritmo incalzante di quella prima regia; certamente il testo di Viviani richie deva un tono diverso considerato che il tema del circo equestre (nel caso specifico un circolo piccolo e scalci natissimo) non è certo la solita occa sione per una festa di luci, suoni e colori, quanto una tristissima riflessio ne su di una condizione di vita disu mana, personaggi abbrutiti da un lavo ro massacrante, raramente compensa to da un'adeguata risposta del pubbli co, ed in più con l'obbligo, di apparire sempre sorridenti e senza pensieri. Proprio questo è il punto centrale del dramma, secondo l’impostazione di Vi viani: ciascuno di questi personaggi ha in effetti una vita privata abbastan za complicata, motivo di preoccupa zione se non addirittura d’infelicità: però queste vicende non è possibile neppure viverle veramente se non del rapidissimo intervallo tra un numero e l’altro, fra un faticoso lavoro (na turalmente, in un circo così piccolo, anche gli « artisti » debbono piegarsi ad impegni di manovalanza) ed un dif ficile esercizio, secondo la regola del lo spettacolo prima di tutto. Non c'è pausa, possibilità di riflessione o di sfogo, neppure di fronte ai dolori più gravi: è una tragedia sottovoce, tanto più terribile in quanto non può esplo dere. Nella regia di Pugliese manca so prattutto il contrasto stridente fra il movimento inarrestabile di questi la vori forzati e lo spezzettamento delle piccole e grandi tragedie personali: tutta la vicenda appare come rallen tata al massimo, non si sa se per scel ta precisa (quasi a trasportare lo spet tacolo in una dimensione irreale) o semplicemente perché non si riesce a ingranare la marcia giusta (e in que sto caso sarebbe forse necessario ri tornare su questo spettacolo allorché avrà compiuto un adeguato periodo di rodaggio). Di gran livello, comunque, la prestazione di quasi tutti gli inter preti e in particolare dei due che, pur tra tantissimi personaggi quasi tutti col loro momento di <• primo piano », possono considerarsi i protagonisti e cioè Antonio Casagrande nel ruolo del pagliaccio Samuele e Angela Pagano nella parte di Donna Zenobia. La loro bravura è nel saper dare il senso di una tragedia sotterranea, l'alienazione di non poter conciliare i sentimenti con la necessità immediata, nell'applicazio ne dei tanti difficili impegni come pu re nella tranquilla terribile rassegna zione dell’ultimo atto, ridotti entrambi a vivere praticamente di carità e pure ancora capaci di affetto e solidarietà: mentre invece gli altri diseredati che pure li circondano rubano i loro po veri attrezzi di lavoro, come a signi ficare che un simile dramma non può in alcun modo concludersi su di una nota di speranza, ma solo in chiave di completo pessimismo. prio perché è una delle opere più » riscritte » dall'autore: questo fa sì che il testo possieda una geometria interna impeccabile e una rara lucidi tà nei dialoghi. La prima edizione sem bra essere stato un romanzo breve e risale al 1896 con II titolo « Il nido ». Successivamente la sua opera « Se non così » e tale titolo fu quello con cui apparve sulle scene nel 1915. Soltanto nel 1925 il dramma assunse il titolo definitivo « La ragione degli altri ». in quei dieci anni Piran dello aveva già scritto altre opere im portanti per la scena (« Liolà », « Pen saci Giacomino », « Così è (se vi pa re) », « Il giuoco delle parti », ecc.J, tuttavia nel dramma con cui aveva de l’autore intitolò buttato doveva ritornare più volte, for se perché non contento del modo con cui era stato rappresentato. Questo ri scrivere è importante anche per quan to si diceva all'inizio a proposito dei motivi già espliciti del futuro lavora del drammaturgo. La fabula, la vicenda, l’andamento scenico si intersecano perfettamente; il nitore dei dialoghi si accoppia alla essenzialità delle scene; le situazioni si chiariscono nel terzo atto, dove si intravede la struttura pi ramidale dell'opera che si chiude sen za un preciso vertice. De Francovich ha dato una lettura del testo pirandelliano cercando di leggerlo senza sovrastrutture, affron tandolo per quello che è, fuori dal pi- Mila Vannucci e Massimo De Francovich in « La ragione degli altri » (foto Piero Togni) LA RAGIONE DEGLI ALTRI di Luigi Pirandello Regia di Massimo 'De Francovich Interpreti: Mila Vannucci, Lucia Catul lo, Massimo De Francovich, Carlo Bagno, Barbara De Bortoli, Dante Bia- gioni, Giuseppe Colombo Scene e costumi di Toni Rossati « La ragione degli altri » presenta di versi motivi di interesse. Si tratta del la prima opera teatrale di Pirandello e quindi viene naturale :eggerla come tappa meditata verso un successivo progetto scenico. Del resto, a fare be ne attenzione, troviamo in quest'ope ra, più volte riscritta dall’autore, que gli elementi che caratterizzeranno tut ta la sua poetica: la lucida analisi di una società borghese, il mondo ■< chiu so » dei personaggi che solo formal mente entrano in contratto tra loro, la coscienza critica della scena come « modello d'analisi » dello spirito uma no, fino ad un sottile senso di mo derna ritualità che risolve le crisi nel sacrificio. Il quadro di riferimento — che in generale sarà piuttosto sfumato, fino a giungere alla più sottile astrazione — qui è invece precisato, quasi sto ricizzato (la stampa romana degli inizi del nostro secolo). Pirandello è ancora legato alle forme del teatro naturali sta, le contempla con critico distacco e ne accentua una misura ibseniana, che rappresenta una grande novità. La critica alla società borghese è, infatti, precisa e netta; le convenzioni pre valgono su ogni altro aspetto del vi vere sociale: schiacciano gli individui e i loro sentimenti, propongono le so luzioni più incredibili alla rete dei rap porti umani. E' la logica delle « neces sità », contro la logica del cuore; una giustizia tutta « esterna », che tiene conto essenzialmente degli « Altri »; un ragionamento brutalmente « sociologi co » contro la sfera del personale e dell'Intimo. Questa doppia articolazio ne sembrò molto moderna a Gramsci e, in effetti, offriva la possibilità di una lettura quasi politica del dramma pirandelliano. A ben guardare, comunque, « La ra gione degli altri » è interessante pro ti conosco più » (1932), « Milizia terri toriale » (1933). De Benedetti rappre senta in maniera emblematica la cultu ra d’evasione durante il ventennio fa- scita. Nelle sue commedie trovi il gu sto per l’intreccio, la situazione diffi cile da districare, l'umorismo che porta tutto in risata quello che potrebbe es sere un serio dramma. Forse per dare un giudizio sociologico sulla vita e il costume italiano degli anni trenta la commedia di Aldo De Benedetti è fon damentale: trovi nella sua opera tutti gli stereotipi del momento, con quel tanto di divertita mediazione di cui l'autore era consumato maestro. Vale la pena ricordare il lavoro di sceneg giatore, di cui « Gli uomini che mascal zoni! » (1932), interpretato da De Sica, è uno dei più significativi suoi lavori nel cinema. Insomma: De Benedetti è uno di quegli autori che fa piacere ri scoprire e da cui, ancora oggi, si può imparare molto. II gusto di risolvere un possibile dramma in una situazione comica, tut ta giocata su di un sottinteso equivoco (da cui scaturiscono una infinità di trovate sceniche), caratterizza « Non ti conosco più ». La moglie, dopo aver visto la segretaria seduta sulle gambe del marito, non lo riconosce; anzi, lo scambia con lo psicanalista a cui sem bra offrire le sue grazie. Solo alia fine si scopre che era tutto uno scherzo giocato per vendetta nei confronti del marito. 'La commedia vive di una serie di si tuazioni comiche, sospese in un’aria leggera, astratta, quasi surreale. Gli interpreti, eccetto Gianni Bonagura, re citano in maniera naturalistica e falsa no, così, lo spirito dell'opera di De Be nedetti. La regia è il dato positivo del lo spettacolo: molto sobria, lascia vivo il gioco di punti e contrappunti, come il testo, del resto, suggeriva. NON TI CONOSCO PIU' di Aldo De Benedetti Regia di Mario Ferrerò Interpreti: Marisa Patulli, Orazio Stra- cuzzi, Giuditta Saltarini, Renato Ra- scel, Gianni Bonagura, Adriana Inno centi, Elena Croce e Lise Salvi Scene di lucio Lucentini Costumi di Maurizio Monteverde Riadattamento e music’ne di Renato Rascel Aldo De Benedetti (1892-1970) è un commediografo interessante che, per molti aspetti, andrebbe riguardato me glio. Di lui si ricorderà sempre la bo naria ironia e il garbato sentimentali smo di cui sono venate le sue com medie. Divenne famoso soprattutto per « Due dozzine di rose scarlatte » (1936) che, dopo il grande successo, diventò repertorio quasi obbligato di molte fi lodrammatiche. De Benedetti, comun que, ha scritto molte commedie e le migliori si collocano negli anni che vanno tra le due guerre. Converrà ri cordare « La resa di Titì » (1931), « Non Adriana Innocenti e Renato Rascel randelliamo che forse poteva portare ad una dimensione falsata dell’opera stessa. M suo lavoro si è rivolto essen zialmente in profondità, verso i perso naggi e le loro contraddizioni. Ne e- merge un dramma crudo e privo di ogni caduta sentimentale: il banale viene posto in primo piano ad assol vere la « necessità » del quotidiano, do ve puoi scorgere meglio l’intrigarsi delle passioni. C’è una sottile linea di congiunzione tra questo dramma pi randelliano e « Le cugine » di Svevo, portato In scena la scorsa stagione sempre da De Francovich con Mila Vannucci e Lucia Catullo. Sia in Svevo che in Pirandello è rappresentato il mondo borghese nel suo affermarsi at traverso la rete delle convenzioni. Sul lo sfondo, in ambedue i drammi, puoi leggere la crisi di una società e la coscienza di questa crisi da parte di personaggi che non sanno trovare una misura di pace. Nell'uomo è possibile l'errore, ma non altrettanto nella so cietà dove questo errore viene codi ficato da leggi che sono estranee ai sentimenti. Tre personaggi fondamentali c’era no ne « Le cugine » e tre sono in que sta « Ragione degli altri ». Livia Arciani è sposata con Leonardo. Lei è una donna ricca e lui un giornalista con poco successo nella carriera e poca affermazione sociale. Leonardo si in namora della cugina di Livia, Elena Or- gera, dalla quale ha una bambina. Il tradimento coniugale porta Leonardo ad una nevrotica lontananza dalla mo glie che cova in silenzio tutto il suo rancore. I due sono sul punto di la sciarsi quando intervengono due fatti: da una parte l'arrivo del padre che cerca di riappacificare marito e moglie, dall'altra l’indebolirsi dei sentimenti di Leonardo nei confronti di Elena. I due coniugi si incontrano in un col loquio chiarificatore, dove Livia si mo stra disposta a capire il marito e le ragioni » dell'altra. Nel terzo atto ab biamo le due donne una di fronte al l’altra e si sbranano con le loro con siderazioni. Alla fine Livia prenderà la figlia dell’altra e coprirà così il vuoto di una maternità mai vissuta e che non avrebbe mai potuto vivere altri menti. Tutti i personaggi di questo dramma pirandelliano sono degli sconfitti e votati ad una inesorabile solitudine; i motivi delle loro azioni rimangono per lo più inespressi mentre il silen zio cade sul loro agire. Mila Vannucci dà vita ad una Livia Arciani perfettamente in sincronia con lo spirito del testo, accompagnata da una brava Lucia Catullo, nel ruolo di Elena Orgera, e un preciso Massimo De Francovich nella parte di Leonardo. Anche gli altri interpreti assecondano bene la loro parte, tra loro va ricor dato il corposo Carlo Bagno. Le belle scene dai toni allusivi e un po' astratti sono di Toni Possati. suo esordio teatrale, ha mostrato una apprezzabile sicurezza e padronanza della scena, Arnoldo Foà è, come sem pre, bravo e simpatico, Lia Zoppelli molto incisiva e disinvolta. Memo Re migi, nei panni del giovane e confuso drammaturgo, non sempre riesce ad essere a suo agio. La regia è dello stesso Foà e le musiche sono di Re migi e Tony De Vita. Cinzia De Ca rolis riveste il suolo dell'angioletto as sassino. UN ANGELO CALIBRO 9 di Nino Marino Regia: Arnoldo Foà Interpreti: Rosanna Schiaffino, Memo Remigi, Arnoldo Foà, Lia Zoppelli, Cinzia De Carolis Scene e costumi: Giorgio Veccia Musiche: Tony De Vita e Memo Remigi Lo spettacolo leggero non ha molta fortuna nelle menti dei nostri autori. Le prove migliori, dal dopoguerra ad oggi, ci vengono dalle voci più signifi cative della nostra drammaturgia, op pure da quelle eleganti « confezioni » che Garinei e Giovannini hanno appron tato per la nostra scena, ora con sog getti originali, ora con opere tradotte dall’inglese. Nino Marino con « Un an gelo calibro 9 » ha scritto un testo le cui ambiguità sono tutt'altro che poe tiche e il racconto è troppo forzato e macchinoso. Marino fa leva su alcuni stereotipi situazionali come il mammi smo (di cui è pieno il nostro Paese), il classico scontro suocera-nuora, la vo lontà che circola in modo sempre oreeccupante di far piazza pulita del mondo <■ malato » degli adulti. La vicenda ci mostra una madre os sessiva e ricca che sta addosso al fi glio, occupato eternamente a scrivere una commedia con ottanta personaggi; la moglie è forse priva di quelle at tenzioni che vorrebbe, tanto da pen sare a soluzioni extra-coniugali » (pen sa di « soffiare » il fidanzato della suo cera) ; la figlia è un’appartata adole scente, distratta e disincantata, che alla fine, su istigazione della madre, fa piazza pulita di tutti con la pistola offertale dalla mamma delusa e calco latrice. Siccome la ragazzina non è an cora quattordicenne, non è persegui bile penalmente, e siccome è anche scaltra, riesce a far cadere la colpa degli omicidi sul conte, fidanzato del la nonna. Non credo che II testo ci voglia di mostrare delle particolari verità: tutte è dichiarato ed esplicito. Quello che conta, evidentemente, è quanto sta al di là dell'intreccio: il modo con cui gli attori rendono la loro parte e si pre stano al gioco. Rosanna Schiaffino, al Arnoldo Foà e Rosanna Schiaffino AGGIUNGI UN POSTO A TAVOLA di Garinei e Giovannini, scritta con laia Fiastri Regia: Garinei e Giovannini Interpreti: Johnny Dorelli, Paolo Pa nelli, Bice Valori, Ugo Maria Morosi Jenny Tamburi, Christy, Carlo Pianta dosi, Franco Ricchio Scene e costumi: Giulio Coltellacci Musiche: Armando Trovajoli Coreografìe: Gino Landi Dopo i successi ottenuti in Italia e all'estero (in particolare a Vienna, Ma drid e Lubecca), torna al pubblico ro mano « Aggiunge un posto a tavola », la fortunata commedia musicale che Garinei e Giovannini hanno scritto in sieme a laia Fiastri. Al di là di ogni precipua considerazione estetica, que st'opera ha II grande merito di un al tissimo artigianato che, in questo ge nere, può vantare di aver raggiunto delle misure non ancora eguagliate nel nostro Paese. Gli spettacoli di Garinei e Giovanni ni sono quanto di meglio possa offrire il teatro « leggero » italiano d’oggi; nei loro lavori trovi sempre il segno di un gusto e uno stile di gran classe, il senso di una ludicità sincera e mai gratuita. In questo particolare caso il contributo di laia Fiastri non è certo di poco conto: comunque, si tratta sempre di un felice sodalizio nell'am bito del nostro teatro (si veda Io spet tacolo che la Fiastri ha scritto, suc cessivamente, per Garinei e Giovanni ni, « Amori miei »). In questa edizione di « Aggiungi un posto a tavola» cerano più o meno tutti; Daniela Goggi, comunque, è sta ta sostittuita da Jenny Tamburi. Lo spettacolo resta sempre fresco e pia cevole. Gli interpreti sono molto bravi. La storia, come molti ricorderanno, è quel la di un diluvio universale, scongiu rato da un modesto prete. Sullo sfon do, assistiamo alle scaramucce tra il sacerdote e il sindaco, alle piccole «esaltanti » vicende di una comunità in un « angolo qualsiasi del mondo ». Johnny Dorelli fa la parte di Don Sil vestro, colui che salverà tutti dal di luvio parlando spesso con Dio « in persona »; Jenny Tamburi è ia giovane Clementina, sfortunata innamorata del prete (si consolerà orientando al trove i suoi sentimenti); Paolo Panelli disegna la figura di un sindaco di pae se, un po' scorbutico ma molto sim patico; Bice Valori è, invece, la scate nata « Consolazione », una prostituta « come ce n'erano una volta »: prodiga di « affetto sociale » e pronta alla « re denzione ». La « voce » di Dio è quella di Renato Turi. di Maurizio Liverani BAGNO FINALE di Roberto Lerici Regia di Roberto Lerici Interprete; Massimo De Ross Scene di Gianni Garbati Costumi di Rita Corradini Musiche di Piero Pintucci Il malaise etico e sociale che ha col pito l’uomo contemporaneo è il motivo di questo monologo delirante in cui l'autore, Roberto Lerici, ha versato tut ti i suol umori provocatori e satirici. Nella società borghese e industriale, l’intellettuale non integrato, e special- mente l’artista emarginato, si è reso, ormai, conto (spesso oscuramente o cozzando contro i duri dati di fatto del la povertà e della miseria) che non c’è più posto per chi non sia immesso nel ciclo produttivo di beni materiali, per chi tenti di sfuggire — spinto dal temperamento o anche solo dal carat tere che egli attribuisce al proprio me stiere — alle maglie di una società fondata sul profitto o sugli stimolanti del profitto. Di questo processo di e- spulsione, che per i romantici e i bo- hémiens era la condizione della liber tà, è vittima II personaggio disperato di <• Bagno finale ». Il simbolo di que sto Isolamento imposto, che si fa iso lamento scelto, è il cesso; in questo universo vischioso e maleodorante, il protagonista si chiude con la sua an goscia permanente come un peccato inespiabile. Il tema del cesso, quello dell 'orina e dell’ano che, nella concezione romanti ca, tradiscono una volontà di umilia zione, qui diventa il teatro di una deli rante aspirazione al Bello, al Solenne, al Sublime che sfocia in grottesche immedesimizzazioni nei grandi miti del la letteratura, come Amleto, Faust, Me- fistofele, Casanova, Sherlock Holmes, De Sade, Robinson Crusoe. Con un saggio di virtuosismo supe riore, Massimo De Rossi forza al mas simo i registri del grottesco, tortura gli accordi con questi miti a provoca re, in un groviglio tragico ed esilaran te, cacofonie per provarsi, e provare agli altri, che anche lo strumento del « Aggiungi un posto a tavola » (foto G. Coluzzi) «.Grandi Spiriti » non serve più. La metafora è sempre più decisamente spinta verso ridacchiane stridenze: il rapporto con le fonti si fa allusione sardonica e ingiuriosa. Dalla roccaforte del suo bagno Massimo De Rossi in troduce nella roccaforte delle lettere le sue mine, accende la miccia e prepa ra la deflagrazione; quando ne esce, non si degna neppure di voltarsi per dare un'occhiata alle macerie della sua evasione fantastica. Il lucore bianca stro del cesso somiglia a una bandiera bianca che sventoli per sempre sulla sua disperazione. Le novità di « Bagno finale » sono due. Lerici ha una alchimia della pa rola, e della lingua, liberata da ogni necessità dimostrativa, descrittiva o discorsiva, La parola è un lembo del ibi lo » è un modo di essere, di pen sare per immagini, segni e allusioni. Con essa lo scrittore procede a un'o perazione radicale di depurazione e di decantazione della materia polemica, affidando il discorso all’intuizione ra pidamente afferrata e detta. La sua presa anche con le parole è essen zialmente visiva. E questa operazione non poteva realizzarsi se non attra verso un intelligente affiatamento tra autore-attore. Massimo De Rossi è un grande attore; in lui confluisce la vis di molti altri grandi del ridere; egli è mimo, clown, comico ma è soprattut to un attore tragico. Per cui, se si debbono, ad ogni costo, individuare pa rentele, esse va'nno ricercate in mo delli non italiani. Massimo De Rossi in « Bagno finale » di Roberto Lerici Convergenze parallele anche in teatro A v a n g u a r d ia c o n c ilia n te fu L’avanguardia è, o dovrebbe essere, un moto di rivolta ad una situazione di fossilizzazione e di esaurimento arti stico: rivolta contro l’accademia, rottura dei conformismi nei quali essa tende a cristallizzarsi, riconquista dell’auto nomia fantastica e preparazione, quindi, di più vivi e liberi modi di espressione. Questa fin dall’epoca dello « Sturm und Drang », quando ancora non si chiamava avanguardia e i rinnovamenti si attuavano per germina zione spontanea, sulla spinta di necessità interiori piut tosto che in nome di partiti presi intellettualistici, e così continuò ad essere con i romantici, con i « fauves », con i simbolisti. L’inquietudine, il disagio, l’insofferenza, persino l’an goscia che qua e là spuntavano nell’opera di pensatori o di poeti, restavano stati d’animo individuali, senza cer care giustificazioni nella temperie sociale. Non erano an cora di moda, a quei tempi, il materialismo storico, la lotta di classe, la condanna della borghesia e le conse guenti denuncie di un ordine sociale ritenuto responsa bile di qualsiasi male o smarrimento. Anche nella pole mica l’arte restava nei propri limiti: le sue proteste non coinvolgevano la società, le sue ribellioni non implica vano istanze rivoluzionarie. Col nostro secolo le cose mutarono, l’arte si è « impe gnata » e l’avanguardia si è trasformata in portabandiera di una deviazione totale. La intolleranza per ogni soprav vivenza del passato, per ogni norma e per ogni legge tra dizionale è diventata una crociata contro il formalismo. Presupposto è che la vita è un assurdo senza senso, un automatismo senza coscienza. Se tanto irrazionalismo, in dice a volte — anzi molto spesso — di impotenza crea tiva ha potuto affermarsi nelle arti cosidette figurative (che impressionisticamente si rivolgono ai sensi con i colori ed i volumi) era fatale che si imponesse anche alla lettera tura e al teatro. Le resistenze contro l’avanguardia partono da un vec chio ed esausto caposaldo della tradizione: il teatro si rivolge razionalmente all’intelletto con concetti e discorsi; il teatro avrebbe bisogno soltanto di chiarezza, di logica e di comunicativa; dovrebbe, in una parola, farsi capire e intendere razionalmente. Ciò spiega perché, nonostante i molti tentativi com piuti, dalle parole in libertà in poi, il teatro tradizionale ha sempre resistito agli assalti delle avanguardie aforma listiche. L’astrazione dalla concreta realtà ha vinto queste resistenze e si è da tempo impossessata del teatro e della letteratura. Si potrebbero citare molti esempi da Blanchot a Queneau, da Genet a Tardieu, da Vauthier a Beckett. Jonesco, tanto per citare un autore noto anche al pub blico meno informato, ha trovato l’equivalente letterario con la pittura non figurativa disgregando il linguaggio, riducendolo ad una verbosità quasi automatica nella quale parole e frasi, ricondotte allo stato di suoni, si disarti colano in un vaniloquio privo di significato. Questa premessa andava fatta per capire quanto ci sia di autentico nella cosidetta avanguardia italiana d’oggi. Molti motivi dell’avanguardia storica sono pervenuti anche ai nostri avanguardisti: l’incapacità della ragione e del l’intelletto raziocinante di capire qualcosa conoscitivamen te, il vaniloquio esistenziale, la vitalità orribile delle cose morte che non ci vogliono lasciare, la vitalità della morta « routine » delle idee ricevute, delle frasi fatte, la con templazione disgregatrice, il distruggersi distruggendo, l’omaggio funebre al nulla e il funebre elogio delle piccole cose inutili, la nevrosi al posto della rasserenante catarsi aristotelica, il rifiuto della dittatura della parola, l’assog gettamento, del testo al regista e alla messa in scena. Tante manipolazioni di testi illustri sono spesso empie ed aggressive, frugano « oltre » il testo per trovare un sottotesto forse più autentico. Lasciare l’opera d’arte in pace è, secondo questi procedimenti sconvolgenti, un modo di addomesticarla, renderla docile ed accomodante; men tre, per i teatranti d’avanguardia, il vero teatro deve in nervosirci, irritarci. A un sistematico stupro è sottoposta l’opera di Shake speare, di Proust, di Pirandello, di Molière con stravolgi menti denotanti una insoddisfazione (più o meno consa pevole) di fronte all’opera e il desiderio di sostituirla con qualcos’altro. Si parte dall’opera d’arte per sfuggirla; a questa nor ma si adeguano non soltanto i cosidetti « avanguardisti ». Il testo, così reinventato diviene parodia, o può diventare arte astratta, o puramente decorazione o non arte, come un disperato tentativo di arrestare l’irrevocabile processo di dissolvimento dell’anima in intelligenza, in morale c in grandi idee. Nel teatro italiano chi, in questo momento, non fa il ragazzaccio a spese dei classici? Questo avanguardismo programmatico, che si manifesta in esperimenti formali a danno del contenuto, è una difesa contro le ideologie che in una società atrofizzata e in disfacimento appaiono sem pre più zoppicanti messaggi, intenzioni pretenziose, sca dente flora mentale, preparati morali scoloriti, velleita rismi intellettualistici. Anche in testi canonici c’è sempre da mettere le mani su qualcosa di diverso dal contenuto Non nella psicologia, nella rivelazione dei personaggi, ba sata su conflitti e motivazioni attendibili, nelle idee c alla maggiore o minore chiarezza e coerenza con cui ven gono espresse, si cerca il valore liberatorio della rappre sentazione bensì in un vocabolario di forme, nelle modu lazioni dei materiali anche nell’utilizzazione e nel tratta mento delle persone come oggetti anziché come perso naggi. La scenografia e i costumi, intesi a sopraffare e ad avvolgere lo spettatore, anche in spettacoli « tradizionali », non in funzione decorativa o di sfondo, ma in chiave espressiva, indica l’intenzione di mettere il pubblico in rapporto soprattutto con elementi che colpiscono i sensi al di là del contenuto e del tema trattato anzi mettendo la sordina all’idea del testo. L’idea è di distruggere i si gnificati convenzionali per creare nuovi significati. Con tano le sensazioni, i sentimenti, le forme astratte; è a questi che il teatro d’avanguardia si rivolge. Tutto il teatro italiano tende a liberarsi da quella che Artaud definisce la « pittura dialogica e psicologica del l’individuo ». L’anima per Artaud è l’emanazione della nostra forza nervosa coagulata attorno agli oggetti. Si as siste a una simbiosi tra tradizione e avanguardia. Lo Sta bile di Roma autorizza con il « Maestro Pip » di Sàito, con la regia di Mario Ricci, nuove percezioni andando oltre il valore e le idee del testo. Tutta una serie di spet tacoli di autori annidati come batteri nell’humus avan- guardistico cerca di conciliare il teatro dcH’intelligenza con il teatro della magia, del gesto, della sensazione. Giancarlo Nanni, un avanguardista un po’ cssicato, non tenta forse una simile conciliazione con « Franziska » e « II cimbellino »? Le idee come stimolanti sensori, le idee che possono funzionare come scenografia, attrezzi sce nici, materiali per i sensi, non è la caratteristica del teatro di Periini soprattutto in « Locus solus » e « La partenza dell’Argonauta »? Le sensibilità che informa certe opere dell’avanguardia non permea la stessa « Anitra selvatica » di Luca Ronconi? Sono queste soltanto delle esemplifi cazioni; spettacoli che più si avvicinano alla concezione artaudiana. Allargandosi questa conciliazione tradi zione e avanguardia, il teatro fa grandi passi verso la direzione giusta. Le idee presentate in senso intellettuale riescono a cooperare sul terreno dei sensi. E su questo può rinnovarsi il teatro. tra Maurizio Li vera ni “ Franziska » e « Cimbelino » di Giancarlo Nanni sono due altri esempi di guardinga conciliazione tra avanguardia e teatro. Nella foto: Manuela Kustermann, interprete dei due spettacoli (foto Dufoto) o f \0 / cT / v0 c? 11 .À° • / è / L iric a e T V : « C r e d o a ll'a r is to c r a z ia m a a n c h e a lla p o p o la r ità d e lla m u s ic a » Lei ha definito la data del 7 dicembre 1976, in cui è stato trasmesso « Otello » dalla Scala « una data sto rica ». A questa data se ne sono succedute numerose al tre: può precisare il significato di questi appuntamen ti televisivi con l’opera lirica? Ho definito « data storica » nella vita musicale e culturale italiana la trasmissione dell’« Otello » perché era la prima volta che lo spettacolo inaugurale della Scala — uno spettacolo straordinario con cantanti d’ec cezione come Domingo, la Freni, Cappuccini, la regia di un artista come Zeffirelli ed un direttore tra i mi gliori del mondo come Kleiber — veniva offerto non ad un pubblico di poche migliaia di privilegiati e di appassionati, ma ad una platea di circa 20 milioni di te lespettatori. Subito dopo ci fu « Norma » con la gran dissima Caballè, trasmessa anche all’estero, vista ed ascoltata da centinaia di milioni di spettatori del mon do e d’allora sta diventando prassi ricorrente collegare i palcoscenici dei maggiori teatri lirici con il grande ascolto televisivo italiano ed internazionale: « Nabuc co » « Napoli milionaria » « Boris Godunov » « Mac- beth » « Trovatore » « Don Carlos » fino al recentissi mo « Ballo in maschera » sono altrettante tappe di un importante itinerarium musicale. Mi si chiede il significato di tutto questo, il per ché lo facciamo. Ma innanzitutto perché riteniamo che l’opera lirica, e in particolare i grandi capolavori popo lari, facciano ancora parte viva ed integrante della nostra storia, della nostra tradizione, della nostra cultu ra e non sia un genere fossile estinto come qualcuno verrebbe: per questo è giusto che venga partecipata, in edizioni esemplari possibilmente, attraverso quel grande strumento di comunicazione che è la televisione, a va ste masse. C’è il fatto poi — e so, dicendo questo, di offende re la sensibilità di qualche raffinato estetizzante — che lo sforzo creativo di tanti artisti, — cantanti, registi, direttori, scenografi e costumisti, così come l’umile ed utilissimo contributo di tanti altri anonimi colla boratori e lo sforzo economico sostenuto dai teatri per i quasi sempre costosi allestimenti, si giustificano meglio (e vorrei dire « solo ») se rivolti ad un pubblico molto più vasto di quello tradizionale: mi ha confor tato di veder rilevato quest’ultimo punto da un musi cologo come Pinzauti che ha scritto non molto tempo fa sulla « Nazione » che il denaro pubblico che si spen de per gli enti musicali italiani « ha un senso soltanto se confluisce in una diffusione più vasta di quella che è possibile con il sole pubblico dei grandi teatri », con un’altra considerazione poi che se i tanto deprecati mass media delia civiltà dei consumi e delle immagini ci offrono tali straordinari occasioni di spettacoli « que sta si che è un’operazione democratica nel campo della cultura! ». Ma subito dopo la prima dell’« Otello » rammento benissimo che ci fu l’articolo demagogico di un illustre critico televisivo che, oltre a deprecare la serata da di menticare, rilevava che la trasmissione dalla Scala era stata un’offesa alla miseria con l’ostentazione di orpelli e di valori sbagliati e che era perfettamente inutile de dicare tanto tempo, tanti sforzi e tanti denari all’opera lirica, « cenerentola » dei generi televisivi! Vorrei invece richiamare l’attenzione su quanto dice Fausto Malcovati nell’ultimo numero di « Scena »: « A un mese dall’apertura del 7 dicembre, le repliche di « Don Carlos » erano già quasi tutte esaurite, lo stesse per il « Ballo in maschera »: il botteghino ha rimanda to e continua a rimandare centinaia di richieste rimaste inevase ». Non è che si verifichi quanto si chiede, un pò ingenuamente lo stesso Malcovati (Milano riscopre la Scala? Lo spettacolo lirico torna ad essere spettaco lo di massa?), bensì un fatto del tutto normale: nelle grandi città dove c’è un unico Teatro lirico e gii spet tacoli sono di alto livello artistico, la platea è sem pre superaffollata del pubblico — lo ripeto — di pri vilegiati o di appassionati. Se ne era accorto anche Ador no che nell’« Introduzione alla sociologia della musica » — cap. « Opera lirica » — scrive che il reparto ricer che statistiche dell’Istitut fùr Sozialforschung aveva cal colato che il numero dei posti disponibili in un anno in un grande teatro lirico di Francoforte è cosi limita to che ogni adulto non potrebbe andare a sentire l’opera nemmeno una volta ogni dieci anni! E ci troviamo in Germania, in un paese che ha tradizioni e strutture teatrali invidiabilissime! Offrire invece grandi avvenimenti spettacolari a grandi masse, in diretta, facendo quindi coincidere il tempo teatrale con quello televisivo della ripresa e del lo spettatore, significa non solo — come osserva benis simo Lorenzo Arruga nell’ultimo numero di « Musica viva » — « far diventare la televisione uno strumento giornalistico, la meraviglia che permette a tanti di vive re in qualche modo gli avvenimenti da cui sarebbero esclusi », ma togliere per sempre all’opera lirica quel marchio caratteristico e improprio di spettacolo riser vato ad un pubblico borghese privilegiato. Sappiamo benissimo che molti musicologi, anche di valore, come Fedele D’Amico, considerano che il melo dramma è nato nel teatro e per il teatro e che la divul gazione televisiva è una manifestazione d’incultura an zi rappresenta, una vera e propria opera di diseduca zione del pubblico: noi siamo soddisfatti del modo en tusiastico con cui milioni di nostri telespettatori, e con altissimi indici di gradimento, (82 per « Otello » e « Norma », 78 per « Boris », 81 per « Don Carlos ») hanno risposto agli spettacoli che gli sono stati pro posti. E mi sia lecito ancora ricordare che la TV sovieti ca ha presentato qualche giorno fa sul Primo program ma il nostro « Don Carlos » ad un auditorio di 120 milioni di persone e sottolineare l’entusiasmo, riporta to su « Le Monde » con parole lusinghiere, « per la felicità totale » provata dal pubblico francese dinanzi allo stesso capolavoro verdiano. Qualcuno dice con malizia che le opere offerte in omaggio al pubblico italiano sono in realtà un omaggio fatto a Lei nella sua qualità di ex-sovrintendente della Scala, dai direttori delle due reti tv. Ci può dire che cosa ne pensa? Presentare nei nostri programmi televisivi le gran di opere del repertorio lirico, rientra nella linea di spet tacolo e culturale che si è prefissa la nostra azienda: e del resto, questa linea è indicata in un preciso ordine del giorno approvato alcuni mesi fa dal consiglio d’am ministrazione della RAI. Non ritengo pertanto nel mo do più assoluto che l’impegnativo sforzo artistico ed economico operato nel settore della musica seria dalle due reti televisive abbia origine da un atto di omaggio verso la mia persona e la mia cultura. È vero invece che questa linea di tendenza, che ha radici molto profonde, (sono più di un centinaio le opere liriche trasmesse dalla TV dopo l’esordio nel lontano 1954 con « Il barbiere di Siviglia », direttore Giulini e regista Enriquez) solo in questi ultimi tem pi — e dopo l’esperienza ormai logora del play-back — ha trovato un suo assetto definitivo, si può dire una sua precisa filosofia, nella « rivoluzionaria » ripresa in diretta di spettacoli d’eccezione dai più importanti tea tri lirici nazionali, (Scala, Comunale di Firenze, Re gio di Torino, Opera di Roma, ecc.) ed internazionali (abbiamo iniziato con il Bolscioi ma la nostra speran za è di portare sui teleschermi il Metropolitan, il Co- vent Garden, il Colon, l’Opera di Parigi, ecc.). Quest’accentuato interesse per il melodramma non riguarda solamente il nostro pubblico ma anche la critica musicale più qualificata: si è incominciato ad esaminare finalmente con serietà il fenomeno opera lirica in TV con articoli che appaiono un po’ dovun que, sui giornali e sulle riviste specializzate. Critici e musicologi seri come Duilio Courir sul « Corriere » e Lorenzo Arruga su « Il Giorno » hanno rilevato, a proposito del « Don Carlos », che l’edizio ne televisiva, anche come qualità di ripresa e capaci tà di cogliere tutte le suggestioni dei tanto criticati spazi scenici, presentava addirittura degli innegabili van tàggi sullo spettacolo teatrale. Ed uno scrittore fine come Bevilacqua, dopo aver analizzato acutamente « l’esplosione in video dell’opera lirica », scrive che si è capito che « il melodramma può servire... ad appagare il bisogno, che il pubblico ha di un’analisi dei rapporti emozionali, quelli di base, di ra dice; semplici in apparenza e che invece proiettano ogni complessità sociale, di cui si ha scrupolo, paura, pudore di parlare ». E sono d’accordo anch’io nel ri- tenere che l’opera lirica sembra l’ideale per rispecchia re anche in chiave psicanalitica, le grandi emozioni co muni, oscure, irrazionali che in questo particolare mo mento proviamo verso i nostri destini generali. È anche la tesi esposta in uno stimolante articolo dallo psicanalista Franco Fornari che, nell’analisi del « Don Carlos » e del « Ballo in maschera », cerca di esaminare con molto acume alcuni aspetti del rapporto tra linguaggio e musica e soprattutto come l’opera deb ba essere intesa quale potente espressione simbolica delle emozioni e degli affetti umani. C’è quindi un risveglio generale d’interesse nei con fronti dell’opera lirica nel sue passaggio alla fruizione di grandi masse: e noi non possiamo che augurarci che ciò che forniamo sotto forma di spettacoli d’eccezione diventi cultura individuale viva ed operante. Qual è il Suo punto di vista sulla ripresa televisiva di un’opera lirica? Partiamo ad esempio dalle consi derazioni relative a « Don Carlos » e « Il ballo in ma schera » trasmesse dalla Scala. Dovrei rispondere che compito del presidente del consiglio d’amministrazione della RAI, è fra molti al tri, quello di approvare o disapprovare (e comunque discutere) le proposte di programmi che le reti radio foniche e televisive, perfettamente autonome, presen tano: ma sono anche un uomo di spettacolo che per quarant’anni ha frequentato i palcoscenici dei teatri di tutto il mondo perciò cercherò di esprimere la mia per sonale opinione su quanto mi viene richiesto. Premetto che non sono sfavorevole a presentare in televisione un’opera filmata, purché in edizione ec cellente, come la « Tosca » di Puccini, ad esempio, rea lizzata da De Bosio negli spazi e negli ambienti reali ma senza una esasperata ricerca di realismo cinemato grafico, con la partecipazione di tre grandi artisti come Domingo, la Kabaiwanska e Milnes; e mi sta bene pu re, moderatamente il melodramma girato in studio con criteri tecnici ed artistici nuovi, come « L’italiana in Algeri » di qualche anno fa, ambientata — protagoni sta Lucia Valentini — da Gregoretti in un albergo di gran lusso fin de siècle e girata con il sistema croma- key. Ritengo tuttavia — e confermo quanto già detto — che oggi la via giusta sia la « diretta » dai grandi teatri nazionali ed internazionali, intesa come testimonian za sia di un fatto artistico che d’attualità. È chiaro che si pongono immediatamente per tutti i nostri otti mi collaboratori grossi problemi connessi alle luci di scena, all’audio, al movimento teatrale degli artisti pro tagonisti e delle masse; i problemi cioè artistici ed or ganizzativi, spesso molto complicati, che bisogna affran- tare — come ha suggerito con la sua enorme esperienza e buon senso anche Claudio Abbado in un suo recente articolo — « senza improvvisazione, con competenza, con fiducia, con gusto, per offrire al pubblico immenso dei telespettatori uno spettacolo che sia semplice e chiaro sul piano del racconto visivo e musicale ». Per realizzare tutto questo, non perderei tempo — come fa Luigi Pestalozza su « Rinascita » — a cercare con la lanterna di Diogene « lo specifico televisivo di opera », che a mio parere, non esiste o ad inventare nuove « tecniche di ripresa » che diano carattere all’ope ra ripresa in TV di autonomia spettacolare: sono d’ac cordo invece che il pubblico di massa come i Gelehrten (diciamo alla tedesca gli intenditori) esige la qualità, rigore e risultati cui non si debba certamente indul genza. Sotto questo profilo mi è interessata molto la ripre sa che Zeffirelli ha fatto qualche giorno fa del « Ballo in maschera »: e forse l’innovazione più intelligente è stato il tentativo, di legare con stacchi e sovrimpressio ni, continuamente, l’energica azione direttoriale di Ab bado con quanto avveniva sul palcoscenico, in modo da offrire allo spettatore il senso di unità dell’intero spettacolo. Particolarmente efficaci sono state anche le sottolineature con la telecamera — ecco ciò che lo spettatore normale di teatro non vede — delle espres sioni drammatiche dei vari cantanti: in ciò Zeffirelli, era aiutato dalla maschera potente di cantanti come la Obraszova e Cappuccini. Condivido meno certi bruschi passaggi dal primo piano o dal piano medio — e questo accade frequen tissimamente nelle nostre riprese — al campo lungo, senza gradualità, soltanto perché la telecamera non è in grado di seguire, tenendo il fuoco, il cantante in movimento, mentre l’audio continua a rimanere sem pre in primo piano. Come lascerei perdere certe ripetute panoramiche sull’orchestra; si tratta quasi sempre di immagini che, anche se in movimento, danno un’impressione di gran de staticità, soprattutto se prima si è ripresa l’azione del direttore. È su di lui che si appunta in questi casi l’attenzione del pubblico, soprattutto se si tratta di un direttore che ha una personalità carismatica come Ab bado, il cui « gesto » ha un’importanza molto più « si gnificante » della panoramica sulla fila dei violini o de gli ottoni. Vorrei chiudere questo mio breve discorso con un augurio, che l’attenzione che oggi c’è, da parte del pubblico, della critica e dei nostri operatori culturali verso la lirica popolare ci sia domani anche nei con fronti delle opere musicali moderne, della musica sin fonica, del balletto o delle rubriche di educazione mu sicale che da tante parti, e anche autorevolmente, ci vengono richieste. Da parte mia — e l’ho già detto — non posso in terferire nell’autonomia delle reti: ma non posso nem meno tradire la mia vita, tutta un’esistenza che ha avu to dimestichezza non soltanto con lo spettacolo ma anche con la musica. Credo insomma nella musica, in tutta la musica, co me fatto vitale che sta in mezzo a noi e credo, s’inten de, all’aristocrazia ma anche alla popolarità del fatte musicale, di cui tutti hanno bisogno e di cui sta cre scendo nel nostro Paese una vera e propria fame. E i grandi mezzi di comunicazione di massa, di cui noi siamo dirigenti responsabili non possono e non deb bono deludere nel modo più assolute questa grande aspettativa. Da qualche tempo non solo la musica lirica, grazie anche alle trasmissioni televisive, è al centro di una grande attenzione da parte del pubblico e della critica, ma anche gli Enti lirici italiani sono oggetto di di scussioni e polemiche tra chi vorrebbe regionalizzarli, chi ridurli e chi infine chiuderli... Qual’è, a questo proposito, il Suo parere? Intanto mi sembra opportuno ribadire quanto è suggerito saggiamente nei progetti di alcuni importanti partiti politici per quel che riguarda l’articolo uno del la riforma dell’attività musicale in Italia: « la musica è un bene culturale di primaria importanza e l’attività musicale è un servizio sociale ». Premesso questo, non sono assolutamente d’accor do con chi vorrebbe trasformare questa riforma, in omaggio alla musica intesa come servizio sociale, in una pianificazione grigia, inesorabile, inarrestabile, a macchia di olio che alla distanza rappresenterebbe — come già ho avuto occasione di scrivere altra volta — « l’uccisione della felicità dell’arte ». Io non sono tra quelli che, a spada tratta, difen dono l’assoluta intangibilità dei tredici Enti lirici ita liani ma non concordo neppure con chi ha cominciato a scrivere che si tratta di tredici carcasse o carrozzoni ricoperti d’oro, facendo di ogni erba un fascio e so stenendo che solo la pigrizia, il campanilismo e la de magogia servono a tenerli in piedi. Questo è un momento — e l’ho già rilevato — in cui nel nostro Paese c’è una autentica fame di cultura musicale e, non, come è stato detto, per puro capriccio di moda, ma forse perché in un momento di crisi generale si va alla ricerca di autentici valori culturali o forse anche perché i « mass media » dopo tanti anni hanno agito in profondità e beneficamente, almeno nel settore della musica colta: ebbene, mi sembra chiare che a questa domanda incessante, ripetuta va data una risposta, ma non casuale e indiscriminata, dove la qua lità scompaia, per far posto alla quantità, ma in modo organico e serio, portando le orchestre ad esempio nei luoghi lontani dalle tradizionali sale destinate al con sumo della musica. Si può e si deve procedere sulla strada del decen tramento e della regionalizzazione, se la collettività esi ge che ci sia musica per tutti, purché non siano intesi in forma selvaggia e purché siano mantenuti ferma mente alcuni punti di riferimento che superino l’in teresse regionale e, vorrei aggiungere, anche nazionale. Alludo a quei pochissimi teatri (e la Scala è, tra que sti, al primo posto) che, per ricchezza di tradizioni, livello artistico delle masse orchestrali e corali, effi cienza del personale tecnico, prestigio dei direttori ar tistici, cultura e qualità professionali dei suoi dirigenti e anche per il profondo rapporto con la società in cui si trovano inseriti, costituiscono un chiaro punto di riferimento non solo per l’intera attività musicale na zionale ma anche per quella internazionale. Non si tratta di difendere interessi o privilegi pre costituiti: si tratta di difendere un patrimonio di espe rienze e di cultura musicale che non deve assoluta- mente andare disperso a vantaggio di una malintesa socialità. Ho già scritto a proposito dei teatri di prosa a gestione pubblica che la prima necessità è artistica, che il primo momento è creativo ed artistico ed il se condo soltanto è distributivo e sociale. E come un teatro che si limiti alla produzione, dimenticando la socialità rischia di diventare una cattedrale nel deserto, così un teatro dove prevale la socialità sul fatto arti stico fornisce e fornirà sempre un prodotto medio e grigio che a me personalmente non interessa: mi sento di sottoscrivere pienamente queste parole anche per quanto riguarda i teatri dove si fa musica. Goethe ha detto che la musica si libra così in alto che l’intelletto non può raggiungerla ed emana da essa un impulso che tutto domina e di cui nessuno è in grado di rendersi pienamente conto: facciamo in modo che partecipare a tutti questo « mistero » non signi fichi anche distruggerlo. L e in a u g u r a z io n i r ila n c ia n o il fe n o m e n o lir ic a In un clima di rinnovato interesse, è iniziata la lunga serie delle inaugurazioni, nei vari teatri lirici italiani. Aspre polemiche sui costi, interminabili discussioni ac cademiche, realizzazioni più o meno indovinate hanno ca ratterizzato i primi giorni di questa nuova stagione, che si annuncia quest’anno particolarmente appetitosa. A cantanti di grande e piccolo nome, si affiancano nuove produzioni, riscoperte di opere dimenticate o quasi, fastosi allestimenti scenici, possibilità di reperire nuovi spazi. Il tutto, nell’ambito di una rivalutazione del « feno meno lirica » inteso non più come spettacolo altamente elitario, ma finalmente come ricerca continua e costante di una forma di cultura destinata a fasce sempre più ampie di pubblico. Il primo spettacolo di quest’anno, è toccato al Verdi di Trieste con una nuova edizione di Turandot. Calato in un’atmosfera pre-liberty, direttamente ispirata a Beardsley (l’illustratore della Salomé di Oscar Wilde), l’ultimo incompiuto capolavoro pucciniano, ha riscosso un caloroso successo. La direzione esperta di Fernando Pre vitali ha trovato perfetta rispondenza nel cast dei can tanti, tutti di buona levatura a cominciare dalla Mastilovic nell’arduo ruolo della glaciale principessa, ben coadiuvata da William Johns, un Calaf allo stesso tempo commosso e coraggioso e da Rita Lantieri, una Liù estremamente lirica ed appassionata. Napoli ha invece inaugurato con un’opera poco nota di Donizetti: P oliato. La « tragedia lirica in tre atti » su libretto di Salvatore Cammarano che mirabilmente venne fatta rivivere sulle scene da Maria Callas, ha trovato nella edizione napoletana, validi motivi per una possibile ri proposta e, direi, una piena rivalutazione di questo lavoro, da parte dei più importanti Enti lirici. Fra gli interpreti ricordiamo una raffinata Adriana Ma- liponte e un vigoroso Renato Bruson. Giorgio Casellato Lamberti, nel ruolo del protagonista, ha avuto qualche difficoltà principalmente nel registro acuto, pur soste nendo nel complesso, una lodevolissima prova. L’orchestra, in alcuni momenti, un po’ troppo esuberante, era guidata da Francesco Molinari Pradelli. invece, All’insegna della musica contemporanea, Firenze ha aperto la stagione con un incandescente Trovatore, diretto da Riccardo Muti e realizzato da Luca Ronconi. Il breve spazio a disposizione non ci consente di sof fermarci quanto vorremmo su questa nuova edizione. Ri promettendoci un più ampio resoconto, segnaliamo sol tanto la geniale inventiva di Ronconi, e la grande lezione interpretativa di Muti. La sicura e sanguigna presenza scenica di Fiorenza Cossotto, la bella prova di Carlo Cos- sutta e la limpida serenità di Gilda Cruz Romo, non hanno fatto altro che confermare la perfetta sincronia e la grande teatralità di questo capolavoro verdiano. la « prima » della Fenice di Venezia, dove sono stati rap presentati Blaubart di Camillo Togni, Il Mandarino mera viglioso di Bela Bartok e Hyper ion di Bruno Maderna. Molto interessante il Barbablù di Togni, promesso da tanto tempo e realizzato soltanto oggi. L’opera, brevis sima, ma strutturata in un continuo susseguirsi di affa scinanti sonorità musicali, è stata proposta nella diligente concertazione del giovane Karl Martin. Raffinatissimo l’al lestimento scenico di Michele Canzoneri. Buone le pre stazioni dei cantanti fra cui ricordiamo Dorothy Dorow. Gli altri due « pezzi » in programma che si sono avvalsi delle buone interpretazioni dei solisti: per Bartok i due ballerini Taina Beryll e Giancarlo Vantaggio; per Ma derna il flautista Severino Gazzelloni e il soprano Marjorie Wright, hanno decretato il caloroso successo della serata. Una nuova stella internazionale è stata definita Sylvia Sass, Lady Macbeth, protagonista dell’inaugurazione del Regio di Torino. Abbiamo ascoltato una grande interprete e una gran bella voce. Circondata dagli altri protagonisti, tutti di ottimo livello, la Sass ha dato dimostrazione di eccezionali qualità anche se, in qualche brevissimo attimo, abbiamo notato una certa sua foga interpretativa che la spingeva a forzare un po’ troppo la caratterizzazione del personaggio. Particolarmente intenso il Macbeth di Bruson. Molto bella l’orchestra diretta da Fernando Previtali. Meno interessanti le scene e i costumi di Scandella. Concludiamo questo brevissimo e incompleto « viag gio » tra le « prime » italiane, con l’inaugurazione del Re gio di Parma. Emani, opera non molto frequente in quel teatro, è stata prescelta ad aprire la stagione. Nel com plesso una buona edizione con Maria Parazzini nel ruolo di un’Elvira « dalla voce calda e colorita »; con Nunzio Todisco non molto a suo agio nei panni di Emani e con Carlo Cava molto misurato nell’interpretazione di Silva. G. N. DON CARLOS Opera in cinque atti di C. du Lode e J. Méry Musica di Giuseppe Verdi Nicolai Ghiaurov (Filippo II), Evghenij Nesterenko (Il grande Inquisitore), Piero Cappuccini (Rodrigo), José Carreras (Don Carlos), Luigi Roni (Un frate), Mirella Freni (Elisabetta di Valois), Elena Obrastzova (La prin cipessa Eboli), Stefania Malagù (Tebaldo), Francesca Caldara (Voce dal Cielo), Gianfranco Manganotti (Il conte di Lerna), Antonio Savastano (Un araldo reale), Luigi De Corato (Corifeo). Maestro concertatore e direttore d’orchestra Claudio Ab- bado; regia di Luca Ronconi; scene e costumi di Lu ciano Damiani; maestro del coro Romano Gandolfi. Milano, Teatro alla Scala. Preceduto da una grande quantità di notizie, comuni cati stampa, litigi e minacce, finalmente è approdato sul palcoscenico bicentenario della Scala, questo tanto atteso Don Carlos. Un Don Carlos, scrupolosamente riletto da Ursula Gün- ther e da Luciano Petazzoni, che hanno voluto approfitta re di questa occasione inaugurale, per presentare un’edizio ne (per la prima volta) critica del capolavoro verdiano. Scritta per l’Opéra di Parigi, (1866), dopo i successi di « Jérusalem » (1847) e de « Les Vêpres siciliennes » (1855), Don Carlos andò in scena su quello stesso palcoscenico, la sera dell’l l marzo 1867 direttore Hainl, interpreti la Sass (Elisabetta), la Guyemard (Eboli), Morère (Don Car los), Faure (Posa), Obin (Filippo) e David (l’Inquisitore). L’esito della serata non fu particolarmente felice e, no nostante l’atteggiamento più che favorevole della critica, Verdi non ne rimase soddisfatto. Tanto che, subito dopo l’arrivo dell’opera in Italia, il maestro stesso decise una serie di cambiamenti. Il primo, drastico intervento venne realizzato nel 1884 quando, nel rappresentarla alla Scala di Milano, furono aboliti i famosi ballabili e l’intero atto primo (l’antefat to al dramma di Fontainebleau, non esiste nella tragedia di Schiller). La scena iniziale del terzo atto venne so stituita da una pagina sinfonica, mentre quella fra Filippo e Posa e il finale del terzo atto, vennero completamente rifatti. Due anni dopo, l’opera venne rappresentata al Comu nale di Modena e in questa edizione, mentre rimanevano immutate in gran parte le modifiche precedenti, veniva ri stabilito l’atto primo e, nello stesso, ricollocata l’aria di Don Carlos precedentemente inserita nel secondo atto. Due versioni, dunque, quelle dell”84 (4 atti) e dell”86 (5 atti), ugualmente autentiche. Ma veniamo ora all’edizione appena riproposta nel Tea tro milanese. Piero Cappuccini, Mirella Freni, il maestro Claudio Abbado e Elena Obrastzova, in occasione della « prima » del ■> Don Carlos » L’attuale ricostruzione critica è quella in cinque atti, senza ballabili, scritta nel 1866 integrata con alcuni brani della versione 1867 e di tre degli otto brani eliminati duran te le prove del 1866. In questa versione, dunque, sono stati ripristinati anche quei momenti che Verdi stesso aveva deliberatamente eliminato (vedi per esempio nella scena di Fontainebleau, l’intervento dei boscaioli presso Elisabet ta); momenti che, se in alcuni casi sono « innocui », in altri possono far rimpiangere le edizioni di cui si è sempre serviti finora (vedi per esempio, il compianto di Carlos alla morte di Posa). Si è detto molto di questa nuova regia ronconiana, ca ratterizzata dalla grande quantità di teschi e di tibie che imperversavano sul palcoscenico e del continuo, opprimen te « grigiore » che effondeva dalle scene e dai costumi. È vero, Don Carlos è « un dramma d’anime » soprat tutto, ma l’angoscia e il tormento della vanità delle uma ne cose, non possono essere escluse dall’intimo procedere della Storia. Ronconi ha voluto sottolineare questo aspetto della fosca vicenda verdiana, e tutte le sue intuizioni, egre giamente coadiuvate dalle affascinanti scene e dai costumi di Damiani, hanno sempre tenuto conto di questa costan te. Basta ricordare il magnifico corteo scandito dalla mar cia dei condannati, o la lunga sequenza di oggetti nella straordinaria scena dell’autodafé. Non sono mancati momenti di alto lirismo come nel primo atto, quando si scopre una bellissima e irreale terra di Francia ammantata di neve, o momenti altamente sug gestivi come la scena del giardino con Eboli, dove tutto è di un bianco accecante. « Don Carlos »: da sinistra Elena Obrastzova, Nicolai Ghiaurov e Mirella Freni Una regia che, non interferendo mai arbitrariamente nel discorso musicale, ha scolpito in maniera estremamen te affascinante, tutte le sfumature umane e psicologiche del dramma dei protagonisti. Un Abbado preciso, estremamente rigoroso nella con certazione, ci hà fornito un esempio di direzione autenti camente verdiana; una lettura accurata che, seppure filtra ta da un certo gusto per l’esecuzione sinfonica fine a sé stessa, ci ha offerto un grande esempio di sicurezza inter pretativa. I cantanti hanno dato il massimo delle loro possibi lità: Mirella Freni, magnifica Elisabetta, ha confermato le sue incredibili qualità musicali. Elena Obrastzova, eccel lente Eboli, ha riscosso un proprio, meritatissimo succes so personale. José Carreras ci ha regalato un Don Carlos consapevole e corretto. Piero Cappuccini, grande Rodrigo, ha dimostrato ancora una volta la qualità delle sue inter pretazioni verdiane. Evghenij Nesterenko un efficace, gran de Inquisitore. Un sempre eccezionale Nicolai Ghiaurov, che ha conferito al personaggio di Filippo accenti quanto mai umani e drammatici. Un sentito « bravo » al resto della compagnia e al coro che, come sempre guidato dall’ottimo Romano Gan- dolfi, ha contribuito al grande successo di questa serata inaugurale. « Tancredi »: Marilyn Home e Margherita Rinaldi (foto Agenzia Dufoto) TANCREDI Opera