L D A I MENSILE DELLO SPETTACOLO - ANNO L1V - N. 6-7 GIUGNO-LUGLIO 1978 - Lire 2.500 M M R A L o s p u m a n te ita lia n o : u n a s e c o la r e tr a d iz io n e Che i grandi spumanti italiani del metodo classico cham- penois possano ormai felicemente intonarsi alle più raffi nate espressioni dell'arte e della moda; che possano essere motivo di orgoglio per la produzione vinicola italiana e insieme elemento di richiamo turistico; tutto questo hanno confermato sia lo splendido successo che ha ottenuto a Bordighera la settimana dei ■ menù spumeggianti » sia il consenso del pari spumeggiante che hanno portato alla manifestazione la folla di ospiti, la presenza di tanti perso naggi famosi e l'adesione del Ministero del Turismo e del Ministero dell'Agricoltura che hanno premiato in questa1 occasione attraverso il suo direttore, l'Istituto per lo Spu mante Italiano Metodo Classico-Champenois. La manifestazione si è svolta anche con l’appoggio del famoso Salone Internazionale deH'Umorismo che ha allestito per l'occasione una eccezionale retrospettiva di disegni e composizioni dedicati al tema del bere, dell'alle gria, dell'amicizia. La mostra è stata allestita nei saloni del Grand Hotel del Mare dove pure per tutta la settimana sono state presentate a una vera folla di ospiti le ricette di alta cucina, opera dello chef Piero Cavallazzi abbinate agli spumanti classici che attraverso l'Istituto garantiscono la più severa selezione di qualità e di controllo. È stata la riprova che questi vini italiani possono reg gere qualsiasi confronto anche sul piano internazionale. La settimana di cui è stato infaticabile artefice il sig. COSTANTE PASQUINI, si è conclusa con un grande gala che si è aperto proprio nel salone della mostra retrospet tiva offerta dal salone — come ha detto il presidente sig.ra GIGIA PERFETTO in un breve, affettuoso saluto — proprio come omaggio all'iniziativa. E in questo lieto pro logo della serata è stato servito e applaudito il cocktail « Palme di Bordighera » ideato per l'occasione dal barman Elio Perotti di cui riportiamo la formula: 3/5 di Vodka Bleu, 2/5 di acquavite di pera, allungato con lo spumante classico. Seguiva, con la cena ancora una volta di altis simo livello gastronomico, la presentazione delle opere espo ste dai pittori: Tina Jacobs, Angelo Cattaneo, Romano Frea, Ivan Tumiatti, Raffaele Papa, e anche da parte di Vincenzo Buonassisi la presentazione del nuovo libro di PAOLO MOSCA « Il biondo ». Una sfilata di moda presentata con eccezionale bravura e grazia da MARIA GIOVANNA ELMI ha poi permesso di apprezzare le nuove, affascinanti crea zioni per la primavera-estate — anch'esse definite spumeg gianti — delle case: CARLA AROSIO, CASSERÀ, VESTRO, PRINCESS RASPANTI, nonché i luminosi gioielli dell’orafo LORENZO LORENZINI. Un imprevisto lietissimo ha offerto poi ANSELMO GE NOVESE, la rivelazione dell'ultimo festival di San Remo, eseguendo per gli ospiti la sua canzone « Solo tu », che tra l'altro ha vinto il referendum giornalistico indetto come controprova dello stesso festival. Al direttore dell'Istituto ANNA PESENTI, il sindaco di Bordighera dott. GIORGIO LAURA, ha infine consegnato una targa a nome del Ministro del Turismo On. DARIO ANTONIOZZI, e il vice Prefetto di Imperia dott. GABRIELE PERRECA ha consegnato a sua volta una coppa inviata dal Ministro dell'agricoltura On. GIOVANNI MA'RCORA. A. P. Per assicurare la serietà, anzi il rigore nella produ zione degli spumanti italiani classici secondo il metodo champenois, si è costituito nel 1975 uno speciale Istituto i cui aderenti si impegnano a osservare un regolamento ferreo e ad aprire le porte a qualsiasi dontrollo. All'Istituto Spumante Italiano Metodo Champenois aderiscono le case: Antinori, Calissano, Carpené, Malvolli, Cinzano, Contratto, Equipe 5, Ferrari, Fontanafredda, Gancia, La Versa. I signori Raffaele Papa e Dorangelo Rota, premiati per le Casserà, con Anna Pesenti e Maria Giovanna Elmi Due capi estivi in cotone della Vestro MENSILE DELLO SPETTACOLO - ANNO LIV - N. 6-7 GIU.-LUG. 1978 - Lire 2.500 SO M M ARIO _____________________________ 2 Tutto Spoleto giorno per giorno ANGELO LIBERTINI 4 Spoleto '78: prosa. Il piacere della scoperta SILVANA GAUDIO_______________ 6 De Lullo parla del suo « Gin Game » GUIDO NASTASI 7 Spoleto '78 lirica e concerti. Il melo _________________________________dramma al centro del Festival_____ ALBERTO TESTA 8 Spoleto '78: danza. Maratona sulla sce- _________________________________na, maratona per il pubblico______ ODOARDO BERTANI 10 Strindberg a Prato. Un sogno, un’auto- _________________________________biografia e qualcosa di più_______ Intervista a Mario Missiroli: l’inquietu DANTE CAPPELLETTI dine del buio Intervista a Enrico Job: Il tempo reso DANTE CAPPELLETTI _________________________________ in immagini_____________________ Intervista a Luciano Codignola: Il tea DANTE CAPPELLETTI tro contemporaneo parte da Strindberg LUCIANO CODIGNOLA___________ 34 Mimesi e tempo in ■< Verso Damasco » 38 Prosa recensioni (di O. Bertani, A. Li- 29 _________ bertini, M. Liverani, D. Cappelletti) 13 21 SILVANA GAUDIO______________ 49 A colloquio con Giuseppe Berto____ CARLO FUSCAGNI______________ 50 Enti lirici dopo il terremoto________ ITALO A. CHIUSANO 55 « Insieme nel buio » (presentazione di _________________________________D, Fabbri)______________________ FABIO STORELLI_______________ 61 L’eterno mito di Ulisse____________ EUGENIO DELLA VALLE__________62 « Approdo a Capo Nord .»__________ RAUL RADICE_________________ 75 La Scala di prima________________ PIERO LOTITO_________________ 77 La mostra dei duecento anni______ ____________________________ 80 Lirica recensioni (di G. Nastasi)____ ALBERTO TESTA________________84 Una ventata di gioia di vivere_____ ITALO A. CHIUSANO 87 Dialoghetto a ruota libera su Bertoli _______________________________ Brecht__________________________ FABIO STORELLI_______________ 89 Vagabondaggi teatrali: Arezzo______ UMBERTO BONETTI_____________ 91 Qui New York__________________ LUDOVICO INCISA______________93 Qui Londra_____________________ FRANCESCO CALLARI____________95 Ricordo di Lucio Ridenti___________ 97 Libri recensioni (di D. Cappelletti)__ 101 Notiziario Comitato di direzione: Odoardo Bertani, Diego Fabbri, Mario Guidotti, Maurizio Livera ni, Ugo Ronfani. Direttore editoriale: Carlo Fuscagni. Condirettore editoriale: Angelo Libertini. Responsabile: Diego Fabbri. Segreteria: Anna Maria Menna, Renata Fabbri. 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Casciano (Forlì) T u t t o S p o l e t o g i o r n o p e r g i o r n o , GIUGNO Ore 20.30 CENERENTOLA (Teatro Nuovo) 28 mercoledì Spettacolo di apertura Ore 12.00 CONCERTO DA CAMERA (Caio Melisso) Ore 21.00 COSI' FAN TUTTE oq □iovedì M ------------------------------------------------------------------------ . (Caio Melisso - Prima) 9re 12 00 CONCERTO DA CAMERA (Caio Melisso) Ore 18 00 K. UND K. MUSIK (Caio Melisso) Ore 19.00 ACCADEMIA ACKERMANN Ore 12.00 CONCERTO DA CAMERA (Caio Melisso) marlBU Ora 21.00 GIN GAME (Caio Melisso) Ore 20.30 CENERENTOLA (Teatro Nuovo) Ore 21.00 MARATONA ITALIANA DI DANZA i m Ore 21.30 BALLETTO INTERNACIONAL DE CARACAS (Teatro Romano - Prima) (Teatrino delle Sette) 30 venerdì martedì ) --------------------------------------------------------------------- — (Teatro Romano - P r a -------------------------------------------------------- ---------------- Ore 12 00 CONCERTO DA CAMERA (Caio Melisso) Ore 18 00 K. UND K. MUSIK (Caio Melisso) Ore 19.00 ACCADEMIA ACKERMANN (Teatrino delle Sette) MUSIK (Caio Melisso) mercoledì Ore 20 30 FALSTAFF (Teatro Nuovo - Prima) Ore 21.00 COSI' FAN TUTTE (Caio Melisso) Ore 21 30 BALLETTO INTERNACIONAL DE Romano) CARACAS (Teatro LUGLIO 1 sabato Ore 12.00 CONCERTO DA CAMERA (Caio Melisso) 5 Ore 18.00 K. UND K. Ore 19.00 ACCADEMIA ACKERMANN (Teatrino delle Sette - Prima) Ore 20.30 BALLET ROYAL DE WALLONIE (Teatro Nuovo - Prima) Ore 21.00 MARATONA ^ITALIANA DI DANZA Ore 21.00 GIN GAME (Caio Melisso - Prima) ____________________________________________ _ 2 .__ . domenica Qre 20 30 CENERENTOLA (Teatro N u o v o ) ---------------------------- " Melisso) 9'°vedi (Teatro Nuovo) Ore 12.00 CONCERTO DA CAMERA (Caio Melisso) 6 Ore 14.30 COSI' FAN TUTTE (Caio Ore 15.00 BALLET ROYAL DE WALLONIE Ore 18.00 K. UND K. MUSIK (Caio Melisso) Ore 19.00 ACCADEMIA ACKERMANN Ore 21.00 BUGIA DI MARTIN - L'UOVO (Basilica S. Eufemia - Prima) Ore 21.00 MARATONA ITALIANA DI DANZA (Teatro Romano) Ore 21.30 GIN GAME (Caio Melisso) (Teatrino delle Sette) ________________________________________________ 7 , .. lunedi Ore 12 00 CONCERTO DA CAMERA (Caio Melisso) Ore 17.00 CONCERTO CORALE (Duomo) Ore 18.00 K. UND K. MUSIK (Caio Melisso) Qre ig 0Q ACCADEMIA ACKERMANN (Teatrino delle Sette) „n(1 EMENTOLAq (Teatro Nwoj __________________ ___________ ___________________ 0re ^ QQ C0NCERT0 DA CAMERA (Caio Melisso) Ore 15.00 Ore 18 00 K. UND K. MUSIK (Calo Melisso) Ore 19.00 ACCADEMIA ACKERMANN RAUFT0ROYAL ^E^WALLONIE Ore 20.30 BALLCT ROYAL Uh WALLumt 0re 21 Q0 ^N GAME °Caio Melisso) rugía ni MARTIN/L’UOVO (S. Eufemia) ~ raí IFTTO INTERNACIONAL DE n ° re21'30 * ^ ACAS Teatro Romano) ________________________ _ _ _ Ore 12.00 CONCERTO DA CAMERA (Caio Melisso) Ore 15.00 BALLET ROYAL DE WALLONIE , Ore 15.30 BUGIA DI MARTIN/L UOVO (S. Eufemia) Ore 18.00 K. UND K. MUSIK (Calo Melisso) Ore 19.00 ACCADEMIA ACKERMANN 0re 2o.30 FALSTAFF (Teatro Nuovo) Ore 21.00 COSI’ FAN TUTTE (Caio Melisso) Ore 21.00 DUCHESSA D'AMALFI Ore 21.30 BALLETTO INTERNACIONAL DE (Teatrino delle Sette) (Chiesa S. Nicolò - Prima) CARACAS (Teatro Romano) (Teatro Nuovo) venerdì T u t t o S p o l e t o g i o r n o p e r g i o r n o Ore 12.00 CONCERTO DA CAMERA (Caio Melisso) Ore 15.00 BALLETTO MURRAY LOUIS (Teatro Nuovo) Ore 19.00 IN ALBIS (Teatrino delle Sette) . .. Ore 20.30 CENERENTOLA (Teatro Nuovo) 1 CV <\° 0° e> c<ò .A° direzione è affidata a Joseph Flummerfelt. Anche quest’anno, dunque, due opere di colui che ha inventato il Festival dei due mondi di Spoleto: Giancarlo Menotti. Un dovuto omaggio, mi sembra, a chi tanta par te ha avuto e continua ad avere nell’arte e nella cultura italiana. Per concludere due parole ancora sui concerti. Il Con- :erto in piazza comprenderà il Te Deum di Bruknet 2 VAlexander Newskij di Prokofiev diretti da Christian Badea; continueranno nella loro tradizione anche i con certi di mezzogiorno; i concerti pomeridiani dedicati alle musiche delle monarchie danubiane; i concerti corali e strumentali affidati al Westminster Choir diretto da Jo seph Flummerfelt; e per finire un concerto di musiche di autori contemporanei diretto da G. Luigi Gelmetti. Guido Nastasi Betsy Norden e Rolando Panerai in « Così fan tutte » di Mozart (foto De Furia) Anche quest’anno il Cartellone del Festival di Spoleto lascia grande spazio alla musica lirica. Il programma pre sentato nel corso di una conferenza stampa cui hanno partecipato i responsabili delle manifestazioni spoletine, avrà il seguente svolgimento. L’opera inaugurale scelta è La Cenerentola di Gioacchino Rossini: diretta da Sylvain Gambreling, con la regia e l’allestimento scenico di Jean- Marie Simon e i costumi di Claude Gastine. L’opera, co me leggiamo nella prefazione ad una nota edizione di scografica curata da Alberto Zedda, oscurò per molti anni la fama del Barbiere e si affievolì solo in tempi recenti per la difficoltà di trovare interpreti di livello e perché un pubblico intossicato di verismo fracassone non colse più il senso di quella musica sorvegliata, scambiando per indifferenza quello che era soltanto pudore e aristocrati co distacco. Una riscoperta continua, dunque, quella della Cenerentola destinata a successi sempre maggiori nell’am bito di una rivalutazione totale del melodramma. Seconda opera in programma Falstaff di Giuseppe Verdi: diretta da Giuseppe Patané, con la regia di Giulio Chazalettes, le scene e i costumi di Ulisse Santicchi. Dopo una vita trascorsa a contemplare il grande opera e il più classico melodramma italiano, Verdi conclude la sua pa rabola artistica con un’opera comica ove alle sottili e fre sche caratterizzazioni dei personaggi, si insinua un preciso ed attento uso degli strumenti musicali e dell’orchestra tutta. Un sorriso malinconico, quello di Falstaff, un dolce addio alla vita e al mondo, quello di Verdi. Si prevede, poi, una ripresa di quel Così fan tutte che già l’anno scorso ottenne uno strepitoso successo. La direzione d’orchestra è affidata a Lorenzo Ricci Muti, mentre regia, scene e costumi sono di Giorgio de Lullo. Penultimo dei capolavori morzartiani, Così fan tutte è forse l’opera del salisburghese più consona alla sensi bilità contemporanea, la chiave più sicura per penetrare le profonde ragioni etiche ed estetiche dell’artista. Le illu sioni sono sempre illusioni, vane apparenze, mistificazióni inutili: questo l’ammonimento di Don Alfonso e di Mo zart. Completano il programma spoletino due opere in un atto di Giancarlo Menotti: La bugia di Martin e L’uovo. Menotti stesso ne curerà la regìa, mentre la V % CK. % • (Codignola) a tenere insieme, rappresentando sempre se stesso, la materia, di cui egli è l'unica occasione e la sola ragione. Dentro tale allestimento, la pronuncia ha la scansione più lucida e rarefatta. Il regista Mario Missiroli ha trovato la chiave di lettura più propria. In umiltà totale verso il testo e accertati gli episodi necessari e la sintassi op- Glauco Mauri in « Verso Damasco » di Strindberg portuna, egli dipana la successione dei quadri, dando a ciascuno il carattere della necessità e della completezza. Non ci sono momenti secondari o di passaggio, e quindi, ciascuno è un problema e un risultato d’invenzione. Missi roli espone i contenuti dei testo con la diligenza più strenua, e con la massima finezza realizza le allusioni, i ritorni, il motivo dei ■■ doppi ». La vicenda dello Sconosciuto è calata in un clima di asciutta drammaticità e in toni di concreta, corposa liri cità. Il dettato è affascinante, per non essere mai la parola un disbrigo d'informazione ma un’espressione intrisa di storia e di intendimenti, e spesso felice della propria forma. Il regista ci offre uno Strindberg illuminato — nella distanziazione — sino in fondo, e interpretato con questa sinfonia teatrale, che compiutamente riflette quell'» In compiuta », che fu la sua vita ed è « Verso Damasco ». Allestimento meditato, diamantino, vigoroso, e con al meno un momento sommo nella impervia, lunga scena del Banchetto. Più tensione ci attendevamo, invece, dall’epi sodio dell’Asilo. Quanto al non previsto grido finale dello Sconosciuto calato nella bara, accettiamolo come un di dattico promemoria, come il segno di una vita, più che di un’opera, « aperta ». Ma, qui, avrei davvero voluto signifi cato il bisogno — non lo status — di riposo. Glauco Mauri è uno Sconosciuto di grande risalto nel- l'asciutezza di una macerata angoscia e di uno stupefatto itinerario dentro il proprio microcosmo; Anna Maria Guar- nieri dà un soffio vitale di squisita astrazione alla figura onnicomprensiva della Signora, Mario Valgoi scolpisce a tutto tondo una ipertrofica e terrificante figura di Medico; Quinto Parmeggiani si atteggia bene nelle quattro parti su di lui confluenti, Graziano Giusti è un estroso Tentatore; Giacomo Rizzo, Alessandro Esposito, Gianna Piaz, il Bruni si distinguono tra gli altri esecutori di un concerto esatto e minuzioso, estremamente armonioso, eloquente; superbo nella figuratività e tuttavia non estroverso, ma caratteriz zato da una concentrazione riflessiva, come se gli artefici fossero posseduti da questa esperienza con Strindberg. Odoardo Bertani / CO \0 / *2> ve> L ’ i n q u i e t u d i n e d e l b u i o Comincerei con una domanda su Verso Damasco, che potrebbe rappresentare un punto di arrivo del tuo lavoro, comunque un episodio importante. Vorrei sa pere perché hai scelto Strindberg, ma soprattutto per ché proprio quest’opera così complessa e, in fondo, poco rappresentabile? La scelta di Strindberg, in generale, non è nuova per me. Nel 74, per esempio, riuscii a portare in sce na Signorina Giulia. L’autore svedese risponde molto bene al mio tipo di interessi sul versante della cultura irrazionalistica della seconda metà dell’Ottocento, quel la cultura, cioè, che ha prodotto le più inquietanti analisi del mondo contemporaneo. Tutti sanno che il teatro italiano del dopoguerra si è orientato soprat tutto verso le scelte della linea razionalistica, che fan no capo a Brecht. Io ho battuto altre strade: da un lato l’avanguardia polacca (vedi Gombrowicz o Wit- kiewicz), dall’altro Strindberg, autore che consi dero basilare all’interno del teatro contemporaneo. Ancora non mi è capitato di rappresentare Beckett o Genêt, autori che rientrano nel quadro dei miei inte ressi e che, secondo me, spiegano i motivi più inte ressanti della scena di questa seconda metà di secolo. Per quanto riguarda Strindberg ho capito che dovevo compiere un lavoro a tappe. E così ho fatto. Come dicevo prima, ho cominciato con Signorina Giulia, ri tenendolo un passo fondamentale per affrontare il re sto dell’autore. Pur amando moltissimo il « teatro da camera » di Strindberg, mi pareva molto interessante, appena possibile, passare ad una delle grandi opere come Sogno o Verso Damasco (due opere che si pre sentano come « irrappresentabili ». La non-rappresen- tabilità di queste due opere mi sembrava il momento di maggiore interesse. Perché mi poneva sul tappete il problema del linguaggio, come problema cardine per qualsiasi forma di superamento della comunicazio ne scenica così come viene correntemente immaginata. La grande novità di Strindberg è nel linguaggio, nel porre in maniera eclatante la rottura con gli schemi e la concezione stessa del fare teatro. Verso Damasco è quasi una bibbia della « frantumazione », dell’esplo sione del concetto di palcoscenico, del concetto di rappresentabilità, tra la fine dell’Ottocento e primis simi anni del Novecento. Per chiunque viva attentamen te questi nostri anni e senta la necessità di una nuova forma di espressività teatrale, credo che non possa fare a meno di prendere in serio esame l’opera strind- berghiana che, per la novità e la forza, sta alla base di tutta l’evoluzione del linguaggio teatrale fino ad oggi- Vorrei che mi parlassi proprio della tua ricerca espressiva. Mi pare che tutto il tuo lavoro, per lo meno negli ultimi dieci anni, si caratterizzi all’interno di una cifra linguistica. Come confluisce tutto questo in una operazione come questa di Verso Damasco? Credo di aver lavorato all’interno di una linea uni taria. Dal momento che, nell’ultimo decennio, all’ini zio del ’68, mi sono avvicinato a Gombrowicz (vedi Il matrimonio) e Witkiewicz (vedi Commedia ripu gnante di una madre) mi sono orientato sul filone ir razionalistico della cultura europea, quello che, avan guardia o meno, mi poneva immediatamente il pro blema di nuove soluzioni linguistiche. Però, parallela- mente, ho affrontato anche i classici come Goldoni {La locandiera) o Gogol {L’ispettore generale) rivisi tandoli attraverso la coordinata del linguaggio. A mio avviso Verso Damasco che, tra l’altro, credo rappre senti una tappa « storica » del mio lavoro, raccoglie tutte le ricerche che ho compiute nel corso di questi ultimi dieci anni. La metodologia usata per portare in scena altri lavori — mi riferisco a Tartufo di Mo lière, A proposito di Liggio o al Don Giovanni — è stata sempre la medesima. Sui classici, infatti, ho com piuto una sorta di smontaggio degli elementi di cui sono composti, per giungere a una specie di ri montaggio tramite strumenti di natura diversa, che potevano essere di tipo psicanalitico o strutturali- stico, a seconda dei casi. In Verso Damasco conflui sce tutta quella parte eversiva che c’è stata nel lavoro compiuto negli spettacoli che ho fatto. Da un lato una linea « arbitraria », se così si può dire, intendendo l’assunzione di una materia in termini molto creativi; dall’altro lato (mi riferisco a La locandiera, L’ispettore generale, Zio Vanja) una specie di mania dell’analisi più accanita dei materiali. Allora Verso Damasco contemple rebbe _ due versanti di indagine che, pur avendo una caratteristica unitaria, si bipolarizza in due direzioni: l’una che considera aperte tutte le opere, anche le più chiuse e quindi agisce in termini molto creativi su quelle opere; l’altra che le considera invece dei ma teriali, estremamente delicati da analizzare e soprat tutto nei dati strutturali. Verso Damasco è un’opera non-rappresentabile e, al tempo stesso, impone una scelta di riduzione per portarlo in teatro, quindi impone anche un particolare rapporto critico. Il momento crea tivo e quello strutturale si pongono contemporaneamente come due elementi di base, costitutivi dell’opera strind- berghiana nelle sue necessità estetiche e rappresenta tive. Escludendo il connettivo narrativo, come è stato fatto, — ed era la fabula il tributo che Strindberg do veva pagare alla propria epoca — è rimasto in evi denza il criterio delle tematiche, con la necessità in trinseca di una nuova modellizzazione linguistica. Veniamo allora ad un altro problema che poneva la messinscena di Verso Damasco. Si tratta di tre drammi che vengono ridotti da Codignola, con la tua collaborazione, in un solo momento drammatico. In una operazione del genere, tu dici, hai individuato cer te caratteristiche strutturali che cercano di prevarica re, in qualche modo, la fabula, il racconto, per trarne dei temi. Questo tipo di lavoro, secondo te, come si colloca, oggi, nel teatro italiano? Siamo di fronte a un aspetto del problema tea tro abbastanza importante. La scena italiana ha cono sciuto, nel dopoguerra, un lavoro in gran parte di re stauro. E questo fino ad oggi, fino a tutto Strehler, che io considero grandissimo. Si è trattato di un grande lavoro di aggiornamento realizzato negli anni dell’im mediato dopoguerra e continuato fino a tutti gli anni Sessanta. Strehler e Visconti hanno compiuto una sor ta di aggiornamento del teatro italiano ai più articolati livelli europei. C’è stata, poi, la generazione di mezzo che ha visto alcuni, come Ronconi o me stesso, che hanno cominciato a lavorare su altri temi. Si è cercato di porsi in un rapporto più creativo con il testo teatra le, fino a giungere a delle forme di vera « arbitrarie tà » che, per quanto mi riguarda, trovo anche neces sarie. La mia generazione, o meglio quella in cui mi riconosco, non ha avuto dei meriti speciali o dei par ticolari vantaggi; semplicemente ha svolto un compito, quello cui storicamente eravamo designati a compiere in funzione delle diverse scelte che avevamo compiuto. Gli strumenti usati erano mutuati dalla cultura che vivevamo: lo strutturalismo, le scienze del linguaggio ecc. Mi chiedevi, comunque, come si collochi, oggi, l’operazione di Verso Damasco. Per me è significativa per diversi motivi. Primo: nel teatro maggiore', inten do il teatro « importante », i teatri Stabili, il grande palcoscenico, la grande udienza, è la prima volta che Strindberg si affaccia. E non viene proposto come un autore da sperimentare, ma come un autore ufficiale, di cui viene rappresentato uno dei suoi più alti mo menti espressivi. Secondo: mi pare importante che nel « teatro delle grandi istituzioni » si registri il fe nomeno della presenza di uno degli autori che, oltre il teatro di parola (che possiede per definizione), si pro ponga il modello di una gestualità di tipo drammatur gico al di là di quella di tipo fisico o legata al pro cedimento verbale. Poi ci sono altri tipi di considerazione. Portare Strindberg sulla scena in questo momento della no stra storia culturale è molto significativo. Nell’autore svedese ci sono interrogativi che, pur vecchi di ot- tant’anni, oggi rappresentano un test, una provoca zione intellettuale, un avvertimento in mezzo a una Anna Maria Guarnieri e Glauco Mauri in « Verso Damasco »> società in sfacelo. Il teatro di Strindberg è un teatro del « No! », del negativo, dell’inquietudine: pone, come in uno specchio, il buio davanti ai nostri occhi. Può essere sgradevole ma non si può fare a meno di prenderlo in considerazione, perché si tratta del no stro modo di essere, del nostro morire, in qualche mo do, della frantumazione in cui ci troviamo. Il teatro non deve toccare solo i momenti agiografici o « social- democratici » dell’ottimismo brechtiano, deve toccare anche le ombre nere della grande cultura europea, che sono state obliterate, non accudite, lasciate alle mino ranze culturali. Il nostro mondo è un mondo « nega tivo »: chi ha previsto questo e si è intriso della ne gatività, quando ha agito culturalmente è stato disat teso. Questo non è giusto e ci vuole poco, ormai, a capire perché. Anche per questo sono contento di aver realizzato Verso Damasco. Prima parlavo soltanto di problema di linguaggio, però si può fare anche un discorso di contenuto, o un discorso politico. E, del resto, non è una mia scoperta: nelle forme esteti che compiute Forma e Contenuto sono la stessa cosa. Non pensi, da quanto hai detto, che possa facil mente nascere una moda intorno a operazioni come quella strindherghiana? Certamente. Anche le mode verranno, come è suc- cesso sempre. Si scopre Strindberg, poi Hofmannsthal e così via. È stata una moda anche quella del reali smo e del misticismo brechtiano, non vedo perché non debba nascere anche una moda « del negativo ». Per quanto mi riguarda, anche se può sembrare pre suntuoso, un certo discorso di ricerca, quello in senso dissacrante, come operazione al « negativo » l’ho co minciata da dieci anni. E non solo per Gombrowicz, Witkiewicz o Copi, ma anche per l’uso che, a suo tempo, ho fatto di testi come quello di Sciascia. Se verrà una moda culturale di tipo irrazionalistico e ne gativo è anche comprensibile, perché questo spessore della cultura è stato disatteso dal ’45 a ieri. Molto spesso sei stato accusato di compiere delle operazioni discutibili. Del resto tu stesso hai detto di aver perseguito una tua linea che, alla radice conte neva una forte carica di provocazione e dissacrazio ne. Hai teso a infastidire, e ci sei riuscito al punto che qualcuno si è anche irritato, e non una sola volta. A questa gente tu cosa ti senti di dire? A queste persone direi che quando si prova fasti dio non si può restare al semplice piano della sensa zione, è meglio esercitare la mente verso un giudizio critico: allora puoi anche capire il motivo per cui una cosa non ti è gradita. Insomma io inviterei all’analisi. confrontare con un contesto il più vasto possibile. Al lora non vedo perché si debba parlare di scandalo quan do si passa a lavorare per un teatro Stabile o, comun que, per quello a gestione pubblica. La ricerca che uno compie è destinata ad una sua naturale evoluzione e, quindi anche a una sua maturazione. Diciamo piuttto- sto un’altro cosa: ci sono dei tipi di teatranti o di lin guaggi teatrali che sono nati per evolversi e per pren dere il posto di altri, che nel frattempo si sono esau riti. Ci sono, al contrario, altri tipi di esperienze che restano fatalmente chiuse in un’area stretta, dove si spengono. Un'altra scena di « Verso Damasco » Capita, però che molti non hanno il coraggio civile e intellettuale della posizione critica e quindi si fermano, comodamente, alla sensazione di fastidio. A quei critici che mi hanno trovato « fastidioso » direi semplicemen te di guardarsi intorno, di osservare il mondo, di ve dere se non era il caso che ci fosse qualcosa di fasti dioso nel far cultura nell’arco degli ultimi dieci (e forse anche più) anni. Certo, spesso io sono stato una tromba stonata — e deliberatamente — in un con certo molto ben accordato; ma si è visto che quell’ar- monioso concerto, intonato dalla cultura e società italia na, stava suonando in un golfo mistico, dove, sotto, i topi rodevano tutto. E quei topi, oggi, stanno nei sa lotti. Credo che la storia abbia dato più ragione a me che a loro. Io mi sono reso sempre conto del ruolo scomodo che stavo giocando, della provocazione che mi veniva imputata come un torto assoluto del mio operare. Ma io so che la mia provocazione è sempre stata autentica, nasceva da una precisa convinzione. E so anche che il disaccordo è necessario perché ser ve a crescere, a rendere più democratici i nostri rap porti e il modo di confrontarci. Quando si è tutti d’accordo io credo che c’è qualcosa che non va: la voglia di crescere e andare avanti potrebbe essersi fer mata. E questo è il peggiore di tutti i possibili mali. Ritieni che il tuo lavoro in teatro conosca una -pri ma fase di sperimentazione — non oso pronunciare il termine Avanguardia perché non si capisce più che cosa voglia dire — che poi, successivamente, si sia con giunta all’ufficialità? Come se, in sostanza, si potesse ro distinguere due momenti della tua presenza sulla scena: prima con un tipo di teatro Off, poi con un tipo di teatro legato al grande pubblico com’è quello degli Stabili? Credo di aver compiuto un lavoro che sia utile per il teatro italiano. La mia esperienza nella linea del l’underground c’è stata e mi sembrava necessaria. Pe rò tra me — vedi quando avevo la Compagnia del Porcospino — e quella che è stata definita la « Scuo la romana », l’avanguardia della fine degli anni ses santa e degli anni settanta, il teatro delle cantine, c’è una precisa linea di demarcazione. Ripeto la mia è la ’generazione di mezzo’, quella di Ronconi. Non è che non esista un filo sottile che leghi il mio lavoro a quello delle ’cantine’: sono dei rapporti di parentela che, comunque, hanno molti punti sfumati. Forse una li nea di congiunzione si può ritrovare tra il mio teatro, quello di Ronconi e quello di Bene. La « Scuola ro mana » è un fenomeno a sé, anche se ha collimato spes so con lo stesso clima culturale che ha influenzato an che me. A volte ci viene fatta l’accusa di essere stati teatranti che della sperimentazione hanno fatto un trampolino di lancio verso l’ufficialità. Io credo che questo discorso sia falso e culturalmente scorretto. Uno sperimenta perché ha bisogno di capire: fa un’ipotesi e poi la vuole verificare. Ma non si può tutta la vita fare delle ipotesi e basta. Il lavoro, in qualsiasi cam po, è fatto di obbiettivi, di certezze che uno vuole Da quello che dici mi pare di capire che fai una distinzione piuttosto precisa. Da una parte c’è una ricerca che si addentra non solo all’interno della cul tura teatrale e della dimensione scenica, ma anche all’interno di una cultura italiana (e del modo con cui, poi, può essere gestita). Questa ricerca si indirizza verso mete nuove, consapevole di dover superare tutto ciò che è esaurito e invecchia. Poi ci sarebbe un altro tipo di atteggiamento: la ricerca come fenomeno fine a se stesso, carente di un programma e una volontà di approfondimento. Questo secondo filone potrebbe es sere rappresentato dai fenomeni avanguardistici che si stanno spegnendo? I fatti parlano da soli. Come è vero che c’è e c’è stata una ricerca