L D A I MENSILE DELLO SPETTACOLO - ANNO LIV . N. 3 Marzo 1978 - Lire 2.000 M M R A | B H '*Ì' .'.V- ¡¡fcgf|| : > 6 i . \ COLLEZIONE TEATRALE “ Piccola Ribalta,, - Torino Testo N. ^ CI. JD Lo spum ante dei VIP Sono proprio i VIP, i personaggi che tutti cono scono, quelli che non hanno paura di bere e di farsi Vedere quando bevono i grandi spumanti italiani, quelli prodotti con il metodo classico champenois, per in tenderci. Su questo tema esistono ancora incredibili tabù. Prima di tutto: non c’è guerra tra i grandi cham- pagnes e i grandi spumanti italiani: anzi, ci deve es sere alleanza, libertà di scelta e di accoppiamento, nei pranzi, secondo le occasioni, i gusti personali altre sfumature. Sono i grandi vini delle occasioni liete, degli incontri più piacevoli e brillanti. E ognuno di essi, casa per casa, marca per marca, sia in Francia, nella terra dello Champagne, sia in Italia nelle zone dove lo spumante è prodotto con la stessa tecnica raffinata, ha le sue caratteristiche', la sua personalità, le sue virtù entusiasmanti. li tabù da combattere è che in Italia non ci possa essere, come in Francia, anche spumante di altissimo pregio, degno di qualsiasi intenditore. Il tabù è che gli spumanti italiani, perché costano meno, (come tanti altri prodotti che nascono nel nostro Paese e quindi non subiscono certi costi dovuti all’importazione) siano inferiori. Spesso, anche chi è al corrente di queste cose, ha paura, tuttavia, di offrire spumante italiano, dato questo strano handicap, che è, appunto, quello di costare di meno. Ma oggi, chi se ne intende, sa anche spiegare; i personaggi più in vista del teatro, dell'arte, delle lettere, non hanno paura di dichiarare queste preferenze. E allora: libera circolazione, libera scelta per tutti i grandi spumanti, da qualunque parte provengano. Ma, per favore, senzi i vecchi pregiudizi anche per i grandi spumanti italiani. A.P. Per assicurare la serietà, anzi il, rigore nella pro duzione degli spumanti italiani classici secondo il me todo champenois, si è costituito nel 1975 uno speciale istituto i cui aderenti si impegnano a osservare un regolamento ferreo e ad aprire le porte a qualsiasi controllo. All’Istituto Spumante Italiano Metodo Cham penois aderiscono le case: Antinorì, Calissano, Car- pené, Malvolli, Cinzano, Contratto, Equipe 5, Ferrari, Fontanafredda, Gancia, La Versa. dall'alto: Alberto Lupo, ottimo intenditore di vini, è in particolare un grande estimatore dei nostri spumanti Aba Cercato, è una grossa sostenitrice dello spumante italiano a sinistra: Mike Bongiorno, Anna Pesenti, Daniela Zuc- coli brindano con lo spumante italiano metodo cham penois, il giorno del battesimo del figlio Nicolò DANTE CAPPELLETTI 4 DIEGO FABBRI SIRO ANGELI MELO FRENI La sua « età » Intervista con Romolo Valli Romolo Valli analizza se stesso 22 Prosa recensioni (di O. Bertani, A. Libertini, D. Cappelletti) 40 Siro Angeli: vent’anni dopo 41 Grado Zero 68 Vent’anni del Teatro Stabile di Catania MENSILE DELLO SPETTACOLO - ANNO LIV N. 3 Marzo 1978 - Lire 2.000 SO M M ARIO J _______________________________________________________________ ODOARDO BERTANI 2 Gli ottanta anni di Brecht GIOVANNI ANTONUCCI ------------------------------------------------------------------------------------------------ i GUIDO NASTASI 70 Il vento del Sud II ritorno di Aldo de Benedetti Revival momentaneo? 72 Recensioni Lirica 74 Intervista con Piero Faggioni Primo: viene l'attore IRENE FREDA PITT ALBERTO TESTA 80 Recensioni Lirica 84 Balletti a Parigi e Londra Passione e Morte 87 Una nuova cooperativa teatrale L’Unicorno 88 Qui New York 90 Qui Parigi 92 Qui Zurigo 94 Notiziari Gli ottanta anni di Brecht Associato all’unione Stampa Periodica Italiana Comitato di direzione: Odoardo Bertani, Diego Fabbri, Mario Guidoni, Maurizio Livera- ni, Ugo Ronfani. Direttore editoriale: Carlo Fuscagni. Condirettore editoriale: Angelo Libertini. Responsabile: Diego Fabbri. Segreteria: Anna Maria Menna, Renata Fabbri. Redazione: Piazza in Campo Marzio, 5 - 00186 Roma - Tel. 657.307 - Nuova Casa Editri ce Licinio Cappelli spa - Amministrazione: Via Marsili, 9 - 40124 Bologna - Tel. 33 04 11 - Realizzazione editoriale: Wanda Buzzoii, Nuova Casa Editrice Licinio Cappelli, Via Niz za, 45 - 00198 Roma - Tel. 865.259 - Grafica: Marcello e Franca Rossetti - Roma - Re gistrato presso il Tribunale di Roma al N° 15230 del 20-10-1973 - Un numero L. 2.000 - Arretrato L. 2.500 - Abbonamento annuo L. 15.000 - Estero L. 30.000 (IVA compresa) - c.c.p. 11036407 intestato a Nuova Casa Editrice Licinio Cappelli spa - 40124 Bologna - Spedizione in abbonamento postale gruppo 111/70% - I manoscritti anche se non pubbli cati non si restituiscono - Pubblicità: S.I.P. 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È apparso, in clima così diverso, sempre un poco importato. O quasi una mera viglia intoccabile. Il 10 febbraio, Bertold Brecht avrebbe compiuto ot tanta anni. Dalla sua morte, ne sono passati ventidue. Dovrebbe, dunque, cominciare adesso il tempo in cui si vuole che si stabilisca e si riconosca la classicità. Guardiamoci d’attorno: non uno spettacolo brechtiano, nella stagione in corso. Sul piano editoriale, la fermata secca risale ad alcuni anni fa. Non medica tale assenza la recentissima apparizione nella BUR del saggio di Henri Dumazeau, su Madre Courage. Neppure si sono avuti i pur annunciati convegni e seminari. Che succede? È diventata materia superata o difficile da trattare? Proviamoci a porre noi qualche questioncella. In attesa, ad esempio, che Giorgio Strehler ci dia « I gior ni della Comune ». E che il Berliner Ensemble non deb ba fermarsi, quando viene in Italia, a Venezia, ma a Milano trovi i soldi per un ricevimento, che giovi altresì al confronto. Il problema, per un autore contemporaneo che non ha visto il ’68, è se lo seppe intuire, come sbocco del nuovo assetto che la società post-bellica stava per darsi. Se fu in grado, come Pirandello, di confrontarsi coi paradigmi culturali di base. Dobbiamo capire se, scon tando la contingenza storica e l’affiliazione ideologica, egli abbia raggiunto il fondo delle cose. Di alcune, al meno. La critica ha questo compito. Ma, a ventidue anni dalla morte, Brecht ha ancora delle carte coperte. Non è colpa sua, ma della famiglia: cioè, della figlia e del genero, il famoso attore Ekkehard Schall, eminenze del Berliner Ensemble, i quali serrano carte e manoscrit ti nella casa della Chaussenstrasse di Berlino Est. Due mesi fa, a Venezia Jan Kott denunciava questa non di sinteressata ipoteca, in aggiunta ad altre, anche di casa nostra, come se il monopolio dei bottoni non fosse infinitamente meno grave, di quello sulla creatività. L ’associazione dei critici italiani ha fatte sue que ste preoccupazioni, e auspicata una più agevolata circo lazione delle sue opere. Come lezione al modo di far teatro, invece, è stato indispensabile, come una grossa striglia, mentre resti tuiva alla ragione il dovere della veridicità, e l’umiltà di proposizioni semplici. Brecht sta nella storia della rappresentazione, avendoci aiutati a superare lo psico logismo naturalistico per una più onesta dichiarazione del gioco teatrale. Il linguaggio teatrale si avvantaggia attualmente di certe proposte che filtrano, ossia criti camente superano, avendolo fatto proprio, l ’insegnamen to brechtiano. « L’età di Brecht » si intitola il volume che raccoglie una parte delle recensioni dello scomparso e rimpianto Arturo Lazzari. C’è stata, non nella misura auspica bile, forse; nella misura, che avrebbe consentito una appropriazione tale, da trasformarsi in crescita cultu rale. A ragione o a torto, parte del pubblico ha avver tito un sotteso di intimidazione. Non gli giovò « schie rarlo », anziché lasciare che a convincere fosse il suo genio poetico. Oggi, poi, che distanza da quei modelli politici, da quegli schematismi di lotta, da quel fideismo! Scrivo fideismo, e devo correggermi, perché mi pare che la salvezza di Brecht stia, per cominciare, nella sua fede nell’uomo. « Quasi ognuno ha amato il mondo », scrisse, in un verso amaro verso il mondo non come esistente in sé, ma perché contraffatto dalla cattiveria umana. La sua ecologia si esprimeva nell’ambito storico, e qui scorgeva il male. Ebbe un limite, nel non porsi il problema filosoficamente, e nel rinchiuderlo in catego rie politiche e, mediatamente, morali. Non fu un pro pagandista, ma un missionario. Aveva fede ed era otti mista. Pensava che si potesse « fare della terra la nostra dimora ». Ma spaccava il mondo in classi, da figlio della propria epoca, da perseguitato, da ossessionato del sistema (e in un sistema ricadde); pensiamo con qua le sofferenza, lui che aveva scritto: « sono coloro che non riflettono, a non dubitare mai ». Ed abitava nella terra del dubbio proibito, Berlino Est. La seconda salvezza, Brecht l’ebbe dalle sue doti mitopoetiche. I suoi personaggi appartengono ad una fascia metastorica, emblematica. Non abitano da nessu na parte, stanno lontani nello spazio e nel tempo: Ga li Gay, Madre Courage, Galileo, Puntila col suo servo Matti, Shen Te col suo doppio, Azdak con la sua giu-, stizia, vivono nella parabola, nella cultura, sono gli dei d’una vicenda compromessa dal qui e dal terreno. O le proiezioni universali d’un reale equivoco (Arturo Ui). Sono figure di taglio omerico, impassibili nel robusto costrutto di virtù e di debolezze. Sono ormai tra le gran di figure del teatro, con dentro qualcosa che è dell’eter na natura dell’uomo, e che l’autore non poteva stra volgere. La facoltà visionaria di Brecht, la sua capacità di analisi e di ingrandimento, la sua forza d’intaglio di un gesto che passa in proverbio. La sintomaticità degli oggetti, d’un carro itinerante, che condensa le alter ne vicende della storia e di un singolo. Ma l ’uomo d’arte conosceva il vincolo della mede sima, la sua non permissività. E si sforzò di obbedire addensando fertilità d’arguzia, ingenue malizie, sinteti che allusività, andamenti favolistici nei testi didattici, dove l’impegno è sposato all’umile ricerca di una con sapevole aderenza linguistica. Dopo nascono, esauriti an che gli influssi espressionistici, le grandi figure, che non sono di univoco marmo, ma figure perplesse e con traddittorie. È un’ambiguità indotta da situazioni estra nee all’individuo, non esistenziale; è pure una forma di difesa. Ma appare qui piuttosto chiaro, che qualcosa è stato sottratto pregiudizialmente al personaggio, e che la sua definizione è monotona, perché un’alternativa di messaggi diversi gli è stata preclusa. C’è una specie di faziosità nel negativo, nel non avere dato la parola ad altre opzioni d’ordine spirituale. C’è, in lato senso, una attenzione all’avere, giusti ficata ideologicamente, e dalla tristezza dei tempi, ma a causa della quale il ritorno dell’essere può avvenire, ma su fondazioni esterne e non sul piano traente della metafisica. In fondo, la vocazione alla favola condiziona la con sistenza etica dei personaggi, il cui mondo risulta di fe nomenologia semplificata. E tuttavia, i recuperi sono prodigiosi, nel senso che l’essere uomo resta un proble ma continuamente avanzato. Brecht ce l’ha di fronte, e dalle caute scoperte di esso sembra trarre una trepida paura, uno stupore, una sofferenza, per una fragilità esposta al baratto della coscienza con le lenticchie. Quello di Brecht è definibile anche come un « tea tro del comportamento »; in un certo senso, un « tea tro dello sguardo » ché a tale esercizio di non parteci pazione, di lettura critica egli ci induce sapientemente: con lo stacco dato dalla comparsa di cartelli, ad esem pio; o addirittura con un atto, come nel Cerchio di gesso del Caucaso. L’analisi tiene della descrittività, e l’invenzione si esalta nei particolari. Brecht non lavorò per il teatro, ma con il teatro per l ’uomo — e rispettabile è la figura d’uomo ch’egli pla sma — e il suo lavoro teatrale, innovando linguaggi, funzioni, rapporti tradizionali, si fonda su ipotesi di la voro mai autosclerotizzatesi. E qui può fondarsi la spe ranza che dopo la prima generazione registica (De Bo- sio, Strehler, Trionfo, Guicciardini, Squarzina, Enri quez), nasca da una situazione culturale più dialettica, una seconda schiera (iscriviamo, per intanto, il nome di Massimo Castri) che ne affronti nuovamente l’ope ra. Non si tratta solo di aggiungere titoli ai circa otto cento volumi ormai dedicati nel mondo allo scrittore di Augusta, ma di verificarne la contemporaneità in una società profondamente mutata, nei suoi rapporti, nei suoi costumi e nei suoi problemi, una società, soprat tutto, che sente il bisogno di rifondarsi eticamente, che è dilaniata da inquietudini più complesse, e che cerca fuori del marxismo una risposta non solo alle ansie del giorno, ma anche a quelle delle ore più sole. Il « Brechtdialog » appena svoltosi a Berlino Est sembra essersi molto preoccupato dell’influenza passata e presente nei Paesi capitalistici, in quelli socialisti e in quelli in via di sviluppo. Ossia della fortuna e della utilità. Per essere un classico — come si attende — occor re invece di sapere la sua poesia, il respiro della sua fantasia, la tipicità della sua parola. E tuttavia, se per molti egli appare un po’ come un taumaturgo, anche questo è un segno dei tempi. C’è bisogno, sembra, d’altro. O di Godot. Odoardo Bertani \ % 'P % % ¿~ % Romolo Valli analizza se stesso UN ATTORE CRITICO Spesso si vanno a cercare i modelli all’interno dei quali poter inquadrare il lavoro e l’immagine degli attori. Quei modelli si rifanno, in generale, ai grandi trattati teorici sull’arte interpretativa. In questo secolo due grandi dire zioni hanno riassunto i principali atteggiamenti degli atto ri: da una parte l’ipotesi stanislavskiana, dall’altra quella brechtiana. Nel primo caso si va a privilegiare, del dato interpretativo, la partecipazione emotiva, l’identificazione col personaggio; nel secondo caso si mette in evidenza l’aspetto dimostrativo, la recitazione, cioè, come distanza critica dal personaggio (come tutti ricorderanno Brecht chia mava questo procedimento « straniamento »). In tempi pas sati, a riguardo dei due diversi atteggiamenti, è nata una vera e propria polemica che, giustamente, oggi tende a scomparire. Da una inchiesta che avevo compiuto tra il 1969 e il 1970 avevo riscontrato l’impossibilità da parte degli attori a riconoscersi totalmente in una teoria piut tosto che nell’altra. Si capiva che il metodo interpreta tivo mutava, caso per caso, a seconda delle circostanze, ed era impossibile definire esattamente un codice dell’arte attoriale. Gli attori che avevo preso in esame erano trenta e mi sembrava che rappresentassero abbastanza bene l’uni verso degli attori italiani. Ma Romolo Valli a quale categoria di attori apparte neva esattamente? Me lo ero chiesto più di una volta e, sinceramente, non riuscivo a dare una risposta precisa. Og gi capisco che la definizione che cercavo non esiste e proprio lui, Valli, me lo aveva chiarito. Nel suo lavoro erano evidenti tutte le implicazioni che esistevano tra modello interpretativo e atteggiamento storico-culturale. L’attore Valli riassumeva in sé un’esperienza molto più vasta, quella che veniva dalla partecipazione a diversi e complessi momenti della nostra scena. Mi chiedevo — e mi chiedo tutt’ora — quanto del lavoro compiuto a latere della scena (operazione teatrale e culturale) rifluiva nella elaborazione dei suoi personaggi. Forse è difficile stabi lirlo con precisione e nessuno lo può dire con esattezza. Certo, se non si tiene conto della pratica sociale del Valli manager e organizzatore, delle sue letture e del suo costante rapporto con la storia (non solo la storia del teatro e dello spettacolo), credo che non si possa capire a pieno il valore di certi risultati ottenuti sul palcoscenico. Nel suo lavoro di attore c’è una costante ricerca di motivazioni al personaggio che rappresenta, uno sforzo di renderlo sempre più chiaro, di offrirlo come oggetto di dibattito. Si tratta di un’operazione critica che non cono sce dei precisi confini e che ha tutto il senso di una pro posta aperta. Per questo il pubblico ama Valli, sente che è un attore che si mette a completa disposizione affinché si operi un dialogo che ha quasi sempre la forma della confidenza. Qualcuno ha notato che nessuno, meglio di Valli, incarna il tipo di attore borghese nella scena ita liana, di contro alla resistente figura del mattatore, del l’istrione che affonda le sue origini in una più lontana tradizione del nostro teatro. Questo è vero, senza dubbio, ma non è il solo dato caratterizzante. Se diamo uno sguar do al repertorio da lui interpretato non possiamo fare a meno di osservare l’attore che ha partecipato ad ope razioni di approfondimento e recupero della nostra drammaturgia, valga per tutti il caso della « riscoperta pirandelliana », compiuta insieme a De Lullo dagli anni sessanta in poi. E non è cosa da poco anche se, in fondo, non è stata oggetto da parte degli studiosi di una appro fondita analisi: solo di recente Alonge ha messo a fuoco i caratteri di grande novità nella messinscena del « Giuoco delle parti » compiuta appunto da De Lullo-Valli. Ricordo un colloquio avuto con Valli nel 1968, alla vigilia del debutto nell 'Amica delle mogli. In quell’occa sione l’attore mi parlava della dimensione europea di Pi- randello, di come l’autore siciliano non poteva essere rac chiuso in quella visione regionalistica (come vorrebbe an cora Sciascia) che, in qualche modo ne limita la portata e il significato. Parlammo del valore del rito nel teatro pirandelliano e di come fosse necessario, tramite una spe cie di lettura strutturale, mettere in evidenza la dinamica dei « doppi » e delle ambiguità, di contro ai modelli appa renti di una fabula naturalistica. Le sue osservazioni mi sembrarono molto acute e non credevo che avrebbero an ticipato tante riflessioni successive. Convinto iom’ero che l’attore fosse un « acculturizzato » e non un colto, mi stu pii un pò e pensai a come quella forma di alta coscienza critica avrebbe potuto tradursi nell’interpretazione scenica. « L 'A t t o r e d e v e e s s e r e c o lto » Oggi ho capito che Valli utilizza come metodo del suo lavoro attoriale anche il bagaglio raffinato della sua cono scenza; in questo memore non tanto, o non solo, del grande Diderot, ma soprattutto per la spinta di una naturale voca zione che lo porta a partecipare attivamente del sociale e del mondo della cultura. Dante Cappelletti .... Un incontro con Romolo Valli è sempre molto stimo lante perché in lui si coagulano molto felicemente le qua lità dell’attore e quelle dell’operatore culturale. La dispo nibilità alla conversazione e la sua affabilità sono i dati che dapprima colpiscono di più; poi si scopre che sono elementi relativi al suo modo di essere sempre curioso e desideroso di nuovi confronti: così nella vita come nel lavoro. Di Valli si conoscono tante cose perché è uno dei personaggi più presenti nei dibattiti sul nostro teatro, tut tavia ogni volta è una sorpresa parlare con lui: si ha l’impressione di scoprire una infinità di cose nuove. Ed è così. Ogni dato delle varie esperienze che viene facendo diventa il naturale presupposto alla eventuale mobilità del suo punto di vista, del suo atteggiamento, del suo orientamento. Perché Valli ama discutere e approfondire quanto, in un modo o nell’altro, ha voluto o dovuto af frontare. Nell’intervista che segue molti sono stati i temi affron tati: il senso dell’operazione teatrale (manageriale e cul turale), l’esperienza della direzione del teatro « Eliseo » di Roma, fino ai vasti temi che riguardano il problema dell’attore, il pubblico teatrale e gli Stabili. Per evitare che le annotazioni di Valli perdessero il loro efficace peso di riflessione critica, è sembrato spesso giusto, nella stesura dell’intervista, ridurre al minimo l’in tervento della domanda. Può giovare a rendere più precisi i momenti di una serie di interessanti e lucide osservazioni. Romolo