in tre atti di G. Rossi e L. Lechi Musica di Gioacchino Rossini Renzo Casellato (Argirio), Margherita Rinaldi (Amenaide), Marilyn Horne (Tancredi), Nicola Zaccaria (Orbazzano), Bianca Maria Casoni (Isaura), Clara Foti (Ruggiero). Maestro concertatore e direttore d’orchestra Gabriele Ferro; regia, scene e costumi di Filippo Sanjust; maestro del coro Augusto Parodi. Roma, Teatro dell’Opera. Secondo una linea programmatica che, dati i risultati, tutti ci auguriamo continui nel tempo, la scelta per lo spettacolo inaugurale del Teatro dell’Opera di Roma è caduta anche quest’anno su un capolavoro quasi sconosciu to. Il merito, stavolta, è andato al « Tancredi » di Ros sini, opera giovanile del maestro, presentato nella recen te ed accuratissima edizione critica approntata dalla Fon dazione Rossini di Pesaro a cura di Philip Gossett e che comprende il bellissimo ed attraente finale tragico di Ferrara. La « prima » assoluta di questo piccolo gioiello, ven ne allestita al Teatro La Fenice di Venezia, il 6 febbraio 1813 (solo qualche mese prima de « L’Italiana in Algeri »), suscitando l’entusiastica approvazione del pubblico e della critica, inanimi. Molto presto, grazie anche alle straordinarie capacità artistiche del contralto Adelaide Malanotte, Tancredi co minciò la sua fortunata carriera fino a raggiungere risonan za europea. Ma la genesi dell’opera non fu altrettanto re pentina e folgorante. Il libretto, tratto dall’omonima tragedia di Voltaire, venne da Gaetano Rossi a lungo elaborato e, in un certo senso, stravolto nella forma e nei contenuti. I personaggi della tragedia volterriana, diventano tranquilli eroi d’opera lirica e il finale, tragico nella stesura francese del dramma, diventa un tipico finale da melodramma italiano fine set tecento, colmo di felicità e d’amore. L’opportunità di cambiare questo scialbo ed assurdo lie to fine, in netto contrasto con l’essenza stessa della tragedia, si presentò a Rossini in occasione di una ripresa dell’ope ra che avrebbe dovuto aver luogo a Ferrara, alla fine del la Quaresima di quello stesso anno. Tancredi fu rivisitato dal maestro pesarese, che operò alcuni cambiamenti: il di verso succedersi di qualche aria, il ripristino di altre (co me la celeberrima « Di tanti palpiti », tagliata via la sera della « prima » dalla Malanotte, insoddisfatta), l’elimi nazione di altre ancora. Si avvalse, in questo lavoro, del la collaborazione quanto mai attenta e proficua di Luigi Lechi, nobile bresciano, al quale dobbiamo la nuova ste sura del libretto. Il Lechi, i cui discendenti ci hanno permesso oggi la pubblicazione di questo sorprendente finale creduto ormai irrimediabilmente perso, elaborò di nuovo il libretto, ren dendo l’azione più adeguata e rispettosa della tragedia volterriana e aggiungendo, quindi, questo finale tragico più consono allo svolgersi degli avvenimenti. Rossini musicò poi questo finale e per una volta non con una concitata esaltazione orchestrale, o con mirabo lanti arie di coloratura, o con sublimi concertati, ma con un recitativo dolcissimo e sognante e con una cavatina sottolineata dall’intervento preciso e struggente dei soli archi. Ma il finale non piacque e l’opera ripristinò l’antica conclusione. Cadde poi in disuso e solo nel 1952, venne ripresa in un’importante edizione diretta da Tullio Serafin ed egregiamente interpretata da Giulietta Simionato. Tancredi si apre con la celeberrima sinfonia riportata pari dalla « Pietra di Paragone », che già tanto succes so aveva riscosso nel 1812. Dopo l’aria d’apertura di Argirio e la cavatina di Ame- naide, di chiara impronta belcantistica, l’attenzione si spo sta sulla famosissima aria di entrata di Tancredi: quel « Di tanti palpiti » che i veneziani subito impararono a fischiettare per le calli della loro città. Il primo atto, in cui si susseguono ancora lo splendido duetto Amenaide- Tancredi («L’aura che intorno spiri») e il sestetto finale primo, si conclude con un agitato ma caratteristico finale secondo, presago già della maturità rossiniana. Nella seconda parte troviamo, oltre a due caratteristi che arie del « sorbetto » di Isaura e Ruggiero, splendidi motivi legati ai due amanti protagonisti: una bellissima aria e relativa cabaletta di Amenaide (« Giusto Dio che umile adoro ») aria di grande difficoltà tecnica che verrà in seguito ripresa da altri compositori e dallo stesso Ros sini e che già ricorda, velatamente, la cristallinità di al cune arie belliniane, e le due superbe arie di Tancredi « Ah che scordar non so » e « Perché turbar la calma » che precedono lo struggente finale. L’edizione romana ha avuto, eccellente protagonista, una Marilyn Horne, veramente in stato di grazia. La sua vocalità di « contralto drammatico di agilità » è realmen te eccezionale. Il suo famoso registro basso, la sua estrema facilità ai vocalizzi e Teleganza con cui affronta le mirabo lanti agilità rossiniane, hanno avuto un riscontro trionfa le da parte di un caloroso pubblico romano come da tem po non si aveva modo di ascoltare al Teatro dell’Opera. Le parti maschili sono risultate alterne. Renzo Casel- lato, nell’impervio ruolo tenorile di Argirio, ha confer mato le sue ottime qualità e la sua buona scuola anche se, in qualche passaggio particolarmente arduo, ha sotto- lineato le difficoltà della partitura. Nicola Zaccaria, Orbazzano, ci ha lasciato un po’ per plessi e non troppo convinti. Buone le interpretazioni di Bianca Maria Casoni, Isau ra, e di Clara Foti, nei panni del fido Ruggiero. Tutta la compagnia di canto è stata validamente ed egregiamente sorretta da Gabriele Ferro, con una direzione e concertazione di altissima qualità e perfettamente « cen trata ». Belle le scene e i costumi di Filippo Sanjust, sistemate in una sorta di teatro di pupi siciliani. Successo meritato, dunque, per uno spettacolo di alto livello artistico. Guido Nastasi Tancredi », da sinistra: Ciara Foti, Marilyn Horne, Nicola Zaccaria, Margherita Rinaldi, Renzo Casellato (foto Agenzia Dufoto) lin L a v e c c h ia « q u e r e lle » s u g li s p r e c h i Un avvenimento particolarmente importante, di quelli che credevamo ormai sepolti fra i ricordi delle sfolgoranti prime romane di qualche anno fa, ha caratterizzato l’aper tura del Teatro dell’Opera di Roma: la presenza dell'unica vocalista in grado, oggi, di interpretare il Tancredi rossi niano: Marilyn Home. Purtroppo, alle voci plaudenti ed entusiastiche di tutti coloro che auspicano la ripresa del teatro romano, si sono subito aggiunte quelle retrive e per niente opportune di tutti quegli altri che invece, prendendo a spunto il cachet della Home, hanno avuto il cattivo gusto di riproporre la solita annosa e ormai folcloristica manifestazione inau gurale, con grandi lanci di manifestini dalla galleria del teatro. La polemica, proseguita sulla stampa e scoppiata subito con toni spesso aspri e violenti, ha provocato anche l’immediato interessamento del ministro dello Spettacolo che ha disposto accertamenti sulle spese sostenute per le inaugurazioni dei Teatri di Roma e di Milano. Mi sembra opportuno rilevare, in questa occasione, quanto sia inutile e del tutto demagogico, portare avanti questo tipo di argomentazioni. Con l’arrivo di Marilyn Home, il Teatro dell’Opera di Roma ha voluto continuare un suo processo di recupero dalle terribili e squalificanti realizzazioni che lo avevano identificato negli anni prece denti. Un recupero lento e faticoso, ma continuo e co stante che sta sempre più caratterizzando l’attuale ge stione romana. Considero quindi un errore, parlare di spreco. Non si sprecano i pubblici quattrini, quando si realizzano spetta coli di così alto pregio e di così elevata qualità artistica. Il Teatro dell’Opera ha bisogno di questo tipo di spetta coli. Il « caso » Horne, anche prescindendo dalle posizioni in favore o contro, si spiega molto meglio all’interno del l’attuale polemica sugli Enti lirici. Il fulcro della « que relle » è legato al problema dei costi dello spettacolo li rico. In effetti, l’allestimento di un’opera richiede uno sforzo economico che i non appassionati possono consi derare eccessivo. Si tratta, perciò, di decidersi su una posizione molto più generale: se lo spettacolo lirico abbia oggettive ragioni storiche di sopravvivenza o meno. Se a questa domanda si da, però, una risposta positiva occorre affrontare anche il problema dei costi degli Enti lirici con maggiore serenità e meno risentimento. Le spese non ri guardano solo il cachet di questo o quel cantante, ma investono, fondamentalmente, la salvaguardia del lavoro di tutta la vasta gamma di maestranze occupata nel teatro d’opera. È qui che veramente nascono i problemi finan ziari di fondo. Del resto viviamo una storia del teatro in cui il concetto di spettacolo è diverso da quello di cento anni fa: la lirica non è più legata a gruppi sociali molto ristretti e privilegiati, per questo la messa in scena pone il problema di una più ampia ricettività del messaggio operistico. Guido Nastasi In margine alle celebrazioni del bicentenario della Scala .■limili llllll III III » III mi | i|| il i> mi il i ni i Il r is c h io d e ll'a p p ia tt im e n t o Con una « discussa » edizione del « Don Carlos » di Verdi, il massimo teatro italiano ha festeggiato i suoi duecento anni di vita. Questa ricorrenza, data la sua eccezionale importanza, ha superato i confini milanesi e italiani, per assurgere ai fasti dei grandi avvenimenti internazionali. Perché la Scala ancor oggi è il massimo tempio della lirica, e certo il più famoso dei teatri. Ma se il mondo gli è debitore di tutte le eccezionali mani festazioni che vi si sono svolte, l’Italia gli deve ancora di più; poiché la Scala, dal primo giorno della sua atti vità fino ad oggi, è stata lo specchio eccezionalmente fedele dei costumi culturali del nostro Paese: a nessun altro teatro l’Italia è altrettanto profondamente legata. Non è certo questa la sede per tracciare, sia pur brevemente, la lunga storia del teatro milanese; è tutta via interessante rievocare alcuni periodi particolarmen te caratteristici. Nel 1778, dunque, la Scala viene inau gurata con la rappresentazione di una modesta opera di circostanza, « Europa Riconosciuta », uno dei lavori di minor interesse del grande compositore Salieri. In quegli anni il teatro milanese non differiva, nelle sue produzioni, dai numerosi altri teatri della penisola; tra i quali invece svettava, quale maggior teatro italiano e forse europeo, il San Carlo di Napoli. Nei primi decenni dell’ottocento la Scala vive il primo dei suoi momenti magici: Donizetti, Bellini, Ros sini scrivono opere per questo teatro, che diventa il cen tro della vita culturale e mondana milanese. Stendhal, adoratore come si sa, della musica italiana, della Scala e di Milano, ci ha tramandato le descrizioni di que st’ambiente di eccezionale vitalità attraverso alcuni bril lantissimi scritti. Ma è col periodo risorgimentale che la Scala entra nella leggenda; leggenda immancabilmen te legata al nome di Verdi. E’ noto come ogni evento musicale allora si trasformasse con facilità in avveni mento nazionalistico. Basti pensare al « Nabucco », col mo di quell’ardore patriottico che il musicista di Bus- seto tenterà invano di ripetere in qualche opera suc cessiva, come i « Lombardi ». Verdi è senza dubbio il compositore il cui nome è più legato alla Scala, nono stante questo teatro abbia visto la prima rappresenta zione di solo sette delle ventisette opere verdiane. Ma alla Scala Verdi iniziò la sua carriera con « Nabucco », ed ivi la concluse coi miracolosi capolavori della vec chiaia, « Otello » e « Falstaff ». Un altro apice artistico la Scala tocca coi tre periodi della direzione artistica di Toscanini, rispettivamente dal 1898 al 1903, dal 1906 al 1908, e dal 1921 al 1929. E’ in questo periodo che il grande direttore par mense fa conoscere agli italiani le opere di Wagner, insieme a numerose nuove opere di autori italiani, tra cui quelle di Puccini e di Catalani che Toscanini par ticolarmente apprezzava. L’abbandono dell’Italia da parte di questo grande maestro segnò certamente un calo qualitativo nella produzione scaligera, ma un’altra epoca aurea iniziò nel 1931 con l’attività di Victor de Sabata come direttore artistico, il quale venne succes sivamente coadiuvato da Gino Marinuzzi. Le opere di autori italiani, in questo periodo, dominano i cartelloni scaligeri: vi avvengono « prime » di Mascagni, Giorda no, Zandonai, Pizzetti. II teatro fu quasi completamente distrutto dalle bombe nel 1943. Terminata la ricostruzione tre anni dopo, la Scala veniva inaugurato con un concerto di musiche italiane diretto da Arturo Toscanini, di ritorno dagli Stati Uniti. Allo stesso concerto partecipava la giovane esordiente Renata Tebaldi. Un ignoto cineama tore ci ha tramandato le immagini di questo storico evento. A rafforzare il mito della Scala, vi compare, a par tire dal 1952, uno dei più grandi personaggi dell’arte lirica di questo secolo: l’indimenticabile, compianta Maria Callas. Rivedendo i cartelloni scaligeri di que sto periodo, vediamo come i più grandi interpreti del momento, non pochi dei quali sono oggi entrati nella leggenda, servissero alla rivalutazione di grandi opere dimenticate, e rese successivamente celebri dalle loro stesse eccezionali interpretazioni. E’ il caso di « Ali sono al momento assopite all’interno del teatro mila nese, sono ben deste in molti altri teatri italiani, dove il sacrificio dell’arte sui discutibili altari di altri procla mati diritti è, come tutti sanno, all’ordine del giorno. E noi ci auguriamo quindi di tutto cuore che tale si tuazione non finisca per immergere anche la Scala nel grigio bagno in cui annaspano altri enti lirici del no stro Paese. Ci auguriamo che una Scala ancor oggi con siderata dovunque un punto di riferimento dell’arte lirica mondiale, non rappresenti un lusso eccessivo per una Italia coscenziosamente dedita all’apoteosi del me schino. E ci auguriamo infine che la recente iniziativa di istituire all’interno dell’organizzazione scaligera un’« O- pera Studio », che ha trovato nel Maestro Francesco Siciliani il più competente degli organizzatori, e nel sovrintendente Badini il più strenuo dei sostenitori, possa servire alla formazione di veri artisti. imi Dario Della Porta . .......... Babà » e « Medea » di Cherubini, de « La Vestale » e « Olimpia » di Spontini, dell’« Orontea » di Cavalli, dell’« Anna Bolena » di Donizetti, del « Pirata » di Bel lini... L’elenco potrebbe continuare. Il merito di tali riscoperte di straordinaria importanza culturale va at tribuito soprattutto a Francesco Siciliani, che nel 1957 lasciò la direzione artistica del Maggio Musicale Fio rentino per assumere quella del grande teatro milanese, mantenendola fino al 1966. In questo stesso periodo, accanto alle grandi opere del passato succitate, la Scala fece conoscere agli italiani numerose importanti opere di autori moderni: « Mosè e Aronne » di Schoenberg, « La Volpe astuta » di Janàcek, i « Dialoghi delle Car melitane » e « La voce umana » di Poulenc, e molte altre. Sovrintendenti alla Scala, a partire dal dopoguerra, sono stati il dott. Ghiringhelli (1946-1968), il M. Lu ciano Chailly, e l’attuale presidente della RAI-TV Pao lo Grassi. Da che quest’ultimo ha abbandonato la ca rica, questa è ricoperta dal dott. Badini, affiancato dal M. Claudio Abbado in qualità di direttore artistico. E giungiamo quindi ai nostri giorni e al « Don Car lo » scelto allo scopo di inaugurare la stagione del bi centenario, 1977-78. I lettori molto probabilmente si saranno fatti un’idea circa l’allestimento di quest’opera, avendola vista ed ascoltata per televisione all’inizio di gennaio, e ne avranno letto lodi e critiche nelle nume rose recensioni. A chi scrive non resta dunque che fare qualche osservazione su di alcuni dati di fatto riguar danti non solo la Scala, ma tutti gli enti lirici del no stro Paese, dei quali il teatro alla Scala continua ad essere il capofila. Che le stagioni teatrali in Italia cor rano il rischio di trasformarsi in sagre della pigrizia mentale, del cavillo sindacale e di tante altre buffonate che hanno la musica come pretesto; che gli allestimenti scenici fin troppo spesso facciano pensare che nel no stro Paese i teatri possano essere considerati come val vole di sfogo di deliranti incubi scenografici, o, nel mi gliore dei casi, palestre per vanitosi tappezzieri di lusso, in entrambi i casi con un delittuoso spreco di denaro pubblico, non può che addolorarci. Ma che tali carat teristiche in futuro si possano riferire anche alla Scala, ci spaventa ancora di più. Ci spaventa la paralizzante e soprattutto deviata concezione della democrazia e dei diritti lavorativi che le masse dei teatri in molti casi ostentano. Ci spaventa il malinteso spirito d’eguaglianza che fa trovare a molti organizzatori di diversi teatri ingiu stificate ed eccessive le sovvenzioni ricevute dal teatro milanese (e va notato che, per colmo di disgrazia, tali polemiche nemmeno fanno perno sull’eventuale cattivo impiego dei fondi ricevuti). Ci spaventa infine l’arro ganza con cui venne contestato alla Scala un uomo re sponsabile come Paolo Grassi, colpevole d’aver cercato di arginare la situazione opponendosi a sistemi di la voro non sempre accettabili. Non creda il lettore che rievocare questo episodio sia da parte dello scrivente una vana rimescolazione di acque passate, poiché se le polemiche di tale natura < / ■,1H / / o°* C r e d e re n e ll'im m a g in a z io n e d e l p u b b lic o Lo spunto per questa intervista è nato da un in contro con John Russell Brown dopo la conferen za (Fare teatro e il National Theatre) da lui tenuta all’Università di Londra nel luglio dello scorso anno. John Russel Brown: Lettore al Dipartimento di Letteratura In glese dell’Università di Birmingham dal 1955 al 1963; Direttore, presso la stessa università, dell’Istituto di Arte drammatica dal 1964 al 1971; professore di Letteratura Inglese alla Sussex Uni versity dal 1971. Nel 1973 viene chiamato a far parte della .Di rezione del National Theatre come condirettore, carica che tuttora ricopre. Fra le opere di cui ha curato la regia vanno in parti colare ricordate: La dodicesima notte (data alla Playhouse di Pit tsburgh nel 1964), Macbeth e Everyman (Liverpool, 1965), Chin- Chin (Southampton, 1965), il diavolo bianco (Liverpool, 1969), Crossing Niagara (produzione del National Theatre all’ICA, 1975). Fra gli scritti critici più importanti di Brown segnaliamo: Shake speare’s Plays in Performance (1966); Effective Theatre (1969); Shakespeare’s The Tempest (1969); Shakespeare’s Dramatic Style (1970); Theatre Language (1972) e Free Shakespeare (1974). Ha fra l’altro curato varie edizioni critiche di Shakespeare e di Webs ter e collabora attivamente a Shakespeare Survey, Critical Quarter ly, Tulane Drama Review, etc. Secondo Thomas Mann la creazione di un’opera d’arte è fine a se stessa. Condivide quest’affermazione? Un’opera d’arte è valida per se stessa, « è » se stessa. Non è la realtà che esiste fuori della finestra e non è neanche la realtà che vive nella mente di ognuno di noi, nella nostra immaginazione. Un’opera d’arte attinge ad en trambi quei mondi, ma è solo se stessa, ha la logica delle sue dimensioni, del suo linguaggio, del suo peso e — per dirla in termini teatrali — del suo spazio. È creata quindi seguendo le sue leggi, anche se queste leggi e il suo valore dipendono dalla relazione che essa ha col mondo interno ed esterno del creatore. Quando inizia la vita di un’opera teatrale? Nel momento stesso in cui viene scritta oppure solo quando è recepita dal pubblico? Uno degli aspetti più « eccitanti » del teatro è che nes sun’opera vive sino al momento in cui viene recitata e go duta. Non credo che la parte più importante di un dramma siano le parole sulla pagina o gli attori sul palcoscenico o il tempo di recitazione. Credo piuttosto che la parte più importante sia quello che accade nell’immaginazione del pubblico, momento questo irripetibile. Un drammaturgo è solamente uno dei molti collaboratori che rendono possi bile far teatro e se lei mi chiedesse in che consiste il valore di un dramma le risponderei che origina la risposta imma ginativa del pubblico. Giudicare un testo, un attore, un regista, una organizzazione o un edificio teatrale e trascu rare quell’elemento fondamentale e vivo significa sbagliarsi enormemente e correre seri rischi. Si può avere un testo che sulla carta offra grandi speranze per una produzione di successo una volta distribuite bene le parti, e tuttavia non è ancora cominciato il viaggio che porta ad un vero « fatto » teatrale. In tal caso, la si può dare « in pasto » alle masse oppure la può recepire soltanto ««’élite? Ogni pièce teatrale deve trovare un suo pubblico, e il suo pubblico è di solito quello che si sorprende a godere a quanto sta vedendo sulla scena. Un’opera d’arte deve avere una sua autorità sul pubblico e deve riflettere, se « è » teatro, i vari mondi del suo creatore. Inoltre, secondo me, deve creare qualcosa che finora sembrava impossibile. Credo che ogni tipo d’arte viva ai confini dell’impossibile: l’ele mento oggi che è più impossibile determinare nel teatro è il pubblico perché si va atrofizzando molto più dell’im maginazione degli autori o dell’abilità degli attori. Che ne pensa degli adattamenti moderni di Shakespeare? L’azione drammatica e le strutture linguistiche shakespe- riane sono state trasformate, quasi riscritte molte volte, forse troppe volte... Perché « troppe volte »? Mettiamola in questi termini: Carmelo Bene, ad esem pio, in Italia, mettendo in scena Amleto ha fuso l’Amleto di Laforgue con quello di Shakespeare aggiungendovi delle implicazioni metafisiche. Il risultato è stato abbastanza sconvolgente... « Sconvolgente »? Cosa vuol dire « sconvolgente »? Beh, sconvolgente perché era tutto fuorché Amleto, tra dizionalmente parlando. E perché questo dovrebbe « sconvolgere »? Tutti noi siamo le creature dei grandi fatti artistici dell’immagina zione europea. Non si distrugge un testo shakesperiano tra sformandolo in balletto o scrivendo una storia tratta da una delle sue tragedie, o inventando un’opera come Elsinore o Rosencrantz e Guilderstern sono morti. No, così non si distrugge Shakespeare: il testo è sempre lì a disposizione di chiunque voglia accostarvisi con tutto il candore di cui è capace. Perché dovrebbe essere un peccato? Nel teatro è come se ci si vestisse sempre dei panni degli altri: a volte qualcuno che s’era vestito da Malvolio si ritrova improvvi samente a recitare Amleto. Un fatto del genere ci aiuta a capire Amleto o l’attore; un fatto del genere dà anche al pubblico un insieme di immagini che lo portano a riflettere su ciò che pensava e su ciò che penserà dopo lo spettacolo. Ho già detto che il teatro esiste solo nel momento in cui viene rappresentato, è come se miracolosamente si possa ad un tempo essere prostituta e moglie, ragazzaccio di strada o animale felice e spensierato. Ed ogni volta che si recita si rinnova questo miracolo. E allora non è vergognoso dare nuove versioni di Amleto, mescolare i testi, ne è vergo gnoso recitare Amleto in modo antitradizionale fin tanto che il risultato non sia un’imitazione o una congerie di pezzetti slegati, ma « sia » un’opera d’arte che abbia auto rità di forma, stile e significato. PETER BROOK: UN GRANDE « AVVENTURIERO » Possiamo allora dire che lei giustifica Peter Brook che è stato spesso accusato di distoreere opere classiche e mo derne, cambiando le parole, adeguandole al gusto del pub blico e stimolando l’attenzione dello spettatore con rappre sentazioni di grande potenza drammatica che mirano a sconvolgere. Penso che nel mondo teatrale Peter Brook sia un grande « avventuriero » e che una delle cose più importanti che il teatro possa fare è avventurarsi nel mondo dell’immagina zione. Quindi lo difendo a spada tratta. Credo poi che il teatro possa dare un’altra possibilità, cosa questa molto più ardua, e cioè contrarre una specie di matrimonio per cui sia possibile convivere con Shakespeare, venti, trenta anni, fedeli al proprio stile e fedeli ad uno stile che si immagina potrebbe essere quello giusto. Questo matrimonio con un drammaturgo come Shakespeare non è una costrizione, ma qualcosa che si nutre continuamente delle risorse della propria immaginazione. È impossibile essere fedeli a Sha kespeare così come è impossibile scrivere in questo mo mento un nuovo dramma che sconvolga il mondo rappre sentando quello che il mondo è in questo momento: sono due impossibili ed io sono interessato ugualmente ad en trambi. Sino a che punto ritiene che un regista possa o debba sentirsi libero con un testo? La libertà è qualcosa che non si deve prendere: è già nostra. Tutto è possibile nel teatro, quel che veramente in teressa è l’impossibile. In effetti è cosa più impossibile esse re realmente fedeli a Shakespeare, qualsiasi senso si dia alla parola fedeltà, che « imbastire » un polpettone fatto di pez zetti shakesperiani recitati con spavalderia, sa, così, alla moda e così orecchiabili. Io li accetto entrambi. Il metro di giudizio è da ricercarsi in ciò che accade nell’immagina zione del pubblico, nel grado di verità della sua reazione allo spettacolo, nella reazione alla realtà esterna e nella reazione alle conseguenze di tutti questi fattori. Personalmente ho sempre cercato di lavorare con la « mia » fedeltà a Shakespeare e intendo continuare su que sta strada. Una parte della mia vita immaginativa è un tentativo di convivenza con Shakespeare, in cui, natural mente, io rappresento il coniuge più debole; l’altra parte è un tentativo promiscuo di tuffarmi in ciò che è nuovo e di trovare ciò che si può trasformare, per tornare a Thomas Mann, in un’opera d’arte che sia nuova. E co mincio a credere che questo sia anche più impossibile che vivere con Shakespeare. In questo modo tutti i riferimenti essenziali rimanevano ben vivi nella mente del pubblico non costretto a calarsi nel vecchio e sclerotizzato linguaggio shakesperiano. 10 ero probabilmente stimolato dal riso e dal divertimen to del pubblico, ma non si trattava solo di questo. Era piuttosto una risposta alla realtà fisica, al suono della re cita che aveva un significato in se stessa e per se stessa. Un attore dovrebbe trattare il linguaggio come una cosa viva: se egli mette in relazione la sua recitazione viva con un linguaggio vivo, come l’ha studiato insieme al regista, allora le parole diventano parte di un’esperienza teatrale che è viva. Come si comporterebbe con un’opera quale Pene d’amo re perduto? Mi sembra che il linguaggio brillante e i con tinui giochi di parole non potrebbero essere apprezzati dal pubblico di oggi. La renderebbe più drammatica e meno ba rocca o cercherebbe di mantenere intatto il primitivo pro fumo shakesperiano? 11 linguaggio si può esprimere in modi diversi. Lo si può esprimere anche con il gesto e, secondo me, la maggior parte dei buffoni shakesperiani richiede una gestualità piut tosto marcata. Quando si ha a che fare con una rappresen tazione di corte quale Pene d’amore perduto, si ha bisogno di musicalità e arguzia. Le opere di John Lyly indicano molto chiaramente quale tipo di intonazione, di resa ver bale, si adattino alle commedie del primo Shakespeare. Pos siedono una specie di grazia ed eleganza, d’arguzia, di forza ed agilità mentale che non si dovrebbero rendere con una recitazione solida e corposa, ma con una specie di con sapevolezza vibrante, virile, fisica e musicale difficile da raggiungere. Per me Pene d’amore perduto è un’opera molto complessa: se dovessi dirigerla mi piacerebbe avere dei musici come attori. Crede che i problemi tecnici nelle opere di autori con temporanei quali Pinter, Arden, Wesker, Brenton, o Bond siano molto diversi da quelli che si incontrano in Shake speare? No. IL PROBLEMA DELLE « PROVE » Il suo atteggiamento verso le prove è determinato dalle singole opere oppure inizia con una specie di prova-tipo cui rimane fedele in ogni caso? Ma no! Le prove dipendono dall’opera e dagli attori ma anche dal teatro, dal momento in cui si sta recitando e dal denaro. Quasi quasi direi che dipendono anche dal clima, se piove o se splende il sole. Bisogna « smeli your way to Dover » (mi spiace, ma è stato lei a dare il via ai riferimenti shakesperiani) verso l’arte. L’arte è un viag gio verso un paese non riportato da alcuna carta geografi ca, un viaggio in cui nessuna stella ci indica la via. Si va a lume di naso come Gloucester in Re Lear; a volte ci si può Peter Hall, direttore del National Theatre I « BUFFONI » DI SHAKESPEARE Che ne pensa del linguaggio usato, ad esempio, dai buffoni, nelle opere di Shakespeare? Crede sia ancora va lido, cioè, ancora funzionale in un contesto moderno o che piuttosto sia una lingua morta, come ha scritto Martin Banham. E se è una lingua tnorta come la farebbe rivi vere per renderla ancora funzionale ai giorni nostri? È sciocco fare un’affermazione del genere sul linguaggio dei buffoni in Shakespeare, perché « morto » in termini teatrali è quello che non agisce più sulPimmaginazione del pubblico. E poi non si può giudicare il linguaggio soltanto da una pagina stampata. Dal linguaggio dei buffoni shake- speriani si possono ottenere rappresentazioni significative nel contesto dell’opera, che fermano l’attenzione a quel punto del dramma, che fanno uso del linguaggio come di un elemento scenico estremamente nuovo. Bisogna studiare parecchio prima di poter comprendere quello che significa il linguaggio, come prenda forma da modelli retorici, come il suo ritmo dia enfasi a certe parole e a certi concetti, come i suoi ritmi e la sua struttura siano connessi con la opera creando uno spettacolo di cui il linguaggio è solo un elemento. Anche l’attore deve studiare molto prima di tro vare la recitazione che nel momento magico della rappre sentazione viva con il linguaggio, lo accresca e ne sia accresciuta. Non si giudica poi un’esperienza teatrale dal numero di parole che il pubblico comprende o dal modo globale con cui il significato letterale delle parole viene comuni cato al pubblico. Una delle mie esperienze più piacevoli è vedere Shakespeare recitato in lingue di cui non capisco una sola parola. In Turchia, ad esempio, ho assistito al King Lear messo in scena dal Teatro di Stato di Ankara. Ebbene, per la prima volta nella mia esperienza ho visto il pubblico sganasciarsi dalle risate nelle scene col buffone e restare con l’animo sospeso per l’orrore nelle scene della tempesta, sempre solo con lo stesso buffone perché il lin guaggio elisabettiano era stato tradotto in turco moderno. appoggiare a qualche pazzo. In effetti se non ci si vuole arrivare da soli, se non si possiede un sesto senso, anche se si tratta solo di andare a lume di naso, non si arriva da nessuna parte. Non esistono regole, non possono esi stere. C’è la nostra esperienza, quella che ci si è costruita lavorando, c’è la coscienza del posto che si occupa e c’è il testo che è una specie di elemento a cui ci si riferisce sem pre, costantemente, perché è l’unico punto di riferimento chiaro e fisso che si possiede. È cambiato negli ultimi anni il rapporto tra attore e regista, e secondo lei qual è il miglior rapporto? Spero stia cambiando nella stessa misura in cui cambia no le opere che si scrivono. Dovrebbe cambiare! Quale sia il rapporto migliore cerco di scoprirlo nel momento in cui sto per dirigere un’opera e distribuisco le parti. È come chiedere ad un autore quale opera sarebbe meglio scrivere o come domandare a Harold Pinter se è una buona idea scrivere commedie o come si scrive una commedia. Fino a che punto un attore può essere una buona guida? Intendo parlare di attori della statura di Olivier, Redgrave, Richardson, Gielgud, Scofield, Finney, Blakely. L’attore è una guida valida come qualsiasi altra cosa. E poi, cosa si intende per « guida »? È naturale che una messa in scena dipenda dagli attori coinvolti in essa, dato che sono loro a darle una forma. Tutta la loro esperienza precedente, tutte le parti che hanno interpretato, il tipo di vita che conducono, persino l’immagine che hanno di se stessi in quel momento, che di solito è molto importante per un attore, tutto quanto va a finire in questa specie di calderone che bolle e ribolle. Si può anche avere im provvisamente bisogno del tocco del maestro per dargli la giusta densità e il giusto sapore. Un regista dovrebbe natu ralmente essere estremamente sensibile a quello che gli at tori sono, sono stati e potrebbero essere. « La buona reci tazione vive al confine con l’impossibile », come ha detto David Garrick. L’ORGANIZZAZIONE TEATRALE. Parliamo adesso dell’organizzazione teatrale. Crede che si interrompa la continuità di una compagnia stabile se gli attori si allontanano per delle opere commerciali? Nell’organizzazione teatrale è necessario dare a ciascun membro tutta la libertà possibile nel campo del lavoro e perciò nell’impegno mentale. La routine del lavoro nella televisione commerciale è senza dubbio alienante ma è no civa anche la routine di recitare Amleto due volte la setti mana per due anni di seguito. Ci sono aspetti negativi in entrambi i casi. Spesso penso sarebbe meraviglioso intra mezzare le battute di Polonio con uno short commerciale, per esempio, la pubblicità televisiva di una marca di siga ri. Penso poi ad un’organizzazione che potesse garantire un metodo efficace per pubblicizzare la merce e che contem poraneamente potesse assicurare che gli attori lavorino lun go la linea tracciata per loro: questa sarebbe una ricetta sicura per evitare il disastro, laddove disastro è creare un mu seo teatrale che nessuno vuole vedere. L’ideale delle compagnie è sempre stato quello di svi luppare uno stile, uno stile di recitazione. Penso che si pos sa esser d’accordo sul fatto che la Royal Shakespeare ne ab bia oggi sviluppato uno ben riconoscibile. Albert Finney e Susan Fleetwood in « Tamerlano il Grande » di C. IVIarlowe, diretto da Peter Hall Per me quello stile è una pietra al collo. Non credo che una compagnia dovrebbe cercare di creare uno stile. Se 10 stile viene fuori dall’opera, benissimo!, ma quando diven ta norma divento subito sospettoso. Pensare che si sa come fare determinate cose oppure che sarebbe interessante vedere 11 proprio metodo usato in un modo piuttosto che in un altro va bene per un museo, e può essere il museo più noio so che si limita ad esporre i trucchi e gli artifizi del XX secolo. No, per me una compagnia non deve sviluppare uno stile. Nessun grande autore ha uno stile: Shakespeare non ha uno stile ma un intero caleidoscopio di stili. Per me una delle definizioni del grande attore e del grande scrittore è che possiede una varietà di stili. Si possono anche prendere cinque righe di Shakespeare a caso e riconoscere che sono sue, ma questo è l’altro aspetto del paradosso. Una compa gnia che si sforzi di sviluppare uno stile, sta solo cercando di mettersi i paraocchi. A volte capita di avere uno stile ed è questo un altro degli aspetti eccitanti del lavoro teatrale. Improvvisamente tessere disparate del lavoro espri mono qualcosa che è molto importante per la gente che vi è coinvolta e a volte si crea una costante che si ripete per un breve periodo; di colpo si vedono rapporti tra esperienze che sinora si erano credute disparate: è splen dido quando questo succede e bisogna anche goderselo que sto momento, però bisogna subito diffidare perché se ci si cristallizza, ci si trasforma in qualcosa che non si sa bene cosa sia... Come vede l’uso del sesso nel teatro di oggi? Se si parla in termini di moda teatrale, esiste oggi la moda del nudo che è altrettanto ridicola dell’uso di far por tare sulla scena un ombrello ad ogni personaggio o di ve stirlo di nero o di creare sfondi neri con i visi degli attori truccati di bianco. È un altro tipo di cliché e denota man canza di immaginazione. È meraviglioso che oggi si possa mostrare un corpo nu do o che si possano usare parole che non rientrano nel dizionario. Ciò aumenta la possibilità del teatro di rispon dere alla vita intima, perché c’è molta nudità e ci sono mol te parole indicibili nella nostra vita interiore, ed è un sollie vo che il teatro lo possa fare, ma è anche difficile farlo bene. L’opera migliore che conosco sul contenuto sessuale della vita di tutti i giorni è un’opera che non fa uso del nudo e che usa parole che non sono in sè sconvolgenti ma che lo sono nell’uso che essa ne fa, che lascia ogni possi bilità riconoscibile a tre pagine dall’inizio e che vi ritorna 50 pagine dopo, 10 pagine prima della fine. Questa è l’ope ra sessualmente più eccitante che io conosca. Al momento non la posso mettere in scena perché non c’è nessuno che ne finanzi la messa in scena, ma giorno verrà!... Di che opera si tratta? Non credo sia un segreto. È un’opera di un’autore ame ricano, Wallace Shawn. Si intitola « Our Late Night ». Vor rei tanto vederla realizzata. È meticolosamente control lata ma è molto pericolosa... Pericolosa? Potrebbe non avere successo. Solo questo, però è se stes sa. Nella mia immaginazione mi rende capace di definire, possedere e divenir conscio di certi stadi della mia vita che sono stati molto eccitanti e poiché lei ha formulato la do manda in modo da suggerire che il sesso potrebbe avere qualcosa di vergognoso, direi anche purificante. P1NTER E’ UNO SCRITTORE IMPEGNATO!-' Definirebbe Pinter uno scrittore impegnato? È impegnato in un teatro creativo e in una vita im maginativa responsabile, da essere umano tra esseri uma ni. Si, in questo senso è impegnato. Se poi si intende impe gnato in un programma politico o in una qualche teoria drammatica su come scrivere opere teatrali o in qualsiasi fine teatrale facilmente definibile, decisamente no. Nè è im pegnato nel cercare di attrarre nel modo più facile il pub blico. C’è una « nuova ondata » nel dramma britannico? John Russell Taylor tempo fa ha pubblicato un libro su questo argomento e credo sia stato il primo a tirar fuori questa etichetta. Non so se in effetti c’è una nuova ondata. Ci sono sempre nuove ondate... Non ci sarebbe teatro, se non vi fossero nuove ondate, se ho capito cosa vuol dire; ma sono d’accordo con lei se si usa il mare come una immagine fune bre o materna del teatro. Se si usa invece il mare come metafora pura del teatro, ci devono essere ondate. In ef fetti è un’immagine piuttosto sterile, dato che le onde ri cadono sempre su se stesse. La definirebbe in altro modo? C’è un altro teatro impossibile e c’è vita nuova nel teatro. Se non ci fosse, non vi sarebbe teatro degno di di scussione. Non proviene necessariamente dagli scrittori, ma, in un certo senso, gli scrittori hanno una migliore possi bilità di rinnovarlo perché hanno un foglio di carta davanti a sè più pulito di quello degli altri. Peter Brook ha inti tolato il suo libro « Lo spazio vuoto » come se il teatro fosse un foglio di carta bianca su cui si deve tracciare qual cosa di nuovo e sensazionale e veritiero, in cui si può por tare qualsiasi cosa. È senza dubbio un uomo molto fortuna to... È una sensazione eccezionale avere un foglio di carta pulito... Nel teatro si usa sempre l’esperienza della gente, si lavora sempre nello stesso edificio e allora ci sono segni sui muri, il mobilio è stato preso a calci — se non il mo bilio che vede il pubblico, almeno quello che serve alle prove. Si usa tutto, non si cerca uno spazio vuoto o un foglio di carta pulito o una nuova ondata, si cerca l’impos sibile: far rinascere il teatro. Se non si raggiunge questo scopo non vale la pena perderci tempo. Che cos’è « sperimentale » nel teatro inglese moderno? Un mucchio di robaccia è sperimentale. Ma per lei che cos’è « sperimentale »? D’improvviso mi sono sorpreso a usare questa parola, e sconvolto mi chiesi perchè l’usassi. Sperimentale dà l’idea di qualcuno che va per tentativi, che dà un colpo qua e un colpo là. Tutto questo mi sembra molto penoso. Preferisco come termine usare « innovazione » e « esplorazione ». « Sperimentale » è una parola difficile. Non sono vera mente interessato al teatro sperimentale. A me interessa rinnovare il teatro sia che lo si faccia in un gran palazzo sia che lo si faccia in un solaio o in una stanza con un pub blico di sei persone. È senz’altro molto più difficile rin novare o esplorare, che sperimentare. Quando ha avuto la possibilità di farlo ha trovato più utile, da un punto di vista artistico, lavorare con una com pagnia stabile? Dipende dalla compagnia stabile. Aiuta enormemente lavorare con gente che si conosce perché un copione nuovo, ogni momento nuovo della vita è una tale incognita, che più si conosce qualcosa più si presta attenzione a quello che non si conosce. Se si sciupa gran parte delle prove nel tentativo di capire come lavorano gli attori e di far capi re loro come lavora il regista, si ha bisogno di un tempo più lungo per le prove e degli espedienti più incredibili. Se però per compagnia stabile si intende una compagnia che ha un suo stile e che sa come affrontare tutto, allora non fa per me. Robert Bruslein ha scritto che nel dratnma moderno il drammaturgo ribelle è un evangelista che cerca di far pro seliti per la sua religione. C’è nessuno degli autori moderni che ricopra questo ruolo? Nessuno che abbia molta importanza. Vogliamo tracciare una carta geografica della Gran Bre tagna teatrale tenendo conto dell’organizzazione commercia le e delle buone intenzioni sovvenzionate? No. Perché no? Perché diffido delle buone intenzioni di chiunque, se ho capito il significato che lei dà a queste parole. Il tea tro sovvenzionato è una lotta dura come qualsiasi altra for ma teatrale. Ha richieste diverse e differenti opportunità. Compito principale di qualsiasi tipo di teatro è creare un teatro che funzioni e per fare ciò bisogna attingere alle proprie conoscenze dei fattori economici del teatro, del te nore di vita degli attori e della disponibilità finanziaria dello spettatore. Queste considerazioni sono comuni al tea tro commerciale, al teatro « fringe » e a quello sovven zionato. Il discorso che il teatro alternativo sia diverso dal teatro sovvenzionato e dal teatro commerciale, tiene conto soltanto di fattori non essenziali. Senza dubbio il teatro sovvenzionato ha opportunità diverse, ma quando si giunge al nocciolo dell’avventura, cioè al mettere in scena un’ope ra, i problemi sono identici. Il lavoro di rinnovamento ed esplorazione si fa in tutti i tipi di teatro sovvenzio nato, « fringe », alternativo e commerciale. Però i grandi teatri commerciali non funzionano come centri sociali... WESKER E’ UN EVANGELISTA? E Wesker...? Per me l’aspetto migliore delle opere di Wesker è quel lo che va oltre ciò di cui egli stesso è consapevole, come quando riesce ad essere poetico oppure crea una situazione in cui afferra un fatto umano per il rotto della cuffia (e mi riferisco a Radici). Ciò si realizza, ad esempio, ne La Cucina quando verso la fine del dramma Marengo, il proprietario del ristorante, entra in un mondo, in un territorio scono sciuto al pubblico. Questo succede perché nell’opera c’è qualcuno che parla in modo semplice e appassionato in no me del suo senso di possesso nel mondo capitalistico. È molto difficile mettere in relazione questo discorso con qual siasi altra cosa Wesker voglia dire su come si dovrebbe di rigere la società o un ristorante. Ma proprio a quel punto l’opera raggiunge l’apice della sua vita, molto più che nelle scene del sogno dell’intermezzo quando Peter cerca di de finire cosa sia un gesto umano. Quello che più sorprende in Patatine di contorno, opera che ammiro moltissimo, non è la discussione con Pip su quello che dovrebbe acca dere in futuro oppure il suo rapporto con quelle che lui definisce le masse, ma la scena dell’istruzione del battaglio ne e quella finale dell’alzabandiera. Questo non è proseliti smo, ma è l’apertura dell’argomento del dramma alle possi bilità interpretative del pubblico. IL PUBBLICO E’ UN CROGIUOLO Ma si! Il pubblico è un crogiuolo, un fatto sociale: non si può dirigere un teatro senza tener conto della realtà so ciale. Questa è una delle meraviglie del teatro come fatto artistico. Una volta qualcuno chiese perché ci si doveva occupare di teatro. Una delle ragioni più valide per occu parsene è che si ha un pubblico e che il pubblico è un fatto umano vivo. Perciò qualsiasi opera teatrale che fun zioni risponde alla società e vive in essa. Non si può essere pittori che riempiono gli attici di mucchi di tele che solo una o due persone ammirano nè si può essere poeti che ruminano versi per soddisfare la propria intelli genza e quella di due o tre spiriti affini. Sono d’accordo con lei, però quello che intendevo dire è che i grandi teatri commerciali non funzionano come cen tri sociali, cosa in cui si stanno trasformando molti teatri sta bili. Si limitano ad attrarre, mi passi l’espressione, come gi ganteschi aspirapolvere, il solito pubblico che in ogni caso garantisce un successo; tranne questo vanno in malora sen za che nessuno se ne curi. C’è molta robaccia nel teatro commerciale ma c’è molta robaccia anche nel teatro sovvenzionato. Anche noi abbia mo il nostro pubblico « morto », i nostri falsi « intellettuali » e i nostri seguaci fedeli, però non abbiamo quegli habituées che ha il teatro commerciale. Certo, il pubblico commercia- le può essere vivo come quello del teatro sovvenzionato. Anche se entrambi corrono pericoli diversi. Qual è la percentuale dei costi complessivi del National Theatre coperta da sovvenzioni e queste da dove proven gono? Dipende da come si fanno i conti! Se si calcola un mi lione l’anno per assicurare l’edificio con guardie di sicurez za, mantenimento, riscaldamento, illuminazione ed elettri cità e poi ci si chiede quanto sovvenzionamento abbiamo, vien fuori che costa molto meno mantenere tre teatri del West End che non questo edificio. Se si dirige un teatro del West End non si devono pagare 12.000 sterline l’anno per far pulire i vetri delle finestre, che è quanto costa far pulire i vetri del "Birmingham Repertory Theatre. Il B. R. T. fu progettato come una specie di palazzo municipale, che doveva avere una facciata grandiosa ed enormi vetrate. È molto più difficile pulire i vetri del B. R. T. che non quelli del nostro edificio perché i nostri si possono pulire con più facilità, mentre nel B. R. T. bisogna avere una gru o qualche altro aggeggio simile. Molti teatri sono stati costruiti in questo modo sciocco perché sono stati progettati nel periodo del « miracolo economico » in cui non si badava al costo del lavoro. Fino a che punto è utile che la gente assista ad uno spettacolo comodamente? Quanto incide la mancanza di co modità sul teatro? Penso sia un bene che il teatro abbia come sede un bel palazzo; se poi si debbano anche avere valletti e tap peti rossi questo è un altro paio di maniche. Una delle cose più valide del N. T. è che noi abbiamo in Inghilterra la possibilità di far operare una compagnia in modo dina mico, non solo qui dentro ma anche all’esterno, non solo còn opere nazionali, ma anche straniere o anche dalle di verse regioni dell’Inghilterra: il tutto per dar vita ad una prima assoluta su questa sponda del Tamigi. Qui vive il tea tro, noi ci crediamo ed è questa fiducia che l’edificio esprime. Ma non la preoccupa pensare che il denaro della comu nità viene impiegato per un teatro il cui pubblico è gene ralmente piccolo e medio borghese? Certo che mi preoccupa, infatti preferirei avere un pub blico che fosse più sensibile ai fatti della vita quotidiana. Ma non l’abbiamo, forse non l’avremo mai in questa sede. Non si può per incanto dire « Ecco il tipo di spetta colo adatto a questo pubblico » ed averlo! Bisogna pro cedere con ciò che si ha. Si potrà giudicare questo teatro tra dieci anni. Se al lora non avremo creato gruppi autonomi o conquistato o esportato un nuovo pubblico, se non avremo fatto cose « impossibili », allora che si cambi direttore, che si faccia venire qualcun altro o che si faccia saltare il palazzo in aria! IL LAVORO DEL NT Il N. T. cerca di stimolare o aiutare drammaturghi gio vani e sconosciuti? Se si, in che modo e come li sovvenzio na? Si commissionano loro opere e le si rappresentano. Ab biamo commissionato commedie a circa dieci scrittori sotto i 25 anni, e abbiamo già messo anche in scena l’opera di un attore della compagnia che non ha mai scritto nulla. È affascinante. Bisogna continuare in questa direzione. Che rapporto c’è tra il N.T., la televisione e il cinema? Molta gente del N. T. lavora anche alla televisione e nel cinema. Mi sembra giusto, va bene! Il National Theatre Così fanno esperienza, possono attingere a esperienze diverse... Certo. Il pubblico più vasto, per ora, è quello televisivo. Sarebbe pericoloso non avere niente a che fare con un pub blico così vasto. Secondo me bisogna trovare il modo per collegare le nostre produzioni con quelle televisive. Dobbia mo portare scrittori televisivi al teatro e dobbiamo far scri vere a drammaturghi copioni per la televisione. C’è tutta una generazione che si sta formando la cui maggiore fonte di formazione culturale è la televisione. Bisogna rifletterci quando lavoriamo. Howard Brenton nella sua introduzione a « Weapons of Happiness » afferma: « Non credo che importi come si scriva un’opera. Il processo artistico non ha alcun valore. In questo decennio il caos è tale che le idee nascono e muoiono senza che nessuno se ne accorga. Nessuno di noi sa quali opere sono più valide ». Quali sono i criteri arti stici che lei adotta nello scegliere un’opera da mettere in scena al N.T.? È implicito in tutto quanto ho detto finora. Deve ri flettere il mondo come lo sperimento dentro e fuori di me, deve essere se stessa e portare una carica di innovazione. Ma persino Brenton non sa cosa voglia dire « artistico ». Ma lei cita l’intervista rilasciata da un autore un mese prima che fosse data la sua opera. Egli cerca di rassicu rarsi, si guarda intorno ... suvvia! Quante opere di Harold Pinter sono state mese in scena dal N.T. sino ad ora? Una credo, ed è l’unica commedia scritta prima che Pinter fosse nominato condirettore del N.T. e prima che Peter Hall ne divenisse direttore. Prima d’allora la RSC di cui Peter Hall era regista aveva messo in scena tutte le opere di Harold man mano che le scriveva. Crede che Pinter come condirettore abbia più possibilità di vedere le sue opere messe in scena qui rispetto a Bond, Arden, Boll, Mortimer o Beckett? Non dovrebbe essere così. PINTER DARA’ LE SUE COMMEDIE DA NOI ANCHE SE E’ CONDIRETTORE Beh, ricopre la carica che ha perché abbiamo fiducia nel suo talento e perché è preparato a lavorare con noi per rendere più incisiva l’opera del N.T. Sarebbe ridicolo non dare le sue commedie a meno che non vi fosse un motivo per darle altrove. Intende dire forse che se vi fossero due opere, una di Pinter e una di Arden, sceglieremmo Pinter? Ma no. Considerato il senso di moralità degli inglesi, se la questione fosse in questi termini sceglieremmo Arden. Ma tutto ciò è ridicolo. Non è così. Arden è il primo a cui scrissi da quando sono qui, sta curando una traduzione per noi che aspetto con ansia insieme ad una sua nuova opera, ma per il momento è tutto preso dalla stesura di drammi per l’Irlanda e questi non vengono subito portati nelle produzioni del N.T. Nella scelta di un copione o di un testo lei e gli altri condirettore (1) siete attratti dai « grandi nomi »? Lei è un critico teatrale e un esperto molto noto, ma molte, troppe volte i crìtici hanno dimostrato d’avere torto. La storia in segna che il miglior giudice è il tempo. La mia domanda è quindi: quale dovrebbe essere la funzione di un critico? La funzione del critico teatrale dovrebbe essere lavora re nel modo più chiaro possibile, sapendo che si può sem pre sbagliare. Certo, secondo me, all’inizio è facile sbagliare su qualsiasi cosa sia innovatrice, ma la funzione dello stu dioso o del critico teatrale è cercare di essere efficiente e oggettivo. Questo rientra nel processo della scelta di un’ opera che viene selezionata solo se ha una sua vita nella immaginazione delle persone che devono decidere e che può essere influenzato dalla critica e dallo studio. L’imma ginazione deve tuttavia prevalere e vincere. Si deve sempre andare a lume di naso verso Dover. Le arti riflettono il crescente fenomeno di frantumazione della società odierna e il crollo dei valori tradizionali, spe cialmente in America. Vino a che punto questo fenomeno viene espresso dal teatro contemporaneo? Spero che non venga espresso. Tuttavia il fenomeno esiste ... Sì, ci viviamo dentro. Nel teatro si cerca di realizzare qualcosa che sia coerente in se stesso e che soddisfi la mente e l’immaginazione dello spettatore. A volte il com pito del teatro è distruggere e smembrare, a volte è inco raggiare e cercare di ricostruire e riorganizzare, ma allo sta dio in cui siamo, è una faccenda politica, sociale e artistica. Oggigiorno viviamo in uno stato di confusione in cui c’è molto da distruggere e molto da costruire. Michael Kustow ha scritto in un articolo pubblicato su Gambit che il vostro slogan è « Non distruggiamo il N.T.: Usiamolo ». Come dovrebbe essere usato dalle provincie? Non sono tuttora tagliate fuori dalle produzioni del 'West End e del N.T.? Tuttavia i teatri stabili che dovrebbero mettere in scena nuove commedie non se lo possono per mettere. A poco a poco il ruolo del N.T. sarà quello di centralizzare tutto e lasciare alle provincie solo le briciole. È molto difficile prevedere quali effetti avrà questo tea tro anche solo per il fatto che si trova nel cuore di Lon dra. Il suo compito non sarà certo facile. Non è una strada a senso unico. Non si è ancora lavorato abbastanza per ca pire quale potrebbe essere la sua migliore utilizzazione. Ma gari non verrà usato affatto: bisogna aspettare e stare a vedere. (1) La scelta del repertorio viene effettuata nel National Theatre collegialmente da un comitato ristretto diretto da Peter Hall e com posto da otto condirettori: Harrison Birtwistle per la parte musicale; Michael Blakemore; J.R. Brown per i testi; Bill Bryden; John Bury per la scenografia; Michael Kustov per la programmazione; Harold Pinter e John Schlesinger. Gli anni ’70 hanno portato all'utilizzazione crescente di edifici che non erano teatrali, basti pensare a John Cage, eppure abbiamo qui il gruppo architettonico, faraonico, mul tiforme del N.T. Sì, ma non tutti gli edifici del N.T. rivestono la stessa funzione perchè ci sono tre teatri in uno, due dei quali non hanno l’arco di proscenio e non dipendono dal colpo di bacchetta magica della progettazione teatrale del XX se colo. Così non non abbiamo quei limiti architettonici. Po tremmo anche liberarci di questo edificio se ciò fosse neces sario e occuparne un altro. Abbiamo lo studio ICA e lo Young Vie e siamo pronti a spostarci dovunque in caso di necessità. Abbiamo tuttavia sempre bisogno di un centro con gli uffici, le sale prova, i laboratori, etc. Credo però che quando progettavano i teatri negli anni ’60 si sono serviti dell’attrezzatura teatrale e dell’architettura come di un capro espiatorio. E dopo tutto, i « nuovi » teatri fatti nelle sale parrocchiali, officine, depositi e granai non è che portino tante innovazioni! Non biasimo completamente architetti e tecnici, è molto più probabile che il fallimento sia dell’im maginazione e dell’organizzazione nel realizzare il lavoro che la gente crede debba essere fatto. È molto più facile supe rare i problemi architettonici che non le convenzioni, k abi tudini e la sicurezza. Le va bene come battuta conclusiva della nostra con versazione? Mi sembra vada a pennello Intervista realizzata al National Theatre di Londra. Rosario Portale ESPERIENZA DI ALTRI AUTORI. L’Inghilterra non ha fatto molta esperienza di autori qua li Skourtis, Metropulos, Kampaneis, Calderon, Schiller, Lope de Vega, Goethe, Eduardo De Filippo, Diego Fabbri e Di no Buzzati. Mi sembra un bagaglio culturale europeo no tevole che è quasi sconosciuto al teatro inglese. Ne ha colpa ¡’insularità del nostro teatro, comunque stia mo lavorando per far cambiare le cose. Ho ascoltato con interesse la sua lista di nomi perché, a parte due, abbiamo commissionato già nuove traduzioni a traduttori-artisti, di solito drammaturghi, per il nostro repertorio, e vogliamo co stituire una « banca » di traduzioni il cui scopo è di essere vive. È molto difficile tradurre perché non si tratta solo di tradurre il linguaggio teatrale. Sono gli stessi problemi con nessi alla ricerca di una fedeltà a Shakespeare. Stiamo tra ducendo Torquato Tasso e abbiamo una lunga lista con cir ca 12 opere. I nostri teatri non sono stati mai capaci di intraprendere questo lavoro. È come se le opere di Tolstoj non fossero state mai rappresentate in questo paese. Una diversa prospettiva del National Theatre n u n H O H M d i G IA N N I R O N D O L IN O D a lle o r ig in i a d o g g i, p a e s e p e r p a e s e , p e r io d o p e r p e r io d o , l ’o p e r a r i p e r c o r r e il c a m m in o d e i c in e m a a lla r ic e r c a d i q u e g li a s p e tt i d ’a r te , d i c o s tu m e e d i id e o lo g ia c h e c a r a t te r iz z a n o q u e s to im p o r t a n t e fe n o m e n o . Tre volum i di com plessive pagine XXVIII-1484 con 1833 illustrazioni in nero e a colori nel testo. Rilegati ¡ri elegante cofanetto. F A C I L IT A Z I O N I D I P A G A M E N T O UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE CORSO RAFFAELLO 28 -10125 TORINO - TEL. 688.666 E c l i s s e t o t a l e D u e t e m p i di C h risto p h e r Ham pton PERSONAGGI: M.rne Mauté de Fleurville, suocera di Verlaine Mathilde Verlaine, moglie di Verlaine Arthur Rimbaud Paul Verlaine Charles Cros M. Mauté de' Fleurville Etienne Carjat Ernest Cabaner Jean Aicard Cancelliere Il giudice Théodore T'Serstevens Eugénie Krantz Isabelle Rimbaud, sorella di Rimbaud Un barman La cameriera U n a p a s s i o n e l a i c a A soli trentuno anni, con cinque commedie originali al suo attivo ed un numero non indif ferente di traduzioni ed adattamenti, tra cui si distinguono i nomi di Cechov, Ibsen, von Hor- vath, Christopher Hampton, questo ragazzone che tiene a dichiararsi uno scrittore arrabbiato, è già un personaggio di spicco nella Londra teatrale. Detiene persino un primato, quello della precocità, per aver scritto la sua prima commedia —• « Quand'è che hai visto l’u lti ma volta mia madre ?» — a soli diciotto an ni, infliggendo così una mortificante sconfitta a Shelagh Delaney che deteneva il titolo prima di lui con Sapore di miele scritta ad appena diciannove anni. La commedia è una sottile analisi dei rapporti tra giovani omosessuali, che ha fatto pensare alla lontana a Tè e sim patia, e che anticipa i temi trattati in seguito dal commediografo in questa Eclisse totale, del legame Rimbaud-Verlaine, senza natural mente la violenza e l’asprezza che proviene in quest’ultimo caso dalla vivezza del documento. II Filantropo ed è indicata a tu tt’oggi come la sua opera migliore. La commedia è l ’unica ad essere stata rappresentata in una edizione formalmente corretta dalla compagnia di Arnaldo Ninchi e la regia di John Carslen terza commedia ha per La sua titolo in Italia che suscitò, alcuni anni fa, una vasta eco di consensi. In essa, capovolgendo il carattere di Alceste — Il Misantropo molieriano — che neppure l ’amore riesce a rendere docile, Hamp ton tratteggia a tutto tondo la figura di un giovane maldestro e sprovveduto intellettuale dei nostri giorni che, proprio per l’eccessiva disponibilità con la quale si affida agli altri, non riesce mai a stabilire con essi un rapporto umano soddisfacente e positivo, sicché è de stinato alla fine a raccogliere la medesima con dizione di solitudine e di sofferenza che pro veniva ad Alceste dal suo carattere ruvido e scomodo di Atrabiliare Innamorato. Selvaggi è del 1973 ed in essa il comme diografo affronta, attraverso un lungo dialogo- scontro tra un diplomatico inglese rapito ed i suoi rapitori, la difficile situazione politica del l’America del Sud ed i problemi connessi con lo sfruttamento degli Indios, una razza che sta lentamente scomparendo a causa delle immani carneficine perpetrate dai colonizza tori bianchi dal 1600 ad oggi. Con Schermaglie, rappresentata appena lo scorso anno, si torna invece al tipico interno borghese dove una ragazza si divide alternati vamente, con estrema disinvoltura, tra i due suoi giovani amici. Cinque commedie, dunque, sufficienti ad accreditarlo ed a farne un al fiere di questa second wafe di giovanotti ar rabbiati inglesi, anche se la sua rabbia ha colori e toni assai più sfumati di quella dei predecessori. Ed infatti si può dire che, se Osborne resta una solida espressione di una esausta borghesia che avverte, nelle sue punte più sognanti e sensibili, il mutare dei tempi ed esprime il desiderio di rinnovamento di una intera generazione in atteggiamenti pro vocatori che costituivano ed esaurivano in un certo senso la sostanza stessa di quella ribel lione; e se Wesker è l ’autentico paladino di quella classe proletaria emergente che s'inter roga intorno ai propri significati ed ai propri ideali; Christopher Hampton se la prende piut tosto con la morale e l’ipocrisia borghese, an che se in modo meno appariscente, secondo i canoni della stessa commedia borghese. Eclisse totale riflette bene questo suo at teggiamento, anche se la commedia può con siderarsi alquanto anomala nell’intera produ zione del giovane commediografo almeno per due buoni motivi. Primo perché sfrutta un episodio noto come quello della relazione tra due poeti famosi come Rimbaud e Verlaine, secondo perché sceneggia avvenimenti che si suppongono realmente accaduti. Una comme dia anomala, ma significativa. Questa rela zione infatti non esaurisce l ’interesse dell'ope ra che consiste piuttosto nella trascrizione, puntigliosa e fedele, di due diversità. Ciò che più affascina dell'intera vicenda è appunto l’ottica nella quale Hampton guarda agli av venimenti ed a questi suoi due singolari pro tagonisti. In questo senso si può dire la com media costituisca una sorta di storia esempla re, i cui quadri si snodano davanti ai nostri occhi come stazioni dolorose di una passione laica, che precipita inesorabilmente sempre più in basso verso la lite, il ferimento, l'arresto. Stazioni che racchiudono un disperato senso di tragicità e di ineluttabilità anche. Prima di loro stessi, della loro natura, Rimbaud e Ver laine appaiono le vittim e di un atteggiamento ostile e discriminante nei loro confronti. Gli ordinamenti, esistenti — e non è poco l ’insi stenza querula, direi ossessiva, con la quale Verlaine parla spesso della fallita esperienza della Comune — non fanno che perpetuare la condanna e l’emarginazione. I l destino dei di versi, quando non sia accompagnato da sospet to e paura, è ancora fatto di sofferenza, di esclusione, di morte. Romeo De Baggis P r i m o t e m p o SCENA I L'abitazione parigina di M. Mauté de Fleur- ville; 10 settembre 1871. Il salotto di una ricca famiglia borghese. È ammobiliato in stile vaga mente Luigi XV, senza particolare buon gusto, con notevole abbondanza di velluto giallo e rosso. Ci sono due porte. In un angolo della stanza una quantità di cordoni di campanelli dalle diverse lunghezze, stili e colori vistosi. Ci sono ritratti di famiglia e specchi alle pareti, e parecchi ninnoli di porcellana, crocifissi ed altri oggetti sparsi per la stanza. C'è anche un piano a coda. Mme Mauté de Fleurville se ne sta seduta al piano quando il sipario si alza. Sta suonando le battute di chiusura di una tra scrizione per pianoforte del Preludio a « Lohen grin ». È una donna di mezza età, vestita abba stanza elegantemente. Entra Mathilde Verlaine, in mano ha un mazzo di fiori che incomincia a disporre in un vaso. È un’attraente ragazza di diciotto anni, ora incinta di otto mesi. Nel mo mento in cui Mme de F. sta per giungere alla conclusione del suo pezzo, una strana e assurda figura entra nella stanza, e si arresta un attimo attendendo nell'ombra, così che né Luna né l'al tra delle donne lo nota. È Arthur Fìimbaud. Il suo aspetto colpisce. Non ha ancora 17 anni e dimo stra la sua età. Le mani sono grandi e sporche. La cravatta assomiglia ad un pezzo di corda vec chia e gli penzola intorno al collo, col bottone del colletto aperto. A parte tutto questo è terri bilmente bello, di una bellezza in un certo senso crudele; labbra sottili, freddi occhi grigi. Quan do parla ha un leggero e indefinibile accento provinciale. Mme de F. finisce di suonare. Rimbaud: Sera. (Entrambe quasi rovescia un vaso). Sto cercando Paul Verlaine. (Silenzio). le donne sussultano. Mathilde Mme M. de F. (Come se non ci credesse): Siete... M. Rimbaud? Rimbaud: Sì. Mme M. de F.: Ehm, M. Rimbaud, io sono Mme Mauté de Fleurville, la suocera di Verlaine. E questa è Mme Verlaine, mia figlia. (Rimbaud sorride gelido donne). Non siete con Verlaine? rivolto alle due Rimbaud: No. Mme M. de F.: Il fatto è che... è andato alla stazione per venirvi incontro. Dovete esser gli sfuggito, ehm, immagino. no? Rimbaud: Sì. Beh non ha idea che faccia abbia, Mme M. de F.: Lo stiamo aspettando da un momento all’altro. (Silenzio). Ehm, come siete arrivato qui? Rimbaud: Piedi. Mme M. de F.: Oh, è piuttosto lontano. Rimbaud: Non proprio. (Silenzio). Mme M. de F.: Forse desideravate darvi una rinfrescata dopo il lungo viaggio. Rimbaud (considera la cosa un momento): No Mme M. de F.: Bene, avete dato il vostro baga glio ad uno dei servitori? Rimbaud: Non ho incontrato servitori. Mme M. de F.: Lo avete lasciato aM'ingresso, grazie. allora? Rimbaud: Che cosa? Mme F. de F.: II vostro bagaglio. Rimbaud: Non ho nessun bagaglio. Mme M. de F.: Niente... bagaglio? Rimbaud: No. Mme M. de F.: Oh. (Silenzio). Mathilde: Non volete sedervi, M. Rimbaud? (Rimbaud si siede, e le donne lo imitano. A questo punto l’atmosfera si è fatta estrema- mente sgradevole). Mme M. de F.: Non penso che Verlaine si farà aspettare molto. (Rimbaud estrae dalla tasca interna una vec chia schifosa pipa di creta e Faccende). Rimbaud: Spiace se fumo? Mme M. de F. (con ovvia avversione): Ehm, no, assolutamente. (Silenzio). Verlaine ed io siamo rimasti molto colpiti dalla vostra poesia. Rimbaud: L’avete letta anche voi? Mme M. de F.: Oh, sì. Sono una fervente ammi ratrice della Musa. Naturalmente il mio ta lento è più che altro musicale (ridacchia), ma ho sempre avuto un debole per la poesia. Siamo molto amici con M. Victor Hugo, sa pete. È un uomo decisamente affascinante. Rimbaud: Si sta facendo un po’ senile. Mme M. de F.: Non mi pare. È ancora in per fetto possesso delle sue facoltà. (Rimbaud sorride). Naturalmente ai giovani sembra un po'... attempato. Ma poi i giovani devono sempre essere rivoluzionari. Ecco perché Verlaine ed io siamo rimasti così colpiti dal vostro talento. Dev’essere magnifico ritrovarsi un giovanotto così dotato. Mathilde: Siete persino più giovane di quanto ci aspettassimo. Mme M. de F.: Sempre più sorprendente. Mathilde: Quanti anni avete? Mme M. de F.: Cara, non è molto educato chie dere l’età della gente. Mathilde: Scusatemi. Solo che... mi interessava molto. (Guarda Rimbaud interrogativamente, ma egli preferisce ignorare la domanda e si alza, diri gendosi verso la finestra). Rimbaud: Gradevole la vista. Mme M. de F.: Sì, incantevole, vero? Rimbaud: Gradevole. (Rimbaud prende un animale di porcellana e lo considera con disgusto. Si dirige verso un angolo della stanza cercando dove vuotare la pipa. Con un movimento abile fa volar via la cenere in un recipiente che, dalla reazione agitata di Mme M. de F., deducia mo non sia predisposto per quell'uso. A que sto punto entra Paul Verlaine. È un uomo eccezionalmente brutto dalla faccia simile ad un teschio ma contrasta col grasso che lo ricopre. Fia 27 anni, la barba, ma è già quasi calvo. È vestito bene e assomiglia ad un impiegato statale dai modici mezzi pri vati, cosa che del resto corrisponde a realtà. Non nota Rimbaud in piedi che guarda fuori dalla finestra). lui neanche io abbiamo setacciato la stazione, ma invano. Comunque, non c’è dubbio che finirà per arrivare qui. l'ombra. Cros ed Verlaine: Di Mme M. de F.: Bene, allora, se siamo tutti qui il pranzo: Immagino che devo vedere per M. .Rimbaud avrà fame. Rimbaud: Crepo. Mme M. de F.: Sì... bene, vedrò cosa possiamo fare. (A Mathilde) Vieni cara. Tu puoi darmi una mano mentre gli uomini chiacchierano un po’. (Escono Mme M. F. e Mathilde). Verlaine: Bene, è proprio bello incontrarvi. (Rimbaud approva. È chiaramente sollevato dalla partenza delle due donne). Rimbaud (senza voltarsi)-. È qui. Verlaine (voltandosi): M. Rimbaud? (Si fa avanti per stringere la mano di Rim baud, poi come Rimbaud si volta verso di lui, si interrompe un attimo, si direbbe sor preso dall'aspetto di Rimbaud). Rimbaud: Verlaine. Verlaine: Avete trovato la strada da solo. Che iniziativa. Mme M. de F.: Dov'è Cros? Verlaine: Oh, sta parte. Sarà presto qui. trafficando giù da qualche Verlaine: Quanti anni avete, se non vi spiace la domanda? Rimbaud: Mi dispiace. Verlaine: Oh, scusatemi. Rimbaud: Sedici. Verlaine: Sedici, ma ne siete sicuro? Rimbaud: Certo che ne sono sicuro. Verlaine: È solo che nella vostra lettera ave vate detto di averne ventuno. Rimbaud: Non dovete mai credere a quello che dico nelle mie lettere. Verlaine: Sono strabiliato. Pensavo che quelle poesie che mi avete mandato fossero note voli per uno di ventuno: per uno di sedici, sono incredibili. Rimbaud: Ecco perché vi ho detto di averne ventuno. Non volevo farvi sentire condiscen dente prima che le aveste lette. Verlaine: Certamente, tutto si fa più chiaro ora. Il fatto che vostra madre vi tenesse a casa senza denaro. Se avete sedici anni. Avete lasciato la scuola, vero? Rimbaud: Sì. Verlaine: Immagino che vostra madre debba essere molto arrabbiata con me. Rimbaud: No, una volta scoperto che mi avevate mandato il biglietto del treno mi è sembrata soddisfatta. Verlaine: Non andate d’accordo? Rimbaud: Non avrebbe importanza se fosse solo stupida. Tutti gli altri esponenti della mia famiglia sono stupidi, e sono accettabili. Ma lei è anche religiosa. Bigotta. (Silenzio). Verlaine: Vi piace qui? Rimbaud: Non è proprio... quel che mi sarei aspettato. Verlaine: Cosa intendete dire? (pausa). Oh, ca pisco. Beh, non sono proprio il tipo da sof fitta. Mia moglie ed io avevamo un apparta mento sul Quai de la Tournelle quando lavo ravo. Ma fra un’agitazione politica e l’altra decisi di essere troppo suscettibile per l’Am ministrazione Statale. Così non potevo per mettermi di tenere l'appartamento. Poi il pa dre di Mathilde, che gli marciscano le bu della, ci offerse molto generosamente un piano della sua casa. Pensavo che sarebbe stata una buona idea, con Mathilde incinta eccetera. Rimbaud: E non lo fu? Verlaine: Sì, sì, a parte il mio detestabile suo cero. Fortunatamente per voi, è via al momento. Ad una partita di caccia. Dove io spero sinceramente fatale disgrazia. Le mie preghiere giornaliere sono interamente rivolte Rimbaud: Che cosa fa? Verlaine: Niente. È un uomo di piacere. E non fa assolutamente niente. È la persona più in quella direzione. incontri una inutile che conosca. Il suo unico scopo nella vita è di morire e di lasciarmi tutto il suo denaro. Cosa pensate di mia moglie? Rimbaud: Vostra moglie? Verlaine: Sì. Rimbaud: Beh, non ho avuto molto tempo per giudicare, vero? Verlaine: Ho sofferto per quella ragazza, sapete. Ho dovuto aspettare più di un anno prima di poterla sposare. I fati erano contro il ma trimonio. Fu rimandato così tante volte. Dal la pestilenza e dalla guerra. Letteralmente. Contrasse il vaiolo all’ultimo minuto, lo pen sai Madre Santa ho aspettato tutto questo tempo per sposare un riccio scorticato? Per fortuna rimase poco segnata. Poi due giorni prima del matrimonio, uno dei migliori amici si suicidò, cosa che trovai denunciasse una certa mancanza di tatto. Il giorno dopo, estre ma offesa, fui richiamato. Ma ero immune a tutti i presagi, riuscii a cavarmela anche in quella circostanza e me la sposai. Ahimè, non badai agli avvertimenti degli Dei. Vera mente le voglio molto bene. Solo che vivere con i suoi genitori ha avuto un brutto effetto su di lei. In più essendo incinta. È solo una bambina. Rimbaud: Anch'io. (Entra Charles Cros, 29 anni, un languido dandy con i capelli ricci e i baffi cupi). Cros: Ah, voi dovete essere Rimbaud. Lieto di conoscervi. ventore. Cros: E poeta. Verlaine: E poeta. Cros: Sono contento che siate riuscito a tro vare la strada fin qui. Certo non grazie a questo rozzo ubriacone. Non riuscivo a ca pire perché ci tenesse tanto a venirvi incon tro fino a quando non fuori dalla porta. Qualsiasi pretesto pur di uscire a bersi qualche bicchiere. Vedete che cosa terribile essere sposato. Verlaine: Tutte bugie. Cros: Il fatto è che il vostro treno arrivava per l’ora verde. L’ora dell’assenzio. Mi sono pia ciute le vostre poesie. fummo Rimbaud (a Verlaine): Le avete mostrate a tutti? Verlaine: No, perché? Rimbaud: Vostra suocera si è appena felicitata con me a questo proposito. Verlaine: Davvero? Vecchiaccia fanfarona gliene ho mostrata solo una. Rimbaud: Quale? Verlaine: Quella pulita. Rimbaud: Ah. Cros: Ho adorato quella della ragazza che tra scorre la vigilia della sua prima comunione Verlaine: Rimbaud, questo è Charles Cros, in Rimbaud: Bene, sto morendo di fame. nel cesso con una candela. Parola mia, Ma gnifica. Rimbaud (freddamente): Cosa inventate? Cros: Beh, se intendete quel che sto inventando adesso, non posso dirvelo esattamente, per ché non è stato inventato. Rimbaud: Che cosa avete inventato? Cros: A dir la verità nulla, mi pare di perdere l’entusiasmo. Oppure di ritrovarmi sempre senza denaro. Verlaine: Ah, ma questa volta ha in mano qual cosa di veramente fenomenale. Rimbaud: Cosa? Verlaine: Fotografie con colore. Spiegalo tu. (Entrano Mme M. de F. e Mathilde, Rimbaud riempie la pipa e la riaccende). Cros: Vi interessa la fotografia? Rimbaud: No. Mathilde: Non ditemi che state parlando ancora di questo, eh Cros? Cros: Non sono stato io a cominciare il discor so, Madame. cato ai gioielli. Mathilde: Non capisco perché non vi siate dedi Verlaine (a Rimbaud): Cros ha creato un rubino perfetto. Assolutamente identico a un rubino vero. Rimbaud: Dovrebbe procurarvi dei soldi. Cros: No, purtroppo. È molto più caro creare il mio rubino che comprarne uno autentico. Mme M. de F.: Fra poco dovremmo potere se derci a tavola. (Silenzio). Mme M. de F.: Venite dalle Ardenne, vero M. Rimbaud? Charleville? Rimbaud: Sì. Cros: Città piacevole Charleville, vero? Rimbaud: Un posto dimenticato da Dio. Cros: Oh. Mathilde: E cosa fa vostro padre? Rimbaud: Suppongo che si limiti principalmente al bere. Non posso dirlo con certezza però, perché fu abbastanza furbo da lasciare mia madre circa dieci anni fa, e da allora non l’abbiamo visto. Mathilde: Oh, mi dispiace. Rimbaud: Non è il caso. Se ne sta molto bene fuori dai piedi. (Silenzio). Mme M. de F.: (venendo di nuovo in soccorso): Ho un'idea. Non vi piacerebbe un po’ di poe sia prima di cena? Devo confessare, M. Rim- baud, di avervi in un certo senso ingannato. Verlaine non mi ha mostrato tutte le vo stre poesie. Non vorreste leggerci le altre adesso? Mathilde: Oh, sì, sarebbe magnifico. Mme M. de F.: Puoi andarle a prendere per M. Rimbaud, Paul? Verlaine (esitando): Ehm... Rimbaud: No. Mathilde: Perché no? Rimbaud: Non voglio. Mme M. de F.: M. Rimbaud è probabilmente stanco dopo il suo viaggio, cara. Forse un’al tra volta... Rimbaud: No. Non leggo mai le mie poesie in pubblico. Cros: Perché no? Insomma, se vi siete preso la briga di scriverle, mi sembra strano che vogliate tenerle solo per voi. Mathilde: Tutti gli altri poeti lo fanno. Abbiamo delle soirées e ognuno legge. Rimbaud: Non mi interessa quello che fanno gli altri poeti. Cros: Penso che lo trovereste molto istruttivo ed utile. Non pensate che i poeti possano imparare qualcosa l'uno dall’altro? Rimbaud: Solo se sono dei poeti scadenti. Cros: Capisco. Mathilde: Sono sicura che vi piacerebbero le nostre soirées. Ne abbiamo avuta una molto bella la settimana scorsa. Musica e Poesia. Musset e Chopin. Rimbaud: Musset? Mathilde: Sì. È il mio poeta preferito. A parte Paul, naturalmente. Non vi piace Musset? Rimbaud: Roba facile e di poco conto. È il più criticabile e il meno dotato di tutti i mise rabili buffoni di questo secolo squallido. Un poeta per donne e ragazzi. Cros: Ah, ma che ne dite delle sue commedie? Rimbaud: Il teatro non è degno di un discorso. Cros: Siete deciso nei vostri giudizi. Rimbaud: Non dovrei esserlo? (Entra una cameriera). La donna: La cena è servita, Madame. Mme M. de F.: Ah, bene. Vogliamo andare? Rimbaud (a Verlaine): Sentite, devo andare al cesso prima di mangiare. Potete mostrarmi dove si trova? (Gli altri si scambiano un'occhiata mentre Verlaine sommessamente gli indica la dire zione. Rimbaud esce). Mme M. de F.: Bene. Cros: Strano tipo. Mathilde: Non è come lo immaginavo. Verlaine: Per me va bene. SCENA II Stesso luogo; 25 settembre 1871. Quando si alza il sipario, il palcoscenico è vuoto. Entra Rimbaud fumando la pipa. Si ferma e dà uno sguardo alla stanza, poi, dopo aver considerato un momento, va a prendere l'animale di porcel lana che avevamo già visto maneggiare nella scena I. Lo contempla per un breve istante, poi deliberatamente lo lascia cadere in terra e lo frantuma. Voci fuori campo. Rimbaud si dirige prontamente verso una delle porte e lì si ferma, aspettando nell'ombra. Entra M. de F. dall'altra porta. È un uomo imponente di 64 anni, con una barba bianca. Lo segue la cameriera, che gli tiene il cappotto sul braccio. Nessuno dei due vede Rimbaud. La donna: Non vi aspettavamo di ritorno oggi, Monsieur. M. de F.: Dove sono tutti? Dov'è mia moglie? La donna: Credo che sia in giardino, monsieur. Con Mme Mathilde. M. de F.: Vuoi avvertirle che sono tornato?' La donna: Sì, monsieur. (M. de F. nota l'animale di porcellana pezzi). M. de F.: Cos'è questo macello per terra? La donna: Oh, è rotto. (Si inginocchia per rac in cogliere i cocci). Mi dispiace, monsieur, non so cosa sia suc cesso, non era qui quando sono entrata prima. M. de F.: Hm, portami del caffè, vuoi? La donna: Sì, monsieur. (Esce. M. de F. sprofonda nel sofà gru gnendo. Silenzio. Rimbaud raggiunge la por ta, l’apre e la richiude). Rimbaud: Giorno. (M. de F. emerge e si volta). (Ospitalmente). Sono tutti fuori. Dovrebbero essere di ritorno fra poco. A meno che non siate venuto a trovare il vecchio. M. de F.: Il vecchio? Rimbaud: M. Mauté de Fleurville. Non siete un amico suo, vero? M. de F.: Ehm... no. Rimbaud: No, non pensavo lo foste. Da quel che so non ha amici. M. de F. (debolmente): Oh... davvero? Rimbaud: Sì, pare che scoraggi tutti con una insuperabile combinazione di noia e avarizia. Corrono oscure voci che non possa resistere dal ripulire le tasche di quelli che cadono storditi dalla monotonia dei suoi aneddoti. (M. de F. comincia a mostrare segni di furo re incombente. Emette uno o due suoni in definibili, ma Rimbaud lo interrompe, soave mente cambiando tasto). Non vorreste comperare un crocifisso, per caso? (ne estrae uno dalla tasca interna). Perché mi capita di averne uno qui che po trei cedervi ad un prezzo eccezionalmente ragionevole. È avorio, penso. (M. de F. osserva il crocifisso che riconosce come suo, con rabbia e meraviglia). Tentato? (M. de F. si alza in piedi). M. de F.: Chi diavolo siete? Rimbaud: Potrei chiedervi la stessa cosa. Con la differenza che sarei più gentile. M. de F.: Sono Mauté de Fleurville. Rimbaud: Giorno. (Esce prudentemente. M. de F. rimane a boc ca aperta. Si dirige a grandi passi verso l'al tra porta, che si apre prima che vi giunga. Entrano Mme M. de F. e Mathilde). Mme M. de F.: Buongiorno, caro! M. de F.: Che cosa sta succedendo in questa casa? Mme M. de F.: Che cosa intendi dire? M. de F.: Sono appena stato insultato da un tipo sciatto che tentava di vendermi uno dei miei crocifissi. Mme M. de F.: Cosa? M. de F.: Un ragazzo... Mathilde: Rimbaud. Mme M. de F.: È un amico di Paul, poeta. Paul 10 ha invitato a stare per un po’. M. de F.: Un poeta? Mme M. de F.: Sì, mandò a Paul delle poesie e disse di voler venire a Parigi, ma non sapeva dove andare. Così Paul gli offerse di sistemarlo qui. M. de F.: Da quando in qua Verlaine si arroga 11 diritto di invitare i suoi terribili amici a stare in casa mia. Senza il mio permesso. Mme M. de F.: Paul disse che era un genio. M. de F.: Non mi importa che sia un genio. Non gli dà il diritto di insultare i suoi supe riori. Mathilde: Caccialo via, papà. M. de F.: Ne ho tutta l'intenzione. Mathilde: Non mi piace. È cambiato compieta- mente da quando è arrivato Rimbaud. Mme M. de F.: Scommetto che non ha fatto nulla da settimane. Ha anche smesso di preoccuparsi del suo aspetto. E penso... che abbia probabilmente bevuto più di quan to non gli faccia bene. M. de F.: Oh, davvero? Mathilde: È tutta colpa di Rimbaud. M. de F.: Storie. Sai molto bene che Verlaine smette di lavorare con il minimo pretesto. Comunque manderò subito via questo indi viduo. Capo primo, non voglio nessuno per casa vestito a quel modo. Fa apparire que sto posto un ospizio di straccioni. Mathilde: Questo è il meno. Mme M. de F.: Sì, ha già scandalizzato i vicini prendendo il sole in giardino. M. de F.: Facendo cosa? Mme M. de F.: Prendendo il sole in giardino. Mathilde: Senza la camicia. M. de F.: Perché non glielo avete impedito? Mme M. de F.: Ho tentato. Sono uscita e gli ho detto che da queste parti non si usa pren dere il sole in giardino e mi sono sentita rispondere, che coincidenza, nemmeno a Charleville. M. de F.: Che insolenza. Mme M. de F.: Poi mi ha detto... non distur barmi, sto occupandomi degli affari di mio padre. Indicando il sole. M. de F.: Bestemmia. Mme M. de F.: Credo che fosse ubriaco. Mathilde: È sempre ubriaco. (Entra Verlaine. Ha bevuto. Alla vista di M. de F. ha un momento di incertezza. I suoi abiti vecchi, sciatti e senza forma, sono in violento contrasto con quelli che indossava nella scena precedente. Porta un cappello di feltro sfondato). Verlaine: Ah. (Saluta M. de F. cautamente, poi si volta). (Mormorando). Nemmeno un graffio. Mme de F.: Come? Verlaine: Niente, niente. (Silenzio). M. de F.: Ho buoni motivi per irritarmi con te. Verlaine: Sentiamo. M. de F.: Quando mai ti sei sentito in diritto di invitare gente senza il mio permesso? Verlaine: Da quando avete avuto la gentilezza di offrire il secondo piano della vostra casa a Mathilde e a me, l’ho considerata come casa nostra. M. de F.: Così è. Casa vostra, non una pen sione. Verlaine: Se non posso alloggiare un ospite in casa mia quando mi pare, posso anche vive re altrove. M. de F.: Se non fossi così sfaccendato, forse potresti permettertelo. Verlaine: Ascoltatemi, sapete molto bene che dopo La Comune, sarebbe pericoloso, se non impossibile, per me di in ufficio. M. de F. (agli altri): Tutte scuse. Verlaine: Non mi pare che voi vi ammazziate lavorare M. de F.: Come osi? Mathilde: Non parlare a papà in questo modo. M. de F.: Ora, ascolta bene, Verlaine, ti av verto... (Si interrompe bruscamente mentre entra la cameriera con il vassoio del caffè). La donna: Il vostro caffè, monsieur. M. de F.: Cosa? La donna: Il caffè. Mi avete chiesto di portar- di lavoro. M. de F.: Portalo via, non lo voglio. Verlaine: In questo caso, lo prendo io. Potreste portarmelo di sopra in camera? M. de F.: Adesso che ci penso, puoi metterlo nello studio e lo berrò fra un minuto. La donna: Molto bene, monsieur. (Esce. Scomodo silenzio). M. de F. (il più controllato possibile): Dunque, velo. ascolta. Ti dò fino a domani mattina alle die ci per fare in modo che questo... Rimbaud se ne vada da questa casa. E non dirò una parola di più sull'argomento. Chiaro? Verlaine: Sì. M. de F.: Bene. Verlaine: E se si rifiutasse? M. de F.: Allora dovrò farlo buttar fuori dai ser vitori. E tu dopo di lui. Verlaine: E mia moglie? M. de F.: Mathilde starà qui, naturalmente. Verlaine: Al contrario, Mathilde verrà con me, naturalmente. Vero, Mathilde? Mathilde: No. Verlaine: Se dico che verrai, verrai. Mathilde: Non lo farò. M.me M. de F.: Smettetela. Non c'è assoluta- mente ragione per nessuno di voi di partire. Tutto quel che devi fare, Paul, è di trovare un altro alloggio per Rimbaud. Certamente non dovrebbe essere impossibile. Verlaine: Ne parlerò con lui. (Pausa). Potrei invitarlo a stare un'altra settimana. M. de F.: Non farai niente del genere. Sarai così gentile da chiedergli di restituire tutti gli oggetti che ha pizzicato, prima di par tire. Verlaine: Di cosa state parlando? M. de F.: Prova a chiederglielo, capirà che vo glio dire. (Alla moglie). Vieni, cara? Il mio caffè si sta raffreddando. Mathilde? Mathilde: Vado in camera mia. Verlaine: Tu sta qui. Voglio parlarti. M. de F.: Ehi, tu, non comandarla a destra e a manca in questo modo. Verlaine: Perché non vi occupate dei fatti vo stri? M. de F.: Stai attento a quel che dici. Mathilde (con le lacrime agli occhi)-. Vado in camera mia. (Esce di corsa. Quando apre la porta, vedia mo Rimbaud in piedi che ascolta, sorriden do sognante. Con un atto di squisita cortesia indietreggia nell'ombra per cedere il passo a Mathilde. Questa si arresta di colpo un attimo, inorridita dall’apparizione, e si pre cipita fuori. M. de F. e Mme M. de F. non hanno visto Rimbaud, che rimane nell'om bra). M. de F.: Ecco, guarda quel che hai fatto. Non c’è niente di più spregevole di un uomo che maltratta una donna. Verlaine: Tranne un uomo che ne maltratti due. (Si guardano con odio). M. de F.: Vieni cara. Andiamo. Mme M. de F.: Credo sia meglio che rimanga a scambiare una parola con Paul. M. de F.: Vuoi venire con me! (Intimorita dal tono della sua voce, Mme M. de F. segue il marito attraverso una por- ta, mentre Rimbaud entra dall’altra, sempre sorridendo). Rimbaud: Bene. Piuttosto divertente il tutto. Verlaine: Sei stato ad ascoltare? Rimbaud: Non ho perso una battuta. Verlaine: Quell’uomo mi rende furioso. È una caricatura. Spesso mi dico che non è possi bile che esista. Ma esiste. Rimbaud: In un certo modo. (Verlaine approva con un grugnito). Rimbaud: Penso che sia giunto per me il mo mento di andarmene. Verlaine: Perché? Rimbaud: Sento di aver prolungato troppo la mia visita. Verlaine: Senti, se credi che ti lasci cacciar fuori in strada da quel vecchio porco... Rimbaud: Sì? Verlaine: Non lo farò. È indegno. Rimbaud: È casa sua. Verlaine: E con ciò. Rimbaud: Allora, come la vedo io, hai due alter native o me ne vado io, o della faccenda ne crei una questione e ce ne andiamo tutti e due. Verlaine: Non mi butterebbe fuori. Rimbaud: Lo conosci meglio di me. Verlaine: Mi butterebbe fuori. Sono mesi che aspetta. native. Rimbaud: Allora, come dicevo, hai due alter Verlaine: Bene... cosa ne pensi? Rimbaud: Penso che dipenda da te. Verlaine (balbettando Indeciso): lo Beh., ascol ta, perché non ne parliamo dopo qualche bicchiere? Così... ehm... insomma, senti, vai giù e ordinamene uno, voglio parlare con Mathilde prima, poi ti raggiungo. A dir la verità... Rimbaud: Cosa? Verlaine: Ehm, non vedo perché non potresti andare a stare con Cros per un po’; vedi, Gill è via, e stavo giusto pensando che ci sarà un letto vuoto. (Pausa. Poi, vivamente). Cosa c’è di così comico? Rimbaud: Niente. Verlaine: Senti, se preferisci rimanere qui, allora... Rimbaud: No, no. Vado giù ad ordinarti qual cosa da bere. (Va verso il muro, ne stacca un crocifisso, e se lo Infila in tasca). Verlaine: Cosa fai? Rimbaud: Lo rubo. I crocifissi appartengono alla misera categoria delle cose che posso ruba re senza assolutamente turbare la mia co scienza. Penso sempre che valga la pena di sfruttare Dio; non serve a gran che d'altro. (Pausa). A proposito, ho qui una lista dei libri che voglio prendere dalla biblioteca di Mauté. Pensavo che potresti passarmeli, non tutti in un colpo, uno alla volta andrà bene. Saranno certamente più utili a me che a lui. (Porge la lista a Verlaine). Non farti aspet tare troppo. (Esce Rimbaud. Verlaine lo segue con gli occhi, sorridendo. Poi si volta, apre la porta sul retro del palcoscenico e chiama di sopra). Verlaine: Mathilde! Mathilde! (Mentre aspetta, Verlaine si versa da bere e lo manda giù subito. Appare nervoso e a disagio. Si versa un altro bicchiere. In quel momento entra Mathilde). Mathilde (per rompere il silenzio): Sono appena stata in camera sua. Verlaine (controllato): Ah sì? Mathilde: È disgustoso. Il letto è lurido e disfat to e ci sono delle bestie che camminano su tutto il cuscino. Verlaine: Pidocchi. Mathilde: Che cosa? Verlaine: Pidocchi. Gli piace tenerne alcuni a portata di mano cosicché, quando incontra un prete per strada, ha sempre qualcosa di appropriato da gettargli addosso. Mathilde: Non capisco. Verlaine: Non importa. (Pausa). Ad ogni modo, cosa ci facevi in camera sua? Mathilde: Sono andata a vedere se ci avesse restituito il crocifisso. Verlaine: Dunque? Mathilde: No. Lo ha rubato. Verlaine: Capisco. Mathilde: Bene, devi farglielo restituire. Verlaine (parlando molto chiaramente): Ha la sciato la casa. Mathilde: Devi riprenderglielo. Verlaine: Non ho alcuna intenzione di fare nien te del genere. Se tuo padre lo vuole indie tro può andarselo a prendere. Per quel che mi riguarda, se è capace di buttare quel ra gazzo per strada senza un soldo, merita di perdere ben più di qualche cianfrusaglia religiosa. Non ha nessun diritto di aver Cri sto dappertutto sulle pareti. Voi gente non capite che cos e la povertà. Ti rendi conto che a Charleville, quando Rimbaud voleva un libro doveva andare a rubarlo dallo scaf fale? Mathilde: Questo dimostra che genere di per sona sia. (Verlaine colpisce Mathilde violentemente sul viso. Questa vacilla, trascinando con sé un tavolino con grande fracasso. Vi è un breve silenzio. Mathilde geme sommessa mente. Verlaine si precipita su di lei e l’aiu ta a sollevarsi da terra) Verlaine: Mi dispiace... mi dispiace... cara... scu sami... non ho potuto farne a meno. Non avresti dovuto dirlo. Sono molto... Non sono mai stato così umiliato come quando Rim baud se ne è andato. Sarà necessario... quando avrai avuto il bambino, ce ne andre mo di qui e tutto sarà più facile. (Mathilde piange silenziosamente. Verlaine aspetta che dica qualcosa, ma rimane silen ziosa). Sarà diverso quando lasceremo il tuo male detto genitore. (Entrano M. de F. e Mme M. de F.). M. de F.: Che succede? (silenzio). Beh? Mathilde: Niente. M. de F.: Cos’era tutto quel chiasso, allora? Mathilde: Ho... rovesciato il tavolo. Mme M. de F.: Stai bene cara? (Mathilde annuisce, molto pallida). M. de F.: Bene, hai già parlato a quel tipo? Verlaine (selvaggiamente): Sì. (Si dirige a grandi passi verso la porta ed esce. Un rapido oscuramento, mentre M. de F. lo segue con lo sguardo, sorpreso). S I P A R I O SCENA III L’appartamento di Charles Cros; 5 novem bre 1871. Una stanza modesta ma arredata con gusto. Ci sono molti libri e carte sparsi in giro. Sulle pareti, disegni, caricature e fotogra fie. Quando si alza il sipario Rimbaud è disteso su un divano e Verlaine seduto in una poltrona. Verlaine: Non pensavo che avesse veramente importanza chi sposassi. Pensavo che chiun que sarebbe andato bene. Chiunque entro certi limiti. Rimbaud: Non vedo perché tu volessi sposarti, per cominciare. Verlaine: Ero stufo di tutto. Vivevo con mia ma dre, allora. Soltanto perché ero troppo pigro per vivere da solo e curarmi di me. Faceva tutto lei e fino a un certo punto andava bene, lo facevo quello che volevo e andavo a casa solo per mangiare, dormire o cam biarmi. Ma alla fine cominciava a distrug germi, l'ufficio era così squallido e a casa era una noia tale che mi davo sempre più al bere e sempre di più sentivo il bisogno di infilarmi in un bordello, le cose andavano di male in peggio. Giorno dopo giorno mi svegliavo interamente vestito, coperto di fango o di tutta la pelle delle mie giunture, sentendomi male e cullando il vago ricordo di tre minuti e mezzo trascorsi con qualche orribile sgualdrina che non si era nemmeno preoccupata di togliersi le scarpe. Non può andare avanti così, dicevo. Deve finire. Un giorno andai a trovare Sivry, che stava com- ponendo la musica per una farsa che dovevo scrivere e mentre mi accompagnava di so pra in camera sua passammo attraverso la stanza principale dei Mauté, sai, ed eccola lì, in piedi, di spalle, che guardava fuori dal la finestra. Penso che la spaventammo, perché si voltò di scatto. Rimasi stordito, tanto era bella. Indossava un abito verde e grigio e se ne stava nella cornice della finestra col sole che tramontava dietro di lei. Sivry mi chiese se avessi conosciuto sua sorellastra Mathil- de, ed io gli dissi, no, purtroppo no. Così mi presentò e disse che ero un poeta ed ella sorrise dicendo che bello, le piacevano molto i poeti. Ti dico, ecco tutto. Una settimana dopo, ero ad Arras, mi sve gliai a letto con la più spaventosa donnac cia che tu possa immaginare, tanto era suda ta e russava. Stavo cercando di sgattaiolare via quando si svegliò e mi richiamò presso di sé. lo tornai indietro. Più tardi durante la mattinata scrissi a Sivry e gli dissi che vole vo sposare Mathilde. Pensavo che fosse Abbastanza bene allevata tutte le virtù coniugali. Innocente. Bella. Sedicenne. Si sarebbe occupata di me. E tutte le notti presente nel mio letto. Do vetti aspettare più di un anno prima di poterla avere. Fu un tormento. Delizioso. Andavo a trovarla tutte le sere e la guarda vo. Quando il matrimonio fu rinviato per la terza volta, quasi impazzii. E quando final mente fu celebrato, non potevo crederci. Mi sentii stordito tutto il giorno. Quel gior no parve durare settimane; non così la notte. I mesi immediatamente seguenti furono me ravigliosi, sai. Non m’importava della guer ra, i prussiani potevano fare quel che vole vano per conto mio. lo ero occupato altrove. Non posso dirti quanto fosse bello. Era co me Valmont e Cécile. Era un tipo di corru zione timida all’inizio, non le piaceva, non lo capiva, face va male. E poi lentamente cominciò a darsi, si rilassò, divenne ... creativa. E addirittura una notte, in cui ero molto stanco, me lo propose. (Silenzio). l'ideale. Molto denaro. tanto da avere legalizzata. Era terribilmente Rimbaud: E adesso hai un figlio. Verlaine: E adesso ho un figlio. (Silenzio). modo? Verlaine: Ecco, io... non riesco a rammentarlo molto chiaramente. Come sai non ero molto in me stesso ieri notte. La mia intenzione era di andare a letto con lei, come credo averti accennato. Rimbaud: Molte volte. Verlaine: Sì, bene, pensai, è passata una setti mana dalla nascita del bambino, dovrebbe essere a posto ormai. Dissi che avrei fatto attenzione, ma, voglio dire, è passato tanto tempo. Comunque, non servì a niente, si rifiutò. Rimbaud: Così che successe? Verlaine: lo non lo so, lo sa Dio. Rimbaud: La colpisti di nuovo? Verlaine: No, no, non questa volta. Mi sve gliai, come ad Arras, con le scarpe sul cu scino, e sgattaiolai via. Ma non mi richiamò. Rimbaud: Così sei ancora frustrato? (Verlaine annuisce. Silenzio). Rimbaud: Perché non la lasci? Verlaine: Cosa? Rimbaud: Lasciala. Verlaine: Perché? Rimbaud: Perché non va bene per te. Verlaine: Cosa vuoi dire? Rimbaud: L'ami? Verlaine: Sì, credo di sì. Rimbaud: Hai niente in comune con lei? Verlaine: No. RimbauO: È intelligente? Verlaine: No. Rimbaud: Ti capisce? Verlaine: No. Rimbaud: Così tutto quello che può darti è il Verlaine: Beh... Rimbaud: Non puoi trovare qualcun altro? Verlaine: lo... Rimbaud: Non sei poi così difficile, vero? Verlaine: No. Rimbaud: Chiunque entro certi limiti andrebbe sesso. bene, no? Verlaine: Entro certi limiti. Rimbaud: Che ne diresti di me? (Silenzio. Rimbaud ride). Rimbaud: Sei un poeta? (Silenzio. Verlaine sorride a disagio). Verlaine (cautamente): Sì. Rimbaud: lo direi di no. Verlaine: Perché? Rimbaud: Bene, spero non vorrai definire quel l’ultimo volume di roba prematrimoniale poe sia? Verlaine: Senza alcun dubbio. È meravigliosa poesia d'amore, quella. Rimbaud: Ma hai appena ammesso che volevi solo andare a letto con lei. delle poesie. Rimbaud: No? Non conta che siano bugie? Verlaine: Non sono bugie, lo l’amo. Rimbaud: Amore? Verlaine: Sì. Rimbaud: Niente del genere. Verlaine: Che intendi dire? Rimbaud: Che cosa successe ieri notte, ad ogni Verlaine: Ciò non toglie niente alla bellezza Rimbaud: Intendo dire che non esiste. L’inte resse personale esiste. L’attaccamento ba sato sul proprio vantaggio esiste. La soddi sfazione esiste. Ma non l'amore. Verlaine: Sbagli. (Silenzio). Rimbaud: Bene, d'accordo, se tieni a definire quello che unisce famiglie e coppie sposate amore, piuttosto che stupidità, o egoismo, o paura, allora diremo che l’amore esiste. Nel qual caso è inutile, non serve a niente. È l'invenzione dei codardi. Verlaine: Sbagli. (Silenzio). ragazza piuttosto elaboratamente Rimbaud: A volte ho sentito il desiderio di pren dere il mio coltello e di uccidere una bellis sima in pubblico. Ma Giudice, avrei detto, è quello che voi gente rispettabile e di buon gusto fate tutti i giorni. Ammetto di aver creato un po’ di disordine, ma sono solo un prin cipiante, vostro onore. Ho ragione di pen sare, signore, di essere sotto processo non per aver imitato i miei superiori, ma per aver agito in modo così divertente e perso nale? Ma il giudice si limiterebbe a sorri dere benevolmente dicendo, naturalmente no, figlio mio, il tuo tentativo può essere stato un po’ confusionario, ma approviamo le tue lodevoli intenzioni. Ad ogni modo, sono si curo che ti renderai conto dei principi impli cati se, per ulteriore intrattenimento del pub blico, ti condanno alla ghigliottina. (Verlaine è compiaciuto di questo. Silenzio). Verlaine: Non mi ha ancora detto perché dovrei lasciare mia moglie. Rimbaud: Quando ero a Parigi in febbraio que st’anno, e tutto era in uno stato di caos, stavo trascorrendo la notte in una baracca allorché fui aggredito sessualmente da quat tro soldati ubriachi. Non fu un’esperienza particolarmente piacevole, ma quando tornai a Charleville, ripensandoci, cominciai a ren dermi conto di quanto fosse stata valida per me .Aveva chiarito cose nella mia mente che erano state fino ad allora vaghe. Aveva dato corpo alla mia immaginazione. E capii che quello di cui avevo bisogno, per essere il primo poeta di questo secolo, il primo poeta dai tempi di Racine o dei Greci, era di spe rimentare tutto nel mio corpo. Sapevo cosa volesse dire essere un allievo modello, pri mo della classe, adesso volevo disgustarli invece di soddisfarli. Sapevo cosa volesse dire fare la comunione, volevo prendere la droga. Sapevo cosa volesse dire essere ca sto, volevo la perversione. Non mi bastava più essere una sola persona, decisi di es sere tutti. Decisi di essere un genio. Decisi di essere Cristo. Decisi di originare il futuro. II fatto che spesso giudicassi la mia ambi zione ridicola e patetica mi dava piacere, era quello che volevo, contrasto, conflitto nella mia mente, ciò era bene. Mentre altri scrit tori si guardavano nello specchio, accetta vano quello che vedevano, e lo buttavano giù, a me piaceva vedere uno specchio nello •specchio, così da poter voltarmi quando ne avessi voglia e scoprire nuovi scorci della mia persona Comunque, quello che dico non ha importanza, è quello che scrivo che con ta. Se mi aiuti, io ti aiuterò. l’unica speranza che Verlaine: Come posso aiutarti? Rimbaud: Lasciando tua moglie. Da quello che posso vedere, è tu abbia. Non solo sei infelice come sei, non ti giova nemmeno. Cosa farai, scriverai poe sia casalinga per il resto della tua vita? Allevando bambini? Epopee deH'Amministra- zione Statale? O sarai obbligato, tu, Verlai ne, a scrivere poesia impersonale? Sciocche commedie e fiacche ricostruzioni storiche? Se la lasci e vieni con me, ne trarremo van taggio tutti e due. E quando avremo sfrut tato il massimo l’uno dell’altro, potremo divi derci e andare ciascuno per la propria stra da. Potresti persino ritornare da tua moglie. È solo una proposta, dipende da te. Ad ogni modo, non mi sarà certo permesso di rima nere qui ancora per molto. Verlaine: Che cosa te lo fa pensare? Rimbaud: Istinto. Vieni con me quando parto. Verlaine: Forse dimentichi che ho un figlio adesso. Rimbaud: Al contrario, è questo che rende la situazione ideale. Se lasci tua moglie ora, non la lascerai sola. Può trascorrere tutto il suo tempo allevando il bambino. È quello che fece mio padre, se ne andò semplice- mente un giorno, abbandonandoci, non avreb be potuto fare una cosa più saggia. Solo che decise un po’ tardi. Verlaine: Ma come vivremmo? Rimbaud: Tu hai un po’ di soldi, no? Verlaine: Ah, adesso capisco lo ti aiuto man tenendoti, e tu mi aiuti rinnovando la mia vena vecchia e arruginita. È così? Rimbaud: Non precisamente. Verlaine: Bene, in che altro modo mi aiuterai, allora? Rimbaud: L'hai detto (Si guardano un momento, misurandosi. Poi entra Cros parlando. Con lui ci sono Etienne Carjat, quarantatré anni, dall'abbigliamento sobrio e tranquillo, e Ernest Cabaner, tren totto anni, un uomo alto, cadaverico, bar buto, con una mantella arancione stracciata e ventolante). Verlaine: Sei un pigro. Cros (prende un’aria dignitosa): Sono un uomo avete lette? e lo sforzo. di idee. l’opera. È troppo complesso da cantarvi, e ad ogni modo non ricordo il motivo. Rimbaud: Ricordate le parole? Cabaner: Sì. « Vai e dì alla cuoca che l’amo, Vai e dì alla cuoca che le voglio bene, I suoi meravigliosi e squisiti pasticci di [carne Mi hanno riempito di speranza e dispera zione ». Rimbaud (sorridendo): Ottimo. (Carjat, annoiato, si protende in avanti per parlare a Rimbaud). Carjat: Vi piacerebbe essere fotografato? Rimbaud: Non in particolar modo. Carjat: Perché mi piacerebbe fotografarvi. Tro vo il vostro aspetto straordinario. Avete una struttura ossea molto sottile. Rimbaud: Davvero? Carjat: Non penso gran che delle vostre poesie, ma amo la struttura delle vostre ossa. Rimbaud: Perché non avete molta considerazio ne per le mie poesie? Carjat: Beh, a dir la verità penso che siano molto promettenti. Ma ho la sensazione che tutta quella ingenuità sia piuttosto guastata da... beh, non esattamente un bisogno giova nile di scandalizzare, ma qualcosa del ge nere. Rimbaud: E vi siete scandalizzato quando le vatta. Carjat: No, io... no, naturalmente. Rimbaud: Allora perché dovreste pensare che sia quella la mia intenzione? Carjat: Ecco... non è proprio quello il punto. Rimbaud: A me sembra sufficiente. Carjat: lo... potrei obbiettare sulla vostra impo stazione tecnica. Rimbaud: lo potrei obbiettare sulla vostra cra Carjat: Bene, se la mettete su questo tono... Cros: Non gli piace discutere sulle sue poesie. Carjat: Capisco. (Scomodo silenzio). Cabaner: Qualcuno ha parlato di andare a bere un goccio? Verlaine: Molto probabile. (Verlaine e Cabaner si alzano). Carjat: Ah, senti, aspettate un momento. (A Cros). Vuoi mostrarmi quell’affare prima di andare? Cros: Oh sì, naturalmente. (Rovista in giro per per un momento). Se riesco a trovarlo. (A Rimbaud). Hai visto quella copia stampata dell’Artista per Maggio? Quello con le mie poesie. Rimbaud: Ehm... mi pare ricordare di averlo visto. Non qui, però. Cros: ... si potrebbe usare anche per la mu sica, vedi. (Saluti comuni). Cros: Rimbaud, questo è Etienne Carjat, foto grafo, e questo è Ernest Cabaner, uno dei quattro musicisti dell’Apocalisse. Verlaine: Conosciuto dagli amici come Gesù Cristo. Dopo tre anni di assenzio. Cabaner: È il profilo, vedete. Carjat (a Cros): Ad ogni modo, continua. Cros: Che cosa? Carjat: A proposito del paleofono. Cros: Beh, a dir la verità è tutto qua, voglio dire, è molto simile alla fotografia. Solo che, invece di fotografare la faccia di un uomo, fotografi la sua voce. Poi, vent'anni dopo, così come potresti aprire l’album delle foto grafie, l’apposito cilindro nel paleofono e lo ascolti, leggere la sua poesia o cantare la sua canzone. inserisci semplicemente Carjat: E pensi di potere inventare una mac china del genere che funzioni? Cros: Sì. Assolutamente possibile. Rimbaud (sarcastico): Come il tuo progetto per comunicare con gli abitanti di Marte? Cros: Sì. Verlaine: Bene, perché non lo fai, allora? Per ché non ne fai mai nulla? Cros: Non so. Non mi va tutta l'organizzazione ner. Carjat: Bene, dovresti preoccuparti di questa. Potrebbe renderti ricco. Cros: Forse lo farò. Verlaine: È parecchio che non ti si vede, Caba Cabaner: Sì, ho evitato di uscire, ultimamente. Verlaine: Perché? Cabaner: Beh... mi perdo sempre. (Le risate de gli altri lo indignano sempre). In ogni caso, son stato impegnato in un lavoro più impor tante. Carjat: Quale? Cabaner: Una cantata. Un lavoro in scala epica e di sorprendente maestà. Verlaine: Su che tema? Cabaner: Su di un pasticcio di carne. Rimbaud (soddisfatto di ciò): Credevo che le cantate dovessero essere su Dio. Cabaner: Possono essere su quello che vuoi. Non mi piace Dio. Mi piacciono i pasticci di carne. Ci sono state migliaia di cantate sulla gloria di Dio, ma mai, mai sulla gloria dei pasticci di carne. Cros: Come va? Cabaner: Bene. Molto bene. Ho scritto la più fuga corale come apertura del grandiosa Cros: Strano. Senti, ci metto un secondo. Non può essere lontano. (Esce Cros). ner? Cabaner: Sbrigati, ho sete. Rimbaud [con premura): Dove vivete, M. Caba Cabaner: Dove vivo? (pausa). Dove vivo? Verlaine: All'Hotel des Etrangers. Rimbaud: Dove si trova? Cabaner: Oh, è grande. La strada, da quel che mi ricordo, prende nome da qualche grande scrittore. Verlaine: Racine. Cabaner: È lui. Rimbaud: E avete molto posto lì? Cabaner: Sì, oh, sì, ho un enorme studio. Rimbaud: Mi ci potreste sistemare? Cabaner: Sì. Rimbaud: Questa notte? Cabaner (imbarazzato): Sì. Rimbaud: Bene, magnifico. A più tardi. (Improvvisamente un ruggito di Cros fuori campo). Rimbaud: Dite a Cros che dovevo pur usare qualcosa. (Si dirige verso la porta). Erano comunque poesie orribili. irrompe (Esce Rimbaud. Un attimo dopo Cros, con in mano una rivista una volta bella e lucida, ora mancante di molte pagine strappate). Cros: Guardate. Guardate qui. Tutte le mie poe sie sono state stracciate. L'ho trovate nel cesso. Cabaner (concentrandosi per ricordare il mes saggio): Lui, ehm, il giovanotto disse che doveva pur usare qualcosa Cros (esasperato): Ha detto cosa? S I P A R I O SCENA IV Il Café du Théatre del Bobino; 20 dicembre 1871. Una cena dei Vilains Bonshommes, una compagnia di poeti. Gra gli ospiti Verlaine, Rim baud, Carjat e Cabaner. L’abbigliamento varia dall'Impeccabile allo sciatto (Verlaine, Rimbaud, Cabaner). Tutti sono seduti, tranne Jean Aicard, un poeta rispettabile ed imponente, che è nel mezzo della lettura di alcune sue poesie. Ver laine appare annoiato ed ubriaco, Rimbaud di sgustato. Quando si alza il sipario, l’uditorio di Aicard applaude cortesemente. Aicard: Grazie. Vorrei concludere con... (si inter rompe dinanzi al fragoroso applauso di Rim baud) ... con una poesia per bambini da una raccolta che ho in mente di comporre. Vi inviterei a tenere a mente che la poesia è stata scritta espressamente per bambini, benché come tutte le opere meritevoli per bambini, si spera che ciò che vi è detto non sia completamente senza significato per gli adulti. La poesia si intitola « Verde Assenzio ». (Si schiarisce la gola. Rimbaud si mette a ruttare). « Verde Assenzio ». « Il verde assenzio è nati... ». (Rimbaud barbuglia). « Un veleno mortale che inquina le vene, Mentre moglie e bambino piangono canto... ». (Crea un certo effetto. Aicard ignora e pro segue). la pozione dei dan in un Rimbaud (distintamente): Non ci credo. Aicard: « L’ubriacone versa assenzio nel suo cervello ». uomini... ». Rimbaud: Merda. Aicard: « Oh! Ubriaco, il più spregevole degli Rimbaud: Merda. Aicard (con la voce incrinata): « Degradato, ca duto nel peccato e ottuso... ». Rimbaud: (raggiante): Sì! Sì! Autentica merda! Aicard: « Degradato, caduto nel peccato e ottu so... ». Rimbaud: Mi piace. Aicard (tenacemente): « Degradato, caduto nel peccato e ottuso. Non ti fai scrupolo di pic chiare tua moglie e tuo figlio.. ». Rimbaud: Per aver tentato di defraudarti del nettare. (Un pandemonio. Proteste, risate, schiamazzi. Aicard si lascia cadere debolmente, poi si rialza. Carjat balza in piedi). Carjat: Fuori! (Cade il silenzio). Rimbaud: lo? Carjat: Sì, tu, tu bastardo ingiurioso. Fuori, o ti prendo a calci. Chi diavolo credi di essere? Rimbaud: Io credo di avere il diritto, non è così, il massacro di sollevare obiezione contro della poesia francese? Carjat: No, Non ce scuse e vattene. (Si avvicina a Rimbaud, che si alza e afferra lo stocco di Verlaine). l'hai. Adesso fai Verlaine: Attento. Rimbaud (a Carjat. Torvo e pallido): Non ti avvi le tue cinare un passo di più. Carjat: Se credi di spaventarmi con quell'af Rimbaud (quasi in un sussurro): Non ti avvici- cinare. fare... (Rimbaud estrae la lama). (Termina debolmente): un'altra. ... devi inventarne (Punto morto. Si scrutano velenosamente. Poi Carjat attacca, e Rimbaud lo colpisce violentemente. Carjat si ferma, sgomento, grida, stringendosi il polso. Il sangue esce a fiotti. Il caos). Verlaine: Attento, ho detto. Rimbaud (rivolgendosi ad Aicard, con un rug gito): E adesso, a te. (Si scaglia su di Aicard, che rimane un mo mento paralizzato daH'orrore, prima di fug gire per salvare la pelle). Miserabile poetastro! (Rincorre Aicard per la stanza, sciabolando selvaggiamente verso di lui. Finalmente Aicard insedia il tavolo fra sé e Rimbaud. Nel frattempo Rimbaud resiste a tutti I ten tativi di disarmarlo minacciando chiunque gli si avvicini troppo). A ll’epoca di Francesco I, i saggi e benevoli giganti percorrevano le campagne. Ed una, lasciatemelo dire, una delle loro... funzioni naturali era di sbarazzare il mondo dai pedanti, dagli sciocchi e dagli scrittori senza talento... (Balza in piedi sul tavolo) ... pisciando su di loro da una grande altezza, e... e... (A questo punto sviene, crollando spettaco larmente al suolo. Verlaine e Cros lo affer rano e lo trascinano fuori nella confusione generale). S I P A R I O SCENA V Il Café du Rat Mort; 20 giugno 1872. Il caffè è quasi vuoto. Verlaine e Rimbaud sono seduti a un tavolo, bevendo assenzio. Durante tutta la scena il comportamento di Rimbaud è strano e assente, come se avesse fumato hashish o be vuto tutta la notte. Ogni tanto si scuote di dosso quell'aria da drogato o ubriaco stanco per un momento, solo per ricadere in sognante contem plazione quando, per esempio, Verlaine si dilun ga nel parlare. Rimbaud: La prima cosa che fece, pare, quando gli diedero l’anello, un anello magico capi sci, fu di convocare una splendida donna, la più bella che potesse immaginare. E furo no incredibilmente felici e vissero da soli su di una celeste isola del Sud. Poi un gior no le spiegò che con l'anello poteva accor darle qualsiasi cosa volesse, ed ella gli chiese di costruirle una città Allora fece sorgere una città dal mare, piena di chiese e di cortili echeggianti, e completamente vuota. Ciò la rese così felice che le con cesse un altro desiderio, ed ella chiese una in mare. l’uomo scrutò nave. Allora le donò un magnifico galeone che non aveva bisogno di equipaggio per i drappi di seta e le polene dorate. Sembrò talmente riempirla di gioia che decise di accordarle ancora un desiderio. « Un ultimo desiderio » disse. « Te ne concedo ancora uno ». « Dammi l’anello », ella disse. Glielo diede. Lei gli sorrise serenamente e lo buttò Immediatamente scom parve sott’acqua. Per lungo tempo dopo che questo era acca duto il mare, seduto senza muoversi. Alla fine cominciò a piangere per ché capì ciò che aveva fatto e ormai sapeva che era tutto finito, e che ora sarebbe stato solo per sempre. Così fu. Qualcosa del genere. È il colore che manca, il colore. Questo è quello che te lo dà, densi colori che puoi udire e odorare. Altrimenti tutto è grigio e squallido. Voglio andare da qualche parte dove possa ottenerlo senza l’aiuto di questo. Al Sud. Lontano dal polveroso camino d'Europa. Se posso esprimermi così. (Ride soffocato). Partiamo. Ho sempre desiderato vedere il mare. Non possiamo assolutamente conti nuare in questo modo. Non credi? Voglio dire... ecco... partiamo. Dio, ho le mani gelate. Non possiamo andarcene? Verlaine: Da qui? Rimbaud: Parigi, Parigi Verlaine: Beh... Rimbaud: Certo non possiamo andare avanti così. È stato un trascinare per mesi in que sta maniera. Non puoi continuare a mandar mi a casa ogni volta che il divorzio e richiamarmi quando l’orizzonte si schiarisce. Quello di cui c’è bisogno, se... (vacilla, si concentra) se posso usare un termine crudo che so tu consideri odioso, è una decisione. ti minaccia Verlaine: Ah, decisioni... Rimbaud: Sì. Verlaine: Dico sempre, mostratemi un uomo de ciso ed io vi mostrerò un imbecille Rimbaud: Credi ciò che desideri. Verlaine: Ad ogni modo, non si sente molto Verlaine: Non è molto divertente. (Ridono ancora un poco). Rimbaud: È patetico. (Smette di ridere brusca- Rimbaud: Non mi sorprende, se continui a fare Verlaine (indignato): Non faccio all’amore con bene al momento. all'amore con lei. lei da maggio. (Ridono tutti e due). mente). Patetico. I tuoi atti di violenza sono sempre singolarmente disgustosi. Verlaine: Cosa vuoi dire? Rimbaud: Non sono puliti. Sei sempre in uno stato di incoscienza alcoolica quando li com metti. Picchi Mathilde, o colpisci me, o sca gli tuo figlio contro il muro e poi ti metti a strisciare chiedendo scusa. Verlaine: Non mi piace fare del male alla gente. Rimbaud: Allora evitalo. E se lo fai, fallo fred damente, e non insultare la tua vittima per ché poi ti faccia pena. (Silenzio). Verlaine: Non credo averti mai parlato del più terribile accesso di collera che abbia mai avuto quando attaccai mio fratello e le mie sorelle. Rimbaud: Non sapevo ne avessi. Verlaine: Oh, sì. Come te, un fratello e due sorelle. La differenza fra i miei e i tuoi è che i miei sono morti. Mia madre ebbe tre aborti prima che io na scessi ed essendo in uno stato mentale alquanto morboso, depose i risultati in un armadio nella stanza da letto, conservati in modo abbastanza sinistro, nell’alcool. Eccoli lì, Nicolas, Sthéphanie, ed Elisa, accatastati sullo scaffale superiore in tre enormi vasi. Non dimenticherò mai la prima volta che li