che dalla « cantina » è passata na turalmente al teatro « maggiore », è anche vero che esiste tutta una fetta di teatro che è nato nella « can tina » e lì sta trovando la sua fine. Io sono portato a credere che la cosiddetta Scuola romana, che pure ha conosciuto operazioni interessanti, tenda ad esau rirsi e non ad evolversi. Perché questo accade? Il ca rattere fondamentale della Scuola romana è stato, in generale, di tipo gestuale (anche se non solo gestuale). In questo suo modo di porsi la Scuola romana è come se avesse trovato una specie di scorciatoia espressiva; così ha ottenuto i risultati migliori sul massimo del l’ambiguità, ambiguità dovuta proprio all’uso dello stru mento gestuale (o figurativo) fatalmente ambiguo, per ché sfumato e in fondo senza un preciso referente. La parola non può essere cancellata perché contenuta dal gesto: ha una sua caratterizzazione comunicativa e un peso estetico che l’immagine non può, nel teatro, so stituire, a meno che non ci sia un progetto organico che della parola compia nuove traduzioni formali. Ora è successo che la Scuola romana non abbia avuto uno spessore di approfondimento, abbia giocato sul pretesto della « reinvenzione » senza voler andare ol tre il momento dello choc. Finita la provocazione, suc cede che tutto si spegne per mancanza di una ipotesi. Così il gusto dell’esperimento non ha creato il rigore di un lavoro che doveva essere pensato anche all’inter no di alcune funzioni. Non sono nati nuovi attori: dai teatrini sperimentali non escono giovani che sappiano recitare perché anche questo è stato considerato un elemento secondario, come se il teatro si dovesse con sumare in un eterno esperimento. Carmelo Bene è molto polemico con la scuola romana e tutte le avan guardie possibili: le disconosce come prodotti di un suo lavoro teatrale, ci si arrabbia e le accusa di vellei tarismo e cialtroneria. Può darsi che abbia anche ra gione. Per quanto mi riguarda io non sono, poi, così severo: non credo che si debba arrivare ad atteggia menti troppo apocalittici. Si: la Scuola romana può essere considerata anche finita, defunta per sempre, ha avuto — non so se ancora l’abbia — una sua fun zione. I facili trionfalismi che ne sono derivati sono dovuti a equivoci comprensibili: il pubblico di teatri ni piccolissimi sembrava tanto; il gesto assumeva, per sua stessa natura una possibilità di comunicativa mol- to più ampia della parola (e questo spiega perché il nostro teatro sperimentale ha fattto il giro del mon do); infine le alternative non erano poi così tante e quella dell’avanguardismo creava, per forza di cose, una certa euforia in una massa giovanile che preten deva il rovesciamento della vecchia cultura. C’è qualcuno che ha detto che tu sei un regista bravo, che fai dei buoni spettacoli che, però, una volta conclusi, non li segui più. È vero? Si è vero. Una volta che sono giunto alla fine del mio lavoro ho bisogno di staccarmene, di lasciarlo vi vere di vita propria. Se torno a rivedere lo spettacolo allora mi viene voglia di rimontarlo per cercare di migliorarlo. In effetti, una volta all’anno, io rimet to in prova i lavori che dirigo. Ma seguirli passo pas so, questo no, non ci riesco. Mi pare di aver letto che una volta, nel ’62, hai fatto un film tratto da un romanzo di Arbasino, La bella di Lodi. La tua esperienza cinematografica si fer ma lì? Non proprio. Di sceneggiature ne ho scritte diver se. Quello che mi è sempre mancato è la costanza di giungere alla realizzazione. Per cui ci sono stati, nel corso di questi anni, tantissimi progetti che non sono mai andati in porto. Io non ho pazienza; devo realiz zare subito una cosa perché è come se, seguendo i tempi lunghi (così a me sembrano) del cinema, avessi la sensazione di perdere tempo, di lasciare del lavoro che posso realizzare subito. Per questo il teatro credo che rimarrà la mia attività più o meno totale. Mi pare che tu lavori sempre con gli stessi attori. È così? Si. Gli attori sono coloro che ti realizzano le idee, sono la parte indispensabile dello spettacolo. Quando tu sei riuscito a creare un modello d’intesa si crea una base di lavoro molto più costruttiva. Per questo pre ferisco lavorare con le stesse persone e, possibilmente, fare in modo che diventino una équipe costante. Ma in Verso Damasco l’interprete dello Scono sciuto è Glauco Mauri, un attore che non ha mai la vorato con te. È vero. Però non riuscivo a trovare altri che lui che potesse sostenere quel ruolo. Ho pensato che un attore nuovo, con cui non avevo mai realizzato uno spettacolo, poteva rappresentare una difficoltà di rap porto, ma anche un motivo di tensione. E la tensione, per uno spettacolo come questo, mi era necessaria per ché mi portava ad essere costantemente vigile. Forse proprio questo mi ha spinto a scegliere Mauri che, co munque, è un attore di grandi qualità. Verso Damasco è uno spettacolo giocato all’interno di una scenografia che risulta determinante per tutta l’azione. Il lavoro di Job, quindi, mi sembra si inse- risca in modo essenziale all’interno di tutto il momento registico. Infatti è così. Il lavoro tra me e Job si è svolto parallelamente. Io volevo un luogo mentale che non visualizzasse il racconto ma che ne raccogliesse i motivi tematici. Incontrando Job gli dicevo che la scenogra fia doveva avere un carattere antropomorfico, come se si trattasse della testa di Strindberg stesso all’inter no del quale si agita il pensiero, entrano le immagini. Tutto doveva avvenire fuori dalla logica del tempo, cioè dentro se stesso e su se stesso. Ho parlato del tempo secondo il modello schizofrenico. In ogni caso, dicendo tutte queste cose, davo a Job delle indica zioni che volevano dire tutto e niente. Abbiamo la vorato convinti di intendere la stessa cosa. Così è suc cesso con Job, così è successo con Codignola. Credo che tutti e tre siamo convinti della grande importan za che ha Strindberg. Tutti e tre lo amiamo. Per que sto credo che il nostro lavoro sia stato a incastro co stante, anche se non ci siamo visti in continuazione. Evidentemente quello che conta è credere in ciò che si fa, allora ci si accorge che alcune scelte culturali ci accomunano. a cura di Dante Cappelletti M ARIO MISSIROL! RISPONDE AL « QUESTIONNAIRE PROUST » Qual’è il colmo della miseria? Dove le piacerebbe vivere? Il suo ideale di felicità terrestre? Per quali sbagli nutre più indulgenza? Quali sono gli eroi romanzeschi che preferisce? Qual’è il personaggio storico preferito? Le sue eroine nella vita reale? Le sue eroine nella finzione? Il suo pittore preferito? Il suo musicista preferito? Le qualità che preferisce nell’uomo? Le qualità che preferisce in una donna? La sua occupazione preferita? Chi le sarebbe piaciuto essere? La sua virtù preferita? Il tratto principale del mio carattere? Cosa apprezzo di più nei miei amici? Il mio difetto principale? Il mio sogno di felicità? Quale sarebbe la mia più grande disgrazia? Cosa vorrei essere? Il colore che preferisco? Il fiore che amo? L’uccello che preferisco? I miei autori preferiti in prosa? I miei poeti preferiti? I miei eroi nella vita reale? Le mie eroine nelle storie? I miei nomi preferiti? Che cosa detesto più di tutto? I caratteri storici che più disprezzi? L’azione militare che più ammiri? La riforma che più ammiri? II dono che vorrei ricevere dalla natura? Come mi piacerebbe morire? L’attuale stato del mio spirito? Il mio motto? Quella economica. Dove ho qualcosa da fare. Il successo. Per i miei. Tutti quelli di Conrad. Giulio Cesare. Non ne ho conosciute neanche una. Non mi piacciono le eroine. Ce ne sono tanti ... Chagall. Se devo dirne uno: Chopin. L’intelligenza. La perseveranza. L’amore e il lavoro. Napoleone. Lo stoicismo. Il coraggio morale. Proprio la lealtà. La disattenzione. Far poco e ricevere molto. I mali fisici. Vorrei essere me stesso. Verde. Non lo so non ne ho idea. I fiori sono come le opere d’arte, come la musica. Odio gli uccelli. È difficile dirlo... Genêt forse, Conrad, Celine, Dostoevski, Stendhal. Dante, Leopardi, ma anche Foscolo. Non ne conosco. Non me ne viene in mente nessuna. I nomi comuni. Quello che mi dà fastidio. Gli ingombranti, cioè coloro che pesano e non hanno una funzione. La guerra di Gallia di Cesare. Quella di Lutero. II massimo delle energie. Senza accorgermene. Frenetico. Non mi permetto di averne. Mario Missiroli è nato a Milano nel 1934. La sua è una famiglia borghese: il padre fa l’assicuratore ma è anche un or ganizzatore culturale; tra l’altro è stato direttore di teatri e Sovrintendente all’Arena di Verona. Missiroli compie studi regolari e, sin da piccolo, è avviato ad una educazione musicale (per molti anni studia pianoforte). Finito il liceo, interrompe all’ottavo anno il Conservatorio di musica. Nel ’54 viene a Roma dove si iscrive al corso di regia all’Accademia d’Arte drammatica. Ormai da molti anni la sua scelta era stata il teatro. Intanto si era iscritto all’Uni versità (Facoltà di Filosofia) ma interruppe presto gli studi per dedicarsi completamente al lavoro teatrale. Nel ’57 si era diplomato in regia e nel ’58 era già a Milano, accanto a Strehler e a Grassi. Nel ’58 Grassi invitò Missiroli a dirigere il Teatro Gerolami, a piazza Beccaria. Strehler lo prese come assistente alla regia l’anno successivo. Nel 1960 mise in scena Maria Brasca di Testori, allora agli esordi drammaturgici. Pro tagonista dello spettacolo era Franca Valeri. Questa prima regia « ufficiale » fu realizzata al Piccolo di Milano, dove ri mase ancora per un anno, alternando l’assistenza alla regia di Strehler con spettacoli diretti autonomamente. Nel ’61 tornò a Roma. Qui lavorò a molte sceneggiature con Zurlini e altri registi. Realizza un film (La bella di Lodi, dal romanzo di Arbasino, 1962) e compie molteplici espe rienze: fa l’attore, il regista, il mimo. In seguito mette in scena opere di Jonesco, dell’avanguar dia polacca, ecc. Si fa notare come regista originale e realizza spettacoli che vengono apprezzati dalla critica. Intenso è il lavoro di Missiroli nella lirica e, dal ’70, realizza spettacoli di un certo impegno per la televisione. Missiroli è considerato uno dei più significativi rappresentanti della regia italiana d’oggi. Tra le sue esperienze va ricordata quella della direzio ne del Teatro Universitario (teatro-scuola), insieme a Luciano Codignola, ad Urbino. REGISTA ASSISTENTE di Giorgio Strehler per le seguenti opere: « Opera da tre soldi » di Brecht « Sveijk nella seconda guerra mondiale » di Brecht « E1 nost Milan » di Bertolazzi « L’egoista » di Bertolazzi « Platonov » di Cechov « Visita della vecchia signora » di Diirrenmatt REGIE TEATRALI « Tristi amori », di Giacosa (Teatro Regionale Emiliano, 1958) « Maria Brasca », di Testori (Piccolo Teatro di Milano, i96°) «Tornate a Cristo con paura» (Piccolo Teatro di Milano, 1961) « Assassinio nella Cattedrale », di Eliot (Piccolo Teatro di Milano, 1963) « Oh papà, povero papà », di Kopit con Laura Adani e Scilla Gabel (Teatro La Cometa, Roma, 1964) « Giro d’Italia », di L. Codignola (Teatro La Fenice di Venezia), con Aldini (Festival Internazionale di Pro sa, 1965) « La Cantatrice calva », di Jonesco (Teatro Universitario di Urbino, 1966) « La famiglia di Wilcock » (Teatro Universitario di Urbi no, 1966) « A proposito della Mandragola », da Machiavelli (Teatro Universitario di Urbino, 1967) « Il matrimonio di Gombrovicz (Teatro Durini di Mila no - Teatro Centrale di Roma, 1968-69) « Un giorno nella morte di Joe Egg », di Nichols Comp. A. Lionello-Carla Gravina, 1969-70. « Commedia ripugnante di una madre », Comp. Porcospi no 2, con Paolo Bonacelli, 1969-70 « La controversia liparitana », di Leonardo Sciascia (Tea tro Sangenesio di Roma, 1970-71) « Èva Peron », di Copi, con A. Asti, Nestor Garai, Pina Cei (Teatro Circo), manifestazione del Premio Roma, 1970-71 « La locandiera », di Goldoni, con Anna Maria Guarnie- ri, 1971-72 « Molto rumore per nulla », di Shakespeare, con Anna Maria Guarnieri e Corrado Pani, 1972-73 « L’ispettore generale », di Gogol (Teatro Insieme, 1973- 1974) « A proposito di Liggio » (dagli Atti della Commissione Parlamentare antimafia. Adattamento Missiroli-Ser- monti) Teatro Insieme, 1973-74 « Signorina Giulia », di Strindberg, con Anna Maria Guar nieri (Coop. Teatro delle Arti, 1974-75) « L’eroe borghese », di Sterneheim, adattamento Missiro li. con Anna Maria Guarnieri e Umberto Orsini « Il Tartufo », di Molière, con Ugo Tognazzi e Ferruccio De Ceresa (Teatro di Roma, 1975-76) « Il processo », di Kafka, adattamento di Ripellino (Coo perativa Teatro Mobile), con Giulio Bosetti e Rosa De Lucia, 1975-76 « Il bagno», di Majakosky (Il Gruppo Teatro Stabile di Torino, 1976-77) «La religione del profitto», di Sermonti (Il Gruppo Tea tro Stabile di Torino, 1976-77) « Natham il saggio», di Lessing, con Roberto-Herlitzka (Il Gruppo Teatro Stabile di Torino, 1976-77) « L’eroe borghese », ripresa con (Teatro Stabile di Tori no), con Bonacelli, 1976-77 « Don Giovanni », di Molière, con Giulio Brogi e Paolo Bonacelli (Teatro Stabile di Torino, 1976-77) « Vestire gli ignudi », di Pirandello, con Anna Maria Guarnieri e Gabriele Ferzetti (Comp. Guarnieri-Fer- zetti, 1976-77) « Zio Vanja », di Cechov, con Gastone Moschin, Anna Maria Guarnieri, Giulio Brogi e Monica Guerritore Teatro Stabile di Torino, 1977-78) « Verso Damasco », di Strindberg, con Glauco Mauri, An na Maria Guarnieri, Parmeggiani; Comp. Valgoi-Giu- sti (Teatro Stabile di Torino, 1977-78) REGIE IN TELEVISIONE « Il ladro » di Bernstein, 1966 « L’attesa », di Hill, con Valdemarin e Dolfin, 1977 « Una storia equina », di Kischen, con G. Tedeschi e Ave Ninchi, 1967 « Ricorda con rabbia », di Osborne, con A.M. Guarnieri, I. Occhini, F. Giacbetti, 1968 «Tuono su Sycamore Street» (1970 « Le colonne della società », di Ibsen, con Moschin, For « Morte di Danton », di Biikner, con Moschin, 1972 « La trilogia della villeggiatura di Goldoni », con A.M. Guarnieri, Rigillo, Parmeggiani, F. Valeri, P. Cei, 1974 « Lo stratagemma dei Bellimbusti », di Fahrquar, con A.M. Guarnieri, G. Brogi, 1975 « Cesare e Cleopatra », di B. Shaw, con A.M. Guarnieri, M. Scaccia, 1976 tunato, Bonacelli, 1971 REGIE DI OPERE LIRICHE « Trovatore », (Teatro Comunale di Bologna), inaugura zione Stagione 1958, con Franco Corelli, Direttore M.o Capuana « Il matrimonio segreto », di Cimarosa (Teatro Massimo di Palermo, 1965), Direttore M.o Capuana « La cavalleria rusticana », di Mascagni (Terme di Cara- calla, Roma, 1966), Direttore Patané junior « Norma », (Teatro Massimo di Palermo, 1966), Diretto re A. Votto « Il matrimonio segreto », (Teatro Regio di Torino, 1966), Direttore M.o Capuana « Le devin village », di Rousseau (Piccola Scala, 1966), Direttore Gatto « Capuleti e Montecchi », di Bellini (Teatro dell’Opera di Roma, 1967), Direttore C. Abbado « Hallez-hop! », di Luciano Berio (Teatro Comunale di Bologna, 1968) « Partita a pugni », di V. Tosatti (Teatro Comunale di Bologna, 1968) « Hallez-hop! », di Luciano Berio (Teatro dell’Opera di Roma, 1968) « Il barbiere di Siviglia », con Marilyn Horne (Teatro Comunale di Firenze, 1968), Direttore M.o Sanzogno « La pietra del paragone » di Rossini (Piccola Scala, 1968), Direttore M.o Cusella « Il Cordovano », di Petrassi (Teatro Regio di Torino, 1968), Direttore M.o Rivoli « Il Cordovano », di Petrassi '(Teatro Massimo di Paler mo, 1969) « Un duello comico », di Paisiello (Teatro San Carlo di Napoli, 1967), Direttore M.o Rescigno « Morte di Danton », di Von Einem (Teatro dell’Opera di Roma, 1969-70) « Mavra », di Strawinskij (Teatra dell’Opera di Roma, 1970-71) « I Masnadieri », di Verdi (Teatro dell’Opera di Roma, 1972) « Linda di Chamonix », di Donizetti (Teatro dell’Opera di Roma, 1972) « Orfeo », di Casella (Teatro dell’Opera di Roma, 1973), Direttore Marcello Panni CABARET « Cabaret ’60 », con G. Cobelli « Cabaret ’61 », con G. Cobelli « Potentissima signora », con L. Betti, 1965 REGIE NEL CINEMA « La bella di Lodi », con Stefania Sandrelli (produzione Arco Film, 1963) SCENEGGIATURE « La bella di Lodi » (1963) « Cronaca familiare », regia di Zurlini, Leone d’Oro al Festival Cinematografico di Venezia, 1964 (produzio- zione Titanus) SCRITTI PUBBLICATI « Amate sponde », Commedia musicale scritta con Alber to Arbasino, già pubblicata da “Paragone” 1962, rie dita da Feltrinelli Ed. « Tornate a Cristo con paura », Composizione di laudi popolari umbre del ’200, per il dramma rappresentato a S. Ambrogio di Milano per conto del Piccolo Teatro. I l t e m p o r e s o i n i m m a g i n i \0 Nato a Genova il 21 giugno del 1920. Studi classici e ma turità classica a Genova, poi Scuola Normale a Pisa e infine laurea, nel 1945. Insieme con questi studi porta avanti studi musicali, di composizione. Per un primo periodo si dedica alla critica musicale, su riviste e quotidiani, poi nel 1949 ottiene una borsa di studio per la musica dall’UNESCO, grazie alla quale soggiorna due anni a Parigi, e in seguito anche a Lon dra e a Salisburgo. Intorno al 1952, orienta i propri interessi esclusivamente sul teatro drammatico moderno. Collabora a periodici come « Il Mondo », « Tempo presente », « Comunità », « Il ponte », « La fiera letteraria », « Il Dramma » e « Sipario ». Pubblica anche su riviste straniere, come i « Cahiers Rénault-Barrault » e « Tulane Drama review ». Altri soggiorni più o meno lunghi all’estero (Germania, Jugoslavia, Unione Sovietica e Stati Uni ti). Nel 1958 è invitato negli USA, ad Harvard, Mass., per uno stage, e per alcune conferenze sul teatro italiano. Torna ancora due volte negli Stati Uniti, prima per un giro di con ferenze in molte università americane, poi, nel 1968, come vi- siting professor, Chair of Italian Culture, all’università di Berkeley, California. Fino dal 1960 aveva cominciato anche un’attività di con sulenza editoriale, per Einaudi. Cura quindi per questo editore un certo numero di pubblicazioni (testi di Brecht, Wesker, De Filippo ed altri), e un’antologia di teatro contemporanea internazionale («Teatro uno»). Dirige, presso Einaudi, la Col lana di teatro. Incomincia anche a tradurre testi teatrali, specialmente da autori moderni, ma anche classici, che riunirà poi, in parte, nei due voli. « Materiali per il teatro ». Tutte le sue traduzioni sono utilizzate e verificate nello spettacolo sia in teatro che alla radio e alla televisione (eccetto una). Ma il suo interesse particolare resta il teatro moderno euro peo, da Ibsen in poi. Egli tenta una rilettura delle principali opere in chiave tematica e di « imagerie », senza trascurare pe rò l’aspetto della storia delle idee e della sociologia dello spet tacolo. Pubblica quindi una serie di saggi, a proposito dei qua li tenta di avviare un esame dei problemi della loro messinsce na oggi, sia in teatro che mediante altri mezzi. Questi saggi vertono su Ibsen, su Bùchner, Brecht, il teatro francese d’avan guardia (da Ionesco a Beckett), inglese (da Osborne a Pinter), americano (da Wilder a Albee) e cerca anche una rilettura di Pirandello e di De Filippo. Intanto, dal 1961, ha iniziato anche un’attività didattica, con un corso libero di storia del teatro, presso l’Università di Urbino. Questo corso diventa un regolare incarico, a partire dall’anno successivo, e dura tuttora. Nel frattempo ha vinto un concorso per assistente ordinario e, nel 1972, ha conse guito la Libera docenza in storia del teatro. I suoi corsi a Ur- bino hanno avuto come oggetto Ibsen, Shaw, Strindberg, Pi- randello, e il teatro dell’Illurninismo europeo. In genere orien- ta il suo lavoro didattico verso due direzioni: documentazione e lettura critica, anche avvalendosi di metodologie semiologiche, di testi italiani moderni, e in secondo luogo storia del teatro intesa come storia dello spettacolo. Inoltre ha anche tentato, con notevole successo di pubblico e di critica, un esperimento didattico nuovo, Teatro Scuola, dove un gruppo di studenti hanno realizzato per un biennio una serie di spettacoli clas sò affiancati da professionisti riconosciuti come il regista Mis- siroli e lo scenografo Luzzati. Quest attività gli procura una serie di inviti da università straniere, fra le quali la Sorbona, Utrecht, Gand, Bruxelles, Uppsala, Goteborg, Stoccolma. Con Strehler, è il solo italiano invitato al primo Symposium strindberghiano tenutosi nel 1973, e riservato a studiosi riconosciuti di Strindberg, e a registi dì fama internazionale. In quella occasione partecipa con un con tributo critico sui criteri di struttura drammatica di Strindberg e di Pirandello. Codignola svolge anche, da anni, una attività abbastanza regolare di scrittore per il teatro, la radio, la televisione. Le sue commedie sono state tutte pubblicate (Einaudi, Bompia- ni, ecc.) e messe in scena, ottenendo un notevole successo di critica, se non di pubblico, e premi importanti (Marzotto, Pi- randello, IDI), mentre una di queste costituì la novità ita liana al XXIX Festival Internazionale della Prosa presso la Biennale di ^ Venezia. Molta cura ha dedicato a trasposizioni per, la televisione e per la radio di classici, narrativi e non : <( L Odissea », « La morte di Danton » di Bùchner, alcune opere ci Strindberg, Ibsen, Shaw, ecc. Questi problemi, che egli dovette affrontare nella prassi, di trasporre per un altro mezzo opere originariamente concepite per il teatro e per la lettura, lo avviarono verso lo studio delle comunicazioni di massa. A questo proposito, ha pubblicato un saggio sul « Proble ma dell’utilizzazione televisiva del repertorio teatrale » (Roma, 1973) e dal 1972 ha assunto l’incarico di insegnamento di Teo rie e tecniche delle comunicazioni di massa, II cattedra, pres so il Magistero di Roma. In questo campo, il suo indirizzo è prevalentemente semiologico, anche se non trascura i dati so ciologici e iconologici del messaggio. Gli ultimi suoi lavori scientifici, a parte il saggio succitato, erano stati dedicati a Strindberg, del quale ha pubblicato edi zioni. nuove, dallo svedese, ampiamente corredate da apporti critici e da saggi, del « Teatro da camera », di « Inferno », e di « Verso Damasco ». Importante e di rilievo è l’attività di sceneggiatore, soprattutto per la televisione italiana. Ricordia mo qui : « Quaranta giorni di libertà », « Il lungo viaggio », « Il Marsigliese », « Il picciotto », « Il difensore », « Il circolo Pickwick ». Come si colloca l’operazione che hai fatto e stai facendo su Strindberg? Da alcuni anni, ormai, lavoro praticamente sol tanto intorno al teatro contemporaneo, da Ibsen in poi. Anzi, devo dire che si tratta di una scelta che mi porto dietro fin da quando ho cominciato ad occu parmi di teatro. C’è stato soltanto un periodo in cui mi sono dedicato al teatro delPIlluminismo europeo. Quando lavorai su Ibsen non trovai molte diffi coltà: era stato tradotto bene, c’erano poi i grandi la vori che su quell’autore avevano compiuto i francesi, insomma un insieme di materiali piuttosto completo. Tra il ’48 e il ’52 la mia attività la svolgevo soprat tutto in Francia. In quegli anni frequentavo Jonesco, Beckett, Adamov e altri: l’avanguardia di allora. Bec kett era un autore un pò chiuso, tuttavia con un pò di pazienza riuscivo a dargli una collocazione, anche perché ponevo molta attenzione a quanto stava scri vendo. Con Jonesco, invece, era tutto molto semplice: lui si apriva con facilità, parlava moltissimo, era mol to comunicativo. Con Adamov, al contrario, avevo un rapporto più difficile: c’erano in lui delle componen ti che mi sfuggivano, tuttavia mi rendevo conto che era presente nella sua opera una particolare inten zione artistica che, alla fine, ho capito che gli veniva da Strindberg. Adamov aveva curato per le Edizioni L’Arche almeno un volume delle opere di Strindberg: aveva fatto delle traduzioni in francese che davano un’immagine abbastanza personale dell’autore svedese. Mi chiesi quanto nella traduzione di Adamov c’era realmente Strindberg e quanto c’era, invece, della presenza adamoviana. Rilessi le traduzioni che in Ita lia erano state fatte su Strindberg e, alla fine, mi so no convinto che il drammaturgo svedese doveva esse re affrontato di petto, nella sua originalità sconcertan te e senza gli arbitri dei francesi. Le traduzioni italia ne, quando erano fedeli, erano scritte non in vista delle scene: scritte da persone che, svedesi, erano padrone della lingua madre ma non del dialogo italiano, o, vice versa da alcuni che conoscevano bene l’italiano e poco 10 svedese. D’altra parte, mi ero convinto che in Strind berg c’era la radice di tutto il teatro moderno. Lo ave vano considerato il padre dell’Espressionismo senza che lui fosse un espressionista. A lui si rifacevano un pò tutti i grandi: da Artaud a Kafka. Pensai che l’uni co modo per rispondere agli interrogativi che mi si ponevano era quello di studiarmi la lingua svedese. E così ho fatto. Come si è articolato il tuo lavoro di traduzione? Prima, come dicevo, ho studiato per anni quella lingua non facile che è lo svedese; sono andato in Svezia per imparare tutto quello che non avrei potuto capire stando da lontano. Poi mi sono legato con un gruppo di svedesi italianisti che mi garantivano tutto 11 rigore filologico e storico di un lavoro intorno alla lingua. Così si è maturata anche, dentro di me, l’idea di un lavoro che, per molti aspetti, dovevo compiere in équipe. È vero che mi interessa il teatro per quanto ha di necessità rappresentativa, di « teatralità », di rapporto con la scena, ma è anche vero che non potrei lavorare su un autore, tradurlo, senza avere delle cer tezze storiche e filologiche che, a mio avviso, devono stare alla base di qualsiasi attività creativa e valida mente risolta sul piano estetico. Su Strindberg, poi, c’è ancora da lavorare molto. Basti pensare che nella lingua originale non è stata pubblicata l’opera omnia in edizione critica. Della corrispondenza è stata pub blicata soltanto una parte, i Diari occulti sono usciti in edizione fotostatica, solo due mesi fa, molto altro materiale deve essere ancora sistemato. Di lavoro fi lologico, storico, critico intorno a Strindberg ce ne è da fare ancora moltissimo. Vorrei che mi parlassi del lavoro che hai compiuto per Verso Damasco. Per tradurre Verso Damasco ho avuto molte dif ficoltà. Credo di aver dovuto compiere una vera e propria invenzione critica, più che sul piano della fi lologia scandinava, su quello della cultura generale europea. Vi sono in questa trilogia di Strindberg una quantità incredibile di rimandi a situazioni e momenti culturali molto diversi e disparati. Per esempio, tanto per parlare di alcune delle mimesi comprese nell’ope ra, ho dovuto appurare le fonti cabalistiche cui si rifa ceva l’autore, quindi ho cercato di addentrarmi nella Kabbalah. Poi, dati i riferimenti, ho dovuto rileggermi la Bibbia che, pur conoscendo, mi è servita per capire altre intenzioni dell’autore. Insomma il lavoro che ho dovuto compiere per tradurre Verso Damasco è dura to diversi anni perché, come avrai capito, non si tratta soltanto di compiere delle operazioni più o meno « crea tive », quanto di sviluppare un discorso che renda ra gione del significato degli impliciti o espliciti riferi menti del teatro strindberghiano. Quindi il tuo lavoro di traduttore si è accoppiato, in qualche modo, a quello di drammaturgo, oltre che di studioso di storia del teatro. Traducendo Inferno, I Creditori, Il padre e molte altre opere di Strindberg (il teatro da camera e, di recente, Signorina Giulia) ho avuto davanti a me una precisa idea: il teatro italiano ha bisogno di un pro fondo rinnovamento. Da una parte occorre un netto superamento di tutta la corrente, ormai esangue, del naturalismo, dall’altra parte bisogna riconsegnare al teatro quanto lo caratterizza come modello autonomo di espressione, quadro attraverso cui sono necessari dei precisi criteri di dimensioni sceniche. Eliminare, perciò, televisione o altri mezzi di comunicazione ver boiconica. Lavorando su Ibsen, per esempio, mi sono accorto del crinale di congiunzione che aveva con Strind berg. Ma questo dato mi portava, come mi ha portato, più in là: ad appurare che, in fondo, Ibsen rappre senta il punto di arrivo di tutto il teatro tradizionale, di quel teatro cioè che genericamente possiamo defini re « aristotelico ». Da Strindberg parte veramente il teatro contemporaneo, tutta una nuova concezione del la scena, tutta la successiva drammaturgia. Allora tu ritieni che Strindberg, in qualche modo, rappresenti una vera svolta per la scena italiana? Intendiamoci: Strindberg l’aveva portato in scena anche Zacconi. Ma senza che vi fosse, in quel caso, la coscienza di compiere un’operazione di svecchiamento delle vecchie forme del teatro. La verità è che l’au tore svedese, letto correttamente, ci porta necessaria mente a una nuova concezione teatrale. In Italia, dal ’45 in poi, avevamo problemi di aggiornamento cultu rale, di ripresa di contatto col teatro moderno: vedi il peso che ha avuto nel dopoguerra la drammaturgia francese (Sartre, Camus ecc.) e quella americana (Mil ler, Williams ecc.). Inoltre c’è stato il ruolo, importan tissimo del resto, che, in quel senso, hanno svolto Vi sconti, da una parte, e Strehler dall’altra. Però i punti di forza di quella che, genericamente, definiamo « Avan guardia » in fondo si individuano in Brecht. E Brecht, con tutto il bene che ha portato nel teatro italiano, ha bloccato certe necessità di svecchiamento. Quindi in Italia ci sono stati due punti di forza: da un lato Brecht, dall’altro il teatro classico che, in Goldoni, ha avuto il principale rappresentante. Tutto quello che succedeva all’estero, dal « Living Theatre » ai giovani « Arrabbiati » inglesi, fino alle avanguardie tedesche, è stato misconosciuto per molto tempo, comunque è giunto molto in ritardo. Ora se tu pensi che il Living si propose, fin dalla fine degli anni quaranta, di mettere in scena Sonata di fantasmi di Strindberg, ti rendi conto che, a livello internazionale, c’era già chi aveva capito il valore della grande no vità scenica dell’autore svldese. Julian Beck e il suo gruppo non è mai riuscito in quell’intento, ma il suo lavoro successivo non può prescindere da quella intuizione. La verità è che da Strindberg nasce tutta una nuova concezione per cui la scena rifiuta tutto quanto era ritenuto sacro. In Verso Damasco ti trovi di fronte a un rebus: non sai con che tipo di teatro hai a che fare: c’è la pochade, la tragedia, lo stile comico, la farsa, il dramma borghese, il triangolo... Insomma, se non ti rassegni a cogliere tutte le novità che sono espresse, non capisci più niente. Quindi Strindberg è arrivato perché, prima o poi, doveva arrivare: è una necessità. Ma è un discorso che, nella sua vera portata, è abbastanza recente: dopo il successo di II padre (messo in scena da Lavia), de Il pellicano (realizzato dalla Mezzadri) e di Signorina Giulia (regia di Missiroli). Sono tutte messinscena de gli ultimi due o tre anni, coincidenti con il lavoro di alcuni rappresentanti dell’avanguardia. Sei d’accordo? Qui il discorso si fa