Valli, Adriano ne « La Bugiarda » (1970) Comincerei dal Valli operatore teatrale. Mi pare che questa sia una dimensione che oggi appare parti colarmente percepibile, in realtà è una costante del tuo lavoro. Vuoi darne una motivazione, oppure ritieni che sia un fatto del tutto casuale, contingente, legato agli ultimi episodi del tuo lavoro? La mia attività di operatore teatrale accanto al lavoro di attore non è un fatto casuale. Anzi, credo che un atteggiamento del genere vada chiarito una vol ta per tutte. La componente operativa, nella direzione culturale e in quella manageriale, trae origine da una specie di attitudine « psicofisiologica » del mio carat tere. Una specie di mia perenne esistenziale insoddisfa zione mi porta a ritenere lo spazio delle tre ore di reci ta insufficiente ad affrontare un ventaglio di ambizioni e di domande che sono molto più ampie. Ma andia mo per ordine, guardando le cose nel lóro sviluppo naturale. La base di un atteggiamento, legato — come mi accade quasi sempre — alla necessità dell’inter vento socio-culturale, è affermata in maniera defini tiva dalla militanza politico-sociale delPimmediato do poguerra. Finito il periodo bellico, trascorso molto duramente in campi di lavoro tedeschi a cui fece se guito la fuga e la militanza-nella Resistenza, rientrai a Reggio nel ’45. Compii i miei quattro anni univer sitari a Parma e mi laureai in legge. Durante quel periodo si formò la mia precisa struttura di uomo e operatore culturale. Anche se la Giurisprudenza non mi interessava (era un omaggio alla volontà di mio padre), vivere a Reggio e a Parma in quei quattro anni aveva voluto dire il contatto continuo con un gruppo di intellettuali assolutamente prestigiosi, che si chiamavano Macrì, Sereni, Bertolucci, Bianchi, Bor- lenghi, Bo. Attilio Bertolucci ci faceva vedere i films e ci insegnava a leggere Proust, da Macrì imparavamo il verso di Garcia Lorca. Detto per inciso, il mio de butto vero non l’ho fatto in teatro ma nell’ambito di un ciclo di conferenze dello stesso Macrì che, tor nato dalla Spagna nel ’46, aveva ricostruito la morte di Garcia Lorca. In quella circostanza io leggevo sia in lingua catalana che italiana i versi del grande poeta spagnolo, girando per l’Emilia in una vera e propria tournée. Il mio vero maestro di dizione, perciò, è stato un letterato, e questo spiega perché la mia mili tanza teatrale sia stata legata più a uomini di lettera tura che di teatro. In una specie di rigogliosa ricerca di spazi cul turali e politici — che la gioventù allora disperata- mente cercava — ci inventavamo la vita, la democra zia e i valori sui quali poter contare. Ci riunivamo per assistere alla proiezione di films come La Coraz zata Potemkin e con i miei amici recitavamo in Pìc cola città di Thornton Wilder e Assassinio nella cat tedrale di Eliot. Parallelamente avevo cominciato a fa re il critico cinematografico in un giornale e teatrale in un altro. A ll’epoca del Fronte Popolare uscì un quotidiano che era molto importante, Il lavoro di Reg gio: ne divenni non solo un redattore, ma un po’ il factotum, infatti mi occupavo perfino della cronaca giudiziaria. La mia attività, comunque, non si doveva esaurire lì, se alcuni miei, amici tempo fa hanno stabi lito che dirigevo ben quattordici circoli culturali. Que sto era possibile anche perché possedevo — come tut tora posseggo — una disponibilità e autonomia po litica per qualsiasi voce democratica, senza che mi identificassi con alcun partito. Ho sempre sentito il privilegio dell’indipendenza intellettuale, naturalmen te su basi laiche e di totale apertura: questo mio at teggiamento è stato spesso criticato e oggetto di pole miche sia da destra che da sinistra, ma io ho sempre considerato un privilegio la mia indipendenza ideolo gica, come l’innato bisogno di qualsiasi dialogo. Così diressi il circolo Curiel, che era una emanazione del PCI senza privare della mia presenza l’OGI (Orga nizzazione Giovanile Italiana), che era di estrazione cattolica. Ero amico sia di Pippo Dossetti, oggi vesco vo e uomo straordinario, ma ero anche amico di Al berto Simonini del PSI o di Magnani del PCI. Ri tengo la mia posizione, fulcro di una naturale dispo nibilità a una costante dialettica e ad un confronto pluralistico senza prevenzioni. Questo è un punto fon damentale della mia vita: che ha caratterizzato non solo il periodo del dopoguerra, ma anche gli anni suc cessivi fino ad oggi. Sono convinto che una posizione libera, fuori da ogni schematismo ideologico, giovi al l’artista, all’intellettuale, a qualsiasi uomo di cultura; il vero impegno non sta negli « engagements » così tipici degli anni ’50, ma in quello che si ha verso se stessi: lo diceva anche Vittorini nella polemica del « piffero e la rivoluzione ». E nato, quindi, prima l’operatore culturale che il Valli attore. Senza dubbio. In quel periodo c’era, dentro di me, una specie di inquietudine, un desiderio di conoscen za e la necessità di chiarire a me stesso le scelte della mia vita. In quella ricerca partecipavo a quegli eventi che mi facevano vivere le cose che affrontavo in prima persona. Non era esibizionismo, ma necessità di tro vare la strada giusta, che ho trovato attraverso una serie di successive esclusioni. Partecipai a concorsi di poesia, di letteratura e mi interessavo di tutti quei fenomeni della cultura che, come ho detto, impone vano una precisa operazione di intervento. Mi sentivo più analitico che creativo, perché la mia formazione intellettuale era soprattutto il prodotto di vaste let ture saggistiche; non sono mai stato di temperamento dionisiaco e mi sono sempre risolto nella sfera apol linea, alessandrina, critica. Nella sfera emotiva ho sen tito sempre la limitazione a una mia necessità di tipo razionale: è un fatto che ho vissuto come dicotomia di base, e questo spiega perché ho sempre cercato uno sfogo nella attività manageriale e operativa. Cer tamente, dopo l’incontro con De Lullo, la mia ricerca si è orientata, forse in modo determinante, verso il modulo espressivo, ma è un discorso che ho maturato più tardi. Rimane il fatto che una sola strada mi è sempre sembrata insufficiente, quasi una limitazione di tante possibili conoscenze ed esperienze; come mi è sempre sembrato insufficiente e forse non totalmen te appagante il mestiere dell’attore nel modo in cui veniva inteso quando io cominciai a recitare. Questo spiega perché, in tante occasioni, ho parlato di ghet tizzazione del lavoro interpretativo: per tanto tempo, l’attore è stato circoscritto tra le vacuità del cerone, il camerino e lo specchio, prigioniero della propria ignoranza e dei propri feticci. Nel processo produt tivo della cultura ci sono stati, così, i « professori », i « direttori », i registi, mentre l’attore rimaneva ta gliato fuori. In me c’è stata una precisa volontà di rifiuto del ruolo attoriale puramente subordinato alle coscienze critiche di altri; già quando in Italia si era affermata e sviluppata la figura egemonica del regista (con tutte le necessità storiche che un fenomeno del genere portava con sé) sentivo il bisogno di essere presente e attivo alle scelte teatrali che potevo fare. Neanche a farlo apposta entrai a far parte di una compagnia come « Il Carrozzone » di Fantasio Pic coli, dove mi si chiedeva non solo di recitare, ma an che di montare le scene, attaccare i manifesti, vendere i biglietti o fare l’ufficio stampa: era un’esperienza che tendeva a mobilitare l’intero apparato emotivo e culturale di un uomo. Mi riferisco agli anni che vanno dal ’49 al ’52. Quando passai al Piccolo Tea tro di Milano, pur lavorando con persone di valore come Strehler e Grassi, sentii che tutta la mia ansia di presenza e di intervento si scontrava con le esi genze di guida e di organizzazione che mi sovrasta vano: mi sentii uno strumento sapientemente usato, una voce « adoperata ». Nel ’54, in perfetta coerenza con la mia volontà e con la « Compagnia dei giovani »: c’erano la Falle, la Guar- nieri, Buazzelli e poi l’Albani. Finalmente potei espli care la mia profonda vocazione di operatore culturale: nacquero quei lavori compiuti sui classici come Ce- chov, Shakespeare e quella che da tutti è stata defi- quella di De Lullo, formai nita la « riscoperta » pirandelliana. Direi che, da quel periodo in poi, il bisogno di un costante intervento nella nostra cultura teatrale ha contraddistinto tutte le tappe del mio lavoro. Lamberto Laudisi in « Cosi è (se vi pare) » (1972) Puoi parlarci di Spoleto e illustrarci il programma di quest’anno? Per quanto riguarda il Festival di Spoleto occorre superare tutta una serie di problemi molto delicati. Da un lato devo constatare che i sostegni economici che permettono la vita del Festival, ancora non sono garantiti e rischiano di giungere — se giungeranno — con un ritardo troppo pericoloso, forse fatale, fi pro gramma che era stato proposto mi sembrava bellissimo. Devo tacere, per il momento, sulla prosa. Per quanto riguarda la musica, invece, sono previste una serie di manifestazioni: « La Cenerentola » di Rossini, « Falstaff » di Verdi (l’opera lirica che dovrebbe inau gurare il Festival), la ripresa di « Cosi fan tutte » di Mozart, due operine scritte per i bambini da Menotti (« La bugia di Martino e « L ’uovo »), quattro Compa gnie di balletti tra cui il Balletto nazionale di Caracas, Murray Louise rivelazione del balletto americano, una « Maratona di danza » curata da Alberto Testa con la partecipazione di Elisabetta Terabust. Mi auguro soltanto che tutti gli sforzi che io, insieme ad altri, ho compiuto non vadano in fumo. Molti hanno desiderato di avere un proprio tea tro, di poter organizzare e gestire direttamente la scelta di un repertorio. Nel tuo caso sei giunto anche a questo-, dirigi l’« Eliseo » di Roma e, insieme ad un altro ristretto numero di collaboratori, puoi inter venire concretamente nel definire una fetta di politica culturale teatrale. Come sei giunto all'« Eliseo »? Qua le il primo bilancio? Cosa rispondi alla diffidenza di coloro che hanno mostrato di non credere ad una tua reale volontà di allargamento del pubblico? Insieme a De Lullo, siamo arrivati dopo 24 anni di sofferenza ad avere una casa e, dato un nostro estremo bisogno di autonomia, non avremmo potuto trovare un’adeguata possibilità di lavoro in un teatro Stabile. Un teatro a gestione privata può permettere di fare delle scelte anche più avanzate seppure, a vol te, rischiose. Io e De Lullo, per esempio, abbiamo avuto il coraggio di mettere in scena « Terra di nes suno » di Pinter: è un’esperienza che forse un teatro a gestione pubblica non avrebbe fatto. L’Eliseo, però, vuol dire anche che è nato un nucleo concreto intorno al quale poter lavorare: è un punto di riferimento e, se le cose andranno come io spero, potrà allargare l ’arco delle proprie attività. Quest’anno abbiamo avu to già molte soddisfazioni. Con i « Martedì dell’Eli- seo » abbiamo presentato, oltre una serata pirandel liana incentrata sull’« Enrico IV », concerti musicali come quelli con Leyla Gencer e Cathy Berberian. La risposta del pubblico è stata entusiasmante: moltis simi i giovani, e il successo ha superato le nostre previsioni. Avere un teatro tutto per sé, vuol dire anche cercare di avviare un nuovo rapporto col pub blico, non solo da un punto di vista culturale in senso stretto, ma anche da un punto di vista sociale e antropologico. Per esempio, stabilendo l’orario di inizio degli spettacoli alle 20,30, abbiamo tentato, riuscendovi in pieno, di cambiare le abitudini del pubblico romano: credo che sia più civile che la gente si ritiri a casa ad ore più opportune. Un’altra operazione importante è quella relativa al repertorio scelto: oltre all’« Enrico IV » e al « Valzer dei cani », il programma dell’Eliseo comprende una rilettura del- P« Antonio e Cleopatra » di Shakespeare con Alber- tazzi e la Proclemer e la regia di Guicciardini; la tri logia di uno degli autori italiani viventi più impor tanti, Testori, di cui saranno rappresentati l’« Amble- to », « Macbetto », « Edipuus ». Abbiamo compiuto un grosso tentativo di allargamento del pubblico tea trale, basti pensare che di 77 recite dell’« Enrico IV » ben 44 le abbiamo fatte a prezzi ridotti, e la grande affluenza di pubblico ci ha ricompensato di questi sforzi. Il Teatro Eliseo, comunque, rappresenta quella possibilità di un più articolato lavoro teatrale che io e De Lullo abbiamo sempre cercato nel corso di tanti anni. A volte ci hanno creduto degli aristocratici, nel le nostre scelte, ma tutto è dipeso da equivoci e da frettolose interpretazioni. Basterebbe leggere il sag gio di Alonge dedicato al « Giuoco delle parti » per rendersi conto che l’indirizzo di ricerca mio e di De Lullo, va avanti da molto tempo: è un lavoro sot tile, senza clamori avanguardistici, ma con il deside rio costante di metter a fuoco un preciso punto di vista. Il pubblico si accorge quando uno spettacolo non è superficiale, e risponde allora in modo molto positivo. Il successo di presenze a teatro, ottenuto a Roma, si è ripetuto nelle varie città d’Italia e questo ci fa credere che la nostra politica teatrale non sia sbagliata e tantomeno aristocratica. Che rapporto c’è tra il tuo lavoro di operatore teatrale, di manager — come qualcuno ha detto — e il lavoro di interpretazione drammatica? Personalmente credo che non ci sia nessun rap porto. In me è come se ci fossero due anime che convivono contemporaneamente: una è quella che cer ca di assecondare e rendere più vive possibili le im magini dei personaggi (in questa operazione ho sem pre bisogno del regista), l’altra anima è volta a un costante e generico bisogno di espressione. Se non avessi fatto l’attore avrei tentato qualsiasi altra cosa nell’area del sociale, dove avrei potuto incidere, con la mia personalità, offrendo segni visibili del mio la voro. Sento dentro di me una specie di missione, quasi un senso religioso della vita. Avrei potuto fare anche l’insegnante, occuparmi degli handicappati o stare con Basaglia e fare lo psicodramma: c’è in me una vocazione di tipo altruistico che in qualche modo deve avere un suo concreto riscontro. Qualcuno, tut tavia, trova che ho un temperamento « razionale », « operativo », che emerge dal modo in cui interpreto certi personaggi. Secondo questa ipotesi io rifletterei, nell’interpretazione scenica, quel rapporto critico che ho con la realtà sociale. Macrì dice che, a un certo punto, riesco a distaccarmi dal personaggio, tanto da offrirlo a un’analisi critica: opererei, cioè, una forma di « distanziazione » ragionata dove è possibile lascia re intatto il piano emotivo del personaggio stesso. Sa rebbe accaduto in particolare nell’Enrico IV, nel « Giuoco delle parti ». Il pubblico, in questo caso, avrebbe potuto cogliere non soltanto l’eredità emotiva o narrativa, ma anche il rapporto tra il personaggio rappresentato e il contesto di vita in cui ci stiamo muovendo. Questa ipotesi è abbastanza affascinante, non solo per il mio modo di essere attore, ma perché mi mostrerebbe un sottile legame tra la realtà di ope ratore teatrale e il mio essere attore. Secondo te l’attore può essere anche un uomo di cultura? Ho sempre pensato che l’attore debba essere un uomo ricco di emozioni e capace di saperle vivere. Non credo alla teoria di Copeau (« l’attore deve es sere anche un po’ imbecille »), credo invece a Jouvet e alla sua idea dell’attore « sensibile e consapevole ». La cultura ci aiuta ad essere più ricchi umanamente, è uno strumento che affina le nostre possibilità di conoscenza, è indispensabile se vogliamo sfidare i no stri bui e i nostri silenzi. In generale un attore che si rispetti non può non avere il problema della cono scenza. La ricchezza delle nostre esperienze aiuta le capacità critiche e rende più sottili i giudizi e le scelte che possiamo fare. Non credo che gli attori ignoran ti possano raggiungere dei grandi risultati solo in virtù del loro istinto. Personalmente, comunque, sono consapevole di portare nelle mie interpretazioni il ba gaglio della mia esperienza umana e culturale. Mi ren do conto che certi miei atteggiamenti cambiano sulla scena a seconda del grado di coscienza che ho di un problema. L’attore offre tanta più verità nel momen to in cui è in grado di saperne comprendere il valore e la portata. 50 che te lo chiedono sempre tutti, ma pochi co me te mettono a fuoco criticamente il problema del l’attore-. chi è l’attore, quindi, come si caratterizza il suo lavoro, il suo rapporto col pubblico? 51 possono dare tante definizioni del mestiere di attore. Credo, comunque, che il problema si debba inquadrare in un organico discorso metodologico ge nerale se vogliamo tratteggiare delle ipotesi teoriche, oppure legarlo al quadro delle singole esperienze. L’at tore è un mediatore, l’officiante un rito, è un agita tore, secondo le tendenze più moderne. A ll’attore si affida una precisa funzione di esecuzione e il suo ruolo è sempre ibrido ed equivoco, carico di momenti paracreativi anche misteriosi e poco definibili. La sua misura « artistica » sta nello strettissimo margine esi stente tra l’interpretazione (comprensione) della parte e la sua resa finale: in questo margine, che parte dallo studio per giungere allo spettatore, può risiedere una creatività a volte altissima. L ’attore porta nella sua in venzione una componente emotiva, irrazionale, dionisia- L'ultimo Pirandello: « Enrico IV » (1977) È esistita, nel tuo caso, quella che alcuni defini scono come « vocazione all’arte drammatica »? Io non posso parlare di vera e propria vocazione; la mia scelta di fare l’attore è avvenuta « à rebours », a ritroso. Sono giunto al teatro per successive rinunce, come dicevo anche prima, scoprendo progressivamente la mia strada. Quello che mi contraddistingue da sem pre è una specie di vocazione alla mimesi, che è in fondo il contrario della pura invenzione, della creati vità intesa nella sua accezione più profonda. ca; quello che è predominante, nella mia esperienza, è la componente critica. Brecht aveva esposto questo atteg giamento, ma rilevandone soprattutto il carattere estra niato. Nel mio caso si tratta di un’operazione diversa; una forma di « selezione » intellettuale che precede la verifica scenica e si identifica con gli interrogativi posti da quella forma di conoscenza. Quando, per esempio, ho affrontato il personaggio di Leone Gala ne « Il giuoco delle parti », mi sono reso conto quanto abbia giovato al risultato, la volontà chiara di rendere non tanto la credibilità psicologica e naturalistica di Gala, ma la verità che poteva premere a Pirandello. Sentivo, quin di, che mi stava a cuore illuminare il personaggio come se dovessi scrivere un saggio su di lui. È vero che le definizioni sull’attore sono infinite, ma in fin dei conti si finisce, se non si vuole concludere con una serie di citazioni dei grandi teorici, per trarre una regola dalla propria esperienza e dal confronto di questa con altre a noi contemporanee e passate. Molti mi hanno visto imparentato ai cosiddetti « attori di testa »: credo che sia abbastanza vero. Mi reputo un attore « freddo », « razionale », « critico ». Alcuni mi hanno definito « un professore in cattedra » che inse gna, per esempio, cos’è Pirandello. Ma il mio modo di recitare non rifugge, tuttavia, il dato emotivo che deve mettermi in contatto immediato con lo spettatore. Si sa che esistono delle teorie — fino a delle precise osservazioni di Breud — che pongono il recitare come una forma di transfert liberatore di nevrosi, e in questo c’è qualcosa di vero, come lo può dimostrare anche lo psicodramma con funzione terapeutica. Però tutto ciò non significa semplicemente che l’attore è un Giorgio De Lullo e Romolo Valli in « Terra di Nessuno » di Pinter (1976) nevrotico e si serve del recitare come di una specie di seduta psicanalitica: credo che il discorso per cui l’at tore sia un complessato che si libera attraverso la scena, debba considerarsi superato. Vuoi parlarci un momento del rapporto