vidi, quand’ero bambino. Stavo vagando per la stanza da letto, rintanandomi nell'armadio, cosa che non avevo mai osato fare prima, quando mi accorsi di questi grandi vasi. La luce era molto debole e non riuscii a ren dermi conto di quel che contenessero a pri ma vista, così salii in piedi su di una sedia. Fu uno dei momenti più ributtanti della mia vita. Improvvisamente vidi quei tre esserini rattrappiti, in fila, che mi fissavano in un modo stranamente saputo. Non avevo la minima idea di cosa fossero. Li paragonai indistintamente alle prugne con servate, e dopo questo fatto ogni volta che a casa ci fu arrosto da mangiare mi si rivol tò lo stomaco, per settimane. Quando scoprii che erano sangue del mio sangue e carne della mia carne, assunsero un'importanza sproporzionata nella mia vita. l’abitudine di osservare mia madre Presi mentre li consultava su tutti gli argomenti del mo mento. Non che fossero di molto aiuto. Rimanevano senza espressione e impene in qualsiasi circostanza, e col pas trabili sare degli anni, cominciai a intravvedere una certa arroganza nel loro atteggiamento, una specie di divertito disprezzo per il loro fratello minore, che finì per diventare offen sivo. Più crescevo, più mi risentivo della loro presenza. li spolverava i giovedì, e tutti tranquillamente e Avevano il diritto di essere soddisfatti, pen savo, perché tutto era stato molto facile per loro e non avevano conosciuto niente di me glio. Ma non avevano alcun diritto di disprez zarmi per essere stato meno fortunato di loro. Quando la mamma mi raccontava quanto la mia nascita fosse stata difficile e pericolosa, avevo la sensazione che si fosse verificato un terribile errore e che il mio posto fosse lassù con loro in un grosso vaso di vetro, meditando lasciandomi spolverare il giovedì. « Se uno di voi fosse vissuto », dicevo loro, « non sarebbe toccato a me. Così è tutta colpa vostra ». Mi guar davano, con fare presuntuoso, scettico e piatto. Ed io invidiavo la loro pace. Una notte, solo un paio d’anni fa, mi ubriacai veramente. Ero proprio nel più profondo del l’abisso, non sarei potuto essere più depres so. Come accade di quando in quando, mi venne un brutto attacco di vomito, vuotai sangue e pezzi di roba e tutta la porcheria accumulata di cui mi ero riempito per anni, avrei voluto morire, sai com’è, la cosa peg giore. È allora che divento violento. Quando vedo le cose come realmente sono. Andai verso l’armadio e guardai Nicolas, Sthéphanie ed Elisa, seduti lì comodamente, che godevano della mia disgrazia. Alzai il mio bastone e fracassai (Silenzio). i vasi. Rimbaud: E poi? Verlaine: Ricordo che ero pieno d'alcool e una loro fugace apparizione stranamente oziosi nei loro vasi rotti prima di svenire. Il giorno dopo quando andai a vedere, erano lì di nuovo, come prima, dentro identici vasi, e mia madre non disse mai una parola sul l’argomento. Se non avessi notato uno sguar do di viva avversione sui loro volti quando andai a trovarli la volta seguente, sarei stato propenso a cancellare l'incidente come un orribile sogno. Rimbaud: Pochi cadaveri hanno vissuto una vita così avventurosa. (Verlaine ride, chiama il cameriere). Verlaine: Due. (Silenzio). Rimbaud: Hai scantonato. Deviato dal punto. Verlaine: Abbiamo tutto il giorno e la notte per ritornarci. Qualunque fosse. Sia. Rimbaud: È ora di lasciare questo posto. Verlaine: Ho appena ordinato un altro bicchiere. Rimbaud: Parigi. Verlaine: Oh. Rimbaud: Questo è il periodo per partire, l’esta te. Diventeremo figli del sole e vivremo nel piacere pagano. (Sorride). Il pericolo più felice della mia vita fu quando me ne andai da casa. Camminando attraverso i prati nel sole, o riparandomi da un acquazzone nel bosco, dormendo sotto una siepe, un panino al pro sciutto e una birra per cena, continuavo ad andare finché avevo soldi in tasca, e anche quando non ne avevo più non sembrava avere importanza. Non ho mai passato dei giorni così belli. Solo che non arrivai abba stanza lontano. Volevo seguire un fiume fino al mare, o andare in Africa e attraverso il deserto. Volevo il caldo e la violenza del paesaggio. Ma quello che non potei avere in quei giorni spesso ne aumentò l'armonia. Idilliaco, traccia di ironia): Verlaine (con un direi. dormire. Rimbaud: Sì, molto più idilliaco di quella schi fosa stanzetta dove dormo quando fai l'amo re con Mathilde, e non dormo quando fai l’amore con me. Verlaine: Oh sì che dormi. Spesso ti osservo Rimbaud: Mi svegli spesso. (Pausa). Non sareb be ora che tu lasciassi Mathilde? Verlaine: Perché? lo l'amo. Rimbaud: Non è possibile. Verlaine: Amo il suo corpo. Rimbaud: Ci sono altri corpi. Verlaine: Non è questo il punto, lo amo il corpo di Mathilde. Rimbaud: Ma non la sua anima? Verlaine: Penso sia meno importante amare l’anima che amare tutto, l’anima può essere immortale, abbiamo tan to tempo per l'anima: ma la carne marcisce. (Rimbaud ride). il corpo. Dopo Verlaine: Lo trovi divertente? Rimbaud: Non proprio. Verlaine: Se la gente ride della carne è perché non ama la sua trama, o la forma e l'odore, come l’amo io. O la sua malinconia. Rimbaud (freddamente): Può darsi. Verlaine: È il mio amore per la carne che mi rende fedele. Rimbaud: Fedele? Cosa vuoi dire? Verlaine: È possibile essere fedele a più di una persona, lo sono fedele a tutti i miei amanti, perché una volta che li amo, li amerò sem pre. E quando sono solo di sera o al mattino presto, chiudo gli occhi e li commemoro tutti, e vedo la perfezione dei loro corpi che si muovono e si avvolgono in infiniti e fles sibili disegni. Lasciano tutti immagini a cui sono fedele. Rimbaud: Questa non è fedeltà, è nostalgia. Se non vuoi lasciare Mathilde, non è perché tu sia fedele, ma perché sei debole. Verlaine: Se la forza comporta la brutalità, pre ferisco essere debole. Rimbaud: Nel tuo caso la debolezza comporta (Silenzio). anche che io ti sia fedele. la brutalità. (Pausa). Non aspettarti Verlaine: Non me lo aspetto. Rimbaud: Lascio Parigi la settimana prossima. Puoi venire con me o no, come preferisci. Verlaine: Dove vai? Rimbaud: Non lo so. Semplicemente via, Vieni? Verlaine: lo... Rimbaud: O rimani con Mathilde? Verlaine: Non lo so. L'idea di perdere uno di lo so. Perché sei intollerabile. Non voi è così duro con me? Rimbaud: Perché ne hai bisogno. Verlaine: Perché? Non ti basta sapere che ti amo più di quanto non abbia mai amato nessuno, e che ti amerò sempre? Rimbaud: Taci tu, piagnucoloso ubriacone. Verlaine: Dimmi se mi ami. Rimbaud: Oh, per Dio... Verlaine: Ti prego. (Silenzio). Ti prego. È importante per me. Rimbaud: Perché? Verlaine: Ti supplico. (Silenzio). Rimbaud: lo... sai che ti voglio molto bene... siamo stati molto felici a volte... lo... (Un lunghissimo silenzio. Rimbaud arrossi sce. Estrae un grande coltello dalla tasca, e perfora la tavola). (Quasi Impercettibile). Mi ami? Verlaine: Cosa? Rimbaud: Mi ami? Verlaine (perplesso): Sì. Rimbaud: Allora metti le mani sul tavolo. le mani col palmo (Verlaine obbedisce). Il palmo in su. (Verlaine volta in su. Rimbaud le osserva un momento, e poi con secchi tagli brutali le incide tutte e due. Verlaine si guarda le mani con stupore, men tre il sangue comincia a colare sul pavi mento). L’unica cosa nulla di (Verlaine lo fissa senza capire, poi si alza ed esce inciampando dal caffè. Rimbaud lo guarda mentre se ne va, poi si alza a sua volta e si affretta a seguirlo). intollerabile è che non vi è intollerabile. S I P A R I O SCENA VI Una stanza d'albergo a Bruxelles; 22 luglio 1872. Verlaine giace metà dentro e metà fuori dal letto sgualcito. Mathilde in piedi con le spalle rivolte al pubblico, che si sta vestendo. Verlaine: È stato stupendo, amore. (Silenzio). Verlaine: Stupendo. Mathilde: Puoi passarmi la sedia vicina al letto, dove sono appese ordi natamente). le calze? (indica Verlaine: Perché non vieni a distenderti e a rilassarti un po’? Non devi vestirti proprio adesso, no? Mathilde: Si sta facendo tardi. Verlaine: Sciocchezze, non sono neanche le otto e mezza. Mathilde: Potrebbe arrivare qualcuno. Verlaine: Chi? Mathilde: La mamma. Verlaine: Pensavo che non vi doveste incontrare fino all’ora del pranzo. Comunque, siamo spo sati, no, per Dio? (Mathilde cammina verso la sedia, prende le calze, si siede sul letto, e comincia a met tersele). Ti ricordi... (Si china in avanti e le accarezza i capelli, poi le volta il viso verso di sé e la bacia. Questa cede brevemente, e, si direbbe, sen za entusiasmo all’abbraccio di lui). ... tempi migliori? Mathilde: Sì. (Continua a vestirsi). Ritorni a Parigi con me? Verlaine: lo... non lo so. Mathilde: Perché non vuoi? Verlaine: Lo vorrei, solo che... solo che non credo Parigi sia più un luogo sicuro. Intendo intendo dire che arrestano ancora dire... gente associata alla Comune. Guarda quello che è successo a Sivry. Quattro mesi in prigione senza praticamente nessuna ragio ne. E chi gli diede il suo lavoro ? lo. Avevo un lavoro molto importante, sai. Ero pratica- mente responsabile della stampa di propa ganda. Mathilde: Lo so, ma questo è successo più di un anno fa. Verlaine: La polizia è lenta, ma metodica. Non perdona né dimentica. Non potrei sopportare di andare in galera. (Pausa). Ecco perché penso sia meglio per me essere prudente e rimanere fuori dal paese per qualche mese. Mathilde: Con Rimbaud. Verlaine: Ecco... Mathilde: anche lui. Immagino sia ricercato dalla polizia Verlaine: Ehm... Mathilde: Perché non vuoi ritornare? Verlaine: lo... Mathilde: Perché preferisci lui a me? Verlaine: Non è vero, amore, non è vero. (Pau sa). È solo che... ti dirò cos'è. Non posso sopportare di continuare a vivere con i tuoi genitori. Non voglio essere giostrato da quel lo stupido vecchiaccio. Mi rifiuto di adattar mi alla sua macabra onniscienza di mezz’età e all'orgoglio aggressivo che assume della sua inutilità. Non riesco a capire quello che ti spinge a restare. Mathilde: Perché da nessun'altra parte è sicuro. Verlaine: Cosa vuoi dire? Mathilde: Sai cosa voglio dire. Verlaine: È solo quando ho bevuto, cara. È solo quando sono ubriaco, e tutto diventa troppo per me. È solo quando la situazione diventa impossibile. Lo sai che non lo faccio appo sta. Mathilde: In quel momento sei conscio di farlo. (Silenzio). (Silenzio). Mathilde: Sai... lo sai che papà vuole che io domandi il divorzio? Verlaine: Ti ho detto altre volte... Mathilde: Dice che se te ne vai con Rimbaud, il mi abbandoni e quindi posso chiedere divorzio. Dice che... Verlaine: (urlando): Non ha niente a che vedere con lui. Sono io che hai sposato, non lui. (Più calmo). Vuoi divorziare? Mathilde: No. (Si mette a piangere sommessa mente, il corpo scosso dai singhiozzi). Verlaine: Non piangere, amore. (La circonda con le braccia, e la placa). Così va meglio. Mathilde: Verrai con me? Verlaine: Non lo so, amore. Io... Mathilde: Non a casa, non intendo a casa, in tendo all’estero. Verlaine: All'estero? Mathilde: Sì, mi è venuta quest’idea, ho pensato a questa soluzione, non arrabbiarti. Ho pen sato che potremo... emigrare. In Canada. Verlaine: Canada? Mathilde: La Nuova Caledonia. Ci sono parecchi amici nostri laggiù, sai, Rochefort e Louise Michel. Verlaine: Anche lei? Mathilde: Sì. Verlaine: Louise Michel, la vergine rossa? Mathilde: Sì, e ho pensato... ho pensato, dato che hai detto di voler scrivere un libro sulla Comune, che potrebbe essere di aiuto. E... ho sentito dire che è meraviglioso laggiù, la campagna, e le foreste, e potremmo riten tare. Verlaine: E il bambino? Mathilde: Ecco, questo dipende da te, ma ho pensato che se tu fossi stato d’accordo, lo avremmo lasciato qui, voglio dire, la mamma sarebbe più che felice di occuparsi di lui per un paio di anni, o per quanto... volessimo stare lontani. Verlaine: È una bella idea..*. Mathilde: È la cosa migliore che potremmo fare, Paul. Potresti scrivere, e stare tranquillo, e... sarebbe come quando eravamo appena spo sati, e... Verlaine: Cosa? Mathilde: Non importa. Verlaine: No, vai avanti. Mathilde: Ecco, io... stavo solo dicendo che po tresti smettere... sarebbe facile per te... se tu lo volessi... di smettere di bere. Verlaine: Hai paura di me, vero? (Mathilde non risponde, Verlaine la cinge di nuovo con le braccia). Ti amavo davvero, sai. (La bacia). Non pen sare che mi piaccia ubriacarmi. Voglio dire che mi piace ubriacarmi, ma non mi piace essere ubriaco. O, in ogni caso... quando ti picchio o... faccio qualsiasi altra cosa del genere, mi sento talmente un verme il gior no dopo, che l’unica cosa che riesco a pen sare è di bere di nuovo per dimenticare. Non riesco a smettere, non riesco mai a smettere, non esiste una fine a questo. Non mi arrabbio con te quando me ne parli. Il più delle volte vorrei smettere tanto quanto lo desideri tu. Ma è altrettanto difficile che decidere di svegliarti quando dormi. Forse potrei svegliarmi in Canada, perché là c'è pulizia, e freschezza, e difficoltà. È questo ciò che desidero di più, sai, è proprio quello che desidero di più, voglio vivere tranquil lamente, e lavorare duro anche, e fare al l’amore con te, e avere dei bambini, pensi che sarebbe possibile? Dovrebbe essere fa cile, pensi che sia possibile? Mathilde: Sì, è possibile. Verlaine: Riesci a vederci, riesci a vederci vi vere in una capanna di legno, o quel che diavolo hanno? Scrivere tutto il giorno e poi leggerti il mio lavoro la sera mentre guar diamo il tramonto sul Pacifico. È così che sarebbe? Mathilde: Può essere. Verlaine: Allora andiamo, per Cristo, andiamo. Prima che sia troppo tardi. Mathilde: Possiamo andare quando vuoi. Verlaine: Dio, come ti amo. (La bacia di nuovo, un lungo bacio appassio nato, alla fine del quale inizia a spogliarla. Lei si allontana da lui). Mathilde: No, non adesso. Verlaine: Perché no? (Non risponde, badando ai suoi vestiti. Ver laine si rizza a sedere e le tocca la spalla). Verlaine: Su, vieni. Mathilde: No. Mathilde: Sono molto stanca. Ho passato tutta la notte in treno e non ho dormito molto bene. Verlaine: Per favore. Mathilde: Senti, devo incontrarmi con la mam ma per colazione, e sono già in ritardo. Per ché non ti vesti e vieni con me? Verlaine: Non voglio far colazione, voglio te. Mathilde: Ci saranno altre occasioni. Verlaine: Tu credi? Mathilde: Beh, certamente. Aiutami, vuoi. (Verlaine l'aiuta ad infilare il suo rigoroso abito ondeggiante). Verlaine: Cos’è quest’appuntamento con tua ma Mathilde: Gliel’ho promesso. Credo che speri Verlaine: Dille che non ho voglia di colazione dre per colazione? venga anche tu. oggi. Mathilde: Posso dirle che sei d’accordo a pro posito del Canada? Verlaine: Cosa? Mathilde: Canada. Verlaine: Cos'ha a che vedere con lei? Mathilde: Beh, deve essere informata, no? Verlaine: Ora? Mathilde: Tanto va bene, non è vero? Verlaine: lo... non so. Mathilde: Ma, hai appena finito di dire... Verlaine: Lo so, so quello che ho detto. (Silenzio). Mathilde: Se è per i soldi che ti preoccupi, papà ha già detto che pagherà il biglietto... (si interrompe di colpo, rendendosi conto di aver commesso un grave errore). Verlaine: Cosa? Mathilde: Niente. Verlaine: Così è un’idea di papà, vero, il Cana da non è stato affatto un'idea tua. Ho pen sato che fosse un po’ troppo acuta per te. Che piano ha in mente questa volta? Toglier mi dai piedi? Impedirmi di bere? O di allon tanare mio figlio da me così che io non lo perverta con le mie cattive abitudini? È così? Mathilde: Paul, smettila. (Silenzio). Verlaine: Scusami, amore, scusami. Avanti, è meglio che tu vada a fare colazione. Puoi dirle che siamo d’accordo circa il Canada. Mathilde: Dici sul serio? Verlaine: Sì. Mathilde: Davvero? Verlaine: Sì. Mathilde: È magnifico. Verlaine: Qui. Un bacio. (Obbedisce). Adesso, via. Mathilde: Ciao. Verlaine: Arrivederci. (Esce Mathilde. Verlaine si veste, sprofonda to Improvvisamente entra Rimbaud. Capisce la situazione al volo). in meditazioni. Rimbaud: Capisco. Verlaine: Che ci fai qui? Rimbaud: Piacevole, no? Una scena di felicità coniugale? Mi è parsa un po’ arrossata. Verlaine: Come sei arrivato qua? Rimbaud: Ho atteso finché fosse scesa, e sono Verlaine: Come hai fatto a riconoscere la Rimbaud: Ero insieme a te quando l'hai pre salito. stanza? notata. Verlaine: È vero. (Silenzio). Rimbaud: Bene, non vuoi raccontarmi tutto? Di solito non mi risparmi gli odiosi dettagli. Che ne è di quelle cosce paradossalmente morbide ed umide allo stesso tempo? Quale astrusa posizione hai adottato questa volta? Verlaine: Penso che sia meglio che te ne vada. Rimbaud: Oh, è quello che ho intenzione di fare. Mi interessa di più la posizione di adesso che quella di prima. Spiegamela semplice- mente, e poi me ne andrò. Verlaine: Beh, senti, non qui, potrebbe ritornare. Perché... Rimbaud: No. Voglio sentirla da te, ora, e ti _ voglio franco e ti voglio sobrio. Le alternati ve sono semplici. O rimani a Bruxelles con me, nel qual caso rispedisci Mathilde a Pa rigi. Oppure ritorni a Parigi con Mathilde, nel qual caso mi vorrai gentilmente lasciare un po' di denaro per tornare in Francia se ne avessi voglia. Ecco tutto. Scegli. (Silenzio). Scegli. Verlaine: Torno a Parigi con Mathilde. Rimbaud: Bene. (Si dirige verso la porta). Verlaine: Aspetta. Aspetta un minuto. Dammi la possibilità di spiegarti. Rimbaud: Perché dovrei? Non ho bisogno di spiegazioni. Non ho intenzione di sprecare il mio tempo cercando di dissuaderti, se è questo quello che vuoi. È la tua decisione, sei tu che l'hai presa. Verlaine: Ascolta, non andare. Voglio solo spie garti la situazione. Siedi un momento. (Rimbaud rimane in piedi, ma si avvicina un po' al centro del palcoscenico). Rimbaud: Potrebbe ritornare. Verlaine: Lascia perdere. Non ha importanza. (Rimbaud sorride e si lascia cadere su una sedia). Ecco, lei... lei mi ha proposto di emigrare. In Canada. Rimbaud: Davvero? Verlaine: Sì. Rimbaud: Ah. Verlaine: Non la trovi una buona idea? Rimbaud: No. Verlaine: Perché? Ascolta, è un’occasione per laggiù, vivrei una vita rilassarmi e me. Abbiamo amici tranquilla, potrei scrivere e smettere di bere... Rimbaud: Lasciarti alle spalle tutte le cattive influenze dell’Europa... Verlaine (dopo una pausa): Sì. Godere del pae saggio... Rimbaud: Una vita pulita, insomma. Ritorno a Rousseau. Il nobile selvaggio. Paul e Mathil de ed il loro cane Fidèle. L'uomo contro gli elementi. Un’idea sua, vero? Verlaine: Sì. Rimbaud: 0 di suo padre? Del nefasto papà? levar le ancore, Mathilde la nave, abbandonando impotente e senza parole sull’oceano Giusto prima di lascia furtivamente Paul Atlantico, e asessuale in Caledonia. Verlaine: Non t ’importa della mia felicità, vero? Rimbaud: No, e nemmeno a te dovrebbe. (Silenzio). Verlaine: Lo so che ho detto che l’avrei rispe dita via. Ma tu non hai mai potuto capire quanto io l'ami. Questa mattina, quando ab biamo fatto aM'amore, mi è sembrato rivi vere quei mesi dopo sposati. È così bella. Questa mattina sono entrato senza bussare e lei era lì sdraiata, nuda, sul letto. Era così bella, quando sono entrato mi è sembrata così giovane e turbata... (Si interrompe. Rimbaud sta ridendo debol mente). Verlaine: Che ti prende? Rimbaud: Se ne stava davvero sdraiata nuda sul letto quando sei arrivato? Verlaine: Sì. Rimbaud: Ciò mi piace, è eccezionale. Verlaine: Che intendi dire? Rimbaud: La mia considerazione per lei sale moltissimo. Verlaine: Perché? Rimbaud: Per essersi resa conto di ciò di cui c’era bisogno e per aver provveduto. Verlai ne : Sei un cinico bastardo. Si stava ripo sando dopo il viaggio. Non sapeva a che ora sarei arrivato. Rimbaud: Ha forse l'abitudine di starsene senza Verlaine: No. (Pausa). Senti, che importanza ha, vestiti addosso? ad ogni modo? Rimbaud: Non ne ha. (Pausa). È tua moglie, tu l'ami, ritorna da lei. (Si alza). Verlaine: Cristo, non so cosa fare. (Silenzio. Rimbaud comincia a muoversi ver so la porta). Tu cosa dici? dipende da te. Rimbaud: lo dico che è ora che vada. Dico che Verlaine: Dio. Rimbaud: Aspetterò la tua risposta in albergo. Verlaine: Non andartene. Rimbaud (sorride): Forse qualche bicchiere ren derebbe tutta la situazione un po’ più chiara. (Esce Rimbaud. La luce sfuma su Verlaine che, seduto, fissa cupo innanzi a sé). S I P A R I O S e c o n d o t e m p o SCENA I 345, Howland Street, Londra; 24 novembre 1872. Verlaine è seduto a un tavolo, e scrive una lettera. Rimbaud legge sdraiato sul letto, e di quando in quando butta giù appunti su di un quaderno. All'inizio la conversazione è sconnes sa e sporadica. Rimbaud: Quale la tua paura più grande? Verlaine: Mm? Rimbaud: Ho detto qual'è tua più grande paura? Verlaine: Non lo so. Non vorrei smarrire le pal le. (Continua a scrivere). Perché, la tua in vece? la Rimbaud: Che la gente mi veda come io la vedo< (Silenzio). maledetto. Rimbaud: A che ora aprono? Verlaine: Non prima dell’una. Ridicolo paese in Rimbaud: Odio le domeniche. Verlaine: Specialmente le nebbiose domeniche inglesi. Rimbaud: Ho sempre odiato la domenica. Anche a Charleville la odiavo. Si andava alla Messa Solenne, fila come... pinguini. Davanti, Vitalie e Isabelle. Poi, Frédéric ed io. E in coda, Madre Rimbe, la bocca delle tenebre. La gente ci segnava a dito. Lei ci faceva tenere per mano. Ho sempre sentito, contrariamente all’evi denza, che la morte di Cristo dovesse risali re alle cinque circa di domenica sera. (Silenzio). Verlaine: Gettami una pera. (Rimbaud eseguisce). Vuoi che mandi i tuoi saluti a Lepelletier? Rimbaud: No. (Silenzio). Adoro questo linguaggio. « Scorticare una pietra », per: essere spilorcio; « dire i pro pri grani », per: dire il rosario; Verlaine: « William George, di Castle Street, offre un'ampia e varia scelta di lettere fran cesi ». Andiamo a sentire George Odger que sto pomeriggio? Rimbaud: Chi? Verlaine: George Odger, repubblicano. (Legge da un volantino) « ... parlerà in favore degli alti dignitari di corte esonerati dalla carica e arrestati ». A Hyde Park. « Attenzione: non badate alle voci contrarie messe in circolazione e alle notizie false dei giornali ». Rimbaud: Non mi pare molto interessante. Verlaine: Almeno è gratis. (Silenzio. Rimbaud si accende la pipa). Siamo molto al verde al momento, lo sai. Rimbaud: Così continui a risparmiare. Verlaine: Non credi che sia giunta l'ora per noi di cercare un lavoro. Rimbaud: Ti ho detto altre volte, non ho inten zione di lavorare. Ho di meglio da fare per impiegare il mio tempo. Intendevo solo un impiego a mezza giornata nell’insegnamento o qualcosa del genere? cercarti un impiego, se lo desideri. Rimbaud: No. Non c’è nulla che ti impedisca di Verlaine: Non lo desidero, devo. Rimbaud: Bene, io no. Ad ogni modo... Non sta Verlaine: rò qui ancora per molto. Verlaine: Tu cosa? Rimbaud: La mamma ha proprio ragione nella sua lettera. Sarebbe meglio che io ti lascias si per un po'. Verlaine: Perché? Rimbaud: Ascolta, vuoi divorziare o no? Verlaine: No naturalmente. Rimbaud: Bene, Io farai. Glielo possono accor- dare per abbandono, sai, per non parlare di sodomia. Verlaine: Lo so. Rimbaud: Non voglio farmi immischiare in que sta faccenda. Verlaine: Ecco perché faresti meglio a restare qui. Voglio dire che se te ne vai ora sarebbe una confessione di colpevolezza, no? Ovvia mente. L’unica soluzione è di bluffare. Così ho detto a pelletier lettera di avvertire Mauté che siamo pronti a sotto metterci ad un esame medico, se lo desi dera. in questa Rimbaud: Sei pazzo? Verlaine: No, credi, mi sono espresso accurata Rimbaud: Supponi che dicesse di sì? mente... (Silenzio). Verlaine: Non lo farà. Rimbaud: Me ne vado la settimana prossima. Verlaine: Non potrebbe assolutamente. Rimbaud: Non crederai che abbia formulato que st’accusa per cercare un modo di ravvivare le lunghe serate invernali, vero? L’ha fatto perché lo sa. Verlaine: Sciocchezze, è stato un gesto teatrale. Rimbaud: Tu giudichi sempre la gente da un punto di vista letterario, il che significa che la tua valutazione della causa è generalmen te inesatta. Verlaine: In ogni caso, è lui che sta dalla parte del torto. Quante volte ho chiesto la restitu zione delle mie cose da casa sua, e le ha ancora lì. Rimbaud: Sei tu ad avere torto. Verlaine (improvvisamente, freddamente irato): D'accordo, sono io nel torto, se lo dici tu, quindi lo abbiamo stabilito, no? Adesso for se mi permetterai di andare avanti con la mia lettera e terminarla. (Rimbaud non risponde. Verlaine continua a scrivere). Rimbaud: Vogliamo perdonare Dio? Verlaine: Cosa? Rimbaud: Vogliamo perdonarlo per quello che ci ha fatto? 0 per quello che abbiamo fatto a noi stessi? Dato che è domenica. Verlaine: È responsabile? Rimbaud: O irresponsabile? Come scrittore, è forse mio dovere creare un mondo più pia cevole di quello creato da Dio? Verlaine: No, è tuo dovere creare un mondo che abbia qualche rapporto con la verità. Rimbaud: Posso farlo, e il mio mondo sarà co munque più piacevole di quello di Dio. Infat ti, non posso fallire, perché nel mio mondo il dolore non fa male. Verlaine: Ma il tuo mondo è solo una metafora. Rimbaud: Forse Dio si sarebbe dovuto accon tentare di una metafora. Verlaine: Usa metafore quando si sente incline. E la Crocifissione, allora? E la Resurrezione? Rimbaud: Puro nepotismo. Verlaine (sorridendo): Perché vuoi scherzare? Rimbaud: Mi va di farlo. Perché assumi il ruolo di avvocato di Dio? Verlaine: Mi va di farlo. Rimbaud: Strano, non trovi? intenzionalmente (Silenzio). E così, signore e signori, a dispetto della focosa arringa del difensore M. Paul Verlai ne, e degli speciosi nonché frivoli argomen ti di cui si è servito M. Arthur Rimbaud per l’accusa, la corte non ha altra scelta che dichiarare l’imputato, Dio, alias Jehovah, alias il Signore delle Ostie consacrate, col pevole di crimini contro l’umanità, e di con dannarlo all’assoluzione. Gli occhi mi bruciano. La corte è giunta a questa fantastica deci sione, signore e signori, per varie ragioni, se uno può pensare di razionalizzare ciò che sia irrazionale. Per prima cosa, si è dedotto dalle ripetute asserzioni dell’imputato che questi agì in modo miste rioso, nel mostrare che anch'esso era un corpo incapace di generare enigmi. Secon dariamente, l’imputato si è mostrato suffi cientemente privo di tatto da indicare impli citamente che come aveva creato la corte e tutti i suoi membri, altrettanto facilmente avrebbe potuto annientarli o addirittura pre cipitarli nel fuoco eterno in qualsiasi mo mento. Si è avuta la sensazione che questo volesse indicare un estremo disprezzo per la corte, ed è stato largamente responsabile della condanna alla massima pena. E punto terzo, è domenica, e la corte è annoiata. Partirò domenica prossima. Verlaine: Parliamone più tardi, vuoi? Rimbaud: Ne dubito. (Verlaine finisce la lettera). Verlaine: Naturale che non partirà oggi, anche se la imbuco. La posta è terribile in questo paese. Rimbaud: Sono già aperti? Verlaine: Andiamo a sentire Mr. Odger? Rimbaud: Beviamo, prima. Verlaine: Un momento, prima devo riempirmi lo stomaco. (Si versa un bicchiere di latte e beve). Ugh. È orribile. Mi sono sbagliato su Mauté. È di qualche aiuto alla nazione. Lo mungono per l’esportazione. (Ride e va a guardare fuori dalla finestra). C'è molta nebbia. (Si mette l'impermeabile). Una sera uscii per assassinare Napoleone III. Ero piuttosto ubriaco, e avevo deciso che le cose si erano spinte troppo oltre. Sfortuna tamente non ci sono mai riuscito. Verlaine: Ti rendi conto che ormai ci conoscia nove. (Si sorridono l’un l'altro con una certa tene rezza). S I P A R I O SCENA II 8, Great College Street, Londra; 3 luglio 1873. Un'altra anonima stanza d'ostello londine se. Verlaine sta aprendo una bottiglia di vino, Rimbaud è sdraiato sul suo far niente. letto, senza mo quasi da due anni? Rimbaud: Siamo già in autunno? Verlaine: No, no, estate. Rimbaud: Mi sembrano dieci. Verlaine: Non che uno possa notare la differen za in Inghilterra. Rimbaud: E quanto tempo è passato da quan do siamo tornati a Londra? Verlaine: Non più di cinque settimane. Rimbaud: Dio, la vita non finisce mai. (Verlaine versa del vino ne porta uno a Rimbaud). in due bicchieri, Verlaine: Molte cose possono succedere in due Rimbaud: Molte cose possono succedere in die ci minuti. Ma accade raramente. Verlaine: Comunque, sono passati meno di tre anni da quando mi sono sposato. Rimbaud: Avevo capito che non ne avresti più anni. Rimbaud: Ancora. Verlaine: Vattelo a prendere. Rimbaud: Stai diventando piuttosto drastico con l'età. (Si alza per versarsi ancora un po' di vino. Verlaine vaga con lo sguardo verso la fine stra). Verlaine: Sta ancora piovendo. (Silenzio). Hai ragione circa l’età. I prossimi che com pio sono trenta. Trenta. Che pensiero orri bile. Rimbaud: Disgustoso. Verlaine: Tu ti stai avvicinando. Quasi dician fiori, nuovi Rimbaud: Comincio a disperare. Verlaine: Perché? Rimbaud: Quand’ero giovane e dorato e infalli bile, vedevo il futuro con una certa chiarez za. Vedevo gli errori dei miei predecessori e credevo di vedere come si sarebbero potu ti evitare. Sapevo che sarebbe stato difficile, ma pen savo di aver solo bisogno di esperienza, e che mi sarei potuto tramutare nella pietra filosofale, e che avrei potuto creare nuovi colori e nuovi linguaggi e un nuovo Dio, e tramutare tutto in oro. Tu sarai, mi dicevo, adottando l’appropriato stile apo calittico, ingiuriato e perseguitato come tutti i profeti, ma alla fine trionferai. Ma presto mi resi conto dell’impossibilità di essere un profeta scettico. Se sei un pro feta puoi essere ottimista o pessimista co me più ti piace, ma non potrai mai essere minimamente in dubbio. E scoprii che mi ero torturato e avevo infierito sul mio cervello e frugato nelle mie viscere per scoprire qualcosa a cui la gente non credesse, o non desiderasse credere, o sarebbe stata pazza di credere. E con il lirismo deH'autocommi- serazione, mi rivolsi allo specchio e dissi, Signore, cosa posso fare, dato che non c’è amore nel mondo, né speranza, ed io non ci posso fare nulla, Dio, non posso fare di più di quanto tu abbia fatto, e sono nell’In ferno, tormentato dall’ilarità e prigioniero nella sterilità del paradosso. Non che non avessi detto tutto ciò prima. L’ho detto, e chiaramente si richiede un nuo vo codice. E in queste ultime settimane men tre tu puoi aver pensato, io me ne sono stato disteso qui in uno stato di paralisi in dolente, hai perfettamente ragione. Ma un nuovo sistema è risalito lentamente alla su perficie gorgogliando attraverso gli strati dell’indifferenza. Indurisciti. Rifiuta ogni ro manticismo. Abbandona la retorica. Cerca di capire le cose dal verso giusto. Ed ora ho capito e ho visto dove mi ha parlato. Verlaine: Stavo solo... Rimbaud: Bene, evita. Verlaine: Scusami. Rimbaud: Ancora. (Verlaine va a versargli dell'altro vino). Verlaine: Abbiamo passato dei bei periodi, però, non è vero? Ossia, siamo stati felici. Rimbaud: Quando? Verlaine: Lo sai. Persino tu devi ammettere a malincuore che a volte siamo stati felici. Rimbaud: Te l’ho già detto, sono troppo intelli gente per essere felice. Verlaine: Ricordo che una volta, mentre cerca vamo di dormire in un fossato in Belgio, mi dicesti che non ti eri mai sentito così felice in vita tua. Rimbaud: Vuoi gentilmente risparmiarci un’en nesima prova della tua falsa e decisamente disgustosa nostalgia. Verlaine: Perché trai così tanta gioia dall'essere Rimbaud: Ti assicuro che non provo affatto maggior piacere nel dolore che nel piacere. Verlaine: Sei diventato perversamente schiavo del pessimismo. infelice? simile? condotto ¡1 mio tentativo di conquistare il mondo. Verlaine: Dove? Rimbaud: Qui. La mia ricerca di un’esperienza universale mi ha condotto qui. A condurre una vita di povertà futile e senza scopo, come favorito di un poeta lirico calvo, brut to, alcoolizzato e che sta invecchiando per giunta, il quale si aggrappa a me perché sua moglie non vuole riprenderselo. (Silenzio. Verlaine è troppo stupito per par lare subito). Verlaine: Come puoi arrivare a dire una cosa Rimbaud: È semplice. È la verità. Tu sei qui, vivendo in questo modo, perché devi farlo. È la tua vita. Alcool, sesso e una certa com piaciuta malinconia e abbastanza denaro per sprofondarti nell’oblio ogni notte. Questo è il tuo limite. Ma io sono qui perché l’ho scelto. Verlaine: Oh davvero? Rimbaud: Sì. Verlaine: E perché precisamente? Rimbaud: Cosa intendi, perché? Verlaine: Per quale precisa ragione hai scelto di tornare a Londra con me? Qual è stata la base intellettuale della tua scelta? Rimbaud: È una domanda che continuo a ripe termi. Verlaine: Non vi è dubbio che tu la consideri un altro stadio della tua Odissea privata. Solo se ti immergerai sempre più nel pro fondo, se mi è lecito mischiare i miei miti, avrai il diritto di sfiorare le più alte vette del Parnaso. Rimbaud: La tua offensiva è stranamente coe rente questa mattina. Verlaine: La mia teoria contrasta con la tua. La mia teoria è che tu sei come Musset. Rimbaud: Cosa? Verlaine: Un paragone piuttosto provocatorio, i tuoi continui attacchi a non credi, visti quel disgraziato? Rimbaud: Spiegati. Verlaine: Ecco, voglio semplicemente dire che come Musset o uno di Musset, hai provato il mantello del vizio ed ora è incollato alla tua pelle. Sei ritornato qui con me perché lo desideravi e perché ne avevi bisogno. Rimbaud: Bene allora, è piuttosto originale da parte tua, anche se hai commesso il tuo solito sbaglio. Verlaine: E quale sarebbe? Rimbaud: Farti trascinare da un’idea perché è esteticamente plausibile piuttosto che effet tivamente vera. Verlaine: Oh, ci sono ragioni meno sottili per ché tu ti accontenti di me. Rimbaud: Ossia? Verlaine: Ossia il fatto che io ti mantenga. (Silenzio). Rimbaud: La tua mente è brutta quasi quanto il tuo corpo. (Silenzio. Si guardano. Verlaine lotta contro se stesso per un attimo, poi, improvvisamen te, si fa vacuo in viso e attraversa il palco- scenico a grandi passi). Rimbaud (a disagio)\ Dove vai? Verlaine: In cucina. È l’ora del pranzo. (Esce Verlaine. Rimbaud si versa un bicchie re tremando, e lo tracanna. Ha l’aria imbaraz zata. Un momento dopo, Verlaine entra di nuovo, con un’aringa in una mano e nell’al tra una bottiglia d’olio. Rimbaud lo guarda e poi scoppia a ridere. Verlaine risponde appena). Rimbaud: Dio, hai l'aria talmente idiota. (Verlaine non risponde. Invece, depone l'arin ga e la bottiglia d'olio sul tavolo, e percor re il palcoscenico a grandi passi, lontano dalla cucina). Dove vai? (Verlaine esce). Dove vai? (Appare spaventato e vulnerabile). S I P A R I O SCENA III Una stanza d'albergo a Bruxelles; 10 luglio 1873. Rimbaud sta facendo la valigia. Ha l'aria stanca e piuttosto triste. La porta si spalanca violentemente ed entra Verlaine. È ubriaco, che nel suo caso significa sovraeccitazione ed una certa belligeranza, più che incoerenza o instabi lità fisica. Rimbaud: Dove sei stato? Verlaine: Fuori. Sono andato, sono tornato al l’Ambasciata Spagnola, per vedere se voles sero cambiare idea. Ma non l'hanno fatto, è assurdo, è assurdo maledizione. Voglio combattere, ho detto, e morire per la vostra causa, non potete permettervi di mandar via volontari. Ma mi hanno risposto che non accettano stranieri. Allora, ho detto, meri tate di perdere questa maledetta guerra e ve lo auguro. Rimbaud: E sei stato tutta mattina all’Ambascia ta Spagnola? Rimbaud: Sei ubriaco. Verlaine: Mi sono fatto sì qualche bicchiere. (Silenzio. Verlaine si accorge che Rimbaud sta facendo le valigie). Cosa stai facendo? Rimbaud: Sto facendo i bagagli. Verlaine: Dove hai intenzione di andare? Rimbaud: Te l’ho già detto, torno a Parigi. E se Londra. mi dai gentilmente dei soldi per il biglietto, me ne vado questa sera. Verlaine: No, senti, ascolta, ce ne torniamo a Rimbaud: Non ritorniamo a Londra. Verlaine: Sì, guarda, ci ho pensato questa mat tina, è di gran lunga la cosa migliore. Rimbaud: Allora perché sei andato all’Amba sciata Spagnola? Verlaine: Non ci sono andato. (Silenzio). Rimbaud: Torno a Parigi. Verlaine: Non succederà più, senti, non ti pian terò più in asso in quel modo, te lo pro metto. Rimbaud: No, non lo farai. Verlaine: Non andartene. Aspetta solo un gior no o due e pensaci sopra. Rimbaud: Ci ho pensato sopra. Verlaine: Oppure, che ne dici di questo, ho avuto un'altra idea questa mattina. Ho pen sato che potrei andare a Parigi. Rimbaud: Cosa? Verlaine: Ho pensato che potrei andare a Parigi a cercare Mathilde. Rimbaud (dopo aver considerato la cosa): Bene, d’accordo, non m'importa di viaggiare insie me a te. Verlaine: No, no, tu staresti qui a Bruxelles. Rimbaud: Sei pazzo? Verlaine: No, non capisci, sarebbe certamente fatale se tu tornassi con me. Non mi ripren derebbe mai. potremo ritornare a Londra. Rimbaud: Dubito che lo faccia, in ogni modo. Verlaine: Bene allora, tornerò a Bruxelles, e Rimbaud: Sei completamente folle. Verlaine: Ti rendi conto di che giorno è domani? Rimbaud: Venerdì. Verlaine: È il mio anniversario, il nostro terzo anniversario. E non la vedo, mia moglie, da almeno un anno. Un anno fa, qui a Bruxelles, abbiamo fatto la vedo da allora. E non vedo mio figlio da più di un anno. Non vuole rispondere alle mie lettere. Sai che le ho scritto la settimana scorsa, dicendole che se non fosse venuta a Bru xelles entro tre giorni mi sarei suicidato? E non mi ha neppure risposto. l'amore, e non Rimbaud: Ah, ma allora non ti sei suicidato. Verlaine: tente. Immagino che tu lo giudichi diver Rimbaud: No, è pietoso. A quanta gente hai scritto dicendo che ti saresti suicidato? Mi meraviglio che non abbia spedito gli inviti. Verlaine: Come fai ad essere così insensibile? Insensibile? Mi abbandoni a Londra Rimbaud: senza un soldo e poi mi richiami a Bruxelles e ti aspetti che me ne stia in ballo mentre decidi se ritornare da tua moglie, arruolarti, o spararti. Poi, quando fallisci nel raggiungi mento di queste mete, cosa inevitabile, pre tendi che torni nuovamente a Londra. Non lo farò. È finita. Ti lascio. Verlaine: Non puoi. (Passeggia su e giù per un momento). Dov’è la mamma? Rimbaud: Qui accanto, immagino, nella sua stanza. Le ho chiesto un po' di denaro, ma non voleva darmelo fino al tuo ritorno. Vado a richiederglielo. Verlaine: No, no, aspetta un momento. Guarda, te li dò io i soldi. Voglio solo parlarti un minuto. (Passeggia su e giù, sorride nervo samente a Rimbaud). Caldo, vero? Credo che possiamo ricominciare. Non penso che sareb be troppo difficile ritornare alle origini. So che è colpa mia, tutti i problemi che abbia mo avuto recentemente, ma è solo a causa di Mathilde, perché ero ancora innamorato di Mathilde. È finita con lei adesso, so che la vedrò più. Guarda, è estate. Non non ricordi l’estate scorsa, quando partimmo, che bello che fu. Ricordo delle serate... Non c’è bisogno di tornare a Londra se non lo vuoi. Possiamo andare al Sud. Estate inol trata sul Mediterraneo, si può vivere con poco là, non avremmo bisogno di lavorare, potremmo dedicarci al caldo. O l’Africa, po tremmo andare in Nord Africa, so che hai sempre desiderato andare in Africa. Solo per un mese e poi decidi. Guarda il sole. (Lungo silenzio). Rimbaud: No. Verlaine: Perché? Rimbaud (dolcemente): Non posso. Non serve a nulla. È troppo tardi. Verlaine: No, non lo è. Ti assicuro che non lo è. Sai che se mi lasci mi uccidi. Non posso sopportare di stare solo. Non esi ste senza qualcun altro. Non mi importa se stai con me per pietà, basta che tu resti. Rimbaud: Non posso. Verlaine: Perché? Cosa posso dirti di più per farti rimanere? Non ti importa? Hai idea di cosa significhi questo per me. Rimbaud: Oh, per Dio, smettila di lamentarti. (Silenzio. Verlaine va a guardare fuori della finestra. Si asciuga il sudore della fronte con un fazzoletto). Verlaine: Fa molto caldo. Rimbaud: Fossi in te mi leverei il mantello. Verlaine: È quello che farò. (Si sfila il cappotto, si dirige verso la porta e lo appende). Sono andato per commissioni questa mattina. (Estrae qualcosa dalla tasca, e si volta verso Rimbaud). Ho comprato una pistola. (Punta la pistola in direzione di Rimbaud). Rimbaud: Per farne che? Verlaine: Per te. Per me. Per tutti. Rimbaud: Spero avrai comprato munizioni a suf ficienza. (Verlaine sposta una sedia davanti alla por ta, e si siede a cavalcioni, puntando la pi stola su Rimbaud oltre lo schienale della sedia. Rimbaud si appoggia alla parete oppo sta, sorridendo). Verlaine: Non ti lascerò andare, sai. Rimbaud: Bene, ecco un numero abbastanza divertente. Non ci è mai stato presentato prima. Verlaine (grida forte)-. Ti ucciderò! Rimbaud: Stringiti bene i calzoni. Verlaine: Ti sei scordato di ciò che hai detto (Silenzio). nella tua lettera? Rimbaud: Quale lettera? Verlaine: La lettera che mi scrivesti la setti mana scorsa, il giorno dopo che ti avevo lasciato. Rimbaud: Non ha alcun rapporto. Verlaine: Oh, sì, ce l’ha. Chiedevi perdono. Mi imploravi di tornare. Dicevi che la colpa era tutta tua. Che mi amavi. Che tutto sarebbe andato bene in futuro. Dicevi che stavi pian gendo mentre scrivevi. Potevo vedere le lacrime sulla carta. Rimbaud: Ebbene, non avevo soldi, no? Questo succedeva prima che mi venisse in mente di impegnare i tuoi vestiti. (Verlaine balza in piedi, tremando di rabbia. Alza la rivoltella e spara su Rimbaud, poi, apparentemente stordito dal rumore del col po, spara di nuovo al suolo. Rimbaud si stringe il polso destro, che fissa con stupore e disgusto, mentre il sangue gli inonda la mano. Quando Verlaine gli si avvicina, lo schiva). Verlaine: Oh, Dio, perdonami, non intendevo. Rimbaud: Guarda cosa hai fatto. Verlaine: Scusami, non volevo. Rimbaud: Guarda. (Verlaine scoppia a piangere. Tenta di dare la pistola a Rimbaud). Verlaine: Oh, per l'amor di Dio, uccidimi, ucci dimi, spara. Rimbaud: Cosa? Verlaine: Sparami. Rimbaud: Come faccio, frocio idiota, mi hai appena bucato una mano. (Un bussare furioso alla porta e una voce femminile grida: Paul, Paul... Verlaine lascia cadere la rivoltella. Rimbaud comincia a ri dere istericamente). Verlaine: Oh Dio, cosa ho mai fatto? Rimbaud: Hai mancato il bersaglio. (Oscuramento). S I P A R I O SCENA IV Bruxelles, 10-19 luglio 1873. Questa scena è stata costruita da frammenti del processo con tro Verlaine. Da una parte del palcoscenico Rimbaud giace a letto, con in un bendaggio. Verlaine è seduto dall’altro lato del palcoscenico, Il magistrato, giu dice Théodore T’Serstevens, e il suo cancelliere viaggiano da una parte all’altra del palcosce nico. Quando la scena si apre, il cancelliere sta scrivendo la dichiarazione di Rimbaud. il braccio tribunale. in Rimbaud: ... Quando la ferita fu bendata, ritor nammo tutti e tre in albergo. Verlaine mi chiedeva continuamente di non lasciarlo e di rimanere con lui; ma io rifiutai di accettare e lasciai l’albergo circa alle set te di sera, accompagnato da Verlaine e sua madre. Non lontano dalla Place Rouppe, Ver laine ci precedette di qualche passo e poi si voltò verso di me: lo vidi infilarsi la mano in tasca per prendere la pistola, così mi girai e me ne andai via. Incontrai un uffi ciale di polizia e gli dissi cosa mi fosse successo, ed egli invitò Verlaine ad accom pagnarlo al centro di polizia. Se Verlaine mi avesse lasciato partire libe ramente, non lo avrei citato in giudizio per la ferita inflittami... (Il cancelliere attraversa il palcoscenico per raggiungere il giudice e Verlaine). Il cancelliere (legge): Deposizione di Mme Ver laine, madre dell’imputato: per circa tre anni M. Rimbaud è vissuto a spese di mio figlio, che ha avuto spesso l’occasione di lamen tarsi del suo carattere malevolo e vendi cativo... Dopo che la sua ferita fu curata all’Ospedale Saint-Jean, Rimbaud espresse il desiderio di fare ritorno a Parigi, ed io gli diedi 20 fran chi, perché non aveva denaro. Poi, andando alla stazione, chiese all’ufficiale di polizia di arrestare mio figlio, che non gli serbava rancore ed aveva agito in un mo mento di distrazione... (Pausa. Verlaine si alza). Verlaine: Giuro di dire tutta la verità e nien- t ’altro che la verità, con l’aiuto di Dio e di tutti i Suoi Santi. Il giudice: Avete avuto precedenti condanne? Verlaine: No. Il giudice: Qual è il motivo della vostra pre senza a Bruxelles? Verlaine: Speravo che forse mia moglie sarebbe venuta a raggiungermi qui, come aveva già fatto altre volte dopo la nostra separazione, il giudice: Non riesco a capire come la partenza in tale del vostro amico potesse gettarvi Verlaine: Si dice sodomita... (Pausa. Il giudice ed il cancelliere attraver sano interrogare Rim- baud). il palcoscenico per Rimbaud: Giuro di dire tutta la verità e nien- t ’altro che la verità, con l’aiuto di Dio e di tutti i Suoi Santi. Il giudice: Di che cosa campavate a Londra? Rimbaud: Principalmente del denaro che Mme Verlaine mandava a suo figlio. Insegnavamo anche francese insieme, ma questo non ren deva molto, forse una dozzina di franchi alla settimana verso la fine. Il giudice: Siete a conoscenza delle ragioni dei dissenzi fra Verlaine e sua moglie? Rimbaud: Verlaine non voleva che sua moglie continuasse a vivere nella casa del padre. Il giudice: Ma non era forse anche contraria alla vostra... amicizia con Verlaine? Rimbaud: Sì, ci accusa persino di relazioni im morali; ma non credo proprio che valga la pena preoccuparsi di negare queste asser zioni. (Pausa. Il giudice e il cancelliere ritornano al Tribunale, dove la deposizione finale di Rimbaud, mentre si affievoliscono le luci). il cancelliere legge Il cancelliere: disperazione. Non esistevano fra voi e Rim- baud rapporti diversi da quelli di amicizia? Verlaine: No, questa è una calunnia inventata da mia moglie e dalla sua famiglia per nuo cermi; sono stato accusato di questo nella richiesta di divorzio di mia moglie. Il giudice: Ma i medici hanno dichiarato che in base ai loro esami sono certi che recente mente abbiate praticato sodomia, sia attiva che passiva. Verlaine: Sì. Il giudice: Dunque negate di essere un sodo- mito praticante? ... lo, sottoscritto, Arthur Rim baud, anni 19, uomo di lettere, abitualmente domiciliato a Charleville (Le Ardenne, Fran cia), dichiaro verità che giovedì, 10 c.m., nel momento in cui M. Paul Verlaine mi sparò ferendomi lievemente al polso destro, M. Verlaine era in un tale completo stato di ubriachezza, da non essere responsabile del le sue azioni. Sono assolutamente convinto che quando comprò la rivoltella, M. Verlaine non avesse alcun proposito ostile nei miei riguardi, e che nella sua azione non ci fosse alcuna criminale premeditazione; che la cau sa della ubriachezza di M. Verlaine si rife risse semplicemente alle difficoltà con Mme Verlaine, sua moglie; dichiaro inoltre che desidero ritirare ogni processo penale o cau sa civile contro di lui, e che da oggi rinuncio a qualsiasi vantaggio da atti che possano essere portati contro M. Verlaine dal Pub blico accusatore, nati da questa faccenda... Il giudice: ... L'accusato, Paul-Marie Verlaine, è rinviato a giudizio al tribunale criminale, accusato per l'articolo 399 del Codice Pe nale, di aggressione grave. L’interrogatorio preliminare è chiuso... Il cancelliere (nell'oscurità): Paul-Marie Verlai ne, la corte vi dichiara colpevole di aggres sione grave e vi condanna a un’ammenda di 200 franchi e due anni di reclusione. S I P A R I O SCENA V La Foresta Nera, vicino a Stuttgart; 28 feb braio 1875. Il sipario si alza su di un palcosce nico vuoto. La scena ispira l'idea di una radura nel bosco vicino a un torrente. Suoni di risate fuori campo. Subito entra Rimbaud, vestito un po’ meglio che nelle scene precedenti. È sera. Chiaro di luna. Rimbaud: Da questa parte. (Ride. Entra Verlaine). Quando è successo, ad ogni modo? Verlaine: Agli inizi di questo mese. io ci il Padre Superiore ed (Rimbaud ride di nuovo). Rimbaud: E ti cacciarono via? Verlaine: Assolutamente no. Dopo una settima na trovammo d’accordo che quella non era proprio la vita per me. Rimbaud: Questo quadra. (Si accovaccia per terra e si accende la pipa di creta). E cosa ti ha spinto a credere di essere adatto a diventare un monaco trappista? Verlaine: Non lo so. Forse la nostalgia della pri gione. Fu terribile uscirne, sai. Mi ero abi tuato alla tranquillità e alla routine, mi trat tavano molto bene, ed ero sobrio e in grado di produrre del buon lavoro. Poi, quando uscii senza nemmeno riuscire a vedere l'av vocato di Mathilde, per non parlare di Ma- thilde, pensai che la cosa migliore da farsi fosse di... ritirarmi. In un monastero, a vi vere una vita semplice e tranquilla con Dio. Rimbaud: Ma si risolse in un ordine assoluto. Cominciando dal bere. Verlaine: Ti ho detto che mi sono abituato ad Rimbaud: Sono lieto di constatare che la situa essere sobrio in prigione. zione non sia del tutto irreversibile. Verlaine: Bè, questa notte è diverso. Questa notte è una celebrazione. È davvero... ma gnifico rivederti. (Pausa). Spero che non ti sia mai passato per la mente... che ce l’avessi con te. Rimbaud: No. Verlaine: Voglio dire, so che non avevi idea che mi potessero tenere rinchiuso per così tanto tempo, io ti ho certamente... perdo nato questo. Rimbaud: Davvero? Verlaine: Oh, sì. Rimbaud: Io non ho perdonato te. Verlaine: Per cosa? Rimbaud: Per aver mancato il bersaglio. (Verlaine ride a disagio. Silenzio). Verlaine: È molto piacevole qui. Rimbaud: Im Schwarzwald. Verlaine: Come va il tuo tedesco? Rimbaud: Prospera. (Silenzio). Verlaine: Non molto caldo, vero? Rimbaud: Perché sei venuto qui? Verlaine: Cosa? Rimbaud: Voglio conoscere la ragione della tua venuta qui. Verlaine: Ecco... per vederti, naturalmente. Vo levo parlarti, discutere alcune cose con te. Rimbaud: Vuoi che ci amiamo nel nome di Ge sù, giusto? Verlaine: Bè... Rimbaud: Va bene, ti ascolto, parla. Verlaine: È molto difficile parlare seriamente se ti dimostri così aggressivo. Sono cambiato, sai. Rimbaud: Vai avanti, parla seriamente, non far caso a quel che dico. Un missionario deve essere preparato a trovare l’aggressione ne gli ignoranti. Parlami della tua conversione. Fu un po' un caso? C'era una voce cele stiale, che ti parlava dall'alto, dicendo: « Paul, Paul di Bruxelles, sei il mio suddito del quale sono scontento, cosa proponi di fare? ». Ho sempre desiderato imbattermi in una voce celestiale. Verlaine: Recentemente mi è venuto in mente che la tua rabbia e il tuo disgusto provano quanto tu sia pronto per la conversione. E comunque penso spesso che tu creda in Dio. Anche una volta, quando scrivevi « Porco Dio » negli orinatoi di Parigi, dovevi avere una fede. Non puoi bestemmiare se non credi. Rimbaud: No, sbagli. Non potresti bestemmiare se nessuno credesse. I tuoi sentimenti per sonali non hanno nulla a che vedere. Verlaine: Voglio solo che tu segua il mio esem pio. Il giorno della mia conversione fu uno dei più felici della mia vita. Era il giorno che il governatroe venne a dirmi che Ma- thilde aveva ottenuto la separazione legale. Rimasi disteso e ripensai alla mia vita, e non c’era niente, niente. Mi sembrò che l'unica cosa che potessi fare fosse di con segnarmi a Dio, e chiedergli di perdonarmi, ed aiutarmi ad affrontare la mia situazione. E mi ascoltò. Ti assicuro che mi ascoltò. Rimbaud: (gentilmente): Non parliamone più. Verlaine: Perché no? Rimbaud: È pericoloso. Verlaine: Ma voglio che tu trovi una direttiva nella tua vita. Voglio che Dio ti aiuti a rag giungere i tuoi scopi. Rimbaud: Scopi? Non ho scopi. Verlaine: Va bene, intendo i tuoi scritti. Rimbaud: Ho smesso di scrivere. Verlaine: Come? Rimbaud: Ho smesso di scrivere. Verlaine: Non capisco... Rimbaud: Bene, te lo espongo diversamente: non scrivo più. Verlaine: Sì, ma perché? Rimbaud: Perché non ho più niente da dire. Se mai ho avuto qualcosa da dire per comin ciare. Verlaine: Come puoi dire una cosa simile? (Rimbaud ride dell'infelice scelta di parole di Verlaine). Come puoi? Rimbaud: Bene, come saprai, ho iniziato la mia vita come un autonominatosi visionario, e creatore di una nuova letteratura. Ma col passar del tempo, impiegavo sempre di più per scrivere sempre di meno, e riguardando alcune delle assurdità dei miei primi lavori, alcune delle quali giudicavo così belle subito dopo averle scritte, mi resi conto di quanto fosse inutile continuare. Il mondo è troppo vecchio, non vi è nulla di nuovo, tutto è già stato detto. Ciò che può essere espresso con le parole non vale la pena di renderlo in parole. Verlaine: Vale sempre la pena di rendere la Rimbaud: La verità è troppo limitata per riuscire verità in parole. interessante. Verlaine: Cosa intendi dire? La verità è infinita. Rimbaud: Se ti riferisci alla verità che ti si rivelò in prigione tramite un angelo del Si gnore, puoi sbagliarti. Dopo tutto, che cosa ti fa pensare che sia più vera delle tue vedute alquanto differenti che proclamavi con uguale certezza tre anni fa? Verlaine: Bè, ovviamente uno si evolve. Rimbaud: E tu ti sei evoluto? Verlaine: Sì. Rimbaud: Allora, qui nella solitudine della fore sta, ti sottopongo ad una scelta archetipica: la scelta fra il mio corpo e la mia anima. (Lungo silenzio). Verlaine: Cosa? (Lungo silenzio). Rimbaud: Scegli. Verlaine: Il tuo corpo. (Silenzio). Rimbaud: Vedi, le novantotto ferite del Nostro Salvatore sanguinano e bruciano. Verlaine: Ti prego. Rimbaud: Così non sei venuto qui a convertirmi. Verlaine: No. Rimbaud: E il guanto di ferro nasconde il pugno di velluto. (Verlaine si dirige verso Rimbaud, e gli toc ca la spalla). No. (Silenzio). Così Dio è finito per diventare un povero sostituto di Mathilde e mio, soffrendo, come soffre, di certi sensibili svantaggi. Verlaine: Sicuramente i miei peccati riguardano la mia coscienza. Rimbaud: Sì, se ne avessi una. Verlaine: In ogni caso, perché dovresti preoc Rimbaud: Perché detesto la tua miserabile debo Verlaine: Vincere la mia coscienza è debolezza? cuparti? lezza. 