complesso. Il problema delle avanguardie è più ampio di quanto non si possa im maginare. Intanto, mi pare che si debba riconoscere un atteggiamento di rottura con gli schemi tradizionali della scena da parte di alcuni che si sono posti davan ti al testo con intenti demistificatori. Non si trattava, intendiamoci, di sciupare quel testo, ma di portarlo ad uno stato di lettura nuova, in cui il motivo della proposta fosse autentico e critico. Penso a Carmelo Un momento suggestivo dello spettacolo Bene, a Missiroli e a Trionfo. Il loro è stato un lavoro fondamentale nel teatro italiano. E le cantine? Quelle sono venute dopo. Hanno rotto la sogge zione che esisteva nei confronti della parola illustre per arrivare alla seconda ondata, quella che ha igno rato la parola, anzi vi ha rinunciato sommergendo tut to quanto con le colonne sonore alte e terroristiche. Il tentativo delle cantine è stato quello di saltare il messaggio verbale per passare subito al messaggio vi sivo e basta. Giudicare questo movimento in maniera negativa, secondo me, è sbagliato, perché c’è stato un apporto di freschezza che è ingiusto ignorare. Ma allora perché le cantine stanno vivendo l’au tunno della loro stagione? Perché c’è tutta questa crisi del teatro di sperimentazione o avanguardia (non so più come chiamarlo) e pochi sono rimasti? Perché ogni movimento o scuola che dir si voglia, quando è intesa a creare una situazione di rinnova mento, necessariamente fa il suo tempo. Svolto il suo compito, magari muore. Ma da qui a negare che tutto quanto è stato inutile, mi pare un’esagerazione, una scorrettezza di giudizio. Le cantine a me sembrano po sitive fino a quando non diventano, come sono diven tate, « accademia dell’avanguardia »: allora svolgono 10 stesso ruolo di tutto il resto del teatro, che è ac cademico da molto tempo prima di loro: in quel caso un’Accademia vale l’altra. E del resto anche Brecht è diventato Accademia: per questo, oggi, è nato nei suoi confronti un atteggiamento di ribellione. Occorre sempre avere il coraggio di affrontare le cose per quel lo che sono, seriamente, senza paura di andare oltre 11 lecito. Se c’è una precisa volontà di capire, allora ne consegue la liceità della ricerca. Parlare per allusioni, affrontando la realtà con una specie di « moderazione », senza prendere posizione: ecco questo mi sembra il male peggiore. In fondo, poi, gran parte del teatro de gli anni Sessanta è, contrariamente a quanto si crede, un teatro reticente. Io non credo al teatro politico nella sua forma esplicita e aggressiva, ma non credo nemmeno al teatro che sta sempre «dalla parte giusta», quel teatro che di fronte ai grandi problemi della no stra cultura, della nostra storia, dei nostri conflitti è, ripeto, reticente. Ma cosa intendi, esattamente, per Teatro reticente? Reticente è il teatro di pura Accademia, di pura gestualità, di pure immagini, oppure il teatro di puri classici riproposti con la presunzione di presentarli tali e quali, come se sopra non fossero passati secoli di storia. Insomma, dal ’45 in poi siamo andati avanti senza mai prendere di petto i problemi, scantonandoli o dietro il discorso dell’aggiornamento, o di quello del linguaggio puro e semplice, considerato come « forma a sé », oppure del misticismo fasullo o del populismo più facile. Occorre, invece, andare oltre, vedere più lontano con coraggio e sapendo di dover prendere del le posizioni. Allora questo nuovo atteggiamento, questa fine di una certa reticenza, a che cosa è dovuta? È dovuta al fatto che siamo cresciuti. Quando i teatri Stabili hanno compiuto l’opera di aggiornamen to — che dovevano compiere, giustamente — hanno capito che dovevano cercare una nuova drammaturgia, che rispondesse ad una funzione di crescita culturale. Altrimenti gli Stabili diventano come i musei delle cere. Ma è un discorso che riguarda tanti altri casi della nostra scena. La cantina, per esempio, ridotta a « lanterna magica », la sperimentazione fine a se stes sa e così via. Il nuovo dà sempre fastidio, da qual siasi parte venga si tenta di combatterlo. Strindberg non era capito, lasciava a disagio, e così, proprio così, metteva il dito nella piaga. Magari veniva compreso da quattro gatti, ma quei quattro gatti si chiamavano Nietsche o Shaw. Solo l’Italia ha « scoperto » così tardi Strindberg? No, la tardiva scoperta di Strindberg riguarda il teatro internazionale. È vero, comunque, che la sua prima fortuna Strindberg l’ha avuta in Germania, co- me Ibsen ebbe il suo lancio, molto stranamente, in Inghilterra. Il ritardo della presenza di Strindberg sul la scena internazionale è dovuto al fatto che il suo teatro contiene un’immagine dell’uomo e del mondo che il buio in cui viviamo ci impone di riconoscere, ormai per necessità. È un poeta di una capacità rap presentativa eccezionale, di un virtuosismo verbale as solutamente inimmaginabile. Non ebbe successo per ché, all’epoca in cui visse, la gente che assisteva alle sue rappresentazioni teatrali si sentiva respinta e lo detestava. Ebbe, però, un grandissimo successo come romanziere, che anticipò, per molti aspetti, Joyce. Co munque ciò che doveva essere più sgradevole nel suo teatro era il modo con cui metteva in crisi la « gente per bene »: mostrava la distruzione dei rapporti fami liari, sociali, dell’ottimismo nel progresso e nell’avan zamento graduale dell’uomo. Verso Damasco, testo da molti giudicato irrapre sentabile, l’hai ridotto ad una misura narrativa di tre ore e mezza (nel suo insieme durerebbe nove o dieci ore). So che la storia (fabula) l’hai come emarginata, quindi hai ridotto il numero degli episodi. Mi pare che hai compiuto un’operazione di unificazione dei carat teri delle tre opere lasciando inalterato lo stile che le contraddistingue. Alcuni personaggi, ovviamente sono scomparsi. Lo Sconosciuto, protagonista, rimane intatto in tutta la sua dimensione poetico-espressiva? I veri personaggi in Verso Damasco sono tre: la donna, il primo marito e lo Sconosciuto. Ecco: que sti tre sono figure reali, tutti gli altri sono o secon dari o i doppi dei problemi di identità dello Scono sciuto. Queste identità-proiezioni investono la sfera dell’arte, della religione, della politica e così via. Ognu no di noi è sconosciuto a se stesso, ovviamente, ma questo oggi lo sappiamo perché la cultura moderna ci ha chiarito in tanti modi questo concetto. La nostra identità ha la sua certezza nel dato fisico, biologico, la sua incertezza nelle immagini che di noi abbiamo in noi stessi e gli altri hanno su di noi. Dello Sconosciuto si potevano evidenziare infiniti doppi, ma era neces sario ridurli ad alcuni. E così ho fatto: il doppio del pazzo Cesare, cioè l’ambiente intellettuale, artistico; il doppio del Mendicante, cioè l’ambiente culturale; il doppio del Confessore, cioè l’ambiente mistico, la tentazione religiosa... E così via. Intorno a questo « nodo di coscienza » gira tutto quanto, e spesso ciò vuol dire angoscia, disaffezione a se stessi, incubo... Un’ultima domanda: sei il maggiore traduttore di Strindberg che abbiamo, sei un drammaturgo, uno dei più stimati sceneggiatori, sei docente in Storia del teatro all’Università, sei un attento ricercatore scien tifico e così via. Ma in quali aspetti del tuo lavoro pensi di dare il meglio di te? Questo lo devono dire gli altri. Io so soltanto una cosa: la mia grande gioia, quella di ogni giorno, mi viene dallo scrivere. E non smetterei mai di farlo. a cura di Dante Cappelletti LUCIANO CODIGNOLA RISPONDE AL « QUESTIONNAIRE PROUST » Quale il colmo della miseria? Dove le piacerebbe vivere? Il suo ideale di felicità terrestre? Per quali sbagli nutre più indulgenza? Quali sono gli eroi romanzeschi che lei preferisce? Qual’è il personaggio storico preferito? Le sue eroine preferite nella vita reale? Il suo pittore preferito? Il suo musicista preferito? Le qualità che preferisco nell’uomo? Le qualità che preferisce nella donna? La sua occupazione preferita? Chi le sarebbe piaciuto essere? La sua virtù preferita? Il tratto principale del mio carattere? Cosa apprezzo di più nel mio carattere? Cosa apprezzo di più nei miei amici? Il mio difetto principale? Il mio sogno di felicità? Quale sarebbe la sua più grande disgrazia? Cosa vorrei essere? Il còtòre che preferisco? Il fiore che amo? L’uccello che preferisco? I miei autori preferiti in prosa? I miei poeti preferiti? I miei eroi nella vita reale? Le mie eroine nelle storie? I miei nomi preferiti? Che cosa detesto più di tutto? I caratteri storici che più disprezzo? L’azione militare che più ammiro? La riforma che più ammiro? II dono che vorrei ricevere dalla natura? Come mi piacerebbe morire? L’attuale stato del mio spirito? Il mio motto? La solitudine. Dove sto, a Roma. Scrivere. Per l’ingenuità Don Chisciotte. Machiavelli. Le educatrici di donne nuove e libere. Molte. La Regina della Notte del Flauto Magico. Rembrandt. Mozart. La serietà. La serietà. Scrivere. Molière. La lealtà. La pazienza. La lealtà. L’impazienza. Saper accettare. Essere solo. Quello che sono, ma meglio. Turchese. Nessuno. Il gabbiano. Dostoevskij. Petrarca. Quelli che non sanno di esserlo. La protagonista di Tom Jones, Nastenkà. I più comuni. La boria intellettuale. I truffatori in nome del popolo. Non mi interessa. La nuova pedagogia, se sarà davvero nuova. La salute fisica e morale. Vecchio e sano. Impegnato in progetti. « Ansioso mi avventuro ». M im e s i e te m p o in « V e rs o D a m a s c o » il tema della inchiodandola alla croce; Quando nel 1898 ricominciò a scrivere per il teatro, dopo la lunga parentesi della crisi di Inferno, August Strindberg mise mano a un’opera nuova rispetto alle pre cedenti, Verso Damasco. Pare che lo scrittore pensasse a qualcosa sul genere della Divina Commedia, o di Faust, o anche del Peer Gynt; a un certo punto, voleva rifarsi al Mago Merlino o a Roberto il Diavolo. Emerse però, alla fine, l’immagine di Saulo/Paolo, le cui Lettere l’an no precedente egli aveva riletto, a Parigi. Di qui il nuovo titolo. A Paolo peraltro egli si sentiva affine: nella vis polemica, nel malcerto equilibrio fra follìa e salute psi chica, e nel dono delle lingue che a suo modo credet te sempre di avere, e per il quale si sentì chiamato a predicare al di là di ogni confine di lingua, di cultura, di professione religiosa, di fede politica, di classe e di attività. Alle Lettere paoline in particolare Strindberg do veva un’immagine, che gli restò nella mente fino alla fi ne, quella del titolo di debito dell’umanità che Cristo annullò lotta dell’uomo contro le potenze e la soluzione della gran de enigma, cioè l’idea del peccato come condanna divi na; oltre alla giustificazione di un suo personale mo do di concepire il ruolo della donna, che gli aveva procurato la fama di misogino. Verso quale Damasco si stava avviando il suo Saulo? È probabile che, da artista quale egli era, neppure lui lo avesse chiaro in mente: lo avrebbe visto, strada facendo. E così faremo noi, evitando di attribuirgli un disegno perfettamente formato fin dall’inizio; anche per la buo na ragione che la Trilogia, quale oggi la conosciamo, fu scritta in tre momenti diversi. La prima parte, fra il gen naio e il marzo del ’98; la seconda, nell’estate seguente; la terza, nel 1901 (ma nel frattempo, Verso Damasco I era andato in scena, a Stoccolma, nel novembre del 1900 e Strindberg si era risposato una terza volta). Una cosa lo scrittore aveva in mente, sospendendo la narrazione di Inferno e iniziando Verso Damasco: riferire su quanto gli era successo durante gli ultimi cinque anni della sua esistenza. Dal punto di vista dei contenuti cioè, Inferno e Verso Damasco raccontano la medesima storia; e Inferno è il serbatoio di una quantità di temi, immagini, perso naggi, eccetera, che Verso Damasco porterà in scena. Sono certamente possibili più modi di leggere la Trilo- gia. Uno è quello di riferirlo alle vicende personali del l’autore, in senso stretto: l’uomo Strindberg, i suoi dram mi coniugali, le difficoltà professionali, lo stato di salute, eccetera. E molti vanno per questa strada, che qualche utilità la può sicuramente fornire, perché a qualcuno può interessare, per esempio, che la perizia tecnica sul proce dimento di fabbricazione dell’oro, di cui lo Sconosciuto si vanta, ebbe un effettivo riscontro nella vita dell’Au tore: il suo corrispondente era un illustre chimico fran cese ed effettivamente Strindberg trattò con lui di argo menti come la composizione dello zolfo (anche se non pro prio secondo i suoi desideri e le sue speranze). Può inte ressare a qualcuno sapere che il primo bacio Frida Uhi glielo diede a Berlino, in strada, e nelle circostanze de scritte dal dramma, a Capodanno 1893; oppure che il li bro proibito che la Signora legge nonostante il divieto fosse l’edizione tedesca del Plaidoyer, eccetera. Ma que ste notizie, in realtà, non aggiungono gran che a ciò che accade in scena. È dunque della vicenda dello Sconosciu to che ci occuperemo, senza troppo curarci di illuminarla con i fatti della biografia dell’Autore. Anche per il buon motivo che scrivendo egli seguiva altri scopi che non quelli autobiografici. E come nelle citazioni era disinvol to, quasi volesse cancellare le orme dietro di sé, così nel riferirsi alle proprie vicende mescolava volentieri, e non si può fargliene carico, fatti, luoghi, personaggi e circostanze. (.... ) Come intendere questo tempo soggettivo, che cosa op porgli? Non la convenzione del tempo scenico uniforme, che era proprio l’ostacolo contro cui si muoveva Strind berg. Tanto meno il tempo obiettivo, quello che i fisici cercano e non riescono a misurare. Neppure la ipotesi einsteiniana del tempo come quarta dimensione ci servi rebbe gran che. Tutto quello che possiamo apprendere sul tempo dai fisici è che del tempo si può dire soltanto che è irreversibile. Ma questo lo sapevamo già. Eppure, mentre Strindberg, a modo suo e per i propri fini, andava facendo la sua esperienza sul tempo scenico, altri, in altra sede, si ponevano lo stesso problema. È di quel periodo il concetto bergsoniano di durata, è di quel periodo l’inizio della psicoanalisi freudiana, tutta anco rata alla memoria e quindi al tempo; sono di quel periodo gli studi di antropologi come Frobenius, grazie al quale un Blaga elaborerà la sua tavola delle varie concezioni del tempo presso varie culture. È di quel periodo il rilancio nietschiano del mito dell’eterno ritorno. Lo stesso Marx aveva messo in questione la temporalità non dialettica, come ha mostrato Althusser. Oggi, dopo Minkowski, Bin- swanger, Foucault, nessuno è più disposto ad accettare, senza molte riserve, l’immagine continuo-lineare del tem po. Ma quando Strindberg scriveva la sua Trilogia, quella era l’ideologia dominante. E bisogna ammettere che Strind berg avesse veramente un sesto senso, fosse cioè in una straordinaria sintonia con la realtà più viva e più profon da del suo tempo, per porsi, anche soltanto in termini di drammaturgia, questo problema. E questa condizione di sintonia perfetta dovrebbe bastare per eliminare l’ipo tesi che lo svedese fosse uno schizofrenico, come ancora molti continuano a sospettare. Egli dunque è disposto a rischiare, e lo dice; ma que sto implica un controllo che non è quello d’un individuo veramente malato di mente. Si dirà che il suo gran di segno è la prova della sua follia. Su questo punto si po trebbe obiettare che esso prova forse la sua imprudenza, ma non la follia. Sul piano scientifico, è un’idea (non di ciamo un progetto) che non ha niente di stupefacente, i fisici moderni ci hanno proposto ben altri orizzonti. Sul piano sociologico, lo Sconosciuto semmai dà prova di note vole acume, anzi mette il dito sulla piaga. Un secolo fa gli scambi internazionali continuavano a usare l’oro, come strumento principale; e s’è visto che anche oggi, nono stante tutto, esso continua ad avere una sua funzione rile vante. Toccare il sistema capitalistico nella fabbricazione del suo mezzo principale di scambio non è un progetto insensato; insensato semmai è illudersi di riuscirci da solo. Siamo perciò inclini a credere allo Sconosciuto, quando dice in sostanza che egli sa di comportarsi come uno schi zoide e mima la schizoidia, ma schizoide non è. Schizofrenico, si dirà, Strindberg non lo era: ma il suo personaggio, lo Sconosciuto, è almeno uno schizoide. Effettivamente, chi volesse un quadro sintetico della sin tomatologia schizoide, per esempio secondo Minkowski, non dovrebbe far altro che osservare lo Sconosciuto. Co stui sembra soffrire di una turba mentale che investe pro prio la sua nozione del tempo. Per lui, il quadro sintetico del tempo è soggetto a disgregazione; il suo avvenire sem bra sbarrato. I suoi interessi si rivolgono tutti alla sfera spaziale, sono nulli rispetto al presente. Tipica dello schi zoide, ci ricorda Paci, è la Sorge, l’angoscia: e quale im magine più completa dell’angoscia, di questo Sconosciuto, che diventa il modello dell’arte dell’angoscia, l’espressio nismo? In lui, si è verificata, sembra, una specie di rot tura col mondo, un distacco dalla realtà che è grave, al punto da toccare l’autismo. Egli sembra patire di deliri di grandezza, e intanto sospende ogni attività in favore di uno stato di perpetua attesa, fonte di profondissima pena. Di più, sembra incapace di fruire del grande conforto del l’oblio, grazie al quale il male passato, così lento a scom parire nella coscienza, perseguita l’individuo, e subisce al lucinazioni della memoria, che percepisce come un pre sente eterno e indistruttibile. Tutti questi sono sintomi di schizoidia, secondo Minkowski, come lo sono l’idea che l’avvenire non possa che ripetere il passato, l’atteggiamen to antitetico assoluto, estremistico, nei confronti dell’am biente, e le allucinazioni (vede fantasmi, sente puzzo di cadaveri, fantastica di proprie tendenze omosessuali, ec cetera). Propria dello schizoide è la facoltà di rappresen tarsi d’un colpo tutta la propria vita come in un caleido scopio, e di rivivere in un istante tutti i propri errori, le proprie colpe, le speranze, i sentimenti: donde i rimorsi e gli slanci mistici. Tutto questo perché è stata intaccata una sua funzione vitale, quella che regge il nesso spazio temporale. C’è però una battuta dello Sconosciuto che contrasta questa ipotesi. A un certo punto egli dice che, per rea lizzare il suo gran disegno (fabbricare l’orò), è anche di sposto a « sdoppiare la sua personalità ». E difatti lo ve diamo procedere per tutta la Trilogia sul filo del rasoio di questo sdoppiamento, che avrà le sue origini letterarie in Hoffmann o in Poe, ma in psicologia si chiama appunto schizofrenia. Quale sia il motivo profondo che porta lo Sconosciuto su questa strada rischiosa, non è facile dire. Si intuisce invece perché l’Autore volesse metter in scena un perso naggio simile; e, al limite, perché Strindberg personalmen te abbia voluto mimare il comportamento schizoide, spin gendo fino agli estremi limiti uno sperimentalismo che poteva davvero portarlo ad un punto dal quale non c’è più ritorno. Naturalmente, non aspettiamoci dall’Autore una co scienza chiara di quello che andava facendo. Se andiamo a cercare le motivazioni che Strindberg dava del suo tea tro, a partire da questa Trilogia, c’imbatteremo nella anche troppo famosa « Avvertenza » a Sogno (1902), dove si spie ga tutto in chiave onirica: « L’Autore ha cercato, riallac ciandosi al suo precedente dramma onirico Verso Damasco, d’imitare la forma incoerente ma apparentemente logica del sogno. Tutto può accadere, tutto è possibile e verosi mile. Tempo e spazio non esistono più; partendo da una base reale insignificante, l’Autore dà via libera alla pro pria immaginazione, che tesse sempre nuove immagini: una mescolanza di ricordi, esperienze, fantasticherie libere, as surdità e improvvisazioni. I personaggi si scindono e si raddoppiano, si moltiplicano, svaniscono, si materializza no, si dissolvono, si ricostituiscono. Ma una coscienza sta sopra a tutti loro, quella di colui che sta sognando; per lui non ci sono segreti, né incoerenze, né scrupoli, né leg gi. Egli non giudica, non assolve, si limita a riferire... ». Questa « Avvertenza » fu scritta nel 1907, e ha tutta l’aria di una razionalizzazione a posteriori. Di essa ricor deremo soltanto due punti: « tempo e spazio non esisto no più »; e: « partendo da una base insignificante »; e vedremo perché. Comunque, di sogni Strindberg non parlava quando scriveva Verso Damasco I. C’è una sua lettera del marzo 1898 in cui egli dice questo, di Verso Damasco-, « Sì, è una poesia che ha dietro di sé una terribile semi-realtà. L’arte consiste nella composizione, nella ” Ripetizione ” di cui parla Kierkegaard; l’azione si svolge in direzione della scena dell’Asilo; lì arriva al ” culmine ” e poi ritor na indietro, pellegrinaggio, lavoro da rifare, consumazio ne; e ricomincia nello stesso punto in cui è finita o è iniziata. Forse non ti sei accorto che le scene si riavvol gono all’indietro, dall’Asilo in poi, che è la spina dor- sale del libro, che si racchiude avvolgendosi sopra l’azio ne. Come un serpente che si morde la coda. Le mie pro poste di cambiamento sono: la Signora non ha maledet to; ma mediante la lettura del libro ha mangiato dall’al bero della conoscenza; comincia a riflettere; perde l’in coscienza [Unbewusste, in tedesco], scopre la differenza fra il bene e il male, diventa disarmonica e quindi perde 10 charme che ha per lui. Io penso di separarli di buon accordo nell’ultima scena, che deve prolungarsi di più. Devo separarli? Sì! Poiché la loro relazione è brutta; però come strumeento di tortura reciproca, potrebbero continuarla insieme. E poi ho anche degli altri dettagli! 11 suo lavoro all’uncinetto deve terminare. La battuta: Mi dica un po’ di lei, ora!, dev’esser ripresa, quando si sveglia e dice lei stessa: Ora potremmo parlare un po’ di me. Il suo svegliarsi al senso religioso dopo la terri bile scenata dal Medico, quando viene a sapere che è stato in manicomio, si deve vedere all’ultima scena, e in un maggiore annientamento. Eccetera, eccetera ».27 Come si vede, qui si parla di semirealtà, ma non di sogno. Dobbiamo quindi scartare la spiegazione onirica, anche perché alla fine non spiega molto. Se Sogno, se la Trilogia, se i drammi da camera, fossero puri e semplici racconti di contenuti di altrettanti sogni, propriamente parlando, non ci affascinerebbero come continuano a fa re. C’è differenza fra arte e sogno, e l’Autore, abbiamo visto, parla di arte. Bisogna dunque riproporsi il problema dello scopo di questa imitazione della schizoidia; e cioè, tornando a Ver so Damasco I, accettare per buone le notizie che di sé dà lo Sconosciuto alla Signora, e che lei prende sul se rio. Egli nega di aver avuto mai delle visioni, dice che la storia delle silfidi era soltanto una storia; e lei rispon de definendolo un’anima in pena che giuoca ,con la morte. Parlando poi con sua madre, dirà che non si tratta d’un malato di mente, ma di un uomo « capace di tutto il male e di tutto il bene, nella stessa giornata ». E qui sembrerebbe d’aver detto tutto, senonché sen tiamo che tutto non è stato detto, che restano ancora parecchie zone d’ombra nella lettura di quest’opera. Se non riusciremo a illuminarle, almeno un poco, non po tremo renderci ragione dello strano fascino che essa tut tora emana. Certo, potremmo mutuare dai semiotici la nozione di transcodificazione, e spiegare la novità abbastanza stre pitosa di Verso Damasco con la applicazione delle con venzioni d’un genere (la féerie), a un altro genere (il dram ma serio). Con che, però, non avremo detto molto. Potremmo allora porci dei problemi sul, piano della vicenda, del récit. Che significa, che lo Sconosciuto, en trando in convento, prenda il nome di Giovanni, « colui che predicava nel deserto »? E’ difficile dimenticare che Strindberg si chiamava appunto Giovanni Augusto, e que sto starebbe a significare una riaffermazione della sua pre cedente identità (sempre che sia possibile, qui, stabilire un nesso così stretto fra lo Sconosciuto e l’Autore). Ma poi, Giovanni non si limitava soltanto a predicare nel deserto, era il profeta d’un messia. Qual è il messia di cui questo Giovanni sarà il profeta? Cristo? O Ismaele? Perché è chiaro che se fosse Ismaele, come in fondo sug gerisce un recente studio, la conclusione finale della Tri logia sarebbe precisamente l’opposto di quella che sem- bra, cioè lo Sconosciuto finirebbe per riconfermare la pro pria missione demoniaca, di tentatore. I dubbi aumentano anche se si esamina la vicenda servendosi delle più diffuse nozioni che la psicoanalisi fornisce. Questo personaggio, il cui principale tormento è quello di non riuscire a stabilire un rapporto soddisfa cente con la donna, confesserà che nella donna ha sem pre cercato soltanto la madre, anzi sua madre, la sua madre carnale. Ma di questa sua madre, che a un certo punto gli appare davanti, dice che ha un seno da gigan- tessa. L’espressione è perlomeno insolita. Se però la col leghiamo con l’invito che gli ripete il Mendicante (« se gui la carreggiata »), e con la decisione finale di rientrare nel grembo della Chiesa, tutto si spiega. La donna, che era connotata come un’Eva/Pandora, ma anche come una Madre, è la Chiesa. Ma l’adulto che vuol rientrare nel grembo della madre, si sa, significa semplicemente che vuol morire. Né dobbiamo stupircene, lo Sconosciuto ha ripetuto continuamente di aver tentazioni suicide. La stes sa nozione di sogno, se vogliamo darle il peso che l’« Av vertenza » a Sogno enuncia, acquista ora un’altra colora zione emotiva. È insieme ricerca della vita (« l’uomo tra scorre quasi metà della sua vita nel grembo materno: quando dorme », diceva Freud), e della morte. L’ambi valenza del gesto non potrebbe esser più esplicita. È un’ambivalenza, però, fino a un certo punto, perché è molto colorata di nero. Verso Damasco con una mano ci dà e con l’altra ci toglie la speranza di rientrare nella fede che confortò e guidò tante generazioni dietro di noi. A parole, nel messaggio esplicito, ci dice che questo ri torno è possibile, anzi ce lo presenta come inevitabile, e ce ne mostra tutte le dolcezze, le musiche più toccanti del gregoriano, le parole della Bibbia, eccetera. E ci vuol far credere che quell’entrare nella tomba sia un ri nascere a nuova vita. Ma a fatti, e la struttura ha le sue ragioni che il cuore non sempre conosce, ci dice proprio il contrario. Ma prima della struttura, c’è la pura e semplice cre dibilità. In fatto di fede, ci si consentirà di utilizzare un criterio, quello della serietà, il criterio di Kierkegaard, del quale si potrà dire tutto ma non che non abbia vis suto una profonda esperienza religiosa. Ebbene, la critica alla cultura occidentale, espressa nella scena dei quadri, non è seria, a dir poco. È almeno disinvolto citare di Voltaire uno scritto minore d’occasione, una traduzione dalla Bibbia, per sostenere che da vecchio egli si con vertì a un dolce scetticismo. Fra l’altro, la notizia è ine satta, perché quando scriveva quei versi, Voltaire aveva ancora da vivere venti anni, e che anni. Ma soprattutto, non è serio, checché se ne dica, il modo con cui lo Sco nosciuto tenta le vie del Signore, chiamiamole così. Gli manca tutto, dell’impegno su questa strada. Egli interroga, cita, disputa, contesta, e arriva anche a piangere però ignora la meditazione, la contemplazione, la preghiera. Anche sul piano dell’informazione, si accontenta di poco, come Strindberg quando credeva di farsi iniziare alla Qabbalà da giornalisti come E. Levi, o da mediocri scrit tori come Coppée. Ma Strindberg, è certo, a suo modo serio lo era, quin di bisogna pensare che egli abbia voluto, in Verso Da masco, descrivere la stessa esperienza tragicomica d’un im possibile ritorno a Cristo, già narrata in Inferno, e negli stessi termini di umorismo metafisico. Il sogno, il sonno, che lo Sconosciuto va ricercando, l’aveva già definito Go ya, il sonno della ragione. Poiché della « ragione » ottocen tesca, delle ragioni « dell’uomo intelligente del XIX se- colo », come si esprime il Mendicante, lo Sconosciuto non può, evidentemente, accontentarsi. Si limita perciò a di chiararne il fallimento. Peraltro si arriva alle stesse conclusioni se si riprende in esame l’innovazione drammatica nella struttura, la di slocazione nel nesso spazio-temporale. Questa dislocazione sconvolge la nozione corrente del tempo, quella lineare continua. Ma questa nozione è alla base della prospettiva cristiana. Il concetto di pienezza dei tempi presuppone un tempo che si svolge e a un certo punto finisce. « Noi lo sappiamo », dice Paolo « tutta la creazione fino ad oggi soffre delle doglie del parto ». Ma quando il parto sarà compiuto, quando Cristo sarà tornato, il tempo sarà fi nito. Ora la Trilogia dice, a chi lo vuol leggere, esatta mente il contrario. Lo Sconosciuto, dunque, si rivela un grande mimo, che coram populo mima l’impossibilità di tornare a Cristo. L’impresa è doppiamente empia, e nel significato,- e nella stessa nozione di mimesi: « presso di Dio, ogni finzione è adulterio », dice Tertulliano; e Lattanzio aveva detto che « sono da evitarsi tutti gli spettacoli »; e non già perché i giochi del circo erano degenerati, ma proprio in quanto spettacoli, l’unico spettacolo cristiano immaginabile essen do quello della gloria di Dio. L’idea stessa di mimare al cunché, dunque, è peccaminosa. Non è quindi possibile credere alla conversione dello Sconosciuto, che rimarrà col suo vecchio io. E con questo sconcertante personaggio Strindberg avrà illustrato la con dizione dell’« uomo intelligente del XIX secolo », cioè la nostra condizione. Non a caso, di questo ]edermann l’autore non si cura troppo, alla fine, di raccontarci la ve ra storia: è perché Ognuno, appunto, vive oggi la stessa storia, e sono tutte uguali e tutte irrilevanti. Luciano Codignola (Per gentile concessione dell'editore Adelphi) -O \ \ \ - % % Croce, il quale iscriveva Kleist, — no velle o drammi siano le sue tesissime prove —, nel novero di coloro che rimangono nel girone della « non poe sia ». « Die Zerbrochener Krug », ossia la brocca spezzata in una notte di gran trambusto nella casa della vedova Mar ta Hull, e, per essere più rispettosi della topografia, nella camera della sua figliola, dal pericoloso nome di Èva. A diradare le tenebre avvilup panti quei confusi accadimenti giove rà, ma non agevolmente, il processo che si terrà il giorno appresso, e avente per oggetto identificazione del colpevole e risarcimento dei danni: la denuncia è della erompente vedova Marta, eh# non manca di accusare il fidanzato della figlia, Rupert, onesto giovane sì, ma umanamente sospet tabile anche di ciò che un velo mali zioso ricopre. E invece, anche per l'aiuto offerto da un inatteso ispettore di giustizia, venuto a controilare l’am ministrazione della medesima in que sto piccolo centro dei Paesi Bassi do ve, correndo il diciassettesimo seco lo, la vicenda s'immagina svolgersi, scopriremo infine che l'incursore not turno