attore- personaggio, di questa dinamica così complessa e affa scinante? L’attore, a livello di alta interpretazione, è anche un coautore; è qualcuno che ha arricchito a tal punto il dato esistente da renderlo personale. In quel mar gine che sta tra la pagina studiata e il risultato che può percepire uno scrittore, è contenuto qualcosa di più ricco dell’emozione derivante dalla semplice lettu ra. In quel margine dove risiede il rivolo segreto della traducibilità di un fenomeno pensato in fenomeno ge stuale, visivo, prossemico, in quel margine appunto che delego alla creatività dell’attore, confluiscono di verse componenti indecifrabili, imponderabili, minime: punto compiuto solo nel giorno in cui si alza il sipa rio. E per la verità quella compiutezza è instabile, si evolve replica dopo replica e continuerebbe a svilup parsi, se si continuasse il lavoro di studio, anche dopo le rappresentazioni. Il memorabile Leone Gala de « Il Giuoco delle parti » (1977) lo stato d’animo di una serata, lo stato fisico e men tale, la disponibilità a cogliere il rapporto con la pla tea e afferrare e trasmettere certe molle emotive, che sono uniche e irripetibili. Tutto questo è di una labilità estrema e in questo spazio risiede la creatività del l’attore, il risultato del suo incontro con il personag gio. L’incontro dell’attore con la scena non avviene per strade folgoranti, dove l’attore è colpito improv visamente da coincidenze psicofisiche fra sé e il perso naggio: tutto avviene quasi « scientificamente », in discussione con i compagni di lavoro e con il regista. La prima volta che si configurò nella mia mente l’idea del padre de « I sei personaggi in cerca d’autore » avvenne una sintesi rapidissima di tutta quell’espe rienza umana privata che poteva rendermi facile l’ac quisizione di quella immagine. Ma era solo il primo momento, quello di un impatto ideale, dove si pote vano mescolare i dati dell’emotività e dell’esperienza razionale. Poi viene la lettura a tavolino, lunga e minu ziosa ma fondamentale: si revisiona la battuta nelle sue componenti strutturali, lessicali, formali. Attraver so la scomposizione graduale di un testo, attraverso sondaggi sempre più profondi si giunge a una specie di contatto quotidiano con i temi e i personaggi offerti da un testo. Questo permette di scoprire, per esem pio in Pirandello, che una battuta è il corrispettivo lessicale, a volte fonetico, di verità psicologiche conte nute nella natura stessa della scrittura. Il lavoro det tagliato, minuzioso, sulla battuta porta non solo a verificare fatti stilistici fondamentali, ma a trovare le componenti psicologiche, etiche, contenute nella neces sità che ha il personaggio di esprimersi attraverso un linguaggio che sia lo specchio preciso della sua natura. Ecco: da questo studio approfondito emerge l’impos sibilità di ignorare un inciso, la parola desueta e il modello di espressione che ci può apparire superato. Nell’operazione pirandelliana, compiuta insieme a De Lullo, abbiamo cercato di seguire sempre questo rigore metodologico. Nel « Giuoco delle parti » ci siamo ac corti subito che Pirandello affidava al modulo espres sivo di Silia la cifra della irrazionalità femminile; alla compostissima, ragionatissima prosa di Leone Gala tut ta la sofferenza del controllo della ragione sulla passio nalità. Questo avvicinamento al personaggio, in chiave di studio apparentemente grammaticale, ne diventa la prima strada per la sua costruzione (ma questa non è l’unica prassi per giungere a un personaggio, natural mente). Dopo un incontro rigorosamente critico col testo interviene l’operazione mimetica: occorre trovare un volto, per esempio, a Leone Gala e posso recupe rare un’immagine dei miei ricordi, delle mie espe rienze. Di ogni personaggio potrei svelare la chiave segreta che mi ha condotto a lui attraverso un com plesso gioco di specchi, e qui entra in campo la mia passione proustiana. Ma quando mi sono impadronito di una identità fisica — una capacità di dare al perso naggio una verità fisiologica e gestuale — nasce la parte più affascinante di questo « lavoro di posses so »: la fusione inconscia di quei dati che si unificano, attraverso sconosciute forme di sublimazione, in un velleità, quando non di vera e propria intimidazione culturale. In certi casi l’avanguardia ha provocato e creato una specie di pseudo aristocrazia intellettuale teatrale, che trova subito i propri « cantori » ufficiali nel quadro di un riscontro macroscopico ed eccessivo. Non ammettere che l’avanguardia teatrale ha avuto un’indubbia funzione sarebbe ridicolo: basta pensare allo scossone delle cantine, al momento della ricerca affannosa di un Nanni e di un Bene, a tutte quelle sincere manifestazioni di insofferenza a un certo rista gno della nostra scena. Ma al di là di questa necessità storica, da un po’ di tempo a questa parte, è nato un conformismo e un accademismo di un’avanguardia che è ormai decisamente « rétro ». La tragedia di questa gente, è di sentirsi dei geni incomprensi, eppure non fanno in tempo a mettersi in luce che sono già uffi cializzati da una cultura osannante. Perché qualche stu dioso si accorgesse, invece, della grande portata di una messa in scena come quella del « Giuoco delle parti » di De Lullo, ci sono voluti ben 35 successi: il saggio di Alonge è uscito in questi giorni. Credo che uno spettacolo come « Il malato immaginario » sia avan- guardistico come altri che hanno ottenuto gli osanna della critica: è una proposta di lettura molieriana in chiave psicanalitica che forse lascerà una traccia pre cisa sulle possibilità di lavoro nei testi del grande autore francese. E credo che l’avanguardia si possa fare anche con un « Enrico IV » o un « Così è se vi pare », spettacoli lontani dalla perliniana « Partenza dell’Argonauta », spettacoli che invece vogliono inse rirsi concretamente nella dinamica culturale e nella vita dell’uomo di oggi. « Victor, o i bambini al potere » di Vitrac (1969) In questi ultimi tempi si è assistito a quello che qualcuno (vedi anche De Monticelli) ha definito « il ritorno dell’attore ». Ritieni che questo fenomeno sia legato a un dilagante bisogno di spettacolo per lo spettacolo, oppure ci sono altre spiegazioni? La vicenda che quotidianamente vive la storia del nostro teatro occidentale è legata alla figura dell’attore. In Italia soltanto l’egemonia registica, avvenuta in tempi recenti, ha distrutto la presenza mattatoriale che regnava incontrastata. Ma il ridimensionamento del l’attore sulla scena è stato troppo violento e per troppi anni il peso della regia è stato schiacciante. Forse si deve creare una nuova dialettica tra regista e inter prete e questo spiega il proliferare di un atteggia mento di nuovo possesso scenico da parte dell’attore. Vedo con gioia e commozione l ’impegno di molti giovani che fanno tutto da soli, di Compagnie che mon tano gli spettacoli per conto proprio: felici sono quegli esempi che ci vengono da un Massimo De Francovich, dagli « Associati », da un Castri, che han no voluto far proprio un repertorio che sembrava es sere delegato a teatri a gestione pubblica, agli Stabili. Credo che sia in atto una certa sprovincializzazione del nostro teatro. Fenomeni, poi, come quelli di Proietti e Gassman ci indicano la rivolta che l’attore sta com piendo contro l’egemonia registica, la responsabilizza zione di un lavoro che intende dare nuovi e signifi cativi frutti. In altri Paesi il rapporto tra l’attore e la scena (e quindi il regista) è molto più equilibrato. Prendi l’Inghilterra: è impensabile che attori come Finney, Olivier, Redgrave, per anni potessero essere soltanto dei subordinati. L’attore « ritorna » per dare nna lavoro teatrale. fisionomia meno provinciale al nostro Da un’intervista rilasciata recentemente mi pare di aver capito che accusi l’avanguardia italiana — una certa avanguardia che comunque è la maggior parte — di faciloneria, di approssimazione, insomma di poco lavoro culturale. Ritieni che questo fenomeno sia stato favorito da una certa carenza di idee nel nostro teatro, oppure trovi che abbia altre motivazioni? Ho detto, a chi mi accusava di non capire e di non essere toccato dai messaggi della ricerca teatrale, che stimo e amo moltissimo Grotowski, ho sempre seguito Peter Brook, Bob Wilson e altri che reputo dei veri e propri geni del nostro teatro. Sono contro l’ap prossimazione e tutte quelle operazioni condotte con goliardia. Non riesco a capire il lavoro che compie Memé Periini come una certa avanguardia che gioca sulla facilità rappresentativa senza un preesistente la voro culturale. A suo tempo ho apprezzato moltis simo il « Pinocchio » e « Nostra Signora dei Turchi » di Bene, ho difeso Vasilicò, credo nella bontà delle realizzazioni di Sepe. Però mettiamo in chiaro una cosa: sono un uomo che crede troppo al dovere dello sforzo, della ricerca accanita e professionale per accet tare per buoni, risultati che sovente sono frutto di Molière « Il malato Immaginario » di Romolo Valli (1974) Ma è cambiato secondo te il pubblico teatrale? Certamente. La gente sta riscoprendo la misura collettiva; c’è quasi un ritorno ad una partecipazione concreta del sociale che non è stata possibile — anzi ha agito in senso contrario — attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Si riscopre il teatro come piccolo rito collettivo, come luogo di comunione e possibile rapporto interpersonale. Dappertutto, dove ho portato i miei spettacoli, Ja risposta del pubblico è stata entusiastica. Oggi nemmeno i classici luoghi de putati all’associazione del gruppo hanno più la loro funzione, dalle cellule di partito, alle sale da ballo. Il teatro permette un incontro umano più libero ed effi cace, sfrondato degli orpelli borghesi che lo appesanti vano, è diventato un luogo di verifica democratica, dove è più facile riconoscersi e capire i problemi che ci circondano. Sì, il pubblico è cambiato e in senso positivo. C’è una crescente partecipazione che dovrebbe incoraggiarci a lavorare sempre più e meglio. Teatro, quindi, come ricerca affabulatoria e magica, come ri scontro del personale nell’ideale, infine come ricerca di nuovi valori. Trovi che nel repertorio che tu hai affrontato ci sia una linea unitaria? Non l’ho mai cercata. Il dato di maggiore evidenza mi pare l’amore mio e di De Lullo per Pirandello: questo è come un filo sottile che scorre e lega dal ’63, cioè dai « Sei personaggi » fino all’« Enrico IV » del 78. In ogni caso non c’è mai stato un denominatore comune in quello che abbiamo fatto. Sarei un bugiardo se ti dicessi che le scelte di questi ultimi venti anni si coagulano in precisi diagrammi. L’unica costante di ricerca, ripeto, è quella pirandelliana. Come potresti sintetizzare i momenti caratteriz zanti il lavoro su Pirandello? È un’operazione che nasce da una fortunatissima serie di circostanze. La prima è che De Lullo ha una istintiva vocazione a rileggere i testi pirandelliani senza i diaframmi della commozione e senza i pirandellismi della tradizione: sente il mondo del grande autore sici liano non come un teorema, un filosofema o un so fisma, ma come angosciosità dei personaggi. È stata una grande scoperta che cominciò con i « Sei perso naggi », continuando con « Il giuoco delle parti » fino all’« Enrico IV ». Gli elementi che hanno caratteriz zato la nostra lettura di Pirandello stanno nella crudeltà tutt’altro che regionalistica e provinciale, nella forte componente antinaturalistica con cui è stato interpre tato il mondo dell’agrigentino, nel vedere questo grande autore non più in una veste regionale, ma in una dimensione molto più ampia, europea. L’ipotesi di un Pirandello europeo, visto nel quadro di una cultura che chiude i grandi temi ottocenteschi e apre tutti gli interrogativi che sono ancora in atto, ha portato a sprovincializzare una volta per tutte le direzioni in cui si muoveva il grande autore siciliano. C’è poi un altro discorso che riguarda la mia natura di interprete: i personaggi pirandelliani mi hanno dato la possibilità di una curiosa convivenza di emotività esacerbata, che rende i miei personaggi così strazianti, e di una luci dità razionale che mi permette di dissezionarli sotto gli occhi del pubblico offrendone le componenti strut turali. Nelle sue regie De Lullo non ha seguito la cifra formalistica quanto quella più strettamente interiore e di scavo nel profondo dei caratteri. In ogni caso la lettura critica che Alonge da un lato e Gardair dal l’altro hanno compiuto sulle nostre messinscene piran delliane, si presta a una serie di analisi formali per Con Rossella Falk in « Victor » (1969) qualche verso inedite e rivoluzionarie. L’impegno in terpretativo per Pirandello, si riaggancia anche ad un interesse verso la drammaturgia nazionale che, colle gato alla scelta di opere di Fabbri e Patroni Griffi, ha cercato di riempire un vuoto particolarmente evi dente. Nei testi dell’agrigentino ho sempre trovato mo tivi di attualità sconcertante, come nell’ultima espe rienza che abbiamo fatto: io recito « Enrico IV » met tendo in luce la parabola di un intellettuale straziato che ad un certo punto rifiuta il reale, perché il reale è terrificante, e perché il rifugio nel fantastico è uno dei grandi temi di questo momento. Che cosa pensi della crisi degli autori in Italia? La crisi è mondiale. In America non c’è più nes suno: Albee è finito, Miller non scrive più e Williams sembra non avere più niente da dire. In Inghilterra c’è rimasto Pinter. In Francia Anouilh non scrive e il panorama degli autori giovani è piuttosto sconfor tante. Certo, in Italia il fenomeno è endemico, antichis simo: c’è sempre stata una carenza drammaturgica do vuta a quel profondo distacco che si è verificato tra intellettuale e società. Oppure, come diceva Flaiano, l’Italia è « un Paese già troppo teatrale per esservi il teatro ». Quale operazione deve compiere oggi il teatro per dare un nuovo impulso alla vita scenica? Credo che bisognerà mettersi tutti al tavolo con buona attenzione e vedere che cosa succede nel Paese per ipotizzare un rilancio organico della vita scenica. Il tessuto teatrale italiano chiede una viva presenza del teatro e la conferma mi viene dal sempre più alto indice di frequenza del pubblico in tutte le città dove sono andato, sia al nord che al sud. Bisogna essere molto coscienti delle responsabilità sociali e civili che noi ab biamo, allora ogni nostro sforzo potrà contribuire a un progressivo e significativo rinnovamento della no stra scena. Che cosa pensi della politica degli stabili? È un problema grosso. Mi si rimprovera di aver detto che è in atto, nei confronti degli Stabili e delle Compagnie private, una politica di due pesi e di due misure. È abbastanza evidente che se io affermassi solo questo, come mi fa dire Ivo Chiesa in una recente intervista, direi una colossale sciocchezza. So benis simo che un teatro a gestione pubblica ha l’obbligo di essere, almeno potenzialmente e statutariamente, un servizio sociale come le Accademie o i Musei che lo Stato gestisce, si sa che tale amministrazione non può essere né remunerativa né speculativa. Ma io dico che ad eccezione del Piccolo Teatro e dello Stabile genovese, negli altri casi — Roma compresa — si attua una politica che nella migliore delle ipotesi pos siamo definire inorganica, completamente priva di mo tivazioni culturali e di scelte coerenti. I contributi mag giori devono essere dati a chi si impegna a fare un’ope razione seria di rilancio e propaganda teatrale. Il se condo argomento è questo: è giusta la discriminazione, la macroscopica diversità di interventi che ha creato uno storico steccato fra teatro a gestione pubblica e teatro a gestione privata, quasi a indicare nel primo la ricerca culturale e nel secondo la pura evasione? Chiesa rite nendomi il portabandiera del teatro a gestione privata dice che ho ragione di adontarmi. Questo è vero, mi adonto per un fatto preciso: il repertorio migliore, di ricerca, di avanzamento del gusto lo fanno le Compa gnie private, e quella del Teatro Eliseo da me diretta ne è un incontestabile esempio. Le campagne di propa ganda popolare credo di averle portate avanti con entusiasmo e coerenza, come e più degli Stabili. Allora perché esercitare un fiscalismo esoso sulle Compagnie private che sono un servizio pubblico più efficace della stragrande maggioranza dei teatri a gestione pub blica? Non parliamo poi della leggerezza con cui in certi Stabili si giunge a depennare una rappresenta zione, magari importante, senza che nessuno, né il Comune, né la Regione, né il Ministero intervengano con riduzione di finanziamenti. In questo senso io parlo di una politica ingiusta, che non intende favorire una concreta dialettica di proposte drammaturgiche che, privilegiando la gestione pubblica anche quando è povera di una reale propedeutica culturale, dimentica Valli nel « Giulio Cesare » di Shakespeare (1971) il grande sforzo di tanto teatro privato. 11 discorso è ampio, complesso: meriterebbe di essere trattato a par te, perché al di là delle polemiche esiste il problema della vita del nostro teatro, da valutare con maggiore consapevolezza e con crescente impegno. Perché non hai mai pensato di fare il regista? Quando affronto uno spettacolo non ho le coordi nate della sintesi; sono portato, per natura, ad un continuo processo di analisi. Sono il collaboratore idea le di un regista creativo, ecco perché il mio sodalizio con De Lullo dura da circa treni'anni. La mia esigenza di essere attivo sulla scena si esaurisce con grande compostezza ed equilibrio nella recitazione. La regìa che Giorgio De Lullo mi racconta, l’analizzo con lui molto serenamente, e nel momento in cui andiamo sul palcoscenico io divento il più umile dei gregari. Forse lavorando sempre con lo stesso regista sono giunto a un grado di intesa che mi appaga completamente. Cosa pensi della tua esperienza cinematografica? Si è detto che io avrei avuto dei rancori nei con fronti del cinema. Non è vero. Del resto anche nelle interpretazioni che ho fatto da non protagonista sono stato giudicato molto positivamente e ho vinto due Grolle e tre Nastri d’argento. Certo in altri Paesi forse il cinema mi avrebbe tenuto in diversa conside razione, ma in quei Paesi non c’è la separazione tra attore di cinema e di teatro come c’è in Italia. I nostri produttori difficilmente riescono a trovare un ruolo giusto per un attore cinquantenne: non farebbe cas setta e non servirebbe ai bisogni di un cinema dige stivo. Da tanto tempo desidero interpretare la figura di Fadigati de « Gli occhiali d’oro » di Bassani: non sono mai riuscito a trovare nessuno disposto a farmi sostenere un ruolo come quello. Per questo, a volte, sento nei confronti del cinema una certa amarezza e un pizzico di delusione. Hai mai pensato di mettere su una scuola per l’attore? È molto triste dover osservare che non c’è più un punto di riferimento per i giovani che amano il teatro. Io ne soffro molto. Ci si è dimenticati che dall’Accademia — contestata, vituperata — sono usciti i nostri più grandi attori, da Stoppa alla Magnani, da Costa a Giannini, da De Lullo alla Falk, da Buazzelli a Gassman. Di quello che era l’Accademia sono rimaste le briciole e bisogna che questo problema venga ria perto. Invito tutti coloro che sono interessati vera mente al futuro del nostro teatro a incontrarsi e discu tere un piano per la rinascita di una seria Scuola per l’attore. C’è da cominciare tutto da capo. Per quanto mi riguarda, vorrei negli anni futuri che dall’Eliseo partisse una scuola di avviamento professionale alle arti dello spettacolo, dove si possano formare tecnici e maestranze. Vorrei che tutto un genere meraviglioso di artigianato legato alla vita scenica non scomparisse, per questo penso all’organizzazione di un laboratorio che sia collegato alla nascita e crescita degli spettacoli. In ogni caso la riattivazione di una Scuola d’Arte Drammatica è un obbiettivo che si devono porre gli attori più coscienti e più sensibili operatori teatrali e