0 forza? (Silenzio). Verlaine: Per favore. (Rimbaud colpisce Verlaine con violenza, stordendolo. Lo colpisce di nuovo, attenta mente e metodicamente, finché non crolla in un ammasso disordinato. Rimbaud lo rad drizza quasi con tenerezza, poi lo guarda dall’alto per un momento). Rimbaud (piano): Addio. (Esce). S I P A R I O SCENA VI Un caffè a Parigi; 29 febbraio 1892. Siamo nel tardo pomeriggio e il caffè piuttosto squal lido, non è molto gremito. Ecco che entra Ver laine. Adesso ha 47 anni, ma ne dimostra molto di più, una derelitta carcassa di carne. Gli abiti sono corretti, come nella prima scena della commedia, ma consumati e cenciosi. Ha un bastone da passeggio, e zoppica molto, trasci nandosi dietro la gamba sinistra. Lo accompa gna Eugénie Krantz, che ha più o meno la sua stessa età. È una prostituta che avanza con l'età, grassoccia e molto poco attraente. Il suo accento sembra la rozza parodia di quello di Rimbaud. Verlaine: Sera. (Qualche risposta borbottata. Insieme a Eu génie siede a uno dei tavoli). Dell'assenzio, per favore. Per due. (Il barman fa un cenno col capo, versa da bere dietro il bar). Dio, come sono stanco. Eugénie (ridacchia): Non mi sorprende. Verlaine: Sei bella, Eugénie. Eugénie: Lo so. (Ride raucamente). Verlaine: Non lasciare nessuno dirti il contrario, lo ti trovo bella, quindi sei bella. (Il barman porta le bevande). Barman: Qualcuno è stato qui a cercarvi questo pomeriggio, M. Verlaine. Verlaine: Chi? Il barman: Una giovane donna. Verlaine: Una giovane donna? II barman: Bhè, sui trent’anni, credo. Mi è sem brata molto desiderosa di vedervi, così le ho detto che vi avrebbe sicuramente trovato più tardi, e mi ha risposto che sarebbe ritor nata. Ha detto che si trattava di una cosa molto importante. (Il barman si allontana). Un momento... che aspetto aveva? Il barman: Oh, non male, monsieur, niente male. Verlaine: Grazie. (Silenzio). Eugénie: Chi è? Rimbaud: Non essere assurdo. Verlaine: Ma non vedo contrasto fra l'amare Dio e l'amare te. Rimbaud: Dai, torniamo indietro. Verlaine: No, ascolta, me ne sono stato seduto nella mia cella a pensare quanto amore avessi in me, e quanto potremmo essere felici, dovrebbe essere facile, dovrebbe es sere la cosa più facile al mondo, perché non lo è? funzionerà mai per nessuno di noi due. Rimbaud: Non è mai andata bene fra noi. E non Verlaine: Ma sì che funzionerà. Perché dovresti pensarlo? Perché sei così distruttivo? Rimbaud: Probabilmente perché non provo più compassione per te. Verlaine: Non provi più nulla per me? Rimbaud: Solo un blando disprezzo. Verlaine: Ma come puoi cambiare così? Com’è possibile? Rimbaud: Non lo so. Verlaine: Volevo che ce ne andassimo insieme. Rimbaud: Sì. Verlaine: Cosa farai? Rimbaud: Finirò di imparare il tedesco. E poi lascerò l'Europa. Da solo. Verlaine: Ed io? Rimbaud: Dovrai andartene e cercarti qualcun altro. con le braccia). Ti prego. Rimbaud: Lasciami andare. (Verlaine si aggrappa a lui. Rimbaud parla, come ha fatto durante quest'ultimo scambio, con grande stanchezza). Lascia. Verlaine: Non posso. Ti prego. (Cinge Rimbaud Verlaine: Grazie. Verlaine: Cosa? Eugénie: Chi è? Verlaine: Come faccio a saperlo. Eugénie: Non può essere Ester, è troppo gio vane per essere lei. Dunque dev'essere qual- cun'altra. Verlaine: Ti ho detto che non vedo Esther da quando sono uscito dall'ospedale. Eugénie: Mi hai detto! Chi è? Verlaine: Non lo so. (Silenzio). Dev’essere una faccenda di affari. Eugénie: Affari, eh? Verlaine: Sì. Ti sarei grato se mi lasciassi par larle da solo quando arriva. Eugénie: Oh, è fantastico. Magnifico. Dovrei andarmene a sedere da sola, vero, mentre tu parli alle tue nuove ragazze? Verlaine: Ti assicuro che non so chi sia, e se è una faccenda d'affari, preferirei parlarle da solo. Eugénie (minacciosa): Vado a parlare a quel me. signore laggiù. Verlaine: Bene, devi fare quel che più ti piace. Eugénie: Forse si dimostrerà un po' più rispet Verlaine: Ancora due, per favore. toso di te. (Silenzio). (Il barman si avvicina, e serve le bevande). Puoi darmi un po’ di denaro, per favore? Eugénie: Eh? Verlaine: Non ho denaro con me. Eugénie: Bene, non venire a chiedere soldi a Verlaine: Ascolta, Eugénie, non mi sento molto bene, e non voglio discutere con te. Dunque vuoi deciderti a darmi gentilmente dei soldi? Eugénie: Non ha lavorato oggi. Verlaine: Non mi sono sentito bene. Eugénie: Bene, se non lavori, non puoi preten dere di essere pagato. Verlaine: Senti, sono soldi miei. Eugénie: Non lo sarebbero per molto se ti lasciassi metterci le mani sopra. Verlaine: Ne voglio solo un po'... Eugénie: No. (Isabelle Rimbaud entra. Ha 31 anni, vestita molto dignitosamente in lutto, ha già qual cosa della zitella. Vi è una certa somiglianza fra lei e suo fratello, ma questo si nota di più quando parla col dolce accenno provin ciale di Rimbaud. Si fa avanti e scambia una parola col barman, che le indica Verlaine. Questi sta ancora litigando con Eugénie vio lentemente sottovoce). Verlaine: Sentimi bene, Eugénie, se non mi con segni immediatamente il denaro ci saranno guai, capisci? Eugénie: Non ho denaro con me. Così ti toc cherà farne a meno, ti pare? Verlaine: Mi stai facendo infuriare davvero. Eugénie: Ad ogni modo ecco la tua fidanzata, dall'aspetto per lo meno. Dunque ti lascio. (Si alza, poi si piega in avanti e parla in un velenoso sussurro). E se non ritorni questa notte, troverai le tue cose per strada. (Lo lascia, e mentre sta parlando a Isabelle, rag giunge uno degli uomini seduti ad un tavolo in fondo al palcoscenico. Verlaine si alza, e si volta per salutare Isabelle). Isabelle (provando)-. M. Verlaine? Verlaine: Ai vostri ordini, mademoiselle. Isabelle: Sono Isabelle Rimbaud. Verlaine: Come? (si accascia sulla sedia). Isabelle: Sono Isabelle Rimbaud. La sorella di M. Arthur Rimbaud. Verlaine: Naturalmente, ehm, naturalmente, se detevi per favore, mademoiselle. Dovete scu sare la mia maleducazione, ma ho difficoltà a stare in piedi, ho... delle noie al ginocchio. (Isabelle si siede). Ho avuto, abbiamo avuto la tragica notizia un paio di mesi fa. Non riuscivo a crederci, era così giovane. E poi era stato dichiarato morto prima, sapete, prima. Sono rimasto profondamente... colpito dalla sua morte, pur non avendolo visto per così lungo tempo. Isabelle: Non avevo idea se aveste saputo. Verlaine: È vero... è vero che dovette farsi amputare la gamba? Isabelle: Sì. (Silenzio). Arrivo subito al punto, M. Verlaine, non ho molto tempo. Verlaine: Gli assomigliate un po’, sapete. Gli occhi... non sono diversi dai suoi. Isabelle: Così dicono. Verlaine: Volete bere qualcosa? Isabelle: No grazie infinite. A dir la verità è per affari che sono venuta da voi. M. Vanier mi ha detto che forse potreste essermi utile. Verlaine: Bene, farò quel che posso. Isabelle: Il giorno che mio fratello morì, fu pub blicato a Parigi un volume delle sue poesie, no? Verlaine: Vi riferite a « Il Reliquiario »? Isabelle: Esattamente. La pubblicazione non era stata affatto autorizzata, e portava una pre fazione anonima piena delle più oltraggiose e diffamatorie asserzioni, che voleva essere una biografia di mio fratello. Mia madre ed io ci siamo molto dispiaciute. Verlaine: Sì, bè, ehm, penso che dobbiate par lare a M. Genonceaux di questa faccenda. È l’editore. Isabelle: Lo so. Non sono riuscita a contattare M. Genonceaux. Verlaine: Ad ogni modo, il libro è stato ritirato dalla circolazione adesso. Isabelle: Lo so. Ma mia madre ed io siamo ansiose di evitare che qualcosa del genere si ripeta in futuro. E. M. Vanier ha detto che forse voi sareste in condizione di aiu tarci. Verlaine: lo? E come? Isablele: Ecco, ho sentito dire che siete in pos sesso di un gran numero di manoscritti di mio fratello. Verlaine: Ne ho... alcuni, sì. Isabelle: Mia madre ed io vi saremmo molto grate se li restituiste. (Silenzio). (Silenzio). Verlaine: Ho sempre... usato la più grande discrezione in tutto ciò che riguardasse vo stro fratello. Credo di poter affermare che ho sempre difeso i suoi interessi. Da quan do il suo nome cominciò ad essere cono sciuto, molti giornali e riviste hanno stam pato contraffazioni, sapete, e mi sono reso responsabile di mettere fine a ciò e di assi curarmi che tutto quello che viene pubbli cato a suo nome sia effettivamente suo. Isabelle: Non sapevo che fosse tanto cono sciuto. Verlaine: Oh, sì. Isabelle: Questo rende ancor più vitale il fatto che raduniamo tutti i suoi manoscritti. Forse dovrei spiegarvi le nostre intenzioni. Sapete che si convertì prima di morire? Verlaine: Convertito? Isabelle: Sì. Ragionai con lui e pregai per lui settimane quand’era malato e circa una quin dicina di giorni prima di morire, chiese di essere confessato. Dopo di ciò pregammo insieme tutti i giorni, e il cappellano disse di non aver mai incontrato una fede forte come quella d'Arthur. Sapete, malgrado le tragiche circostanze, il giorno che Arthur chiamò il cappellano fu uno dei più felici della mia vita. Verlaine: Così prese gli estremi Sacramenti? Isabelle: No, sfortunatamente non riuscirono a dargli la Comunione, perché non poteva mandar giù niente, e temevano che ci potes se essere un sacrilegio involontario. Ma ho la certezza che la sua anima si sia salvata. ironia): Dev'essere stato un Verlaine (senza grande conforto. Isabelle: Sì. Ad ogni modo, capite ora l’impor tanza che mia madre ed io ci impossessia mo dei suoi scritti. Verlaine: Ehm...? Isabelle: Il fatto è, M. Verlaine, per parlare francamente, che un certo numero di poesie che scrisse quand’era terribilmente giovane fossero un po'... indecenti, ed in alcuni casi persino profane. Non avrebbe mai desiderato essere ricordato per quelle. Mia madre ed io intendiamo separare il frumento dalla ziz zania, e distruggere quei suoi lavori che sen tiamo lo avrebbero distrutto. Verlaine: Capisco. Isabelle: Ci ha meravigliato, infatti, che le poe sie ne « Il Reliquiario » valessero una pub blicazione. Abbiamo pensato che siano state pubblicate solo per motivi di guadagno. Sa rebbe interessante sapere chi abbia incas sato i diritti d'autore. Verlaine (con aria colpevole)\ Sì... bè, ehm, non saprei dirvelo. Isabelle: Ecco il biglietto da visita di mia ma i manoscritti dre. Forse potreste mandare a quest'indirizzo. Verlaine: A dir la verità, Vanier ed io avevamo in progetto un’edizione completa dell'opera di Rimbaud. Isabelle: Sì, così mi ha detto M. Vanier. Verlaine: Bene, non credete che ci sia... spazio nella nostra edizione per i lavori di cui par lavate? Voglio dire, sicuramente la sua con versione diventa ancor più sorprendente se vista in rapporto... ad alcune delle cose che scrisse quand'era giovane. Isabelle: Sono sicura che queste considerazioni saranno ricordate. Verlaine: Sì, sì, naturalmente... Isabelle: Mi chiedo se posso avere il vostro indirizzo, così da poter mettermi in contatto con voi se necessario. Verlaine: Ecco, io... non ho un vero recapito, mademoiselle. Passo molto tempo in ospe dale, vedete, e il mio indirizzo pare... va riare assai spesso. sia tutto, M. Verlaine. Isabelle: Capisco. Bene, mi sembra che questo Verlaine: Mi è venuto in mente, che se volete i manoscritti di Rimbaud, mia moglie potreb be esservi di aiuto. Isabelle: Vostra moglie? Verlaine: Sì. Continuo a considerarla mia mo glie, benché mi si dica che abbia approfittato del principio conforme aN’Amministrazione Statale, ed abbia sposato un altro. Non la vedo da allora, da prima... da circa vent’anni. Ho passato degli anni cercando di convin cerla a mandarmi i manoscritti e le lettere di Rimbaud. Non so dove viva ora, ma imma gino la troverete se ve lo proponete. Forse avrete più fortuna di me. Isabelle: Sì. Grazie. Verlaine: È una donna spregevole e cattiva. Sapete che mio figlio compie ventun anni quest’anno, e non lo vedo da quando aveva otto anni? Isabelle: Temo di dover andare, M. Verlaine, vorrei tornare in albergo prima che si faccia buio. Verlaine: Aspettate. Per favore. Un momento. Mi domando se, prima di andare, poteste dirmi qualcosa di... vostro fratello. Vedete, l'ultima volta che lo vidi, a Stuttgart, deve essere stato circa diciassette anni fa, quan- d’era là ad imparare il tedesco. Dopo le no tizie erano così vaghe. Si diceva fosse in Abissinia, si diceva fosse morto, e più tardi vivo, ed ogni genere di chiacchiere. Mi chie do se sareste solo così gentile da... riem pire i vuoti con qualche dettaglio, ecco tutto. Isabelle: Non so se ci sia molto da dire. Viag giava. Fu per qualche tempo un consulente edilizio a Cipro, poi si spostò ad Aden e si impiegò presso una ditta commerciale. Fon dò un nuovo spaccio per loro in Abissinia circa cinque anni fa, che amministrava e seguiva lui stesso. Verlaine: Ma come morì? Isabelle: Aveva un tumore al ginocchio. Verlaine: Ciò è molto strano. Isabelle: Perché? Verlaine: Perché è quello che ho io, un... tumore al ginocchio. Isabelle: Sarebbe andata bene se se ne fosse curato prima, se non fosse stato così dedito al suo lavoro. Non vi era alcun dottore lag giù, ma insistette a rimanere finché il dolore non divenne insopportabile. Dopo di ciò, im piegò due mesi per tornare a Marseilles, e gli amputarono la gamba: ma a quel punto era troppo tardi per poter fare qualcosa per lui. Verlaine: Che orrore. Isabelle: Infatti, dopo l’operazione peggiorò. Pro varono a mettergli una gamba di legno, ma non vi riuscirono. Avevano dovuto amputare troppo in alto e il moncone non riusciva a tollerare il peso. Diceva, dopo l’operazione, continuava a dire che se avesse saputo come sarebbe stato, non se la sarebbe mai lasciata amputare. Odiava talmente l’ospe dale che alla fine di luglio se ne andò e tornò a casa. Isabelle: Quando arrivò a casa Verlaine: Era solo a Marseilles? Isabelle: Ah sì. La mamma vi si recò per l’ope razione, ma non poteva permettersi di rima nere con lui, perché si avvicinava all’epoca del raccolto. (Lo scoppio di una rauca risata di Eugénie) le cose non andarono troppo male all’inizio, ma poco tempo dopo la sua salute cominciò a dete riorare. Perse l'uso del braccio destro, e il male si spargeva ed aumentava. Il dottore gli dava le droghe per calmare il dolore ed egli cominciò a delirare. Ricordo una notte che mi svegliai a causa di un frastuono ter ribile proveniente dalla sua stanza. Mi preci pitai lassù e trovai mio fratello disteso per terra faccia in giù, nudo. Mi disse di aver aperto gli occhi e visto l’alba e che era ora di andare a guidare la carovana d’avorio e di muschio verso la costa. Era ora di partire, e saltò giù dal letto... Dopo di ciò, rifiutò la droga per molto tempo. Trascorreva giornate intere piangendo. Verlqjne: Ma credevo fosse morto a Marseilles. Isabelle: Sì, rimase a casa solo un mese. Se ricordate, fu una brutta estate: pioveva e c’era nebbia, e le messi erano rovinate dalla brina. Continuava a dire che voleva ritornare al sole, e che il sole lo avrebbe guarito, e alla fine partì per Marseilles ed io andai con lui. Aveva in mente di continuare per Aden, ma quando arrivammo là era troppo ammalato, e rientrò in ospedale. Vi rimase quasi tre mesi prima di morire, la paralisi si diffuse gradatamente, e un grosso tumore apparve all’interno del moncone. Provarono ogni genere di cose, massaggio, trattamento elettrico, ma non servì a nulla. Credo che Dio lo mantenne in vita abbastanza da pen tirsi, così che potesse trovare la salvezza. Verlaine: Sì. L’ultima volta che ci incontrammo, a Stuttgart, parlammo di religione, lo mi ero appena convertito, e tentai disperatamente di convincerlo della verità. Forse lo aiutai in un certo senso. (Silenzio. Eugénie esce sottobraccio con l ’uomo con cui aveva parlato). Isabelle: Fu solo quando stava per morire che mi resi conto che era un poeta. Quando deli rava, parlava così dolcemente e meraviglio samente, che persino i dottori venivano ad ascoltare. Spesso quello che diceva non ave va significato, era strano e confuso, e a volte parlava in arabo, ma in quei momenti sembrava facilissimo di capire. Rimase in coma per quasi tutta l'ultima settimana, ma il giorno prima di morire si rianimò un poco, e dettò una lettera a una compagnia di piro scafi, per fissare un posto per Aden. Desi derava talmente il sole. Verlaine: Ha mai... immagino non abbia mai parlato di me. Isabelle: No. Il più delle volte parlava di Djami, il suo servo in Abissinia, in effetti gli lasciò persino del denaro nel suo testamento. Verlaine: Era molto tempo fa. Isabelle: Si sta facendo buio. Devo andare. Verlaine: Ciò nondimeno... (Isabelle si alza in piedi, e Verlaine, dappri ma allarmato dal suo movimento, si solleva faticosamente in piedi). Isabelle: Addio, M. Verlaine. (Si stringono la mano). Verlaine: Non volete che vi accompagni al vo stro albergo? Isabelle: No, non vi preoccupate. Verlaine: Siete sicura? Isabelle (formalmente): È stato un onore incon trarmi con un così insigne poeta. Verlaine: È stato un piacere conoscere voi, ma demoiselle. Isabelle: Avete il biglietto da visita di mia ma i dre, vero? Non dimenticate di mandarci manoscritti di Arthur. Verlaine: No. Isabelle: Addio, monsieur. Verlaine: Buona notte. (Esce Isabelle. Verlaine siede. Per un mo mento vi è un assoluto silenzio. Poi strappa il biglietto da visita di Mme Rimbaud, sorri dendo un poco a se stesso). Eugénie? Dove sei? Dell’assenzio. Due, per piacere. (Il barman versa assenzio nei due bicchieri che erano già sul tavolo. Verlaine beve). Era molto tempo fa. Ma ricordo la prima volta che lo vidi. Quella sera nella sala dei Mauté. Quando entrammo, era in piedi di spalle, che guardava fuori dalla finestra. Si voltò e parlò, e poi lo vidi, e rimasi sbigot tito di quanto fosse bello. Aveva sedici anni. Da quando è morto mi appare ogni notte. Il mio grande e radiante peccato. (Entra Rimbaud, vestito come nella prima scena, ma più sicuro nei movimenti, sorri dente, bello, flessibile. Siede al tavolo di fianco a Verlaine e si sorridono a vicenda). Dimmi se mi ami. Rimbaud: Sai che ti voglio molto bene. Siamo stati molto felici a volte. (Silenzio). Mi ami? Verlaine: Sì. Rimbaud: Allora metti le mani sul tavolo. (Verlaine eseguisce). Il palmo in su. (Verlaine gira le mani col palmo in su. Rim baud le osserva per un momento, e poi si piega a baciarle. Quindi si alza, sorride a Verlaine, ed esce. Vi è un lungo silenzio). ricordo. Verlaine: Siamo sempre stati felici, Sempre. Lo ricordo. (Verlaine siede solo in una macchia di luce, che svanisce lentamente mentre parla). Eugénie? Ciò che amo in una carne vecchia e triste è la gioventù che vi sussurra intorno. Amo i suo ricordi di gioventù. Ricordo la nostra prima estate, com’era fe lice, felice della mia vita. Vagando attraverso il Belgio, mangiando rape e accoccolandoci nei fossi. Non è morto, è intrappolato e vive dentro di me. Finché io vivo, lui ha un tipo di vita incerta e limitata. Sono sempre le stesse parole e gli stessi atti, immagini: cammino dietro di lui attraverso un erto campo arato; sono il periodo più le stesse seduto a parlargli in una stanza all’imbru nire, finché riesco a distinguere il suo pro filo e la sua mano espressiva; disteso sul letto all’alba lo guardo dormire e vedo come nervosamente la sua mano sfiora la guancia. Lo ricordo in una notte e lui vive. Dell'assenzio. Sei lì? Eugénie? Ci sei? (Buio). S I P A R I O APPENDICE Tradotta una delle ultime lettere di Rimbaud a sua sorella. Marseilles, 15 luglio 1891 Mia cara Isabella, ... passo giorno e notte a torturarmi, cer cando di pensare al modo di tirare avanti. Vo glio fare tante cose, vivere, andare via di qua: ma è impossibile, sarà impossibile per mesi se non per sempre. Non riesco che a pensare a queste dannate grucce: senza di loro, non posso fare un passo, non esisto. Non riesco neppure a vestirmi senza la più incredibile ginnastica. È vero che posso correre adesso con le mie gruc ce; ma non posso andare su e giù dalle scale, e se il suolo non è allo stesso livello diventa molto faticoso spostare il peso da una spalla all'altra. Ho tuttora una dolorosissima nevralgia nel braccio e nella spalla destra, e come se non bastasse, le grucce mi tagliano le ascelle. La gamba destra mi fa anche molto male e la cosa peggiore è di dover comportarsi tutto il giorno come un acrobata per esistere in qualche modo. Mia cara sorella, ho pensato a che cosa avesse realmente causato la mia malattia. Il clima ad Harah è freddo da novembre a l’abitudine di portare marzo. Non avevo mai indumenti: solo un paio di pantaloni di molti tela e una camicia di cotone. Inoltre spesso camminavo dagli 11 ai 40 chilometri al giorno, guidando pazze carovane attraverso paesaggi ripidi e montuosi. Credo che mi si sia svilup pato un male artritico a causa della stanchezza, del caldo e del freddo. Tutto cominciò con la sensazione di un colpo di martello che mi col piva di tanto in tanto sotto la ginocchiera. L’ar ticolazione era molto asciutta e avevo le coscie rigide. Poi le vene intorno al ginocchio si gon fiarono, così da farmi pensare che fossero vari cose. Continuai a camminare e a lavorare più del solito, pensavo fosse solo un colpo di freddo. Poi il male all’interno del ginocchio peg- lavoro la mia gamba stecchita. Ogni giorno inzuppata nella porcheria che formava giorò, ogni passo che facevo pareva che mi si piantasse un chiodo. Camminavo ancora, ma diventava sempre più difficile; allora presi l’abi tudine di cavalcare, e ogni volta che smontavo, mi sentivo completamente storpiato. In seguito la parte dietro del mio ginocchio si gonfiò, la ginocchiera divenne molto carnosa, così pure la cresta tibiale. Il sangue non circolava bene, e i nervi mi vibravano dalle caviglie fin su per la schiena. Non potevo camminare senza zoppica re visibilmente, e non facevo che peggiorare. Ma avevo ancora parecchio importante da fare. Cominciai a fasciarmi tutta la gamba, a massaggiarla, a lavarla, e così via, ma era inutile. Persi l’appetito. Soffrivo di una costante inson nia. Mi indebolii e dimagrii molto. Circa il 15 marzo, decisi di stare a letto fra la mia scri vania e le mie carte e la finestra, così che potevo tenere d'occhio la bilancia in fondo al cortile, e pagai della gente perché si occupasse degli affari mentre io me ne stavo sdraiato lì con il ginocchio mi si gonfiava di più finché fu come una grossa palla. Notai che la parte dietro della tibia era molto più grossa in alto che nell'altra la ginocchiera, gamba. Non potevo muovere era il gonfiore, che, con mio grande orrore, diventò duro come un osso in pochi giorni. Una setti mana più tardi, tutta la gamba era rigida, non riuscivo affatto a piegarla; dovevo trascinarmi per terra per andare al cesso. Nel frattempo il mio polpaccio e la coscia diventavano sempre più magri, mentre l'articolazione del ginocchio si gonfiava, s’induriva, e pareva trasformarsi in osso; e fisica e psichica aumentava. Alla fine di marzo decisi di partire. Vendetti tutto in pochi giorni, rimettendoci; e dato che la rigidezza e il male mi impedi vano di cavalcare un mulo o persino un cam mello, mi feci costruire una lettiga col tetto fatto di veli, e affittai 16 uomini, che impie garono due settimane per condurmi a Zeyla. Nella seconda giornata di viaggio, ci eravamo spinti molto oltre la carovana, e fummo sorpresi da un temporale nel mezzo del deserto. Rimasi sdraiato per sedici ore sotto un'acqua torren ziale, senza un riparo e alcuna possibilità di movimento; ciò mi fece molto male. Al ritorno non fui mai in condizione di uscire dalla barella. Sistemavano la tenda sopra di me dovunque succedesse loro di fermarsi. Scavavo un buco con le mani vicino al bordo della lettiga, mi trascinavo accanto ad esso con grande diffi- la mia debolezza toglievano la terra. La mattina dopo coltà, mi sollevavo, e poi lo riempivo di nuovo con la tenda; mi portavano via. Arrivai a Zeyla esausto e paralizzato. Lì mi riposai solo quattro ore prima che il battello partisse per Aden. Mi piazzarono sul ponte sul mio materasso, dopo avermi issato a bordo nella lettiga, e fui co stretto a sopportare tre giorni di mare senza mangiare. Poi impiegai qualche giorno a siste mare le cose con M. Tian e andai in ospedale dove inglese mi suggerì, quindici giorni dopo, di riprendere il largo per l’Europa. Sono assolutamente sicuro che se il male nella giuntura fosse stato curato subito, sareb be facilmente guarito e non ci sarebbero state conseguenze. il dottore Ma non avevo idea della serietà della cosa, e rovinai tutto insistendo con le lunghe cam minate e il duro lavoro. insegna medicina a scuola, la gente non Perché non si almeno quel che basta perché commetta stupidi errori? Se qualcuno, nella condizione in cui mi tro vavo allora, venisse a chiedermi un consiglio, gli direi: per quanto disperato sia, non accettare mai l’amputazione. Se muori, sarà sempre me glio che vivere con un arto in meno. La gente spesso rifiuta, e se avessi un’altra occasione, 10 farei. Meglio soffrire le torture dell'Inferno per un anno che lasciarli amputare! Ad ogni modo, ciò si è verificato. Ed ecco 11 risultato. Il più delle volte sto seduto, ma di quando in quando, mi alzo, zoppico un centinaio di Yarde circa sulle mie grucce, e poi mi siedo di nuovo. Ho le mani che non riescono a impu gnare strettamente. Quando cammino, non pos so distogliere gli occhi dal mio piede solitario e la punta delle grucce. La testa e le spalle mi si piegano in avanti e assomiglio a un gob bo. Mi spaventano le persone e le cose che si muovono intorno a me, nel caso mi urtino e mi rompano l’altra gamba. La gente mi osserva sal tellare e ridacchia. Quando mi siedo di nuovo, ho le mani indebolite, le ascelle ammaccate, l’espressione vacua. Dispero; e siedo qui, com pletamente senza in attesa della notte, che mi porterà la stessa infinita insonnia fino all’alba di un giorno ancora più infelice di quello precedente. Così vado avanti. forza, piagnucolando, e Scriverò ancora presto, i saluti più cari, Rimbaud / . / \0 CO* .9 ° Roberto Lerici: Il t e a t r o è s e m p r e e s p e r im e n to Secondo il mio parere non esiste da ormai dieci anni almeno nessuna crisi di autori di teatro. Anzi, semmai si verifica in Italia il fenomeno opposto, quello della quantità anche superflua, di proposte d’« autore ». Meglio così, comunque. Se poi si parla di autore, nel senso clas sico di scrittore di testi da pubblicarsi a parte e che do vrebbe avere una validità anche editoriale, allora il pro blema diventa di impossibile soluzione. Non è nel presente che si può sapere cosa rimarrà di quanto scritto « a tavolino ». Una cosa è certa: il teatro lo si può scrivere a tavolino, in palcoscenico, al cesso, purché sia una proposta attiva e in qualche modo ne cessaria, almeno per chi lo mette in scena. Questa condi zione è quella più volte fraintesa, dello « sperimentare ». Qualsiasi testo è nato sempre come « sperimentale », e il teatro è sempre esperimento, proposta azzardata, tentativi di scandalo. Il resto è maniera, ripetizione, nella miglio re delle ipotesi « commento ». In questo senso la struttura generale di una cultura teatrale viva vede degli operatori ben differenziati nella Nello Saito: F u c ilia m o l'a u to r e ? Fuciliamo l’autore? Non ancora, ma esco di fresco da un’operazione compiuta ancora una volta sulla mia pelle. È stato dato a Roma « Il maestro Pip », già rappresen tato con successo in molte città italiane. Regia di Mario Ricci. Ma qui a Roma, nonostante ogni mio avvertimen to, lo Stabile ha voluto aggiungervi un testo-documento di Abraham, « L’uomo col magnetofono », che teatrale non loro ricerca, piuttosto che « movimenti » unitari. Se si dovesse fare una mappa dell’attuale situazione italiana, ve dremmo una notevole quantità di proposte in atto, o ac quisite, che coprono un vasto e interessante spazio. Che poi ci siano fenomeni di provincialismo, di cattive imita zioni, mescolate con folgoranti proposte individuali, questo è naturale in un campo così particolare come il teatro. Personalmente ho imbarazzo e difficoltà a parlare e di scutere di una cosa così poco seria come il teatro, forse perché ci sono dentro fino al collo e i problemi di realiz zazione mi impegnano più di quelli di teorizzazione. D’altra parte, i temi stessi di cui si nutre il teatro attuale sono quelli legati alla sua crisi di identità, alla sua funerea sopravvivenza, alla sua credibilità, all’uso stesso dei suoi mezzi, siano essi gesti o parole, alla sua morte scenica, nella grande mistificazione dell’attore-creatore, o alla disciplina glaciale dell’attore-collettivo, alla capacità di reinventare il linguaggio ogni volta, o all’uso di mate riali verbali per segnalare la disperazione e il rifiuto di una comunicazione ricattatoria, o alla grandezza della pro pria piccola agonia moltiplicata per cento piccole morti quotidiane. Se è questa la crisi dell’autore vuol dire che questo teatro vive la sua verità sociale, come è sempre stato, ogni qual volta il teatro è stato specchio deformato della realtà. è e neppure scientifico ,e ciò in omaggio a quel provincia lismo culturale che vede avanguardia (specie nella produ zione estera) anche la’ dove essa è soltanto retroguardia. Così il mio testo è stato compresso, ridotto ad una semi poltiglia; agli attori è stata imposta una recitazione fre netica, al limite del comprensibile. E mentre l’interesse pubblico era falsamente pilotato sul secondo testo (stam pa, foto, dibattiti etc.) il povero Pip, a differenza delle altre città italiane dove aveva provocato discussioni, po lemiche, è rimasto a brandelli, con il suo pubblico (e le belle scene di Previtera e, i magnifici costumi di Rita Corradini) a difendersi da solo. Successo sì, e molto, ma come quasi increduli che l’autore fosse ancora lì con la sua pervicace non-morte ad infastidire coloro che devono fare, e subito, altre « operazioni », sforacchiando per l’ennesima volta Shakespeare o incollando due Brecht in uno. Eppure il tema del « Pip » era di attualità: Ordine e Produttività, un tema tabù, lo so. Altro che datato; sono tutti « datati » i temi che non piacciono agli orecchi dei mercanti. Cosi la Famiglia in « Fix », la Scuola ne « I Cattedratici », la Vecchiaia da sterminare in « Copione »... Tutti temi però che il pubblico vorrebbe discutere, non per nulla i miei testi sono richiesti da decine di com pagnie giovani in provincia. Ma in città, agli Stabili no: va osservato il Silenzio, come se il Parlamento ■— tolto l’audio — si trasformasse in una recita di sordomuti. Ora io sostengo che l’autore italiano è la prima vit tima di questo stato di cose, che noi con la nostra pigrizia nazionale permettiamo. Anche se fucilato, egli risorge, per ché non si potrà mai fare a meno di lui, nella illusione che i testi li scriva Nessuno o il Popolo. Ma per ora l’autore si trova stretto in questo circolo vizioso. Non è protetto dallo Stato (non parliamo di au tarchia, per carità!) né dagli Enti che continuano a sov- venziare manipolazioni di classici gabellati per novità ita liane; non dalla maggioranza della stampa (con eccezioni: Jacobbi, De Monticelli, Prosperi...) perché in genere non dibatte a fondo i contenuti dei testi, la politica degli Sta bili verso gli autori italiani, continuando a ripetere il ri tornello che l’autore italiano non esiste. E questo le sta anche bene: meno responsabilità, meno grattacapi. Andiamo avanti con Goldoni e Pirandello, sino al duemila!, perfetto. So bene che il problema non è di facile soluzione. Ma almeno creiamo le premesse per l’eventuale (ipotetica) ri nascita dell’Autore, quando in Europa e fuori essa è una realtà. Non bastano i soldi dell’IDI se l’autore, conosciu to o (ancora peggio) sconosciuto non è aH’interno o in contatto di strutture teatrali già esistenti. Anche i premi teatrali — ce ne sono ormai diversi — dovrebbero mirare solo alla rappresentazione, a far conoscere teatralmente i testi, altrimenti sono soldi o copioni buttati via. Ma non ci si dica che quei pochi autori viventi si rifugiano dietro la scrivania. Chi scrive questo non vuol considerare i mil le tentativi andati a vuoto, le ripulse avute da chi vuol solo verificare sulla scena la sua profonda convinzione che il teatro si scrive, si attua solo sul teatro. Ma come? I no ricevuti da Pasolini cinematografaro esordiente sono nulla al confronto. O la verità non è piuttosto la vecchia, che il teatro per la sua incensurabile vitalità, la sua scarsa manipolabilità mette ancora paura? All’Ovest e ancora più all’Est, com’è noto. Fialke è rimasto il solo testimone muto a Praga di un teatro che non esiste più. fio sempre sostenuto del resto che il teatro italiano contemporaneo non è contemporaneo. Non inventa favole Franco Scaglia: L 'a u to r e , m o m e n to d i u n m o n ta g g io Fino a qualche tempo fa in Italia esisteva una ristret tissima schiera di autori teatrali. Alcuni sopravvissuti al teatro borghese del ’30, altri occasionali, rappresentati per poche sere e poi immediatamente abbandonati. E il teatro d’oggi, ha anch’esso paura. Il cinema, e ora il libro, po tranno consegnare ai posteri (o già agli stranieri) un volto meno evanescente della storia di questi anni e il teatro di regìa non potrà mai — da solo — colmare questo vuoto. In più la gestualità — che ha una creatività specifica che non si oppone alla creatività specifica del teatro di Parola, come riconosce anche Ricci, non può essere istituzionaliz zato al punto di pretendere di chiamarsi il solo Teatro, il Teatro Nuovo in contrapposizione a un Teatro Vecchio (che non si sa bene quale sarebbe, forse quello di tutti gli Stabili che vorrebbe occupare « manu militari? »). Ora questo è terrorismo culturale bell’è buono. Capi sco che al Potere di qualsiasi colore la gestualità possa convenire; meno comprensibile è che la gestualità ad ol tranza trovi l’appoggio della sinistra ufficiale che in pa tente contraddizione con programmi e ideologie proprie, affetta amori avanguardistici esibiti come progressivi là dove essi sono spesso datati, in fondo, reazionari. Comun que, lo schematismo tra Silenzio, Gesto e Parola è incon sistente; è un equivoco culturale che fa solo comodo a colle ganze mafiose, non già accettabile da una critica avvertita. Insistere in spettacoli elitari, inaccessibili ai più, impernia ti sullo sberleffo e Pammiccamento vendendoli per « po polari » (niente è più « popolare » ancor della Parola, di ceva Pasolini) significa respingere il pubblico ancor più nello spettacolismo televisivo. È diseducazione politica, e soprattutto noia. Un’ultima osservazione: la professionalità. L’autore, co me lo spettatore ha ormai diritto a un minimo di profes sionalità. D’accordo, non ci sono scuole sufficiente per gli attori (i registi, gli scenografi), e quelle che ci sono (l’Ac cademia di Arte Drammatica, per esempio) sono osteggiate, mal finanziate. Ma ormai navighiamo nel velleitarismo più impudico. Non basta avere una idea per scrivere una com media, ma neanche per fare una regia o per recitare una parte. Per un Bene che eccelle, e giustamente, ci sono mille che beneggiano. Recitano tutti alla stessa maniera. Per cui ve l’urgenza che il boom teatrale italiano in città e in provincia non sia un’occasione perduta. Va nutrito, in canalato; una civiltà teatrale non si crea con contrapposi zioni schematiche, né con (spesso giuste) rivendicazioni sindacali e nemmeno con le migliaia di tesi di laurea in Storia del Teatro (la nuova moda, il nuovo diploma di pianoforte) che distribuiscono le Università. È un’azione politico-culturale da portare avanti con i tempi della cul tura ma con la collaborazione di tutte le componenti (stam pa compresa). Non può essere né equivoca né compromis soria. L’ « Italia », è bene ricordarlo, è stata un’ « inven zione » culturale prima che una realtà storica. Vogliamo cancellarla? Non proseguire questa « invenzione » del fu turo? E chi la farà se non (anche) gli autori? nazionale aveva solo due nomi di « prestigio »: Eduardo De Filippo e Diego Fabbri. Poi molti narratori improvvi samente si convertirono a scrivere commedie, o d’avanguar dia o tradizionali, sull’onda Sello straniamento, della cru deltà, della disumanizzazione, deH’ovvietà. Ma la maggior parte delle nuove commedie odorano di stantìo. Allora, in Italia, quasi nessuno sa scrivere per il teatro? « ... In effetti per poter lavorare su un testo in condi zioni ideali bisogna considerare morto l’autore » diceva so litamente Luchino Visconti. Il fatto è che se da una parte gli scrittori si mettono a scrivere per il teatro, dall’altra pensano che comporre un testo sia possibile a tavolino, come un romanzo. Ma scrivere per il teatro significa vive re il palcoscenico, soffrirlo, conoscerlo perfettamente, dap prima, per poi magari sconvolgerlo. Da noi non avviene e non avviene nemmeno il dialogo continuo tra autore e regista, e quelle parole di Visconti hanno ancor oggi una scottante attualità. Lui almeno parlava chiaro! Molti registi invitano oggi i giovani scrittori a compro mettersi di più. Compromettersi su che? Per che cosa? Con quali basi? Su una tradizione che manca perché man cano le adeguate strutture ad esprimerla? Non si può in vocare o aspettare l’arrivo di un Pinter, per esempio, per ché Pinter esce da una tradizione teatrale e agisce in un contesto vivo ed esistente. Per cui l’invito ai narratori a scrivere per il teatro mi sembra assurdo e il disinteresse nel quale si sta svolgendo la rassegna degli autori italiani promossa dall’Idi (pur con intelligenti risultati: si vedano lo spettacolo di Moretti-Salveti e quello di Mazzucco-De Sica) lo dimostra drammaticamente. Invece ci dovrebbe essere un altro genere di invito: lavorare tutti insieme a modificare le strutture, e dopo, all’interno di nuove strut ture, produrre. Altrimenti il lavoro diventa lavoro fine sé stesso, senza soluzioni, inutile. Si tratta di instaurare un rapporto totalmente nuovo. Rinunciando a molte delle esperienze passate. E individuare la differenza che c’è tra lo scrivere per il teatro e lo scrivere un romanzo. Per scrivere un romanzo, sia il romanzo realista o fan tastico, psicologico o d’azione, lo scrittore affonda nel pro prio interno, all’interno di tutto ciò che costituisce il suo mondo intellettuale, e inizia un dialogo che deve essere chiaro, limpido dialogo dell’affondare e del riprodurre tale affondare. Sarà poi il procedimento della narrazione che porterà alla dimensione realistica o a quella fantastica. E quel procedimento avviene a luci spiegate o spente, nel chiasso o nel silenzio, in riva al mare o in ufficio, su una montagna o su un treno. Ma vale per la sua capacità di totale astrazione e come riproduzione di quell’accordo di verità che è il risultato del dialogo tra sé stesso e la realtà che è in fondo alla propria esperienza, lungamente filtrata e che ora sta lì, materia pronta ad attendere il modo di uscire ed esprimersi. Attende la sua scrittura. In questo momento l’uomo diventa narratore, nel senso che narra ri producendo su fogli, quel dialogo. Quei fogli diventano Romanzi. Romanzo che non ammette altro intervento che non sia quello dell’uomo divenuto narratore, Romanzo che perché sia davvero Romanzo necessita di continua media zione e di continuo approfondimento. Necessita di solitu dine e di infinite riletture. La cui unica verifica è appunto tale rilettura e il conseguente affondare continuo e isolato. Poi il narratore avrà bisogno di una casa editrice, ma sarà necessità affatto strumentale, avrà cioè bisogno di un mer cante che sappia imporre ai lettori il Romanzo, oppure che sappia imporlo a pochi perché il Romanzo sarà destinato a pochi, o sarà Romanzo da attaccare come manifesto ai mu ri o da bruciare dopo averlo scritto. In ogni caso quel dia logo e il suo risultato espresso, questo è Romanzo. Ma tale rapporto diretto non c’è proprio più quando lo scrittore si mette a comporre per il teatro. Al linguag gio del romanzo, linguaggio che lo scrittore medita appena inizia il dialogo con sé stesso, si sostituisce una pluralità di linguaggi che lo scrittore di teatro deve assolutamente saper maneggiare, proprio brutalmente. Quel linguaggio che riempie del tutto la ricerca del narratore, in termini tea trali ha scarsissima importanza. È momento di una pluralità linguistica, momento che implica e impegna solo la prima fase della stesura, che è destinato a mutare di continuo, non più per intervento solo dello scrittore. Così la scrit tura teatrale è unione di scenografia, dialogo, gesti, urla, musica, luci. Accade che il narratore si trovi disorientato e pensi di poter usare in teatro la stessa tecnica del ro manzo. Così non è sufficiente segar tavole e piantare chiodi, come scrisse un pò ingenuamente Dacia Maraini qualche anno fa, perché vivere nel teatro implica soprattutto la ricerca di una pluralità linguistica che.si può ottenere solo dopo essersi scrollate di dosso quelle necessità di isola mento totale dalle quali dipende il romanzo. Isolamento totale del proprio interno, dico. Il sé stesso deve diven tare forza di movimento e mutamento, forza che non si appoggia semplicemente a un dialogo personale, ma alla luce, all’attore, al regista. Un corpo unico è il risultato finale. Ma lo scrittore deve rinunciare a tanti suoi privilegi. Non più essere un solitario cervello, divenire invece parte di un cervello più grande, momento necessario, ma non indispensabile, momento pronto continuamente ad essere modificato. Momento di un montaggio. È un processo lun go e faticoso che presuppone umiltà e disposizione e abne gazione. Ma secondo me è la sola e seria possibilità di lavoro. Mario Moretti: U n p ite c a n tr o p o e r e tto ? Qualche mese fa, su « La Stampa » di Torino, deflagrò a scoppio ritardato lo polemica sull’autore italiano d’oggi: o meglio, sulla di lui assenza. L’avvio a questa preistorica « querelle » l’aveva dato un celebre divorziato dal teatro, oggi critico da tavolo-design tv, il quale aveva sposato il teatro ufficiale, tempo fa, dopo un breve fidanzamento cantinaro e quindi se n’era presto separato per incom patibilità di carattere e reciproca incomprensione. L’allarme dato non era un fuoco di Pagliarani: intorno al clan dei Siciliano s’erano radunati, da Milano a Parise, altri letterati e scrittori ed elzeviristi e senza alcun Garboli avevano dato mano ai Manganelli e giù mazzate al povero teatro italiano contemporaneo. Ucciso il teatro, all’ora del le esequie si era presentato vestito di nero e con gli oc chiali a lutto il più grosso critico teatrale italiano (altezza 1,90): Cordelli Franco Cordelli critico-non-critico di « Pae se-Sera » e/o tenace assertore del non-teatro realizzato da non-registi con la collaborazione di non-attori (e per il non-pubblico). Il Cordelli, franco come sempre nelle sue non-incertezze, s’era accodato al funebre corteo come la prevertiana lumaca ai funerali della foglia morta: quella che s’avviò in autunno dietro il feretro ed arrivò in pri mavera, quando le foglie erano già bell’e rinate, infatti, il Francone sagrestano non aveva ancora finito di battere il batocchio che già suonavano le trombe della rinascenza. Mentre i critici — gli altri, quelli che contano — decre tavano il ritorno alla parola e il recupero del teatro d’auto re, contro la crisi evidente dei valori della sperimentazione, Cordelli s’era allineato ai nastri d’arrivo. Chi scriverà un giorno della tempestività dei nostri cronisti teatrali? La statistica di oggi parla chiaro: la stagione romana è tutta all’insegna dell’autore italiano contemporaneo, e non solo al Teatro in Trastevere — spazio quest’anno ad hoc deputato — ma anche al Valle, al Quirino, al Teatro Tenda, al Flajano, al Leopardo, al Pavone. Due commedie di Angelo Dallagiacoma, due e passa di Diego Fabbri, tre-quattro tra novità e riprese di Giovanni Testori, due- tre tra novità e riprese di Roberto Lerici, due-tre tra no vità e riprese dello scrivente, una novità di Dacia Marami, una novità di Massimo Castri, una novità di Vittorio Fran ceschi, e ancora, commedie di Maurizio Costanzo, di Fran co Molé, di Roberto Mazzucco, di Nello Sàito, di Mario Prosperi, di certo Nino Marino; e il Gassman che si butta a capofitto sull’ « Affabulazione » di Pier Paolo Pasolini; e il Dario Fo che deborda perfino dall’ostracistico scher mo TV con il suo teatro, dopo che Rie e Gian... insomma, teatro italiano in gran quantità. Quantità, ho detto: e non entro in merito alla qualità. Questo è affare dei critici. E Cordelli, su « Paese Sera », scrive che l’autore italiano è un genere estinto e data la sua cronaca di dieci anni avanti per divertirsi a dichiarare che nel lontano 1977 assi stette alla « prima » di uno degli ultimi rappresentanti de gli autori italiani, una razza ormai in estinzione. Ma allora questi dinosauri, questi pitecantropi eretti che ho appena elencato (senza ordine e con la cattiva coscienza di involontari oblìi) chi sono? Si estinguono o non si estinguono? Com’è che questi animali del secondario o mesozoico e del terziario o cenezoico continuano a vivere in piena era quaternaria, a fianco alle forme dei mammiferi superiori della sperimentazione già sì cara ai « critici spe rimentali » che sperimentano — sugli altri — la loro ca pacità di fare critica? Ho l’impressione che nella nostra èra teatrale la fi gura di certi critici appartenga come curiosa sopravvivenza all’epoca azoica; quella senza vita, per intenderci. In quan to ai nostri « letterati » romanzieri ed arbasini — pardon, elzeviristi — la loro arretratezza teatrale non fa meraviglia. Il dissidio fra teatro e letteratura dura — ed è duro a morire — dall’epoca crociana. Ed i nostri « letterati », si sa, si dividono ancora in crociani e post-crociani. NOTIZIARIO TEATRO La dotazione del premio nazionale di teatro « Fondi-La Pasto ra » è stata portata a due milioni di lire. La giuria è composta, anche per la quarta edizione, da Lino Chlnaglia, Elsa De Giorgi, Gaio Fratini, Aldo Giuffré, Mario Maranzana, Ruggero Jacobbi, Alfredo Mezio, Domenico Purificato, Guido Ruggero, Ferruccio Ulivi, Franco Portone. Il premio sarà assegnato al vincitore il 30 luglio 1978 nel corso di una manifestazione pubblica patrocinata dal comune di Fondi. ■¥■ È stato annunciato dall'Istituto del Dramma antico il calenda rio del venticinquesimo ciclo di rappresentazioni classiche, che si svolgeranno nel teatro greco di Siracusa dal 1° al 25 giugno prossimo. Verranno rappresentate « Le coefore » di Eschilo ed « Elena » di Euripide. Rossella Falk ha ricevuto il premio « Pistoia Teatro » assegna to dal Gruppo Amici del Vallecorsi. Il premio, costituito da un busto di bronzo del premiato realizzato dallo scultore lorio Viva- relli, viene assegnato al termine della stagione teatrale a mezzo referendum tra gli iscritti al gruppo, riferito agli spettacoli pro grammati nei teatri « Manzoni » di Pistoia, « Metastasi » di Prato e « La Pergola » di Firenze. -¥- Al ritorno dagli Stati Uniti, dove ha lavorato in un film per la regia di Altman « Quintet », Vittorio Gassman riprenderà le repliche di » Affabulazione » di Pasolini al teatro Manzoni di Mi lano. La tournée che toccherà anche Genova, Torino, Trieste, si concluderà il 28 maggio a Firenze. Subito dopo, l'attore passerà alla realizzazione del progetto di dare di « Affabulazione » anche una versione cinematografica, della quale sarà regista e prota gonista, la cui lavorazione dovrebbe cominciare verso la fine dell'estate. Promosso dal « Teatro di Roma » si è svolto al teatro Argen tina un seminario sul teatro Elisabettiano, curato da Agostino Lombardo, dell'Istituto di Letteratura inglese e americana. Il pri mo argomento affrontato è stato « A piacer vostro » di W. Sha- kespeare, in un incontro-dibattito con attori, registi, ed operatori della Compagnia Teatro Stabile dell'Aquila. ■¥■ È stato inaugurato a Roma, in Via dei Coronari, un nuovo teatro, ■< Il Parnaso », diretto da Benedetto Margiotta. La sala seicentesca, cappella gentilizia degli Orsini, già molti anni fa era stata adibita a teatro con il nome: « Alcazar ». Vi recitarono, fra gli altri, Petrolini e Fanfulla. Per i martedì del teatro Eliseo, il 17 gennaio si è tenuta una serata pirandelliana dedicata alla genesi e alla storia dell'» Enrico IV » nel teatro e nel cinema. Hanno partecipato alla serata Ro molo Valli, ultimo e ottimo interprete del famoso dramma di Pirandello e Gabriele Tozzi. La documentazione sulla fortuna del- l'« Enrico IV » comprendeva alcuni inserti sonori, tra cui le voci di Ruggeri (al quale Pirandello dedicò la tragedia), di Picasso e di Randone. Inoltre si è avuta la proiezione del film muto di Amleto Palermi del 1926 « Die Flucht in die Nacht » (La fuga nella notte »), più noto come « Die lebende maske », con l’inter pretazione di Conrad Veidt. È stato presentato anche un brano tratto dal film « Enrico IV » di Pastina, del 1943, con Osvaldo Valenti e Clara Calamai. A conclusione della serata, Romolo Valli e Gabriele Tozzi hanno recitato un brano della tragedia tratto dal secondo atto. Ricordiamo che, sempre nell'ambito dei martedì del Teatro Eliseo, I'll aprile vi sarà una serata in collaborazione con il Salone Pier Lombardo di Milano impegnato, in quel perio do, a Roma con I' « Edipus » di Testori. (S.F.) La personalità discussa, complessa e contraddittoria di Pier paolo Pasolini rivive in una « pièce » teatrale che pur riscuotendo un certo successo, ha suscitato contestazioni, critiche e pole miche fin dalla •< première » presentata al Teatro Jardin Botani- que di Bruxelles. Il personaggio di Pasolini interpretato dall'attore francese Michel Hermon viene raffigurato nell'opera teatrale un derground di René Kaliski — regia di Albert Lhereux — come un Cristo dei tempi moderni che si aggira nella società contem poranea italiana, nel più sofisticato mondo del cinema, lanciando sfide disperate contro i tabù sessuali, politici ed artistici. Parliamo con Diego Fabbri, premio Feltrinelli 11 del teatro M i r ic o n o s c o in « R itr a t to d 'ig n o to » Diego Fabbri (e dietro il critico Giorgio Prosperi) durante una rappresentazione nel cortile del « Sapienza » (Estate 1945) della « Leggenda di ognuno » di H. Hofmannsthal, interpretata da Rug gero Ruggeri Diego Fabbri ha ricevuto il « Premio Antonio Fel trinelli 1977 » per il teatro. A conferire questo rico noscimento è stata l’Accademia dei Lincei, con una • giuria composta di docenti universitari, alla cui pre sidenza era Ettore Paratore. Il « Premio Feltrinelli » è una sorta di Nobel ita liano e, in precedenza, è stato assegnato, tra gli altri, a Thomas Mann, Igor Stravinski, W.H. Auden, Leo Spitzer, Gaetano Salvemini, Aldo Palazzeschi, Hans Kelsen, Henry Moore, Geoges Braque, Eduardo De Filippo, Coretta King. Un riconoscimento come questo non poteva non spingerci ad un’intervista con Diego Fabbri, Direttore della nostra rivista, ma abbastanza spregiudicato per non lasciarsene condizionare. È lui che interviene per primo e, ribaltando per un momento la logica dell’in tervista, esordisce dicendo: Vorrei farle io la prima domanda. Non crede che una intervista su « Il Dramma » fatta al Direttore pos sa sollevare qualche rilievo di opportunità da parte dei soliti ignoti-amici? Io sono stato abituato a sen tirne di tutti i colori! Dna volta fui accusato di plagio avendo presentato in TV un originale radiofonico scrit to anni prima da me. E ogni tanto qualcuno mi pun zecchia in quanto si rappresentano in qualcuno dei settanta teatri dell'ETI, di cui sono Presidente, com medie mie. Non penso che sia riprovevole una intervista al proprio Direttore, tanto più in conseguenza di un pre- mio come il « Feltrinelli ». Anzi, potrebbe essere an che un dovere verso i nostri lettori, i quali speriamo siano liberi da ogni moralismo e interpretino nel giu sto modo questo colloquio con lei. E poi è anche l’oc casione buona per sentire la diretta voce di chi guida questa testata. Potremmo partire dalle origini. Fab bri nasce a Forlì. Il padre è operaio e la madre fa la cucitrice. Proprio la madre, mi pare, aveva recitato da giovane. Sì. Mio padre suonava il trombone, mia madre recitò da filodrammatica. L'ho scoperto tardi, casual mente, grazie ad una fotografia in cui vedevo mia madre nella filodrammatica del suo paese di nascita, Civitella di Romagna. Quindi diciamo che il teatro è una « parte » della sua vita. Sì, dovrei concludere che c’è stata, in qualche mo do, un’ascendenza volta al teatro, che mia madre ap punto recitava in questa filodrammatica e mio padre suonava il trombone nella banda di Forlì. Infatti i pri mi spettacoli a cui ho assistito, condotto da mio pa dre, sono stati spettacoli d’opera in cui lui figurava come componente dell’orchestra del teatro Comunale. Si dice che da ragazzo lei fosse piuttosto restio al lo studio, ma l’incontro col professor Vittorio Tocco, figlio del più famoso Tocco che polemizzò con Croce, fu, per alcuni aspetti, determinante in quanto la portò al gusto per la poesia. Vogliamo parlare di quel pe riodo, dei suoi studi a Bologna che passava per una città « teatrale ». All’« Arena del Sole », al « loggio ne », c’era un « habitué »: Diego Fabbri. Non avevo residenza fissa a Bologna. Andavo su e già, da Forlì, ma le serate le passavo sempre a tea tro, dove venivano ospitate le principali Compagnie italiane. La Pavlova, De Sica, Ruggeri, li ho visti per la prima volta lì, benché anche Forlì ospitasse gruppi teatrali importanti. Erano epoche, per oggi, quasi prei storiche se si pensa che la Compagnia Bagni-Ricci a Forlì faceva una « stagione » di circa un mese, rap presentando una ventina di lavori diversi. Cose impen sabili oggi e quindi quasi favolose. Io ho visto tutto questo repertorio: dalla « Figlia di Iorio » ai « Due Sergenti », all'« Onore », di Sudermann... Oggi, a Forlì, una Compagnia ci sta un giorno. C’è stato proprio un progresso? Intanto a diciotto anni scrive la sua prima com media « I fiori del dolore », cui fa seguito « Ritorno ». Il lavoro successivo, « Il Nodo », del trentacinque, ebbe una serie di inciampi con la censura e parve « pervaso da un precoce senso di pessimismo volto a deprimere i giovani ». Non parve: fu una cosa ufficiale. Una mattina mia madre mi disse che il Questore mi aveva convocato: andai e il Questore mi disse che era stato negato, da Roma, il visto di censura, che era obbligatorio per tutti i lavori. Mi sentii riferita la motivazione (che è quella che ha detto lei sopra) e mi toccò ascoltare, allora, un’esortazione molto paterna. Mi disse: « ma come mai lei, così giovane, è pessimista ». Non so cosa balbettai, tornai a casa col copione ripudiato da Roma e col giudizio del censore Zurlo, che conobbi anni dopo: era un uomo squisito, finissimo. In quel periodo, intanto, si dedicava agli studi di filosofia. Approfondì Platone, filosofi più recenti co me Croce e Gentile. Sentì il valore del « Moderni smo » e, parallelamente, riconobbe in Dostoevskij, Bernanos e Mauriac i principali modelli letterari ed estetici. Sono anche i difficili anni sotto il Fascismo. Mi scusi, si dice che rifiutò fin da ragazzo ogni par tecipazione ad organizzazioni di regime: non fu mai né « Balilla », né dei GUF, e si laureò in camicia bianca anziché nera, come era d’uso. Questo portava a difficoltà nel trovare un’occupazione e a una diffi cile posizione sociale. Sì. Io non potevo percorrere quei canali che allora erano obbligati e che erano la maggior parte. Un la voro privatistico era estremamente difficile o estrema- mente poco remunerato. Dentai addirittura di andare in America presso alcuni parenti di mia moglie. Le lettere arrivarono censurate e loro non seppero mai cosa chiedessi. Viste queste estreme difficoltà, con una certa improvvisazione mi decisi a dare lezioni pri vate. Questa decisione fece sì che io insegnassi filo sofia, pedagogia e mia moglie greco, latino. Insegnai anche letteratura italiana. Questo lavoro, iniziato per caso, diventò una fonte di vita e attraversai almeno tre anni tra i più tranquilli e i più ben remunerati della mia carriera. Posso veramente dire che, con tutta la libertà di cui godevo, avevo anche un reddito che consentiva alla famiglia, nata da poco, di vivere con assoluta tranquillità. Arriviamo al trentanove. Lascia Forlì per Roma. Viene nella capitale per svolgere un lavoro editoriale e, penso, col desiderio di trovare un suo spazio pre ciso nella drammaturgia... Sì, venni a Roma con un trucco. Molto leale, ma con un trucco. Mi chiamarono per occuparmi di una casa editrice della « Gioventù Cattolica » presieduta da Gedda. Arrivai, ma con la segreta speranza che, terminata questa esperienza, sarei potuto tornare a Forlì dove stavo benissimo. A Forlì non c’era modo di piazzare un copione, nemmeno di farlo leggere. Ri cordo degli episodi divertentissimi. Per esempio, riu scii a parlare con Renassi, un attore molto caro al pubblico di quella città. Gli diedi « Paludi ». Lui, da Forlì, passò altrove: non avemmo mai grande corri spondenza, ma quando, più tardi, rappresentai con lui « Inquisizione » mi disse: « Sai, mi ricordo delle tue « Paludi ». Fui sul punto di rappresentarlo ». Que sto mi fece molto piacere. A Roma, comunque, vinsi due « concorsi teatrali » e così, nella stessa « stagio ne », rappresentarono subito due mie commedie: a fine novembre del quarantuno e ai primi di febbraio del quarantadue. In pochi mesi ero diventato un au tore di cui si cominciava a parlare. « Paludi » suscitò polemiche. Ebbi, però, critiche straordinariamente lu singhiere: di Alvaro, di Flaiano, col quale strinsi poi una vera e sincera amicizia personale. Il venticinque luglio 1943 è una data importante per lei. È il momento in cui partecipa all’elaborazione del « Manifesto per un teatro del popolo ». Che cosa vuol dire? Ci vedemmo con alcuni amici che la pensavano come me: Orazio Costa, Gerardo Guerrieri, Vito Pan- dolfi, Tullio Pinelli; insieme decidemmo di pubblicare un « manifesto », il « Manifesto per un teatro del po polo », appunto, in cui indicavamo le finalità nuove che il teatro, secondo noi, avrebbe dovuto avere. Quindi, anni in cui si passa dal momento pretta mente drammaturgico all’operazione teatrale. È, infatti, un periodo che la porta a un certo silenzio sulla scena. Sono circa sette anni, in cui la sua dedizione al teatro lo ha indotto a occuparsi di problemi diversi. Dopo questo silenzio, abbiamo, nel cinquanta, un importan te ritorno al il « Premio della Presidenza del Consiglio ». Come de finirebbe, oggi, « Inquisizione »? teatro con « Inquisizione ». Vince La definisco come un ricominciare. Il premio fu indetto per ridar vita al teatro nazionale, che si era completamente inaridito. Si rappresentavano in que gli anni soltanto commedie di consumo o qualche clas sico. Il concorso fu indetto nel quarantasette e con un regolamento che reputo anche oggi tra i più giusti. Una giuria giudicatrice (composta da uomini dell’au torità di Silvio D’Amico, Renato Simoni, Francesco Bernardinelli, Mario Vinciguerra) sceglieva una rosa di tre lavori che, a spese della Presidenza, sarebbero stati poi rappresentati dalle Compagnie più idonee. La graduatoria finale sarebbe stata emessa dopo la rap presentazione, tenuto conto del giudizio della critica e del pubblico. La rosa iniziale venne allargata a sei, mi pare. Oltre a me, c’era Betti, G.P. Callegari, Ivo Valentina Fortunato, Manuccia ne « Il commedione di Gioacchino Belli » Chiesa, Iovine e Tinelli. Dopo le rappresentazioni la giuria si riconvocò e, esaminati i vari elementi, fece la graduatoria: vinsi. Furono circostanze del genere a farmi credere in me stesso. E fu Paolo Grassi, quando scelse « Processo a Gesù » per il suo « Piccolo di Mi lano » a darmi la fiducia conclusiva nella mia voca zione teatrale. Fiducia che è poi coincisa con i suc cessi all’estero: Parigi, i teatri tedeschi, spagnoli, gli Stati Uniti... Nel cinquanta va collocato non solo il « ritorno » alla scena ma anche il periodo dei capolavori. Dopo « Inquisizione » abbiamo « Rancore », « Processo di famiglia », « Il seduttore », « Processo a Gesù », « La bugiarda », « Veglia d’armi ». Una serie di opere che hanno senza dubbio rappresentato la parte più signi ficativa di un certo modo di concepire e fare teatro. Erano le prime affermazioni di una parte d,el mio teatro che non ho nessuna difficoltà a riconoscere va lido e importante nella mia esperienza. Mi fa piacere che quelle opere citate siano considerate dei capola vori, per quanto non sono d’accordo a considerare il resto come qualcosa di minore; forse qualcosa di diverso. Vorrei fare una distinzione: parlerei di capolavori aH’interno di una direzione estetica che poi è mutata negli anni. In quel periodo c’era la necessità di riper correre, nell’ambito del teatro italiano, una nuova di rezione artistica. E in quella angolazione lei ha com piuto le opere migliori. Poi, successivamente, dalla