era Adamo (le parti bibliche s’invertono), proprio il giudice, rovi nosamente espulso dall'arrivo di Ru pert, con molto scompiglio, una broc ca in frantumi e ferite lacero-contuse. Si comprenderà come un processo, che ha il colpevole in chi lo celebra, è ricco in potenza di una grande ca rica di interesse. Questa bellissima trovata è arricchita da una quantità di elementi, che appartengono all'arte dello scrivere. E, per non espungere dallo spirito kleistiano, così passionale, così tormentato, così dominato da pensieri estremi (come quello, così a lungo elaborato, del suicidio, che egli in effetti compirà, dopo aver ucciso la consenziente amica, a 34 anni), di remo, che tutta l'aura villereccia del l'ambiente, dell’azione e dei personag gi non conduce ad un bozzetto reali stico. Se Giovanni Necco parla di « co micità un po' volgare e virulenta », di « ilarità teutonica crassa », il Gabetti fa soggetto proprio la poesia come risolvimento di una risata « che tutto travolge... e se — non nella sola fi gura di Adamo — deforma violentemen te la comicità in caricatura, in tal modo tuttavia crea il tipo della com media germanica... ». Il che ci soddi sfa sul piano della collocazione sto rica, ma lascia qualche voglia di scru tare più addentro a quella che forse non è soltanto « uno scherzo deli zioso ». Non si tratta soltanto di <■ le pidezza e di umorismo », come scrisse Goethe, che non gradiva Kleist e tut tavia gli mise in scena, a Weimar, nel 1808, proprio « La brocca rotta ». Deve, anzitutto, turbarci, in questa commedia scritta per scommessa — aneddoto ininfluente sull'arte, — il protagonista: si chiama Adamo, dun que uomo, ma tale è di notte, perché di giorno è, per se stesso e per tutti, il Giudice. Un personaggio doppio, un volto e la maschera, le inclinazioni e l’ufficio. Un personaggio diviso e per tanto sostituito drammaticamente. Ep- poi, la sua figura: quel piede edipico (scherzoso riferimento all’eroe tragico, pure implicato in una inchiesta a sor presa), non privo di simbolismo, in quanto segna una diversità ed una magagna che non si vorrebbe far scor gere; un piede equino che imparenta, infine, col Demonio. Un piede che non lo impaccerà nel la fuga finale, quando si discopre un intero paesaggio (« Guardate, per fa vore, come corre su e giù per i colli il giudice Adamo, calpestando il cam- LA BROCCA ROTTA di Heinrich von Kleist Traduzione: Giorgio Pressburger con la collaborazione di Claudio Magris. Regia: Giorgio Pressburger. Interpreti: Paolo Bonacelli, Marina Dol- fin, Lino Savorani, Franco Jesurum, Francesca Muzio, Renato Cecchetto, Carlo Gori, Maria Grazia Bon, Ric cardo Canali. Scene e costumi: Sergio D'Osmo. Musiche: Giampaolo Coral. Allestimento del Teatro Stabile di Trieste. La coerenza culturale delle scelte del Teatro Stabile di Trieste ha trovato puntuale verifica con l'ultimo allesti mento, che ha appena terminato le repliche al Politeama « Rossetti », fe licemente pervenuto al primo secolo di vita. È quivi andata in scena « La brocca rotta », commedia di Heinrich von Kleist. I miei registri annotano dell'autore, ■< il più solitario tra i poeti tedeschi », come dice il suo fine studioso Ru dolph Gundolf, e un genio assoluto, soltanto uno spettacolo in lingua ger manica: un favoloso « Principe di Ham burg », con la regia di Peter Stein, dato a Firenze, quando la città si cre deva sede degna di una rassegna in ternazionale di teatro e di dover fare cultura. Ignoto dunque, Kleist alla sce na italiana, ancorché piuttosto folta di nomi, a cominciare da quello di Croce, per finire con quelli di Leone Traverso e di Ladislao Mittner, la bibliografia, corposa di valenti germanisti. Un motivo di più, allora, per una cronaca che sottolinei, a prescindere dalla qualità della rappresentazione, l’importanza di un nome e di una... novità; con la quale corroborare una opinione contraria a quella del citato po appena arato... »), reintegrato nel suoi compiti — dovrà andare a chie derla a Utrect. Si preannuncia una serie di dilatoria di udienze, una giu stizia che, allontanandosi dai luoghi, si fa astratta. Ma ciò che più convince di un'im possibile riduttività al quadro realisti co è l’esame strutturale e linguistico, l'annotazione di tutti i rimandi, le esi tazioni, le allusioni, i doppi significati, ciascuno convergente sulla figura di Adamo, che par bene essere stato, sotto il profilo psicologico, come sot to quello etico — il contrario tra l'es sere e il dover essere — il problema, risolto con magnifico virtuosismo, per lo scrittore. Adamo non è Tartufo, è una figura enigmatica; vi si accenna un'impotenza e un divario. Perché non si è sposato? Perché sono così incerti e sfuggenti le donne (vedi quello con Marta, il suo esserci e non esserci)? Ed eccolo costretto a processarsi, copertamen te, per ciò inventando una seconda realtà. E venga pure la psicanalisi a spie gare certi comportamenti e certe pa role di Adamo: Kleist non lo sapeva, ma ci donava tutto un materiale, onde si garantisce lo spessore d'una com media e la problematica grandezza di un personaggio fin qui sfuggito, un personaggio ordito di silenzio e di buio, che la parola e la luce sgomi i suoi rapporti con nano. Adamo è meno simpatico di quanto taluno ha sostenuto: può es sere uno specchio, attenzione. Dove si aggira oggi, ancora senza mantello, quello « zoppo del diavolo »? Giorgio Pressburger, che ha nuova mente tradotto, in collaborazione con Claudio Magris, il testo, lo mette poi in scena con una cifra parzialmente intellettualistica, se vogliamo, ma con disegno stilistico di qualità, grazie ad un esercizio di rigore segnico e di fantasia surreale. Era fondamentale premessa di una proposta spettacola re la scelta dell'ambientazione. Ora, Sergio D'Osmo fornisce una splendida saia di castello principesco, e con ciò stabilisce subito una spazio dialettico e anacronistico perché così l’azione è spostata in avanti, di due secoli, e diventa contemporanea a Kleist — non solo sul piano temporale, ma con suggestioni diverse, sino ad un’eco di biografismo, ove si tenga conto del problema grave che il sesso costituì per lo scrittore — e dà corpo anche ad un richiamo al sociale; perché non si legge « La brocca rotta » senza pensare al « Revisore » di Gogol, che ne è, per così dire, il punto d'arrivo. Del resto, Pressburger fa precedere la rappresentazione del testo da un prologo, da una conversazione in sa lotto con musica, dove la figura di Kleist viene messa a fuoco con le sue stesse parole. Introduzione splendida figurativamente e musicalmente, e acuta nella sintesi. La temperie di questa scena severa e pensosa filtra dallo svolgimento della commedia, tutta trattenuta negli effetti e solle vata verso lo stile della commedia « alta », con notevole rinuncia ai teu tonici sali. Come ribadiscono gli in terventi di un coro, che ripropone, accanto al recitato, alcuni momenti di intensità emozionale, secondo una garbatissima invenzione polifonica di Giampaolo Coral; siamo tra il coro greco e quello dell’opera. La cosa è un po' bizzarra, ma pur piacevolis sima. L’insieme si rassoda nell’interpreta zione tutta godibile che di Adamo of fre Paolo Bonacelli, un giudice debole e viscido, arrogante e infantile, impo store e arrancante, giocoliere e tem poreggiatore costruito con perizia cri tica assai sottile. L’attore è bravissi mo, e col tocco dell’originalità, nel tenere insieme, nel rappezzare conti nuamente un Adamo, che via via per de i pezzi (è una nota d’affanno che potrebbe anche essere accentuata, usando del mantello, eccetera) di se stesso. Di eccellente, vibrante linea il giudice Walter di Lino Savorani; precisa e limpida Marina Dolfin; ef ficace (ma non avrei puntato verso Sganarello) Franco Jesurum, il cancel liere; corretti Francesca Muzio (Eva), Renato Cecchetto (Ruprecht e gli altri). Una scena d'insieme de « La bracca rotta » di Von Kleist, regia Giorgio Pressburger, scene e costumi Sergio D'Osmo bito un rude confronto e una volontà presto definita. Il caso: Laura, sposata a Giorgio da sette anni, ha ripreso gusto alla pit tura e si reca all'alba in un parco romano; lo fa da pochi giorni, quando viene assalita da un bruto e offesa. Il marito ha una prima reazione di ripudio, poi, essendo il loro un amore di sensi accesi, le si riaccosta; si ri prende, una stagione ancora più ar dente, ma, trascorso un mese, Laura s’avvede di recar frutto. Adesso Gior gio non può ammettere d'esser fatto padre di un figlio non suo. Laura riu scirà a piegarlo, dopo aspro combat timento, persuadendolo che ella ha voluto ■■ salvare l'amore », e nient’al- tro. Su Pirandello si scribacchia e pub blica molto, ma non frequentemente con disposizione alla critica. Così, ab biamo ancora ieri rinvenuto un elo gio della commedia per la difesa, che vi si compie, della maternità. (E ci cascò anche il Giudice, sia pure vol tando la cosa in deprecabile). E pen sare, che già Pirandello l'aveva esclu so, se riguardasse il frutto, anziché la pianta per se stessa, che assume in sé e trasforma in cosa propria, medicando la ferita, il corpo estraneo introdottosi in essa. La passione di Laura — insisteva Pirandello — «è passione di amante e non di madre ». Né vedo come possa entrare in causa una « religione naturalistica »: questo è limitarsi alla favola, e allora è an che facile parlare di « tema di dram maturgia che gli era alieno ». Piran dello e un suo doppio? Il motivo della maternità è un lungo abbaglio, poiché essa è presa come fine e non come mezzo. Che, in questi tempi, si possa giustamente sentirvi connesso il diritto alla vita dell'inno cente, e dunque sia un elemento che allarga il tipo di partecipazione alla rappresentazione, non toglie che una lettura non travalicante debba soppe sare i mattoni concreti, anche per non ricacciare l’autore tra i colleghi di quell'ottocento che di sentimenti spic cioli, donne dissolute e donne vio lentate, giovani eroiche e figli della colpa era stato prodigo. Pirandello, certo, sembra aggirarsi tra questa ma teria, ma sempre gira una chiavetta ed è un'altra cosa. Anche in « L'innesto » accade. Ce ne avverte, per una parte egli stesso. Neppure manca di accennare allo spunto venutogli da tante accertate situazioni conseguenti alla guerra ir corso. Motivo esterno. Ma, se chia miamo in causa l’ambiente, allora av vertiamo tutto uno schieramento di miti sociali correnti, e viene in mente <• Il berretto a sonagli » (tanto più amaro e ideologicamente spaccato, che non si creda), con la figura di Beatrice e i suoi tentativi di ribel lione. Anche qui è in causa un « ono re », e Laura non accetta i termini del l’esistenza. discorso. Essa dissolve la retorica della questione, trasferendola nel pro blema della identità e nell'integrità della persona, che non sono violabili dal di fuori, ma che si costituiscono con la singola volontà e con la de terminatezza del sentimento. Laura compie una seconda opera zione, per sé e per il marito: trasfor loro amore. Attra ma la sfera del verso la terribile avventura, Laura la ripropone senza'perdite sul piano ses suale, ma come atto dello spirito, totalizzante Il suo grido è l’eterno bisogno dell’altro, il desi derio della comunicazione piena. È vero, che ciò avviene troppo bre vemente, con impennate liriche (o, se piace, melodrammatiche), ma con ca renza di ragionamenti; alcuni titoli, alcune indicazioni ci sono, ma si tie ne anche poco conto del lento orec chio dello spettatore. Oggi, si ag giunge una certa sordità dello spirito, un infastidito ascolto di ciò che si richiama al cuore, una specie di ter rore del positivo. E questa positività combattiva può far dispiacere a chi voglia Pirandello tutto e sempre de molitore; ma tutta la sua opera non è, dal grido e dal basso e dall’in franto, un anelito alla ricomposizione, una domanda di valori? Infine, un punto interessante è la omogeneità linguistica, nel senso di una rete di rimandi, di una scelta di termini, di una loro carica individuale; quello della lingua pirandelliana, se non andiamo errati, è ancora un gros so capitolo da scrivere. La coraggiosa impresa della Compa gnia dei Filodrammatici si traduce in un dignitoso spettacolo. Che doveva darsi, però, una « necessità » stilistica più evidente; tentare un’impostazione critica e non solo una esposizione. Ciò si richiede in special modo, per so stenere la scelta di un testo minore, significativo ma di respiro e pronun cia limitati. Regia, scene e costumi sono fir mati da Fabio Battistini. La regia non direttiva in sé, passa la mano al si curo mestiere degli attori, e alla loro intelligenza nell’evitare lenocini e de clamazioni. Costumi anche troppo squi siti. Le scene sono tre: la prima fa vorisce di un metafisico « Ettore e An- dromeca » un ambiente che è difficile supporre di tanto aggiornata cultura (la smentita è nel personaggio della madre). Errore di segno, mentre nelle due scene successive, sempre in clima ambizioso di suggestioni e di simboli, gli oggetti sono messi o tolti del tut to con qualche arbitrio. Una Laura di intensi fremiti e di delicata interiorità è Miriam Crotti; un Giorgio di pulita « tipicità » è Pa ride Calonghi; nelle parti di sostegno si notano Liana Casartelli (la madre), il Pradella, la Di Guilmi e il Montani, attenti, come i loro compagni, ad una scansione molto corretta. L’INNESTO dì Luigi Pirandello Regia, scene e costumi: Fabio Bat- tistini. Interpreti: Miriam Crotti, Paride Ca- langhi, Liana Casertelli, Valeria Fal cinelli, Gianni Quillico, Adele Pelle- gatta, Riccardo Mantani, Natale Ci- ravolo, Adriana Di Guilmi, Riccardo Pradella. Compagnia Stabile Teatro Filodramma tici. Torna alla luce « L’innesto », com media che Luigi Pirandello scrisse nel 1917, pensando a Maria Melato, e che Virgilio Talli si decise — dopo molte perplessità, francamente dichiarate al l’autore, che si protestava incompre so — a rappresentare nel 1919: la prima avvenne al Teatro Manzoni di Milano. Nove anni dopo, si prese cura Marta Alba di riproporre il testo per un suc cesso che non venne. Poi, il silenzio. Scocca, dunque, il mezzo secolo di latitanza — e di rifiuto critico — per quest’opera dai tre atti « precipitosi e brutali », diceva esplicito il grande capocomico, nella quale si mostra l’« altro » Pirandello, quello meno co struttore e costruito, più spalancato e veemente, che forse andrebbe nuo vamente studiato per ricomporre una immagine più articolata, meno data; sino ad un'ovvietà, la sazietà della quale si va' ben notando nelle indagini di Massimo Castri, e di qualche altro. Un'immagine alla quale non possono contribuire solo i capolavori, ma lo debbono tutti i testi, con l’apporto dei loro contenuti da incastrare nell’orga nismo drammaturgico. Occorre, credia mo, ripensare Pirandello nell’architet tura che si delinea dopo un processo di analisi, che non parta da idee pre costituite, e riesamini tutti i materiali, per una sintesi da conseguire con gli opportuni nuovi metodi d'approccio. La storia dello spirito precede quella della forma, e il suo itinerario va de codificato, non estromesso. * L’innesto »> sembra scritto di getto, e in fretta. Si consuma bene, e non lascia scorie. Ci si trova buttati nel fatto, senza preparazione alcuna. Ed esso è già avvenuto, secondo una alta lezione classica. Non si può ne gare che il dramma non ha indugi né di scene, né di conversazione. È su • / / 9'° « direzione artistica »: e in effetti è proprio di una vera regia che indi scutibilmente si sente la mancanza. Anche a voler contestare — come ci è capitato spesso — il regista ■■ de miurgo », non si può neanche passare aH’improvviso all'estremo opposto: se poi la firma vera in calce a questa rappresentazione è quelia di Buazzelli, tanto peggio poiché è quasi impossi bile o comunque rarissimo che un at tore (intendiamo il tipico » grande at tore », con tutte le deformazioni ti piche di questa paiticolarissima spe cie d'individuo) sappia veramente mettere in scena uno spettacolo che prescinda dalla sua personale inter pretazione e sappia poi controllarsi, insomma dirigere se stesso: come questo spettacolo ci pare dimostri in maniera chiarissima e addirittura esemplare I, 6' L’UOMO CON LE VALIGIE di Eugène Ionesco Traduzione di Sandro Bajini Direzione artistica di Tino Buazzelli, Angelo Conti e Aurelio Pierucci Interpreti principali: Tino Buazzelli, Gianna Giachetti, Andrea Matteuz- zi, Donato Castellaneta, Giampaolo Poddighe, Alberto Ricca, Maria Gra zia Sughi. Scene e costumi di Roberto Laganà. Musiche originali di Bruno Nicolai. Risale al 1950 il debutto de » La cantatrice calva », l'« anticommedia » di Eugène lonesco considerata l'atto Formale di nascita del moderno « tea tro dell'assurdo »: adesso, alle so glie degli anni '80, l'opera di lonesco non viene più considerata una manife stazione d’avanguardia, riservata alla comprensione di pochi addetti ai la vori, ma è ormai accettata dal gran de pubblico come uno dei più signi ficativi avvenimenti artistici del nostro secolo: certo c'è stata una conside revole modificazione e maturazione nel gusto del pubblico, ma capita an che di pensare che per l'autore il successo abbia portato una notevole inversione di rotta, una sostanziale conversione alla cultura « ufficiale » con quel tanto di negativo che solita mente comporta questo termine. In ef fetti questa ipotesi può risultare vera semmai per la produzione più recente di lonesco, col sospetto che ci sia uno scivolamento verso una « manie ra »: così in particolare « L’uomo con le valigie », che esordisce ora anche in Italia nell'interpretazione di Tino Buazzelli: siamo nell'ambito di una sim bologia piuttosto banale, non fosse altro perché ormai troppo sfruttata. Le valigie del titolo sono il bagaglio di sentimenti, angoscie, sogni, spe ranze, rimorsi e desideri che ciascun uomo porta inevitabilmente con sé: il protagonista trascina queste pesan ti valigie in uno strano viaggio in un imprecisato paese che può essere in differentemente (nella fin troppo ovvia identificazione fra luogo materiale e luogo mentale) il subconscio dell'au tore o del suo personaggio come sim bolo di un ipotetico uomo-medio, il punto d'incontro dei ricordi di un e- sponente delia generazione vissuta fra gli ultimi anni '30 e l'epoca attuale, o anche, magari, un'effettiva città di una nazione dell'Europa orientale o comunque sottoposta a regime ditta toriale o di « democrazia popolare » (ad esempio quella Romania da cui proprio lonesco proviene): magari queste interpretazioni sono tutte con temporaneamente valide e andrebbe ro ulteriormente sommate ad altra in terpretazione ancora, ma riesce dif ficile appassionarsi ad un simile gio co di ricerca. Mancano soprattutto in questa commedia — o sono comun que ben rari — i lampi di quella fan tasia addirittura incontrollata che il luminano invece l'opera migliore di lonesco. Certo è difficile formarsi una opinione sicura sul testo in questa oc casione, di fronte ad uno spettacolo che del materiale messo a disposizio ne dall’autore fa comunque un uso poco convincente: nessuna colpa per gli attori, che fanno sicuramente del loro meglio, ma sembra a momenti di assistere addirittura alla riesuma zione di certi vecchi schemi del tea tro cosiddetto « impegnato », così co me veniva praticato diversi anni fa. Non sapremo chi sia il vero respon sabile di una simile impostazione, vi sto che la locandina non indica ii no me di un regista, sostituito semmai da un triumvirato (Tino Buazzelli, Angelo Corti e Aurelio Pierucci) riunito in l'aiuola bruciata di Ugo Betti. Direzione artistica di Tino Buazzelli e Aurelio Pierucci. Interpreti: Tino Buazzelli, Andrea Mat- teuzzi, Gianna Giachetti, Maria Su ghi, Alberto Ricca, Raffaele Bondini. L'ultima espressione di Ugo Betti come autore di teatro, il dramma « La aiuola bruciata », compiuto solo pochis simo tempo prima della morte avvenu ta nel 1953, non è certamente l'opera migliore dello scritore e drammatur go marchigiano: l'ispirazione (a vo ler utilizzare ancora una volta questo :ermine ormai fuori moda) segue un andamento così diseguale da far sem arare il testo quasi incompiuto o co munque ancora da rivedere per poter eliminare o correggere diverse solu zioni davvero un po' troppo « teatrali » nel senso negativo del termine: ci sarebbe stato da aspettarsi di meglio se non altro dal mestiere di un auto re come Betti; eppure vi sono nel testo taluni momenti che rischiano di coinvolgere davvero lo spettatore, ri scattando quasi da soli tutta l'opera. Il tema di questo dramma che ora (a venticinque anni giusti dalla morte dell'autore) ci viene riproposto da Ti no Buazzelli e dalla sua compagnia, è quello caro a Betti del rapporto tra uomo e potere, della corruzione che il potere tende ad esercitare anche sul le nature migliori, della difficoltà di gestire, dalle posizioni di comando, un corretto rapporto con gli altri uo mini. Il protagonista Giovanni, dopo aver condotto il suo partito alla vit toria politica, è stato emarginato da Gianna Giachetti e Tino Buazzelli ne « L'aiuola bruciata » di Ugo Betti una congiura di palazzo e vive da an ni isolato in una piccola casa di mon tagna, a pochi passi dalla frontiera: a questo punto, mentre c'è addirittura una minaccia di guerra con il paese confinante, vengono a proporgli di ri prendere il suo posto di comando per rendersi protagonista, come capo di una piccola ma qualificata delegazio ne, di un clamoroso gesto di concilia zione, un incontro proprio sulla fron tiera che dovrebbe scongiurare ogni minaccia di guerra. In realtà, come sì scoprirà più oltre, lo scopo è quello di creare invece l’incidente, addirittura di assassinare Giovanni facendo ri cadere la colpa sugli altri e trasfor mandolo quindi in « martire della cau sa ». Già in passato, quando era Gio vanni a comandare e la scalata al po tere non era ancora compiuta per il suo partito, c'era stato un fatto as sai simile a danno di un povero for naio e lo stesso Giovanni deve con siderarsi in qualche misura complice di quella scelta: ed ecco che II fatto pubblico si intreccia con il fatto pri vato: sulla vita del protagonista e di sua moglie pesa la morte del figlio unico, una morte ritenuta sempre fa tale e stupidissimo incidente, anche se c'è qualcosa che continua a rima nere poco chiaro. Così si apprende che quella morte è invece —■ forse — un suicidio provocato dalla scoperta nel padre di quella terribile responsa bilità, in contrasto così stridente con tante nobili dichiarazioni di idealismo. È, come si vede, una materia che ri schia ad ogni passo di sconfinare in una retorica molto vecchio stile, ep pure certi argomenti, certi spunti hanno una loro effettiva validità e sin fin troppo attuali. cerità e rischiano addirittura di ri sultare Insomma di fronte alla scelta compiuta da Ti no Buazzelli e dalla sua compagnia di recuperare un’opera sicuramente mi nore e ormai praticamente dimentica ta da tutti, se non è facile approvare non è neppure possibile condannare senza riserve. Piuttosto ci trova in completo disaccordo la decisione di far a meno (soluzione già sperimen tata nell’altro spettacolo del cartello'- ne 77-78 della compagnia, « L'uomo con le valigie » di lonesco) dell'opera di un vero e proprio regista: mentre Buazzelli riesce comunque ad impor re la sua indiscutibile presenza teatra le nei panni del protagonista, i com primari (peraltro attori di sicuro pro fessionismo, come Andrea Matteuzzi, Gianna Giachetti, Alberto Ricca, Maria Grazia Sughi e Raffaele Bondini) sem brano non trovare la giusta dimensio ne. Troppo stridula-la Luisa di Gianna Giachetti, le gnoso il Tommaso di Andrea Matteuz zi e così per tutti gli altri. Sembra quasi che ognuno sia stato lasciato libero di trovare una sua soluzione ed abbia difficoltà nello scegliere il tono giusto, oltretutto in accordo con l’intonazione adottata dagli altri singo larmente e nel complesso. Rimane da vedere se la bravura di Buazzelli co me protagonista basti a giustificare l'intero spettacolo: per parte nostra avremmo preferito un protagonista ma gari meno bravo e un approfondimen to più accurato di tutti i diversi ruo li, una lettura più attenta e più mo derna delle differenti possibilità che il testo poteva offrire pur nei suoi evidenti limiti. troppo schematico e / -e* si ricompone filtrato in una visione spettrale, come una serie di fotografie della realtà scattate su un mondo di sorientato, per cui il risveglio di primavera è in realtà il risveglio angoscioso sulla morte, sulla sopraffazione, sul l’annullamento di quanto di sano c'è nella vita. Memè Periini e gli attori della Compagnia la Maschera / ,e>' ✓ IL RISVEGLIO DI PRIMAVERA di F. Wedekìnd Regia: Memè Periini. Interpreti: Fiammetta Barai la, Bettina Best, Ines Byass, Chrystel Dane, Alessandro Genesi, Cristina Manni, Mar co Massaccesi, Massimiliano Mitia, Lidia Montanari, Antonino Prester, Edoardo Spada, Vittorio Vitolo. Scene e Costumi: Antonello Aglioti. Musiche: Marco Massaccesi. Evidentemente non si possono leggere gli spettacoli di Memè Periini come rappresentazioni nel senso tradizionale del termine. Dall'- intreccio » del « Risveglio di primavera » di Wedekìnd, il regista ha tratto dei frammenti, mentre dai personaggi ha desunto delle figure. Di proposito egli non vuole imporre una 'storia', un 'intreccio', una conti nuità’; sente quello che ha scritto Wedekind, ma non de scrive quello che lo scrittore ha scritto. Questo spetta colo è una sorta di operazione onirica; la utilizzazione del racconto è collegata a qualcosa che esiste al di fuori di esso. C'è una sorta di strutturazione musicale tra il com pito di narrare e quello di ricordare. Il racconto si svi luppa come se un osservatore situato all’interno della storia lo ricordasse non in una successione, ma per illu minazioni della memoria. Capovolgendo la vecchia teoria secondo la quale la tecnica dell'artista dovrebbe essere invisibile (o almeno non appariscente), Periini pone l’ac cento su quanto c'è di artificioso nei suoi spettacoli, in sistendo nel lasciar vedere le tracce del suo lavoro arti gianale. È un ordine che fa pensare a un premeditato di sordine ed è invece uno scaltro sistema per portare a un'astrattezza maggiore la narrazione. Il discorso frammen tario è inteso non ad ostacolare la comunicazione ma a renderla assoluta; la forma discontinua, frammentaria, fa coesistere realtà e sogno, il discorso e il silenzio, il gio co e la serietà. «Il risveglio di primavera» è un flusso di figure, di voci, di apparizioni surrealiste incastrate le une alle altre; eppure alla fine queste voci si amalgamano per offrire lo spirito e il senso dell'opera di Wedekind. La tecnica del collage non impedisce di seguire la vicenda di Wendla, la ragazza che ai primi fremiti dei sensi viene messa incinta da un compagno; o la disperazione di Mauri zio che, al culmine di una crisi di estraneità, si uccide; o il disegno del professore tiranno; o l'affanno della mam ma di Wendla che costringerà la figlia ad abortire. In un montaggio di frammenti narrativi, di scorci pittorici, di fra stuoni, di luci, il nucleo dolente del dramma di Wedekind Y -o % %% S % L’ANATRA ALL'ARANCIA di W. Douglas Home e M. Gilbert Sauvajon Regia: Alberto Lionello Interpreti: Alberto Lionello, Fioretta Mari, Gabriele Carrara, Livia Roma no, Vittoria Di Silverio Scene: Lucio Lucentini L’Anatra all’arancia è uno dei mag giori successi di Alberto Lionello e, giustamente, il bravo attore ha pensa to di riproporla. Non credo che si tratti di un discorso semplicemente commerciale; la ripresa di questa for tunata commedia può offrire a quella nuova fetta di pubblico teatrale, che non aveva visto le precedenti edizio ni (del '73-74 e ’74-75), di riconosce re in pieno le capacità istrioniche e anche un po' mattatoriali di Lionello. L'attore, già in passato, aveva dimo strato le sue doti di gran protagonista e motore di una rappresentazione: si pensi al goldiano I due gemelli vene ziani, che ormai sembra quasi impro ponibile senza la sua presenza. Ad ogni modo, chi si ricorda le interpre tazioni di Lionello come quella della « Coscienza di Zeno », non può fare a meno di sperare che l'attore ritorni anche a ruoli drammatici. Il fatto è che Lionello ha una faccia « neutra », che gli permette di affrontare modelli di interpretazione e, soprattutto, per sonaggi molto diversi tra loro, per connotati esteriori e dimensione psi cologica. L’anatra all’arancia stabilisce, a mio parere, un punto di arrivo e un suc cessivo punto di partenza nella car riera dell'attore, oggi direttore di un teatro romano e, quindi, proteso an che al discorso dell'operatore cultura le. Ad ogni modo questa commedia, di Douglas Home e Gilbert Sauvajon, 44 - IL DRAMMA \ . è uno di quei rari esempi di perfetta confezione scenica, dove il teatro pre senta tutta la sua dimensione ludica di puro e semplice intrattenimento. Chi volesse leggere molto più in là credo che farebbe un serio sbaglio. A meno che non si voglia capire e cercare di la direzione sociologica, l'idea del pub blico e dello spettacolo (come diver- ipotizzare, attraverso timento), ipotizzato da una certa parte del repertorio boulevardier contempo raneo. Ma allora il discorso andrebbe molto più lontano, oltre la misura di questo spettacolo, mosso con innega bile bravura da un Lionello al meglio di sé, regista e accompagnato da un gruppo di attori che sono: Fioretta Mari, Gabriele Carrara, Livia Romano e Vittoria Di Silverio. T E A T R O N U O V O P A R IO L I due tempi di W. DOUGLAS HOME e M. GILBERT SAUVAJON (riduzione italiana di NINO MARINO) La locandina dello spettacolo interpretato da: Alberto Lionello, Fioretta Mari, Gabriele Carrara, Livia Romano e Vittoria Di Silverio tica — meglio sarebbe dire di un con fronto — tra uomo e donna. Lei su bisce l'atteggiamento maschile perché, sola in casa, senza ideali precisi e senza una sua vera fisionomia, è co stretta a misurare il buio profondo della sua solitudine, della mancanza di un punto di appoggio, della man canza della lei ritenuta indispensabile. « La protagoni sta del monologo — dice l'interprete, Alida Giardina, in una nota in margi ne al programma di sala — è colta figura maschile da UNA DONNA SPEZZATA di burlone De Beauvoir Traduzione: Bruno Fonzi Regia e scenografia: Silvio Benedetto Interpreti: Alida Giardina Al violoncello: Christian Giambarresi Molti sostengono che il valore let terario dei romanzi di Simone De Beauvoir sia abbastanza limitato. La autrice sembra essere meglio rico nosciuta per i suoi saggi, in partico lare Il Secondo sesso che, in qual che modo, aprì storicamente, a li vello critico-filosofico, il dibattito in torno alla donna. Il femminismo non è ancora la base di denuncia nel di scorso della Beauvoir, comunque, nel suo pensiero, i temi che saranno svi luppati negli anni successivi ci sono già quasi tutti. Ripeto: per la Beau voir è semplicemente il caso di parla re di una interessante forma di pro posta critica e costruzione analitica intorno al problema della donna. Ri guardo al valore letterario del roman zo beauvoiriano, personalmente non