culturali. Ora ti vorrei fare una serie di domande più perso nali. Quali sono le cose o i fatti che ti hanno più deluso? L’idea che sia andata perduta l’eredità che ci po teva aver lasciato il ’68. Coloro che sono venuti dopo disprezzano quel momento e sostengono che non ha generato nulla: sono i filosofi della P 38, dell’ucci sione e dell’aggressione. Io sono nato laico, democra tico, liberale: non posso dimenticare quello che ha voluto dire il ’68; di quel momento io sento ancora la ventata di intimo cambiamento, i vari moduli di rifles sione che ha portato in me. Una delusione atroce, co munque, me la dà costantemente il disimpegno che c’è nel nostro Paese nei confronti della cultura. Sento che sono stati traditi anche gli ideali della Resistenza... Delusioni personali non ne ho avute molte: sono un uomo fortunato, continuo a dirlo fino alla nausea e non mi credono. Nel ’54 ho creato una Compagnia da cui è nata una delle esperienze umane e professionali che ha segnato felicémente la mia vita. Di che cosa hai più paura? Diventare un attore « routinier ». Non ho mai voluto esserlo e grazie al cielo ci sono riuscito. Ho anche paura della perdita della libertà che considero un bene pari a quello della salute. Mi spaventa perdere la salute, non tanto per me quanto per il dolore che potrei arrecare alle persone che amo. Quali sono, invece, le cose che ti fanno più piacere? Non sarà una risposta originale. Mi fa piacere, in maniera anche esagerata, che un’idea difficile che ser peggiava nella coscienza durante l’allestimento di uno spettacolo, giunga a segno. C’è una battuta dell’« En rico IV » che dice: « Conviene a tutti, capisci? Con viene a tutti far credere pazzi certuni, per aver la scusa di tenerli chiusi ». Una sera, recitando questo passo pirandelliano, sentii dalla sala gridare un ragaz zo: « Viva Sacharov! ». In quel momento capii che la mia interpretazione aveva toccato la profonda realtà del collettivo. Ecco: allora si prova una gioia immensa. Quali sono i tuoi amici preferiti? Quelli con cui lavoro da sempre. Ma ci sono altri amici, che non sono legati alla vita quotidiana del tea tro: sono uomini che mi hanno insegnato moltissimo nella mia vita: Attilio Bertolucci, Oreste Macrì, Pietro Citati, Mario Soldati. Le tue letture preferite? È quasi sciocco ripeterlo: Proust. Come passi il tuo tempo libero? Non ho tempo libero, se per caso riesco ad averlo vado al cinema o corro a teatro. Sento però moltissimo la mancanza di tempo per la costante necessità che ho di leggere. Che cosa ritieni più triste nella vita? La morte e il dolore della persona che amo. Inoltre mi dà grande pena il dover assistere a delle evidenti ingiustizie. Quali sono i tuoi rimpianti? Tanti. Ho l’impressione di non vivere mai total mente la vita con la coscienza esatta che è una gior nata irripetibile. E quali sono le cose per te indimenticabili? Il giorno in cui ho attraversato il ponte e, sfug gendo ai tedeschi, sono entrato nel territorio libero. Il giorno in cui sono andato a casa mia a trovare mia ma dre e i mie due fratelli che erano stati prigionieri dei tedeschi. E poi la prova generale e la prima recita del « Diario di Anna Frank »... Tanti ricordi legati al tea tro, ne ho tanti di questi ricordi. a cura di Dante Cappelletti CHI E’, COSA HA FATTO Romolo Valli è nato a Reggio Emilia, il 7 febbraio del 1925. La sua è una famiglia della buona borghesia: il padre fa l’ingegnere e, insieme ad un certo benessere, offre ai figli (sono tre fratelli) una buona educazione. Dappri ma Romolo viene avviato al canto, e con un certo succes so, poi abbandona questo tipo di studio e si dedica sem plicemente all’impegno scolastico. Appena finito il liceo classico nella città natale, si iscrive all’Università di Par ma, seguendo il corso di Giurisprudenza. Si laurea, ma senza pensare con eccessivo entusiasmo alla pratica di av vocato. Di quegli anni è invece il maturarsi di un ampio ventaglio di interessi che, per il momento, trovano il loro punto di riferimento nella letteratura. Del resto il clima che si respirava a Reggio e nella vicina Parma era ricco di stimoli, in quell’area agivano grossi intellettuali che Val li conobbe e con cui fu a diretto contatto. Così per il gio vane quello fu il momento di un’attiva militanza nel cam po politico e in quello culturale; tra l’altro comincia an che a collaborare a giornali e riviste in qualità di critico teatrale e cinematografico. In particolare si ricorda l’in tensa attività di intervento nel giornale « Il lavoro di Reg gio ». Contemporaneamente recita per la prima volta: spin to da alcuni amici e compagni di scuola fa la sua prima esperienza di attore in una commedia allestita da studenti, La famiglia dell’antiquario di Goldoni. Il 1949 è per Valli l’anno in cui prende concretamente la decisione di dedi carsi al teatro: segue II Carrozzone, la Compagnia dello Stabile di Bolzano diretta da Fantasio Piccoli. In quella estate II Carrozzone, che era costituito su modello della famosa Barraca di Garcia Lorca, girava l’Italia su un ca mion e aveva in cartellone un repertorio vastissimo che andava dai classici agli autori di avanguardia. L’esperienza con Fantasio Piccoli durò tre lunghi anni. In questo pe riodo Valli venne a contatto con una realtà teatrale molto eterogenea e affrontò, insieme agli altri attori della Com pagnia, tutte le esperienze legate alla vita scenica, da quelle puramente interpretative a quelle manuali (erano gli stessi attori che provvedevano a tutto, dalla pubblicità al mon taggio delle scene). Il repertorio del Carrozzone era molto vario e andava da La dodicesima notte di Shakespeare al Miles gloriosus di Plauto, fino al cechoviano Zio "Vania e II ballo dei ladri di Anouilh. Nel 1952 Valli è scritturato dal Piccolo Teatro di Mi lano e, dietro la direzione di Giorgio Strehler, interpreta spettacoli come II revisore di Gogol, Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, La vedova scaltra di Gol- doni, La folle di Chaillot di Giraudoux, La moglie ideale di Praga. In questo periodo ottiene i primi importanti riconoscimenti da parte della critica che lo giudica tra gli attori più promettenti e preparati del momento. Nella estate del 1954 Valli compie la sua prima tournée al- il sottile l’estero: va in Sudamerica dove recita con successo ne La patente di Pirandello e in L’oro matto di Giovaninetti. Nell’autunno sempre del 1954, con Rossella Falk, Anna Maria Guarnieri, Elsa Albani, Giorgio De Lullo e Tino Buazzelli (che figurerà nella « Ditta » solo per il primo anno; la Guarnieri fino al 1963), fonda la « Compagnia dei Giovani », uno dei complessi teatrali più affiatati e duraturi della nostra scena nel dopoguerra. Dei « Giova ni » Valli è il direttore artistico insieme a De Lullo; è una esperienza che si svolge per 17 anni ed è segnata da spettacoli memorabili come quelli pirandelliani. Il soda lizio con Giorgio De Lullo, comunque, durerà anche dopo lo scioglimento della « Compagnia dei Giovani », avvenuto nel 1970. Nei 17 anni di lavoro in quel prestigioso gruppo Valli, sotto la regia di De Lullo, raggiunge la sua matura e splendida dimensione di attore. Tra le sue più signi ficative interpretazioni vanno ricordate il Malvolio della Dodicesima notte di Shakespeare, tratteggio della figura di Otto Frank nel Diario di Anna Frank di Goodrich e Hackett, la sofferta immagine del Padre nei Sei personaggi in cerca d’autore, lo schizzo sottil mente ambiguo e pieno delle più inquietanti sfumature del personaggio di Leone Gala nel Giuoco delle parti (il secondo Pirandello, dopo i Sei personaggi...). Questo tanto per restare nel quadro del lavoro con I Giovani. Quando nel ’70 nacque la Compagnia Associata (Morelli-Stoppa- De Lullo-Falk-Valli-Albani) Valli interpretò la parte di Adriano nella terza edizione de La Bugiarda di Diego Fab bri; successivamente torna ad essere uno splendido Lam berto Laudisi nella nuova edizione (del 1972) di Così è (se vi pare) di Pirandello. Valli, riconosciuto come uno dei maggiori attori italiani, viene più volte premiato: due San Genesio, tre Nettuno d’oro, L’Olimpo d’oro a Taor mina (riconoscimento, questo, riservato a pochi personaggi di grande prestigio quali, Olivier, Barrault, Julien Beck, Gassman). Nel cinema l’attività di Valli è abbastanza rilevante; tra l’altro ha lavorato con registi noti e della portata di Soldati, Monicelli, Losey, Visconti, De Sica, Lattuada, tan to per citarne alcuni. Lo ricordiamo anche in Novecento di Bertolucci, ma la presenza di Valli sullo schermo non è mai generica o di semplice « corredo ». Dal 1972 è direttore artistico del Festival di Spoleto e dallo scorso anno — insieme a De Lullo, Patroni Griffi e altri — partecipa attivamente alla gestione del « Teatro Eliseo di Roma », nella sua nuova fase di rilancio. In tanto, dalla stagione 1977-78 è nata anche la « Compa gnia del Teatro Eliseo » di cui Valli, insieme a De Lullo, è direttore: questo fatto segna una tappa importante nella attività dell’attore, perché accanto all’impegno capocomi cale vi è quello relativo al piano della nuova vita di uno dei più prestigiosi teatri romani. D. C. Romolo Valli ATTORE Teatro: Comp. « Il Carrozzone » (Teatro Stabile di Bolzano) da luglio 1949 a maggio 1952: « La dodicesima notte » di Shakespeare, « Miles Gloriosus » di Plauto, « La leggenda di Liliom » di Molnar, « Albertina » di Bompiani, « L’ora della fantasia » di Bonacci, « Zio Vania » di Ce- chov, « Medea » di Euripide, « Le furberie di Scapino » di Molière, « Noi moriamo sotto la pioggia » di Biagi, « Il ballo dei ladri » di Anouilh; Comp, Piccolo Teatro di Milano (regia di G. Strehler) dal 1952 al 1954: 1952: « Elisabetta d’Inghilterra » di Biichner, « Il revisore » di Gogol; 1953: « L’ingranaggio » di Sartre, « Sacrilegio massimo » di Stefano Pirandello Landi, « Sei personaggi in cerca d’autore » di Luigi Pi- randello, « Elettra » di Sofocle, « Lulù » di Bertolazzi, « Un caso clinico » di Buzzati, « La vedova scaltra » di Goldoni, « Giulio Cesare » di Shakespeare, « La sei giorni » di D’Er- rico; 1954: « L’imbecille » di Pirandello, « La giara » di Pirandello, « La folle di Chaillot » di Giraudoux, « La mascherata » di Moravia, « La moglie ideale » di Praga; 1954: « La patente » di Pirandello, « L’oro matto » di Giovar.inetti; Comp, dei Giovani (De Lullo, Falle, Valli, Albani con Buazzelli per un anno e la Guarnieri fino al 1963) dal 1954 al 1970: « Lorenzaccio » di De Musset (reg. Squar- zina 1954-55), « Una donna dal cuore troppo piccolo » di F. Crommelynk (reg. M. Ferrerò 1954-55) (1955-56), « Spi ritismo nell’antica casa » di U. Betti (reg. Ferrerò 1954- 55), « Gigi » di Colette e Anita Loos, (reg. De Lullo 1954-55 e 1955-56), « La calunnia » di Hellmann (reg. De Lullo 1955-56), « Lo stratagemma dei bellimbusti » di G. Farquhar (reg. G. Bandini 1955-56), « La bugiarda » di D. Fabbri (reg. De Lullo 1955-56, 1956-57 prima edizione e 1963-64 seconda edizione), « Il successo » di A. Testoni (reg. De Lullo 1955-56, 1956-57), « ...e vissero felici e contenti» di Biagi e Fusco (reg. De Lullo 1956-57), « Il diario di Anna Frank » di F. Goodrich e A. Hackett (reg. De Lullo 1956-57, 1957-58, 1959-60), « La fiaccola sotto il moggio » di G. D’Annunzio (reg. De Lullo 1957-58), « Gl’innamorati » di C. Goldoni (reg. M. Ferrerò 1957 - in America Latina), « Lazzaro » di L. Pirandello (reg. Ro molo Valli 1957 in America Latina), « Buon viaggio Paolo » di G. Cataldo (reg. De Lullo 1957 in America Latina), « D’amore si muore » di G. Patroni Griffi (reg. De Lullo 1958-59), « Il buio in cima alle scale » di W. In- ge (reg. De Lullo 1958-59), « Sesso debole » di E. Bourdet (reg. De Lullo 1959-60), « Le Morbinose » ovvero « Le don ne di buonumore » di C. Goldoni (reg. De Lullo 1960-61), « Il carteggio Aspern » di M. Readgreave (reg. De Lullo 1960-61), « La notte dell’Epifania » di W. Shakespeare (reg. De Lullo 1961-62), « Un ostaggio » di B. Behan (reg. De Lullo 1961-62), « Sei personaggi in cerca d’au tore » di L. Pirandello (reg. De Lullo 1963-64, 1964-65 e 1965- 66), « Il confidente » di D. Fabbri (reg. De Lullo 1964-65), « Tre sorelle » di A. Cechov (reg. De Lullo 1964-65 e 1965-66), « Il giuoco delle parti » di L. Piran dello (reg. De Lullo 1965-66 e 1966-67), «La calandria» di B. Dovizi da Bibbiena (reg. De Lullo 1966-67), « Met ti, una sera a cena » di G. Patroni Griffi (reg. De Lullo 1966- 67 e 1967-68), « Egmont » di W. Goethe, musiche di L. Van Beethoven (reg. L. Visconti 1967-68), « Plaza suite » di M. Simon (reg. E. Bruzzo 1968-69), « L’amica delle mogli » di L. Pirandello (reg. De Lullo 1968-69), « Victor ovvero i bambini al potere » di R. Vitrac (reg. De Lullo 1969-70), « Giulio Cesare » di W. Shakespea re (reg. De Lullo 1971). Compagnia Associata (Morelli, Stoppa, De Lullo, Falk, Albani, Valli): « La bugiarda » di D. Fabbri (reg. De Lullo; terza edizione 1971-72), « Così è (se vi pare) » di L. Pirandello (reg. De Lullo 1972), « Stasera Feydeau » (reg. De Lullo 1973). Compagnia « Romolo Valli »: « Il malato, immagina rio » di Molière (reg. De Lullo 1974). « Tutto per bene » di L. Pirandello (reg. De Lullo 1975), « Terra di nessuno » di H. Pinter (reg. De Lullo 1976), « Il giuoco delle parti » di L. Pirandello (reg. De Lullo 1977). Compagnia del « Teatro Eliseo »: « Enrico IV » di L. Pirandello (reg. De Lullo 1977-78), « Valzer dei cani » di L. Andreev (regia di Patroni Griffi 1978). Cinema: 1958: «Policarpo, ufficiale di scrittura»; 1959: « La grande guerra ; 1959: « Vento del sud »; 1960: « Jovanka e le altre»; « I piaceri del sabato not te»; « Il carro armato dell’8 settembre»; 1961: «La ra gazza con la valigia »; « La viaccia »; « Un giorno da leoni»; 1962: «Boccaccio 70» (episodio: Il lavoro); 1963: «Una storia milanese»; «Io la conoscevo bene»; « Il Gattopardo »; « Confetti al pepe »; 1964: « I fuori legge del matrimonio»; «La visita della signora»; 1965: « I complessi »; « Come imparai ad amare le donne »; «La mandragola»; 1967: «Non stuzzicare la zanzara»; « La scogliera dei desideri »; 1969: « Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare »; « Il giardino dei Finzi Con tini »; 1970: «Morte a Venezia»; 1971: « Er più»; « Giù la testa »; « Paolina 1880 »; 1972: « Che? »; 1974: « Gruppo di famiglia in un interno »; 1976: « Novecen to »; «Un attimo, una vita»; 1977: «Un borghese pic colo piccolo »; « Holocaust 2000 ». Televisione: «Fan fan bar» di Lecocq (1953); «Il piacere dell’onestà» di L. Pirandello (1954 regia Enri quez); « Dialoghi con gli italiani » di V. Sabel (8 puntate 1959-60); «Le Morbillose » di Goldoni (1961, reg. De Lullo); « Una burla riuscita » di T. Kezich, da un raccon to di I. Svevo (1962, reg. Fenoglio); «La notte dell’Epi fania» di W. Shakespeare (1962, reg. De Lullo); «La fiaccola sotto il moggio» di G. D’Annunzio (1963, reg. De Lullo); « Il successo» di A. Testoni (1963, reg. De Lullo); « La fiera delle vanità » di W.M. Thackeray (1967, reg. Majano); «L’amica delle mogli» di L. Piran dello (1970, reg. De Lullo); « Il giuoco delle parti» di L. Pirandello (1970, reg. De Lullo); «Sei personaggi in cerca d’autore» di L. Pirandello (1970, reg. De Lullo); « C’era una volta ieri » a cura di V. Ottolenghi (presen tatore di una serie a puntate, 1970); « Sulla scena della vita» (puntata dedicata a Proust, 1971); «Così è (se vi pare) di L. Pirandello (reg. De Lullo, 1975Ì. Premi: Teatro: San Genesio nel 1957 e nel 1966 ri spettivamente per « Il diario di Anna Frank » e « Il giuo co delle parti »; Nettuno d’oro (Festival della prosa di Bologna) nel 1960, 1962 e 1964 rispettivamente per « Ses so debole » « Un ostaggio » e « Sei personaggi in cerca d’autore »; Premio IDI Saint Vincent nel 1965 per « Il confidente »; Premio Olimpo d’oro nel 1966 a Taormina per « Il giuoco delle parti »; Maschera d’Argento per il Teatro nel 1969 alla « Compagnia dei Giovani ». Cinema: Noce d’oro nel 1959 e nel 1960 rispettiva mente per « Policarpo, ufficiale di scrittura » e per « La grande guerra »; Premio de « La Fiera del Cinema » nel 1961 per « Un giorno da leoni »; Nastro d’Argento nel 1963 e 1969 rispettivamente per « Una storia milanese » e « Il giardino dei Finzi Contini »; Grolla d’oro 1963 per « Il Gattopardo »; Nastro d’Argento nel 1977 per « Un borghese piccolo piccolo ». ROMOLO VALLI RISPONDE AL « QUESTIONAIRE-PROUST » Qual’è per lei il colmo della miseria? Dove le piacerebbe vivere? Il suo ideale di felicità terrestre? Per quali sbagli lei nutre più indulgenza? Quali sono gli eroi romanzeschi che lei preferisce? Qual’è il personaggio storico preferito? Le sue eroine preferite nella vita reale? Le sue eroine nella finzione? Il suo pittore preferito? Il suo musicista preferito? Le qualità che preferisce nell’uomo? La qualità che preferisce nella donna? La sua occupazione preferita? Chi le sarebbe piaciuto essere? La sua virtù preferita? Il tratto principale del mio carattere? Cosa apprezzo di più nei miei amici? Il mio difetto principale? Il mio sogno di felicità? Quale sarebbe la mia più grande disgrazia? Cosa vorrei essere? II. colore che preferisco? Il fiore che amo? L’uccello che preferisco? I miei autori preferiti in prosa? I miei poeti preferiti? I miei eroi nella vita reale? Le mie eroine nelle storie? I miei nomi preferiti? Che cosa detesto più di tutto? Essere fuori dal cerchio protettivo della tenerezza di chi ci vuol bene. Alla corte di Luigi XIV. Vivere in una società di amici civili e rispettosi delle libertà degli altri. Per quelli del cuore. Per ambiguità e malinconia, Swann. Socrate. Non ci sono. Ne avevo una, Maria Callas. Anna Karenina. Goya. Non c’è dubbio. Mozart. Indubbiamente: la generosità e la dolcezza. L’umorismo. Il teatro. Socrate o Saint Simon. Quella che non ho: la temperanza. La generosità. La lealtà. Un misto di orgoglio e di gola. Continuare nella maturità alcuni inestinguibili aneliti della giovinezza. Esser solo. Quello che sono. Il blu. La gardenia. I passerotti grassi delle mie campagne emiliane. Senza dubbio: Proust e Saint Simon. Penna, Rimbaud. Papa Giovanni. Andromaca e, soprattutto, Antigone. Maria, Odette, Gilbert, Matilde, Marcel, Roberto, Giorgio. La presunzione degli imbecilli. I caratteri storici che più disprezzo? L’azione militare che più ammiro? La riforma che più ammiro? Il dono che vorrei ricevere dalla natura? Come mi piacerebbe morire? L’attuale stato del mio spirito? Il mio motto? « Stasera Feydeau » £1973) Quelli che hanno contraddistinto il fascismo: l’autarchia, la pseudo-autonomia culturale, la prosopopea, il maschi lismo, la stupidità, l’idea orgogliosa di essere il popolo destinato, il provincialismo politico-culturale. Nessuna. I diritti dell’uomo. La salute. Lasciando intorno a me un piccolo alone di rimpianto e di gratitudine. Sereno e combattivo. Rien par force, tant par amour. Il servizio fotografico è di Tommaso Le Pera LA PROSA IN TELEVISIONE Rete Uno TV di Bruno Rasia. « Yerma » - di Federico Garcia Lorca - regia di Marco Ferreri. « Il Gabbiano » di Anton Cechov - regia di Marco Bellocchio. « Teatro povero » di Monticchiello di Mario Guidotti - ripresa ■■ Quattro drammi gotici » - regia di Giorgio Bandini. « Pluto » - di Aristofane - regia di Lino Procacci. « Il vizio assurdo » di Diego Fabbri e Davide Lajolo - regia « Salomè » di Oscar Wilde - regia di Marco Gagliardo. « Non si sa come » di Luigi Pirandello - regia di Arnaldo Ninchi. « Il pellicano » di August Strindberg - regia di Orazio Costa. « La casta fanciulla di Cheapside » di Middlton - regia di di Giancarlo Sbragia. Ugo Gregoretti. Rete Due Le trasmissioni televisive di prosa della Rete 2, suddivise in due cicli, uno di primavera (marzo-maggio), l’altro autunnale (settembre-novembre), tìominceranno a partire dal 24 marzo e prevedono la messa in onda di nove-dieci opere per ciclo. di S. Sequi. Buazzelli - regia televisiva di G. Colli. melo Bene. Il calendario della programmazione di primavera è il seguente: « Il giardino dei ciliegi » di A. Cechov - regia di G. Strehler. « I due gemelli veneziani » di C. Goldoni - regia di L. Squarzina. « Riccardo II » di W. Shakespeare - regia di Maurizio Scaparro. « La Mandragola » di N. Machiavelli - regia di R. Guicciardini. « Una donna uccisa con la dolcezza » di T. Heywood - regia « Il revisore» di N. Gogol - regia di Wladimir Petrov. « Misura per misura » di Shakespeare - regia di L. Squarzina. « Il borghese gentiluomo » di Molière - regia teatrale di Tino « Amleto » di Carmelo Bene da Shakespeare - regia di Car « A piacer vostro » di W. Shakespeare - regia di A. Calenda. Il calendario della programmazione autunnale è il seguente: ■■ La conversazione continuamente interrotta » di E. Flaiano - « Il mandato » di R. Erdman . regia di Marcucci. « La Torre » di H. von Hofmannsthal - regia di L. Ronconi. « La Foresta » di N. Ostrowski - regia di L. Squarzina. « Re Lear » di W. Shakespeare - regia di G. Strehler. Saranno anche trasmesse quattro commedie nel ciclo « Aspetti « Delitto all'isola delle capre » di Ugo Betti. « La governante » di Vitaliano Brancate « Giuditta » di Carlo Terron. « In memoria di una signora amica» di Giuseppe Patroni Griffi. del Teatro Italiano del dopoguerra »: regia di Luciano Salce. Laura Betti ne « Il Gabbiano », film diretto per la Rete 1 da Marco Bellocchio ✓o \ <£• V <5>o. 1 IL COMMEDIONE DI GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI, POETA E IMPIEGATO PONTIFICIO. di Diego Fabbri. Regia di Giancarlo Sbragia. Interpreti: Giancarlo Sbragia, Valentina Fortunato, Paola Mannoni, Paolo Giuranna, Mattia Sbragia, Laura Fo, Paolo Lombardi, Luigi Carani, Ettore Toscano. Scene e costumi di Emanuele Luzzati. Produzione ATER - Associati. Senza Carlo Porta e senza Giuseppe Gioacchino Belli, non leggeremmo oggi la poesia in dialetto con tutta la consapevolezza critica necessaria, non a caso, poi, essi, a breve distanza l’uno dall'altro, svuotano l’accademismo e si uniscono al Manzoni, in una particolarissima triade, che diversamente ma fermamente guarda agli umili, li innal za a protagonisti, ne mostra la sventura. Voltano insieme un capitolo della nostra letteratura. Dei due grandi poeti dialettali citati, il milanese fu il più fortunato, che i concittadini, per dire, gli vollero alzare subito un monumento. Diversa la sorte del Belli, che patì una specie di volontario « samizdat », per quanto concerne la sua produzione in romanesco, che è poi quella memo rabile. E se questi 32 mila versi raccolti in 2 mila 729 so netti vennero alla luce, e malamente, solo dopo la «ua morte, la sua fortuna ritardò ancora, dato che la rivaluta zione è cominciata dopo il 1940, con Silvio D'Amico e Giorgio Vigoìo, cui seguirono Moravia, Praz e Trompeo, per finire con Carlo Muscetta, prefatore alla raccolta fel- trinelliana di tutti i sonetti in romanesco. Ora siamo nella condizione di valutare a fondo il suo mondo poetico; ma di non minore interesse è l'esplorazione della sua vita e delle connessioni tra essa e l'opera e i tempi. La figura del Belli ci appare folta di contraddizioni ed estremamente moderna. È la figura dell'impiegato pontificio che fa ogget to della sua invettiva interminabile coloro che gli danno lavoro; del liberale che si fece conservatore; dell'uomo in cui « un sentimento religioso profondo è sempre coesi stito con le più audaci e sarcastiche irrisioni alla mitolo gia cristiana » (Muscetta) e che questo odio-amore per la Chiesa, questa passione anticlericale, riversò in una se greta attività creatrice, condotto con eroismo di artista in contrapposizione con la sua pavidità d'uomo, sin quando, al concludersi dell'esistenza, volle rifiutarla, quell’opera in cui egli si era esaurientemente verificato, consegnando all'antico mons. Tizzani tutti i fogli dei sonetti, affinché venissero bruciati. Quasi li volesse esorcizzare, ma com portandosi senza « qualità ». Il Belli ci appare come colui che soffrì le lacerazioni dell'epoca e che, lungi dall 'ac creditare un solo volto di scrittore appagato delle proprie virtù (grazie alle quali la rappresentazione del mondo ha tutte le qualità del comico molieresco) e delle proprie inesauribili sortite satiriche, presenta invece i connotati del dubbio, dell'Incertezza, dell'ambiguità e della paura in fine, quando il problema della morte e della salvezza gli si spalancano innanzi. Astuzia e impotenza, passioni e de lusioni, lo rincorrono senza tregua. Figura di destinazione tragica, dunque, come tragico è il fondo del suo canzoniere, di questa sua « azione » per fetta. Per tale complessità, per tali incastri e dissidi tra l'uomo e lo scrittore, tra il privato e il pubblico, grovigli sentimentali compresi, figura naturalmente convertibile in una rappresentazione, allo stesso modo che la sua lirica contiene una disposizione vivace alla teatralità, è spesso mimesi. Ed ecco l'impresa di Diego Fabbri, iniziato all'intelligenza del Belli proprio dal D’Amico, che appare elaborata con studio e amore: « Il Commedione di Giuseppe Gioacchino Belli, poeta e impiegato pontificio ». È una informazione sulla vita e sull'arte, una guida succinta ma suggestiva e penetrante fondata sulle notizie biografiche e sulla spalan cata offerta del suo giornale poetico. La documentazione è ineccepibile, per ampiezza e per onestà intellettuale. La forzatura ideologica, poteva essere, infatti, una tentazione, per qualche accolito del teatro « impegnato ». Ma fa ricchezza dei materiali non fa, da sola, dramma turgia. Ed invece Diego Fabbri presenta un lavoro di alta elaborazione, di profonda drammaticità. Se con grande senso dell’opportunità e sempre in funzione non citazio- nistica, ma di calda pronuncia diretta in una situazione che la poesia stessa definisce, egli trae dall'opera del Belli, i sonetti, i versi significativi, entro la gamma dei temi, d’altro canto impone progressivamente l’uomo Belli nelle crescenti difficoltà di congiuntura interiori. Nasce pertan to un personaggio, che non è rievocato, ma che si deter mina davanti ai nostri occhi. Direi che siamo di fronte ad una grossa variazione nel genere nelle opere costruite attorno ad una figura storica, e precipuamente per la sottesa dialettica tra l’affondo psi cologico e la analisi del comportamento, dialettica che non corre ad una sintesi risolutiva, ma che si risolve in un interrogativo superiore. È il tema, cristiano, caro a Fab bri, condensato nell'antica sua frase: « Un uomo, lo sa insomma, è costante. A tale pregnanza testuale corrispon de uno splendido spettacolo, vario e incalzante, della Compagnia degli Associati, collegata con l'ATER. Il me rito primo è di Giancarlo Sbragia, per come ha saputo inventare continuamente il racconto e interpretare il pro tagonista. La premessa è anche nella scena di Vittorio Rossi; dieci staili di un coro, mobili e smontabili, che di ventano ogni altro luogo, mantenendo sempre un tono che sa di chiuso, di prigione, sormontati da una cupola di chie sa, visitata di scheletri. Poi le musiche di Silvano Spadac cino, che sono bellissime, fascinosamente romanesche. Poi la compagnia*, strumento accordato e seducente, mai impac ciata nel greve dialetto, pulita in ogni sillaba scabrosa, e pronta a rendere ogni intervento un tassello di un discorso scenico estroso e fresco. Lo Sbragia esalta con mirabile duttilità i passaggi interiori della figura del Belli e giunge a pienezza tragica nel finale che è concertato su un ■■ for tissimo » da tregenda, con la proiezione tumultuosa della dilaniata anima del Belli. Ricordiamo con lui, davvero tutti bravi, Valentina Fortunato e Paola Mannoni, Paolo Giuranna e Mattia Sbragia, Laura Fo e Paolo Lombardi, Pietro Torbi e Marina Tagliaferri, Luigi Carani ed Ettore Toscano, Ric cardo Peroni e Giulio Farnese Dio ». Un tema incalzato da quello della morte e del giu dizio, sottolineato sia nel testo, sia nello spettacolo. Il Belli di Fabbri è il grande artista, ma è soprattutto un uomo problematico, un portatore di talenti e mistero, una creatura con il peso di un dono, condannata dall'età sua a un compito ingrato e anche rischioso per l'anima, e ancora la coscienza della propria vocazione, da tenere segreta. Un personaggio a tutto tondo, attorno al quale sono benissimo individuati i punti di riferimento in persone e in situazioni. Senza pedanteria, senza senno di poi, senza compiacenze letterarie, come dimostra l'uso infallibile, non fazioso ma esplicativo, dei sonetti, e l'invito all'intelligenza del pubblico, perché da uno riconosca gli altri. E qui il testo — che costituisce un sicuro fatto culturale •— diven ta anche politico, nel senso che riflette una storia di cui oggi si accertano inquietanti ricorsi, e che registra opinioni; come politica altissima, in naturale proiezione dell’uomo vivo verso il suo secolo, fu la assunzione, nel Belli, della plebe a motivo ispiratore di tanta poesia. Il Fabbri attua un finissimo distacco dalla materia, il che impedisce a chiunque di « adoperare » il Belli, coglien dolo a pezzi, disarticolandolo secondo la propria inclina zione o la propria scelta a monte. Anche i vocaboli irsuti, le torrentizie crudezze verbali, le scurrilità fulminee non si riportano per divertire, ma come segno espressivo con motivazioni che sono, nella sostanza, etiche. E in ultimo, la vicenda del Belli si presenta come metafora di un pro blema perenne, quello deH’intellettuale nei confronti del potere e di se stesso. Tanto spessore di contenuti si scandisce in scene es senziali ed in toni mutevoli, con una progressione dram matica che tiene fino all’ultima battuta. La suggestione, Paola Mannoni ne « Il Commedione » sioni, di tendenze, di fatti, di possibilità. Era la vita, ma il brindisi è stato continuamente interrotto. La qualità dram matica sta nell’opposizione temporale e nell'ostinazione ad essere esistiti, prima che ad esistere (di memoria). Momenti giocosi e momenti grotteschi, rigurgiti di visi e di gesta, episodi di scuola e di storia; un humor nero presiede il tutto, intonandosi al funereo apparato ed ai luttuosi vestiti sormontati da visi deformati in maschera o percorsi da tics. La morte, in diverse fogge e mansioni, è compagna. MILANO GUIDA : GIOVANI ALL’AVANGUARDIA Milano sembra voler recuperare il terreno perduto nei confronti del movimento di avanguardia teatrale, con qualche peculiarità: im primendo, cioè, un forte carattere didattico alle presenze dei capifila, coltivando un pragmatismo di seminari e di analisi. Il punto di riferimento è, senza dubbio, il Centro di ricerca teatrale, dove emergono le scelte: ma, per la prima volta, lo stesso Pielcolo Tea tro, col grosso limite dell’occaslonalità e quindi con un aspetto di esibizione, ha ospitato uno spettacolo della nuova linea. Si sono succeduti il polacco Tadeusz Kantor, che è stato un richiamo di proporzioni Inaspettate, tanto che si ritiene che meno della metà dei giovani desiderosi di conoscerlo abbia potuto essere soddi sfatta; il Teatro di Ventura operante a Treviglio e Robert Wilson. AL CENTRO DI RICERCA TEATRALE LA CLASSE MORTA di Tadeusz Kantor Gruppo Cricotz, di Cracovia. Tadeusz Kantor, uno dei nomi squillanti della ricerca teatrale europea. Viene di Polonia, la terra di Axer e della Skuszanka, di Dejmek e di Szajna, di Grotowski, e si af ferma come pittore e scenografo. Astrattista con tendenze surrealiste, esperimer-ta l’organizzazione dello spazio tea trale in senso plastico, usando dei materiali più diversi, e l’uomo stesso è chiamato a dare vita ad una « scenogra fia mobile ». Ma, da accompagnatore dell’evento teatrale, ne diviene protagonista, passando alla regia; non solo, il suo trattamento dei testi lo trasforma in autore, e la sua presenza nello spazio dell'azione teatrale, presenza orche strante e affabulatoria, lo iscrive altresì tra gli attori. Il salto avviene nel 1955 (Kantor ha quarantanni), cor. la fondazione a Cracovia del « Teatr Cricotz 2 », atto d'in sofferenza per le istituzioni e palestra di una indagine espressiva che accompagna tutta una serie di formulazio ni teoriche. La notorietà mondiale del pittore Kantor (nel '68, anche un Premio Marzotto) sarà lentamente affiancata da quella del teatrante Kantor, che va proponendo via via il Teatro Informale, il Teatro Zero, il Teatro Happening, il Teatro Impossibile, con una irrequietezza che si traduce anche in esuberante promulgazione di manifesti. Messaggero irrequieto delle sue idee e sperimentatore in alcuni Paesi europei, dai '69 presenta la sua formazione ai più importanti appuntamenti dell’avanguardia. Fu due volte a Roma (nel '69 e nel ’74) e sempre con spettacoli basati su commedie di Witkiewicz. Lo spettacolo attuale s’intitola « La classe morta », traduzione pratica del mani festo del « Teatro della morte ». All’origine, ancora un testo di Witkiewicz, « Tumore cervicale », ma solo come spunto. Ad essere evocata è una classe di scolari. Sono essi in scena, ma vecchi, o morti di provvisoria presenza; ed essi richiamano il passato. A brandelli. Confusamente. Si portano appresso i manichini dei ragazzi che furono, ma essi stessi sono irrigiditi. La cornice drammaturgica è da ta come segue: si immagina (ma si avverte poco) che degli attori entrino in scena per una recita scontata e annoiata, e che invece ciascuno affronti se stesso e il proprio pas sato. La visitazione è una ricognizione confusa in un ripo stiglio, da cui si estraggono solo stracci, lacerti di pas- « La classe morta » di Tadeusz Kantor Non la malinconia, non la nostalgia; piuttosto, qualcosa di infranto e di non più componibile, qualcosa di trascorso senza essere afferrato, qualcosa di sillabato ma non coor dinato in sintassi, qualcosa che non è mai nato si esprime nel coacervo di gesti interrotti e di frasi perdute, che non vogliono assolutamente essere compiuti e ricostruite. Non serve, perché la vita — interpretando l'orrore glaciale di questo macabro ballo di pupazzi — è un combattimento con « il grande vuoto », di cui la morte è il sigillo. In questa concezione del reale di derivazione e di esa sperazione esistenzialistica risiede, dunque, il succo della proposizione di Kantor. Il quale, però, si sofferma sul con cetto di gioco, recuperando il dato della vitalità: da tra sferirsi, per bene, nell'area della creatività, e allora ecco l’arte come salvezza, e come necessità. I personaggi vivono una morte di sempre; sono più rappresi, che organici; disarticolati e disponibili; discipli nati, ma come degli attori. Ecco un punto interessante: per quanto si recepisca di pessimismo filosofico, non va concertato su una tematica precisa l’idea intorno ad una rappresentazione che rifiuta di essere sistematizzata tan- loro e dà gli to, da concludersi in una corale iterazione all’infinito, da carillon impazzito. C'è la parte teatrale da non trascura re, e cioè la partenza che suggerisce una prospettiva di recita nella recita: c’è una lettura, forse disinvolta, ma suggestiva, che potrebbe essere quella, per cui ciò cui noi assistiamo è una rappresentazione ribalda, quasi che gli attori improvvisassero, e si determinassero in ruoli, e si guardassero, anche, recitare, persino addestrandosi ad es sere maldestri (e Kantor, che sta accanto a attacchi e sposta sembra esserci di conforto), e si diver tissero a interrompersi, a soprammettersi, a dissacrare il rituale teatrale sfoderando un guardarobato di gags. Allo ra, il « vuoto » che cose? Il « teatro della morte » è anche una « morte del teatro »? Sì. Annotiamo ipotesi su uno spettacolo ricco di Fascino, denso di mistero, fatto di apparenze e di presenze enig matiche, con un « dentro » e un « fuori », un ieri e un oggi sfumati e ambigui. Che ci offre dichiaratamente il tutto come una « vana mistificazione » e raddoppia il gioco. Che induce lividi fremiti di paura, attanaglia di ossessioni, emette fantasmi e allucinazioni, e contemporaneamente esegue numeri d'alta ilarità. « La classe morta » è un grosso prodigio teatrale, è una macchina esemplare di bersagli e di allusioni, è una implacabile fabbrica di illusioni, la freccia indicativa di un'impasse e, unicamente, del gioco a sopravvivergli, sino ai lembi di un esistere dove il camuffamento e lo scacco non hanno principio e fine. Gii attori si offrono mirabil mente alla carica marionettistica, procurando ognuno un grandissimo godimento per l’incisività caricaturale e la consonante partecipazione a questa amara sinfonietta di frantumi d'arte e di vita. Un grande successo. IL DETTO DEL GATTO LUPESCO, a cura del Teatro di Ventura. Il Teatro di Ventura, che agisce in quei di Treviglio, presenta la sua ultima elaborazione sull'arte dell'attore. E va all'indietro, alle fondazioni della professionalità, cioè nel mondo dei giullari. Il punto di riferimento è il « Det to del Gatto Lupesco ». Il « Detto » è un poemetto in distici di ottonari e nove nari a rima baciata, composto di 144 versi, e in prima per sona. La sua patria è la Toscana; il suo tempo, è la pri ma metà del Duecento; il suo genere, l'allegorico, il suo autore, verosimilmente un giullare. Il « Detto » e il più noto « Tesoretto » di Brunetto Latini sono >■ due esempi predan teschi di poetico viaggio allegorico nella natura e nel mon do dei simboli », scrive Alfredo Giuliani, accogliendo una opinione di Guerrieri-Crocetti, cui si deve una prima ed ampia analisi del poemetto, già nel 1914. Ma, del resto, basta leggere questo monologo, per trovare una clamo rosa coincidenza — di aggettivi, di immaginazione — con l'avvio del viaggio di Dante nell'« Inferno ». Riguardatevi le prime terzine, e sentite qui: ■> ... così m'andava l’altra dia / per un cammino trastullando / e d’un mio amor già pensando / e andava a capo chino. / Allora uscio fuor del cammino... ». E più avanti: L'aria era molto scura, e 'I tempo nero e tenebroso; e io come uomo pauroso / ri tornai... ». L'autore, dunque, del poemetto, misterioso davvero, si identifica con il personaggio, non più chiaro, del Gatto Lupesco che, messosi in viaggio, e uscito di strada, in contra dapprima due cavalieri di re Artù, e poi giunge a un romitaggio e qui dichiara all'anacoreta di voler recarsi in Oriente e specificatamente nei luoghi di Cristo. Il ro mito gli indica una lontana Croce nel deserto come tappa del cammino. Il Gatto Lupesco si avvia, nell’aria tene brosa, ma si vede impedito a lungo da una sarabanda di bestie orrende, selvagge (e alcune immaginarie), tra le quali scoviamo anche una lonza. Scansate le bestiacce, il Gatto Lupesco potrà condurre a termine la sua impresa, della quale si sbriga in quattro versicoli. Il dato allegorico è palese appunto in questo sciorinato Bestiario, ma il poemetto contiene anche il carattere di ricerca della verità — e lo esplicita —, connesso con una curiosità per il mondo e, direi ancora, con uno sfoggio di cultura, che doveva far spalancare gli occhi all 'udito rio, cui il giullare esponeva un repertorio di nomi storici e favolosi, conducendoli per una terra resa immensa e af fascinante dalle sue parole. Ci siamo soffermati su quest'opera — il cui simbolismo attende una spiegazione, non rintracciata da studiosi quali il Contini e lo Spitzer —, illustrandola per compensare l'oscurità della rappresentazione curata da Ferruccio Me- risi ed eseguita da Silvio Castiglioni, Remo Vigorelii, Pa squale Cacchio e Roberto Bolchini. Ai quali muoveremo un primo rimprovero, e cioè di non fornire un’informazione sufficiente, sostituita da una trama dello spettacolo, che con il Gatto Lupesco ha poco o nulla da spartire, e che, d'altra parte, nell’esoterica rappresentazione non si coglie. Si tratta di una variazione sul tema, più che legittima, dopo che si siano chiariti i termini informativi. E si tratterebbe, qui, d'una vicenda phe abbraccia pas sioni umane, oppressioni del Potere, e che quindi intesta al Gatto Lupesco un « racconto morale » affatto personale. Noi abbiamo individuato solo alcune parole e situazioni dell’anonimo poemetto, con l'aggiunta d'altri reperti archeo logici, come Cielo d'Alcamo, poi che rade frasi galleggiano sulla tumultuosa esibizione ginnicomimetica dei quattro valorosi giovani, i quali mostrano una