metà degli anni sessanta in avanti, è cambiata la sua poetica. La potremmo chiamare « svolta degli anni sessanta », contrassegnata da una maggiore ironia e da un certo distacco nei confronti dei temi affrontati, come se fosse giunto a un punto di maggiore oggetti vazione: diciamo dal « Confidente » (che è del ’64) in poi, fino a una ricerca diversa (mi riferisco alla collaborazione con Lajolo nel « Vizio assurdo ») e al l’ultima sua opera, « Il commedione di Belli », che ho avuto il privilegio di vedere mentre veniva registrato negli studi televisivi milanesi e che non esito a defi nire eccezionale. Lei è più fortunato di me. Trovandomi in un pe riodo particolarmente delicato con la salute, non ho visto niente del « Commedione »: né a Milano quando è stato effettuato lo spettacolo per la televisione, né altrove, quando si facevano le prove per portarlo sul la scena. Sono contento che lei lo trovi eccezionale; per me, in ogni caso, è un lavoro che mi è molto caro. Ho messo nel « Belli » non solo cinque anni di atti vità (potrebbe essere anche poco per un personaggio eccezionale come lui), ma ci ho messo molto di mio. Ho sentito molte identificazioni col Belli; c’è stata una specie di simbiosi, su certe cose fondamentali, spe cialmente in quello che è stato il dramma dell’uomo, la nevrosi sua nei confronti del potere e nei confronti della poesia. Quindi l’ho sentito come poche volte mi è capitato di sentire un personaggio. L ’ho sentito più di Pavese, che pure è stato un autore molto vicino e su cui ho lavorato insieme a Lajolo in uno spirito di amicizia e di collaborazione indimenticabili. Quali sono le opere in cui si riconosce di più? Mi riconosco in « Ritratto di ignoto », enormemen te, ne « L’avvenimento » e in « Non è per scherzo che ti ho amato ». Questi, secondo me, sono tre mo menti estremamente sentiti sia dal punto di vista dei temi, sia come maturazione drammaturgica: credo che non abbiano niente da invidiare alle commedie del decennio precedente. Del « Commedione », poi, abbia mo già detto... Per sintetizzare: due linee nel suo teatro, che van no dal problema paraesistenzialistico della vita inte- riore dell’uomo, fino al problema della coppia, dove maggiormente emerge quell’umorismo, il senso della pochade, quella diversa dimensione dei drammi del l’ultimo decennio. Ma una cosa mi ha sorpreso. Io ho creduto, per vari anni, di non avere la vena umoristica. Me lo rimproveravo perché mi rendevo conto che il teatro è fatto di contrasti e di contrari: anche nelle situa zioni più drammatiche l’elemento umoristico doveva far capolino, non per un dovere di auditorio, ma per una esigenza interiore. E me ne accorsi nel « Se duttore ». E mono gli altri a farmene accorgere. Ma il fatto più evidente fu con « Processo di famiglia ». Mi ricordo: ero a Parigi e arrivai a Torino. Appena giunto mi dissero che il pubblico si era divertito tanto e che aveva riso alla rappresentazione della commedia. Stavo per andarmene credendo ad un « fiasco ». Ho scoperto, poi, cosa voglia dire a teatro questo intrec cio tra scoppio di dramma e scoppio di umorismo nel lo stesso dramma. Ora sono molto più corazzato e convinto che questo debba accadere e che sia forse nucci. Poi con Valli, De Lullo, Rossella Talk. Da qual che anno lavoro molto bene con Giancarlo Sbragia. C’è qualcosa che le é particolarmente cara, nella vita di tutti i giorni? Ho un certo gusto per la solitudine che non ha niente a che fare né con la tristezza, né col pessimi smo, né col ripiegamento su sé stessi. Io sto bene da solo. Non voglio dire che mi chiudo da qualche parte e vado a passeggiare romanticamente in solitudine. Non ho bisogno di crearmi delle compagnie. Le com pagnie me le creo strada facendo. Quali sono le sue letture preferite? Sono soprattutto un « rilettore ». In una comme dia posso scoprire sempre delle cose nuove. Mi piace ritornare su Platone, Dostoevskij. E poi Pirandello, Ibsen, Cechov... Quali sono le cose che non sopporta? L’ipocrisia patente, evidente. Che ci sia lo so e quindi la sopporto come un fatto fatale, ma nei casi di sfrontatezza non riesco a tollerarla. Come nasce una sua commedia? Paola Marinoni, la marchesa Vincenza, ne « Il commedione di Gioacchino Belli » una delle prerogative del mio modo di dialogare e di esprimermi. Vediamo, ora, l’altro Fabbri, il Fabbri privato. Quali sono i suoi migliori amici nel campo letterario e in quello personale? Sono stato molto amico di Flaiano; amicissimo con Betti, fui legato dal mio arrivo a Roma con Orazio Costa. Ho avuto quasi un sodalizio, in cui l’amicizia si intrecciava con la. vicinanza artistica, con quel gran de attore che è Paolo Stoppa (ci conosciamo dal qua ranta) e la indimenticabile Rina Morelli, che è stata la mia interprete ideale: lei trovava nei miei perso- naggi qualche cosa che la appagava profondamente. C’è una intesa profonda fin dal sessanta con Mila Van- Benché io mi senta ancora un « militante » in fat to di creazione teatrale, rappresento mie commedie nuove con continuità. E aggiungo che ne rappresen to meno di quante ne scriva. Ho in cassetto tre com medie ancora inedite scritte recentemente. La verità è che fare teatro, « inventare » per il teatro, mi di verte ancora, e finché questa attività creativa mi di vertirà io continuerò. Se un giorno questo mi costerà fatica o noia mi ritirerò spontaneamente. Il teatro è vita, testimonianza di vita, e la creazione deve, alme no per me, essere un atto d’amore capace di generare una creatura nuova, un altro figlio. Una sera a Parigi parlammo a lungo con Barrault e Madeleine Renaud sul teatro come atto d’amore nella sua interezza: slan- Giancarlo Sbragia, protagonista e regista, de « Il commedione di Gioacchino Belli » do del cuore e della fantasia, attrazione sensibile e compimento erotico. Eravamo d’accordo: l’analogia, più la si approfondiva, più diventava calzante e veridica. Finche avrò una sufficiente carica d’amore continuerò a scrivere per il teatro. Sul piano effettuale, comun que, una commedia per me nasce sempre da una realtà concreta, non è mai un fatto astratto o di puro pen siero. C’è una situazione, un fatto, magari banale, che sollecita la fantasia: allora ha inizio il processo di creazione. Che cosa consiglierebbe ai giovani autori? In anni in cui ero giovane anch’io, 1936, scrissi un articolo che si intitolava « Necessità delle intenzio ni », nel quale esortavo i miei coetanei a produrre un teatro « brutto ma importante », nel senso di non scoraggiarsi di fronte alle fatali imperfezioni, ma di preoccuparsi di proporre temi che aiutassero gli spet tatori a rinnovare la società. Sono, in sostanza, an cora d’accordo, mi sento di ripetere lo stesso mes saggio. Oggi, però, la proposta di rinnovamento non nasce quasi mai da una libera fantasia, ma ricalca mo delli già usati e quindi retorici. Questo per i conte nuti. In fatto di stile si è scartata come passatista la fatica di costruire « a regola d’arte » una commedia che stia in piedi e si preferisce fare una capricciosa avanguardia in cui tutto è consentito. Si sceglie la strada della facilità, del minore sforzo. Il teatro, in vece, essendo una attività della maturità, è massimo impegno e massimo sforzo. Se si pensa che dovrebbe essere lo specchio della vita... Come definirebbe, in una parola, il suo stile? Un colloquio segreto e un pensare ad alta voce, Qual’è la sua aspirazione segreta per quanto ri con tutte le rivelazioni che questo può comportare. guarda il teatro? Avere la possibilità personale di fare teatro, non soltanto di scriverlo. In poche parole: mi piacerebbe avere un teatro tutto mio, piccolo o grande che sia. Quando a Roma ebbi la possibilità di tenere « La Co meta », sostenuta con spese del tutto personali, mi sono divertito molto perché ho fatto cose che mi in teressavano. Se non fosse stata una malattia ad in terrompere quella esperienza, forse sarei andato avanti, giocando tutte le mie possibilità e forze. È uscito negli « Oscar Mondadori » « Processo a Gesù », una sua opera teatrale viene portata al gran de pubblico. Cosa pensa della cultura d’oggi e dei gio vani in generale? Penso che i giovani manchino di una preperazio- ne filosofica: è la loro lacuna maggiore. Non han no idee, lavorano più che altro istintivamente, hanno delle sensazioni, alcune volte, molto felici ma non sorrette da una concezione di vita. Secondo me, l’ope ra d’arte ha assolutamente bisogno di una concezione di vita. Che cosa la preoccupa di più nel mondo d’oggi? Questo scatenarsi di una violenza imprevedibile. Se penso che un personaggio come Curdo viene da un’organizzazione cattolica, ha avuto un grosso sub strato di sincerità cristiana, ha un’impazienza, anche questa cristiana, di attuare un regno di Dio cristiano non più con la tenacia, con la pazienza e l’amore, ma attraverso un brusco e violento capovolgimento della realtà, sono ammirato da una parte e molto inquietato dall’altra. Lo stesso identico fenomeno Dostoevskij doveva descriverlo nel suo ultimo romanzo, che non scrisse mai, « La vita di un grande peccatore ». Vo levo scrivere un saggio sull’impazienza di Alioscia che, dopo i « Karamazov », diventa, secondo gli appunti che ci ha lasciati il grande scrittore russo, un perso naggio sconvolgente, in cui mi sembra di trovare mol te affinità con quello di Curdo. Se dovesse dare una definizione di lei medesimo... Credo di non essere un intellettuale. Sono un uo mo che vive con in piu qualche cosa che ha bisogno di dire agli altri, di esprìmere e di confidare. Mi piace leggere le critiche perché mi raccontano cose che io esattamente non conoscevo e mi fanno riflettere. C’è una inconsapevolezza nello scrittore, nell’urgenza dello scrivere, che mi pare sia poi una specie di salvezza perché non è tutto controllato e tutto definito in partenza. Che cos’è che le dà più gioia? La felicità degli altri e certi atti d’amore spontanei. Quando vedo che gli uomini in certi momenti possono di fatto volersi anche bene, quando in una partita di calcio vedo gli spettatori applaudire a un gol della squadra avversa, mi sento confortato. Vedere una par tita di calcio è molto istruttivo. Attraverso una serie di simboli abbiamo degli esempi incruenti di una lotta così come avviene nella vita. Non ha mai pensato di scrivere poesia o di dedi carsi al romanzo? Della poesia ho sempre avuto rispetto, quasi ve nerazione. Quel poco che ho fatto è giusto che ri manga un segreto, faccia parte della mia vita privata. Invece sono stato tentato dalla narrativa. Avrei voluto scrivere un romanzo, ma mi sono in concreto limitato a scrivere solo qualche racconto. Ma le dirò che « Il Seduttore » e « Kitratto d’ignoto » li ho cominciati come romanzi: strada facendo, però, mi si sono tra sformati, imperiosamente, in due lavori teatrali, e tali sono diventati. Non è detto, comunque, che non scriva il romanzo che da molti anni mi intriga e che non riesco ad allontanare. Credo di avere verso la narra tiva gli stessi timori, le medesime timidezze che molti romanzieri, anche celebri, nutrono verso il teatro. Preoccupazioni di scrittura che forse non esistono real mente, ma che continuano ad inquietarmi. Io, comun que, sono persuaso che se qualcosa deve davvero uscire uscirà prima o poi. Come vede il futuro? Sono stato sempre un ottimista perché credo nella permanenza dell'uomo che finisce sempre per salvarsi appoggiandosi su sé stesso. Non le nascondo che, a volte, attraverso momenti di scoramento e il mio ot timismo si fa un po’ venato, corroso da dubbi. Ma io mi auguro che questo passi, che sia il risultato della vecchiaia che avanza e che mi porta ad essere meno fiducioso di quanto non lo fossi quando ero più giovane. A cura di Dante Cappelletti Una decina d’anni fa Diego Fabbri rispose al « Que stionnaire de Marcel Proust ». Si tratta di un questionario che viene proposto, in Francia, a personalità e figure di ri lievo del mondo della cultura. Ci pare interessante pro porre ai nostri lettori le risposte che allora diede Diego Fabbri. Qual’è per lei il colmo della miseria? Dove le piacerebbe vivere? Il suo ideale di felicità terrestre? Per quali sbagli lei nutre più indulgenza? Quali sono gli eroi romanzeschi che lei preferisce? Qual’è il personaggio storico preferito? Le sue eroine preferite nella vita reale? Le sue eroine nella finzione? Il suo pittore preferito? Il suo musicista preferito? La qualità che preferisce nell’uomo? La qualità che preferisce nella donna? La sua occupazione preferita? Chi le sarebbe piaciuto essere? La sua virtù preferita? Il tratto. principale del mio carattere? Cosa apprezzo di più nei miei amici? Il mio difetto principale? Il mio sogno di felicità? Quale sarebbe la mia più grande disgrazia? Cosa vorrei essere? La disperazione Sulla riva del mare o di un lago La pace in un mondo di gente diversa Per quelli che si sono voluti fulien Sorel, Raskolnikov Papa Celestino V Le donne semplici Thérèse Desqueyroux Piero Della Francesca Mozart, Vivaldi Il gusto cosciente del rischio La generosità Vivere Orazio, l’amico di Amleto La carità, o l’amore Il distacco La fedeltà Il disprezzo di me stesso Un'armonia La perdita della coscienza Quello che ho sognato di essere a vent’anni Il colore che preferisco? Il fiore che amo? L’uccello che preferisco? I miei autori preferiti in prosa? I miei poeti preferiti? I miei eroi nella vita reale? Le mie eroine nelle storie? I miei nomi preferiti? Che cosa detesto più di tutto? I caratteri storici che più disprezzo? L’azione militare che più ammiro? La riforma che più ammiro II dono che vorrei ricevere dalla natura? Come mi piacerebbe morire? L’attuale stato del mio spirito? Il mio motto? Il rosso In fin dei conti, la rosa L’usignolo Manzoni, Stendhal Petrarca, Leopardi, Baudelaire Un buon artigiano Le innamorate Giovanni, Alina La menzogna I traditori-. Giuda, Bruto ecc. Le Termopili, Verdun, Stalingrado La libertà data agli schiavi La calma Coscientemente L’attesa La speranza - Arnoldo Foà è il presentatore di una serie televisiva dedicata al teatro (da Plauto a Jonesco) intitolata « Invite a teatro », in ónda da gennaio sulla Rete Uno il vener dì alle ore 17. L’iniziativa, malgrado i limiti del resto dichiarati (si trat ta della riduzione a un’ora di precedenti registrazioni tele visive) non ha mancato di interessare il pubblico del po meriggio avvicinandolo, e per molti sarà stata la prima volta, al grande teatro di tutti i tempi. Nel mese di marzo, a partire da venerdì 3, sono in pro gramma « Topaze » di Pagnol con Alberto Lionello; « Il mangianuvole » di Achard con Aroldo Tieri; « La cantatrice calva » di Jonesco con Franca Valeri; « Devozione alla Cro ce » di Calderon con Luigi Sportelli; « Dalla vita di un autore » di Anohuil con Arnoldo Foà. La serie è a cura di Ugo Ronfani, Dora Ossenska, Ros sella Labella. Consegnati tra « animati » dibattiti I p r e m i in T r a s te v e r e ID I La cerimonia di consegna dei premi IDI e Silvio D’Amico per il 1976/1977 (svoltasi quest’anno a Roma al Teatro in Trastevete) ha riconfermato la volontà, da parte degli organizzatori, di agevolare la diffusione di nuovi autori italiani in un momento in cui la crisi del dramma turgo di casa nostra sembra giunta ad un punto molto delicato. Infatti, mai come ora, è necessario insistere nel giusto senso per rilanciare, insieme all’autore, anche tutto il teatro là dove occorre italiano, ridiscutendo e riproponendo farlo, senza false paure o tentennamenti. È quanto emerso dalla breve relazione introduttiva del Senatore Ariosto, presidente dellTDI, in cui è stato sot tolineato come l’Istituto del Dramma Italiano stia facendo il possibile per cercare di risolvere, almeno sul piano della disponibilità e dell’impegno, i numerosi problemi del no stro teatro. Dobbiamo dire, però, che il dibattito (per la verità una conversazione familiare non molto travolgente), tenu tosi prima della premiazione, ci ha lasciato piuttosto delusi. L’assoluta mancanza di vivacità ha forse fatto pensare a gran parte del pubblico che non ci sono, attualmente, molte idee da buttare sul tappeto. Eppure l’argomento era di scottante attualità: il ruolo dell’attore nei confronti di tutte le altre componenti che contribuiscono a fare teatro. Comunque, al di là di queste considerazioni, una linea di tendenza è, indubbiamente, emersa ed era già presente nel titolo di questa tavola rotonda: « dalla parte del l’attore ». Infatti tutti gli intervenuti hanno evidenziato l’im portanza di una ridefinizione dell’attore in rapporto al l’autore e alle nuove realtà sociali. In particolare Ruggero Jacobbi ha parlato della posi zione dell’attore nei confronti dei testi (soprattutto clas sici), del teatro gestuale e dell’autore; Orazio Costa ha ridimensionato la funzione del regista che deve essere soltanto un tramite tra l’attore e il testo, un « aiuto » non invadente né accentratore; Roberto Lerici ha preci sato come tra lui e l’attore ci sia sempre stato un continuo confronto alla ricerca di quei moduli recitativi (perfino lessicali e « gergali ») che a quest’ultimo, a seconda delle sue capacità stilistiche, possono, volta per volta, adattarsi. Hanno parlato, infine, Anna Proclemer, Giulio Bosetti, Giancarlo Sepe, Massimo De Rossi senza tuttavia « scal dare », più di tanto, l’atmosfera. Ricordiamo, a questo punto, i premiati. La giuria composta da: Odoardo Bertani, Alberto Blan di, Ermanno Carsana, Bruno D’Alessandro, Franz De Biase, Diego Fabbri, Dino Falconi, Ruggero Jacobbi, Roberto Maz- zucco, Aldo Nicolai, Carlo Maria Pensa, Giorgio Prosperi, Roberto Rebora, Renzo Tian (segretario, Pasquale Lopez), ha assegnato i premi IDI (istituiti nel 1949) nel seguente modo: per un’opera di autore italiano a Ignazio Buttitta per « V asa i dinari e sputaci »; per la migliore regia di una novità italiana a Francesco Macedonio (regie de: « L’Idealista » di Fulvio Tomizza e « L’Amleto non si può fare » di Vittorio Franceschi). Hanno invece ricevuto le maschere con lauro d’oro (istituite nel 1957 e destinate ai migliori interpreti di no vità italiane): Marcello Battoli per « Lazzarino De’ Tormes » di Gior gio Celli, Rosa Di Lucia per « Senza patente » di C. Ga vina; Corrado Pani per « L'Idealista » di Fulvio Tomizza; Franca Rame per « Parliamo di donne » di Dario Fo; Mila Vannucci per « Le cugine » di Italo Svevo. La giuria ha attribuito poi due speciali riconoscimenti: alla Cooperativa Pier Lombardo per la presentazione delle opere di Giovanni Testori e a Giancarlo Sepe « per le sue originali elaborazioni drammaturgiche ». Il premio « Silvio D’Amico » per un saggio critico è andato a Jean Michel Gardair per il volume: « Piran dello e il suo doppio » un libro di grande interesse dove l’autore, attraverso una approfondita analisi di alcune opere pirandelliane, tenta una suggestiva interpretazione strutturalista della loro genesi approfondendo i rapporti intercorrenti tra l’una e l’altra. Un altro premio è andato, inoltre, a Franz De Biase « quale riconoscimento per l’azione svolta in favore del teatro italiano nel corso dei numerosi anni nei quali ha ricoperto delicati e importanti incarichi di responsabilità presso gli organi statali preposti al settore dello spettacolo». C’è da dire, infine, che la manifestazione, dopo il breve « esilio », tornerà il prossimo anno a Saint Vincent (sua sede tradizionale dal 1963) e che, nel mese di settembre, si terrà un Convegno Internazionale sui problemi del teatro italiano. Sarà un confronto non trascurabile per vedere in che modo il nostro teatro viene recepito all’estero e quali ap porti costruttivi, sia pure teorici, potranno derivarne per noi nel corso di una discussione di così grande interesse. Marco Tesei T e a tr o e d is tr ib u z io n e ' È ormai pratìcamenute sicuro il passaggio delle com petenze — in tutto o in larga parte — in campo teatrale dallo Stato alle regioni ed è quindi logico presumere che si procederà sempre di più sulla strada del così detto « decentramento », nel senso di raggiungere con il teatro pubblici sempre più lontani e finora emarginati. In ogni caso è chiaro che la futura suddivisione del « potere » teatrale avverrà principalmente sulla base del controllo dei nuovi circuiti che si potranno così creare fra « piazze » vecchie e nuove: insomma è la distribuzione l’argomento teatrale del momento, occasione per incontri, dibattiti, tavole rotonde. A Chieti su iniziativa dell’A.T.A.M. (Associazione Tea trale Abruzzo e Molise) e dell’A.T.E.R. (Asociazione Tea trale Emilia e Romagna) e con la partecipazione ufficiale di altri organismi come il Teatro Regionale Toscano, la A.M.E.L.A.C. (Associazione Marchigiana Enti Locali e At tività Culturali), TA.U.D.A.C. (Associazione Umbra per il Decentramento Artistico e Culturale), l’E.T.I. (Ente Tea trale Italiano), il Consorzio Teatro di Calabria ed il Con sorzio Teatro Pubblico Pugliese si è svolto addirittura il I o Convegno Nazionale su «Teatro e distribuzione »: un incontro utile non foss’altro che per far emergere alcune contraddizioni che sarà bene risolvere tempestivamente se non si vuole impostare tutta la « rinnovazione » sulla base di antichi equivoci e di altrettanto vecchi giochi di potere. Lasciamo pure da parte il problema del « momento centrale di coordinamento » e cioè, in sostanza, la pole mica pro o contro TE.T.L, questione sulla quale ci sembra più che esauriente l’intervista rilasciataci dal dottor D’Ales sandro. Ma c’è almeno un altro argomento che ha finito per assumere un ruolo centrale nel convegno ed è quello del rapporto fra distribuzione e produzione, soprattutto nel senso di negare qualsiasi precedenza, sul piano del l’importanza, al momento della produzione, fino ad affer mare l’opportunità che la distribuzione condizioni diretta- mente la produzione: poco chiare sono però rimaste le forme di questo condizionamento, fra la difficoltà di cre dere realmente in un’espressione diretta dalla volontà del pubblico e il dubbio che la delega concessa a pochi non sia sempre utilizzata in tutta fedeltà. Non è stata neppure presa in considerazione l’ipotesi più semplice e cioè la cosiddetta legge di mercato (e sarebbe stato d’altronde difficile in un’ipotesi di sovvenzione sempre più genera lizzata) se non per riaffermare la necessità di formare ed educare il pubblico: affermazione animata sicuramente dalle migliori e più costruttive intenzioni ma che propone tuttavia un risvolto quanto meno preoccupante. In questo senso in un convegno che rischiava ad un certo punto di scivolare nell’unanimismo delle frasi fatte, è sembrato molto opportuno il richiamo di Renzo Tian, intervenuto nella discussione quale presidente dell’Asso ciazione Nazionale Critici di Teatro: osservava dunque Tian a proposito dellajutura e forse imminente legge sul teatro che tutti sono d’accordo che deve trattarsi di una legge-cornice, ma pochi si son posti con chiarezza il pro blema di cosa, in forma possibilmente logica ed organica, dovrebbe essere contenuto in tale cornice; nella stessa maniera si potrebbe rilevare che (e questo vale natural mente anche per il problema della distribuzione) non è possibile circoscrivere un fenomeno come il teatro ad un discorso sulle strutture; che le strutture servono a poco se non sono al servizio delle idee o, se si preferisce, del l’arte; che sarebbe un grave errore credere che strutture efficienti possano di per sé suscitare la nascita di feno meni artistici se non addirittura sopperire alla mancanza di idee. Non è naturalmente vero (ma è almeno più pro babile) neppure il contrario, ma almeno in teatro biso gnerebbe ancora riconoscere una precedenza alla fantasia sull’organizzazione, che è sicuramente un momento neces sario ma non vorremmo diventi l’occasione dell’ennesima operazione di condizionamento culturale nei confronti di un pubblico che viene ufficialmente considerato « da edu care », naturalmente a senso unico anche se non manca la consueta — e gratuita — invocazione al pluralismo. Angelo Libertini « Teatro e distribuzione » intervista col dott. BRUNO D’ALESSANDRO, Direttore Generale dell’E.T.I. D. Nei dibattiti sempre più frequenti sul ruolo della distribuzione teatrale e in particolare nel 1° Convegno Nazionale, tenuto a Chieti, sul tema « Teatro e distribu zione » è sembrato che da più parti si tentasse di porre TE.T.I. sul banco degli accusati, quasi a voler accollare a questo ente tutte le colpe di un vecchio sistema che si afferma di voler radicalmente riformare. Con simili pre supposti quale contributo ritiene di aver potuto dare nella sua veste di Direttore Generale deH’E.T.I.? R. A noi dell’ETI è toccato di intervenire sgombrando innanzi tutto il campo da una duplice tentazione. L’imba razzo tra una difesa d’ufficio e quello per una autocritica che poteva sembrare soltanto il cedimento verso un atteg giamento di moda. Il vivo del problema è sembrato non tanto quello di continuare a discutere su quale distribu zione ma anche su « come distribuire ». Fatta salva la legittimità della autonoma gestione dei fatti culturali da parte dell’Ente Locale rappresentativo dei soggetti attivi di tale partecipazione, FETI ha creduto di esemplificare la nuova via del come distribuire citando le esperienze della collaborazione dell’ETI con l’AUDAC e con l’ATAM. L‘ampliamento dell’attività di distribuzione non limi tata più ai soli cartelloni ma a tutto un insieme di attività collaterali che attribuiscono all’intervento coordinato del l’Ente Pubblico Centrale con gli Enti Locali è certamente un modo nuovo di assolvere al compito distributivo agendo in un sistema per cercare di modificarlo. D. Quale funzione ritiene dunque possa avere l’E.T.I. in una nuova concezione di distribuzione teatrale? R. I concetti di promozione e stimolo sono certo quelli che si sono avvantaggiati in queste interessanti esperienze in corso mentre un altro aspetto va prendendo consistenza e si delinea come momento qualificante dell’intervento dell’ETI in fase distributiva ed è quello di fornire « una casa » alle cooperative. La collaborazione con la coopera tiva Attori e tecnici diretta da Attilio Corsini e con quella di Laboratorio di Camion con Carlo Quartucci rispettiva mente ad Amelia ed a Spoleto hanno rappresentato sotto questo profilo un aspetto concreto verso il radicamento di un complesso di attività nell’ambito di un territorio che non viene più toccato fuggevolmente con la precarietà e la caducità della presenza serale ma viene sensibilizzato per un arco di tempo che consenta una operazione più vasta sia a vantaggio del coinvolgimento di un largo strato di pubblico sia a vantaggio del lavoro della cooperativa stessa. D. Ma chi deciderà, a questo punto, cosa distribuire? R. Quanto poi al problema della scelta distributiva, cioè del chi sceglie, LETI si è posto di fronte al pericolo di un centralismo riprodotto nelle situazioni locali ed ha denunciato il gioco delle parti di chi non sa o non vuole scegliere. Certo una esigenza deve essere tenuta presente nel momento in cui i circuiti organizzati si apprestano a confrontarsi per la prima volta ed è quella di non lasciarci sfuggire la realtà: esistono circuiti organizzati ma anche « comuni sciolti », vale a dire tutta una serie di iniziative che si muovono autonomamente e che portano ad una pol verizzazione degli interventi. Partendo dal concetto che tutto il teatro è sovvenzio nato, esiste il grave rischio della concorrenza fra Enti Pub blici, concorrenza fatta su un piano di pagati alle compa gnie da parte di Comuni che pur di assicurarsi un certo tipo di cartellone si muovono sul momento della distri buzione teatrale con la logica dell’esercente privato. L'ETI si è posto come Ente deputato per una azione calmieratrice e per favorire la tendenza alla costituzione di circuiti che potranno trovare un momento di collegamento e di ordina mento di equilibrio e di calmiere soltanto riconoscendo la funzione dell’Ente Pubblico Centrale istituzionalmente preposto per assolvere a questo nuovo fine istituzionale. D. Dunque Lei ritiene, in conclusione, che l’E.T.I. possa sopravvivere e sia anzi utile una sua sopravvivenza? R. Se è vero che i circuiti regionali organizzati hanno sentito e sentono l’esigenza di collegarsi, non può che esserci un momento di sintesi nell’ETI, un Ente anche diverso dall’attuale, un Ente che nell’attesa della legge globale sul teatro prefiguri una riforma di struttura che lo definisca in altre parole un ETI fatto dai circuiti. Non dimentichiamo comunque che nel momento in cui si tiene un Convegno su teatro-distribuzione ed in cui ci si rallegra dell’esistenza di circuiti organizzati esistono anche moltissimi spazi da reperire e da organizzare. L’at tività di pionierismo dell’ETI, secondo noi, non è ancora finita e molto c’è ancora da fare nel campo della distri buzione per quanto riguarda le aree teatralmente depresse. Gli altri compiti dell’ETI ci sembrano riconoscibili nella promozione del Teatro Italiano all’Estero, nella pro mozione degli Autori Italiani, nella costituzione di un Centro Studi, nella qualificazione dell’Ente come Istituto di Cultura. Detto ciò ci sembra mal posto il problema che LETI debba comunque avere una funzione e quindi la conse guente ineluttabilità dell’ETI. Ci sembra invece molto più corretto metterci insieme con i circuiti organizzati a lavo rare perché la distribuzione teatrale sia un autentico fatto di crescita culturale nel nostro paese. (a cura di Angelo Libertini) Entro dicembre e gennaio al Club •• Il Cantastorie » (Tra stevere - Vicolo dei Panieri) hanno avuto luogo rappresenta zioni delle « Pantomine futuriste di Francesco Cangiullo ». Trat tasi di inediti del poeta futurista scomparso nello scorso me se di luglio consegnati dallo stesso Cangiullo ad Alberto Testa che ha curato l'elaborazione teatrale, regia e coreografia. Sce ne, costumi, maschere di Maria Signorelli con l'intervento degli attori-ballerini e mimi Mirella Agujaro e Jean-Patrick Junoy e della Compagnia Opera dei Burattini « La Scatola » diretta da M. Signorelli. Lo spettacolo ha avuto molto suc cesso e si replicherà in « tournées ». Titoli dei tre lavori erano: Il giardino zoologico (1916) scritto per Diaghilev e mai rappresentato; Le Syphon d’or (1913-1920) dizione poetica della poesia di Cangiullo nella tra duzione francese di Marinetti; I Fantocci del bosco della qua le pantomina si vede qui una scena. / . 0 / v* e ordinato sono tanti e tali che permettono di seguire tutto il lavoro viscontiano nel teatro, dalla lirica alla prosa: lettere, appunti di regia, articoli, bozzetti di sce na, figurini di costumi, registrazioni dal vivo in cui il maestro parla in prima persona del proprio modo di lavorare. Da questa mostra emerge molto bene anche la di mensione dell’operazione culturale compiuta da Visconti nell’ambito dello spettacolo italiano: una costante ricer ca di identità estetica compiuta attraverso la coordinata storica, dove il bisogno di riconoscimento dava un im plicito privilegio alla realtà presente. La formazione di Visconti ha avuto un respiro eu ropeo e questo lo si vede nel suo costante tentativo di congiungere le dimensioni della cultura italiana con quelle più complesse e articolate del mondo d’oltralpe. Si rendeva conto di quelle misure provinciali che ave vano caratterizzato il nostro Paese negli ultimi cento anni e, per questo motivo, l’ottocento diviene un se colo a cui porrà attenzione fino a contemplarne le sue propagini nel novecento con le sue inquietanti con traddizioni. In questa direzione Visconti operava con un processo critico di revisione di tipo « verticale »: per questo il suo metodo di indagine eludeva le più esplicite forme di rottura, privilegiando i sedimenti del la storia piuttosto che controllare le misure di una vi sibile apparenza dei fenomeni. La ricerca, in parte di tipo filologico, lo poneva lontano dai fermenti pole mici fino a dare un’immagine dell’intellettuale un po’ appartata e distante dalla realtà contemporanea. Visconti è una di quelle figure che ha posto in ter mini neoumanistici il lavoro intorno alle forme dello spettacolo: il suo era un costante bisogno di verifica dell’oggetto fino a raggiungerne il valore che aveva in sé. Solo a quel punto la sua riflessione era appagata e solo allora poteva delimitare una linea da cui ripar tire. Riguardato nel suo insieme, tutto il suo lavoro ci P r o m o s s e l'a t t o r e a c o lla b o r a to r e La mostra su Luchino Visconti che si è tenuta a Reggio Emilia, e parallelamente a Modena, è durata due mesi: dal due novembre al due gennaio. Sono stati rivi sitati i momenti dell’operazione teatrale e quelli cine matografici. A Modena sono stati proiettati i film del grande regista e si è svolta anche una tavola rotonda su Visconti maestro di cinema. Inoltre c’è stata la ri presentazione, dopo il successo ottenuto a Spoleto lo scorso anno, dei documenti relativi al costume nel cine ma viscontiano: una serie di interessanti materiali rac colti da un comitato di organizzazione di cui fanno par te Piero Tosi (che ha costantemente lavorato come co stumista per il grande maestro), Umberto Tirelli, Vera Marzot, Dino Trappetti, David Jones, Romolo Valli. Per quanto riguarda il teatro, la mostra di Reggio Emilia, che si sposterà in alcune città italiane, è di estremo interesse e non potevamo lasciarla passare sen za farne oggetto di meritata attenzione nella nostra rivista. I materiali esposti sono moltissimi e raccolti con molta cura da Caterina D’Amico de Carvalho, attenta studiosa da alcuni anni dell’opera del grande regista intorno al quale ha lavorato con rigore e grande senso critico. I pezzi esposti sono più di novecento e ci dan no un quadro esauriente del modo con cui Visconti ha affrontato la scena con i suoi problemi. Giustamente Caterina D’Amico de Carvalho si è posta, prima di tutto, di fronte alla necessità di illustrare il metodo di lavoro. E’ partita dalle origini della presenza del tea tro in Visconti, richiamandosi alla educazione e all’am biente familiare. Dalle « piccole » cose del mondo pri vato del maestro viene fuori il costante rimando alla storia, il riscontro con una realtà pubblica che ha le sue origini e le sue dialettiche con quella del personale. Attraverso una serie di fotografie sull’infanzia e la pri ma giovinezza, emerge gradatamente l’ipotesi di una passione per la scena che va maturandosi in sede este tica e critica. I materiali che la curatrice ha raccolto appare, oggi, animato da una coerenza incredibile e in questa si è espressa gran parte di quella necessità este tica che, di volta in volta, si coagulava nei singoli epi sodi espressivi. Negli appunti che seguiranno cercheremo di riper correre le tappe di un intenso lavoro nel teatro, da quello di prosa a quello lirico. Si tratta di una panora mica ragionata sulle principali regie di Visconti onde avere una sintesi della sua attività nella scena. TEATRO DI PROSA A Visconti si deve una vera e propria svolta nella nostra regia. In lui, per la prima volta, si concretizza il ruolo del metteur-en-scene che parte da un preciso progetto all’interno del quale si riconoscano i vari ele menti della rappresentazione. La firma di Visconti — che già aveva girato per il cinema Ossessione — appare, per la prima volta, nel 1945, per lo spettacolo di Jean Cocteau I parenti terribili', ne sono interpreti la Pa- gnani, la Morelli, la Braccini, Pierfederici. Tra il ’45 e il ’47 seguono altre regie che la critica più avanzata trova che rappresentino una vera svolta nel gusto tea trale italiano. Si tratta di: La quinta colonna di He mingway (scene di Guttuso, interpreti principali: Carlo Ninchi, la Villi, Luigi Almirante); La macchina da scri vere di Cocteau (con la Adani, la Palmer, Gassman, Ca- lindri); Antigone di J. Anouilh; A porte chiuse di Sar tre (con la Morelli, Stoppa, Pilotto, la Villi, la Gioì); Adamo di Achard (Adani, Gassman, Calindri, Carraro); La via del tabacco di Caldwell (Girotti, Calindri, Car raro); Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais (De Sica, Gioì, Besozzi, Zoppelli, Pierfederici); Delitto e castigo di Gaston Baty, da Dostoievskij (scena e costu mi di Mario Chiari, interpreti: la Morelli, la Palmer, la Lotti, Stoppa, Benassi, Girotti, Crast); Zoo di vetro di Tennessee Williams (con la Pavlova e De Lullo, ol- tre a Stoppa e la Morelli); Euridice di Anouilh (Stop pa, Morelli, Gandusio, De Lullo). Questi primi tre anni dell’attività teatrale viscon- tiana sono caratterizzati da un’intensività di lavoro compreso nello sforzo di un radicale rinnovamento della scena e del nuovo significato che dovrà assumere nella realtà culturale italiana. Intanto per cominciare c’è il lavoro sugli attori. L’interpretazione drammaturgica non veniva più la sciata ai vecchi e inveterati toni autarchici. L’attore do veva essere un membro attivo e concreto dello spetta colo: a lui viene riconosciuta una posizione di collabo ratore, nel corpo di una scelta operata sul piano di una rigorosa coralità. Dovevano essere abbandonate le sciat terie e le forme guittesche: il teatro, in quanto opera zione culturale seria e profonda, non poteva avere nul la di casuale e dilettantesco. Visconti, anche se non creerà una vera e propria scuola d’Arte Drammatica, indicherà un preciso indirizzo di rigore interpretativo che sarà recepito dai più sensibili uomini di spettacolo. Di lui, anche in questo senso, occorre riconoscere le qualità del maestro. Strehler, che era un giovane della generazione a lui immediatamente successiva, capì l’im portanza dell’azione di Visconti nella scena italiana. Tan to è vero che, come afferma lo stesso Guazzotti, « il suo teatro nasce non dall’illusione della prospettiva, ma dalla consapevolezza del limite presente; nasce dalla vo lontà di superare grado a grado, assieme con lo spet tatore, quella condizione di civiltà e quello spazio di manovra che sono indispensabili per liberare il teatro da una subalterna condizione mercantile ed esaltarne il mo mento del vivere civile ». Sono, questi, aspetti che, pur accennati, erano presenti nelle indicazioni di Visconti. Il teatro italiano, ora, comincerà a prendere un respi ro europeo. Ed è quasi significativa la dimensione della « ricostruzione » nellayscelta dello stesso repertorio. Ve diamo, infatti, che in esso si può leggere tutta l’appas sionata voglia di un confronto, prima impossibile, con la cultura internazionale. E questi tre anni del lavoro viscontiano sono, proprio da questo punto di vista, par ticolarmente emblematici. Tanto che non possiamo non rilevare anche quella certa confusione che poteva pro venire dall’euforica scoperta di una dimensione nuova. Converrà, un momento, riflettere sugli autori che Vi sconti affronta nel palcoscenico. Il dato più generale ci viene dall’eclettismo del programma. Si capisce che l’an- <■ Rosalinda o dome vi piace » di W. Shakespeare, regia di Visconti (1948). In primo piano Rina Morelli (foto De Antonis) sia di recupero culturale giocava, in questo senso, in modo determinante. Hemingway veniva affrontato ac canto a Cocteau; come si incrociavano — più che in contrarsi — autori come Sartre, Tennessee Williams, Achard, Anouilh, Baty, o Caldwell. Ma in questa ete rogeneità di scelte c’era anche una logica ideale: co gliere gli episodi culturali e sociali che caratterizzavano l’uomo negli anni prima e dopo la seconda guerra. Così si spiega il valore che poteva assumere in quegli anni la rappresentazione di Quinta colonna di Hemingway. In quell’opera la realtà della guerra — di quel l ’orrendo episodio della società — veniva colto « a caldo », e diventava, intanto, un’occasione per un rapporto diretto con la realtà contemporanea. Gli episodi della resistenza madrilena all’assalto delle forze fasciste, disegnati con occhio epico dall’autore, venivano subito ricondotti nel quadro più generale e vasto della lotta all’oppressione, nel fenomeno più generale della Resistenza europea, e in particolare alla nostra lotta per la liberazione. Così i soldati intoneranno i canti della nostra guerra parti- giana, ormai quasi vittoriosa. Era il 1° marzo del 1945. La rappresentazione veniva data al teatro Quirino di Roma. Un altro discorso va, invece, fatto per scelte dram maturgiche come quella relativa a Sartre. Questo autore era quello che, nella cultura occidentale, meglio rap presentava l’inquietudine dell’uomo di fronte al progres sivo frantumarsi del mondo, delle cose, di ogni evento. Il suo esistenzialismo si presentava scoperto e palpabile, come i dati dell’esistenza quotidiana consegnati ad una dimensione sociale e sociologica. Visconti aveva capito che Sartre era uno di quegli autori che andavano di scussi, proprio per i motivi cui si è accennato sopra. In più era un autore che non disconosceva il valore della cultura della tradizione classica: e anche questo doveva piacere al regista, convinto com’era di comporre un asse di lavoro comprendente la coscienza critica del passato e l’ansia del futuro. Da questo punto di vista si intende anche il signifi cato delle rappresentazioni di Anouilh, di cui Visconti sceglie le opere migliori, ben inserite, comunque, nel cartellone degli autori francesi con in testa in ordine cronologico Jean Cocteau. Ma il capolavoro registico viscontiano lo abbiamo, in questi anni, con la messinscena de II matrimonio di Figaro, di Beaumarchais: era il gennaio del 1946. La cri tica fu concorde nel riconoscere a Visconti il merito di una misura registica dai toni elevatissimi. In partico lare venne sottolineato come il rileggere, nelle pieghe interne di quell’opera, i connotati di un mondo e di un’epoca tutta protesa al rinnovamento, portava ad ef fetti di straordinaria attualità. Come apparve un’esal- tante invenzione l’arrivo, alla fine, dei sanculotti che, improvvisamente, interrompono e chiudono la conclu siva festa di riappacificazione del Matrimonio di Figaro. Tra la fine del ’48 e l’estate del ’49, Visconti met te in scena Un tram chiamato desiderio, di Tennessee Williams. Fu una regia molto sottile, soprattutto per il modo con cui furono morbidamente risolti gli aspet ti di mondi psicologici contrastanti e tormentati. I prin cipali interpreti di questo lavoro teatrale furono: la Morelli, la Gioì, Gassman, Mastroianni. Seguì la mes sinscena dell’Oreste alfieriano — protagonista Gass man; altri interpreti: la Morelli, la Borboni, Mastroian ni, Ruggero Ruggeri — : di questa regia le cronache teatrali ricordano una certa spregiudicatezza nei toni antiaccademici, lo splendore dei fantasiosi costumi, so prattutto la proposta di un nuovo spazio di « gioco drammaturgico », onde ribaltare il tradizionale rappor to palcoscenico-platea. Infine va ricordata la vigorosa « Tre sorelle » di A. Cechov, regia di Visconti (1952). Nella foto: Memo Benassi, Elena da Venezia. Sarah Ferrati e, sullo sfondo Gianrico Tedeschi (foto De Antonis) prova interpretativa dello stesso Vittorio Gassman, e la reiterata cornice musicale beethoveniana che scandi va, con significativa solennità, i vari « quadri » della rappresentazione. quello milleriano del ’51, anche questo spettacolo è interpretato dalla Compagnia Morelli-Stoppa. La te tralogia sull’autore americano si conclude con Dopo la caduta, presentato, tra contrastati giudizi, a Parigi, nel ’65, con l’interpretazione di Annie Girardot e Michel Auclair. La scelta reiterata di Miller è molto significativa per spiegare l’impegno culturale-di Visconti nel periodo della guerra fredda, quando certi atteggiamenti richie dono la forza della convinzione, non disgiunta da una precisa scelta ideologica e di gusto. Di Uno sguardo dal ponte Luciano Codignola dirà, tra l’altro: « chi imma gini le sottigliezze della regia di Luchino Visconti e la bravura della compagnia Morelli-Stoppa può anche im maginare il grande successo dello spettacolo. La versio ne italiana di Gerardo Guerrieri fa parlare i due clan destini in siciliano, aggiungendo colore al dramma, che è stato suggestivamente ambientato in una scena unica, nella quale il gioco delle luci individua piacevolmente volta a volta i luoghi dell’azione ». Certo l’equivoco del sentimentalismo, presente nel dramma milleriano, pur esplicitamente « sociale », viene evitato in parte: per ché « è assai facile arrivare al melodramma (e basta un rallentamento nel ritmo, come avviene nella secon da parte di Uno sguardo dal ponte di Visconti) » e ri comporre tutto il discorso in un improbabile « teatro civile ». Il 1952 è l’anno di un incontro importante con due classici: La locandiera di Goldoni e Tre sorelle di Ce chov. Dello spettacolo goldoniano Visconti metterà in evidenza, attraverso un realismo asciutto e incisivo, le indicazioni riformatrici del grande commediografo. Delle Tre sorelle accentuerà la categoria del provvisorio, co me necessaria ’esperienza di vita’. Sono due spettacoli, questi, che segnano il vertice della regia teatrale di Vi- Nel ’49 Visconti affronta due regie shakespeariane: Come vi piace e Troilo e Cressida. La prima fu caratte rizzata da una preziosa estrosità figurativa (le scene e i costumi erano di Salvador Dalí) e dal fatto di aver concentrato, nel quadro di un accurato evento interpre tativo, attori molto diversi per formazione e per capa cità: Gassman, Ferzetti, Ruggeri, Salce, Mondolfo, Stop pa, Luigi Almirante, Mastroianni, Cesare e Sergio Fan- toni, la Bizzarri, la Tamantini, ecc. Per Troilo e Cres sida Visconti mise alla prova tutte le corde della sua capacità figurativa, puntando al « grandioso » e al « me raviglioso ». Si tratta anche di una raffinata « prova di grande spettacolo », quasi un’esaltazione delle possibilità della rappresentazione scenica. Quello che può colpire di più è senza dubbio la capacità del sincretismo vi- scontiano: l’operazione compiuta, con un unico atto, su arti diverse, da quella figurativa a quella musicale, fino a quella coreutica. Lo spettacolo venne rappresentato, tra giugno e luglio, nel giardino di Boboli, a Firenze, nel quadro del maggio musicale. Gli attori che parteci pavano a questo memorabile « evento » furono molti. Ricorderemo: Carnabuci, De Lullo, Interlenghi, Mario Pisu, Nerio Bernardi, Baghetti, Giovanni Cimara, Me mo Benassi, Stoppa, la Morelli, la De Giorgi, la Magni, la Zareschi, Albertazzi. Nel 1951 Visconti mette in scena Morte di un com messo viaggiatore di Arthur Miller, autore che ripro porrà con la regia de II crogiuolo (1955) del quale fi gurano interpreti la Brignone, l’Albertini, la Asti, San- tuccio, Pilotto, D’Angelo, Buazzelli. Sempre di Miller nel ’58-’59 va in scena Uno sguardo dal ponte-, come sconti; due momenti apparentemente diversi e, invece, uniti da una analoga visione del mondo e della vita. Ambedue gli spettacoli sono portati in scena dalla com pagnia Stoppa-Morelli, affiancati da De Lullo, Mastro- ianni, Rossella Falk, Romolo Valli (solo per La locan- diera), Sarah Ferrati, Elena Da Venezia, Tedeschi, Be- nassi, Ruffini, Baghetti. Gli altri spettacoli cechoviani di Visconti furono Zio Vania (1955), Il Giardino dei ciliegi (1965): in ambedue i casi, tuttavia, non sarà raggiunto — al di là della grande correttezza formale della rappresenta zione — quel livello di grande invenzione e figurazio ne estetica. Come, del resto, rimarrà su toni minori, di troppo esplicito clima cechoviano, la regia di Come le foglie di Giacosa (1954), con la Brignone, Randone, Santuccio. E si dovranno considerare « omaggi » all’interpre tazione di due grandi attrici del nostro teatro Medea di Euripide (1953), protagonista Sarah Ferrati, e La Signorina Giulia di Strindberg (1957), con Lilla Brigno ne. Con accenti più divertiti che critici si effettuerà la rappresentazione di L’Impresario delle Smirne, di Goldoni (1957). Dal 1957 al 1960 il teatro è per Visconti soprat tutto un fenomeno legato al gran professionismo del suo lavoro. E’ un periodo — a parte Uno sguardo dal ponte del ’58, che, in qualche modo, rappresenta un’ec cezione — che collima con un generale attenuarsi del le qualità creative anche nell’ambito del lavoro cine matografico. Come se il regista e l’uomo di cultura avesse bisogno di sedimentare aspetti e problemi di una realtà — sia interiore che esterna — a lui poco chiara. Mette in scena, con poco successo, Veglia la mia casa, Angelo, riduzione dal romanzo americano di Thomas Wolfe (la compagnia era la Brignone-An- nibale Ninchi). Successo mondano ebbe a Parigi Due sull’altalena di William Gibson (interpreti la Girardot e Marais): anche questo spettacolo, come il preceden te, era del 1958. E mentre nel melodramma firmava regie importanti, nel ’59 metteva in scena molto stan camente, Figli d’arte di Diego Fabbri. Sul finire del ’60, Visconti con la fedele compagnia Stoppa-Morelli accresciuta per l’occasione dalla presenza della Monco ni, della Morlacchi e di altri, cura la regia de L’Arialda di Giovanni Testori. Lo spettacolo, giudicato positiva- mente da quasi tutta la critica, destò una serie di po lemiche nel pubblico che, in questo caso, contestava l’eccessivo realismo contenutistico sottolineato dal re gista. Molto più discutibile — questa volta sul piano artistico — fu l’altro spettacolo di Testori La monaca di Monza, rappresentato nel ’67. Gli ultimi dieci anni dell’attività teatrale di Vi sconti si svolgono senza eccessivi clamori: l’impegno del regista sembra rivolto soprattutto al cinema quasi volesse segnarne una compiuta parabola. Si ricorderà, comunque, la messinscena parigina, nel 1961, di Pec cato che fosse una sgualdrina dell’elisabettiano John Ford: uno spettacolo che le cronache ricordano per « l’effetto scandalo » che ebbe sul pubblico. Si è già detto dell’altra regia milleriana, del ’65, presentata a 'Parigi, Dopo la caduta, in concomitanza col formale Giardino dei ciliegi, che inaugura la stagione del Tea tro Stabile di Roma. Dopo La monaca di Monza, del ’67, segue, nel ’68, il modesto L ’inserzione di Natalia Ginzburg: spettacolo, questo, che rimane lontano dalle grandi creazioni viscontiane. Del 1973 è la regia di Tanto tempo fa (Old times) di Harold Pinter (con la Cortese, la Asti, Orsini): anche quest’ultima operazio ne teatrale ha lasciato perplessi molti critici. Pur rico noscendo a Visconti la grandezza del maestro di regia, si è sottolineato, però, la stanchezza di una certa im postazione ritmica, l’opacità della composizione, il ri gore che scivola nel rigorismo. Il fatto, è che un autore come Pinter rappresentava per il regista l’ultimo sforzo, compiuto con tutta la sua sincerità, di un dialogo im possibile con la generazione « dell’assurdo ». In questo si finisce per riscontrare anche una misura di alta poe ticità: la voglia di voler capire il mondo, anche quando vuole soverchiare la posizione di un uomo, di un in tellettuale, di un operatore culturale. E’ la necessità di non chiudere mai un dialogo con la realtà, anche se su pera i confini di una posizione o di un punto di vista; infine di una possibilità di comprenderla nel nostro mondo. Visconti ha lasciato fino all’ultimo una lezione di regia teatrale che, pur nella labilità dell’evento scenico, rimarrà come segno importante nella nostra storia dello spettacolo del dopoguerra. Da lui è partita, come si di ceva all’inizio, una nuova stagione del lavoro dell’at tore, ricondotto al rigore ii una dignità scenica e delia dimensione di mediatore più sensibile e cosciente. Nel suo lavoro teatrale, più in generale, possiamo rilevare alcune costanti. Da un lato la predilezione per il mondo degli affetti, fino ad una analisi che giunga ad eviden ziare la morbosità. Poi la cura di una concentrazione della rappresentazione; la perfezione dell’ambientazio- ne, con il gusto dei particolari che, per la loro signifi catività, raccolgano e indichino i connotati di un clima e lo spessore delle atmosfere. Un raffinato connubio, cioè, tra antiquariato e fantasia, cultura e piacere del meraviglioso. E infine il sentimento della decadenza, riguardata non tanto nella natura umana, quanto nel quadro in tero della società. Ecco perché Visconti, alla base di ogni operazione, privilegia il momento della storia: da qui evoca immagini concrete, risolte nei dati della poe sia, perché tutte scavate con il gusto della memoria. L’amore per il passato è visto come ricapitolazione di tutto un mondo, per poterlo, finalmente, distruggere. C’è, in questa visione, la necessità di un presente che non può che essere constatato nelle sue inquietudini, contraddizioni e nelle ombre più segrete. IL TEATRO LIRICO Nel lavoro di Visconti il melodramma è tra i mo menti più interessanti. Delle regie d’opera viscontiane rimangono testimonianze clamorose, tuttavia apparen temente meno eclatanti di quanto non sia accaduto con la prosa. Il fatto è che la lirica ha una sua « consu mazione » più celere e rimane (dovremmo dire rima neva perché ora è in atto un suo risveglio) molto spes so legata al pubblico degli appassionati. Eppure que sta dimensione dell’arte di Visconti è davvero una delle più significative, se non la più importante. Lo rivela non solo certe forme relative allo spet- tacolo di prosa, ma anche il lavoro cinematografico. Lo stesso Visconti, poco prima della morte, in un’intervi sta rilasciata alla televisione italiana, poneva l’accento sul suo grande amore per la lirica. Ad esempio ricor dava con melanconica nostalgia la « sua » interprete ideale, Maria Callas: una cantante eccezionale che « ave va bisogno, ogni sera, di essere incoraggiata. Seguiva, da lontano, un gesto, magari appena accennato, o forse la semplice presenza fisica » del suo maestro. Visconti controllava, ogni sera, se tutto era a posto: se i fiori stavano al punto giusto, se la scenografia manteneva la sua usuale « pulizia », se i movimenti di scena si into navano al ritmo generale della composizione. Il teatro lirico era, per Visconti, una passione molto antica. Fin da piccolissimo aveva seguito le rappresentazioni al tea tro milanese della « Scala ». E la musica era stata an che oggetto di studio per anni, per tutta l’adolescenza, quando studiava al Conservatorio violino. In anni in cui il melodramma veniva guardato con aria di sufficienza, Visconti ha ripreso in mano le fila La prima importante regia lirica di Visconti fu tan to rivoluzionaria da creare, nel pubblico di allora, un vero e proprio scandalo. Si tratta de La Traviata (1955) che era stata restituita, fuori da ogni accreditato con venzionalismo, alla carica di rottura che possedeva ori ginariamente. Con l’aiuto della grande Callas, Visconti riuscì a risolvere visivamente tutta la pienezza dell’a more di Violetta, personaggio distrutto dalle passioni e condannata all’inferno delle convenzioni sociali. Finalmente tutto il tono polemico verdiano veniva proposto, nel teatro lirico, con tutta la forza di un rea lismo romantico fino allora sconosciuto. L’anno del de butto viscontiano nella regia lirica è del 1954: mette in scena una Vestale, alla « Scala » di Milano, protago nista Maria Callas. Dal ’54 al ’57 realizza Sonnambula, Anna Bolena, Ifigenia in Tauride: tre grandi inter pretazioni che le cronache ricordano come dei precisi punti di riferimento. Il 1958 è l’anno del verdiano Don Carlo, rappresentato prima al Covent Garden e poi all’Opera di Roma: per molti un vero avvenimento li rico. Come ancora, per altri, lo rappresentò la regia della Manon (1973). Altre regie famose: Salomé (1961), Il Cavaliere della rosa (1956), Faltaff (1967), Simon Boccanegra (1969): tanto per citare, qui, alcune delle più importanti. di tutta una grande tradizione. Il suo repertorio ha pri vilegiato soprattutto tre autori, Bellini, Donizetti e, in particolare, Verdi. Con la semplicità del profondo conoscitore di un genere teatrale e musicale cui guar dava con molta sensibilità, Visconti ha imposto all’Ita lia una riflessione attenta e meno salottiera di un mon do della nostra cultura che non veniva più riproposto con toni ludici. Perché era, implicitamente, una rifles sione sul nostro passato prossimo e sulla sua portata per i nostri giorni. Tutta questa operazione veniva com piuta senza ambizioni di programmi rivoluzionari: come « Uno sguardo da! ponte » di A. Miller, regia di Visconti (1958). Tra gli altri attori: Rina Morelli, Sergio Fantoni, Corrado Pani (foto De Antonis) era nella natura e nel metodo di lavoro del Visconti uomo di spettacolo e uomo di cultura. La sua, come dice Fedele D’Amico, è « una risco perta di tipo che tranquillamente diremmo filologico; perché nel teatro d’opera Visconti non ’attualizzò’, non rivisitò mai, soltanto disse: alzati e cammina. Sino a far capire, anche ai ciechi e ai sordi, che cosa fosse un’o pera di Puccini, juxta propria principia. Nel che egli non lascia epigoni, pallidi imitatori, bensì una viva le zione ». Dante Cappelletti NOTIZIARIO MUSICA Mirella Freni è stata premiata col « Grand prix national du disque lirique », assegnato a Parigi. Quest'anno sono stati as segnati 18 premi, relativi ad altrettante registrazioni di opere intere o brani d'opera. Tra i premiati il soprano sovietico Gaiina Vichnievskaja, moglie del violoncellista Mstislav Rostropovic, la quale ha vinto due premi, uno per la sua interpretazione ne * La fidanzata dello Zar » di Rimsky-Korsakov e un altro per La dama