sarei così pessimista. Ricordo con commozione autentica Una morte dol cissima, I mandarini, tanto per citare le prime cose che mi vengono in men te. Sono romanzi particolari che pos seggono una struttura apparentemen te ingenua, quella dell'annotazione da diario, come è il caso di Una donna spezzata. Questo romanzo è molto vi cino all'altro Le belle immagini, forse anche più compatto nella sua misura estetica. In ogni caso non mi pare af fatto che l'opera letteraria della Beau voir sia da guardare con sufficienza. Credo che un giudizio severo, quando c'è stato, sia derivato dal fatto che nel romanzo beauvoiriano la sempli cità (che è qui una categoria estetica e un dato strutturale) sia stata con fusa col semplicismo. E non è un er rore dappoco. Personalmente, devo confessarlo, ho pensato ad un certo atteggiamento aristocratico, da parte di alcuni letterati « ufficiali », nei con fronti della scrittrice francese. Ma veniamo a questo spettacolo di Benedetto. La donna viene presenta ta come polo distrutto di una dialet- Alida Giardina appunto in questo tremendo momen to della sua vita: l'abbandono da par te del marito, che la coglie priva di amici, di lavoro, di mezzi economici, insomma priva di quei punti di riferi mento che soli permettono di soprav vivere alle crisi e ai drammi dei falli menti sentimentali ». E lo spettacolo comincia in una atmosfera di pesante immobilità, preannunciata da due figu re lignee, prima della scena, e da un telefono che, presumibilmente, non squillerà mai. Poi la musica del vio loncello (interpreta le struggenti note bachiane della Suite n. 1, in sol mag giore per violoncello solo): capisci su bito che diventa, a suo modo, un dato « protagonista » dello spettacolo, quel l'elemento maschile con cui la donna ha sempre a che fare. La sua stanza è senza pareti e queste sono dei pan nelli trasparenti dai quali entra il mon do, senza alcuna possibilità di difesa. Alla sua destra l'altra figura maschile possiede una precisa fisionomia: é uno dei poli del suo malessere. Le parole cominciano dai balbettìi, fone mi puri che si fondono con la nuda fisicità della figura femminile. Poi, ve stita coi panni che ci indicano subito « La Donna Borghese », il suo segreto pensare si eleva a preghiera detta a voce alta, mentre si rivolge al mon do intero, a se stessa e forse a nes suno. Tornano le immagini di tutti i giorni, le banalità, le piccole cose che credi debbano dare un senso alle gior- nare. Parla. Si rende sempre più con to che il suo interlocutore — l’Uo mo — non esiste: si siede spossata, allora, sulla poltrona bianca, poi si alza, si gira intorno, mentre il tremo lìo delle sue mani e delle braccia sembrano dare una scansione ritmi- co-fisica al pensiero. A lei i fram menti della realtà rimbalzano in fac cia, come la stesa congerie dei suoi pensieri che non vogliono mai pren dere una forma compiuta (logica si dovrebbe dire). Di che cosa parla que sta donna spezzata? Della mancanza d'amore, della solitudine, dello stato di remoto abbandono in cui è costret ta. Il suo è un calvario necessario, come quello del Cristo, la cui figura è accennata, in alto, in un dipinto. E allora grida: « Tristano, guarda... Qual siasi cosa, ma io non voglio restare sola ». Come se la paura personale, esistenziale, quella che viene dall 'es serci, si ampliasse necessariamente in tutto, nelle cose intorno, nella so cietà, nella storia. Il suo parlare po trebbe essere infinito: un inferno sen za tempo e luogo. Ma viene la sera e ci sono i segni che un altro gior no è passato; guardi intensamente il telefono per aspettare un « segnale qualsiasi », un messaggio, una voce che (forse della vita). La donna cerca ostinata- mente uno spazio al suo mondo, ma si rende sempre più conto che deve cedere. Le sue parole tornano a far si balbettìi, come all'inizio; il suo volto può essere anche coperto di un velo nero perché, ormai, non ha più importanza chi essa sia. Solo un momento per gridare ancora, per di re quasi una bestemmia, forse a di lo strazio ultimo del suo chiarare esistere: « Se esiste Dio, io esigo una rivincita ». E poi le ombre calano. Così torna quel violoncello, e, sulla destra, quella figura maschile espli cita, che riprende il suo posto. Tutto sarà come deve essere. In questo spettacolo il fatto è dato come elemento oggettuale della rap presentazione. La poesia — che c'è, e non è certo un momento seconda rio — nasce da questa simbiosi pal pabile esistente tra la donna e le co se: per come si possono vivere, per come diventano sostanza umana, per come si Il grande merito dell'efficacia di que sta messinscena va, oltre la regìa di Silvio Benedetto, alla intelligente e sensibile interprete, una indimentica bile Alida Giardino, attrice dalie rare capacità drammatiche e, soprattutto in questo caso, insostituibile. testimoni dell'esistenza traducono in esistenza. EVA PERON di L. Lamborghini Adattamento teatrale di Julio Zuloeta Regia: Julio Zuloeta Interpreti: Pru'dentia Molerò Eva Perón è stata un gran personag gio, un mito, una realtà politica. Co pi ne ha dato un'immagine dramma turgica in chiave grottesca, rappre sentando quella donna come una che non muore e la sua stessa fine è una farsa. Ma il discorso sulla figura di Evita può essere più affascinante di quanto non si immagini. Basterebbe pensare che la presidentessa argen tina, tra l’altro, aveva scritto una spe cie di romanzo ideologico in forma di autobiografia, La razón de mi vida Un’opera del genere, analizzata cri ticamente, può offrire lo spunto per molti tipi di operazioni,da quella poe- tico-letteraria fino a quella dramma turgica, senza per questo lasciar per dere l'interesse sociologico e quello antropologico. E’ quello che hanno fatto Leonidas Lamborghini e Julio Zuloeta. Lamborghini ha scritto un poema in versi sciolti, composto di diciassette canti, il titolo è Eva Perón al rogo. Julio Zuloeta ha ridotto quel poemetto In dialogo teatrale per dar corpo ad una delle più interessanti operazioni che, sulla fascia dei mono loghi, lascerà senz'altro un segno. Il monologo è una delle scelte che ha caratterizzato la nostra scena da qual che anno a questa parte. Si tratta di un modo di fare teatro tra i più diffi cili: l'attore deve sostenere tutto il peso dell'azione dall'inizio alla fine, da solo e in prima persona. Occorre subito dire, al di là di una specifica analisi di questo modo di concepire la scena, che pochi sono quelli che hanno felicemente superato la prova, e per pochi intendo sia gli attori che i registi. Tra i casi riusciti, c’è questo Eva Perón. In scena, però, non c'è la presi dentessa argentina, ma una povera donna della periferia di Baires. La storia — è un concetto che hanno affermato in molti — si può leggere (anzi si deve anche leggere) « dal bas so , attraverso il riflesso che gli avve nimenti lasciano nell’anima e nella co scienza popolare. La voce del regime porta una sua eco nel modo di pen- leggi sare e di essere della gente sempli ce, che vive i « giorni di un destino » come necessità ineluttabile. Nella don na, colta nei gesti della quotidianeità, Zuloeta è riuscito a indicare tre chia vi di lettura del personaggio Èva Pe roni primo, la sua voce che esce con prepotenza dalla radio; secondo, la ca salinga che finisce per identificarsi con il personaggio, il capo carisma tico; terzo, il sottoproletariato schiac ciato nei suoi valori umani e cultura li. Il potere è una presenza oscura, agisce secondo incontrollate, secondo un calcolo che è sconosciu to ai più semplici, secondo le sottili forme di convinzione che offre una civiltà dominata dai mezzi di comuni cazioni di massa. Così la radio fini sce per diventare quasi un simbolo riassuntivo di tutta una condizione di imposizioni occulte. La Voce ci giun ge come un dato di incontestabile va lidità. E la Voce è Lei, la stessa Èva Peron che si insinua nelle menti de gli umili per imporre un modello di vita codificato, in un disegno chiaro e preciso nella logica dei potenti. La donna semplice riflette, come in uno specchio, le immagini che vengono elaborate dall'alto: sono dapprima an nebbiate, quasi informi, messaggi sen za un preciso contenuto. Lentamente, Prudentia Molerò, protagonista dello spettacolo però, il processo di identificazione fa si che sia regola anche quanto non conosciamo nella sostanza e nella rea le portata. La donna si riconosce nel la realtà di Evita, anzi finisce per es sere, nel suo immaginario, proprio la presidentessa. Il gioco è fatto. La vit toria sui poveri e gli sfruttati è quel la di un potere autoritario che ha im posto il suo dominio senza una vio lenza apparente. Quella grande mas sa che è il proletariato ha subito una totale sconfitta, perché anche la sof ferenza, come motivo della tangibile subalternità, viene svuotata di signi ficato. Zuloeta ha saputo rappresentare questi momenti in modo molto inci sivo e tanto più efficace in quanto la concretizzazione della sua ipotesi è stata affidata al personaggio fem minile, ad una donna qualsiasi. Quello che va sottolineato, in questo spetta colo, è la totale assenza di ogni reto rica, scacciata dallo spessore tangi bile del quotidiano, dove ogni atteg giamento non può sfuggire alla verità che lo produce. Prudentia Monterò è bravissima e rappresenta molto bene questa sottile parabola sugli umili. Questo spettacolo, infine, va ricorda to per il rigore con cui è costruito e per la rara essenzialità espressiva. voler essere soprattutto un insieme di linguaggi (e spesso metalinguaggi) che convivono nel minimo comun denomi natore della comunicazione teatrale. Questo « spaccato d'insieme » sulla fi gura di Lenin, identificato in ogni for ma di processo rivoluzionario (leggi necessità di cambiamento e di rinno vamento progressivo della realtà), è interpretabile in diverse chiavi. Da un lato vi è, senza dubbio, la coordinata di una possibile individuazione della militanza politica, dall'altro la misco- noscenza di una precisa identità ideo logica (nel senso di identificazione in una ideologia). Lo spettacolo è costruito su di un progetto ludico-gestuale all’interno, pe rò, della categoria del politico. E l'im postazione di base non mi pare af fatto retorica. Mi viene in mente Bob Wilson (penso a L'occhio del sordo) an che se lì il momento puramente este tico-espressivo, più che una ipotesi, ha sempre rappresentato un punto di arrivo. Come si dice nel lungo titolo, lo spettacolo è diviso in quadri, sedici per l’esattezza, e dura quattro ore. Ho l'impressione che potrebbe durar ne molte di più. Infatti i motivi di ri conoscimento tematico dei singoli mo menti dello spettacolo sfumano nel dato puramente iconico-cinesico. Mi pare interessante il fatto che una mu sica, molto interessante e.raffinata, come quella di Gaslini si accoppi al l’ipotesi di Ezio M. Caserta. La musi ca è scritta per il testo, ma il testo è un meta-testo, rimanda direttamen te all’immagine e vive in funzione di quella. Non siamo sui piano delle in venzioni assolute, tuttavia di quello di una notevole coerenza e volontà di dare una misura di sperimentazione rigorosa all’ipotesi di spettacolo. Se volessimo trovare il motivo tematico di fondo, dovremmo indicarlo in una specie di processo che viene operato, in forma di autoanalisi, al Sessantotto e ai miti che ha portato (anzi portò) con sé. Ma, alla fine, ci si rende con to che anche questo — anzi, soprat tutto questo — è un modo per par lare di un'altra realtà: quella del so gno ideologico a cui l'uomo non rinun- cerà mai. DIORAMA PER VLADIMIR IL’IC UL’JANOV DETTO LENIN Monumento alla civiltà, al progresso, alle scienze, alla tecnica, alla cultura e all'uomo di Ezio M. Caserta Musiche di Giorgio Gaslini Regìa di Ezio M. Caserta Interpreti: Teddy Giuliani, Sandra Bo- nomi, Marina Guerrini, Antonella Gu glielmi, Andrea Santoro, Enzo Bisac cia, Omero Volpi Questo spettacolo è interessante per la sua forma composita, per il suo Sandra Bonomi e Andrea Santoro in un momento dello spettacolo che debba stupirci la riproposta — an zi la proposta — di Anonimo vene ziano sulle nostre scene. Tanto più che in Francia, a Parigi per la preci sione, il dramma di Berto è stato rap presentato al Pétit Odèon, ed è or mai diverso tempo. L'autore confes sa, tra l'altro, che proprio dalle mes sinscene straniere, e quella parigina in particolare, è nato in lui il biso gno di misurare la sua opera con il palcoscenico, con quella dimensione, insomma, per la quale era nata in partenza. A prima vista, Anonimo veneziano può sembrare un dialoghetto semplice sui rapporti sentimentali: la storia di un amore tra un uomo e una donna, separati e che vivono in due città di verse, legati ormai ad un diverso de stino (la morte, per l'uomo, e un'altra vita in coppia, per la donna), tuttavia uniti da un profondo legame, che li terrà idealmente legati l'uno all’altra, per sempre. La storia di questo lui e questa lei è fatta soprattutto di pa role e di ricordi. Nel ricordo tutto si stempera: le immagini si puliscono di ogni pesantezza negativa e finiscono per diventare dolcemete ingannevoli, perché accarezzate dal calore della memoria. Direi che questa è la chia ve precisa di lettura di Anonimo ve neziano, al d: là dei piccoli fatti, del « rumore » quotidiano della esistenza. Anzi: questo dato del contingente di venta, curiosamente, quasi un lonta no orizzonte, un elemento di « confi ne » del nostro vivere, una semplice cornice. Quello che vale è la capa cità che abbiamo di abbandonarci alla memoria, non tanto come recupero del passato, quanto, piuttosto, come possibilità di rendere nuovo e più ANONIMO VENEZIANO di Giuseppe Berto Regia: Giuseppe Berto Regista collaboratore: Julio Zuloeta Interpreti: Ugo Pagliai e Lorenza Scene: Lucio Lucentini Musiche: Vittorio Geimetti Guerrieri E’ veramente curioso il destino di certe opere teatrali. Anonimo Vene ziano, scritto per la scena, diventa, prima di tutto, un film: Enrico Maria Salerno si innamora della vicenda, tanto da affrontare la regia cinema tografica e, bisogna dirlo, con un cer to onore. Quindi quel « dialogo teatra le » compie un iter diverso da quello che aveva immaginato il suo autore. E' forse anche per questo che Giu seppe Berto deve aver sentito la pre potente esigenza di portare in scena — tanto da voler esserne anche il regista — un suo scritto che, in qual che modo, proprio per il teatro era stato concepito. Non credo, per ciò, Ugo Pagliai e Lorenza Guerrieri in « Anonimo Veneziano » vivo, forse semplicemente più sop portabile, il nostro presente. Mi pare che, se letta in questa dimensione, la opera di Berto acquisti dei significati molto più affascinanti d quanto non si possa credere. E forse, da un certo punto di vista, l'autore deve aver sen tito come una specie di tradimento, fino al punto da voler partecipare di rettamente alla messinscena. E forse non ha fatto male. Lo spettacolo ha una sua precisa coerenza; si affida alla parola di cui mette in risalto la banalità, come a farla diventare un dato squisitamente evocativo. E' una scelta giusta, non soltanto corretta, che non vuole andare al di là di quel lo che è rappresentabile, a scoprire eventuali metafore della vita o della esistenza. Su questa corda della con cretezza l'autore è stato ben asse condato da Zuloeta che sappiamo, or mai da altre sue prove, essere un sottile uomo di spettacolo. E poi bi sogna riconoscere a Ugo Pagliai e Lo renza Guerrieri la dote di attori mi surati, precisi, che sanno seguire mol to bene le sfumature del testo, senza mai abbandonarsi a vacui velleitarismi interpretativi. Quando, ad esempio, nel clima di morte in cui tutto è immerso, anche lui (Pagliai) annuncia la sua prossima fine (morrà per tumore) non c’è lo « strappalacrime » di tipo hollywoodia no: nel caso banale, giornaliero, anche la fine di una vita rientra come il con to della spesa; quello che importa, però, è ciò che rimane, che ancora c'è: i nostri sentimenti, la capacità o la voglia di amare, il senso preciso di un rapporto che possiamo avere col mondo e le cose che ci circon dano. Ecco perché, in questa edizione teatrale, giustamente, interpreti è re gia hanno dato spazio a un certo umo rismo e, soprattutto, ad una certa iro nia, che rende la vicenda più vera e vicino a noi. A c o llo q u io c o n G iu s e p p e B e rto dichiara di non avere l’esperienza necessaria richiesta ad un regista. « Non ho saputo resìstere alla tentazione. Ma che vo lete, perfino i santi non sempre riescono a sottrarsi al desiderio di mostrare agli altri la misura della loro bra vura ». S.G. « Anonimo veneziano » di Berto, interpretata dalla com pagnia del Dramma italiano, con Ugo Pagliai e Lorenza Guerrieri, dopo essere stata trasferita sullo schermo da Enrico Maria Salerno, si è vista « bocciata » in teatro da "un gruppo considerevole di critici. Berto, che, per la circostanza, ha esordito in veste di regista, attribuisce l’« ostracismo » a « pregiudizi di ordine politico » nei suoi riguardi; amareggiato, ha lasciato Roma per rifugiarsi nel paese natale, Mogliano Veneto, dove « la dimensione di vita è più umana ». Lo abbiamo raggiunto per telefono. « Una fra le molte considerazioni che si potrebbero fare — dice — è che pensare di imporre, oggi, un lavoro come "Anonimo veneziano”, basato sulla parola e ispirato al sentimento d’amore tra un uomo e una donna, ha il si gnificato di una sfida più aggressiva che utile. Equivale inoltre ad andare controcorrente e comporta, fatalmente, uno scontro. Mi ero illuso e, appunto per ciò, avevo pec cato di audacia e di ingenuità, ritenendo che l’esito sod disfacente ottenuto a Parigi da “Anonimo veneziano”, mes so in scena da Annie Romand al Petit Odeon, fosse una garanzia per l’edizione italiana ». Un critico parigino ha scritto che Berto, a forza di tenersi alla retroguardia (« sono notoriamente — puntua lizza — un conservatore che dà valore alla parola e ai sentiménti »), veniva a trovarsi, nell’attuale confusione di valori, all’avanguardia, o almeno in una posizione ec centrica. « Le collocazioni mi interessano poco. Non a caso, alla vigilia degli anni cinquanta un mio dramma, “Imitazione di Cristo”, non ottenne il nulla osta per poter essere rap presentato e, alla chetichella, venne proposto con la regia di Salvini, interpreti Vittorio Gassman e Massimo Girotti. Era l’analisi di tre esami di coscienza di un uomo: prima che si facesse prete, nel momento di vestire la tonaca, nel disfarsene per abbracciare l’ideologia marxista; quando in fine rinnegò anche questa posizione per diventare guer rigliero ». In fase di autocritica, Giuseppe Berto ammette che l’esercizio di un letterato è altra cosa da quello di un drammaturgo. Cerca di salvare il suo amore non aperta mente confessato per il teatro venendo a una concessione: E n ti lir ic i d o p o il te r r e m o t o Non c’è dubbio: l’effetto è stato notevole. Come in tutti i grandi spettacoli, non sono mancati il colpo di scena, i protagonisti di nome, la « suspense » sugli sviluppi della vicenda, una cornice di ampio respiro. La televisione e i giornali hanno allargato la platea e anche chi non è mai andato ad ascoltare un’opera in vita sua, ha scoperto così il mondo della lirica e i suoi problemi. Sono finiti in prigione per qualche giorno nomi il lustri della musica, operatori culturali, impiegati ed altri, una trentina in tutto. Accanto all’accusa di vio lazione della legge per le « provvidenze musicali », che vieta il ricorso a mediatori per la scrittura di cantanti, accuse più pesanti: peculato, corruzione, concussione. La reazione del mondo politico e degli ambienti cul turali all’iniziativa del magistrato romano è stata di sorpresa e di sdegno per la sproporzione tra le accuse e il fatto d’aver trascinato in manette uomini che il mondo ci invidia, di solidarietà almeno con le perso nalità più significative e di richiesta che venga fatta rapida giustizia, con la condanna dei colpevoli — se ce ne sono — e con la riabilitazione di chi colpevole non è. (Pubblichiamo qui accanto alcune tra le voci di mag gior rilievo levatesi sulla questione). Come succede in Italia, il chiasso è durato qualche giorno e il clamore è stato davvero alto; si sono spre cati aggettivi e parole grosse in tutte le direzioni: « un terremoto, un terremoto! ». Adesso che il terremoto è passato, e in attesa che le istruttorie e i processi facciano piena luce, il problema degli enti lirici e della musica « seria » nel nostro paese rimane dinanzi agli occhi in tutta la sua ampiezza. Il primo dei nodi da sciogliere non è certo quello di modificare la legge numero 800 nell’articolo che vieta il ricorso alle così dette agenzie per la scrittura degli artisti e che è stato alla base del recente clamo roso caso giudiziario. Certo, anche quello è un problema, ma sarebbe sbagliato sprecare l’interesse dell’opinione pubblica e dei politici suscitato dalla vicenda soffer mandosi su aspetti minori e non puntando invece al cpore della questione. Attualmente la musica costa allo Stato (e quindi a tutti noi) cento miliardi l’anno. I biglietti venduti sono all’incirca ogni anno cinque milioni (lo Stato paga per ciò venti mila lire per ogni spettatore). Sono spese difficilmente contraibili: per un buon 50-60 per cento riguardano i costi fissi del personale, le cosidette « mas se orchestrali », i ballerini, gli impiegati, i tecnici. Si può risparmiare certamente sugli allestimenti (da 60 a 80 milioni e più a spettacolo) con un serio coordi namento tra gli Enti e forse si può spendere di meno rinunciando alla corsa alle celebrità. Ma l’autocritica e i buoni propositi che dovrebbero investire tutti, dai dirigenti alle forze sindacali, non sono sufficienti a ga rantire un futuro diverso. E nemmeno le trasforma zioni strutturali, né quelle drastiche proposte da chi sogna un’impossibile riduzione del numero degli enti lirici (attualmente sono tre, senza contare i cosiddetti « teatri di tradizione ») si illudono di trovare nel de centramento regionale la risposta a tutti gli interroga tivi. Né servono tirate moralistiche o la solita dema gogia. Visto che i soldi vanno spesi, accanto alla ricerca di risparmiare il più possibile e di usare controlli ri gorosi, facciamo in modo che questi miliardi siano davvero un investimento per la crescita culturale dei cittadini. Questo è appunto il nocciolo della questione. Serve una politica della musica che coinvolga tutte le istituzioni e le strutture che svolgono un servizio pub blico, dalla scuola ai conservatori, dagli enti lirici alle istituzioni concertistiche alla radiotelevisione. Gli ultimi dati statistici parlano di una crescita del pubblico, specie quello giovanile, per la lirica e per i concerti. È un buon segno: l’investimento ha un suo terreno favorevole. Nel nostro Paese in realtà spendiamo poco per lo spettacolo (100 miliardi per la lirica, nemmeno 10 per la prosa, e una trentina per il cinema, in forme diverse; sono spiccioli al confronto con investimenti in altri settori). La nuova legge per la lirica (e le altre leggi in pre parazione per la prosa e per il cinema, di cui si parla in questo periodo) dovrebbe avere questo spirito: es sere strumento per una politica dello spettacolo che punti ad elevare la qualità ed allargare la base degli spettatori. Nel dibattito su questa linea ce posto per tutti, per gli addetti ai lavori come per i giovani portatori di nuove esigenze. Dopo il terremoto, la spinta più naturale è quella che punta alla ricostruzione. La prima cosa da fare è intanto di garantire la so pravvivenza alle attività musicali per il 1978 e il 1979 (non esiste legge di finanziamento in proposito: quella vecchia, la legge 800, appunto, prevede appena sedici miliardi di sovvenzione e oggi ce ne vogliono almeno settanta, tenuto conto anche degli oneri passivi che gli enti pagano alle banche per i ritardi nelle proce dure di pagamento). Entro il 1979 poi dovrà essere efficace la nuova legge, attualmente all’esame del Se nato. È troppo chiedere a tutti realismo e senso di re sponsabilità? C. F. IL TERREMOTO NEGLI ENTI LIRICI Pubblichiamo alcune dichiarazioni e prese di posi zione sulla vicenda che ha portato all’arresto e alla scarcerazione di esponenti e operatori del mondo della lirica italiana. La rassegna non è completa, ovviamente, ma pensiamo possa essere indicativa dei problemi aperti dalla legge 800 e non ancora risolti. Carlo Pastorino (Ministro dello spettacolo): « Pur nel pieno rispetto del segreto istruttorio e delle decisioni della magistratura non posso non manifestare un vivo senso di sconcerto. Non vi è dubbio che esistano negli Enti lirici anomalie sulle quali siamo intervenuti e interverremo senza esitazione. Per quanto riguarda la legge n. 800 sto predi sponendo con gli uffici competenti del Ministero un prov vedimento legislativo da sottoporre con la massima ur genza al Consiglio dei ministri ». Sarti e Picchioni (De): Per l’ufficio culturale della De mocrazia cristiana il senatore Sarti e l’onorevole Picchioni hanno dichiarato: « Il segreto istruttorio non permette di accertare se l’arresto di alcuni dei più noti personaggi della cultura musicale italiana ed internazionale risale ad una violazione della legge 800 che vieta l’assunzione di artisti tramite mediatori teatrali. Se così fosse il provve dimento della magistratura si baserebbe sul mancato ri spetto di norme notoriamente inapplicabili. Anche per questo infatti si è resa e si rende necessaria una riforma della legge 800 per la quale esistono numerose proposte di legge governativa e parlamentari che le forze politiche sono chiamate a prendere in sollecita considerazione ». « L’interesse della classe politica italiana come degli uomini di cultura — hanno aggiunto — è nel senso di un rapido e convincente scioglimento dell’increscioso e scon certante nodo determinatosi a seguito della odierna ini ziativa della magistratura. Uomini di riconosciuto altissimo prestigio culturale e professionale sono stati coinvolti in un pesante giudizio morale. Nessuno di noi certo può aval lare pretese franchigie penali nei confronti degli intellet tuali ma certi atteggiamenti, almeno per quel che si è visto oggi, sembrano affrettati e persecutori ». Tortorella (PCI): « L’arresto di alcuni eminenti musi cisti e musicologi è un’operazione di estrema gravità. Ci troviamo di fronte a un gesto chiaramente e nettamente politico, particolarmente serio in un momento di delicata e diffìcile azione intorno alle questioni dell’ordine pubblico. Colpendo indiscriminatamente si tende a esasperare gli animi e a disorientare ». Lo afferma l’onorevole Aldo Tor torella, responsabile della sezione culturale del PCI, facendo presente che « non da oggi tutti gli enti lirici italiani vi vono, per quanto riguarda le scritture di artisti, in una situazione anomala. Tale situazione — prosegue il parla mentare comunista — è determinata dai governi degli ul timi dieci anni che non hanno mai creato quell’ufficio pub blico per le scritture che la legge varata nel 1967 impo neva ». Tortorella fa presente inoltre che « si vuole dare un colpo agli enti lirici nel momento in cui essi si vengono risanando e riqualificando per l’opera delle nuove ammi nistrazioni e di uomini come Lanza Tornasi o Bussotti che hanno dato con assoluta dedizione il contributo della loro preparazione a questa opera di rinnovamento ». La segreteria del PSI: « Gli ordini di cattura emanati nei confronti di alcune illustri personalità del teatro lirico hanno sollevato nell’opinione pubblica perplessità e preoc cupazione ». Lo afferma un comunicato della segreteria del Psi che così prosegue: « Pur rispettando l’indipendenza della magistratura, è diffìcile sfuggire alla impressione che la legge sia stata in questo caso applicata in modo stretta- mente letterale senza tener conto di un elementare senso di giustizia e che quanto è accaduto si traduca in esibi zionismo moralistico più che nella moralizzazione di un settore nel quale operano uomini di altissimo livello cul turale e che per il nostro paese è fonte di prestigio inter nazionale ». Luigi Preti (Presidente dei deputati del PSDI): «Non esistono in alcun modo gli estremi per l’arresto delle per sone messe sotto accusa per la vicenda degli Enti lirici tanto che, sicuramente, saranno rilasciate entro pochi giorni ». L’on. Preti ha inoltre chiesto al Ministro di Grazia e Giustizia Bonifacio se non ravvisi gli estremi per deferire al Consiglio superiore della magistratura il sostituto pro- curatore della Repubblica di Roma dr. Fico. « Da tempo — afferma Preti — si lamenta che una piccola minoranza di giudici manifesta una specie di arroganza del potere che contribuisce a indebolire le istituzioni e a sminuire il credito dello Stato ». Giulio Carlo Argan: Il sindaco di Roma ha dichiarato — senza con ciò voler entrare nel merito dell’indagine della magistratura, per l’arresto di Lanza Tornasi — « che dello stato di incertezza e di disordine amministrativi di tutti gli enti lirici è responsabile in primo luogo il mini stero dello Spettacolo che, non avendo in oltre 10 anni dato attuazione a quanto previsto dalla legge n. 800 del 1967, ha determinato uno stato di carenza normativa che rende possibili interpretazioni diverse e talora volutamente distorte degli atti dei dirigenti dei teatri nel reclutamento degli artisti ». Giovanni Spadolini: Il presidente della Commissione Pubblica Istruzione e Beni Culturali del Senato si è detto « stupito ed incredulo » in attesa di conoscere meglio i capi di accusa formulati dal magistrato ed ha contempora neamente criticato « le inadempienze e le lacune della classe politica, che non è riuscita a formulare ancora una legge decente ». Un gruppo di artisti: Centocinquanta esperti del mondo musicale, a proposito delle recenti iniziative della Magi stratura, scrivono: « I lavoratori e gli artisti dello spetta colo, sdegnati da una presa di posizione che offende con disinformazione e faziosità la giustizia italiana, confermano solidarietà e fiducia nell’opera della Magistratura, richia mandosi all’art. 4 della Costituzione: ”La Repubblica ri conosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto” ». Tra le altre le firme dei cantanti lirici Mario Del Monaco, Syeva Sebastiani, Rita Orlandi Malaspina, Franco Bonanome, Ottavio Garaventa, Pier Miranda Ferraro, Aldo Protti, Luisa Malagrida, Alberto Valentini, Walter Alberti, Flaviano Labò, Gianna Galli, Umberto Borsò, Mima Pecile, Aldo Bettion, Licinio Montefusco, Maria Luisa Cioni; il direttore d’orchestra Carlo Franci, la prima ballerina di Teatro dell’Opera di Roma Diana Ferrara, il maestro Sal vatore Allegra, il critico musicale Renzo Bonvicini. I Sovrintendenti dei teatri lirici: Nella sede dell’ANELS (Associazione Nazionale Enti lirici e sinfonici) i sovrin tendenti dei teatri dell’Opera italiani, hanno discusso sulla situazione venuta a crearsi dopo l’arresto delle numerose personalità del mondo della musica. Al termine è stato stilato un documento. « È stato un lavoro molto laborioso — ha dichiarato Alberto Cappelli sovrintendente dell’Are na