notevolissima capa cità di parlare col corpo e una ben estesa gamma di espres sioni foniche; ma tale tecnica non è filtrata in una sintassi espressiva ed in una forma. Assistiamo a un gridare e ad un cozzare, con atti mimetici non sempre incisivi, per la durata di un'ora e mezza, nel corso della quale si legge, comunque, una propensione per il grottesco e l'alIusività. Una giullarata senza sorriso, chiusa in sé, di un vir tuosismo che ancora deve sciogliersi in comunicazione, con una dote di fitti segni che fa il merito della rappre sentazione, dentro cui scorre una rabbia, s'installa una specie di negativo del mondo. Per il Teatro di Ventura si tratta ora di trasformare l'esercizio in forma e di far emer gere i contenuti. Attraverso la parola tutt'altro che rinne gata nel « Detto ». ai Pinr-ni n teatro ! WAS SITTING ON MY PATIO THIS GUN APPEARED 1 THOUGHT I WAS ALLUCINATING di Robert Wilson. Interpreti: Robert Wilson e Lucinda Childs. Robert Wilson, artista statunitense di rapida fortuna in ternazionale, delizia degli utenti dalle narici sottili, seris simo tessitore di impalpabilità, cultore della controverti bilità. Dal 1969 ad oggi, sono una dozzina gli spettacoli da titività e il frammento, la tendenza a comporre « tableaux vivants ». La sua formazione artistica (è pittore) allarga l'idea di regia e di teatro, lo spinge a creare azioni sce niche di estremo rilievo, dove il testo perde di importan za nei confronti dell’impasto tra gesta e fonismi, in cui si racchiude la cifra linguistica delle sue proposte. L'attuale rappresentazione s’intitola « I was sitting on my patio this gun appeared I thought I was allucinating », e ad essa corrisponde il primo quadro, dove appunto Wil son silenziosissimamente mima lo starsene in un patio e il credere di essere soggetto ad una allucinazione, per l’apparizione di un tizio. Qui, invece che per alcune ore o giorni, restiamo im mobili — col volto imperterrito di un sordo — per ottanta minuti, e sul palcoscenico compaiono due persone, una alla volta; prima Robert Wilson, per quaranta minuti, poi il suo doppio, ossia Lucinda Childs, per altrettanti. Che cosa fanno? Danno vita entrambi allo stesso testo [« mil le frammenti di racconto, esposti durante due monologhi... Ogni storia distinta e in sé conclusa con occasionali rife rimenti ad altre storie precedenti e con riecheggiamenti tematici... Le parole dette dai personaggi sono pensieri che attraversano la loro mente »: questo è scritto e deve ba stare). La scena è un bianco e nero — di notevole suggestio ne — che prima disegna un patio contro una gran luce, poi un interno con la parete di fondo composta di un gri gio e ossessionante schedario; si ripete nel secondo tem po, per concludersi con la figura della Childs rivolta verso il vuoto, il nulla. O l'assoluto? Una sedia a sdraio radical mente rivisitata e un tavolo compongono l'arredo; non mentirò: c’è anche un telefono dallo squillo frequente, at torno al quale anzi si organizza l'azione, provocando l'at tenzione dell'affabulante personaggio di turno, impegnato in una conversazione ininterrotta o con se stesso o con un ospite immaginario o con un amico inesistente. Questo telefono sembra una vaga citazione di Beckett, ma colui che vorrebbe parlare non sembra portatore di in viti, minacce o messaggi. E', insomma un telefono di bor ghese petulanza. Infine, a parte un bicchiere brillante, ap paiono su un piccolo schermo dei pinguini, anatre a guaz zo, valigie esplorate dai raggi di un doganiere senza im portanza, e infine un paio di radiografie, in una delle quali ci è parso di ravvisare due fori, corrispondenti ai due col pi di rivoltella che si odono esplodere senza alcuna visibile conseguenza. A tratti, un grande « No ». Impossibile sta bilire se appartengono alla memoria, e tanto meno una funzione a queste immagini. Forse, i due personaggi sono morti e, attendendo il passaggio nell’aldilà rivivono la loro vita. Senza farsi do mande difficili. Siamo tra la rievocazione e la psicanalisi: c'è — supponiamo — un'idea di « attraversamento » e di liberazione, c'è un suggerimento d'anelito alla quiete, dopo un « no » di difesa e di rifiuto. E' un ■■ no » all'esistenza, al « fuori »? Il duplice rito si svolge in termini squisiti, con essen zialità (o povertà) di segni e con lenta conquista di un clima di suspense. Nello spettacolo, conta la forma narra tiva, che è di molta raffinatezza, di estenuante analiticità, di rarefatta semplicità. Lo strenuo esercizio, l'esoterica liturgia vedono un Wilson assorto, chiuso, con una infil trazione di paura e di angoscia, e una Childs, dalla pro nuncia mirabilmente musicale, dichiararsi più confidenzial mente nel sommesso conversare da interno americano. La fattura impeccabile, l’egregio design dello spetta colo non incidono, tuttavia, nell'anonimo. Wilson sembra volere soltanto le nostre facoltà contemplative, propone l'ambiguità e Se pensiamo allo spettacolo di Tadeusz Kantor, vediamo che là c'era una « materia », la vita nostra, qui c'è un’auto- registrazione di casualità, di frammenti da buttare. Là c’era una sinfonia, qui un filo di musica. Là l’espansività, qui il riserbo d'una sublimazione puramente estetica, se non estetizzante. l’intoccabilità. ■■ L'oretìchio del sordo », uno degli spettacoli più noti di Robert Wilson lui creati, di cui qualcuno per una sola « performance », anche se non si potrebbe dire « durato lo spazio di un mattino », dato che a Shiraz, in Persia, nel 1972, ne mise in corso uno della durata di sette giorni, senza intervallo. Altri impegnavano gli spettatori a marcelonghe, di grosso antitradizionalismo. Possiamo citare, almeno « Una lettera per la Regina Vittoria », dato a Spoleto nel 1974, nel quale si manife stavano, in chiara sintesi, le idee di Wilson, ora trenta cinquenne, circa i rapporti spazio-temporali di una rappre sentazione, la volontà di unire le arti a concorso espressi vo, con risultati eminentemente figurativi, la sensibilità per climi evocativi, per una ieraticità gestuale, per la ripe- torto di prendersela con un Molière di apparenza reazio naria, ma portava sul concreto il discorso sui contenuti della commedia e li confrontava — riconoscendo implici tamente una possibilità di dialettica a distanza di secoli — con una decifrazione attuale. In effetti, il mondo qui rappresentato ha due aspetti. II primo è quello dell'eccentricità, e in esso va ricono sciuto un polo dialettico dell'opera. Non c'è un personag gio che non sia sfasato per eccesso o per difetto, che sia al suo posto (si dice delle figure agoniste, non per quelle di comodo). Un marito senza calzoni, una figlia di vedute troppo basse, un’altra complessata, una zia pazzerella con erotismo compresso, letterati di salotto, e via enumeran do. Si può ben dedurre che Molière non sposa nessuna posizione, perché nessuno abita nel giusto mezzo e ri spetta l'equilibrio tra spirito e corpo, tra essere e natura. Ma allora, il tema della commedia è lo squilibrio, il disordine. Letto in positivo, il tema è: la ricerca di una identità. Queste « intellettuali » o come si voglia chia marle, rompono una tradizione, escono di casa a guardare il mondo, vogliono sapere, vogliono affermare una femmi nilità curiosa e creativa, intonandosi all’età dello scienti smo (in quell’anno 1671, Newton mostrava il suo telesco pio). Sbagliano gli affidamenti, bevono indiscriminatamente, ma la sostanza è una volontà di emancipazione, buona in sè. Flanno già camminato tanto, ignari gli uomini, da aver capito la necessità e le regole del potere, e da costituirsi in vendicativo e legislativo monolitico (il loro progetto d’Accademia è degno assolutamente di un Soviet). I prin- cipii, le usanze sono ormai perforate, e badate bene a quello che oggi è un ricorso storico: con l'uso della pa rola, con la sua selezione, con manifesto terrorismo ideo- logico-linguistico. Ma che cosa è questa commedia, dove non si fa che ridere, e intanto saltano fuori tutti i problemi dell'educa zione, dei rapporti tra i coniugi e di quelli tra i sessi, delFintellettuale nella società, delle forme estetiche, ecce tera? È la registrazione d'un movimento, è il sentimento di un tempo percorso da un vento di novità. Non cade qui la condanna di Molière, ma — schema d’obbligo per un autore comico — sulle motivazioni (la vanità) e soprat tutto sul metodo, ossia su una aridità di saper tutto che porta alla dispersività e aH’incoerenza. D'altra parte, le « savantes » sono ancora delle allieve: saranno ridicole, ma sono incolpevoli. Il marcio sta più in alto, nel maestri, che coltivano in sè l'ipocrisia e diffondono falsi idealismi, da tartufi reincarnati, e alimentano lo snobismo. Questi i difetti impietosamente scoperti. Ma ce abbastanza ambi guità in varie zone della commedia, per indurre a pruden za, per non entrare in crociate inesistenti. O dirette al trove. Il recupero della serietà, in quest’opera, è certo arduo, il suo centro di gravità è molto profondo, essa pare tenere spalancate le porte e tentarci ad entrare, per essere subito a nostra volta rivoltati. Dove si afferma l'arte, oltre il virtuosismo scenico e l’eccellenza stilistica? In due personaggi, a privato avviso, nei quali il ridicolo si arresta, per un Improvviso conden sarsi di dolore umano, sotto la smorfia ridicola. È nel ri tratto di Belisa, la zia zitella perduta nel suo immaginare amanti e nell'inventarsi una felicità, di una comunicazione e confessione di una non esorcizzabile solitudine; è nel ritratto di Armanda, tutto pieghe segrete e piaghe di frustra zione, incapace di risolversi come donna e avvilita, infine, a un destino di prigioniera del sogno dalla terribile madre. L'ultima sua scena con Clitandro, che l'amò e, respinto, si dedicò alla sorella, è un capolavoro di teatro dell'ine- spresso. In Armanda e in Belisa la fantasia è gloriosa e appagata. Quasi con animo restìo Molière accede, invece, a Filamin- ta, la dispotica, personaggio nero, disumanizzato da una mitomania che è fonte del suo riflesso di ridicolaggine. E così, nella nota amara della melanconia che attende Armanda — per parafrasare Mario Apollonio — si conclu de questa commedia sull'irragionevolezza, sull'allontana- LE INTELLETTUALI di Moliere. Traduzione di Cesare Garboli. Regia di Franco Sciaccaluga. Interpreti: Ernesto Calindri, Lina Volonghi, Fiorenza Mar- chegiani, Maddalena Crippa, Camillo Milli, Anna Mae stri, Giampiero Bianchi, Gino Pernice, Donatello Falchi, Wanda Benedetti. Scena e costumi di Gianfranco Padovani. Teatro Stabile di Genova. <■ Les femmes savantes »: un pamphlet così passio nale e fuor di misura, da aggredire una realtà mo dificatasi nei quattro anni intercorsi tra il progetto e la realizzazione, e da scoprire l’autore in patente contraddi zione col se stesso di « La scuola delle mogli », di dieci anni addietro; oppure il dramma duna inquietudine socio- culturale? Una storia semplice, anzi banale: una famiglia alto-bor ghese, con un padre debole, una madre autoritaria e due figlie, più una zia. La figlia minore vuole sposare l'amato, ma la madre preferisce un altro candidato. Ire e contro versie. E lieto fine, accertato l'interesse del pretendente secondo per la dote, più che per le doti della fanciulla contesa. Ma si tratta di tutt'altra cosa. Diciamo pure duna visi tazione del tempo. Il pamphlet. A farne le spese, un tipo di cultura letteraria: due poetastri per tutta una categoria o di rimuginanti il classico o di frivoleggianti arcadi. E que sto tira tuttavia al comico, alla parodia, al grottesco cui basta la sovvenzione del mestiere. Ma ci si attacca, subito dopo, una questione di tanto peso, da essere ancora aperta: il rapporto con il potere. La denuncia del mammellarismo (scusate, è un vocabolo senza soccorso di dizionario) o dell’autoemarginazione è folgorante. E slamo ancora in periferia. Messo a fuoco, l'obiettivo fa una foto di gruppo con signore: la madre, la zia, una figlia. Son esse le « donne sapute » o le saccenti », come si traduceva; o « le intellettuali », come vuole Cesare Gar boli, gran traduttore di Molière, che cade in provocatoria contraddizione perché nega un accento denigratorio al ti tolo francese e immediatamente ne escogita una versione che, in tempi caldi di femminismo, non può non indurre a qualche sospetto, che diventa certezza quando la tradu zione, entrando nel vivo, aggiorna l’autore (che ne esce in denne) sui temi scottanti del discorso culturale odierno, sulle correnti e le mode critiche, sui moduli poetici, sulle formule e sui vizi verbali dei chierici, per estendersi poi in una satira degli slogans e dei comportamenti di certo femminismo. Già, il contrasto tra la casalinga Enrichetta e la sorella Armanda, una delle ■< savantes ». Che è poi anche un tra bocchetto per chi creda di poter attribuire a Molière un atteggiamento di conservatore cieco, e quindi opposto alla posizione avanzata assunta nella precedente considerazione per l’elevarsi della donna. >■ lo detesto Enrichetta » escla mava Claude Ray ir. alcune pagine, in cui prendeva partito per le « savantes », le emarginate che — come i popoli del Terzo Mondo — andavano prendendo coscienza di sè, commettendo tutti gli errori propri ai pionieri. Ray aveva Gino Pernice, Lina Volonghi, Fiorenza Marchegiani e Patrizio Coracchi ne « Le Intellettuali » di Molière (foto Ciminaghi) mento dalla natura, su fisime peraltro in qualche modo giustificative da una provocazione di logori statuti. E, bene dicendo nozze giuste, Molière torna ad obbedire al teatro, cui ha sacrificato un finale, che non è facile per tutti e che non spalanca una verità. Di « Les femmes savantes », la mia memoria non estrae che la citazione di un allestimento realizzato a Vicenza nel 1962, da Alessandro Brissoni, con Paola Borboni, Sergio To fano, il Ceriani, la Innocenti, la Valente e il Bianchini. Il segno di questa messinscena — che va sotto il titolo di: « Le intellettuali » — è dato, fondamentalmente, dalla traduzione di Cesare Garboli, che non mancherà di dividere il campo. Per cominciare, è, rispettosamente, in versi mar- teiliani, ma senza la rima. È noto che il doppio settenario o alessandrino o martelliano (dal suo importatore) non ha mai goduto buona fama da noi, dove il trapianto è risul tato poeticamente sterile. In questi di Garboli, così diversi, c'è, invece, non sol tanto il dono di una « stupefacente leggerezza », come os serva Gerardo Guerrieri, ma, oltre la naturalezza e la mor bida pronunciabilità, ce tutto un fervore di immagini, una creatività feconda. Come traduzione, costerebbe cara a qual siasi scolaro di francese. È assolutamente libera, sul piano verbale e sintattico, ed è assolutamente fedele, su quello concettuale. Assistiamo ad una operazione critica assidua, orientata ad auscultare la radice di un momento psicologico, a decodificare un comportamento o una situazione, a veri ficare l'intenzione e la dimostrazione molieriane, per filtrar ne l’essenza secondo la nostra sensibilità, la accezione pro blematica e i paralleli nel reale del mondo attuale, e quindi per rivelare il tutto nel linguaggio che oggi frequentiamo. È una ricerca di equivalenti non alla carta carbone, e le argutissime — in qualche momento forzate — citazioni del presente si discostano certo dalla lettera, ma vanno a ¡¡lu minare Molière e a dargli la cittadinanza nel contemporaneo. È la linea che Garboli ha tracciato da tempo, che Franco Parenti ha adottato per il suo Misantropo » e che la basi lare franchezza di Molière consente di seguire, persuaden doci che egli così avrebbe, ai nostri giorni, scritto. Non so no termini come >< infarto » o « identikit » a dovere scanda lizzare. Magari, il Garboli qualche licenza se le presa, di qualche eccesso vuol essere perdonato; ma la sostanza è che in nessun momento tradisce lo spirito dell'originale. Al contrario, lo innalza a vita piena, con grande sapienza e tanta fantasia, con duttile aderenza al cangiare dei toni. Insomma, una traduzione che è un capolavoro di intelli genza, perché usa le chiavi dotte e giuste nel gioco costrut tivo di taluni miti correnti, dalla linguistica (era la gramma tica) al femminismo, passando per diversismi correnti. Si salda ad essa lo spettacolo ordinato dal giovanissimo regista Franco Sciaccaluga, che due anni fa firmò « Equus ». E partiamo dalla mirabile scena di Gianfranco Padovani, che trasforma acutamente la lussuosa casa di Clitandro in uno spaccato di planetario, identificando la volta della bi blioteca con quella celeste, trapunta di stelle; nei vani tra gli scaffali e dovunque, tutti gli strumenti scientifici del tempo, un intero corredo di erudizione sparpagliata, il do cumento di appassionati, quanto ingenui neofiti. E gli attori, infine, a dare corpo ad una rappresenta zione assai ordinata e sprizzante. Lo Sciaccaluga ha esat tamente individuato e bene orchestrato stili espressivi di versi, coerenti all’indole singola e al messaggio del grup po (novatori contro conservatori, ad esempio). Ha dato una netta impostazione ai caratteri, e argutamente insi nuato un’idea di teatro nel teatro con l'artefatta recita zione delle « intellettuali » nelle scene centrali con Trissot- tino e Vadius. C’è poi tutta una serie di finissimi commenti, di saporosi e sommessi interventi ironici e critici (il libretto rosso, ad esempio), di fresche soluzioni sceniche. Con sorprendente cautela, il regista non si è sovrap- posto, non ha forzato ideologicamente il testo (gli bastava « servire » la traduzione), sin quasi ad abbandonarsi fin troppo alle sollecitazioni del divertimento, di un gioco teatrale puro, peraltro sempre di qualità nobilissima, la sciando un poco perdere qualche tocco di distanziazione, di perplessità più accentuata. Ma l'aderenza a Molière è ben garantita, senza frivolezze. La felicità interpretativa è la conseguenza di questo « stare con Molière ». Ecco Lina Volonghi farsi deliziosa mente fanatica e seccamente dittatoriale, contenendo qua si sempre la sua natura non illividita e robespierriana co me quella di Filaminta; ed ecco Ernesto Calindri, final mente tornato in palcoscenico, destreggiare da maestro, un Clitandro intrigato con la debolezza del suo carattere, e farcelo gustare su varie sfumature e su pronti ispessi menti, con appena un paio di eccessi mimici. L'acme del l’introspezione e della resa linguistica è raggiunta nei per sonaggi di Belisa e di Armanda. Di Belisa, la zia zitella, Anna Maestri offre uno stupendo ritratto, coi connotati di una inconsapevole, straziante follia, svaporando in toni leg geri e creandosi un universo di medicamentose illusioni. Quanto ad Armanda, nevrotica, plagiata dalla madre, è la figura più alta (e giustamente interessava l'Apollonio, che giungeva ad interrogarsi sul suo « dopo ») e complessa; solo in lei si svolge una storia, e accade un processo di conoscenza, e una frustrazione si aggiungerà all'altra, e in somma corre una vena drammatica. Motivo interamente avvertito ed espresso con notevole incisività da Fiorenza Marchegiani, che delucida tutte le componenti del perso naggio con una recitazione nervosamente intagliata. Gino Pernice dona a Trissottino una accigliata coloritura grotte sca di forte risalto, mentre Maddalena Crippa è una fre sca e viva Enrichetta, la giovane che pensa ai doveri umili d'una donna esaltati in una dimora di affetti e nel disegno della natura: una nota lirica che ristora. Camillo Milli, Giampiero Bianchi, Wanda Benedetti e Donatello Falchi (tenebroso Vadius) completano la compagnia, affiatata e precisa. Ernesto Calindri e Camillo Milli ne ■< Le Intellettuali » di Molière (foto Ciminaghi) X5 %■sy % ANTONIO E CLEOPATRA di William Shakespeare Roberto Guicciardini. Traduzione di Giorgio Albertazzi Rielaborazione di Giorgio Albertazzi e Regia di Roberto Guicciardini. Interpreti principali: Giorgio Albertazzi, Anna Proclemer, Luigi Montini, San dro Borchi, Remo Girone, Gianni Ga- lavotti, Virgilio Zernitz, Gabriele An tonini, Elisabetta Pozzi, Carla Cas sola. Scene e costumi di Lorenzo Ghiglia. Musiche