di picche » di Ciaikovski. Hanno anche ricevuto un premio la rumena Viorica Cortez, l'inglese Janet Baker e l'americana Jessy Normann. Prima nazionale a Scherin (200 km a sud di Berlino) di Prometeo (poema del fuoco) di Aleksander Skrjabin. Il poema è stato eseguito dall’orchestra della <■ Mecklenburgischen Staat- skapell » diretta da Hartmut Hànchem, con il « clavier à lumiè- res » (« pianoforte a colori ») ipotizzato dallo stesso Skrjabin e costruito nella RDT appositamente per questo concerto. Questo particolare strumento è stato realizzato per la visualizzazione « delle misteriose relazioni fra suoni e colori », su cui è appunto basata la partitura. L’Associazione Culturale del Teatro delle Arti di Roma, nel corso di una conferenza stampa, ha presentato il programma delle manifestazioni musicali per il 1978. Sono previsti uno spettacolo di mimi con Roy Bosier; un concerto di musica danza « Schmetterlings-spiel »; una « suite panamericana » con musiche di Helmut Laberer; la « Rappresen tazione di anima e di corpo » di Emilio de' Cavalieri; i « Carmina burana » e i « Catulli Carmina » di Orff; un ciclo dedicato a so listi italiani; « La serva padrona » di Pergolesi e il « Pigmalione » di Donizetti. L’inaugurazione è avvenuta il 9 gennaio con un recital di Franca Tamantini, imperniato su musiche di Weill, Eisler, Dessau. Eseguita per la prima volta la « Sonata in do maggiore op. 6 n. 8 » di Pietro Locatelli. L'opera è stata rintracciata in un manoscritto inedito della Biblioteca del Conservatorio di Santa Cecilia di Roma e pubblicata a cura di Renzo Sabatini dall’Ita lico. La sonata è stata presentata nell'Istituto italiano di Stoccol ma, dal duo Castagnone-Guglielmo. Conclusa, con risultati soddisfacenti, la campagna abbona menti del Teatro dell'Opera di Roma. L'incremento complessivo è stato del 15%. Gli abbonati sono passati da 3.093 a 3.500, gli incassi da 179 a 250 milioni. Anche le presenze scolastiche sono passate dalle 19 mila dello scorso anno, alle 63 mila richieste per la stagione in corso. Al Teatro Verdi di Padova, Peter Ryom, presidente della So cietà Internazionale « Antonio Vivaldi », ha ufficialmente procla mato aperte le celebrazioni per il 300. anniversario della nascita del compositore (avvenuta a Venezia nel 1678). I solisti Veneti, diretti da Claudio Scimone, hanno eseguito per la prima volta due grandiosi inediti del « prete rosso »: « La Messa in do mag giore » e il nuovo « Gloria » RV 583. E' stata inoltre eseguita la sinfonia » La fortuna in macchina » dall’opera » Giustino », sempre di Vivaldi. È iniziato a Milano nella Sala Grande del Conservatorio <■ Giu seppe Verdi », il nuovo ciclo di concerti sinfonici e da camera « I pomerìggi musicali di Milano » con la collaborazione del Co mune di Milano, Ripartizione Cultura e Spettacolo, dell'Ammini strazione Provinciale di Milano, della Regione Lombardia, Asses sorato Beni e Attività culturali. Tra gli autori: Mozart, Haydn, Hàndel, Schubert, Vivaldi. Il Teatro alla Scala di Milano, ha commemorato il grande compositore e direttore d'orchestra Victor de Sabata scomparso dieci anni fa. Il maestro Gianandrea Gavazzeni ne ha ricordato la vita e l'opera. Sono state quindi eseguite musiche di Rossini, Beethoven, Verdi, Wagner e Debussy. Accordo fra l'Opera di Roma e il Kirov di Leningrado. È stato siglato un accordo di scambi culturali fra i due teatri che prevede una serie di manifestazioni. Quasi un gemellaggio fra i due enti lirici. Sono previste tournées, scambi di direttori e di spettacoli, corsi di perfezionamento, inoltre con la partecipazione degli or ganici della Rai e di Santa Cecilia, si dovrebbe aprire la prossima stagione di Caracalla con l'esecuzione dell'Ottava Sinfonia di Mah- ler, diretta da Kirill Kondrascin. Con la presentazione di * Blaubart » di Camillo Togni, « Il Man darino meraviglioso » di Béla Bartok e « Hyperion » di Bruno Ma- derna, sono entrati nel loro quattordicesimo anno di vita, i « Lu nedì della Fenice »: una serie di manifestazioni ideate per pre sentare al pubblico tutte le opere in programma nel teatro vene ziano. La stagione di opere e balletti comprende nove spettacoli, per complessive 58 manifestazioni. Magda Olivero ha riscosso uno straordinario successo di cri tica e di pubblico con un recital alla Carnegie Hall di New York. Il soprano, accompagnato al pianoforte da Ivan Davis, ha inter pretato romanze di Tosti, Respighi, Donaudy e Hahn. Gli spetta tori entusiasti, l'hanno applaudita per più di un quarto d’ora. Un'iniziativa dell’Accademia di Santa Cecilia. L'accademia di Santa Cecilia, in collaborazione con l'Assessorato alla Cultura del Comune di Roma, ha presentato un programma musicale di decentramento da attuarsi in sei circoscrizioni cittadine. Le mani festazioni musicali, cui hanno aderito, oltre agli organici dell'Ac- cademia, numerosi complessi e solisti esterni, formeranno delle piccole, ma organiche ■ stagioni ». Tutti i concerti, il cui biglietto d'ingresso costerà 1.000 lire (con sconti per gli studenti e operai), saranno brevemente illustrati ed introdotti. Il teatro del dissenso alla Biennale di Venezia •il L a g u e r r ig lia d a l p a lc o s c e n ic o M. Bulgakov « Il Maestro e Margherita », regia di J. Ljubimov (1977) E’ forse il dissenso « la morale esclusiva e incalzante di tutta la storia del teatro », come hanno sostenuto Ursic e Bertolucci nella loro relazione introduttiva alla « due gior ni » che, sul tema, si è svolta alla Biennale di Venezia (7-8 dicembre, ala napoleonica del museo Correr)? Oppure non è vero niente, il teatro non può partire dall’assalto del Pa lazzo del Potere perché è essenzialmente istituzione, cerca protezioni, esige finanziamenti? È insomma il dissenso teatrale un movimento che si precisa storicamente e politicamente, come un processo sociale e culturale in continuo svolgimento, oppure è tutt’al più una malattia temporanea che si manifesta sotto certi regimi? Le definizioni — estensive, restrittive — a Venezia non sono mancate. Natalia Sharyinova: « Il dissenzo tea trale è all’Est, oggi, negazione assoluta e quindi rifiuto di scrivere qualsiasi cosa che risulti rappresentabile ». Victor Erlich: « È non un’opposizione morale al sistema o, tanto meno, un ripudio totale del sistema sotto il quale lavorano il drammaturgo e il regista, ma una sfida all’estetica della banalità, alle idee ricevute, al moralismo salvifico, alla men te retta ». È (Georges Banu) « l’accorta, sottile dissemina zione di allusioni politiche sull’attualità in testi classici, un insieme di crepe che, sul palcoscenico, incrinano il si stema ». O ancora (Jan Kott) « la saggezza scura del fool scespiriano che s’oppone, in una rappresentazione del mon do dai contorni tragici del ”Re Lear” , all’arroganza della ragione ». Si potrebbe continuare, aprire altre porte e proseguire per altri labirinti: il risultato non sarebbe diverso da quel lo del convegno di Venezia, ossia risulterebbe impossibile trovare una definizione accettabile per tutti. Non perché il dissenso nel teatro « che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa », come ha scritto un critico irritato per certa verbosa contraddittorietà emersa dal dibattito; ma perché chiaramente, una volta di più, il tema è stato discusso da intellettuali che, per quanti sforzi facessero, non riuscivano a deporre preclusive ideologiche e passioni politiche, ora ampliando le manifestazioni della « fronda teatrale » veri ficatesi all’Est ed ora minimizzandole, come segni di un disagio comune a tutta la drammaturgia, senza confini geo politici. Di qui, dunque, un certo imbarazzo a riferire; tan to più che i protagonisti più citati di questo dissenso, co me i cecoslovacchi Havel e Kohout, non erano presenti, e pour cause. Di qui l’impressione di una recita « a sipario chiuso », come altri ha detto, con pochi primattori e pa recchie ombre. E tuttavia, sul fondo, qualche punto fermo, sufficientemente sgombro di deformazioni politiche, è pur emerso. Nessun dubbio, tanto per cominciare, che il teatro sia un buon manometro delle pressioni sociali. Quando a Var savia, ad esempio, si vendono in tutto tre biglietti per la « prima » di una commedia « zdanoviana » del sovietico Sopronov, vuol dire che l’intelligentia polacca si considera sotto il regime dell’occupazione. E se a Praga, durante la rappresentazione di una pièce di Marivaux, nel periodo in cui lo sfortunato Dubcek deve chiedere protezione all’am basciata di Ankara, il pubblico applaude un attore il qua le dice « riportatelo » a proposito di un personaggio che risulta deportato in Turchia, il senso di quell’applauso è fin troppo chiaro. Ancora: quando a Bucarest, nel « Revisore » di Gogol, si vede un sindaco onnipotente e temuto che rivece il pane ed il sale dell’ospitalità in uno dei villaggi visitati, proprio mentre Ceausescu compie un viaggio in Meglio, l’escludeva fino all’esplodere, dopo Krusciov, del teatro « spontaneista » improvvisato nel parco Ismailivo di Mosca, nel quartiere degli artisti, o degli happenings di Infante Arana, o delle rappresentazioni volanti dei giova ni adepti della body art. Ma il concetto di teatro di Stato resta quello codificato sotto Stalin, che si riservava il di ritto di proibire personalmente, in ultima istanza, spetta coli già passati attraverso i vari filtri dei comitati di let tura, dell’agitprop, anche del KGB, in quanto non aveva, in proposito, idee diverse da quelle della zarina Caterina la Grande. La quale, ricordiamolo, aveva scritto di suo pu gno quattordici commedie, definiva il teatro « la scuola Mejerchol'd e Burian, caricatura di A. Hoffmeister (1936) Romania e gli tributano lo stesso omaggio, il pubblico ve de nel rapporto tra scena e realtà una stessa rappresenta zione del potere. In tutti questi casi, usando l’arma dell’allusione, il teatro diventa parola pubblica. Il jus murmuraridi, l’ironia sottovoce, si liberano nell’applauso o nei fischi della sala unita, e si amplificano. Contro l’arroganza del potere si scatena una guerriglia di palcoscenico magari sorniona, stri sciante. Nel ’57, mentre Beckett provocava angosce me tafisiche a Londra e a Parigi, a Varsavia « Aspettando Godot » diventava un’allegoria sarcastica in cui l’atteso, in visibile personaggio del dramma non e.ra più l’ipotesi di Dio, ma l’idea di un socialismo introvabile. Undici anni dopo, alla vigilia della caccia ai dissidenti, lo stesso pubbli co applaudiva freneticamente la ripresa de « Gli avi » di Mickiewicz, un « pezzo forte » del repertorio nazionale, in cui si evocavano le persecuzioni e la deportazione in Sibe ria degli studenti polacchi di Vilna agli inizi del secolo: e tanto vigorosi erano gli applausi che alla fine la com media fu proibita. Dalla fine della guerra in poi, nessun dubbio, il mano metro del teatro ha segnato spesso pressioni alte nei paesi dell’Est. Nell’URSS è più difficile misurarne i livelli per ché una censura molto attenta, a organizzazione piramidale, esclude la possibilità di mettere in scena la contestazione. della nazione » ed esigeva, di conseguenza, che restasse sotto la sua sorveglianza, « per il bene del popolo ». Quando il dibattito (preceduto, la. vigilia, da una pre sentazione di materiali: riviste, affiches, videotapes, fil mati, libri) s’è aperto nell’aula gelida del museo Correr sospeso nella nebbia, c’era il rischio — anche per l’etichet ta prescelta: « Teatro-provocazione » — che avallasse, ma gari controvoglia, una provocazione politica bell’e buona. Una di quelle provocazioni, per intenderci, che non gio vano a nessuno, non all’intelligenza e ,nor: alla pacifica convivenza. Ma direi che il rischio, tutto sommato, è stato evitato: anzitutto per un lodevole senso di misura da par te della grande maggioranza degli intervenuti nella discus sione, che ha diretto con senso di responsabilità Mario Raimondo; e poi per quell’avere inscritto il dissenso tea trale — come si diceva — in quella « morale incalzante » che intende affermare con gli strumenti dell’arte, ovunque nel mondo, una verità altra rispetto a quella, convenzionale, del Potere stabilito. Col che si è andati al di là della stru mentalizzazione politica. Dev’essere considerato positivo anche il fatto che il convegno, dopo qualche smarrimento nel nominalismo, dopo qualche puntata aspra al limite della provocazione politica, ha saputo tracciare una linea di demarcazione abbastanza chiara fra critica e dissidenza, sottintendendo che i regi- stri interpretativi della vita teatrale all’Est non possono non essere ampi, e diversi. Nella cornice di una conflittualità antica, poiché già nel 1207 — è stato ricordato — il papa Innocenzo II riteneva di dover intervenire in un paese « di frontiera » come la Polonia per rimproverare il vescovo di Guiezno, in quanto troppo tollerante nei confronti di « spet tacoli irriverenti, dati anche sui sagrati delle chiese ». Beninteso, le informazioni pervenute a Venezia non po tevano non essere lacunose. L’ha sottolineato fra gli altri Jean Lue Moreau, evocando le drammaturgie delle varie nazionalità brutalmente incorporate nell’unico sistema so vietico, gli autori dell’Estonia, della Georgia o del Caucaso verità del linguaggio della gestualità quotidiana, in quel mo mento intende ribellarsi al teatro di propaganda della pa rola, imposto e protetto dal sistema. Così com’è chiaro che quando gli studenti di Mosca si sforzano di ricostituire uno spettacolo del Bread and Puppet che non hanno visto se non attraverso qualche diapositiva entrata clandestinamente in URSS, con la loro imitazione maldestra e patetica espri mono l’esigenza di un altro teatro, indicano insieme un rifiuto e una liberazione. Ma il teatro non conformista dell’Est non diventa, in queste condizioni, conformista nei confronti delle avan guardie occidentali? Non s’illude di liberarsi perdendo la A. Jarry « Re Ubù », Teatro Liberato, regia J. Honzl, scenografia J. Strysky eliminati all’epoca delle purghe, le radici teatrali estirpate nei paesi satelliti, il patrimonio drammaturgico di un’Un gheria isolata e ricondotta ad una sterile « tranquillità », i registi come il polacco Leon Schiller spazzati via perché indocili. E la diaspora dei teatranti e dei drammaturghi emigrati: non soltanto quanti, come il rumeno Ionesco o il polacco Gombrowicz, hanno ritrovato una vocazione ma anche coloro che hanno smarrito il loro destino sulle strade buie dell’esilio. Beninteso, non si è potuto valutare in termini quanti tativi e qualitativi, di libertà, il peso del non-pubblico. Cioè il significato, forse più grave e drammatico di quanto si pensi, di certi arresti nella partecipazione popolare alla vita teatrale, come rifiuto della « colonizzazione » culturale del l’epoca staliniana. Così com’è stato difficile valutare appie no il senso dell’adesione del teatro alternativo dell’Est (di quanto per ora esiste) ai moduli dell’avanguardia occi dentale, nouveau théâtre francese o gestualità americana: semplice esterofilia, complesso d’inferiorità riprovevole, co me hanno sostenuto i censori di regime, oppure « fuga in avanti » per sfuggire all’asfissia dei modelli ufficiali? È chiaro che quando Grotowski, pur essendosi formato a Mosca secondo i canoni di Stanislavskij, improvvisamen te decide di fondare a Varsavia il suo laboratorio per un « teatro povero », basato sull’essenziale e non sofisticabile propria anima? Effettivamente, qualcuno ha constatato che certe avanguardie teatrali dell’Est sono imitazioni appros simative di quelle dell’Ovest: ma come potrebb’essere di versamente? L’informazione è scarsa, le condizioni di la voro sono schizofreniche, il teatro sperimentale non ha il diritto di uscire dalla semiclandestinità. Sì sono registrati casi di autoeliminazione dolorosa, cosciente: come quello dello Squart Theatre di Budapest, che si è messo volonta riamente in crisi dopo la « normalizzazione » di Radar e, rifiutando il repertorio imposto, si è rifugiato in un’attività di gruppo, per pochi adepti, prima di chiudere i battenti. Comunque sia, imitazione o no dell’Occidente, la ricer ca di forme nuove di accesa artisticità, la sperimentazione di modi di comunicazione inediti col pubblico (tipica l’at tività del gruppo moscovita di Monastyrskij, con i suoi happenings apparentemente ovvii, per incitare lo spetta tore a « registrare ciò cui si era assuefatto ») costituiscono una delle due direzioni di marcia lungo la quale — come ha rilevato Bertolucci — si muove il teatro non conformi sta dell’Est. L’altra è quella, di cui si diceva già prima, del gioco delle allusioni, per stabilire legami di complicità fra palcoscenico e platea e così ingannare il censore. Per esem pio, far ribollire il sangue nel calderone delle streghe del Macbeth per riferirsi ai crimini di Stalin o evocare l’oppri mente presenza sovietica in Polonia con la battuta di Re Lear: « Siamo tutti immersi nella notte fredda della sof ferenza ». Jan Kott ha mostrato che il teatro polacco contempo raneo ha più di ogni altro reagito all’obbedienza al potere esprimendo « la sofferenza scura del testo proibito ». L’au tore di « Shakespeare, nostro contemporaneo » (il quale ha dovuto emigrare per avere presentato nel ’56, al Consiglio culturale polacco, un rapporto fortemente critico contro il cosiddetto realismo socialista) si è soffermato sull’addestra mento dello spettatore polacco a cercare nel testo e nello spettacolo — anche classici rivisitati — recondite rivendi cazioni di libertà politiche e diritti civili. È a causa di que sto addestramento all’allusione (diceva il poeta Julian Tuwin che « -la battuta compresa dal censore merita il sequestro ») che la Polonia ha adottato senza esitazioni lonesco e il suo linguaggio sempre riferito ad altra cosa', contro l’este tica delle idee ricevute .la reduxio ad absuràum, l’adesione alla risata nevrotica di Berenger, in un dima di tragicom media perpetua. Una grande ombra è scesa dopo il ’68 sulla scena po lacca; una censura molle, sorniona, si concede il lusso di autorizzare gli autori « eretici » — Gombrowicz, Witkie- wicz, Mrozek — soltanto dopo la morte. E tuttavia — è stato detto a Venezia — viene dall’esempio polacco una lezione di comportamento per tutto il teatro di provoca zione. Siccome non può esserci, per definizione, teatro sen za pubblico, e la contestazione aperta diventa suicidio nello scontro con la censura, meglio il « dissenso del possibile », la dialettica sottile dell’opposizione a mezza voce. Quale, appunto, quella che si pratica. In Cecoslovacchia, invece, il teatro non allineato vuole riproporre la misura umana, il vissuto quotidiano, la ra gione magari in chiave ironica del sentimento contro la fredda ideologia, così come hanno fatto nel cinema un For- man o uno Schorm. Più che negli altri paesi dell’Est in Cecoslovacchia il teatro vuol essere l’arte di cambiare la politica per cambiare la vita, rivendica j diritti fondamen tali dell’uomo contro le strutture, pretende di contribuire ad elevare il livello democratico. Noi italiani abbiamo co nosciuto questo teatro nelle rassegne di Firenze e di Ve nezia; sono i testi messi in scena dai tre registi-leaders Grossman, Radak e Krejca, le piccole pièces cifrate che si rappresentano negli scantinati di Praga, i recuperi del ca- baret Dada e le riprese degli autori banditi ai tempi di Stalin, Voskovec e Werich. E in Russia? In Russia, a parte i casi isolati di rottura di cui sappiamo tutti, e l’agitarsi dei « marginali » più o meno tollerati, il teatro non conformista si esprime attra verso i tentativi di un Ljubimov, di un Efrcs, di qualche altro « solitario » che cerca di uscire dai vecchi canoni di Stanislavski per rifarsi a Meyerchol’d, a Maiakovsky, a quegli innovatori della Rivoluzione che erano stati presto ridimensionati, nel nome di un realismo didattico, indot trinante. Riaffiora, come ha fatto notare Milly Martinelli, la vena dostoevskiana; giovani autori come Roscin, Ajtmatov e Lujk hanno cercato di uscire dalle secche del moralismo ideologico. Ma il peso della burocrazia tealrale — di cui ha fornito uno sconcertante spaccato l’americano Marshall — continua a mortificare una drammaturgia che era stata così ricca di fermenti negli anni Venti, e che non ha poi saputo produrre più nulla, o quasi, di significativo, tranne le parabole del perseguitato Bulgakov o le satire di Evgenij Svarc, contrabbandate per fiabe innocue. Attraverso scambi fortunosi, disseminazioni complica te, rifiuti sempre più scoperti si è costituito all’Est un pae saggio teatrale non conformista e abbastanza coerente, no nostante sia ancora offuscato da banchi di nebbie. Ci si chiedeva a Venezia che cosa univa, poniamo, il lavoro di Efros o di Ljubimov in URSS, quello di Krejia e quello di Grossman, di Jan Kott o di Grotwsky; che co sa lega fra loro Havel e Topol, Kohout e Kantor, Besson e Ciulei, Pintilie e Popovic. La risposta è forse in quello scritto di Brecht del ’55, uno degli ultimi, in cui si diceva che « il mondo d’oggi può essere solo descritto agli uomini se viene presentato come trasformabile ». Ecco: il teatro del dissenso è un teatro che crede nella trasformazione contro l’immobilità, specchio di morte. I censori dell’Est (ma non ce ne sono soltanto all’Est, non dimentichiamolo) non possono più continuare a credere che le provocazioni teatrali che vengono dai giovani e dagli emarginati siano una semplice, passeggera malattia di mi noranze asociali. Sono l’espressione della vita che cambia e si rinnova. Se non lo capiranno, finirà che sui palcoscenici disertati dell’Est scenderà prima o poi il Silenzio. Un personaggio inquietante. Vendicatore, terribile. Ugo Ronfani NOTIZIARIO TEATRO Il premio « Toti-Lino: all'insegna della simpatia », istituto da un gruppo di uomini di cultura veneti per ricordare la can tante lirica Toti Dal Monte recentemente scomparsa, è stato at tribuito, per l’anno 77, all'attrice Elsa Vazzoler, « per aver in trodotto — è detto nella motivazione — nella ricca tradizione del teatro veneto una particolare nota di viva e scintillante cordialità ». Grazie ad un contributo regionale di 60 milioni sarà possibile ripristinare il <• Teatro delle marionette » intitolato « I piccoli di Vittorio Podrecca » di Cividale che per quasi in cinquantennio ha costituito una delle più valide espressioni artistiche del Friuli. È iniziato con <• Natale in casa Cupiello » il terzo ciclo televi sivo del Teatro di Eduardo: i due precedenti furono trasmessi, rispettivamente, tra il 1974 e 75, e tra la fine del 1975 e l'ini zio del 76. Seguiranno: « Le voci di dentro », gli atti unici « Figuri di tanti anni fa » e « Gennariello » oppure ■< Il Cilindro ». Dopo il successo dell'anno scorso, è stata estesa a 18 giorni rispetto ai 12 della precedente prima edizione la durata del secondo « Festival Spoleto-USA » che si svolgerà dal 25 maggio all’11 giugno a Charleston nella Carolina del Sud. Tra gli oltre cento avvenimenti culturali, teatrali e musicali in pro gramma figurano la messa in scena della « Vanessa » di Samuel Barber, de » Il furioso dell'Isola di San Domingo » di Donizetti, della <■ Bugia » di Martin e de « L'uovo » di Monetti. Luigi De Filippo; dopo molti anni di collaborazione artistica col padre Peppino ha deciso d’intraprendere altre vie e realiz zare un programma che più si avvicini alle sue possibilità ad aspirazioni artistiche. Apparirà in Televisione autore ed interprete della comme dia •• Storia strana su di una terrazza romana » e tornerà al teatro come protagonista de' « La taverna avventurosa » una delle più satiriche e polemiche commedie del settecento napo letano di Pietro Trincherà. Sulle scene londinesi Ingrid Bergman, Deborah Kerr e Claire Bloom. AVANTI CON GLI ANNI '50 1 v° o*s Buoni attori e buone storie. Questo inseparabile bino mio caratterizza ancora il teatro londinese all’Inizio del '78. Da un lato i buoni attori, i veterani della grande scuola britannica come John Gieìgud e Alee Guinness e le ex dive degli anni '40-’50 come Deborah Kerr, Ginger Rogers o ln- grid Bergman, dall’altra le buone storie, la mobilitazione permanente dei classici da Shakespeare agli elisabettiani minori, a Cechov, Strindberg, Brecht, Shaw, agli autori pia cevoli dell'età fra le due guerre, come Priestley od Agatha Christie, fino all’ex arrabbiato Terence Rattigan e all’ulti missima leva dei Bennett e dei Bond, abilissimi managers delle strutture drammatiche. Sulla scena dunque predominano i mostri sacri e del giovanissimi mostri che assomigliano come una goccia d'acqua ai loro predecessori. La vecchia e la giovane guar dia tengono il cartellone con un'insistenza fatta di fedeltà alla propria missione, con qualche venatura d’imperturba bile snobismo, più che di ostilità al nuovo. L'avanguardia è lasciata al teatro di mezzogiorno, al « lunch-theatre » dove a chi desidera saltare il pasto si vendono le confezioni spe rimentali in un'atmosfera di mutua complicità che ricorda i « sex-shops » 'di Soho. Il teatro politico resta ai margini della ribalta londinese mentre alla commedia musicale è riservata la celebrazione dei grandi miti del secolo. Il binomio attori-storia è esaltato dai due successi della stagione * Filumena » e « The Old Country ». « Filumena » è la nostra « Filomena Marturano » di Eduardo De Filippo, corretto — nei suoi risvolti più melodrammatici — dalla regia di Franco Zeffirelli che ne ha fatto, secondo l'espres sione del critico dello « Spectator », Ted Whitehead, « un capolavoro di ironico realismo ». La regia di Zeffirelli e la misura delia protagonista Joan Plowright (definita « rega le » dal critico del Daily Telegraph » John Barberi e del suo partner Colin Blakely, hanno bloccato con una recita zione densa ed esatta il rischio di un eccessivo colorismo mediterraneo. « Il viaggio da Napoli 1946 a Londra 1977 è lungo e periglioso — ha commentato il critico del "New Statesman" Benedici Nightingale — ma il dramma l'ha superato e l'ha superato indenne ». Un altro critico, Ber nard Levin del « Sunday Times », ha adoperato degli ac centi lirici per descrivere la propria commozione: « Eduar do De Filippo, cittadino di Napoli e cittadino onorario del regno dei cieli, ci ha dato con "Filumena" un lavoro che grida sì a un mondo che ha paura di fare qualsiasi cosa che non sia mormorare no. Coloro che sono ancora capaci di sentire la differenza tra il sì e il no troveranno la loro vita arricchita. Da parte mia posso solo offrire a conclu sione le parole scritte da Beethoven alla fine della Missa Solennis: "Viene dal cuore e al cuore vado”. Possa il 'Lyric riempirsi per cent'anni e possa il suo autore vivere per mille ». « Filumena » s'inserisce ormai in una riuscita assimi lazione da parte della scena londinese del teatro di De Filippo. Non a caso il giorno 'di Capodanno, mentre « Filu mena » continuava le sue repliche al 'Lyric, nella Shaftesbury Avenue, nel cuore della cittadella teatrale londinese, la rete televisiva indipendente, l'ITV, sceglieva nella serie « La commedia dell'anno » per rappresentare ¡I 1977 un'altra commedia di Eduardo « Sabato, domenica e lunedì », stupen damente interpretata dalla Plowright e da Laurence Olivier. Eduardo è dunque un classico, anche lui è stato cooptato tra i mostri sacri 'della scena londinese. Lo ammette il pur freddo critico del « Sunday Telegraph » Frank Markus che, dopo aver parlato di « melodramma napoletano » e « spa ghetti west-ender » afferma a proposito del teatro di Eduar do: « Sentimentale e melodrammatico? Certamente. Ma l'au tore ha l'abilità d'intrecciare fili di emozione a tessuti d’in gegnosità comica e i suoi lavori migliori hanno momenti d’ispirazione che conferiscono ad essi la struttura del clas sico ». Se Eduardo conquista gli onori della scena britannica con tutta la traboccante energia vitale e sentimentale del suo mondo napoletano, Alan Bennett con « The Old Country » (Il vecchio paese) perviene al successo, attingendo a un sen timentalismo non meno struggente ma diluito nelle soffici tonalità tradizionali della commedia all’inglese, tra i chiaro scuri di una malinconia contenuta e repressa dallo humour e punte satiriche delicatamente filtrate e smussate. La vi cenda è il seguito immaginario della storia di Kim Philby, il gentleman traditore degli anni '50, la spia ideologica, l'uo mo che per conto della centrale informativa sovietica si era infiltrato nell 'Intelligence Service e nella diplomazia bri tannica. La storia di Bennett sorprende Philby, rifugiato a Mosca, nell'artificiale intimità britannica che si è creato nel la sua dacia. Il nodo drammatico è dato dalla possibilità che egli venga costretto a rimpatriare in Inghilterra in cambio di una spia sovietica catturata in Occidente, ma ciò che fi nisce per predominare è il confronto tra la vita moscovita di Philby e la sua irrimediabile <■ britannicità » di classe e di cultura. Ne esce più un album di famiglia che un dramma politico-ideologico, più « un catalogo di memorie, cambia mento e decadenza », come lo chiama Benedici Nightingale, che il psicodramma del tradimento, più un ritratto nostalgico e sentimentale della vecchia Inghilterra tracciato a tinte di pastello, che un'evocazione delle ripercussioni nell’indivi duo degli scontri ideologici della nostra epoca. Guinness dosa da parte sua distacco e ironia e nella sua interpreta zione il tradimento assume le dimensioni domestiche e in time di un evento di famiglia senza grandezza ma senza vergogna, un errore o una caduta di gusto, una scivolata snobistica più che una sfida intellettuale e passionale. « The Old Country » ha avuto il premio dei critici per il 1977. E insieme a « Filumena » a « Wedding Feast » (Festa di nozze) di Wesker, « Just Between Ourselves » (Proprio fra noi) di Ayekbourn, « Dog Days » (Giorni da cane) di Gray e « Destiny » (Destino) di Edgar, è nella lista dei sei migliori lavori dell'anno compilata da •< New Statesman ». Ma la stagione incalza. Secondo Robert Cushman, il cri tico dell’« Observer », «The Bundle » (Il Fagotto), di Bond, che ha cominciato in gennaio il suo ciclo alla Warehouse, si preannuncia come il miglior lavoro del ’78. « The Bundle » obbedisce naturalmente alla regola della buona storia e dei buoni attori. La storia, per quanto complicata, trasuda « gio ia narrativa » e dimostra « tutto il peso e il ritmo del tea tro epico ». Essa si collega a un altro lavoro dello stesso autore Edward Bond, « Narrow Road to thè Deep North » (Strada stretta per il profondo nord), rappresentata dieci anni fa. Il protagonista, Basho, è un poeta giapponese del ’600 che cerca la « luce », la « verità », ma trova il potere, diviene cioè un giudice e un servo del potere, rappresen tato da un latifondista invisibile che con l’aiuto della natura (le periodiche inondazioni di un fiume) mantiene in sogge zione i contadini. Al tiranno si contrappone il liberatore, Wang, un giovane guerrigliero che Basho si era rifiutato di soccorrere quando, ancora infante, lo aveva trovato in un fagotto vicino al fiume. I due personaggi, Basho e Wang, magistralmente interpretati da Patrick Stewart e Mike Gwi- lyn, dovrebbero raffigurare l'allegoria dell'intellettuale e del rivoluzionario. Ma nessuno dei due è in misura completa un eroe positivo. L’egoismo estetizzante che porta Basho al collaborazionismo ha come corrispondente negativo in Wang un ingenuo e crudele candore (quando Wang troverà anche lui un fagotto con un bambino in riva al fiume non si limi terà a proseguire con indifferenza ma lo getterà nella cor rente). L’ambiguità di Basho ne fa quindi il personaggio centrale tanto da spoliticizzare il dramma di Bond e da farne non un'allegoria dell'azione rivoluzionaria ma una me ditazione sul ruolo dell'intel'lettuale. La riflessione sull’intellettuale, del resto, è un tema che affiora anche in altri lavori, per esempio neH’adattamento teatrale del lungo racconto di Evelyn Waugh « The Ordeal of Gilbert Pinfold » (Il giudizio di Gilbert Pinfold), messo in scena al Royal Exchange di Manchester, allucinante esa me di coscienza di un grande intellettuale conservatore, nonché nella commedia di Jonathan Raban « The Sunset Touch » (Il tocco del tramonto), un'incursione nel mondo de gli intellettuali piccolo-borghesi, centrata sull'incontro tra un pastore anglicano e un venditore di enciclopedie e con dotta non senza fatica tra sprazzi di fantasia pop e un sot tofondo amaramente realistico. Il teatro politico-sociale ha lanciato in autunno una sua dura offensiva sotto la bandiera di Brecht, con « The Days of thè Comune » (I giorni della Comune) il cui torto, se condo un critico, è di essersi conformato al precetto, certo non britannico, espresso dal drammaturgo tedesco, per il quale « una cattiva interpretazione può essere più efficace di una buona, quando si tratta di alienazione ». AH’evoca- zione della Comune parigina si è aggiunta quella dei giorni americani del maccarthysmo con « Are you now or have you ever been? » (Siete ora o siete mai stati?), un collage di documenti d’epoca messo insieme da Eric Bentley con il leit-motiv delle inchieste di allora: « Siete ora o siete mai stati un membro del Partito comunista? ». « Our Own Peo- ple » (Il nostro stesso popolo) di David Edgar mette a fuo co le relazioni tra operai asiatici ed europei con conclusioni scoraggianti sul razzismo tendenziale del ceto subalterno europeo. « Trembling Giani» di John McGraith illustra una serie di invettive ipolemicojstori’che contro il capitalismo che è appunto il « gigante tremante ». Ma il gigante ha ben poca ragione di tremare: nel lavoro di McGrath, una sorta di pan tomima per adulti, lo spirito della rivoluzione trionfante in Russia, in Cina, nel Vietnam, quando arriva in Inghilterra, trova una classe operaia tutt’altro che disposta a prendere il potere. La morale è forse quella presentata dal lavoro di Robert Boli « State of Revolution » (Stato della Rivoluzione) che, nella cronaca della fase leninista prestaliniana della rivoluzione bolscevica, riafferma contro il determinismo sto rico la natura morale dei conflitti. Nonostante ogni sforzo, il teatro politico-sociale è net tamente minoritario. I teatri dello West End sono saldamen te presidiati dai drammi gialli di Agatha Ohristie: ce ne sono contemporaneamente in cartellone tre: « Murder at thè Vicarage » (Assassinio in Parrocchia) al Fortune, « The Mou- setrap » (Trappola per topi) al Saint Martin e « A Murder is Announced » (Si annuncia un omicidio) al Vaudeville. Anche Bernard Shaw tiene contemporaneamente con due drammi, « The Apple Cari » (il carro delle mele) al Phoenix, « Man and Superman » (Uomo e Superuomo) al Savoy. Rispuntano un autore degli anni '10, l'ungherese Ferenc Molnar, con -una riedizione del « The Guardsman » (La guar dia), un adattamento della « Sonata a Kreutzer », il roman zo breve di Tolstoy, e persino una spiritosa scrittrice della belle époque e delle delizie della « upper class », Saki, con un testo a lei intitolato e ricavato dai suoi racconti. Ma la nota straripante è data dai grandi musical. E’ stato ripreso « Oliver! », basato sul patetico romanzo di Dickens « Oliver Twist ». Continuano le repliche « Jesus Christ Su- perstar » e « Hans Andersen ». la tendenza nuova è la rie vocazione dei miti degli anni '50: c’è stato un « Dean » non eccessivamente apprezzato dai cultori del « Ribelle senza causa ». C'è, più riuscito, un « Elvi's » che ripercorre la bio grafia del re del rock. Il revival degli anni '50 è indirettamente confermato dal le ex dive in cartellone: Ingrid, Deborah e ancora Claire Bloom, la compagna di Charlie Chaplin in « Limelight». Ma che gli anni '50 sono venuti per restare lo prova soprattutto il grande musical che si preannuncia per la mezza stagione « Evita ». Evita Peron, il personaggio 'che ha fatto coincidere divismo e carisma politico, spettacolo e potere, commozione e arroganza, bellezza e sventura e ora compendia tutto lo smalto di slancio, di speranza e di candore degli anni '50. Ludovico Incisa Chiude il teatrino della Huchette che rivelò Eugene Ionesco LA CANTATRICE SFRATTATA I proprietari dei ristorantini, dei piccoli caffè, delle friggitorie greche, dei negozietti di souvenirs hanno firma to una petizione e l'affare è sul tavolo del sottosegretario alla Cultura. Ma la minaccia è nell’aria e l'ha confermata, con pubblica tristezza, lo stesso lonesco. Il teatrino de « La Huchette » zatterone di un’avanguardia vecchiotta ma ancora vegeta, polmone turistico-culturale di tutto lo stori co quartiere affacciato sulla Senna a Nótre Dame, dovrà forse chiudere. Vittima del successo. Per una imbrogliatis sima lite tra la cooperativa dei Comédiens che lo gestisce e il proprietario dei muri. « L'Ambigu », gioiello della Belle Epoque è stato demolito, « L’Hebertot » (Pirandello, Fabbri) potrebbe trasformarsi in autorimessa, il « Vieux Colombier » di Copeau è concupito da una catena di grandi magazzini. Che cosa diventerà « La Huchette »? Dolore no, perché teatrini per tenere a battesimo i fu- turi lonesco a Parigi ce ne saranno sempre; basti pensare ai Caffè-teatro spuntati nei vecchi quartieri di Parigi. Ma linconia sì, perché la chiusura de “ La Huchette » — se ci sarà — significa il tempo che passa, quel morire per cor rosione delle cose di cui ci parla il teatro di lonesco, la vecchiaia dietro la maschera di un'avanguardia che pareva nata ieri. Ancora negli anni 60 Jean Gautier, critico della borghesia benpensante di « Le Figaro », raccomandava di fuggire come la peste le commedie di lonesco, Beckett, Adamov, Gènet. Oggi, a parte il fuorilegge Gènet, i mae stri del Nuovo Teatro sono « immortali »; su Adamov si fanno tesi di laurea, Beckett ha avuto il Nobel, lonesco frequenta da anni quel club molto chiuso che è l'Académie Française. Ed è rappresentato alla Comédie, insieme a Mo lière. Come passa ii tempo. Dire « La Huchette » vuol dire evocare la straordinaria vicenda di «La cantatrice calva»: l’anticommedia in cui non esiste alcuna cantante, calva o chiomata che sia, scrit ta più per dispetto che per divertimento da un emigrato rumeno, laureato in bellelettere, squattrinato, solo. Ione sco, quel rumeno, mi raccontava di recente, davanti a una telecamera piazzata sotto il ponte dell’Alma, l'avventura della « Cantatrice ». E ogni tanto la sua faccia di clown di gomma s'allargava In un sorriso, magari un po’ stanco. « Vivevo facendo il correttore di bozze. Scrivevo qual che articolo. I miei articoli passavano tutti inosservati. Tranne uno firmato Petru, pubblicato nel '40 su « Esprit », in cui parlavo del fascismo rumeno, per il quale rischiai l’arresto. Al teatro non pensavo. Cioè: avevo del teatro una concezione troppo alta, di cerimonia, di liturgia, perché potessero interessarmi le commedie allegre del Boulevard con cui, per il gran ridere, si strangolava la Terza Repub blica. Accadde mentre studiavo l’inglese; gli esempi di con versazione del mio manuale erano di un’ovvietà comica e assurda insieme, bastava metterli in fila per ottenere effetti irrestlblll. E così nacque « La Cantatrice ». Portai il copione a Pierre-Aimé Touchard, che mi aveva pubblicato su «Esprit » quell'articolo firmato Petru ed era diventato alla Liberazione amministratore della Comédie Française. Touchard scosse il capo, l'avrebbero lapidato. Lo portai a Bernard Grasset, l’editore, e Grasset mi garantì che « La Cantatrice » non sarebbe mai stata rappresentata. È vero che nel '61, quan do Nicolas Bataille, il folle, la rappresentò al « Noctam bules », recitò per settimane davanti a una sala vuota; ed è vero che uno dei miei primi interpreti, Laurent Ter- zleff, dovette fuggire travestito dalla porta di servizio. Ma non mi lamento; trasferita a « La Huchette » la « Ca"tatri- ce » ha avuto finora 7.200 rappresentazioni, in 21 stagioni consecutive. C'est pas mal ». Un'anticommedia inglese, ambientata in un interno in glese, con una coppia inglese: il signor Smith, inglese, nel la sua poltrona e nelle sue pantofole inglesi, con il suo giornale inglese accanto a un fuoco inglese; la signora Smith, inglese, che accanto a lui rammenda un paio di cal ze inglesi, fra lunghi silenzi inglesi. Interrotti da colpi in glesi battuti da una pendola inglese. La prima scena della « Cantatrice » si apre con queste indicazioni ambientali. Ionesco, è evidente, non si limitava a leggere II suo ma nuale di conversazione (« Il nostro nome è Smith. Già le nove. Abbiamo mangiato minestra, pesce, patate al lardo, insalata inglese... Le patate sono molto buone col lardo, l’olio dell'ins-alata non era rancido... L'olio del droghiere sull’angolo resta il migliore »). Ionesco leggeva i surreali sti. C’era qualcosa nell'aria; Raymond Queneau faceva i suoi « Esercizi di stile », a Saint-Germain, Boris Vian scri veva canzoni anarco-surrealiste. E Tex-Petru, che non pen sava ancora ai Rinoceronti e stava diventando Bérenger, che si sentiva smarrito fra il teatro-liturgia e la pochade, trovava dentro, in una sorta di nausea, la forza per scri vere. Nausea per le parole, per il vuoto, l’assenza ontolo gica che risuonava nelle conchiglie vuote delle parole. Os sessione per i suoni articolati che simulano incontri quo tidiani, per le rovine che devastano il paesaggio esisten ziale, per le cellule morte che si moltipllcano nel corpi e nella società, per le idee morte messe di traverso sulle strade degli uomini. Nella « Cantatrice », subito, il pro blema era posto « alla lettera », come inventario « con creto » dell'assurdo oggettivo, quotidiano, contenuto nelle parole, nei gesti, negli oggetti comuni. L'innocente ma nuale di conversazione inglese era un concentrato di « ato mi verbali » pericolosi e ribelli. In grado di ferire, uccide re. 'La cantatrice’ è diventata una commedia comica ma 10 l’avevo scritta come una pièce negativa, la vedevo rap presentata come un dramma », diceva Ionesco in quel no stro incontro all'Alma. Poi, dalle gelide solitudini in cui l'avevano gettato le parole-atomi, apparve sui palcoscenici Bérenger, a lottare contro la sete e la fame, contro la paura della morte, con tro i rinoceronti della dittatura. Jean-Louis Barrault incarnò Bérenger, il critico Jean-Jacques Gautier si ricredette. Io nesco diventò drammaturgo di esportazione, fu uno dei « magnifici quattro » del Nouveau Théâtre. Applausi e fi schi, più applausi che fischi, accolsero « La Soif et la Faim » alla Comédie. Arrivò, con la gloria, la feluca di accademico. L'ex-Petru del '40 torna agli amori di gioventù, il diario, la saggistica. Scrisse contro l'eutanasia, l'aborto, il Concilio, 11 socialismo ma anche contro il fascismo, il parassitismo, il conformismo. Sempre più a destra? Sì, ma anche perché nel frattempo la bétise, il cretinismo, si diffondeva a sini stra. Non era colpa sua se, nel frattempo, si stampavano altri « manuali di conversazione ». Intanto, alla « Huchette », gli attori degli anni magri continuavano a recitare. L'avanguardia ingrassava. Oggi una storia di milioni minaccia il teatrino di 87 posti in cui han no vaneggiato per vent'anni i coniugi Smith. Una lacrima; ma pensiamo al nuovo, giovane Ionesco che cerca di fare rappresentare in qualche Caffè-teatro la sua prima com media. Pensiamo — non è vero, Ionesco? — al nuovo Nuovo Teatro che nasce, diceva Corneille, dall'illusion co mique, fra la rabbia e il sogno. Ugo Ronfani NOTIZIARIO MUSICA Nel precedente numero de « Il Dramma » è stato recensito lo spettacolo « Lo zucchero In fondo al bicchiere » di Angelo Ganga rossa. Per un errore di stampa non è stato riportato, nei titoli, il nome dell'autore: ce ne scusiamo con i lettori e con l'autore me desimo. Forse il nome di Gangarossa si era attaccato ad una zolletta di zucchero, ed era rimasto perciò in fondo al bicchiere. Accogliendo una proposta del presidente Grassi, il consiglio di Amministrazione della RAI ha approvato una delibera grazie alla quale il film « Volontari per destinazione ignota » di Al berto Negrin, prodotto con la partecipazione finanziaria della RA1-TV, verrà proiettato nelle sale cinematografiche prima di essere trasmesso in televisione. Una grande annata teatrale a New York DUE NUOVI AUTORI DA TENER D'OCCHIO: MAMET E INNAURATO ✓ O* Zero Mostel nel musical « Fiddler on the Roof » Scorrendo l'andamento del teatro a New York durante l'anno appena concluso, si nota un fatto che forse a molti sembrerà ovvio, ma che chi scrive non aveva mai consta tato prima in modo così evidente: nel teatro di New York, come probabilmente in ogni centro teatrale importante e attivo, non c’è « concorrenza » fra i diversi teatri nel senso che un prodotto buono porterebbe via pubblico a un pro dotto meno buono. Succede giusto il contrario: una serie di prodotti buoni attira il pubblico verso il teatro in gene rale, e l'effetto del prodotto buono si espande in propor zione geometrica, così che deH’aumento del pubblico at tratto verso il teatro, ne traggono beneficio tutti, anche cioè gli spettacoli meno buoni o meno commerciali. (Ba sti pensare, come controprova, al « forestiero » che arriva a New York e invariabilmente, anche se nella sua città natale a teatro ci va poco o niente, chiede agli amici che abitano a New York, di « andare a teatro », non a uno spe cifico teatro, ma semplicemente « a teatro », come dando per scontato che « tutto » il teatro di New York è degno di essere visto). È probabile che questo fenomeno esista da sempre a New York, certo che non ce n'eravamo accorti come que st'anno nell’osservare la quantità di pubblico che ha affol lato i teatri, sempre pieni, spesso esauriti con mesi di an ticipo, e con spettacoli che stanno in cartellone a volte per anni. Una quantità di pubblico, in proporzione, molto superiore a quanto sarebbe giustificato dalla dimensione della città e dal numero di forestieri di passaggio, e che quindi deve trovare una spiegazione proprio nel prestigio che dà a tutto il teatro la presenza di alcune produzioni di altissimo livello che, con la loro fama, ■■ muovono » il pubblico e lo muovono in tutte le direzioni. E la cosa risulta evidente se si pensa al numero di Teatri che ci sono a New York [si parla solo di Teatri veri e propri, non di cabaret o piccoli centri sperimentali): neH'ultima settimana di gennaio, l’elenco del « New York Times » è composto di 97 teatri operanti, 29 dei quali, quelli della zona di Broadway, molto grandi e con produ zioni costosissime. Tutto ciò nonostante i prezzi (una poltrona a Broadway costa ormai in media sui 17 dollari) e la concorrenza di altre forme di spettacolo seguitissime a New York e spesso di ottimo livello (concerti di musica classica: 26 sale operanti, di cui almeno cinque di grandi dimensioni; bal letto: 9 compagnie diverse; opera: tre compagnie; concer ti di jazz: 45 sale. Tutti questi dati si riferiscono a dome nica 22 gennaio scorso). Nel campo del « musical » (che continua ad essere la caratteristica di Broadway), proprio all'inizio dell’anno c'è stato il successo strepitoso del revival di « Fiddler on thè roof ». Riproposto nell’edizione originale, (regia e coreogra fia di Jerome Robbins) questo famosissimo musical aveva come protagonista il grande, indimenticabile Zero Mostel (che sarebbe poi scomparso, pochi mesi dopo, durante le prove di un altro spettacolo) e fece il tutto esaurito tutte le sere (restò in cartellone circa sei mesi). E rivedendolo, ci sembrò anche a noi, come a molti critici americani, che “ Fiddler on thè roof » meriti, quando è messo in scena a quel livello, il titolo di « miglior musical in assoluto , per ché tutto è perfettamente centrato e tutto si amalgama come raramente è dato di vedere: la musica, allegra e a volte struggente; la storia, dolce buffa e umanissima; i co stumi, pieni di fantasia; le scene e le luci pastosissime; e, naturalmente, la regia e coreografia, di una vivacità e intelligenza eccezionali. Un lungo discorso a parte merite rebbe la figura di Zero Mostel, che il pubblico italiano ha visto recentemente in una splendida interpretazione nel film « Il prestanome » accanto a Woody Alien e che se condo noi è stato uno dei più grandi attori del teatro ame ricano; ma pensiamo che sia più giusto ritornare su di lui, come uomo e come attore, in un altro momento, con più spazio e più tempo di meditazione. Gli altri due grandi successi nel musical sono stati “ Your arms to short to box with God » (ne parlammo bre vemente su questa rivista nel fascicolo di gennaio/feb- braio 77), e « Annie » (ha aperto il 4 aprile e da allora è sempre tutto esaurito) che si ispira al famoso personag gio dei fumetti « Little orphan Annie », dove Annie diventa il simbolo della Grande Depressione e del New Deal di Roosevelt. Altri musicals, già in cartellone da tempo, hanno con tinuato le rappresentazioni con successo: « A chorus line », « Grease » (il veterano dei musicals a Broadway: è in car tellone dal 14 febbraio del 72; si tratta di una divertente parodia della generazione del rock’n roll); «The wiz », un rifacimento, pieno di poesia e di colore, del Mago di Oz, con un cast (autore, musiche, coreografie, attori etc.) com posto interamente di negri. Una nota a parte merita « The act », che doveva essere ■> il musical dell’anno », data l’aspettativa che si era creata per la presenza di un’attrice della fama di Liza Minelli e di un regista della fama di Martin Scorsese. Ma è stata una grossa delusione. La storia (i problemi e i trionfi di un’at trice del cinema che si sente insicura ma che poi diventa una stella del night club) è tracciata in modo superficiale, senza nessun approfondimento del carattere della protago nista; la regia (e duole dirlo data l’ammirazione che abbia mo per Scorsese regista del cinema) è completamente ano nima. È come se autore e regista si fossero messi d'accor do per essere il più approssimativi e svogliati possibile, sapendo che comunque il nome della Minelli sarebbe stato sufficiente per assicurare gli incassi. Nel teatro « non-musical », il fenomeno più interessante dell anno è stata la crescita di due autori giovani, ai quali dedicheremo uno studio approfondito in uno dei prossimi fascìcoli: David Mamet e Albert Innaurato. Mamet, che lavora stabilmente per il St. Nicholas Thea- ter Company di Chicago, nel corso dell'ultimo anno e mezzo è stato presente a New York con ben cinque opere nuove e tutte di successo. Le ultime due, presentate « off- Broadway », sono state « A lite in thè theater », che raccon ta la storia di due attori e del loro passaggio continuo da un ruolo all altro, e « Water Engine », che si svolge in uno studio radiofonico dove i tecnici e gli attori stanno pre parando la trasmissione di una commedia su un inventore che due avvocati dì pochi scrupoli tentano di raggirare, in entrambe Mamet ha confermato pienamente le sue qua lità più evidenti, e cioè ia capacità dì mescolare il conte nuto serio delle sue opere con una forte vena di irresisti bile comicità, e quella di cogliere le sfumature del linguag gio parlato di tutti i giorni e di riprodurle nei suoi testi. Innaurato, che è di origine italiana, è stato presente con due opere nuove: « Gemini », rappresentata con grande successo a Broadway (è in cartellone dal ventuno di mag gio), che è la storia di una modesta famiglia di italoame- ricani di PhiIadelphia, i cui figli ricevono la visita di certi amici americani (è la prima volta che ci è dato di assi stere a una storia di italoamericani senza i soliti sciocchi stereotipi • anche di lingua — che sugli italoamericani abbondano. E bisogna darne atto a Innaurato, perché quegli stereotipi sul pupblico americano fanno presa sempre e di sicuro); e « Ulysses in traction », la storia della facoltà di teatro di un’università stretta d'assedio dalla polizia, che è una trasparente metafora di situazioni ben più generali. Un altro grande successo è stato, a Broadway, « The basic training of Pavio Hammel » (una delle parti della trilogia che David Rabe — autore già affermatissimo — ha dedicato al Vietnam) che per mesi ha avuto come prota gonista un grandissimo Al Pacino, in un'interpretazione tra le più difficili e anche tra le più faticose (tre ore intere, sempre in scena) della sua carriera. Nell’autunno hanno aperto altri due spettacoli di cui si è parlato molto: « Gracula » e « Golda ». ■< Dracula », riedizione del famoso dramma, tratto da H. Deane dai libro di Bram Stoker, che cinquant’anni fa diede fama mondiale a Bela Lugosi, ha avuto un successo forse superiore ai suo valore, soprattutto per le deliziose scene e costumi di Edward Gorey, conosciutissimo per i suoi libri di disegni macabro-umoristici, e per l'interpre tazione, a dir poco esuberante, di Frank Langella, attore di teatro di origine italiana molto amato dal pubblico e ap prezzato concordemente dalla critica (il suo ultimo lavoro prima di Dracula, « Seascape » di E. Albee, gli aveva valso i più importanti premi dei critici di New York e Los An geles). *< Golda » (la vita di Golda Meir tratta dada sua auto- biografia, in modo decisamente semplicistico, da William Gibson) deve il suo successo all'Interpretazione di Ann Bancroft, che da quell’attrice grandissima che è, riesce a rendere oredibile il personaggio. Ma la regia, che pure è di Arthur Penn, non riesce a superare gli evidenti difetti e banalità del testo e la difficoltà di portare sul palcosce nico una faccenda complicata come la guerra. Nella vasta produzione « off-Broadway » ha continuato la sua opera infaticabile di produttore aperto a tutte le sol lecitazioni Joseph Papp, con la sua organizzazione, il « New York Shakespeare Festival ». Oltre a « Water Engine » di Mamet, di cui abbiamo detto, ha messo in scena « La man dragola » di Machiavelli, che ha suscitato i pareri più di scordi (dal critico del « New York Times » che l’ha definita una delle produzioni più stimolanti del momento, a quello della rivista « New York » secondo cui la messa in scena era così sbagliata sotto tutti gli aspetti da « non meritare neppure di parlarne»); «The dybbuk », in una nuova tradu zione della classica commedia di S. Ansky; e «The Photo- graph » una nuova opera di Ntozake Shange, autrice diven tata famosa per il successo avuto (e che continua tuttora) con « For colored girls who have considered suicide/when thè rainbow is enuf », di cui parlammo nel fascicolo gen naio-febbraio dello scorso anno. Anche la compagnia « La marna » ha continuato le sue ricerche nel teatro più avanzato, mettendo in scena, tra l’altro, un interessante festival del teatro internazionafe, a cui hanno partecipato compagnie sperimentali provenienti dalia Francia (« Le centre culturel du Marais » e « La jeune compagnie du conservatoire »), dalla Corea del Sud (« Ko- rean Drama Center »), dalla Germania dell'EST (« Cauca- sian Chalk Circle »), dalla Germania Federale (« The Berlin Schiller Theatre ») e dall’Italia (« Teatro la Maschera », « La fabbrica dell'attore » e « CFR »). Finiamo questa rapida rassegna dell'attività teatrale del 1977 a New York, con una nota «storica»; «The Fantas- tiks », musical tratto da Rostand e rappresentato in un tea trino off-Broadway, ha superato il diciottesimo anno di vita e non sembra ancora invecchiato per niente. È il record assoluto del teatro americano. Umberto Bonetti Il « Berlin Schiller Theater » al Festival « Café - la . Marna La scomparsa di Charlie Chaplin U n a n a r c h ic o r o m a n tic o La morte non si addice al mondo del cinema. Quando un attore scompare c’è un momento di sbigottimento do loroso e poi basta. Si smette presto di parlare di lui. Si tolgono i suoi film dal cartellone: la gente non ama vedere sullo schermo uno che è morto. Meglio sostituirlo con un altro che sia meno attraente, magari, ma che sia vivo, che respiri. Così accadde per Jean Harlow che, nel ’37 morì di un cancro al cervello; per Carol Lombard che perì in un disastro aereo; per Leslie Howard, il cui aereo fu ab battuto durante la seconda guerra mondiale da caccia te deschi che credevano trasportasse Churchill, e per tutti gli altri che pure erano stati amati dalle folle come monarchi e divinità. Attori e attrici sono un fumo errante che cerca una sede: la trovano e si disperdono. Soltanto Charlie Chaplin non subirà la stessa sorte perché non è stato soltanto un grande artista dello schermo, ma anche un concetto. È morto di una vecchiaia non calcolabile sul me tro anagrafico e discendente, semmai, da una somma di esperienze intensamente assorbite da radici antiche, anti chissime, tutte fissate in una maschera tragica, tragicomica, che al pari di ogni « maschera » veramente autentica e vitale, appare come riflesso e misura dell’uomo. Al pubblico, Chaplin ha sempre saputo donare quel tesoro prezioso e libera trice, l’ilarità che nasce dai segni più semplici, da un at teggiamento ironico e insieme paziente rispetto a ogni affanno della esistenza; da un modo buffo di ribaltare nella mimica più esasperata la reazione alle abitudini di ogni giorno, alle abdicazioni della personalità, a ogni co stante imperativo delle « regole », alle convenzioni co muni, alle mortificazioni di ogni slancio sincero. Perché Charlot interpreta una idea anarchica, folle, impossibile della vita e che, appunto, reagisce con una esasperazione anarchica e grottesca, alla meccanicità degli