di Verona — abbiamo dovuto compilare un testo che ci trovasse tutti d’accordo e che mettesse soprattutto in rilievo la carenza delle leggi, causa prima di questa vicenda giudiziaria ». Nel documento infatti l’assemblea dell’ANELS dichiara che « la materia dell’assunzione degli artisti è regolata in maniera irrazionale dalla legge 800 che, tra l’altro, non ha avuto neppure concreta attuazione non essendo funzio nanti gli organismi della quale essa e il successivo decreto del 1971 hanno previsto soltanto sulla carta la costituzione». Queste insufficienze legislative hanno condizionato — se condo i sovrintendenti — l’attività degli Enti Lirici co stretti ad operare in assenza di un’idonea normativa ». « In questo documento — ha detto Carlo Maria Badini, sovrintendente al teatro della Scala e presidente dell’ANELS — ci siamo rifatti alle cause che hanno dato il via al prov vedimento della magistratura ». « Ma la parte sostanziale del nostro documento — ha spiegato Carlo Maria Badini — è la richiesta di provvedi menti legislativi d’urgenza, coordinati e armonizzati con quelli degli altri paesi della Comunità europea ». Chiedono pertanto al ministro per il Turismo e dello Spettacolo, che dia seguito in un testo legislativo alle di chiarazioni già espresse per il collocamento degli artisti, con provvedimenti d’urgenza e in coordino con le legisla zioni europee. Che il Senato della Repubblica riprenda e concluda senza indugi l’esame dei progetti di legge sulla riforma delle attività musicali. Che la Camera dei deputati provveda a disciplinare il rapporto di insegnamento nei Conservatori di musica. Federazione Lavoratori dello Spettacolo: « Dove sono stati commessi reati è giusto che vengano perseguiti i re sponsabili. Non si può tuttavia nascondere l’incredulità e il disorientamento diffusosi tra i lavoratori dello spettacolo per l’ampiezza del provvedimento ». Un gruppo di compositori: « I compositori italiani e stranieri qui sottoscritti esprimono la loro aperta e totale solidarietà alle personalità del mondo musicale oggetto del clamoroso caso giudiziario verso le quali confermano la loro alta stima e considerazione. Auspicano un pronto chiari mento della loro posizione nei riguardi della legge e ove sus sista diffamazione la persecuzione legale dei diffamatori ». Firmato: Goffredo Petrassi. A questo testo hanno aderito i compositori: Girolamo Arrigo, Walter Baccile, Luciano Berio, Pierre Boulez, Aldo Clementi, Franco Donatoni, Hans Werner Henze, Ennio Morricone, Virgilio Mortari, Francesco Pennisi, Armando Renzi, Nino Rota, Karlheinz Stockhausen, Guido Turchi. I critici musicali romani: In merito ai mandati di cat tura che il 30 maggio scorso hanno colpito personaggi mag giori e minori della vita musicale italiana, esprimiamo i seguenti auspici: 1) che la legge che attualmente vieta le agenzie arti stiche venga sollecitamente abolita, come inapplicabile e assurda; 2) che a chiusura dell’incredibile caso, coloro i quali, pretestuosamente denunziando reati inesistenti o non com messi, hanno consegnato cittadini onesti alle manette, ven gano perseguiti a termini di legge come calunniatori. Invitiamo i nostri colleghi di tutta Italia ad unirsi a noi, critici musicali della stampa romana, comunicando la loro adesione ad uno qualunque dei sottoscritti. Firmato: Corrado Atzeri - Luigi Bellingardi - Bruno Cagli - Giovanni Carli Bailóla - Claudio Casini - Enrico Cavallotti - Teodoro Celli - Piero Dallamano - Fedele d’A- mico - Giampiero Francia - Alfredo Gasponi - Landa Ke- toff - Ennio Melchiorre - Ennio Montanaro - Umberto Pa droni - Mya Tannenbaum - Guido Turchi - Erasmo Va lente - Dino Villatico - Michelangelo Zurletti. Giorgio Strehler (regista): « I provvedimenti contro Siciliani, Lanza Tornasi e altre personalità del mondo mu sicale suscitano in me profondo sgomento. Desidero testi moniare piena affettuosa solidarietà ». Luigi Squarzina (regista) : « Mi associo alla indigna zione contro l’ingiusto provvedimento, che nella carenza legislativa colpisce alte e specchiate personalità della cul tura musicale e teatrale italiana e internazionale ». Severino Gazzelloni (flautista): «Parlo per me, ma è come se parlassi a nome di altri concertisti. Non avessi avuto l’aiuto degli agenti, probabilmente sarei ignoto a gran parte del mio pubblico. Un pubblico che, oggi, mi segue fedele e appassionato. Non sono stati gli scopritori di ta lenti a portarmi negli Stati Uniti, in tutta Europa e in mezzo mondo. Sono intervenuti gli agenti, che ritengo un ’’male” necessario. La legge, a questo proposito, andrebbe rivista: nel frattempo, ritengo grave gettare in carcere degli uomini di cultura. A che serve? Forse solo a turbare di più, in un momento così delicato della vita del paese, l’animo e la vita professionale degli artisti ». Claudio Casini (professore di storia della musica): «Le agenzie teatrali all’estero svolgono un servizio lecito, indi spensabile e controllato. In Italia, per malinteso morali smo e mancanza di leggi, svolgono un lavoro ugualmente indispensabile ma illecito e quindi incontrollato ». Claudio Abbado (direttore d’orchestra): «Alla mia in condizionata solidarietà alle importanti personalità del mondo musicale italiano, fra le quali Francesco Siciliani, Lanza Tornasi e Bussotti, già espressa approvando il do cumento Anels, voglio accompagnare quella personale di musicista, che nella sua attività ha constatato quanto glan de sia stato il loro contributo di lavoro e di idee per la diffusione e la crescita della vita musicale italiana ». Uto Ughi (violinista): «Esprimo la mia solidarietà al maestro Siciliani e la mia costernazione per il trattamento riservato ad alcuni tra i maggiori esponenti del mondo musicale italiano ». Juri Aronovich (direttore d’orchestra): « Protestando contro arresto assurdo invio il mio cordiale saluto al mae stro Francesco Siciliani ». Zubin Mehta (direttore d’orchestra): « Il grave prov vedimento nei confronti di eminenti personalità del mondo musicale italiano, fra i quali l’illustre Francesco Siciliani, suscita profondo sgomento nella mia persona e provoca la mia affettuosa solidarietà e la mia rinnovata testimonianza di stima e di rispetto per quanti hanno saputo con dignità e con abnegazione diffondere e servire la cultura musicale. Ho parlato con i maestri Léonard Bernstein, Isaac Stern Beromboim, Carlos Kleiber, col Sovrintendente Seefehlner di Vienna e col Sovrintendente Tooly di Londra: sgo menti per la gravità del fatto invieranno testimonianze ». Nella foto Irina Bogaciova. Il contralto sovietido, proveniente dal Teatro Kirov di Leningra do, ha riscosso un lusinghiero successo all’Accademia Filarmo nica Romana, dove ha presentato un recital di musiche cameri stiche e liriche. La Bogaciova ha dato dimostrazione di grande temperamento e voce suggestiva; l’esecuzione delle arie russe in programma è stata acdellente; ed ha costituito la parte più cospicua di un concerto di alto livello, degno delfa più alta scuola russa, conclusosi fra calorosi applausi del pubblico, con l’ese cuzione di tre bis fra cui una interessante interpretazione del- l’Habanera dalla Carmen di Bizet. Ivan il Terribile di Serghej Prokofiev per recitante, soli, coro, coro di voci bianche e orchestra, ha trionfalmente aperto la stagione sinfonica del 41° Maggio Musicale Fiorentino. Alla gui da dell'orchestra del Maggio, Riccardo Muti (nella foto) che an cora una volta ha dato prova delle sue eccellenti qualità inter pretative, secondato da un cast vocale di primordine con: Irina Archipova, contralto; Gianluigi Colmagro, baritono; Boris Mor gunov, recitante. Una interminabile ovazione ha accolto la fine del concerto e Riccardo Muti, assediato dal pubblico, ha volen tieri concesso la ripetizione dell’ultimo brano del lavoro di Pro kofiev. « L’albero degli zoccoli » di Ermanno Olmi, prodotto dalla RAI e dall’ltalnoleggio per la rete 1, ha vinto la Palma d'oro al Festival di Cannes 1978. L'alto riconoscimento internazionale pone Olmi tra i grandi del cinema mondiale e costituisce un nuovo alloro per i dirigenti e i programmisti della RAI. Già alla sua presentazione al pubblico il film, che racconta le vicende di alcune famiglie contadine dei Bergamasco alla fine del secolo scorso, aveva raccolto un coro unanime di consensi. Riportiamo alcuni titoli dei giornali del 18 maggio scorso: « Olmi, un canto come Virgilio, un'egloga purissima sulla terra » (Il Tempo); « Solenne poema di Olmi » (Il Giorno); « Un vangelo contadino » (L’Unità); «I profondi valori degli umili» (L'Avvenire); «Olmi, il primo vero film contadino» (La Stampa); «Una tenera favola bergamasca incanta il pubblico di Cannes » (Il Giornale); « I contadini manzoniani di Olmi » (La Nazione); « Olmi candidato alla Palma d'oro » (Il Mattino); « L'antinovecento di Olmi » (La Gazzetta del popolo); « II mondo contadino del nobile film di Olmi » (Il Messaggero); « Padre nostro che sei contadino dacci oggi la memoria collettiva » (Repubblica). I T A L O A L I G H I E R O C H I U S A N O I N S I E M E N E L B U I O r a d io d r a m m a Quando negli anni ormai lontani del dopoguerra incontrai Alighiero Chiusano trovai del tutto naturale che egli fosse uno studioso di letteratura tedesca; se fosse stato diversamente sarei rimasto sorpreso; in somma dal personaggio Chiusano così come mi si pre sentava a prima vista e il suo specifico impegno cul turale c’era una esatta corrispondenza. Se fossi stato un regista di film e mi fosse servito un interprete per un personaggio di intellettuale che si occupava di studi tedeschi avrei detto indicando Chiusano: eccolo, è lui. Questa spontanea identità non si è poi mai smentita con lo scorrere degli anni. Anche il suo fervore, se ci si addentrava in discorsi culturali, aveva accensioni, sottigliezze e anche certe rozzezze che rientravano nel suo personaggio. Per certe ricerche, per certe informazioni o per gli ultimi aggiornamenti letterari o teatrali che riguardassero la più recente pro duzione tedesca veniva naturale, nel dubbio, pensare a lui: e le sue indicazioni e precisazioni erano sempre esatte e pronte. Non mi stupii nemmeno quando conobbi, in un secondo momento, la sua attività creativa, il suo pas sare dalla critica all’inventiva sia teatrale che narra tiva. Di un altro mi sarei un po’ stupito, non di Chiusano. Anzi mi sono andato convincendo con gli anni che la sua vera vocazione fosse precisamente crea tiva e lo studio, anziché soffocare la sua vena di fan tasia, ne stimolasse le accensioni. Certe sue indagini e approfondimenti su Heinrich Boll, per esempio (un autore che entrambi stimiamo grandemente), non sono mai aride e staccate valuta zioni critiche, ma palpitano di intuizioni che sono piut tosto dell’autore che dello studioso. E anche come con sonanze di fondo ho scoperto che, poniamo, un Dietrich Bonhoeffer col suo messaggio delle « cose penultime » è un eroe cristiano che ci è egualmente caro e di cui ci siamo, insieme, l’uno all’insaputa dell’altro, fervida mente appassionati. Debbo però dire che Chiusano mi appare ancora come uno scrittore pieno di ferverò di fronte ad un bivio o, che è poi lo stesso, dalla doppia vocazione: studiare o creare? Perché se nello studio ha già rag giunto risultati definitivi nella creazione ha finora dato l’impressione di impegnarsi in tanti assaggi, in tante prove senza essersi ancora tuffato in una impresa che lo rappresenti completamente. Alla domanda di Rilke se fosse disposto a sacrificare la sua vita pur di scri vere, Alighiero Chiusano sarebbe, penso, ancora inde ciso sulla risposta perentoria da dare. Per questo, credo, le sue opere narrative, i suoi numerosi atti unici teatrali sembrano essere tanti annunci positivi, tante promesse che aspettano però un seguito, un compimento. È quello che noi, io almeno, aspettiamo con sincera speranza. Diego Fabbri Dal silenzio, in avvicinamento, il ticchettio di una sveglia, che domina un attimo, ossessivo, in P.P., poi retrocede, rimanendo in SF. lu i (Voce interiore)-. Le undici e quaranta. Numeri fosforescenti, verdi, pupille di gatto nella notte. E il tempo che passa. Lei dorme già, respira dolce... Dovrei ricordare quel viaggio a Urbino, la strada, gli slarghi verdi, tra i colli, a una svolta improvvisa, quelle case ranicchiate in alto... Quanto manca? (Pausa). Dieci ore e venti. Adesso anche meno. Sve gliarsi, ciao amore, dormito bene?, che bella domeni ca, c’è il sole, che brutta domenica, piove; su, faccia mo in fretta. Si scende, il saluto del portiere, la stra da quasi deserta, domenica mattina, poche auto, rari passanti, quanto manca, non arriveremo in ritardo?... No, ce l’abbiamo fatta: passa, passa tu, io tengo aperta la portiera, entriamo... (Di colpo, esplosivo, un fragore d’organo, un coro di chiesa: la Messa, sentita come un incubo. Allo stesso modo, anche il campanello del chierico, il mormorio del celebrante, le risposte corali dei fedeli. Passa in SF dopo alcuni secondi). Anche domani. Inevitabile. Niente scuse: le capirebbe, farebbe domande. Ho mal di gola: chiamiamo il medico. Stamattina non mi sento: an diamo nel pomeriggio. O la verità?... La verità non si può, dimentichiamola. Partire sabato prossimo, una scusa di lavoro, girare tutta la domenica in una città di provincia, vedersi una partita tra le squadret- te locali, cacciarsi in un cinema, dormire all’albergo, tornare lunedì mattina. « Sono contenta che tu sia tornato. Ti sei ricordato, ieri, della Messa? » « Sì, cara, me ne sono ricordato »... (Sospira). Dormire, Dormire due giorni. Svegliarmi dopodomani, lunedì per andare in ufficio. « Me ne sono ricordato... Me ne sono ricordato... » (DISS. In assolvenza, un im pasto tra il tic-tac della sveglia e il ruggito dell’orga no. Pochi secondi, poi si tronca di colpo). Atmosfera mattutina, finestre aperte, in strada passa ogni tanto un’ automobile.. questa. le i: Che bella domenica, c’è il sole. lu i: Che brutta domenica, piove. le i (Ride): Piove? Vedi piovere? lu i: Vedo piovere, sì. Ma tu non sai. Una mia fisima. le i: Non quella cravatta, stona col vestito. Metti lu i: Grazie. le i (Dopo un indugio): Dici che non so? lu i: No, gioia. Non sai niente di niente. le i: E se invece io sapessi tutto? lu i: Tu? Che cosa? le i: Ma... che le farfalle sono lepidotteri. lu i: Ah, questo sì. le i: Che il lago Balaton è in Ungheria. lu i: Caspita. Lo sai anche che mi piace guardarti? le i: Lascia, parliamo sul serio. lu i: Dimmi... (Effetto di eco, vicino, lontano, ingigan tito, sussurrato) Dimmi... dimmi... dimmi... DIM MI! le i (Su quel SF, sussurrando in PP. P. con voce in teriore): Dammi la forza. Fà che gli dica, e che non sia uno sbaglio. (La voce e il SF si troncano di col po. Ambiente di prima, una battuta di silenzio). lu i: Be’, non mi dici niente? le i: Sì... (Con un tremito nella voce): So che vorresti che oggi fosse lunedì. lu i: Mi fai così attaccato al lavoro? le i: È vero che ti piacerebbe vedermi uscir sola, seguirmi dai vetri mentre sbuco dal portone, alzo la testa, la mano per salutarti, proseguo tutta sola, scompaio dietro l’angolo? lu i (Dopo una pausa): Perché dovrebbe piacermi? Lo sai che amo star con te il più possibile. andare insieme. le i: Sì, ma non seguirmi dove vado, dove stiamo per lu i (C.s. ): Da quanto tempo lo sai? le i: Da parecchio. Due anni. lu i: E solo oggi...? Perché? le i: Speravo che fosse un fatto passeggero. Non volevo impegnarti a una presa di posizione. (A bassa voce) E poi, confesso, mi spiaceva un poco veder finire la nostra « congiura ». STACCO NETTO Rumore di strada, ma al rallentatore, distorto dalla memoria. lu i: A Ostia Antica? Ci verrei sì. le i: E allora andiamo, ci saranno anche i miei cugini, la giornata è un incanto, piangeremo là, poi tutto il pomeriggio tra gli scavi. lu i: Posso raggiungervi dopo pranzo. le i: Ma no, non faccia il difficile, venga subito, perché buttar via queste belle ore della mattinata? (Pausa). O è trattenuto da qualcosa? lu i: Veramente sì. Stamattina non posso. le i (Dopo un silenzio): Lo sa che è arrossito? LUI: Già. le i: Perché? lu i: Perché oggi, per fortuna, di certe cose si ha pudore. Si tengono nascoste. le i: La capisco. Anch’io ho una certa difficoltà a dirle che... ci sono già stata, a Messa. lu i: Ci vorrebbe un segno di riconoscimento segreto, come al tempo delle catacombe. le i: Sì, come per una congiura. (Pausa). Lo sa che lei mi è molto più simpatico, dopo questo che mi ha detto? lu i: Lei, più simpatica di così non mi può diventare. le i: Congiurati, allora? lu i: Congiurati. STACCO NETTO Atmosfera sonora di prima. lu i: In questo non so se siamo ancora congiurati. le i: Io lo so, invece. No, non lo siamo più. lu i: Sei decisa. le i: Non vogliamo parlar chiaro, finalmente? lu i: Arriverai in ritardo, parliamo dopo. Mi hai già regalato molto: oserò non venire con te, stamattina. Rimarrò a casa. Ascolterò il silenzio della domenica, con appena un ronzio di aspirapolvere, un filo di musica uscito da una radio chissà dove. È raccogli mento anche questo. Forse meglio che là dove vai tu, e dove mi tormento soltanto, mi sento in colpa, mi chiedo che cosa è successo. le i: D’accordo. Ma parliamo subito. Io andrò più lu i: Che cosa possiamo dirci? le i: Ma questo, caro! Questa cosa più importante di tardi. tutte. Parlarne. lu i: Non vorrei darti tristezza. le i: Se mi hai sposata per « risparmiarmi », forse non mi amavi abbastanza. « La moglie deve seguire il marito dovunque egli ritenga opportuno fissare la propria residenza ». Non dice così, il Codice? Se la tua residenza è il buio, il deserto, vuoi che io resti nella città illuminata a ridere, a divertirmi? lu i: È perché ti so così che ho preferito tacere. Tu le i: Lo faccio per egoismo. Perché quando soffri da non mi lasci mai soffrire da solo. solo, io soffro di più. lu i: Ce ne fossero, di egoisti come te. le i (Dopo una pausa): Dimmi, quando è cominciato? Tre anni fa eri ancora « dentro », come si dice. E non perché tu fossi beato nella certezza, ma perché protestavi, ti arrovellavi nella battaglia di allora. lu i: Lo sai che li rimpiango, i miei furori di quegli anni? STACCO NETTO Un salotto. Brusio di conversazioni. Lontano, un giradischi diffonde una canzone dei primi « anni ses santa ». le i: Càlmati, su, non è un dibattito, è una serata tra amici. lu i: Se sono amici capiranno che ho bisogno di sfo garmi. Ma come, un libro simile te lo tacciano di eresia, di calcolo, di laicismo? Ma se è la cosa più fervida, santa che ho letto negli ultimi anni! le i: Non c’è dubbio, ma... lu i: Ma ma! È una cosa indegna! Sì, non ho altra parola... (Freme, si calma; ora con profonda tristez za): Ah, senti, verrebbe voglia di uscirne fuori, di continuar la lotta dall’esterno. le i: Non lo faresti mai. E poi, loro non devono restare i soli, dentro la... come si dice?, la casa del padre. lu i: No, non faremo loro questo regalo. Rimarremo dentro. Ma a combattere, a combattere, a combatte re. Perché tutto questo deve finire, se non finirà il resto. le i: Riesci a fare lo sforzo di amarli, nonostante tutto? lu i: E me lo chiedi ora che ci vedo rosso? le i: È ora che sarebbe importante riuscirci. Non quan do ti avranno stancato e annoiato. lu i: Be’, ci penserò su. Poi te lo saprò dire. (Ride, suo malgrado). Sei tremenda. Su, passami un goccio di whisky. STACCO NETTO to dopo. le i (Atmosfera sonora di prima): Sì, certo, è comincia lu i: Forse tu lo prevedevi. Dicevi che mi sarei stanca to, annoiato. Ebbene, un giorno cominciai a stancar mi, ad annoiarmi. le i: Me ne accorsi quando smettesti di parlarmene. lu i: Capii che ti avrei contagiato non il mio fervore, la mia rabbia, ma un rifiuto ormai freddo, un’incapacità di accettare che ogni giorno si faceva più grande. Grande e tranquilla. È questa spaventosa tranquillità che non volevo trasmetterti. le i: Ma l’ho sentita, sai? Non potevo dirtelo, ma avevo la tentazione di gridarti: « Arràbbiati ancora, impreca, dì qualche enormità ». Ma non l’hai più fatto. lu i: No, non l’ho più fatto. (Silenzio). le i: E... non vuoi dirmi perché ti sei staccato da ciò che — me l’hai detto una volta — amavi ancor più del nostro amore? lu i: Lo sai che è quasi impossibile risponderti? le i: Lo so, ma prova. Parlami almeno del tuo disagio. lu i: Vedi, cara... Vieni qui, lascia che parli nei tuoi capelli, senza guardarti in faccia. (Pausa. Sottovoce, vicinissimo al microfono): Vedi, la ritirata del so prannaturale, ai nostri occhi, è continua, inarrestabi le, si ha l’impressione della nascita e dell’evoluzione di una pianta, ma proiettata a ritroso: dal massimo sviluppo al rimpicciolimento, all’estinguersi totale. le i: Forse è un bene. Quanti rami secchi, quante foglie inutili se ne vanno. Si torna al seme. Non è stato sempre il seme la cosa più importante? lu i (Non ascoltandola): Ci si offrono varie ipotesi sul mondo. Una grande famiglia, ad esempio, che si organizza contro l’ingiustizia, lo sfruttamento, che appresta gli strumenti per dominare il mondo e dare a tutti serenità e benessere. Un cammino difficile, con ricadute e vergogne: ma lo stiamo percorrendo, domani ci arriveremo, a questa grande famiglia. Ma è una famiglia senza padre, e che del padre non sente il bisogno, ne può fare a meno. le i: Forse il padre è così discreto da lasciarci quest’il lusione, affinché da bambini diventiamo adulti. lu i: Un’altra proposta allettante. La conoscenza del l’uomo e dei suoi meccanismi interni. Non più paura dei sogni, degl’incubi, non più il segno del mistero davanti alle nostre reazioni, alle nostre follie, ma la certezza delle cause, il potere di rimuoverle, di gua rirci. E addio peccato, grazia, espiazione. Cambia il vocabolario perché cambia la realtà e la conoscenza. Le tavole dei valori s’incrinano, si spezzano, eccole sbriciolate in minutissima sabbia. Dov’è ancora, in tutto questo, il posto per i valori, la Presenza di un tempo ? le i: Forse proprio in questa liberazione, in questa dignità nuova e senza tremori che, ricordi?, ci era già stata promessa. Se l’avevamo interpretata diversa- mente, la colpa fu nostra, o della storia. lu i (Distaccato, a voce più alta)-. Anche questo è ter ribile. Io che parlo, tu che mi rispondi cosa da me ditare, io che vorrei afferrarle e me le sento sgusciar via dalle dita, imprendibili... le i: Vale così poco, quello che si può dire. lu i: E allora perché parlare? Ciascuno chiuso nella propria sfiducia o nella propria certezza. Non è il meglio? le i: Forse sì, sul piano delle parole. lu i: Perché svaluti le parole? Di che cosa è fatto, il nostro pensiero, il nostro contatto con gli altri, se non di parole? le i: Di gesti, talvolta. lu i: Gesti? le i: Naturalmente non esteriori. Uno che va a curare gli infermi, che vive in mezzo ai baraccati, fa un gesto. Dici che non conta? lu i: Per le miserie materiali sì. Ma un’inquietitudine dello spirito... peso? le i: Non è detto (Pausa). Vuoi passarmi il tuo... lu i: Non ti capisco. le i: Tu ti tormenti, forse ti senti in colpa... lu i: Anche. le i: ... Pensi e ripensi, ti chiedi perché, vorresti risol vere la tua crisi. Non farlo. Riposati, rilàssati, come ti direbbe uno in camice bianco. Lascia lì il tuo motore, col guasto che lo ha fermato. Lo porto io dal... (con un piccolo riso timido) dal meccanico, tu cerca di dimenticare. lu i: Credi che si possa? le i: Sì. Ma tu provaci, almeno. lu i (Pausa): Tu pensi a una dottrina che ho molto amato. Quella per cui una creatura può soffrire, espiare in luogo di un’altra, ottenendole doni che l’altra nemmeno desidera. Ma se non riesco più a credere in queste cose? le i: Basta che ci creda io. lu i: E tu, ci credi veramente? le i: Sì. lu i (Pausa): È un forte peso che ti accolli. Te ne rendi le i: Sì. lu i: E, bada... è molto probabile che tu resti delusa. lei: Lo so. lu i (Affettuoso): Sai proprio tutto, tu. le i (Trepidante): Allora accetti? lu i: Non te lo proibisco. Più di questo... le i: È sufficiente. Grazie. Grazie! (In allontanam.): lu i: Dove corri, adesso? le i (2° p.): Aspetta. (Musica in 2° p.: un quartetto ben conto? Grazie, sai. d’archi). Ti lascio in buona compagnia. Io vado a sentirmi un po’ d’organo. Ciao. (Pochi passi, porta chiusa con slancio). lu i (Rimasto solo; assorto): Ciao, cara... La musica avanza in P.P., domina un attimo, poi dissolve. In DISS. Incrociata emerge, lenta e come astratta, una variazione per organo. le i (Voce interiore, sull’organo): Ce la farò. Ne sono sicura. Lui è come in fondo al mare, in un’acqua amarissima. Ma io respirerò anche per lui. Ce la farò... ce la farò... (Diss. incrociata). lu i (Sul quartetto d’archi, ma stranamente rallentato e quasi irriconoscibile): Forse ho sbagliato. Dovevo tacere. Ora mi spierà, attenderà un risultato. Voglio essere libero, cara, capiscilo. Libero anche da questo ricatto d’amore. Mi hai detto: Dimentica. Ebbene, dimenticherò anche questo. (Quasi duro): Ti ignore rò. (DISS. incrociata). le i (L’organo è sempre più slegato, sinistro): C’è quasi da ansimare, come a scalare una montagna,.. Lo credevo più facile. Si dice: peso, fardello, sembrano parole. Ma anche lo spirito ha i suoi quintali, le sue tonnellare. (Con una punta d’angoscia): Aiutami, ce la farò? Devo farcela! (DISS. incrociata). lu i (Su singole cavate di violino, di violoncello, nutrite e gradevoli): Ti ringrazio, sai, cara. Mi sento davve ro meglio. Non che sia cambiato qualcosa, in ciò che credevo e non credevo. Ma l’ossessione, il senso di colpa sono passati. Ora posso rifiatare. (Con un sorriso nella voce): Ho messo il mio problema nelle mani di un’esperta, io vado in vacanza, mi godo il sole, la gente che passa. (DISS. incrociata). le i (L’organo ormai è decisamente minaccioso, mug ghia note cupe su un pedale inquietante): Credo... di non avercela fatta. (Ansima): Dovrei sedermi, ripo sare. Tornare indietro. Andare avanti è impossibile. Ma tornare indietro non si può. (Con angoscia): Ho freddo, non vedo più niente, perché ho presunto delle mie forze? Come potevo sperare di farcela? Sciocca, stupida creatura, chi ti credevi di essere? E ora lui se ne accorgerà, e sarà terribile... (DISS. incrociata). lu i (C.s., ma con note d’archi ancor più dolci e filate, anche se non costituiscono un vero discorso musica le): È la migliore delle soluzioni. Io sono libero, posso dimenticare, ho già dimenticato. E lei è felice, lo si vede, basta guardarla. Spera per me e per sé, crede per me e per sé. Quasi la invidierei. Non senti, amore, che distacco c’è tra di noi, ora che siamo tranquilli per due cause così opposte? Ma tu non te ne accorgi. Bene, vivi serena, va bene così. le i (Urla, a superare un boato continuo d’organo che sembra una marea straripante): Rifiuto! Rifiuto questo compito inumano! Lasciatemi fuggire! Fuggi re! (La sua voce è rimpicciolita in rapidissima DISS., mentre il boato dell’organo ingigantiva fino a schiac ciarla. Un attimo di quella nota d’organo al massimo volume; poi di colpo, lo schianto come di una corda di contrabbasso che si spezzi. Silenzio per 7 secondi). Interno stanza. esaurimento. lu i: Dice il medico che non hai nulla. Sarà un po’ di le i (La voce smorta)-. Sì. lu i (Dopo una pausa)-. Che cosa c’è, cara? Sei cambia ta. Ti si è come... come rotta una molla. le i: Forse. Una molla. (Con sforzo): La sostituiremo. lu i (Dopo averla studiata): Non mi piaci, sai. le i (Scherza con tristezza): Comincio a invecchiare? lu i: Non dir sciocchezze. Eri come euforica, fino a pochi giorni fa. Ora, invece, quasi di colpo... le i: Euforica? Sì, forse. Parevo euforica. lu i: Non lo eri? le i: Si può essere euforici sul serio, per tanti mesi? O si hanno motivi straordinari, o si finge. Io... non avevo motivi straordinari. lu i: Allora fingevi? le i (Scoraggiata): Non so, non so, non stancarmi con domande. lu i (Dopo aver riflettuto): Sì, certo, motivi straordina ri di euforia non ne avevi. Ma quando uno ha le tue certezze, tutto può essere causa di euforia. le i: Le certezze... (Fa un ridente sospiro). Non parlia mone. lu i (Illuminato di colpo): Che cosa vuoi dire? Forse che anche tu...? No, non è possibile! le i: Impossibile? Una volta si parlava di « confermato in grazia ». Per dire che prima della morte non lo era nessuno. Ebbene, neanch’io ero « confermata in grazia ». lu i (Dopo un silenzio): Tu sei scombussolata, sragioni. Non posso credere che tu mi abbia seguito su questa strada: lo escludo, lo escludo! le i (Vagando col pensiero): Come certi cagnolini, sai, ostinati, disobbedienti. Lo hai lasciato a casa, guai a te se ti muovi, sei sceso in giardino, al buio, sei arrivato al cancello, apri, stai per uscire, e lui è lì, ai tuoi piedi: ti ha seguito senza che tu lo sapessi... lu i: Non far paragoni assurdi. Tu sapevi bene dove mi avresti seguito, in che deserto. Tu stessa mi avevi proposto di restarmene a casa, al caldo, nella luce: per te e per me. to senza volerlo, senza saperlo. le i: L’intenzione c’era. Invece, eccomi qui, ti ho segui lu i (Vibrante): Io rifiuto la tua compagnia dove mi trovo! (Pausa. Si addolcisce). Scusami, cara. Ma ren diti conto: lo sai di che rimorso mi carichi? le i: Tu non c’entri. lu i: Ma come non c’entro! Sono io che ho accettato quella proposta pazza, immorale, sì, immorale, ora lo vedo. Sarà tardi, ma la rifiuto, ti rifiuto, mi senti? le i: Così vuoi lasciarmi anche sola? (Con angoscia): Sola? Qui? lu i (Con improvvisa tenerezza): Amore, capiscimi. Io non^ti voglio, qui, a penare in quest’incertezza. Resta dov’eri, anche a nome mio. le i: Non posso. Sono venuta via, ormai, e la strada del ritorno è sbarrata. Devi tenermi con te, te lo chiedo per favore. lu i (Furioso): Ma che favore! Ti rendi conto di quello le i: Non si vede, che me ne rendo conto? che hai perduto, che perdi? lu i (Ha trovato un argomento, parla con fervore): Senti, cara, ascoltami. Lo sai che cominciavo a rivi vere, in questi ultimi tempi, da quando mi avevi permesso di maturare in pace la mia crisi? Lo sai che cominciavo a intravvedere una luce, a sperare che un giorno, forse presto...? le i (Decisa): Non mentire, adesso. È indegno di te. lu i: Non mento. Cominciavo a crederci, sai, a que- st’incredibile alchimia di un’anima che « lavora » per l’altra. Ti dico che non mento. le i (Con un grido): E allora taci! Tanto, ormai è inutile. Non posso più « lavorare » per te. Sono io, adesso, che non credo più. Non... non... (Viene tra volta da un’ondata di singhiozzi). lu i (Quand’essa si calma, con dolcezza): Lo sai che potrei elencarti, per ore e ore, le ragioni della fede? le i (Con la voce molle di lacrime): Sì, le parole non mancano. Ma che valore hanno, se non credi più? lu i (Dopo un silenzio): Non dirmi che invento, adesso. Ma forse sono stato superficiale quando ti ho detto di non credere più. le i: Ti prego... lu i: Lasciami dire. La cosa è forse ancor più grave, ma è diversa. Il fatto è che non so più se e in che cosa credo. Lo capisci? Neanche questa certezza: di non credere. Non so più niente, ecco tutto. le i: Ecco tutto. lu i: È così anche per te? le i: Non chiedermi la tua lucidità, su queste cose. Tu ci abiti da un pezzo, in questo triste paese, ti sei orientato. Io ci arrivo appena adesso, vedo tutto nero, credo di sapere che non c’è luce. lu i: Tra poco dubiterai anche di questo. le i: E sarà la fine. lu i: Forse solo la fine del peggio. L’inizio di una cosa le i: Indietro non torneremo mai più. lu i: Vorresti tornare indietro? le i: E me lo domandi? lu i: No, stai attenta, hai risposto senza pensarci. Rifletti bene, chiudi gli occhi, fà un po’ di silenzio in te stessa. nuova, imprevedibile. le i (Tristemente scherzosa): Che cos’è? Lo yoga? lu i: Entra bene in te stessa: chiediti se vorresti tornare indietro, anche ai tempi in cui eravamo nella luce tutti e due, e poi risponditi. (Sussurra): Prova! le i (Dopo un silenzio abbastanza lungo, con stupore): È strano... lu i: Non vorresti? le i: No. lu i: Vedi? le i (Ancora intenta a quella scoperta): È come quella volta che soffrii terribilmente per quel nostro litigio da fidanzati, e parve la rottura, anzi fu la rottura tra noi... questo che voglio dire. lu i: Ti ho chiesto perdono mille volte. le i: E io a te, la colpa era di tutti e due. Ma non è lu i: Dì, dì. le i: Ebbene, feci un po’ come adesso, mentre spasima vo al pensiero che non ci saremmo riavvicinati più. vivi, dici? nudo. E forse sano, più sano di quello grasso e fiorente di prima. le i: Tu credi che qualcosa possa rinascere? lu i: Non lo so. le i: È la nostra parola d’ordine, ormai: « Non lo so ». {Pausa). Riesci almeno a immaginare che cosa po trebbe rinascere? Non certo le forme di prima. lu i: No. Questo credo di poterlo escludere. le i: Ma che cosa, allora? lu i {Triste): Parola d’ordine! le i {Id.)