originali di Benedetto Ghiglia. % % % .Il Quando il teatro rappresenta non so lo un’esperienza ormai consolidata e approfondita ma una passione prima ancora che una professione — com'è indubbiamente per Giorgio Albertazzi ed Anna Proclemer, come pure per Ro berto Guicciardini —, bisognerebbe avere la forza di resistere a certe ten tazioni: sapersi cioè sottrarre al quasi obbligo, per due interpreti non più gio vanissimi e conosciuti presso il gros so pubblico come « coppia » (almeno sotto il profilo artistico), di mettere in scena « Antonio e Cleopatra ». Altri menti si finisce inevitabilmente — qua li che siano i presupposti e le inten zioni più o meno innovatrici — per ca dere nel vecchio scontro fra « matta tori », per ridurre cioè un testo consi derato da molti fra i massimi capola vori di Shakespeare ad un'occasione per una « serata d’onore », secondo usanze -teatrali che si sperava fossero ormai cadute in disuso. Avevamo già avuto occasione di as sistere a questo spettacolo al suo de butto nell'autunnale « Ciclo di Spetta coli Classici » al Teatro Olimpico di Vicenza ed eravamo francamente cu riosi di verificare se vi fossero sostan ziali mutamenti dopo un periodo abba stanza lungo di rodaggio ed in una dif- « Antonio e Cleopatra » di Shakespeare: Giorgio Albertazzi, il regista Guicciardini e Anna Proclemer (foto Tapparo e Trentin) ferente cornice. In effetti lo spettacolo si presenta abbastanza diverso, ma non viene meno la perplessità di fondo: è anzitutto ulteriormente sviluppato quel lo che è sicuramente il lato migliore della rappresentazione e cioè il mo mento figurativo; perduta la collocazio ne splendida ma un po' dispersiva del Teatro Olimpico, tutta l'azione è rac chiusa in una specie di scatola dalle molte porte e dalla tappezzeria consun ta dove i personaggi — in un'antica Roma vista secondo un'ottica fine '500- inizio '600, come in certi quadri di Ve ronese e di altri pittori successivi — compongono in continuazione quadri vi venti con un colpo d'occhio per lo più assai gradevole. Insomma l'attenzione del regista Guicciardini e dei protago nisti è rivolta, più che ad un approfon dimento o ad una scomposizione dei molti temi che pure il testo offre, ad una traduzione visiva di un certo sapori barocco che questa tragedia possiede — almeno secondo certi angoli di let tura — in misura maggiore di qualsiasi altra opera shakespeariana; su questi presupposti diviene poi quasi automa tico risolvere il rapporto-scontro fra An tonio e Cleopatra (che riempie di sé 10 spettacolo in misura anche mag giore di quanto avvenisse nel testo scritto) secondo il vecchio schema che si è detto, con il prim’attore e la pri ma attrice che danno fondo a tutto 11 rispettivo repertorio di tonalità vo cali, di gesti ed espressioni sovrac carichi appunto come certi edifici del barocco di maniera. Per cui viene na turale sottolineare piuttosto la prova di altri interpreti (come Luigi Montini nella parte di Enobarbo e soprattutto Remo Girone nel ruolo di Cesare Otta viano), tanto più efficaci in una reci tazione misurata e persino scarna. CIMBELINO di William ònaKespeare Nanni Traduzione ed adattamento di Giancarlo Regia di Giancarlo Nanni Interpreti principali: Manuela Kuster- mann, Daniele Griggio, Massimo Dapporto, Edoardo Fiorio, Piero Di lorio, Lamberto Consani, Carmen Onorati Scene di Giancarlo Nanni Musiche originali di Stefano Marinucci no l'impressione di essere adottati a caso, secondo l’ispirazione del momen to, e non possono essere d'altronde in alcun caso ricondotti ad una scelta espressiva univoca. Non si può neppu re sostenere che un simile gioco di contrasti riesca gradevole poiché ec cessiva e stridente è la confusione fra indicazioni troppo diverse. Rimane semmai un certo colpo d'occhio, un qualche gioco di colori: in questo so prattutto si esercita quel senso del tea tro che Nanni indubbiamente possiede, disperdendolo poi non si capisce bene se a causa di un'eccessiva quantità di idee (che dunque non vengono gestite col necessario rigore) o viceversa per una completa carenza, nascosta sotto l’alibi dalla confusione. Manuela Kusterman C’è chi ha accusato Giancarlo Nanni, a proposito di questo allestimento del « Cimbelino » di Shakespeare, di aver tradito quell'avanguardia teatrale di cui era considerato uno degli esponenti più significativi: per valutare la fonda tezza di tale accusa bisognerebbe poter stabilire cosa sia esattamente l'avan guardia e se, ed eventualmente fino a quando, Nanni ne abbia fatto effet tivamente parte; non ci pare infatti che possa considerarsi elemento sicu ro di identificazione aver praticato per un certo periodo le « cantine », come d'altronde non è vero che basti acce dere ai teatri •< ufficiali » per trovarsi automaticamente fuori da una qualsia si tendenza o « maniera » teatrale. È vero che, almeno in un certo periodo, la sperimentazione teatrale in Italia si è esercitata soprattutto a proposi to di mezzi espressivi che sostituisse ro, in tutto o in parte, la parola: quin di particolare attenzione al gesto o ad dirittura aH'immagine. In Giancarlo Nanni — che da parte sua non ha mai completamente rinunciato alla parola e da diversi anni utilizza per le sue re gie testi tradizionali e spesso addirit tura « classici » — questo interesse verso le tecniche gestuali e verso un teatro che dia largo spazio all'imma gine è presente anche oggi come te stimonia appunto questo « Cimbelino ». Resta da stabilire se un simile inte resse è in funzione di uno specifico discorso espressivo o piuttosto per co lorire e movimentare uno spettacolo, insomma sul piano delle trovate di re gia: afferma lo stesso Nanni nelle sue note di regia di essere stato attratto verso il « Cimbelino » — opera prati camente sconosciuta al pubblico italia no — da una certa <■ incompletezza e confusione »: in questo confermando di trovarsi a suo agio alle prese con un materiale complesso e perfino caotico come può essere l’intrecciarsi di sto rie parallele e inverosimili, quasi sulla linea di un romanzo di appendice ante litteram, sia pure nobilitato da quel soffio di poesia che non manca mai nelle opere di Shakespeare. Su tale sollecitazione Nanni costruisce (del re sto perfettamente in linea con le sue precedenti regie) uno spettacolo so vraccarico di indicazioni spesso discor danti fra loro e che non permettono di individuare nella rappresentazione una coerente linea di interpretazione di fondo: non c'è approfondimento dei molti argomenti che il testo, in un modo o nell’altro e magari involonta riamente o in negativo, finisce per of frire, ma soltanto un disordinato accu mularsi di soluzioni talvolta anche pit toresche ma assolutamente eteroge nee. Anche gli attori (a cominciare dal la brava Manuela Kustermann che è la protagonista nel ruolo di Imogene) sono spesso costretti in forzature che possono avere una loro giustificazione solo se inseriti in una precisa e coe rente scelta interpretativa, mentre dan- prima d'allora aveva conosciuto altri manicomi ma aveva anche pubblicato (a proprie spese, nel 1914) quei « Can ti orfici » che gli assicurano un posto di tutto rilievo nella storia della poe sia italiana del '900. Un personaggio, quello di Campana, naturalmente « teatrale », magari suo malgrado: ma anche e soprattutto l'oc casione per una riflessione, certo sti molante, sul poeta come « diverso » in una diversità resa ancora più precisa- mente identificabile dalla follia: men tre la follia stessa si presta poi a di verse interpretazioni, fuga da una real tà difficile da sopportare o incapacità di ordinare in maniera organica stimo li diversi e contrastanti, fino alla con troversia di fondo sulla « normalità » nei confronti della quale il pazzo vie ne individuato come « diverso ». Ricordiamo su Campana, nella scorsa stagione, teatrale di Adolfo Lippi e Luigi Sportelli sul car teggio intercorso fra il poeta e la scrit trice Sibilla Aleramo; in una chiave di versa si muove Gabriel Cacho Millet, il giornalista e scrittore argentino au tore di >< Quasi un uomo, visita al poeta Dino Campana nel manicomio di Ca stel Pulci », testo tradotto, adattato e messo in scena da Mario Maranzana, che ne è anche l’interprete. Il Cam- l'elaborazione QUASI UN UOMO di Gabriel Cacho Millet Traduzione e adattamento di Mario Interpretato da Mario Maranzana Maranzana Una impalcatura, secchi di vernice, pennelli: lavori in corso nella sala del manicomio di Castel Pulci dove un gruppo di visitatori (che sono rappre sentati dal pubblico presente allo spet tacolo) sono ammessi a visitare il poeta Dino Campana. In realtà a Ca stel Pulci Campana fu ricoverato dal 1918 al 1932, anno della sua morte: Mario Maranzana (foto Ceccacci) pana di Cacho Millet e Maranzana è giunto ormai alla fine della sua avven tura: è ricoverato a Castel Pulci e non desidera del resto più uscirne, affrontare un mondo che ha sempre sentito ostile. In questo suo atteggia mento i ricordi di difficoltà e soprusi autentici si mescolano con i fantasmi del delirio di persecuzione: un povero pazzo e cioè, come appunto suggerisce il titolo, qualcosa meno di un uomo normale; ma anche, nello stesso tem po, un poeta e cioè qualcosa di più di un uomo qualsiasi. Maranzana so stiene per quasi due ore, con un bre ve intervallo, il lungo monologo-dia logo con il pubblico, a momenti luci do, a momenti quasi delirante, con tut ti gli sbalzi di umore, i sospetti e gli abbandoni, gli ammiccamenti del paz zo che nasconde però un fondo di lu cidità da cui emerge una pena acco rata: « Non c'è posto per i poeti », dice il protagonista subito prima che lo spettacolo si concluda, per nascondere poi la disperazione di queste parole dietro le smorfie ridicole della sua fol lia. Insomma il personaggio Campana nella scomposizione di una crisi con clusiva che ha finito per essere l'uni co punto fermo di una vita difficile: mentre ripropone ogni tanto l'espres sione (magari storpiata o balbettata o ripetuta fino al parossismo) di un'espe rienza poetica che non è mai mestiere ma sempre ispirazione e lirismo au tentici — anche quando può riuscire sgradevole in certe forzature —, emer gono a poco a poco i diversi momen ti di una vicenda umana sempre a! margine, sempre in bilico fra le raris sime occasioni di felicità ed i continui rifiuti di una società che lo sente estraneo. Naturalmente il caso Cam pana è anche lo specchio di un certo momento della nostra letteratura e del la nostra storia: non a caso infatti emergono nel racconto, fra la lucidità e la follia, personaggi come Rapini, Soffici, Marinetti, Cecchi e poi Marco ni, Giolitti, Vittorio Emanuele III e il Kaiser Guglielmo, le •> Giubbe Rosse », fatti come la prima guerra mondiale: non è un documento da poco, specie considerando l'ango lazione inconsueta eppure in qualche modo privilegiata. Crediamo però che all’autore ed all’interprete interessi piuttosto il caso umano, non tanto co me fatto personale quanto nell'interro gativo sul perché le domande, le an- goscie e le gioie che sono in ognuno di noi, in qualcuno piuttosto che in tutti gli altri si esprimano in poesia; sul perché di fronte a questo bagaglio comune (seppure più pesante per talu ni) qualcuno non trovi altra soluzione che rifugiarsi nella follia. Non è facile trovare risposta a questi interrogativi ma in effetti compito di uno spetta colo teatrale non è di trovare le rispo ste quanto di porre le domande: onere che lo spettacolo di Cacho Millet e di Maranzana ha certo assolto in pieno. luoghi come 0 / *e» . INTRICHI D'AMORE Hi Tnrnnatn Tasso Riduzione: Luciano Lucignani Regia: Attilio Corsini Interpreti: Viviana Toniolo, Adalberto Rossetti, Attilio Corsini, Luigi Pistil li, Pino Amendola, Anna Casalino, Fabio Maraschi, Claudio Dani, Maria Sciacca. Scene e costumi: Emanuele Luzzati e Eugenio Carlomagno. Musiche: Silvano Spadaccino L'ipotesi di un Tasso commediografo comico ha giustamente incuriosito tea tranti e uomini di cultura contempora nei: ne sono nate polemiche e discus sioni che, per il momento, non sono destinate a spegnersi. Lo scorso anno la pubblicazione del testo completo di ■< Intrichi d’amore », a cura di Enrico Malato, ha sollevato un acceso dibatti to che dal mondo accademico è scivo lato anche in quello più vasto della no stra vita culturale. Ma la questione non è così irrilevante come a qualcuno po trebbe apparire: una commedia come quella portata alla luce da Malato of fre una dimensione veramente Inedita della personalità tassiana. Ci si trova di fronte, prima di tutto, ad un'opera comica che, sullo scorcio di un tardo manierismo letterario, disegna quasi una nuova concezione della commedia, dove i personaggi vengono molto sti lizzati e le situazioni constatate come evento-tipo. « Intrichi d'amore » si pre sta a diverse letture: quella di Lucigna- ni-Corsini, che ha già avuto il suo batte simo scenico, è semplicemente una delle possibili. incidentalmente, che Ricorderemo, Romeo De Baggis della stessa comme dia tassiana ha dato una sua partico lare versione, componendo il testo in una dimensione di dialettica ideale con l’autore stesso. In effetti questa opera del Tasso si presenta come una specie di canovaccio pronto alle più diverse analisi formali, rese possibili da una struttura particolarmente mobile. La commedia del Cinquecento viene quasi ironizzata nei suoi stessi fondamenti culturali e formali, ridotta ad uno sche ma (o poco più) atto a suggerire possi / / <#> o f bilità nuove di intendere e agire nello ambito della commedia stessa. Lucignani ha sfrondato il testo tas siano di un certo numero di personaggi e situazioni, ha cercato di far leva sul meccanismo di fondo riscontrato in quel valore ludico che, al di là di ogni altra cosa, il testo proponeva. Su que sta strada è stato assecondato dal re gista, Attilio Corsini, che ha cercato di rendere il più scoperto possibile il meccanismo. Per questo gli attori avevano un ruolo ibrido, una via di mezzo tra una ironica partecipazione ai fatti e una distanza dagli stessi, opera ta del resto anche attraverso una de nuncia esplicita del ■< gioco scenico ». E' come dire che le varie situazioni vengono « giocate » un po' brechtiana mente, al tempo stesso vengono irri se per farle diventare il dato di una possibile festa. Niente viene preso sul serio in que sto - Intrichi d'amore »: i singoli perso naggi inseguono l'amore da cui sono beffati prima e alla fine protetti. In un alternarsi di equivoci continui, Amore, che sta in alto a osservare platonica mente [come Idea platonica, natural mente) le sorti dei vari innamorati, in sinua difficoltà di partecipare a senti menti corrisposti fino al limite del dramma. Ma questo non ci sarà perché è legge dell'Amore trovare il giusto spazio nei cuori e nelle sorti umane: così, per lo meno, aveva voluto il Ri- nascimento. Il tempo che ci separa da quel modo di intendere e vivere le vi cende d'amore deve aver suggerito al regista la dimensione-marionetta dei personaggi. Questi, in effetti, contano poco e ha più importanza il meccani smo a cui * sono soggetti ». Le scene di Luzzati e Carlomagno assecondano molto bene tipo « strutturalista » che è stata data a que sta rappresentazione; gli ambienti si costruiscono man mano che avvengono episodi diversi in situazioni diverse. Gli attori sono molto affiatati e questo rende efficace e piacevole lo spetta colo di cui l'unica perplessità è data dalle musiche di Silvano Spadaccino. l’impostazione di Una scena di « Intrichi d’amore » IL DIARIO DI ANNA FRANK di Frances Goodrich e Albert Hackett Regia: Giulio Bosetti Interpreti: Giulio Bosetti, Ginella Ber- tacchi, Valentina Montanari, Nada Malanima, Gastone Bartolucci, Mari na Bonfigli, Claudio Trionfi, Elisabet ta Bonino, Alfredo Piano, Enrico Ostermann. Scene e costumi: Sergio D’Osmo Musiche: Giancarlo Chiaramello Il « Diario » di Anna Frank venne pub blicato ad Amsterdam nel 1947. Poco dopo fu tradotto in molte lingue e, tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta, divenne uno dei documenti più umani che lasciava il secondo conflitto mon diale. Anche oggi si ritorna alle pagine di Anna con viva commozione e, tutto sommato, anche con sorpresa. Scopria mo che il mondo osservato dagli occhi acuti di quella adolescente ci riguarda in quanto è tutto ricavato dalla più con creta quotidianeità, composto nella tangibilità delle situazioni più ovvie e trite, reso luminoso da quello spirito precario che contraddistingue un'età che viviamo soprattutto nella corda del futuro. Le pagine del « Diario » di Anna hanno commosso tutte le generazioni venute dopo la guerra; per le genera zioni più anziane ha voluto dire soprat tutto la possibilità di ricordi meno cu pi, anche se ritagliati nel quadro di una tragedia molto più vasta. Le parole di Anna sembravano particolarmente adat te nel periodo dei disgeli, dopo la Guer ra fredda, quando nel mondo occiden tale circolava un grande bisogno di pa ce. Francamente oggi la realtà è molto cambiata, la guerra è un mostro sco perto che circola nell’aria in forme di verse e che trova un minimo comune denominatore in una sorta di vuoto delle coscienze, nella crisi di valori che ci ha travolti, nelle violenze che siamo costretti a osservare, a diversi livelli nei singoli paesi. Per questo motivo, a volte, si ha la sensazione che le osser vazioni che Anna Frank fa sugli uomi ni e i loro sentimenti siano parte di un mondo passato, e proviamo anche un certo imbarazzo. Ma è solo un momen to. Lentamente, infatti, si finisce per recuperare con una fetta di storia an che la vicenda eterna dell'oppressione e dell'emarginazione, rispecchiata nella vita e nella coscienza dell’uomo. Se nelle pagine del « Diario » si va a cercare la compiutezza estetica allora non ne traiamo grossi vantaggi. Il valo re letterario di quelle pagine — che, comunque, non è così assente — è un dato di poco conto: del resto non era nemmeno nelle intenzioni di chi lo scrisse. Tuttavia c’è nel modo con cui Anna registra e interpreta la realtà una sapienza descrittiva e una ricchezza di toni che ancora oggi ci colpiscono. E questo permette — naturalmente insie me all’abile adattamento scenico che ne hanno fatto Goodrich e Hackett — la partecipazione più attenta anche da parte di un pubblico, come, per esem pio, quello dei giovani di oggi, mutato nel gusto e nella sensibilità. Come molti ricorderanno, le vicende di cui ci parla Anna Frank avvengono tra il 15 giugno del '42 e il primo ago sto del '44, in una soffitta di Amster dam dove si sono rifugiate due fami glie, quella di Anna e quella dei Signo ri Van Daan: è il momento cruciale delle deportazioni di ebrei nei campi di concentramento nazista. Due lunghi an ni, in cui Anna annota, giorno per gior no, tutte le più piccole cose: il suo af fetto profondo per il padre, le incom prensioni con la madre, i teneri senti menti per Peter (il figlio dei Van Daan), i litigi dei signori Van Daan e così via. In quel microcosmo, dove tutto è stato contratto, emergono le più sottili im plicazioni dei rapporti tra un individuo e l'altro. Le cose e i fatti più minuti diventano oggetto di una attenzione spesso esasperata, tanto da dilatare, come in qualche caso, le dimensioni della situazione in cui si trovano i per sonaggi, nei confronti della società e del mondo in cui vivono. Nello spettacolo diretto da Bosetti è stato seguito con molta meticolosità il tracciato offerto dalla commedia di Goodrich e Hackett: la scansione in quadri raccordati dalla voce fuori cam po di Anna, una scenografia molto na turalistica che lascia intravvedere le stanzette di Peter, di Margot e dei si gnori Van Daan. Anna Frank è inter pretata da Nada Malanima: la cantante è riuscita a dare corpo con molta effi cacia ad un personaggio non facile, ha evitato ogni stuccosità (presenti, ad esempio, nella famosa versione cine matografica) mantenendo una coerenza degna di lode; se sia una brava attrice lo vedremo in seguito, in questo •< epi sodio » scenico, comunque, sembra in sostituibile. Tutti gli altri attori sono molto aderenti