atti quotidiani. Ora che tutti lo hanno commemorato, ora che tutti, o quasi, hanno scritto che Chaplin è il primo, il maggiore, l’unico autentico poeta dello schermo, Charlot è apparente mente morto. Se n’è andato alla sua maniera, in punta di piedi, come i gatti; il clamore lo hanno fatto gli altri, i giornali e la televisione. La sua idea era che non bisogna chiudersi nella tristezza e nel lutto; che la tragedia ha sempre un’altra faccia: il ridere. Alla atmosfera di mestizia che è seguita alla sua scom parsa, egli, se avesse potuto, si sarebbe sicuramente ribel lato; non l’avrebbe voluta. In vita non ha mai voluto che lo si definisse un « sommo », né che si parlasse di « uni- rarissimo che è l’ilarità intera e versalità della sua opera ». Odiava le grosse parole e gli attributi coniati per i grandi uomini, paroioni che ingom brano a centinaia i cervelli di quelli che scrivono. I ne crologi grondano di attributi in sopravanzo. Leggendo quelli dedicati a Charlot si intuisce subito che coloro i quali li hanno scritti sono stati contenti di appiccicare allo scom parso parole di cui hanno pieno il magazzino. È il vecchio vizio italiano per la retorica, per la parola roboante, per l’agiografia. Mai una volta Chaplin, in interviste, dichia razioni e libri di memorie, s’è lasciato prendere dall’esal tazione per se stesso; mai è caduto nella trappola del l’agiografia. Su certi aspetti sgradevoli del suo carattere e del suo comportamento non ha mai cercato di stendere un velo preso dal dimenticatoio. Alla prova del nove della sincerità è stato promosso anche a Venezia, quando, nel ’72, riti rando un premio, non temette di affermare con voce esile, parlando di sé come attore: « La parola arte non entrò mai nella mia testa o nel mio vocabolario ». Con quella sua figura barcollante, sperduta, davanti al pubblico che 10 applaudiva a lungo, ebbe il coraggio di dire che « teatro e cinema significano semplicemente un sistema per vivere e nulla più ». La sua voce terribilmente stanca dice an cora: « C’è sempre stata in me una forte inclinazione verso gli affari ». La frase, ricordo, che scandalizzò di più le vestali del cinema-arte fu questa: « Le mie sole ambizioni sono state 11 denaro e le donne ». Gli sarebbe stato facile dire che per tutta la vita s’era impegnato nella ricerca delle verità più profonde; tutti gli avrebbero creduto. A Chaplin, al contrario, una simile dichiarazione sarebbe parsa pusilla nime e goffa. « Io sono un romantico », preferiva ripetere, « e il romanticismo è moderno come il sesso, l’amore e la psicanalisi: è il sine qua non di tutta l’umanità. Senza questo sentimento la vita sarebbe ben grigia cosa. Io sono un romantico e credo indispensabile esserlo ». Era così contrario ad essere scambiato per un « som mo », per un « vate » o semplicemente per un uomo colto, che ingigantiva scherzosamente la propria ignoranza. Alla presenza di Caruso confonde il « Rigoletto » con la « Car men ». Presentato a Debussy, chiede ai vicini: «Ma chi è questo signore? Io non l’ho mai sentito nominare... ». Le sue memorie (che tanto sono spiaciute ai cultori dello « specifico filmico » e di altre simili leccornie che ingor gano le teste degli specialisti) prendono e affascinano per l’incisività del periodare, per il gusto e la scaltrezza nel I suoi inizi sono noti; a diciassette anni le tenebre si spalancarono: Fred Karno lo assunse nella sua compa gnia comica. Ed è da questo momento che la storia del cinema e la storia di Chaplin coincidono. Pochi sanno che sin da quegli anni New York gli fu sempre antipatica o che per due giorni non si presentò all’appuntamento con Mack Sennet. Arrivava sulla soglia dello « studio » e tor nava indietro. « È stata una volontà più forte di me a prendermi per mano e a farmi imboccare quella che sarà la strada giusta ». Sennet gli confidò le sue idee: « Vedi non abbiamo alcuna trama. Partiamo da un’idea e tiriamo avanti come capita. L’importante è che alla fine ci sia una fuga di poliziotti. Ragazze in costume da bagno, un’automobile che precipita in mare, un tipo grasso che piomba in una botte di catrame. E molte, moltissime torte in faccia ». Per giorni, Chaplin, firmato il contratto, non fa niente; guarda soltanto. Infine gli danno una piccola parte: deve impersonare un frenetico cronista di un quotidiano. Si presenta con tubino e baffetti. Nasce Charlot? Non an cora, ma tubino e baffetti resteranno nel tipo immortale che sgorga poco dopo. Anche questa volta Chaplin giuoca un tiro ai suoi agiografi che troppo spesso hanno parlato di « messaggio umano », di « maschera eterna » e così via. Charlot non è nato da alcuna metafisica; non ha, all’ori gine, idea estetica alcuna. Mentre andava verso il guar daroba per truccarsi non sapeva cosa mettersi addosso. Poi si ricordò che le contraddizioni fanno sempre ridere: pantaloni larghi, giacca stretta; tubino piccolo, scarpe enormi. Tutto qui, ma non appena ebbe indossati i panni del povero diavolo, sentì che non se li sarebbe più tolti; aderivano a lui come una nuova pelle. Acciuffò di pas saggio un sottile bastone da passeggio di bambù, e fu tutto. Così camuffato, eseguì estemporaneamente la sua pri ma entrata comica; inciampò nel piede di una signora grassa, si voltò e si tolse il cappello in segno di scusa. Così facendo incespicò in un vaso di fiori e di nuovo si voltò, automaticamente cavandosi il cappello per scusarsi anche con il vaso. Racconta: «Qualcuno dietro la mac china da presa cominciò a ridere ». Ed aggiunge: « Arri varono attori da altre parti dello studio, poi gli elettri- cisti, poi i truccatori; e tutti ridevano a vedere le mie stranezze ». Alla sera, tornandosene a casa, in tram, un amico — uno dei tanti destinati a non far mai altro che la com parsa — gli disse: « Ragazzo, oggi hai cominciato qual cosa di buono... ». Era uno che la vedeva lunga e giusta: era nato Charlot, il vagabondo da mettere accanto al Miles gloriosus, ad Arlecchino, a Pulcinella. Da quel momento seguire l’ascesa del tapino con bom betta e bastone da passeggio è facile; delle fasi della sua carriera sono zeppe le enciclopedie. La storia degli scandali è stata raccontata da tutti; così l’inchiesta sulle sue attività politiche e la fuga dagli Stati Uniti. « Non ne sento la mancanza. Case troppo alte. Troppo frastuono, troppi af fari. Mi piace vivere con semplicità ». Sul lago di Ginevra non s’era ritirato dal mondo, bensì per lavorare meglio. Purtroppo là, lontano dal frastuono della metropoli, la morte dava i suoi ultimi tocchi. Otto anni fa in una in tervista, mi disse: « La mia vita non è mai stata eccitante come adesso ». Della fine non voleva sentir parlare. Come i fanciulli, egli si riteneva immortale. La sua opera è uno sberleffo alla morte, un « marameo » alla fine; non perirà mai. Maurizio Liverani Il poliziotto, il vagabondo e il monello: una delle indimenticabili immagini di Charlie Chaplin presentare cose, fatti e persone. Talune pagine descrittive della sua angosciosa infanzia hanno un piglio dickensiano. Lui, Charlie, con un padre ubriacone, una madre che sovente deve essere ricoverata in manicomio, un fratello che non può andare a scuola perché il suo unico paio di pantaloni è stato portato al monte dei pegni. È la fame, l’angoscia del domani, il desiderio disperato di un affetto. Al racconto della morte del padre non si resta a ciglio asciutto: la madre accompagna al funerale i due piccoli che non hanno nulla da buttare nella fossa. Allora Charlie vi getta il suo fazzoletto listato a lutto. Poi madre e figli tornano a casa, si siedono intorno al tavolo. Non hanno una briciola di cil?o: restano senza parole, al buio, finché non è ora di andare a letto. Il Regio di Torino e La Fenice di Venezia affascinati dalla grande ballerina LO « STATO SOAVE » DI ELISABETTA TERABUST L'« umile e silenziosa » Terabust in « Giselle », nella quale ha danzato accanto al grande Nureyev (foto di Paolo Buonomo) Gli spettacoli di balletto del dicembre al Teatro Regio di Torino e del gennaio al Teatro La Fenice di Venezia ci hanno rivelato la splendida forma attuale, il traguardo raggiunto da una nostra danzatrice « umile e silenziosa » Elisabetta Terabust. NeH'ormai lontano 1967, sulle colonne di una rivista di teatro che ebbe breve vita « Festival » ma della quale si conservano alcuni numeri, ebbi a parlare della Terabust, una specie di ritratto quando essa andava formandosi, dopo la scuola al Teatro dell’Opera di Roma, attraverso gli spettacoli coreografici che il maestro Milloss allestiva numerosi in quel tempo con alcuni balletti creati apposta sulla persona della Terabust. Oggi, dopo le molte prove all'estero, accanto a grandi ballerini, sotto la guida di ottimi maestri, torniamo a formulare voti affinché av venga l'incontro con un coreografo che le costruisca ad dosso un abito sulla sua misura (è chiaro che non può continuare tutta la vita a danzare Giselle e Giulietta o qualche altro personaggio famoso della troppo ricorrente letteratura ballettistica). In fondo è abbastanza triste che il teatro romano abbia perso una danzatrice così dotata, ma era fatale che ciò succedesse per l'insopprimibile bisogno che ogni creatura d’arte ha di cercare altrove il suo spazio, altri contatti, nuove esperienze. Sappiamo tutti quanto il clima ballet- tistico intemazionale giovi, anzi sia rigenerante, per un danzatore che, potendolo fare, intenda migliorare seriamen- te e ampliare il suo giro d'orizzonte. È successo per Carla Fracci, per Paolo Bortoluzzi, succede oggi con Elisabetta Terabust. A Torino l'abbiamo ammirata nel celebre passo a due del « Don Chisciotte » di Minkus-iPetipa. Ebbene, anche un pezzo a tamburo battente come questo (diviso con Patrice Bart, partner di strabiliante virtuosismo e formi dabile « porteur ») diventa, attraverso la Terabust, un fatto artistico. Ma si è anche visto com'essa sia capace di interpretazioni profonde e scavate quando interpreta il personaggio della Sonnambula nel balleto omonimo di Ba- lanchine, un personaggio tagliato sulla sua misura e che è appartenuto a grandi danzatrici del recente passato (Alexandra Danilova, Ethery Pagava, Marjorie Tallchief) e del presente (Margot Fonteyn, Gaiina Samsova). La Terabust ha saputo rendere molto bene sia il meccanismo che muove questa creatura come il mistero che continuamente le aleggia all'Intorno o che, forse meglio, promana dalla sua persona, da un essere, tutto sommato, abbastanza fanta stico, disceso forse dalle pagine di un racconto di Poe con tutto ciò che di sinistro esso può comportare. Evidentemente il trascorrere di così differenti perso naggi ci dà l’esatta misura della stagione che sta vivendo Elisabetta Terabust, uno « stato soave » il suo come abbia mo voluto definirlo leopardianamente insistendo anche sul la sua meravigliosa giovinezza che vorremmo non finisse mai. Essa balla molto, come si diceva, dappertutto e pro prio tutto (« Schiacciamoci » a Londra, « Romeo e Giuliet ta » a Parigi, nell’estate prossima « Bella addormentata » a Roma, ma c'è anche un impepno col Festival di Spoleto). Che cosa si ricava da tutto ciò? Che la sua arte si è ma turata e più ancora si maturerà e si interiorizzerà sempre più con i contatti internazionali (maestri, coreografi, com pagnie). È intelligente, sa sceverare il buono dal meno buo no, è rigorosa con se stessa nelle scelte e poi, vivaddio, non è una diva né per atteggiamento né per fama! La ■< sua » Giselle di oggi è perfetta come un pizzo antico, la sua danza ha preziosismi tecnici che mandano in solluchero i bungustai del balletto classico ma possiede anche una notevole forza drammatica (si veda tutto il pez zo mimico della scena della pazzia nel primo atto portato ad alti toni tragici di disperazione). Forse esiterei un momento a definirla danzatrice romantica « tout court»; ha un tem peramento drammatico molto forte con aperture decise al moderno ed è perciò danzatrice singolarissima nel pano rama del balletto contemporaneo mondiale. In quello, ri stretto, della nostra scena coreografica essa è un « unicum », ha il potere di distinguersi dalle altre danzatrici che, a loro volta, si differenziano moltissimo le une dalle altre: Fracci, Cosi, Savignano, ecc. Siccome la Terabust a Venezia danzava accanto a Ru dolf Nureyev non si può trascurare di dedicargli qualche riga. E saranno queste ancora una volta improntate all’en tusiasmo per l’artista anche se il danzatore ci è parso un po’ affaticato e qua e là privo di quello smalto che lo ha reso celebre. Intanto è rimasto il fuoco magnetico della sua arte. Perciò non staremo a dire se ha saltato più alto di Tizio o di Caio o di quel tal giorno felice del 196... in cui potevamo dire di esserci. Purtroppo ci limitiamo ad osservare che lo stato atletico non è più quello di un tempo. Egli ancora ci emoziona e ci trascina anche soltan to col piglio di un'entrata o con la fierezza di un solo sguar do, tramortito cade a terra e ritorna a palpitare, trasfigu rato, nel suo personaggio di Albrecht che non dimentica mai cammin facendo, nell'avanzare verso il proscenio sotto il delirio degli applausi di un pubblico immenso. Un pubblico venuto da ogni dove, da ogni parte d’Italia e dall’estero, ad applaudire lui e la Terabust, i quali sono apparsi infinite volte sotto cascate di fiori. Alberto Testa L'architetto Antonio Valente Nella sede di Piazza Capranica 93, l’UNAC, in collabora zione con l'Ente Teatrale Italiano ha allestito una grande mo stra comprendente un centinaio di opere dell'architetto e sce nografo Antonio Valente. I lavori esposti sono di diversa na tura: prospetti architettonici di villini e di teatri, schizzi e fotografie di vari allestimenti scenografici, bozzetti di costu mi e disegni. Antonio Valente, nato a Sora {Fresinone) il 14 luglio 1894, dopo essersi laureato alla Scuola superiore d'architettura di Roma, ha lavorato per cinque anni a Parigi dove ha avuto mo do di stringere proficui contatti artistici con uomini come Picasso, Bakst, Gemier e ordon Craig. Di particolare rilevanza la sua relazione con Copeau per il quale, al Vieux-Colom- bier, preparò le scene di alcuni lavori d'avanguardia tratti da testi di Aniante. Dopo il 1919, a Berlino, ebbe modo di approfondire i suoi studi di scenotecnica e di illuminotecnica che gli permisero, una volta tornato a Roma nel 1923, di assumere un posto di primo piano nel Teatro degli Indipenden ti di Bragaglia. A Valente si devono, fra l'altro, progetti di teatri di massa ambulanti ideati In collaborazione con For zano. Imponente anche la sua attività d'architetto, sia in Ita lia che all'estero [Turchia, Romania, Venezuela). L’elemento costruito, che è sempre rimasto alla base delle sue composizioni scenografiche, pur se è da considerarsi una caratteristica specifica di gran parte delle realizzazioni tea trali futuriste, è stato da Valente sapientemente utilizzato e suggestivamente mimetizzato sotto pittoresche sovrastruture. Da segnalare inoltre la sua attività didattica svolta presso il Centro Sperimentare Cinematografico fin dalla fondazione della cattedra di scenotecnica« Antonio Valente è morto a Roma II 30 giugno 1975. Nel catalogo pubblicato in occasione di questa manifestazione figura un'ampia selezione di scritti fra cui quelli di Ferruccio Albanese, Nicola Ciarletta, Enzo Benedetto ed Antonello Trombadori. G.M. NOTIZIARIO CINEMA Con un decreto firmato da re Juan Carlos e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del regno, il governo spagnolo ha abolito la censura sui film ed ha stabilito che anche la proiezione di pellicole pornografiche non sia più considerata illegale purché effettuata in apposite sale dove non sarà consentito l'ingresso ai minori di 18 anni. I produttori e distributori di pellicole pornografiche dovranno inoltre pagare una tassa più alta rispetto a quella normalmente richiesta e, dal canto loro, gli spettatori di film « hardcore » dovranno pagare un prezzo d'ingresso superiore a quello imposto nelle sale cinematografiche dei circuiti « normali ». Al Teatro Piccola Ribalta di Torino, si è svolto un ciclo di proiezioni di film tratti da opere teatrali o interpretati da attori del teatro di prosa. I primi film in programma sono stati: « Monssu' Travet », « Addio Giovinezza », « Assunta Spina », « La Lupa ». Gli italiani continuano a preferire i film stranieri ed in par ticolare quelli americani. Dal 1° agosto al 13 dicembre infatti — secondo i dati dell’AGIS — prendendo in considerazione le prime cinquantasei pellicole presentate nelle prime visioni delle 16 città capo-zona i 27 film stranieri (di cui 20 americani) hanno fatto registrare un totale di 7.000.000 e 153.000 spettatori mentre per i 29 film italiani gli spettatori sono stati soltanto 6.000.000 e 905.000. Al teatro Petruzzelli di Bari, Rita Hayworth e Glenn Ford, hanno ricevuto il « Rodolfo Valentino » 1977. 1 due attori, ai quali sono state consegnate le chiavi della città, hanno lasciato le impronte delle loro mani su una lastra di cemento che sarà collocata sotto la statua di Rodolfo Va lentino nella piazza centrale di Castellaneta (Taranto) paese natio del grande Rudy. Venti miliardi per il credito cinematografica, dieci nel 1977 e dieci nel 1978. La Commissione finanze e tesoro del Senato ha approvato il relativo disegno di legge del governo, che verrà discusso dall'Assemblea di Palazzo Madama e che, se sarà ac colto, diventerà legge, poiché è già passato alla camera dei deputati. Crisi del cinema anche in Francia: la frequenza è scesa a 175 milioni di spettatori paganti (erano oltre 400 nel 1957), le sale multiple non hanno risolto, anzi, il problema della dispo nibilità di film in grado di strappare la gente dal video domestico. In Francia tutti sono d'accordo nell'attribuire principalmente alla concorrenza televisiva i guai del cinema. colo: nessuna attrice o regista o sceneggiatrice famosa ha rite nuto opportuno intervenire al dibattito. Si è svolta al Museum of Modern Art di New York, una re La manifestazione comprendeva, fra l’altro, « II bell'Antonio », trospettiva di cinque film dedicata a Mauro Bolognini. » La viaccia », « Metello ». Frank Coppola ha realizzato per la rete televisiva NBC una versione integrale de « Il padrino » che durerà nove ore, in cui figurano molti brani a suo tempo esclusi dalla copia ci nematografica. Il regista cileno Miguel Littin (già noto per « Actas de Ma- rusia ») ha girato a Cuba la prima coproduzione cubano-messi cano-francese: « El recurso del metodo ». Una giuria presieduta dall'ex portavoce della Casa Bianca, Pierre Salinger e composta da corrispondenti della stampa estera a Parigi ha assegnato a Luis Bunuel il « Prix Unifrance » della stampa estera per il suo film » Quell’oscuro oggetto del desi derio ». Il premio è stato consegnato, in assenza di Bunuel, al produttore del film. « Padre padrone » di Vittorio e Paolo Taviani, ha aperto il 3 febbraio la nona edizione del Festival internazionale del cinema di Belgrado. Sarà questo il terzo anno consecutivo che un film italiano viene scelto per l'inaugurazione del » Fest ». Nel corso della manifestazione saranno presentate un cen tinaio di opere di 38 paesi. Tra i film italiani oltre a « Padre padrone » saranno proiettati « Una giornata particolare » di Et tore Scola, « Un borghese piccolo piccolo » di Mario Monicelli, « Il prefetto di ferro » di Pasquale Squitieri, - Antonio Gram sci » di Lino Dal Fra, « Al di là dei bene e del male » di Liliana Cavani, « Mussolini ultimo atto » di Carlo Lizzani e « Nené » di Salvatore Semperi. Il presidente del premio « David di Donatello » Paolo Grassi, nel corso della riunione del comitato di presidenza, ha nomi nato la giuria per il premio « Luchino Visconti » 1978. Presidente della giuria è Diego Fabbri; componenti Vittorio Albano, Guglielmo Biraghi, Corrado Brancati, Alessandro Ca- sazza, Callisto Cosulich, Sergio Fresali, Carlo Laurenzi, Morando Morandini, Michele Prisco, Gian Luigi Rondi, Piero Virgintino, e Dario Zanelli. L'assegnazione del premio verrà annunciata in marzo, in oc casione del. secondo anniversario della scomparsa del grande regista. Organizzato dalla Federazioni Lavoratori dello Spettacolo in collaborazione con la SAI, si è svolto a Roma, sabato 14 gen naio, nella sala Rimoldi di Via Teulada, un convegno sul tema ■ La donna nel cinema e nello spettacolo ». Assenti dal Con vegno i grandi nomi (naturalmente al femminile) dello spetta Dopo il recente parere favorevole espresso dal Consiglio di Stato il ministro per il Turismo e lo Spettacolo Antoniozzi ha provveduto ad inoltrare per la firma del Capo dello Stato — in accordo col ministro del Tesoro, — il decreto di approvazione del nuovo statuto del Centro Sperimentale di Cinematografia. INFORMAZIONE SOCIALE L ' e d u c a z i o n e s t r a d a l e e n t r a n e l l a s c u o l a Nella sala della Promoteca in Campidoglio è stata presentata alle Autorità ed alla stampa la terza edizione della manifestazione di educazione stradale « Una redazione in ogni classe » indetta dal Ministero dei Lavori Pubblici, d’intesa con il Dicastero della Pubblica Istruzione ed organizza ta dall’Istituto Nazionale per la Comunicazione. Scopo di questa iniziativa è quello di suscita re l’attivo interesse degli insegnanti e degli alun ni sul grave problema dell’educazione stradale. Grave in quanto, malgrado i limiti di velocità e la diminuzione della circolazione a causa della crisi energetica, gli infortuni stradali non accen nano a diminuire. Anzi in alcune città, Roma in particolare, sono in costante aumento. « Una redazione in ogni classe », come lo dimostrano i risultati ottenuti nelle due preceden ti edizioni, è riuscita a penetrare nel mondo del la scuola, creando una presa di coscienza non soltanto del problema, ma di tutta la vasta casi stica che fa parte integrante della sinistrosità stradale. Il tema unico scelto quest’anno dagli organiz zatori « Come il mondo della scuola può colla borare con le autorità competenti per migliorare la circolazione », secondo le prime indicazioni per venute all’Istituto Nazionale per la Comunicazio ne, ha creato un interessante rapporto tra la scuo la e i Comandi dei Vigili urbani. In molte città, ma anche nei piccoli comuni, insegnanti e alun ni hanno affrontato le loro scelte con l’esperien za tecnica dei tutori del traffico. In tutti questi casi si è rivelato l’aspetto interessante della ma nifestazione. Vigili e studenti hanno stabilito un dialogo che sembra destinato a continuare nel tempo. In molte scuole il vigile tiene una confe renza o un dibattito più volte alla settimana. Un Comandante dei Vigili di una grande città del sud ha affermato che, in breve tempo, si è riu sciti a creare una collaborazione come da anni si augurava potesse verificarsi. Numerosi gli As sessori al traffico o alla vigilanza urbana che hanno, organizzato d’intesa con i presidi e gli insegnanti visite « guidate » al Comando dei Vi gili o a strade particolarmente attrezzate con apparecchiature moderne. In altre città questa tanto auspicata colla borazione ha segnato, grazie proprio all ’inizia tiva del Ministero dei Lavori Pubblici, dei punti fermi, destinati, ci si augura, a continuare. Grup pi di ragazzi segnalano i guasti ai segnali o al In molte strade di periferia l’arredo stradale. queste indicazioni tempestive e qualche volta corredate anche da suggerimenti sulla migliore sistemazione di un cartello o sulla necessità di « rinfrescare » un passaggio zebrato o una dop pia linea, sono fatte in maniera garbata, ma ri petuta tante volte quanto è necessario per ve dere realizzata I Vigili urbani so stengono che i ragazzi hanno scoperto un nuovo gioco, ma si rendono conto dell’utilità di questa collaborazione. la richiesta. I problemi della circolazione o del traffico messi sotto la giusta angolazione — merito in dubbio degli insegnanti — suscitano nelle menti giovani e ben predisposte una creatività, una inventiva che spesso sbalordisce. I passi cicla bili sono in Italia molto pochi e logicamente in quelle provincie dove la bicicletta costituisce il più diffuso mezzo di trasporto privato. Quasi nelle stesse zone vi è — quasi fosse un pas saggio generazionale — la passione per la mo to. Ma non erano mai stati previsti « passaggi per ciclomotori o per motocicli ». I ragazzi del l’Emilia, della Romagna, della Marche, per cita re le zone di più alta diffusione delle due ruote con motore, hanno progettato non soltanto que sti nuovi « passaggi », ma hanno presentato dei progetti in scala, addirittura a più corsie; una nuova segnaletica che colpisce per l’originalità creativa e per l’uso di colori brillanti. E’ questo un caso di collaborazione che forse gli stessi organizzatori non avevano previsto. Si tratta di una innovazione che nasce da una preci- legislazione per sa realtà e che dovrà trovare una sistemazione nella l'applicazione del nuovo codice della strada. I ragazzi nel presentare al cuni di questi progetti affermano: « le autorità co munali hanno vietato l’uso delle moto in deter minate ore e località. Questo è un abuso perché chi paga la tassa di circolazione ha diritto di libera circolazione. Con la nostra -pro posta chiediamo che, a buon diritto, una certa parte della strada sia riservata alle due ruote e vietata agli altri veicoli. E’ una condizione di re ciprocità oltre ad essere un fattore di sicurezza e di snellimento della circolazione ». in certe Da Montecatini verranno le conclusioni di due importanti componenti del mondo della scuola: gli allievi ed i docenti. Confrontare i risultati dei due convegni servirà a trarre punti ed inse gnamenti per i programmi futuri dell’educazione stradale. La campagna di educazione stradale « Una redazione in ogni classe » indetta dal Ministero dei Lavori Pubblici, d'in tesa con il Ministero della Pubblica Istruzione è stata pre sentata nella Sala della Protomoteca in Campidoglio. E' questa la III edizione della manifestazione che interessa le tre classi della scuola media dell’obbligo in dettaglio 2.500.000 alunni, 108 mila insegnanti, 110 mila classi, 13 mila presidi, 94 Provveditorati agli Studi. fra in una scuola il progetto audiovisivo Saranno ì tecnici delle diverse amministra zioni, ma soprattutto del Ministero dei Lavori Pubblici, a dover sciogliere la delicata questione. Fra le tante iniziative, sempre nel quadro del la collaborazione il mondo della scuola e quello delle autorità competenti, merita una se gnalazione in corso di realizzazione lombarda. Oltre ai protagonisti abituali del traffico vi sarà la dimo strazione di un congegno ideato dal padre di uno degli alunni. Si tratta in sostanza di « una scatola nera » ispirata al congegno che esiste sugli aerei la quale, su un nastro, registra metro per metro la giornata di un veicolo: la velocità, le frenate, le svolte, gli arresti, le fermate. Con un sistema di lettura ottica si può ricostruire quanto è av venuto nel periodo di attività. L’inventore affer ma che se fosse obbligatoria, almeno sui mezzi pubblici, consentirebbe di rilevare il comporta mento degli autisti professionisti. Una informa zione leggi sull’autotrasporto, sui limiti di velocità, sulla for mazione dei conduttori. E’ ovvio che l'inventore padre è stato un caso fortunato per quella scuo la, ma è certo che il progetto di « scatola nera » automobilistica è destinato a far parlare di sé. Non bisogna dimenticare che « Una redazione in ogni classe » non serve unicamente ad avvi cinare o a far discutere i ragazzi sul problema del la circolazione ma consente agli autori dei miglio ri elaborati di confrontare le rispettive esperien ze nel corso della Conferenza Nazionale dei gio vanissimi sul traffico. La Conferenza è autogesti ta e anche quest'anno perciò gli adulti faranno da ascoltatori. Ma vi è un'interessante innovazio ne; contemporaneamente alla Conferenza dei Gio vanissimi Montecatini ospiterà il primo convegno degli insegnanti sui problemi didattici dell’inse gnamento dell’educazione stradale. importante per modificare alcune I l r u o l o d d e l l a B a e n t e r m i n a n t e c a P o s t a l e I servizi di Bancoposta, a differenza della quasi totalità dei servizi postali e di teleco municazione, vengono eserci tati in regime non già di mo nopolio, ma di libera concor renza. La domanda dei servizi di Bancoposta obbedisce quindi al principio della libera scel ta che presiede a tutte le atti vità economiche non influen zate dalla presenza di fattori di coercizione, quali la esclu sività, la situazione di mono polio. II loro sviluppo resta quin di fortemente legato alle con dizioni di offerta ed alla qua lità dei servizi, vista questa I sotto il duplice profilo del van- ; taggio economico per l’utenza e della efficienza organizzativa. E’ fuori dubbio che la strut tura organizzativa degli uffici, la loro capillarità, il sistema di interconnessioni, costitui scono, nel loro complesso, la più solida condizione di base per un notevole, generale svi luppo di tutti i servizi gestiti dalla Banca Postale. E’ però altrettanto indubita bile che tale condizione di van taggio è in parte frustrata dal rigido inserimento in struttu re statali, legate al rispetto di procedure e metodi tipici della P.A. che non consentono flessi bilità operativa e tempestività di interventi. Accade così che laddove sa rebbero richiesti: elasticità di manovra, autonomia decisio nale ed ampi margini di inizia tiva capaci di imprimere ca rattere manageriale alla ge stione dei servizi, si rinvengo no invece le complesse proce dure ed i rigidi controlli pro pri degli atti amministrativi, i vincoli ed i condizionamenti imposti dal sistema burocrati co, onde l’immenso potenziale insito in quello che può consi derarsi il più completo e capil lare sistema di organizzazio- DIREZIONE CENTRALE SERVIZI BANCOPOSTA Movimento finanziarlo presso le Casse provinciali p.t. durante gli esercizi (dal 1972 al 1 9 7 6 ) _____________________ a r J M S S * ___________j g S 1 2 7 -9 7 7 ________ io o ’° 115,6 1 4 7 . 9 8 2 ________ 115.6 _________ S S 1 8 4 -3 8 6 uscita3 __135^670__________ 2 7 4 . 6 1 7 214'6 S 5 f _ S 3 1 2 . 8 1 0 ________ 2 4 M INFORMAZIONE PUBBLICITARIA ne aziendale viene fortemente compresso e solo parzialmente utilizzato. Per avere un’idea delle di mensioni e delle caratteristi che ' strutturali dell’Azienda P.T. si consideri che non vi è comunità per quanto esigua e sperduta, che non venga raggiunta dajt mezzi e dagli agenti operanti nei settori po stale e di telecomunicazioni. La rete di tali collegamenti si estende ben al di là dei li miti — autentiche frontiere dell’utilitarismo — entro i qua li le aziende bancarie, le im prese di trasporto e le conces sionarie di servizi operano al- i l’insegna del profitto. Oltre queste frontiere, dove l’assen za di guadagni od i rischi del- ! le gestioni in perdita respin- j gono la privata iniziativa, do ve il territorio diviene imper vio e diffìcilmente accessibile, dove tutti gli altri disertano l’elevato e nobilissimo fine della umana solidarietà, ivi 1’ Azienda P.T. è presente a rea lizzare un contatto non occa sionale o precario ma consape vole e permanente. Ed è qui, in queste zone de stinate forse a rimanere domi intangibile dell’Azienda nio P.T., che nel rapporto contrat tuale fra utenti ed Ammini strazione si intrecciano motivi spirituali e psicologici che, umanizzandolo, lo rendono fe condo. Qui la confortante presenza di un punto di riferimento po stale, personificata dal ricevi tore postale o telegrafico, dal portalettere rurale, ha dato vi ta alla costruzione di un rap porto fiduciario che ha avuto, tra l’altro, l’effetto di indurre il risparmio ad abbandonare le sterile sacche della tesauriz zazione e ad affluire nei cana li del risparmio postale. Ma alTinterno dell’area geo grafica in cui le attività econo miche ed i movimenti finan ziari ad esse collegati assumo no rilevanza tale da attrarre l’interesse degli istituti di cre dito, il quale subisce una radi cale metamorfosi. Compaiono in gran numero, sulla scena, Banche, Casse di Risparmio rurali ed artigiane che, in aperta concorrenza fra loro e con la Banca Postale, si con tendono l’incetta dei mezzi fi nanziari e l’erogazione del cre- N um ero operazioni (c ifre in te re ) - Im p o rti in m ilia rd i di lire se rvizi ---------------1 97 2-------------------------------- —_ZJ-------------- N. operazioni importo N. operazioni Importo ' .............. Emessi Pagati .............................. c / c Versam enti.................... Assegni pagati ............ RISPARMI Depositi ....................... R im b o rsi....................... TOTALE Entrate Uscite Totali .................... .. . . . ..................... . . . . . . . . . . . ^ ‘ 19.347.691 21.706.024 ~ ....... 214.099.193 52.635.129 14.724.000 10.039.000 1.273 1.505 17.583 17.713 2.627 1.581 18.630.799 20.717.615 " ' ...... 222.960.504 51.839.578 1.416 1.716 " " 22.228 *21.951 14.975.000 9.490.000 2.964 1.757 ' “ 248.170.884 84,380.153 332.551.037 21.483 20.799 42.282 256.566.303 82.047.193 338.613.496 26.608 25.424 52.032 AVERE DEI DEPOSITANTI AL 31 DICEMBRE (in m ilia rd i) I RISPARMI 7.612 f TOTALE..........................| 9.231 INFORMAZIONE PUBBLICITARIA 9.190 11.076 4 dito offrendo agli utenti, deter minati servizi a condizioni, va riabili entro un arco piuttosto ampio secondo criteri discre zionali, in relazione sia alla natura ed all'entità delle ope razioni, sia alla personalità ed al valore patrimoniale dei clienti. Ma è entro questa area che emergono e si avvertono chia ramente i limiti imposti alla Banca Postale dalla assoluta carenza di un certo grado di flessibilità e di capacità di manovra, che consentano di dare risposte immediate e sod disfacenti ai mutamenti di ten denza dei risparmiatori ed al le specifiche esigenze di parti colari utenti. Il superamento di questi li miti, sommando i propri ef- fetti a quelli prodotti dal de centramento, dalla semplifi cazione delle procedure, dalla introduzione di nuove presta zioni, dalla estensione dei pro cessi automatizzati, consentirà alla Banca Postale di assume re una fisionomia più consona al ruolo che essa è destinata a svolgere nell’economia del pae se e di sviluppare appieno il proprio potenziale. Un rapido sguardo alle inno vazioni introdotte nel corso dell’anno 1977, è sufficiente a confermare irreversibile tendenza ad una profonda tra sformazione dei servizi di Ban coposta nel senso di una fun zionale modernità. Il graduale estendersi del decentramento agli Organi pe riferici dei compiti di gestione la inerenti l'esercizio, fa si che la Direzione Centrale acquisti sèmpre più marcatamente i caratteri tipici di Organo pre posto alla propulsione, al coor dinamento, all’attività promo zionale, allo sviluppo dei servi zi, funzioni queste che assumo no un rilievo tutto particolare nella fase — che non è azzar dato definire sterica — dal pas saggio da sistemi e procedure di tipo burocratico ad una or ganizzazione orientata verso 1’ impiego generalizzato delle tecniche proprie dell’automa zione. Chi giudica dall’esterno, può non aver colto — in assenza di eventi clamorosi ed appari scenti — i sintomi del proces so di evoluzione in atto, che è ancora rivolto prevalentemen- 1 9 7 4 N. operazioni Importo I __________1 9 75_________ | __________1 976_________ jj N. operazioni lmporrtor, . |j N- 0Perazionì Importo 18.706.857 20.758.593 2.136 I 2.356 | 18.405.035 20.484.632 1.999 | 2.236 | 18.021.802 20.230.631 2.822 3.140 276.124.478 46.367.578 27.390 8 280.701.391 27.138 | 39.985.569 33.886 1 299.312.370 33.794 f ____42.242.449 47.938 46.477 13 103.000 12.393.000 2.846 8 2.690 | 14.776.000 10.528.000 3.824 1 2.427 j 15.771.000 10.818.000 4.427 2.901 307 934.335 79.519.171 387.453.506 32.372 8 313.882.444 70.998.201 32.184 § 64.556 8 384.880.645 39.709 § 38.457 78.166 333.105.172 73.291.080 406.396.252 55.187 52.518 107.705 9J94 2.157 11.951 1 | | 11-851 1 2.247 g ___________________3.664 14.098 | 17.744 14.080 I INFORMAZIONE PUBBLICITARIA taluno a rimpiangere te verso l’adeguamento delle strutture organizzative e solo parzialmente si è tradotto in provvedimenti di notevole ri levanza esterna. Può anzi aver addirittura notato, nella fase di transizione, certi inconve nienti che possono aver indot to il -< passato ». Ma, a ben riflettere, non avrà difficoltà a riconoscere in essi i sintomi classici di un processo di rapida ed impetuo sa crescita, i segni dell’impat to con una realtà nuova, in fase di dinamica evoluzione. Questo vasto processo di rin novamento è essenzialmente fi nalizzato al conseguimento del più ambizioso obiettivo che la Banca Postale si è imposto: quello di rendere ai propri utenti la più vasta gamma di servizi all’insegna della effi cienza e della rapidità, ridurre i tempi di attesa, avvicinare sempre di più i servizi di Ban coposta agli utenti, estendere la circolarità di tutti i titoli postali, ampliare la sfera dei servizi in relazione ai muta menti qualitativi e quantitati vi della domanda: sono questi gli impegni prioritari dell’Am ministrazione P.T., al cui con seguimento offrono il loro in sostituibile supporto i Servi vi Postali e di Telecomunica zione. I primi, attraverso la fitta e capillare rete di collegamen ti terrestri, aerei, navali ed av valendosi delle più avanzate tecnologie in materia di mec canizzazione, i secondi median te i più sofisticati sistemi di comunicazioni radio-telefoni che, rappresentano il tessuto connettivo che lega tra loro e con gli utenti i 18.000 spor telli della Banca Postale. Ma questo che è il più com plesso ed integrato sistema di comunicazioni interne ed in ternazionali, può dispiegare appieno i suoi effetti solo a condizione che ad esso si in nesti l’essenziale componente della collaborazione degli uten ti: se questa viene a mancare, si determinano inevitabilmen te sfasature, ritardi, slittamen ti di tempi nell'attuazione dei progetti di ammodernamento. La riluttanza dell'utenza ad uniformarsi alle prescrizioni in materia di formati, di stan dardizzazione della modulisti ca, è di ostacolo alla celerità delle lavorazioni e quindi alla effettuazione di un servizio al l’altezza delle aspettative. D’altro canto è inevitabile che l’attività di quella che in signi studiosi hanno definito « la più grande Banca Italia na » registri qualche disfunzio ne, che peraltro sarebbe pro fondamente errato assumere come emblematica, se si tiene conto dell'ingente massa di operazioni svolte dalla Banca Postale. Trentamila operatori eseguo no giornalmente 1.500.000 ope razioni con un movimento di denaro pari a 911 miliardi di lire al giorno. E ciò mentre, al tempo stes- IN FORM AZI ONE PUBBLICITARIA so, essi si applicano al disbri go di pratiche amministrative, originate da richieste degli utenti per rivalidazione o rin novazione di titoli scaduti, smarriti, sottratti, ¡deteriorati, o per cambi di ihtestazione, per pratiche di successione, per richiesta di titoli in visio ne per la verifica della auten ticità, della quietanza o della regolarità formale. L’analisi dei dati relativi al la quantità ed all’ammontare delle operazioni, raffrontata al numero delle unità applicate, evidenzia un indice di produt tività che è fra i pù elevati in campo nazionale: testmonia di ciò il tasso di incidenza del costo dei servizi di risparmio svolto per conto della Cassa DD.PP. che raggiunge appena l’I per cento della massa dei depositi, percentuale che ap pare rispetto a quella che figura nei bilanci de gli istituti operanti nel setto re del risparmio e del credito. La produttività del lavoro, irrilevante che altrove costituisce anco ra materia di polemiche con troversie, nella Banca Postale j è una realtà operante e quindi pegno del sicuro conseguimen to di obiettivi da cui può di pendere anche un più elevato tasso di sviluppo della econo mia del paese, un più rapido accrescimento del reddito na zionale e quindi l’ulteriore svi luppo dell’intera collettività. In vista di questa finalità, sarebbe quanto mai auspicabi le che, attraverso i vari orga ni di informazione, si diffon desse nei più vasti strati della popolazione la consapevolezza che tutto il denaro che fluisce nella fitta rete di canali della Banca Postale non può in al cun modo essere distolto da gli impieghi sociali cui esso è istituzionalmente destinato e che trovano la loro più signi ficativa estrinsecazione nel fi nanziamento di opere pubbli che poste dalla legge a carico degli Enti locali. Il processo di ammoderna mento in atto non è quindi avulso dalla realtà sociale, nella quale esso si inserisce invece come fattore di possen te stimolo e di civile crescita. Sotto questo profilo, l'espan sione della sfera operativa del la Banca Postale sarà l’espres sione più tangibile, la testimo nianza più autentica, la con ferma inequivocabile del rin novato, consapevole rapporto di fiducia dei cittadini verso la gestione pubblica dei ser vizi di Bancoposta, capace di svolgere, tra l’altro, un'impor tante funzione regolatrice e condizionante nel vasto setto re della raccolta del risparmio e dell’erogazione del credito. Assecondare questo proces so significa rendere più parte cipe la presenza e più incisivo il ruolo della Banca Postale nel contesto economico-socia- le del paese: significa, in defini tiva, cooperare al generale progresso di tutto il Paese. INFORMAZIONE PUBBLICI TAR IA INFORMAZIONE PUBBLICITARIA Lo spum ante dei VIP Sono proprio i VIP, i personaggi che tutti cono scono, quelli che non hanno paura di bere e di farsi vedere quando bevono i grandi spumanti italiani, quelli prodotti con il metodo classico champenois, per in tenderci. Su questo tema esistono ancora incredibili tabù. Prima di tutto: non ce guerra tra i grandi cham- pagnes e i grandi spumanti italiani: anzi, ci deve es sere alleanza, libertà di scelta e di accoppiamento, nei pranzi, secondo le occasioni, i gusti personali altre sfumature. Sono i grandi vini delle occasioni liete, degli incontri più piacevoli e brillanti. E ognuno di essi, casa per casa, marca per marca, sia in Francia, nella terra dello Champagne, sia in Italia nelle zone dove lo spumante è prodotto con la stessa tecnica raffinata, ha le sue caratteristiche, la sua personalità, le sue virtù entusiasmanti. Il tabù da combattere è che in Italia non ci possa essere, come in Francia, anche spumante di altissimo pregio, degno di qualsiasi intenditore. Il tabù è che gli spumanti italiani, perché costano meno, (come tanti altri prodotti che nascono nel nostro Paese e quindi non subiscono certi costi dovuti aH’importazione) siano inferiori. Spesso, anche chi è al corrente di queste cose, ha paura, tuttavia, di offrire spumante italiano, dato questo strano handicap, che è, appunto, quello di costare di meno. Ma oggi, chi se ne intende, sa anche spiegare; i personaggi più in vista del teatro, dell'arte, delle lettere, non hanno paura di dichiarare queste preferenze. E allora: libera circolazione, libera scelta per tutti i grandi spumanti, da qualunque parte provengano. Ma, per favore, senzi i vecchi pregiudizi anche per i grandi spumanti italiani. A.P. Per assicurare la serietà, anzi il, rigore nella pro duzione degli spumanti italiani classici secondo il me todo champenois, si è costituito nel 1975 uno speciale Istituto i cui aderenti si impegnano a osservare un regolamento ferreo e ad aprire le porte a qualsiasi controllo. All’Istituto Spumante Italiano Metodo Cinam- penois aderiscono le case: Antinori, Calissano, Car- pené, Malvolli, Cinzano, Contratto, Equipe 5, Ferrari, Fontanafredda, Gancia, La Versa. dall'alto: Alberto Lupo, ottimo intenditore di vini, è in particolare un grande estimatore dei nostri spumanti Aba Cercato, è una grossa sostenitrice dello spumante italiano a sinistra: Mike Bongiorno, Anna Pesenti, Daniela Zuc- coli brindano con lo spumante italiano metodo cham penois, il giorno del battesimo del figlio Nicolò V in A b b o n a t e v i a I L D R A M M A l a p i ù p r e s t i g i o s a r i v i s t a d e l l o s p e t t a c o l o i n I t a l i a I n o g n i n u m e r o d e “ I l D r a m m a ” - T e s t i i n t e g r a l i d i n o v i t à i t a l i a n e e s t r a n i e r e - L e r e c e n s i o n i d e i p r i n c i p a l i s p e t t a c o l i t e a t r a l i - T u t t e l e n o t i z i e d i t e a t r o , m u s i c a c i n e m a , t e l e v i s i o n e Nuova serie H D R A Piazza in Campo Marzio, 5 - 00186 Roma A M M Italia S o ste n ito re annuo sem estrale Estero annuo sem estrale una copia L. 50.000 L 15.000 L. 8.000 L. 30.000 L. 15.000 L. 1.500 Scrivere nella causale in STAMPATELLO il nome, cognome, dell'abbonato, e l’indirizzo con il CAP. L D a J t r o i e s e l . Confort Nella nuova Ford Granada, confort non significa sol tanto comodi sedili o materiali eleganti, ma soprattutto, tanto spazio, per ben 5 persone adulte; più spazio e fa cilità di movimento di qualunque altra vettura della sua classe. Spazio di un abitacolo su sospensioni indipenden ti, per viaggiare comodi e tranquilli, con un sistema di ventilazione davvero efficiente e tutta una lunga serie di accorgimenti e di caratteristiche standard e opzionali. Economia La nuova Ford Granada nella sua nuova e splen dida linea, ha ora un economico motore Diesel. Oggi puoi finalmente avere il confort e la sicurezza della nuo va Ford Granada con l’eccezionale economia di un mo tore Diesel 1,9, che ti consente di percorrere oltre 11 km. con un litro di gasolio. Sicurezza La nuova Ford Granada è stata realizzata con spe ciali accorgimenti tecnici, che vanno da una visibilità ot timale ad un bassissimo centro di gravità, dallo spoiler frontale che consente una eccezionale stabilità al pianto ne dello sterzo ad assorbimento d’urto, dal sistema fre nante a doppio circuito all’abitacolo rinforzato in acciaio. Ecco perché i sedili sono stati disegnati anatomica mente ed il cruscotto ed i comandi sono di una funzio nalità e di una praticità incredibili. Servizio ogni 20.000 km. La rtuova Ford Granada Diesel è stata costruita per èssere forte ed economica. Revisioni e controlli sono pre visti a intervalli di 20.000 km. Garanzia a 12 mesi con chilometraggio illimitato. Accessori Una vasta serie di accessori ti permetterà di persona lizzare al massimo questa splendida vettura, ch<* puoi sce gliere tra i seguenti modelli: Motore 1,9 DIESEL - Versione Base e L .Motore 2,0 Benzina - Versioni GL - Ghia - Station Wagon Motore 2,8 Benzina - Versione Ghia Vai dal tuo Concessionario Ford più vicino. Troverai la Ford Granada che fa per te. con speciali zone antiurto anteriori e posteriori. La sicu rezza della nuova Ford Granada è nata anche dal nuo vo concetto che non solo la macchina deve essere sicura e affidabile tecnicamente, ma anche il guidatore e tutti gli altri passeggeri debbono sentirsi sicuri e protetti dal l’atmosfera che li circonda. F O R D G R A N A D A E N T E N A Z I O N A L E P E R L ’ E N E R G I A E L E T T R I C A PRODUZIONE DI ENERGIA ELETTRICA Nel 1977 la produzione di energia elettrica dell ‘ENEL è stata di oltre 125 miliardi di kWh: negli ultimi dieci anni l’Ente ha pertanto quasi raddoppiato la sua produzione — che nel 1967 fu di 65 miliardi di kWh — per soddisfare la crescente richiesta dell'utenza. INVESTIMENTI L'ENEL, nel 1976. ha effettuato investimenti per 1.209 miliardi; una cifra che rappresenta il 14% degli investi menti dell'intero settore industriale nazionale. Il 39% di detto importo — circa 470 miliardi — è relativo ad impianti realizzati nel Mezzogiorno. I nuovi investimenti in programma nel quinquennio 1977 1981 ammonteranno a 15.261 miliardi. PREVISIONI DI SVILUPPO DELLA RICHIESTA DI ENERGIA ELETTRICA I consumi di energia elettrica, come è noto, sono da sempre diretta conseguenza dello sviluppo economico, che costituisce un obiettivo di fondo dell'azione di Governo e delle forze politiche e sociali. Compito dell'ENEL. come disposto anche dalla legge di nazionalizzazione, è di assicurare una disponibilità di impianti adeguati alle esigenze di tale sviluppo: pertanto, finché non venga profilato, in sede responsabile, un raffreddamento dell’economia nazionale, i programmi dell'ENEL devono essere di entità tale da consentire la cre scita del Paese, tenuto conto delle gravissime conseguenze che comportereobe un deficit di energia elettrica, anche sull'occupazione. DIRETTRICI DEI PROGRAMMI ENEL Nella gestione delle fonti energetiche, la prima risorsa — anche se virtuale — è rappresentata dalle economie di energia elettrica realizzabili da parte dei consumatori senza che vengano menomati i vantaggi di tale forma di energia: in questo campo l'ENEL svolge una capillare azione di informativa degli utenti. A monte di questa attività l'ENEL ha ottenuto notevoli economie energetiche nella produzione, trasmissione e distribuzione: rispetto al primo anno della nazionalizzazione (1963), il consumo di combustibili per kWh è stato ridotto del 10% e lo perdite del 18%. Nell’impostazione dei programmi di nuovi impianti l'ENEL persegue poi. in primo luogo, l'obiettivo della utilizza zione delle fonti primarie nazionali ed in particolare di quelle « rinnovabili ». che si rendono disponibili di anno in anno senza apprezzabili riduzioni. ENERGIA IDRAULICA In campo idroelettrico l'ENEL opera su varie direttrici: la utilizzazione delle sia pur limitate residue risorse: il rifacimento — con criteri e tecnologie più avanzate — di vecchi impianti: lo sviluppo degli impianti di pompaggio — settore nel quale l'Italia è all'avanguardia in Europa — per la copertura delle punte di carico e per funzioni di integrazione e riserva. In- tale quadro, tra i più significativi impianti realizzati dal l'ENEL negli ultimi anni vanno segnalati quello del Lago Delio, della potenza di 1.000 MW, di S. Fiorano (500 MW). del Brasimone-Suviana (300 MW). La potenza dei nuovi impianti idroelettrici in corso di realizzazione supera i 5.000 MW. ENERGIA GEOTERMICA La produzione italiana di elettricità mediante l'energia geotermica rappresenta attualmente circa un terzo dell'in tera produzione geótermoelettrica mondiale. I nuovi soffioni reperiti recentemente nello svolgimento delle cam pagne di prospezioni e sondaggi avviate dall'ENEL da ben prima della crisi energetica su vaste aree del territorio nazionale consentiranno di elevare la nostra produzione geotermoelettrica di circa 300 milioni di kWh all'anno. ENERGIA SOLARE Nel campo delle ricerche di fonti energetiche integrative o sussidiarie dei combustibili fossili e nucleari. l'ENEL persegue anche lo sviluppo dell’energia solare, e. tra l'altro, partecipa ad un programma per la realizzazione e l'esercizio di una centrale elettrica sperimentale da 1 MW — in comproprietà paritetica con la Comunità Europea — che sarà collegata alla rete italiana. IL PROGRAMMA NUCLEARE Realizzata la massima utilizzazione delle fonti energetiche nazionali e. presso, l'utenza, ogni possibile economia energetica, resta da colmare un vuoto del tutto prevalente per soddisfare i futuri fabbisogni di energia elettrica che negli anni '80 si prevede aumenteranno mediamente di oltre 20 miliardi di kWh all'anno: la scelta nucleare, per l'Italia, povera di combustibili fossili, costituisce l'unica alternativa, industrialmente ed economicamente valida, alla produzione termoelettrica tradizionale, anche agli effetti della riduzione del deficit valutario petrolifero. E' per tanto necessario che. per le centrali del programma nucleare' dell'ENEL — nel quadro del Piano Energetico Nazio nale — seguano i prescritti provvedimenti autorizzativi, in modo che queste possano essere costruite senza ulte riori ritardi. L’invenzione del Secolo GRATIS DA OGGI UN NASTRO-CASSETTA: STAMANE LO UDITE STASERA COMINCIATE A PARLARE INGLESE O FRANCESE O TEDESCO Derivato da un computer un nuovo, sbalorditivo Metodo britannico — Comincia domani la distribuzione del dono Il mondo degli scienziati e dei tecnici è stato messo a rumore da una sbalorditiva invenzione inglese. Da Londra ci comuni cano infatti che, in base ai dati elaborati da un cervello elet tronico dopo un lungo lavoro di impostazione e di ricerca, è stato messo a punto un nuovo Metodo che consente di co minciare a parlare le lingue nella stessa giornata. La tecnica di oggi non finisce più di stupirci. Ma non basta: l’Istituto in ternazionale Linguaphone, depositario della nuova invenzione, ha stanziato una forte somma a scopo promozionale per dif fondere gratuitamente, attraverso le sue 86 Filiali in tutto il mondo, un nastro-cassetta e un disco di prova, in tre lingue: inglese, francese e tedesco. I lettori possono così sperimentare subito, a casa loro, senza spesa né impegni di sorta, questa eccezionale invenzione. I let tori possono liberamente scegliere fra nastro-cassetta e disco a seconda del mezzo di riproduzione che posseggono. Maggiori dettagli sono contenuti in un opuscolo che viene invia to, con le istruzioni per l’uso del nastro, o del disco, a chi lo richieda entro una settimana, scrivendo a: « La Nuova Favella Linguaphone Sez. ID/1 - Via Borgospesso, 11 - 20121 Milano», specificando se desiderano nastro-cassetta o disco e allegando 5 bolli da 100 lire l’uno per spese. Col nastro-cassetta o col disco — ripetiamo gratuiti e senza impegni di alcun genere — chiun que può scoprire un nuovo Metodo per incrementare lavoro, car riera, affari e guadagni. E’ bene approfittare oggi stesso di que sta opportunità, offerta dalla tecnica moderna e dai suoi passi da gigante in ogni campo. EDIZIONI C it t à A r m o n io s a c. p. 348, 42100 Reggio Emilia, c. c. p. 10028421 David Maria Tumido La passione di San Lorenzo Città Armoniosa David Maria Turoldo L A P A S S IO N E DI S A N L O R E N Z O lire 2700 Protagonista di quest’opera teatrale è un giovane. Egli testimonia, con la morte e con il rifiuto di facili compromessi coi potenti, il proprio desiderio di amore e di libertà. Con il bisogno di giustizia del protagoni sta, mai pacificato né soddisfatto, con la sua partecipazione alle speranze e alle sofferenze dei poveri, Turoldo cerca di dare voce alle attese più vere dell’uomo contemporaneo. Luigi Santucci L ’ A N G E L O DI C A IN O lire 3000 Uno scrittore tra i più noti della nostra letteratura contemporanea, in quest’opera tea trale calma e profonda, si avvicina ai « grandi » del dramma sacro. Nei personaggi è rappresentata l'umanità fatta di cielo, e di terra, di eternità calata nel tempo. I problemi del male, quelli del dolore, quelli del rapporto genitori-figli sono tutti accostati con grande intensità. Con quest’opera, Santucci ha vinto premio « Pro Civitate Cristiana » nel 1956. il EDIZIONI C it t à A r m o n io s a c. p. 348, 42100 Reggio Emilia, c. c. p. 10028421 C A P P E L L I p e r u n a c u ltu ra aperta le collane L’Architettura contemporanea / Arte dopo il 1945 / Biblioteca dell’Ottocento Italiano / Cento anni di illustratori / I classici Cappelli per la gioventù / Collana di psicologia / La critica e gli scrittori italiani / Dal soggetto al film / Documenti di teatro / Inchieste e Documenti / Indiscipline / Nuova Universale Cappelli (NUC Cinema, NUC Studio, La ricerca sociale) / Roma Cristiana / Saggi Cappelli / Storia dei Partiti politici / Storia della letteratura italiana / Storia di Roma / Undici Diciannove i direttori Achille Ardigò / Giulio C. Argan / Pietro Bellasi / Leonardo Benevolo / Renzo Canestrari / Paola Castellini / Renzo De Felice / Paolo Grassi / Giorgio Guazzotti / Gaetano Mariani / Paola Pallot- tino / Giorgio Petrocchi / Alfredo Pieroni / Renzo Renzi / Gianni Scalia volumi eli teatro Teatro completo di Ugo Betti / L’opera da tre soldi e Schweyk nella seconda guerra mondiale di Bertolt Brecht / Teatro di Georges Courteline / Teatro di Massimo Dursi / Sei com medie di Gherardo Gherardi / Nerone è morto e La Sfinge di Miklòs Hubay / Sei commedie di Eligio Possenti / Caffè Mozart di Vanni Ronsisvalle / Teatro di Carlo Terrori / Il Car dinale Lambértini di Alfredo Testoni / I grandi camaleonti di Federico Zardi / Teatro Universale dalle origini ai giorni nostri (in 3 volumi) di Achille Fiocco / Shakespeare provoca tive di Hans Rothe e altri. N U O V A CASA E D IT R IC E L. C A PP ELLI S.P.A. Via M arsili 9, 1-40124 Bologna / telefono 051 - 330411 I M I h a t u t t o p e r l a f o t o g r a f i a e i l c i n e m a □ p e llic o le C o lo r P rin t p e r s ta m p e a c o lo ri □ p e llic o le C o lo r S lid e p e r d ia p o s itiv e a c o lo ri □ p e llic o le C o lo r M o vie p e r c in e m a a c o lo ri □ p e llic o le in b ia n c o e n e ro □ c a rte in b ia n c o e n e ro e a c o lo ri □ a p p a re c c h i ed a c c e s s o ri □ c a s s e tte m a g n e tic h e “ S c o tc h ” D i v i s i o n e F o t o g r a f i a 3M ITALIA S.p.A. - UFFICI: 20090 MILANO S. FELICE - SEGRATE - TEL. 7545 - STABILIMENTI: CASERTA - FERRANIA - FILIALI: TORINO - PADOVA - MESTRE - GENOVA - BOLOGNA - FIRENZE - ROMA - NAPOLI a l t u o s e r v i z i o d o v e v i v i e l a v o r i l e C A S S E D I R I S P A R M I O l e B A N C H E D E L M O N T E

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Il dramma : rivista mensile di commedie di grande successo. - Torino : Grandi firme, 1925-1992.

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