\ Già. «Non lo so». {Pausa). Eppure siamo lu i: Direi proprio di sì. Questo almeno credo di saperlo. E se mai mi sono sentito vicino alla dispera zione di una notte famosa, in un orto di ulivi, con una voce solitaria che gridava aiuto e non fu esaudita da nessuno... sì, è proprio adesso. dovevo accettare quella tua offerta! le i: Io non sento nemmeno questo, per ora. lu i {Angosciato): Ti ho distrutto, sono un verme. Non LEI: Zitto. lu i: Dovevo continuare a fingere. le i: Era inutile. Avevo capito. {Pausa). Ma non angu stiarti. Io non ho rimpianti. Questo almeno lo so. È scomodo, ma è meglio così. Non bisogna evitare ciò che vuol nascere dentro di noi. Per duro che sia. lu i: Non mi perdonerò mai. le i: Ti capisco. Ma hai torto. Ora bisogna attendere insieme. Con molta pazienza. Tenendoci stretti come animali assiderati. lu i: Il caldo sembra una favola, d’inverno. Eppure esiste, e ritorna. le i: Non bisogna pensarci troppo. Prepariamoci ad affrontare il freddo, il buio. Il futuro dirà. vicino a te? lu i {Dopo una pausa, quasi riverente): Posso sedermi le i: Vieni. Poche battute di organo, note filiformi che disegnano una ragnatela astratta nel silenzio, a siglare un’attesa suprema. FINE Mi chiesi: « Vorresti che questa prova ti fosse stata risparmiata? Dillo sinceramente ». E, con lo stesso stupore di adesso, dovetti rispondermi di no. Soffri vo, ero disperata, mi pareva che prima del litigio il mondo fosse un paradiso. Eppure a quella prova non avrei rinunciato per nessun motivo: mi torturava ma la sentivo preziosa, indovinavo che mi avrebbe porta to avanti, comunque fosse andata a finire. lu i: Non potrebbe essere così anche adesso? le i: Riesce difficile crederlo, quando si è immersi nella prova fino al collo. Ma forse è così. {Pausa). Certo, siamo molto, molto poveri, adesso. Se la povertà di spirito ha un senso estremo, è questo: di non sapere nemmeno più se si è scelto il no. lu i: Ti senti povera? le i : Terribilmente. lu i: Ti senti anche... indifferente, senza vita? le i (Si sente che interroga se stessa; poi risponde)'. Non... no, no, questo no. Al contrario. lu i: Ti senti come quei tiepidi di cui si legge che le i (c.j\): Nnn... no, non credo. Perché mi chiedi lu i: Stiamo cercando insieme. Non so neanch’io dove saranno sputati con disprezzo perché inutili? queste cose? andrò a parare. più niente. le i {Col sorriso nella voce): Sì, non sappiamo proprio lu i: Fammi riflettere. Ti senti —• e io con te — il le i: Questo sì. lu i: E in passato? Ricordiamo insieme. Non ci siamo mai sentiti tiepidi, addormentati, quando riposavamo (senti la parola?, riposavamo) nelle nostre certezze? Non dico sempre. Ma ci siamo sentiti così, talvolta? contrario di tiepida, indifferente, addormentata? le i: Per conto mio... lu i: Ebbene? le i: Direi di sì. Certe volte. Forse molte volte. Ma ci si stava così bene! lu i: È questo l’ideale? Star bene in una certezza?. le i: No. Sicuramente no. Semmai « star male in una certezza ». Ma è la certezza che rivoglio! lu i: Forse non ce la siamo meritata proprio perché non abbiamo mai imparato a starci dentro « male ». Era più comodo starci dentro « bene », piacevolmen te, al caldo. lei: Ora, senza dubbio, è finito. Finito lo star bene. lu i: Volevo che questo ti fosse risparmiato. Ma forse Finita la certezza. eri abbastanza matura per sopportarlo. le i: Non so come farò. Per ora è orribile. Ma hai ragione: indietro non vorrei tornare. E tiepida, ad dormentata non mi sento. lu i: Sono già due punti fermi, no? le i: Piccoli, piccolissimi puntini, per chi ha perduto un mondo. frutto. lu i: Il granello di senape, ricordi? le i: O due chicchi di sabbia che non daranno mai lu i: Anche questo è possibile. Ma almeno, se qualcosa rinascerà, verrà su da un terreno pulito, senza sterpi, E U G E N I O D E L L A V A L L E A P P R O D O A C A P O N O R D c o m m e d ia in u n a tto e q u a tt r o q u a d r i P E R S O N A G G I Schwartz Sigfrido L’On.le Weissmann Il segretario La dattilografa Luisa Franny Swendborg Obernofer During L 'e te r n o m ito d i U lis s e In questi tempi di aspra deculturizzazione una ulte riore voce di Odissei può avere una sua precisa, anche se prevedibile, collocazione: quella di un richiamo etico al « perseguir vertude e conoscenza », soprattutto quella di un monito civile a tutti gli umani « fatti non... a viver come bruti ». Ecco una breve pièce di Della Valle (autore tra l’altro di alcune tra le più intelligenti tradu zioni di classici) una pièce chiaramente ispirata al se condo, e forse maggiore, poema omerico. C’è, infatti, un nuovo Odisseo (il dottor Scwartz) torna che a casa sua dopo ventidue anni di misteriosa assenza; c’è un Eumeo (il guardiano del faro, Sigfrido) solido ed asciutto difensore di una « sua » tradizione; c’è ovviamente Pe nelope (la moglie Luisa: non ha tessuto di giorno tele e di notte le ha distrutte, ma ha solo una gran voglia di dimenticare quanto le è accaduto); ci sono due Tele machi, le figlie del dottor Scwartz, Franny e Swendborg, spose o prossime spose di « alte autorità dello stato »; c’è la vecchia nutrice che riconosce immediatamente Odisseo (qui è un simpatico barbone, uno spirito libero ormai da tempo distaccato dalla vuotezza della esistenza, Obernofer); ci sono anche i Proci: sono impersonati da un « uomo di governo », autoritario e mascalzone. C’è sopratutto una tensione morale di voce sicura contro la falsità del legittimismo astratto, contro la volgarità di una politica sciatta e lassista, contro il rigido schema tismo dei cosiddetti valori, contro la banalità della ca- taloghizzazione dei sentimenti, contro l’insipienza, l’ot tusità, la pochezza di questo borghese « respirare corto ». C’è in questa opera del Della Valle, all’opposto, tutta la fragranza di un grido di libertà sotteso nell’ambito paraliturgico di una presenza umana non scontata su questa terra, ma previssuta e postvissuta in una dimen sione diacronica che alloggia, si potrebbe dire, il mondo delle idee, il mondo dove, e là soltanto, l’uomo riesce a ritrovare la sua essenza più intima, la virtù di cono scere senza limiti la propria storia. Fabio Storelli SCENA (L’azione si svolge, nel primo e quarto quadro su di una spiaggia solitaria; nel secondo e terzo, in città). QUADRO 1 Spiaggia rocciosa, la cui desolazione è appena mitigata da una piccola casamatta che s’intravede in fondo, sul limite destro della scena. In fondo a sinistra, di là da un breve tratto di mare discontinuamente inondato da una luce intermittente, le estreme propag gini di uno scoglio. Scena unica (Sigfrido, poi Schwartz) Mentre Sigfrido vien fuori dalla casamatta con al braccio un grosso paniere, si ode da sinistra un im provviso rombo di motori, che si andrà poi a poco a poco attenuando; e irrompe in iscena una strana creatu ra tutta chiusa in una sorta di scafandro dal casco enorme ed abnorme, e dalle estremità inferiori che paurosamente si allungano, in calzari fuori misura. con ciò? la strana creatura (soffermandosi e volgendosi, come per salutare, con strani suoni gutturali)-. Auch, ach ach, aug! Sigfrido (brandendo con ambedue le mani il paniere, come un’arma di difesa)-. Chi è là? Che succede? la strana creatura: Non spaventarti. Sono un uomo come te. Sigfrido (tornando a infilare il braccio nel paniere)-. E la strana creatura (in tono alquanto seccato)-. Guarda che bel tipo. È davvero una bella soddisfa zione, aver viaggiato per anni e decenni, giungere di là dallo spazio e dal tempo, presentarsi con tutto questo armamentario, e non riuscire nemmeno a suscitare curiosità, né paura. Non mi domandi nep pure chi sono e di dove vengo? Sigfrido: E a me, che me ne importa? la strana creatura: A te che te ne... Ma sei pro prio... 0comincia a svestirsi del suo scafandro) Chi sei? Come ti chiami? Sigfrido: Sigfrido. la strana creatura: Allora tutto si spiega: vieni anche tu, come me, assai di lontano. Devi avere una bella età, vieni fuori dai Nibelunghi. Sigfrido (piccato)-. Non sono affatto così vecchio, come tu dici. Ho solo cinquant’anni. E non vengo da... da dove dici tu, ma da quella casa, lì in fondo. la strana creatura (che è ormai quasi del tutto sgusciata fuori dallo scafandro)-. Non andare in colle ra. Dicevo per ridere, scherzavo. È da tanto che non veggo un mio simile, e mi sembra così buffo questo tuo incredibile disinteresse per cose, che pure ti debbono giungere nuove... Che fai qui? (volge gli occhi intorno). Come vivi? Sigfrido: Sono uno dei guardiani, lì al faro. Ho fatto un salto qui a casa, per raccogliere qualcosa nel mio orto. E vivo, o meglio finora vivevo, quieto, senza che nessuno s’impicciasse dei fatti miei. la strana creatura: Scusami, non l’ho fatto apposta, a disturbarti. Ma non potevo sceglierlo con precisio ne, il luogo dove farmi lasciare dai miei amici di lassù. Suvvia, facciamo amicizia, dammi qua la mano. Mi chiamo Schwartz: un tempo mi chiamavano il dottor Schwartz. Abitavo in un paese non molto lontano, credi, di qui, al Capo Nord. Mi ritenevano un pazzo. Sigfrido: E forse avevano ragione. schwartz: Mi piace, in fondo, la tua sincerità. Somi glia a quella degli esseri che ho lasciato lassù, sai, in un altro mondo, un pianeta lontano dalla terra, oltre l’atmosfera, oltre l’etere. Brava gente, sai. sigfrido (mediocremente interessato)-. Davvero? schwartz: Mi riesci sempre più simpatico. Sono il primo uomo, credo, che porti qui notizie di un altro pianeta, e non ti commuovi, non t’incuriosisci, non mi aggredisci con mille domande e questionari. La cosa certo, da principio, mi ha un po’ mortificato: ma, a ripensarci, ha i suoi vantaggi. Il mio terrore, mentre mi accompagnavano in questo mio ritorno, era che avessi a imbattermi, nei miei primi incontri, in un giornalista o in un uomo politico. Che guazza buglio ne sarebbe venuto fuori, di panzane da ammannire al pubblico, o di richiami a meriti, in questa faccenda, di governi in carica o di opposizio ni! Ricordo che al tempo dei tempi, quando ero ancora su questa terra..., a proposito, che succede, che c’è qui, ora? Guerre, rivoluzioni, dittature, de mocrazie? Su, dimmene qualcosa. Sigfrido: E che ne so, io? Io vivo lontano dal resto del mondo. Mi mandano ogni mese un po’ di prov viste, e del danaro che in gran parte rispedisco indietro per altre provviste. E non mi mandano, non ne leggo, giornali. schwartz: Ho quasi l ’impressione che nell’altro pia neta, dove ho vissuto per tanto tempo, non ci sia andato io, ma tu. Sei evidentemente un grande filo sofo. sigfrido: Non cominciare, ora, ad offendere. schwartz: Ti assicuro che non ne avevo affatto l’in tenzione. Ma, sai, è strano ed edificante trovare qui qualcuno a cui nulla importa né di questo né di altri mondi, per me che ho voluto fare una viva esperienza così dell’uno, come degli altri. Anche di là, sai — hanno dei magnifici telescopi — io ho un po’ seguito quel che accadeva qui: ma le mie cono scenze, un po’ per il ritardo dovuto al viaggio della luce, un po’ per il tempo trascorso nel viaggio mio di ritorno, sono in arretrato, credo, di otto o dieci anni e forse più. In che anno siamo adesso, questo almeno puoi dirmelo? sigfrido: Nel 1958. schwartz: Ed io partii nel ’36. Ero riuscito a colle garmi per via onde hertziane con quelli di lassù, e dopo anni di tentativi varii eravamo riusciti ad in tenderci. E vennero a prelevarmi. Certo si sarà allora parlato, qui, della improvvisa e misteriosa scomparsa del dottor Schwartz. Quanto dista di qui Capo Nord? SIGFRIDO: Una ottantina di chilometri. schwartz: E come vi si può giungere? Sigfrido: A piedi. A meno che tu non voglia attende re, tra quindici giorni, il trabiccolo che viene qui per le provviste. schwartz: Non ne avete fatti molti, di progressi, qui, in questi ultimi vent’anni. Comunque vedrò, anche a tappe, di andare a piedi, se vorrai fornirmi un po’ di vettovaglie. Voglio sapere con precisione, al più presto, che cosa è successo, laggiù e per il mondo, da vent’anni a questa parte. E dopo, assai dopo, andrò varie centinaia di chilometri più a sud, a vedere che ne è stato della mia famiglia. A Capo Nord io vivevo fuori mano, in solitudine, per i miei esperimenti. Puoi darmene dunque un po’, delle tue provviste? Ti darei in cambio questo mio scafandro, che ormai non serve più. sigfrido: Vieni dentro, e cercherò di accontentarti. Ma quell’affare, lasciamelo solo in deposito. Potreb be più in là servirti ancora, non si.sa mai. E poi, . avrei l’impressione di truffarti, con questo baratto. schwartz: Va bene. Non sei certo una perla, in quanto informatore, ma in compenso sei un perfetto galantuomo. Andiamo. (Entrano ambedue nella ca samatta.) QUADRO 2 Anticamera di un elegante ufficio. In primo piano, a sinistra, un tavolino con su una macchina da scrivere: innanzi al tavolino la dattilografa, in piedi con in mano un piccolo specchio, è tutta intenta a darsi il rosso alle labbra. Sempre in primo piano, a destra, un tavolo assai più ampio ingombro di carte. In fondo, a sinistra porta d’ingresso, al centro altra porta che dà in camere interne. Scena prima (la Dattilografa, poi il dottor Schwartz) dattilografa: Ecco, così va meglio... E, se Dio vuole, ancora nessun seccatore all’orizzonte. schwartz: {dalla porta d’ingresso) È permesso? dattilografa: « Era follia sperar... » Entri pure. schwartz: Vi esercitate a recitare il « 5 Maggio »? dattilografa: (deponendo il bastoncino del rossetto) Per ingannare l’attesa del 27, stesso mese. Desidera? schwartz: Ve ne domandavo, perché -— guarda caso — proprio qualcosa che riguardava l’autore di quel l’ode mi è venuta incontro all’arrivo a casa mia: o meglio, nella casa che dovrà tornare ad essere mia, se quaggiù me lo consentiranno. Venivo di molto lonta no, dopo un’assenza assai lunga, ed ho trovata nella cassetta delle lettere una lettera sola; vi si trovava certo per puro caso — le altre saranno state respinte perché non più quello l’indirizzo del destinatario — e portava una data recente. Mi ci son buttato su d’impeto: ero molto commosso: mi pareva come un saluto, col quale mi accogliesse la terra, (a un cenno di meraviglia della dattilografa) voglio dire il mio paese, al mio ritorno. Ed era invece, come vi dicevo, qualcosa appunto che riguardava l’autore del « 5 Maggio », un invito ad una seduta di una nostra Accademia, per sentirvi una dotta e documentata relazione sulle dieresi e sulle sineresi rilevabili nella sua opera poetica. Capite? Fervono le guerre, imperversano le rivoluzioni, nuovi mondi schiudono all’uomo i loro insondati misteri; e i grandi maestri delle nostre accademie si affaccendano ancora, non a intendere la poesia, che è di là da quelle rivoluzioni e da quelle guerre e spazia in questo e in tutti gli altri mondi dell’universo, ma a contare e ad elencare coscienziosamente le dieresi e le sineresi che vi si ritrovano... Bah, anche questo è un modo, per chi vi prenda gusto, di impiegare il tempo tra il nascere e il morire. dattilografa: Tutto questo che lei dice, anche se poco o nulla io ci capisco, sarà certo assai bello. Ma intanto, non mi ha detto ancora che cosa desidera qui. schwartz: Oh, scusate. Mi han detto che questo è l’ufficio del deputato di questa circoscrizione. Ho bisogno di parlargli. dattilografa: Il suo nome? schwartz: Schwartz: il dottor Schwartz. dattilografa (prendendo nota)-. Il dottor Schwartz... Questo nome non mi riesce nuovo. schwartz: Neppure a me, sebbene per qualche ora abbia avuto ragione di credere che non fosse il mio nome: che io non fossi, o non fossi più, il dottor Schwartz. Eppure me lo ero annotato, nell’andarme- ne lassù, per non dimenticarmene. dattilografa (con un moto di paura)-. Ma... schwartz: No, non vi spaventate. Ho tutte le mie rotelle a posto. Ho detto così perché, come vi chiari vo, sono stato assente da questo paese per più di vent’anni; e in vent’anni si dimentica e si è dimenti cati. E difatti, non solo qui non mi riconosce più nessuno, ma sembra che la mia casa non sia più casa mia. Ed allora, ho dovuto io stesso fare uno sforzo per tenere per fermo che fui e sono il dottor Sch wartz, con tutti i diritti ed i privilegi del dottor Schwartz. E, comunque, ci sono riuscito. E perciò sono qui: per difendere quei miei diritti e quei miei privilegi, e farmi aiutare a difenderli dalla massima autorità della zona, anche se non ho il bene di conoscerla neppure di nome: questo nome, sì, davve ro lo ignoro. Chi è? dattilografa: Ecco, ora appunto arriva il suo segreta rio. Può rivolgersi a lui. (Entra da sinistra il Segreta rio). Scena seconda (Schwartz, la Dattilografa, il Segretario) segretario: Che c’è, Lucia? dattilografa: Questo signore, il dottor... (consulta le sue annotazioni)... Schwartz, desidera parlare con l’onorevole. segretario (a Schivarti)-. Si tratta di cosa privata? schwartz: In un certo senso... sì. Ritorno dopo più di vent’anni al mio paese. SEGRETARIO: Di dove? schwartz: Questo, vorrei, per ora, astenermi dal dir glielo. Ho cercato di illustrarlo a qualche altro, qui in città, e mi hanno riso sul muso. Non mi credono. segretario (squadrandolo da capo a piedi)-. Certo, a vederla, non si direbbe... schwartz: No, non mi fraintenda. Non sono stato privato, in questi vent’anni, della mia libertà, anzi ne ho fatto uso come nessun altro uomo, credo, fino a questo momento. segretario: (con un rapido sguardo alla dattilografa, che si tocca significativamente la fronte) Ah, tanto meglio. E che cosa vuole dall’onorevole? schwartz: Ecco. Io posseggo — o, come sembra, possedevo — una casa qui fuori città, con annesso un grande laboratorio per una certa serie di esperi menti scientifici. Il laboratorio, per mia fortuna, l’ho trovato come lo lasciai, chiuso e sprangato: sembra che la gente creda sia un ritrovo di spiriti e di fantasmi vagabondi, e perciò nessuno si è attentato ad accostarvisi. Ma la casa, è ora abitata da un tale, che pretende che è sua, e non mia. Allora appunto, ho pensato di rivolgermi al deputato del posto per esporgli le miei ragioni. segretario: Capisco. L’onorevole sarà qui a minuti. schwartz: Ed io, spero molto nel suo appoggio. Come può non più appartenermi una casa, che è stata sempre la mia? Dopo il mio ritorno su questa ter..., voglio dire a questo paese, ho raccolto tutti i miei ricordi e tutte le mie cognizioni di un tempo, e mi pare di essere dalla parte della ragione. E poi so di poter aver fiducia, ora, in una serena giustizia. In questo paese, ho sentito dire, vi sono leggi ed uomini nuovi, e un ordinamento che garantisce nei loro diritti tutti i cittadini. Ne era tempo. Quando invece partii... segretario: Certo. È ormai da molto che è stata liquidata la dittatura, che aveva condotto il paese alla rovina. Ora siamo tutti liberi, e ci governano fior di galantuomini. schwartz: Ecco. È — questo lo ricordo assai bene — quel che abbiamo a lungo sognato, e per cui abbiamo disperatamente combattuto qui varii di noi, prima che io... me ne andassi a cercare altrove questa felicità. Allora, c’era tra noi un giovine animoso, si chiamava..., si chiamava Obernofer: veniva con altri a casa mia, complottavamo per una riscossa dalla tirannide... Caro e generoso Obernofer! Sarà certo lui, se vive ancora, il nuovo deputato di questa circoscrizione, lui che si è così strenuamente battuto per la libertà... È così? O dov’è ora, il buon Oberno fer? segretario (un po’ imbarazzato): È..., non ha avuto molta fortuna. È in carcere. vi? schwartz: In carcere? Obernofer? E per quali moti segretario: Per motivi... sì, per motivi politici. schwartz: Politici? Ma non era egli un « leader » di questa — non la chiamate anche voi così? — questa democrazia che è oggi al governo della Nazione? segretario: Ecco, vede... Anche la libertà ha i suoi limiti, anche la democrazia ha le sue leggi e le sue gerarchie. Esaltati come quell’Obernofer non poteva no essere di giovamento a un vero regime democrati co. E poi, parlava troppo; non rispettava nessuno; non si rendeva conto dei sacrifici che imponevano ed impongono i nostri nuovi ideali. schwartz: Non so capacitarmene. Per amore di questi ideali il buon Obernofer subì egli stesso, ai miei tempi, disagi e persecuzioni; stette anche, se ben ricordo, per un bel po’ in prigione. segretario: E c’è ritornato. In fondo, chi prende contatto, sia pure per motivi politici, con la prigio nia, rimane poi sempre un candidato a ritornarvi. schwartz (poco convinto): Sarà... Ma se han messo dentro un Obernofer, che sarà allora dovuto succede re a quel piccolo miserabile gerarca che a quei tempi ci teneva tutti in soggezione; che una volta fece perfino irruzione con una — la dicevano — una squadra punitiva, nel mio innocente laboratorio... Ricordo ancor oggi tutte quelle mie storte infrante e tutte quelle mie radio a soqquadro, e me a correre su e giù pregando, supplicando, minacciando, perché non mi distruggessero il mio lavoro di anni e non mi costringessero a ricominciarlo da capo... Aspetti, co me si chiamava quel disgraziato, quel tristo eroe di cartapesta, che ci aveva posto tra i piedi la dittatura? Wellmann, o Weissmann, non ricordo bene; ah, sì, Weissmann, Weissmann. segretario (duro, guardandosi intorno): Non dica enormità, la prego, e parli a bassa voce. È strano come certa gente non sia in grado di rendersi conto... Sappia lei, mio caro signore, che... (Entra da sinistra l’onorevole). segretario (mutando immediatamente di tono, blando e servizievole)-. Buongiorno, Onorevole. dattilografa: Bentornato, signor Weissmann. SCHWARTZ (inebetito)-. Weissmann... Scena terza (Schwartz, il segretario, la dattilografa, Weissmann) weissmann (con sussiego): Buongiorno, buongiorno. Novità? sidera parlarle. pure. segretario: C’è quest’uomo..., questo signore che de weissmann (consultando l’orologio, a Schwartz): Dica schwartz (ancora incerto e disorientato): Mi... mi scusi, signor... onorevole Weissmann. Non pensavo, non credevo... Vengo di tanto lontano, lì dov’ero le cose erano tanto più semplici. Ed ora qui c’è un guazzabuglio, in questa mia povera testa: a volte mi sembra di non capir piu nulla di quel che succede qui, in questo mondo. weissmann (bonario)-. Parla come se venisse da un altro, mondo. Non si confonda e si calmi. Siamo qui per darle ascolto. schwartz (riprendendosi)-. Le è sembrato che io ve- nissi... Ella stessa, onorevole, non sa quanto è vicino alla verità. Le ripeto, mi scusi. weissmann: Dunque? schwartz: Ecco, il mio nome è Schwartz: dottor pio ». usucapione? weissmann: Deriva dal latino: da « usus », e « ca- schwartz: E qual’è il periodo prescritto per questa weissmann (con qualche titubanza): T... Trent’anni. schwartz: Allora, sono a posto. Io manco da casa mia da poco più di venti anni. weissmann: E può dimostrarlo? E dato e non ammes so — dico, non ammesso — che riesca a dimostrarlo, non pensa lei ai riflessi politici e sociali che compor terebbe la sua pretesa? Un uomo, un uomo che ricompare così, tutto d’un tratto, un uomo dal passa to politico, senza alcun dubbio, alquanto discutibile... schwartz (interrompendolo): Ma almeno in questo, Onorevole, io penso... Proprio quella mia casa, e cero allora io dentro, fu un giorno, in epoca di dittatura, qualcuno certo se ne ricorderà, un ritrovo e un rifugio di uomini liberi... weissmann: Non si richiami, glielo consiglio, a simili fandonie. Li conosciamo bene questi cosiddetti uo mini liberi, che miravano qui ed altrove ad una vera e propria anarchia, mentre altri, tanto più seri e generosi, ci sottoponevamo perfino alla umiliazione di una tessera politica non desiderata né amata, pur di poter preparare, dall’interno, la riscossa... Questa fu l’autentica, intelligente forma di lotta per un grande ideale di patria e di libertà, questa del doppio gioco! Non ne sa nulla, lei, dei rischi e delle conquiste del doppio gioco? schwartz: No, e me ne scusi. A quei tempi, prima che io me ne partissi, avevano un altro significato, queste parole, nel mio vecchio vocabolario... weissmann: E ben s’intende. Era il vocabolario di una età, superata, per nostra buona ventura, dal cammino della storia! E lei si è fermato a quel vocabolario, nulla le ha insegnato, di questo cammino, il mondo senza alcun dubbio arido e selvaggio, dal quale poco fa diceva di essere tornato tra noi... Dunque, dicevo — che cosa dicevo? — ah, ecco dicevo, ed ora più che mai confermo, che lei, un uomo dal passato politico certamente assai poco limpido, viene qui e vuol farsi strumento di una bieca reazione, contro povera gente da cacciar via perfino dalle sue stesse abitazioni; dagli umili rifugi ove il sonno, a sera, discende sul martirio del quotidiano lavoro... Ed osa pure chiedere il mio appoggio, in questa bella inizia tiva! — Senta dottor Schwartz, se lei è veramente — dico, veramente — il dottor Schwartz: non solo non posso secondarla in queste sue aspirazioni; ma la prevengo che molte cose verranno fuori, se ella vi si ostina, che non le faranno piacere. Ed ora mi per metta di ritirarmi nel mio studio: ho varie relazioni da redigere, nell’interesse della comunità. (Lo ha a poco a poco accompagnato alla porta, e lo congeda) Stia bene, e non commetta spropositi. (Weissmann, la Dattilografa) Scena quinta weissmann: Ah, ce n’è voluto, per liberarmene. È strano come ci siano ancora dei trogloditi che non sappiano rendersi conto delle esigenze morali, politi- Schwartz. weissmann: Dottor Schwartz? È parente, forse, di un certo Schwartz che abitava un tempo non lontano di qui, in una villa appartata, a Capo Nord? un bra- v’uomo, ricordo, ma dalle strane idee, un po’ strava gante, che d’un tratto scomparve e non si seppe più nulla di lui... schwartz: Sono io. weissmann: Lei? E dove è stato in tutto questo frattempo? schwartz: Glielo dirò poi, da solo a solo. Ma quel che conta, ora, e mi conduce qui da lei, è che al mio ritorno ho trovato un tale, che s’è insediato a casa mia, e pretende che è sua proprietà. segretario (interloquendo): Ma non si tratta, forse onorevole, ora che ci penso, di quel suo nipò... weissmann (troncandogli la parola sulle labbra, a Schwartz): Dunque, lei è il dottor Schwartz, in carne ed ossa, (al segretario) Vada, la prego, a sbrigare quella pratica al Consorzio. Come sa, è urgente. segretario (Raccoglie alcuni documenti dallo scrittoio ed esce da sinistra). Scena quarta (Schwartz, Weissmann, la Dattilografa) weissmann (a Schwartz)'. Eccoci a noi. Lei dunque pretende che questa villa a Capo Nord... schwartz: Veramente, non sono io ad accampar pre tese. Lei stesso, onorevole, or ora ha ricordato... weissmann: Ricordato, ricordato! Che può valere un mio più o meno labile ricordo in una questione così delicata? Vi sono interessi in conflitto, a quanto lei mi dice, e la libertà, questa libertà per la quale abbiamo tanto combattuto, ha le sue leggi: nessun diritto può sussistere, se non limitato dal diritto altrui. Lei assume — dico assume — di essere il dottor Schwartz, scomparso, così d’un tratto, non so quanti anni or sono; e con questo pretesto vuole buttar fuori, a quel che sembra, una famiglia — una famiglia certo di lavoratori — da una casa che le consente di avere un tetto sulla testa, e un giaciglio ove poter dormire. SCHWARTZ: Ma non si tratta solo di questo. Quella casa è, comunque, mia, e mi si vuol contestare persino il diritto al suo possesso... weissmann: Diritto, diritto... Vi sono delle leggi, che regolano questi diritti. Ma, vediamo un poco... ha mai lei sentito parlare di usucapione? Ammesso e non concesso — dico, non concesso — che ella sia davvero il dottor Schwartz, c’è un articolo nel nostro codice che assegna la proprietà di un bene immobile a chi ne abbia gratuitamente fruito, senza opposizio ni da parte del precedente proprietario, per un certo periodo di tempo. schwartz: Usucapione... è una parola assai difficile. che, sociali dei nostri tempi... {alla Dattilografa) cara, preparami subito una lettera per mio nipote, quello che abita lì, al Capo Nord; scrivigli che non si faccia vedere. E raccomandagli di non portare qui, come l ’ultima volta, una di quelle sgualdrinelle con cui di tanto in tanto se la fa, in quel suo lupanare. Un po’ di pudore, che diamine, in un ufficio come questo! E poi, piccola, vieni di là, nel mio studio: dobbiamo fare un po’ di conti da solo a sola, per una certa faccenda di ieri sera... (Esce per la porta di centro) dattilografa {sistemando nervosamente i fogli nella macchina)-. Me lo aspettavo. Accidenti alle cene all’aperto, alla gente che non si fa i fatti suoi, ed agli amanti che vogliono farla da mariti... Dunque: « Ca ro »... no, come scrive lui di solito?... « Indegna... », « Indegna progenie... » {Comincia a martellare sui tasti). QUADRO 3 Veranda di una casa in città. In fondo, a sinistra e a destra, porte che immettono, rispettivamente, in una sala d’ingresso e in camere interne : al centro, grande vetrata che si apre su di un sottostante giardino. Stam pe alle pareti, sedie e tavolini di vimini; e in primo piano, a sinistra, un piccolo scrittoio innanzi al quale siede Luisa, mentre un po’ più in là Swendborg, sedu ta, ricama, e Franny va su e giù inquieta per la stanza. Scena prima (Luisa, Franny, Swendborg) luisa {deponendo una lettera che ha tra le mani, e togliendosi gli occhiali)-. E così, ci càpita tra capo e collo un’altra bella seccatura. franny {fermandosi)-. È tua la colpa. Diiring lo aveva previsto... Perché hai voluto essere la presiden tessa dell’opera di assistenza ai dimessi