al personaggio che in terpretano: Giulio Bosetti è un misu rato Otto Frank, Ginella Bertacchi è una silenziosa Edith Frank, Margot è finemente tratteggiata da Valentina Montanari, brava Marina Bonfigli nel personaggio della Signora Van Daan e bravi anche Gastone Bartolucci (Signor Van Daan), Claudio Trionfi (Peter), Eli sabetta Bonino (Miep), Alfredo Piano (Signor Kraler) Enrico Ostermann (Dot tor Dussel). Giulio Bosetti e Nada ne « Il Diario di Anna Frank » (foto Coluzzi) all’inizio fa i conti, scrive sui registri del bilancio della casa: quello non è solo il suo destino, ma è il suo com pito, la necessità che da sempre guida la sua vita. Tutto il resto non è che vuota speranza, forse menzogna, già prima di farsi desiderio. Questa lettura di « Zio Vania » è ve ramente singolare. Operando nella struttura del testo cechoviano, Sepe ne ha tratto una coordinata del tutto perso nale senza, per questo, violentare la opera e nei contenuti e nei suoi dati formali. I personaggi vivono parallela- mente gli episodi della loro quotidiana esistenza, accomunati da uno stesso clima, dalla stessa fitta ombra che di grada verso un incessante buio. Qui l'avanguardia romana ha raggiunto i suoi risultati più significativi e questo ci pare di buon augurio per tutto il no stro teatro di ricerca. Quando la ricer ca è autentica anche i risultati danno i loro frutti, e siamo lontani da quelle approssimazioni che, per tanto tempo, hanno creato diffidenze nei confronti di quel teatro delle cantine da cui sem pre più spesso abbiamo delle piacevoli sorprese. E senza atteggiamenti aristo cratici, sia ben chiaro. ZIO VANIA di Anton Cechov Elaborazione di Giancarlo Sepe Regia: Giancarlo Sepe Interpreti: Sofia Amendolea, Gianni Camponeschi, Franco Cortese, Mas simo De Paolis, Nicola D'Eramo, Ro berta Rem, Valeria Sabel, Pino Tufil- laro. Scene e costumi: Umberto Bertacca Musiche originali: Arturo Annecchino Le piccole cose del nostro vivere quotidiano possono essere anche i fan tasmi della coscienza che si materializ zano in forme oscure dove aleggia la morte. Più che il semplice dramma del le illusioni lo « Zio Vania » proposto da Giancarlo Sepe riassume il senso di una fine irreparabile, che nasce già co me tale prima ancora di essere uno strano disegno del destino. Le imma gini, quelle che potevano esprimersi nei sogni, si riflettono in un ventaglio quasi infinito di specchi: lì scorre una vita che non è più, che non è nemmeno quando si vorrebbe come tale, che non sarà mai. Sono figure dei nostri pensieri che non riusciranno mai a prendere corpo, perché i pensieri nascono già morti, come semplice vaniloquio di una esi stenza impossibile. Allora diventano delle semplici « frasi », quasi dei suo ni o forse una specie di misteriosa musica. Zio Vania è reale [nel senso che ha una presenza più palpabile) solo quando afferma le proprie sconfitte, quando constata la sua desolazione e, soprattutto, quando si scopre irrime diabilmente solo e per sempre. Sonia, così, è un personaggio che dobbiamo guardare in primo piano: lei, già dal l'inizio, può mostrare la sua desolazio ne, e il suo silenzio potrebbe riassu mere il dolore di tutti. Lei è la nipote, uno stato cui sarebbe vano dare un pe so diverso da quello decretato dagli eventi; i bisbigli e i sussurri, la rab bia e il pianto, il silenzio e il buio stan no intorno alla sua figura come un na turale contrappunto e logica risposta. Sonia è davanti, di qua degli specchi, perché in lei tutto è concreto come la stessa presunta sconfitta in amore. Già ìi Zio Vania » di Cechov. Nella foto: Nicola d'Eramo, Roberta Rem e Franco Cortese (foto Tommaso Le Pera) ELETTRA di Hugo Von Hofmannsthal Regia: Beppe Menegatti Interpreti: Anita Laurenzi, Francesca Benedetti, Relda Ridoni, Roberto Sturno, Piero Caretto, Achille Belletti, Enrico Longo Doria, Claudia Ricatti, Elisiana Romagnoli, Franca Sciutto, Tiziana Bergamaschi, Rolanda Benac. Scene e costumi: Luisa Spinatelli Musiche: Sylvano Bussotti. E’ vero: c'è una riscoperta della cul tura mitteleuropea che rischia di tra sformarsi in un vero fenomeno di mo da. E' vero anche, tuttavia, che la for za di quella cultura, alla fine del secolo scorso e agli inizi di questo, è stata di proporzioni notevoli. Per molti aspetti si ha la sensazione che gli scrittori dell'area mitteleuropea fine secolo ab biano detto le cose più significative della letteratura, tanto che oggi si ha la quasi certezza che dopo di loro vi è stato un gran mare di ripetizione, di rimasticamento a vuoto. Gli studiosi più sensibili, ricollegandosi agli studi di qualche francofortista (Benjamin, per esempio), notano giustamente co me i risultati estetici degli scrittori di quella fertile area culturale, in qualche modo, mantengano a tutt'oggi una mi sura piuttosto definitiva, come di una cultura che faceva H bilancio di quasi tutti i movimenti che l’avevano prece duta. Gli esempi da fare sarebbero molti: in questo periodo corre, tra l'al tro, anche il centenario di Robert Wal- ser, rappresentante pressoché scono sciuto della cultura mitteleuropea, di cui egli ha esemplificato alcuni dei mo menti più alti. Per quanto riguarda Hofmannsthal, è in atto una vera e propria riscoperta, forse perfino eccessiva: Ronconi pre para « La Torre », Cobelli ha realizzato un film da « L'uomo difficile », opera che mettono in scena anche «Gli As sociati ». Ecco, poi, anche « L'Elettra », scoperta da Taglioni e portata in sce na nella regia di Menegatti. insie me a quello elisabettiano, uno dei prediletti di Hofmannsthal: vi ricercava lo spessore del mito, al di là della mi tologia, dove l’uomo veniva colto prima Il mondo classico è stato, delle sue « apparenze », nei motivi del suo esserci e del suo essere. L'occhio di Hofmannsthal è quello di un deca dente che risente anche delle scoperte del Dottor Freud. Questa « Elettra » è un lavoro molto affascinante; tipico teatro di parola che privilegia l'analisi delle motivazioni delle azioni piuttosto che le azioni medesime; opera in cui i chiaroscuri sono tenui perché tutto avviene all'oscuro, nell'oscurità. Insom nia, per mettere in scena questo la voro di Hofmannsthal bisognava comin ciare proprio da una misura di caratte re onirico, e su quella sviluppare gli aspetti che uno riteneva più opportuni (l'idea del destino, la vendetta come unico possibile atto d'amore, il ricordo come la sola dimensione dell'esistenza ecc.). Purtroppo nella regia di Beppe Benegatti è assente qualsiasi punto di vista preciso; è presente, Invece, un atteggiamento, che è la costante di questa rappresentazione: l'abbandono alle passioni compiuto con una specie di voluttà quasi mistica, insomma con movenze che potevamo trovare nel tea tro di mezzo secolo fa (quelle che mol ti definiscono come « dannunziane »)/ In questo disegno del regista sono sta ti coinvolti tutti gli attori, alcuni dei quali, come Anita Laurenzi e la brava Francesca Benedetti, sono quasi irrico noscibili. Nell'originale era previsto un atto unico, in questa versione di Me negatti l'opera è stata divisa in due tempi: questo non ha facilitato l'impat to dello spettatore con la rappresenta zione. Il dramma di Elettra, proposto da Hofmannsthal come doloroso ripie gamento della Donna su se stessa a soffocare malamente i propri incubi e i propri deliri, viene abbassato ai termi ni della fabula, dove quella si presup poneva scontata e volutamente « lonta na ». Così facendo, in questa messin scena si è evitato l’impatto diretto con l'autore: il testo in quella recitazione volutamente enfatica si segue molto difficilmente. Così accade che un dramma interes sante possa apparire come un’opera più che modesta, addirittura noiosa. Peccato. E' proprio il caso di dire che questa « Elettra » è, un po' per tutti — regista, interpreti ecc. — una di quelle memorabili occasioni perdute. IL SOGNO di August Strindberg Regia: Ramon Pareja Interpreti: Gisella Burinato, Bruna Ceal- ti, Giara Colosimo, Jorge Krimer, Vit torio Ripamonti. Costumi: Silvana Turchi Aiuto regia: Peppe Venditti Il Sogno di Strindberg è del 1902 e fa parte di una di quelle opere di « pas saggio » del grande autore svedese. La struttura di questa pièce teatrale è estremamente complessa: da un lato predomina il dato squisitamente metafi sico per cui le immagini prevalgono sul racconto, dall'altro lato i dati oggettivi si presentano come pura casualità a supporto di una linea unitaria delle emozioni e dei motivi di una ampia e articolata immaginazione. Ramon Pareja ha dato una sua particolare lettura di questa opera strindberghiana: ne ha messo in evidenza il dato corporeo del le immagini medesime per descrivere in forma « concreta » i dati di un incu bo. Assottigliando il dramma fino ai suoi dati essenziali è venuta fuori una coerenza espressiva singolare, resa an cor più palpabile dalla scelta di un uni co contesto « reale » in cui tutti i sin goli momenti vengono ricomposti. I per sonaggi sono tutti chiusi all'Interno di un mattatoio che fa da cornice alla lo ro emarginazione. Lì dentro assistiamo al rito che ora si compone e poi de compone, come in un continuo tenta tivo, sempre fallito, di purificazione. Da una parte la coppia anziana, l'unica coppia presente in questo dramma, che vive di un passato perduto nelle ceneri del presente, dall’altra parte la figura allucinata di un uomo che rincorre i suoi segreti che si sbriciolano tutti a contatto con la realtà, e poi le due fi gure femminili che, a turno, descrivono l'abisso delle possibilità e delle nega zioni. La regia di questo « Sogno » di Strindberg è molto suggestiva: ha una cadenza di tipo ■■ cinematografico » e in cede a « sequenze » ora parallele ora concentriche. L’interpretazione degli at tori è di livello altissimo: Gisella Bu rinato, Bruna Cealti, Clara Colosimo, Jorge Krimer e Vittorio Ripamonti ci offrono una prova di notevole livello. Tra le >> sequenze » più belle vanno ri cordate quella, tutta inventata, del ballo (un valzer viennese) dei due vecchi, quella della giovane che si abbandona ad una specie di bagno nel fango, co me a ritrovare una atavica misura uma na, liberandosi dalle più nere contami nazioni. Dire di questo spettacolo co me di un semplice esercizio stilistico è senz’altro poco. L’impostazione è sen za dubbio legata a una forma di sensi bilità concreta che si caratterizza in certe soluzioni di ritualismo « latino americano »: questo può destare alcune perplessità per chi, come noi occiden tali, è abituato ad una interpretazione dell’autore svedese in una chiave più metafisica e allusiva. In ogni caso SI tratta di un’ottica che, per la sua coe renza, non manca di fascino ed effi cacia. " Il sogno » di Strindberg. Nella foto: Jorge Krimer, Gisella Burinato, Bruna Cealti G r a d o z e r o di S iro A ngeli ad A. PERSONAGGI (in ordine di apparizione): Due farisei Giovanni Un soldato Un pubblicano Uno della folla Gesù (a 33 anni) Gesù (a 7 anni) Maria Maat Achab Eliezer Dina Agar Gesù (a 12 anni) Tre soldati Alagon Tentatore Giuseppe Giovanni (bambino) Pastore Lazzaro (bambino) Contadino Esdra Debora Sara Gesù (a 18 anni) Siro Angeli sentate: « Battaglione allievi » e « Assurdo ». Qui il fatto scopertamente autobiografico (una esperienza di vita milita re, il primo; e una intrecciata storia d’amore di ambiente universitario, il secondo) determina una accensione di rac conto e una intensità di espressione tali da far concludere che se Angeli parte indubbiamente da una, come si dice, esperienza vissuta, la sua facoltà di distacco, di memoria e di giudizio è così genuina, così connaturata da costituire, nel risultato artistico, vale a dire nella compiutezza dell’o pera, un elemento del tutto insolito di originalità persona le. E proprio su questa linea c’era da aspettarsi qualcosa di singolare dal nostro autore. Invece si può dire che tacque. Le vicende variamente avventurose della sua vita contribuirono, certo, a indurlo al silenzio, o per lo meno al « silenzio pubblico » che è poi quello che il teatro e il pubblico non perdonano special- mente se si potrae a lungo. Per questo le due riapparizioni del ’51 e del ’57, a Padova e ad Assisi, non servirono granché a riannodare e a dar continuità all’itinerario inter rotto del ’41. Benché chi gli è rimasto più vicino con attenzione di amico sappia che il suo itinerario autobiogra fico si sia arricchito non solo di preziosi Diari segreti, noti finora solo a lui, ma di alcune raccolte di poesie che costituiscono una continuazione di quel discorso teatrale che sembrava essersi interrotto senza un vero, plausibile perché. Si pensava però che avesse detto, oramai, dentro di sé: «teatro exit». Fu circa un anno fa allorché ebbi occasione di incon trarlo in quell’agghiacciante castello kafkiano che è il pa lazzo di cristallo della radiotelevisione romana, che Angeli mi parlò d’una nuova commedia che stava scrivendo, anzi completando: e mi sembrò, debbo dirlo, di respirare aria di miracolo. Anzi di doppio miracolo: uno, perché voleva dire che nei lunghi anni di permanenza al « castello » Angeli non s’era del tutto inaridito; e secondo, perché due antichi amici quali noi siamo sempre stati potevamo ritrovarci e riparlarci in quel luogo di cristallo ancora con l’antica vocazione di arte e con la stessa intima voce di amici. Poiché nel « castello di cristallo » non è che gli amici divengano a poco a poco nemici, il che sarebbe ancora un crudele fatto umano, ma gli amici diventano un giorno dopo l’altro sempre più sconosciuti, gente irriconoscibile con cui è quanto mai arduo comunicare. E’ la metamorfosi più orribile che possa accadere, e nel castello di cristallo accade purtroppo quasi abitualmente. Siro, nel suo silenzio, ne era rimasto esente, almeno in parte, tanto da poter ritornare al teatro così come aveva sempre fatto per la poesia. Presentare su Dramma il suo nuovissimo « Grado Ze ro » è per me un profondo piacere, e spero sia una rivela zione per i lettori e la gente di teatro cui parrà di incontra re un nuovo autore e non di riscoprire un drammaturgo che, già celebre, s’era poi votato volontariamente a un lungo silenzio. Dal tema delle radici della terra di origine, dal tema delle radici di sentimenti del cuore, siamo arrivati — si è molto camminato in salita, in montagna negli anni della solitudine! — ai temi supremi che fanno tremare: umanis simi e di vetta, nello stesso tempo. Vorrei dire temi dostoevskijani, se non temessi di metterci un po’ troppo del mio per il troppo amore che porto a Dostoevskij e per la grande speranza che nutro in questo ritorno di Siro Angeli. Comunque lo si prenda questo dramma, « Grado Zero », è una delle cose più sofferte e alte che il nostro ultimo teatro abbia prodotto. E’ un segno indiscutibile di perennità, e di giovinezza. Diego Fabbri S iro A n g e li: V e n t'a n n i d o p o Vent’anni esatti, se è vero che la sua ultima commedia rappresentata risale al 1957 : « Odore di terra », regia di Orazio Costa e Andrea Camilleri, interpreti Renato De Carmine e Elena Cotta. La commedia usciva vincitrice dal Concorso teatrale di Assisi governato da un uomo di pre stigio quale Raul Radice. Eppure la « militanza » di autore di Siro Angeli poteva considerarsi un fatto già del passato. Sei anni prima, ’51, a Padova, aveva presentato « Male di vivere », regia di De Bosio, protagonista Giulio Bosetti; e a quel momento erano già dieci anni che Angeli taceva. Dunque, un itinerario strano, insolito, direi abnorme per un uomo come lui dalla vocazione tenace e di una durevolezza di propositi, di convinzioni e di ispirazione che è raro incontrare. Nato come poeta, e poi come poeta teatrale, 1937, si consacra al silenzio nemmeno un lustro dopo, 1941, anno della rappresentazione di «Assurdo» al Teatro dell’Università di Roma. Alla fine della guerra si può dire che Angeli s’è già tratto in disparte, non sdegnato o sdegnoso, ma soltanto dignitoso con quella compostezza un po’ corrucciata che ha sempre avuto fin dalla giovinezza quando approdò a Roma dalla sua Carnia di origine. Io lo conobbi nel ’39 quando già godeva di una posizione di prestigio e di molta schietta considerazione. Ci vedemmo in uno degli incontri domenicali a casa di Ugo Betti, e fummo subito amici. Siro Angeli aveva al suo attivo (attivo in ogni senso: come fecondità creativa e come successi di critica e di pubblico) tre opere di teatro già rappresentate, la ben nota « trilogia »: « La casa », « Mio fratello il ciliegio » e « Dentro di noi », dove una rigorosa ed essenziale asprezza unita a una schiettezza quasi travolgente sembrarono a qualcuno venati di accenti « crepuscolari » Al d’Amico invece, che difendeva Betti e si estasiava a Cechov contro l’andazzo dominante, i lavori di Angeli sembrarono risonar giusti anche nella loro acerbità, fatti di buon, autentico metallo. Qualcun altro parlò di insistito autobiografismo quasi che la radice personale fosse motivo di scadimento di valore o di debolezza di fantasia e di struttura. Al contrario: e me ne avvidi subito, fin dalle opere successive che ebbi occasione non solo di leggere, ma di veder rappre 40 - IL DRAMMA QUADRO 1 cei. to. Deserto della Giudea, presso le rive del Giordano. Giovanni parla alla folla che si è raccolta intorno a lui. Giovanni: Fate penitenza, perché il regno dei cieli è vicino. Affrettatevi al battesimo di penitenza per la remissione dei peccati... i fariseo (Citando a memoria): «Voce di chi grida nel deserto: — Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri. Ogni valle sia colmata e ogni monte e collina abbassata; le vie storte diventino diritte e le aspre si appianino: e ognuno veda la salvezza di Dio... » il fariseo: Che costui gridi, e che ci troviamo nel deserto, non mi sembra da mettere in dubbio. Ma credi tu che il profeta Isaia, nelle parole che ha citato, intendesse riferirsi a lui? Giovanni: Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sot trarvi all’ira che vi sovrasta? Fate dunque frutti degni di penitenza e non mettetevi a dire « Abbiamo Abramo per padre », perché io vi dico che Dio può da queste stesse pietre suscitare figli ad Abramo... I fariseo: Questo è per noi farisei. E infatti pare che guardi da questa parte. li fariseo: Diciamo anche per i nostri colleghi saddu Giovanni: Ormai la scure è alla radice degli alberi, e ogni albero che non dia buon frutto sarà tagliato e gettato nel fuoco. uno della fo lla : Che dobbiamo dunque fare? Giovanni: Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha; e chi ha cibi faccia altrettanto. debbono fare quelli come me? UN pubblicano: Maestro, io sono un pubblicano. Cosa Giovanni: Non esigete più di quello che è stato ordina un SOLDATO: E io che sono un soldato? Giovanni: Astenetevi da ogni vessazione e da ogni frode, e accontentatevi del vostro soldo. i fariseo: Accostiamoci e interroghiamolo. il fariseo: Pensi che ci bastino le sue risposte per renderci conto di quello che succede? i fariseo: Ci sarà una ragione, se riesce a trascinarsi dietro tanti seguaci nel deserto. (Rivolgendosi a Giovanni) Possiamo sapere chi sei? Il Messia? Giovanni: No, io non sono il Cristo. il fariseo: Chi sei dunque? Elia? Giovanni: Non lo sono. i fariseo: Sei tu il profeta? GIOVANNI: No. il fariseo: Chi sei dunque? Che cosa riferiremo a coloro che ci hanno mandati qui da Gerusalemme? Che cosa dici di te stesso? Giovanni: Io sono la voce di colui che, come ha detto il profeta Isaia, grida nel deserto « Raddrizzate la via del Signore ». i fariseo: Perché dunque battezzi, se non sei il Cri sto, né Elia, né il profeta? GIOVANNI: Io vi battezzo nell’acqua; ma tra voi sta uno che non conoscete. Colui che verrà dopo di me, ma che è stato prima di me, e del quale io non sono degno di prostrarmi a sciogliere i legacci dei calzari. Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo e col fuoco. Egli ha in mano il vaglio

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Il dramma : rivista mensile di commedie di grande successo. - Torino : Grandi firme, 1925-1992.

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