dal carcere? luisa: Bisogna pure far qualcosa per gli altri. E avere, comunque, una occupazione. franny: E rassegnati, allora, a prenderti in casa quel l ’avanzo di galera. Diiring dice... lui: il retto Weissmann, luisa: Non so proprio perché quel deputato, lì, {ri prende in mano la lettera) quel Weissmann, abbia sollecitato la grazia per quel disgraziato. Probabil mente, per farsene bello. E tutti gli elogi, ora, se li prenderà il generoso Weissmann... Già lo ricantano, qui, su tutti i toni, e certo, domani, ne parleranno i giornali. È un pezzo, che ha dato segno di saperla organizzare, la sua brava pubblicità per le nuove elezioni. E intanto, le noie ricadono tutte su di me. E sai perché proprio su di me, che pure non ho il bene di conoscerlo, che vivo in un’altra città e non sono nemmeno una sua elet trice? franny: Te l’ho detto, e lo ha detto anche Diiring. È il primo liberato dal carcere di quest’ultimo anno, e tu sei la presidentessa... luisa: E dalli con la mia presidenza... franny: Diiring... luisa {impaziente)-. Oh, accidenti a Diiring. Da quat tro anni che siete sposati, è diventato un incubo, per noi, il tuo Diiring. Cento volte al giorno, in ogni occasione, Diiring dice, Diiring afferma, Diiring di chiara... Auff! franny {piccata)-. Pure te ne servi, di Diiring, ogni volta che t’occorre. E anche ora, per quella pratica di papà buonanima... luisa: Va bene, va bene, non stiamo lì a polemizzare. Tengo solo a farti presente che questa volta il tuo Diiring, il tuo infallibile Diiring, non l’ha imbrocca ta. Non dobbiamo, a quel che sembra, questa richie sta di un impiego qui a casa nostra per questo... {ridà uno sguardo alla lettera)... questo Obernofer alla mia presidenza, eccetera, eccetera. No: pare che invece lui stesso, questo tale, nell’uscire dal carcere abbia dato il mio nome. franny: Lui? E chi lo conosce? luisa: Dice che ha conosciuto, un tempo, tuo padre: che era molto legato al signor dottor Schwartz. Come se questa fosse per noi una raccomandazione! swendborg {levando gli occhi dal suo ricamo, in tono di rimprovero): Mamma, ti prego... luisa: Già, tu sei sempre la stessa. Non conta nulla, per te, che tuo padre ci abbia un giorno abbandona te, per i suoi stupidi esperimenti e le sue dannate utopie; che sia poi scomparso così d’un tratto, senza farci più nemmeno sapere se era vivo od era morto. È rimasto sempre lui, in cima ai tuoi pensieri, non certo io, che pure sono restata qui ad arrabbattarmi per voi due, a farvi da madre e da padre insieme... Si vede che è chi se la batte, che ha sempre ragione. Dà modo agli altri di figurarselo migliore di quel che è, di colorirne l’immagine coi più bei colori della loro propria immaginazione. Chi resta, invece, ha voglia di cercare di fare del suo meglio.: non sarà mai più che la nuda realtà di ogni giorno, con tutti i suoi limiti e tutte le sue noie. swendborg: Non ho mai pensato questo, mamma, e lo sai. Ma la vita è bella non solo per le sue realtà di ogni giorno, ma anche per i suoi ricordi del passato. luisa: Mi sono sempre domandata perché non scrivi poesie. O forse ne scrivi, e non ce le fai leggere. {Entra da destra Diiring). Scena seconda (Luisa, Franny, Swendborg, During) during: Buongiorno a tutti. franny {con sollecitudine): Buongiorno. Hai preso il caffè? during: Sì, e in fretta e furia. Quella scimunita di Gretchen non vuole proprio decidersi a portarmelo all’ora giusta. Eppure mi sono tante volte ingegnato di farglielo intendere, che un procuratore generale deve essere di esempio, in fatto di puntualità. Nella mia posizione... franny: La mamma è un po’ seccata, perché le hanno scritto per chiederle un impiego qui in casa nostra per quell’Ob... Obernofer: quel tale che è uscito or ora dal carcere. Non si potrebbe...? dùring (reciso): No. Non posso farci nulla. Lo avevo previsto e l’avevo preavvertita. Lei, ha quella presi denza; e quanto a me, la mia posizione... è assai delicata, che diamine. Non ci resta che aderire alla richiesta, e trovar modo di sistemarlo alla men peg gio. Non c’era bisogno, qui, di un giardiniere? luisa: Rassegniamoci dunque, e non se ne parli più. Il signor anarchico Obernofer, già amico del dottor Sòhwartz, sarà il nuovo giardiniere. E speriamo che non gli venga in mente di applicare i suoi principii anche ai viali e agli alberi del nostro giardino. (A Dùring) E per quell’altra pratica? Te ne sei interessa to? dùring: Certo. E siamo a buon punto. Avremo forse entro oggi stesso la dichiarazione di morte presunta. Ed ora, lasciatemi andare. Come dicevo, nella mia posiz... luisa (interrompendolo): Abbiamo capito. Non far tardi. Arrivederci. dùring (un po’ smontato): Arrivederci. (Bacia sulla fronte Franny, saluta con un ampio gesto le altre due donne, ed esce da sinistra). Scena terza (Luisa, Franny, Swendborg) swendborg (a Dùring che va via): Ciao, Dùring. (A Luisa, con qualche apprensione) Che dicevi, mamma, con Dùring? Che è mai questa dichiarazione? Di chi è la morte presunta? luisa (un po’ esitante): Ecco, Swendborg... (Appare dietro la vetrata e incolla il viso sui vetri, un po’ smunto e con la barba incolta, Schwartz). Ma guarda lì quel tale, che ci piomba in casa dal giardino. Dev’es sere certamente quell’Obernofer: c’è tutto lui, a quel che mi hanno scritto, in questa disinvoltura. Andate, andate, ragazze: voglio vedermela un po’ con costui da sola a solo. Se deve restare davvero qui con noi, è bene che sappia subito con chi a che fare. E che impari anzitutto che in questa casa si entra dalla porta di ingresso, e ci si fa annunziare. Su, su, allontanatevi. swendborg (fissa nella sua preoccupazione): Ma, mamma, non mi hai ancora detto... luisa (spingendo le due figliole verso la porta di destra): Va, va, ti spiegherà tutto, Franny; e forse sarà meglio. Con lei, te la intendi meglio che con me. (Franny e Swendborg entrano nelle loro stanze) De v’essere davvero un bel tipo, questo Obernofer... (alzando la voce) Voi, che state a far lì? Entrate. (Schwartz entra, e si ferma un po’ esitante sulla soglia della veranda). Scena quarta (Luisa, Schwartz) luisa (a Schwartz, con severità): Signor Obernofer... Siete il signor Obernofer, non è vero? schwartz: Luisa... luisa (sdegnata): Oh, questo, poi, è un po’ troppo! (Gli si avvicina minacciosamente e inforca gli occhia li). Sappiate signor Obernofer... (Con un balzo, rico noscendo Schwartz) Tu! Tu... (cade a sedere). schwartz: Sì... dopo vent’anni... E di ritorno da un altro mondo... (Luisa ha come un moto di paura). No, non nel senso che tu immagini: da un altro mondo come questo; o giù di lì. E in carne ed ossa. Carne un po’ stanca, ed ossa alquanto fiaccate. Qui ci si sposta con assai maggior fatica. La massa, la gravità... Posso sedere? luisa (con un amaro sorriso): Obernofer... schwartz (vivamente): Lo conosci? M’han detto che è in carcere. E loro...? (Fa cenno alla porta donde sono uscite le due ragazze) Franny e Swendborg, non è vero? luisa (che si è a poco a poco ripresa, calcando sulle parole): Sì: le orfane Franny e Swendborg. schwartz: Orfane...? luisa: Ti... ti si sta per dichiarare ufficialmente morto. Oggi. Soltanto oggi. Dopo più di vent’anni. N’era tempo, non ti pare? Non hai fatto nulla per dimo strare il contrario, in tutto questo frattempo. schwartz: Di lì, dov’ero, non avevo il modo e i mezzi per darvi notizie di me. Non me lo domandi neppu re, dove sono stato, in questi vent’anni? luisa: Non m’interessa saperlo. Hai detto che è un altro mondo. La Patagonia, forse. O il Sahara. O più probabilmente la Groenlandia: parlavi sempre di una certa tua casa, di un misterioso tuo laboratorio, in una terra del Nord. Comunque, ci sei andato, la sciandoci sole per tutta una vita: e non ci dovevi andare, se sapevi che non avresti un giorno potuto più neppure comunicare con noi. schwartz: Non lo sapevo. luisa: Ma tu, che sai sempre tutto, potevi pure prevederlo. O non potendo più scriverci, come tu dici, tornar prima. Oggi, sei morto, per noi. schwartz (con sorridente malinconia): Ho capito. Son tornato con ventiquattr’ore di ritardo. Oggi, hai detto, mi si dichiarerà morto; e sarebbe una imperti nenza, da parte mia, oppormi a questa verità ormai acquisita. luisa: Non ironizzare, e non giocare sulle parole. Non è una dichiarazione di legge, che ti farà morire: hai voluto, per noi, tu stesso morire. E non da oggi. E non per essere un giorno partito per andartene lon tano. Non è la lontananza nello spazio, quella che conta, ma nel tempo. E dai cuori. Quando si recido no tutti i legami, dietro di sé, per decenni, non si ha più il diritto di tornare ad inserirsi nelle vite degli altri. Queste seguono il loro corso, si svolgono per proprio conto, finiscono per appartenere ad una altra e diversa realtà, dalla quale si è rimasti fuori, per sempre. Della quale non si potrà far parte più mai. schwartz: Sempre, mai. Ti balocchi ancora, come un tempo, con gli avverbi definitivi. Se avessi, come me, viaggiato per gli spazi infiniti, sapresti quanto siano relativi il sempre e il mai. luisa: Già, la tua relatività. È una bella teoria. Ma la chiami in causa solo quando ti fa comodo. Hai doman dato di Franny e di Swendborg: perché? paternità? schwartz: Perché sono mie figliuole. LUISA: Tue? E che c’è di più relativo di questa tua schwartz: Oh, questa, poi! luisa: È proprio come io ti dico, ed è strano che tu non te ne renda conto. Quando le hai lasciate erano alte così: ora son donne. Una, la prima, da quattro anni è sposata. Che cosa hai fatto tu per loro, in tutto questo frattempo? Che cosa hai fatto anche quando esse erano piccole e tu ancora eri qui, ma chiuso nel tuo studio ed estraneo ai loro palpiti ed ai loro giuochi, perché esse ti riconoscessero per un padre: per colui che di giorno in giorno dà un po’ della sua vita, perché altre vite abbiano il loro corso? Per questo solo si è padre: per quel che non una sola volta, ma di giorno in giorno si dona. schwartz: Ho donato quel che potevo donare, nei limiti della mia natura e delle mie possibilità. Ho cercato nuovi mondi che anch’esse un giorno potes sero conoscere, ho coltivato ideali di cui potessi un giorno farle partecipi, per renderle migliori. luisa: Di tutto questo nulla esse sanno e nulla deside rano. Nessuna delle due. Nemmeno la più giovane, con tutti i sentimentalismi e le ubbie proprie della sua età e, più, del suo zitellaggio. Sono paghe di questo piccolo disprezzato mondo in cui vivono, e non hanno bisogno di acchiappar nuvole per rendere più bella la loro vita. SCHWARTZ: Anche le immagini che si disegnano nelle nuvole aiutano a vivere: anche gli ideali sono parte della nostra esistenza. luisa: Sì, quando a seguirli non ci si riduca nello stato in cui ti sei ridotto tu, (lo squadra da capo a piedi) e in cui ci ridurresti tutti, se dessimo ascolto alle tue fantasticherie. schwartz: Non parlavi così, quando ci sposammo. luisa: Eri allora il giovane scienziato dal grande avve nire: quali che fossero i tuoi limiti, avevo fede in te, nel tuo lavoro: un lavoro, speravo, serio e intelligen te, destinato ad essere onorato da tutti, a rivelarsi in ogni senso proficuo per la famiglia, che ci accinge vamo a metter su. Ma ben presto cadde anche questa illusione. Volevi essere lo studioso puro e solitario, che a nessuno importa e di cui nessuno si avvede. Una sola volta riuscii a spingerti sin su le soglie di un concorso, e ne ricordo ancor oggi con raccapriccio i risultati... schwartz: I giudici, a cui mi facesti chiedere una cattedra, erano nulla più che quadrupedi togati. luisa: Questi quadrupedi sono oggi illustri accademi ci, all’ordine del giorno della Nazione. E a te, la tua ostinazione, il tuo non saper vivere, fece perfino perdere la possibilità di una qualsiasi sistemazione professionale. schwartz: Sfido io! Avevo dieci anni sostenuto e dimostrato il regime autonomo dei vulcani, e quell’a sino del presidente della mia commissione esamina trice pretendeva che io aderissi alla sua sciocca teoria delle interdipendenze. luisa: Ma, ricordo bene, mi dicesti che lui stesso, a suo tempo, pur di riuscire ad ottenere una cattedra, aveva per un po’ fatto finta di credere all’altra tesi, allora più in voga. Avresti potuto •—• per una intera notte stetti a ripetertelo — fare anche tu come lui: cedere per il momento, e poi, conseguito il tuo scopo, tornare alle teorie tue. Non ne volesti sapere; e ti bocciarono. schwartz: Era più che logico, da parte loro. Avevo spezzata una assai bella catena di compromessi, col mio preferire nuda la verità, piuttosto che farle mutare d’abito in ogni occasione... luisa: ...E finisti come sei finito. E la vita delle tue figlie — per le cui belle soddisfazioni tu dici di aver sempre operato — non si potè adornare neppure della modesta gloria di un padre professore di Uni versità. E per giunta, di lì a poco, te ne andasti, per correre dietro ad altre tue inverosimili utopie; e da un certo momento non ti facesti più vivo. Eccoli, i doni che hai fatto, materialmente e moralmente, alla tua famiglia. Pensaci, e non ti stupirà più che tu sii un morto, e non da oggi né da ieri, ma forse da sempre, per noi. schwartz (insorgendo): E se ti dicessi, se dicessi a tutti, che queste altre utopie, come tu le chiami, erano una realtà? Se annunziassi al mondo che ho scoperto un nuovo pianeta? Che l’ho scoperto con l’aiuto della gente che vi abita? Che lì, proprio lì, tra quella gente, ho vissuto in questi ultimi vent’an- ni? luisa (ritraendosi spaventata): Ma sei proprio pazzo? Anche questa mi toccava sentire! Senti, Schwartz: in questi anni di tua assenza noi qui, donne, noi sole, siamo riuscite a poco a poco — e Dio solo sa con quanta fatica — a conquistarci un nostro rango socia le. Io mi son creata un mio ambiente, Franny è moglie di un procuratore della Repubblica, Swen- dborg lo sarà tra poco, se mi riuscirà, di un’alta autorità dello Stato. Sii buono, dunque, pensa a noi seriamente almeno una volta in vita tua, non venir qui ora a distruggere tutto quello che abbiamo co struito. Ci hai dimenticate per ventidue anni: con tinua a dimenticarci, tornatene colà, donde sei venu to. Hai bisogno di danaro? Te ne darò. Con le tue, con le mie rendite, bene amministrate, viviamo ora in una qualche agiatezza. E poi, potrai rivalerci di ogni sacrificio, col dirmi, se vorrai, dov’è quella tua casa, quel tuo laboratorio: potrò darli via io stessa, dopo la dichiarazione... quella dichiarazione di cui ti dicevo. Altrimenti, non importa: avrai ugualmente da me tutto quello che ti occorre: ma comunque, per l’amore di Dio, vattene, vattene via per sempre, non far seguire a tutto il resto un’ondata di discredito e di ridicolo su noi povera gente. Vado, vado lì, dentro, in camera, a raccogliere per te gioielli, titoli, tutto quello che c’è in casa. Attendimi qui, ed anche qui non farti vedere, cerca di nasconderti, te ne prego: fallo per l’amore delle tue figliuole, a tuo modo pure le amerai, le avrai amate. Torno, torno sùbito, aspetta. (Lo sospinge verso la vetrata, e fugge via da destra, seguita dallo sguardo inebetito di Schwartz). Scena quinta (During, Schwartz) during (dall’interno): Andate a ricomporvi — vi rac comando la cravatta, che diamine — e poi venite dentro, brav’uomo: c’è mia suocera che vi attende. (Entrando da sinistra, e scorgendo Schwartz). E lei, chi è? schwartz: Non... non saprei dirglielo con precisione. Sembra che io sia un uomo vivo per isbaglio, che deve regolarizzare la sua situazione, e passare tra i defunti. E sono andati di là, a provvedere per le spese dei miei funerali. E lei? Il Signor Procuratore della Repubblica, credo, il marito di Franny... della signora Franny? during {severo): Per l’appunto. Il signor Procuratore della Repubblica. Che è marito della signora Franny. E che odia gli scherzi di cattivo genere. Tanto per sua norma. E per il rispetto della mia posizione, entro e fuori di questa casa. schwartz: Le assicuro che non scherzavo. E proba bilmente lei, che è di casa, sarà in grado di renderse ne conto. Sono... sì, sono, sia detto in assoluta confidenza, il dottor Schwartz. Il padre di Franny. Il dottor Schwartz... (Cade a sedere). during: schwartz: Anche lei... È destino che a tutti, qui, si pieghino le gambe, quando ascoltano il mio nome. during: Ed io che... Appunto, venivo a riferire di una certa pratica... schwartz: Lo so. La dichiarazione della mia morte presunta. È lei il magistrato, in famiglia, ed è chiaro che è stato lei ad occuparsene. Come vede, le avevo detto, sul mio conto di vivo per isbaglio, la pura e semplice verità. during: Ed ora, come si fa? Sì, io stesso mi ero occupato del suo caso; e adesso, nella mia posizio ne... È un bell’imbroglio. schwartz: Non se ne preoccupi. Riparerò io per la mia parte. In che modo, glielo dirà mia moglie, Vada dunque da lei, e lo saprà. Anzi, a questo proposito, non manchi di dirle che mi atterrò, credo, in tutto, ai suoi desideri. S’è dimenticata di assicurarsene nell’andar via di qui. during: Vado, vado. Permetta, signor Schwartz. Che imbroglio, che grosso imbroglio... {Esce da destra). Scena sesta (Schwartz, Obernofer, poi, la voce di Swendborg) obernofer {entrando da sinistra, senza avvedersi di Schwartz): È permesso? Non c’è nessuno. Sarà brava gente, ma ha delle strane pretese. Questa cravatta è un cappio alla gola. {S’infila un dito nello scollo della camicia). Bah, è un dono, e non bisogna disprezzarlo. schwartz {muovendogli incontro): Obernofer! obernofer: Schwartz! schwartz {cercando una sedia): Scusami. Adesso so no io, che ho bisogno di una sedia. Sei il primo, su questa vecchia terra, che mi abbia riconosciuto sùbi to. E che, riconoscendomi, non crolli di colpo a sedere. obernofer: Schwartz, mio vecchio Schwartz! Lo sape vo, che un giorno saresti tornato, che non ti saresti dimenticato di noi! Dimmi, dove, come te la sei passata, quand’è, che hai fatto ritorno? Io, sai, per varii anni sono stato via, sono rimasto un po’ taglia to fuori... sì, mi hanno tenuto... SCHWARTZ: Lo SO. obernofer: Ah, sai anche tu? Già, come sono sciocco. Certo ti avranno detto, avrai appreso di me qui a casa tua. schwartz: No, non qui. In un altro luogo. E da una persona, che non avrei mai potuto pensare d’incon trare a quel posto. Uno che avrei piuttosto immagi nato dovesse in questi anni essere dove sei stato tu: al tuo posto. obernofer: Weissmann. schwartz: Si: obernofer: Ti han detto anche che è stato lui, ad l’« Onorevole » Weissmann. ottenermi la libertà? schwartz: Lui? obernofer: Sì, lui, Weissmann. E non so proprio perché. schwartz: Ho visto tante cose in questi giorni, che non c’è proprio più nulla che possa maravigliarmi. Pure... Dì, siamo forse alla vigilia di nuove elezioni? obernofer: Certo. Vi saranno tra un mese. Perché me lo domandi? schwartz: Obernofer, candido, ingenuo Obernofer! Non sei cambiato, da venti anni a questa parte. Nemmeno le persecuzioni e il carcere ti hanno inse gnato nulla. obernofer: Non so che intendi dire. schwartz: Non importa, non dartene pensiero. Dim mi piuttosto: che progetti hai adesso, come pensi di sistemarti? obernofer: Non lo sai? Ho chiesto un impiego qui, da tua moglie. Non sapevo che tu fossi tornato, e ho cercato, in questo modo, di poter egualmente vivere un poco con te, tra i tuoi ricordi, in questa casa che fu tua. schwartz: Anche in questo, ho l’impressione che tu abbia un po’ esagerato, in fatto di ottimismo. Anche qui, come dovunque, fuori, non c’è nulla e nessuno che possa ricordarti di me. Mi ritengono anzi taluni, ancor oggi, ed altri s’ingegnano a considerarmi, di là dal mondo dei vivi. Morto. Morto e dimenticato per sempre. obernofer: Che dici? schwartz: Ti spiegherò poi. E che farai qui, in questa obernofer: Mi han detto che dovrò interessarmi del casa? giardino. Sarò il giardiniere. schwartz: Povero Obernofer! Non ne hai fatto molto di cammino, sul piano professionale. obernofer: Non me ne affliggo. Ogni lavoro ha la sua dignità. E poi, potrò qui con calma, tranquillamente, attendere tempi più propizi: tempi nuovi. Già un primo fine è stato raggiunto: la rivoluzione che noi sognammo, per la quale tanto combattemmo, c’è stata. Ora si tratta solo di liberarsi delle scorie, che si trascina dietro ogni rivoluzione. I varii Weissmann cadranno. schwartz: No, mio buon Obernofer, non illuderti. Di Weissmann è pieno il mondo. Non cadranno mai. obernofer: E noi, se sarà necessario, faremo un’altra rivoluzione. schwartz: E vi saranno altri Weissmann contro i quali tu oggi combatterai e che domani si converti ranno in difensori di quegli ideali, in nome dei quali li avrai combattuti. E tu, mio buon Obernofer, tornerai in carcere un’altra volta. obernofer: E che importa? Non gli uomini contano, ma le idee. E l’essenziale è che le idee, trionfino. schwartz: Sì, per dar nuovi pretesti alle vecchie porcheriole, che si consumeranno in loro nome. obernofer: Dove sei stato in questi anni? Non me lo hai ancora detto. Ho l’impressione che tu abbia vissuto tra uomini, che ti hanno fatto perdere un po’ della tua vecchia fede. schwartz: No, non è lì che l’ho perduta; ma qui, al mio ritorno. (Con occhi sognanti) Lì era tanto più facile vivere, tanto più belli e più semplici gli esseri e le cose. dagli uomini? obernofer: Lo vedi dunque che c’è sempre da sperare schwartz: Non erano uomini. O per lo meno non uomini nel senso che diamo noi a questa parola. obernofer: Dove sei vissuto dunque, in tutto questo tempo? Non ti capisco. schwartz; Voglio dirtelo. Sì, mi sembra che a te posso dirlo, con la speranza di essere creduto. Il tuo cuore è puro, e nessuna umana verità è inaccettabile, per chi è puro di cuore. Ho vissuto, mi portarono... In un altro pianeta. obernofer: Dove? schwartz: obernofer (estasiato): Oh, Schwartz, mio grande Schwartz. Dunque riuscirono, quei tuoi esperimenti? Giungesti a collegarti...? E vennero a prenderti qui, su questa vecchia terra? Dimmi, dimmi, racconta! schwartz: Lo avevo ben previsto, mio caro, mio buon Obernofer. C’è un solo uomo al mondo che possa credermi: e sei tu. Sì, vennero e mi portarono via. E viaggiai per gli spazi celesti. E vissi per vent’anni tra esseri non molto dissimili da noi, nel senso fisico della parola; ma assai dissimili, per loro e mia fortuna, nelle loro, consuetudini di vita. E seguii di lì, dai loro telescopii, anche un poco quel che avve niva quaggiù: ma vedevo e non udivo. Vedevo gli uomini di questo vecchio mondo fremere, accapi gliarsi, vivere, morire: ma non potevo ascoltare quel che dicevano, non potevo intendere gli ideali in nome dei quali cadevano o sopravvivevano, i criteri con i quali si ripartivano gli onori e gli oneri delle battaglie combattute e vinte. Tutto questo, l ’ho ap preso, qui, al mio ritorno; e ho appreso altre cose molte, che non mi hanno lasciato altro desiderio, se non quello di tornarmene lassù. Ma è troppo tardi, ormai. Ormai sono di nuovo troppo di questo mon do, per poter tornare a quell’altro; e sono già troppo di quell’altro per poter vivere in questo. È un grosso imbroglio, come direbbe il signor procuratore della Repubblica, onorato ed onorevole consorte della mia prima figliuola. obernofer: E te la prendi così, tieni per te questo enorme segreto; non comunichi agli uomini quello che hai scoperto, quello che tu sai? Non pensi quali nuovi e luminosi orizzonti scopriresti a questa pove ra e derelitta umanità? schwartz: E chi, fuori di te, mi crederebbe? Perfino mia moglie, vedi, mi reputa nulla più che un povero folle. E si è fatto promettere che sparirò, per il bene suo e delle nostre figliuole: che darò credito alla generale convinzione che io sia morto da tempo. obernofer: E che importa se oggi, come tu dici, non ti si creda, e ti si ritenga pazzo? Ti si dovrà ben credere un giorno, vicino o lontano, che tu viva ancora o che sii morto davvero. E tu avrai aperte all’umanità nuove vie: le vie forse, della sua reden zione. schwartz: A quale umanità? Quella che ha gettato te, per la sola onestà dei tuoi intenti, in fondo ad una prigione? Che respinge me sin dalle soglie di casa mia per il solo sospetto che io possa tentare di farle conoscere i tuoi nuovi e luminosi orizzonti? Siamo ambedue troppo poca cosa, perché oggi o domani gli uomini ci diano ascolto. obernofer: Hai ragione, forse, per quel che riguarda me: non mi sono bastate, e non mi basteranno, a ripensarci, le forze, per far partecipi gli uomini dei miei ideali. Ma tu, tu! Hai tentati e vinti gli spazi, hai scoperto un nuovo mondo, vi hai vissuto a lungo, e dici che gli esseri che vi abitano sono tanto miglio ri di quelli di quaggiù. Devi, dico devi, porre questi e quei nuovi esseri in contatto tra loro: devi far sì che gli uni, negli istituiti rapporti con gli altri, diventino migliori. schwartz: E secondo te, sarebbero in tal modo quelli di lassù, a rendere simili a sé questi di questo vecchio pianeta? Caro, buon Obernofer, quelli di lassù hanno macchine e radio e motori: ma quanto a candore, sono rimasti all’età del nostro Paradiso Terrestre... non l’hanno ancora morsa quella malaugu rata mela che Èva rifilò al nostro vecchio progenito re! E tu pensi che non sia questa, la nostra prima materia di esportazione, non appena vi saranno scambi tra il nostro pianeta ed il loro? No, questo bel servigio io non lo renderò ai miei buoni amici di lassù: non lo avranno, il dono dei nostri più evoluti pensieri; non le conosceranno, le nostre piccole viltà e le nostre grandi follie... obernofer: E all’altro volto tu non ci pensi, di queste miserie che inevitabilmente comporta ogni progresso umano? Non pensi tu che qualcosa di buono po tremo anche noi insegnarla ai tuoi amici dell’altro pianeta: farli partecipi delle conquiste nostre della scienza, dell’uso che abbiamo imparato a farne per il benessere della comunità? schwartz: L’uso, ad esempio ■— ne ho bene appreso in questi giorni — che avete fatto qui di certi studi sugli atomi, per le fortune del nostro globo terrac queo e a maggior gloria della umana solidarietà.. Oh, per la mia parte almeno, di consimili conquiste della nostra scienza in cammino essi nulla sapranno, come nulla ancora ne saprebbero i poveri indii delle pre- sunte Indie Orientali se Cristoforo Colombo, dopo di aver scoperta l’America, avesse avuto la buona idea di ricoprirla di nuovo: di sottrarla alle correnti di civiltà dei colonizzatori del vecchio mondo... obernofer: Ma, Schwartz... swendborg (dall’interno con voce di pianto): No, Franny, non insistere, non mi persuaderete mai né tu né il tuo Diiring... schwartz (nell’udire la voce di Swendborg)-. Sta zit to, hai sentito? Ci son lì le mie figliuole... orfane. Già, orfane. Ti raccomando, se entrano qui, non dir nulla dei nostri discorsi. E non chiamarmi col mio nome. Di’ che sono un amico che ti ha accompagna to, e inventa per me un nome qualsiasi: che so io, Reith..., ecco, Reith. swendborg (entra da destra, tergendosi le lacrime). Scena settima (Swendborg, Schwartz, Obernofer) obernofer (con qualche incertezza)-. Buongiorno, Si swendborg (cercando di riprendersi)-. Buongiorno. gnorina. Chi siete? obernofer: Hanno già scritto qui, credo, alla sua mamma. Sono Obernofer. swendborg (con dolcezza): Ah: l’amico di papà mio... (.A Schwartz) E voi?... schwartz: Un amico suo, Sw... signorina. Di Oberno fer. Mi chiamo Reith. Mi sono permesso di accom pagnarlo. Non conosceva la strada. swendborg (guardandolo con simpatia)-. E strano... mi ricordate di qualcuno... qualcuno che ho dovuto conoscere tanti, tanti anni fa... schwartz (un po' commosso)-. Avete dovuto far mol ta fatica, a far confronti del genere. Ho una barba così lunga! Scusatemi, se mi presento così. swendborg (gentile)-. Non importa. (A Obernofer). E voi, lo conoscevate, il povero babbo, assai da vicino? obernofer (con un rapido sguardo a Schwartz)-. Assai swendborg: da vicino, Signorina... ...Swendborg. Mi chiamo Swendborg. Povero papà! Sarà morto, ormai così pensano tutti. Ma io non so convincermene, anche dopo tanti anni. È così vivo, in me... C’è un lontano ricordo, che mi ritorna quando vado a letto, ogni sera. Quel bacio rapido, eppure tanto tenero, quando mi portavano a salutarlo nella sua stanza di lavoro. E quel viso un po’ stanco, tra tutte quelle storte e quegli alambic chi. E quella luce che, dopo, filtrava di sotto alla porta: lui restava lì tutta la notte, ed io non volevo decidermi ad allontanarmi da quella porta, dietro la quale immaginavo dovessero succedere tante cose belle, come nei libri delle fate... schwartz (intenerito): Ed è morto, voi dite? swendborg (come trasognata)-. Non so... Dovrei ap porre anch’io una mia firma, sotto la richiesta di una dichiarazione a questo riguardo. Ma non so decider mi. Mi dicono che sono una sciocca sentimentale. E forse hanno ragione. Ma, che dire? Mi sembra che solo quando avremo tutte firmato quel pezzo di carta, sarà morto davvero; e che saremo state un po’ noi, a farlo morire. Ma non so perché vi sto seccando con tutte queste mie ubbie. Vado di là, signor Reith, tenete pure ancora un po’ compagnia al signor Obernofer, se vi fa piacere. Accompagnatelo voi stesso in giardino. È lì, che dovrà lavorare... (Si allontana da sinistra). Scena ottava (Schwartz, Obernofer) obernofer: Che rimugini, ora, Schwartz? Sei come ammutolito. schwartz (riscotendosi): Non saprei che dirti. C’è di nuovo qualcosa che sconvolge i miei pensieri. Ma un po’ più dolcemente, questa volta. Chissà, forse, sba gliavo. Non sei tu il solo, che io abbia trovato qui a ricevermi, al mio ritorno... Senti, Obernofer: dammi un po’ di denaro. (Obernofer trae di tasca un borsel lino, vi fruga dentro poi ci ripensa, e lo consegna senz’altro a Schwartz). Voglio tornare questa sera, ed in treno, se Dio vuole, al mio vecchio laboratorio, te ne ricordi?, al Capo Nord. Quello, almeno, me lo hanno lasciato. Debbo riordinare le idee. E provve dere anche... poi ti dirò. E tu, intanto, fammi un favore. Questa mia figliuola, Swendborg, è tanto diversa... è così mite e gentile; e lo sarà in ispecie con te, che sa legato al mio ricordo. Dille che c’è qualcuno, che potrà darle notizie di suo padre. E cerca di condurmela, domani sera, a quel faro che è ad una ottantina di chilometri dalla città. Ti diranno lì stesso, in città, dove si trova. Ma sii accorto e prudente: fa che nessun altro, qui in casa, abbia notizia di questa nostra piccola congiura. Tanto, tu sei un maestro, in fatto di congiure... che intendi fare? obernofer (con affetto): Mio ottimo Schwartz! Ma schwartz: Domani saprai tutto. Raggiungimi là, dove ti ho detto. E porta con te la mia Swendborg. Addio, caro Obernofer; o meglio, arrivederci. (Dilegua per la vetrata del giardino, mentre Obernofer resta a seguirlo con lo sguardo). QUADRO 4 (Stessa spiaggia del primo quadro, con bene in luce al sole meridiano lo scoglio, il mare e la casamatta, in nanzi alla quale Sigfrido se ne sta placidamente fuman do e seguendo con lo sguardo le volute del fumo). Scena prima (Schwartz, Sigfrido) schwartz (giungendo da destra)-. Oh, almeno qui si respira... (Scorgendo Sigfrido) — Olà, il mio buon amico Sigfrido. Buondì. Sigfrido: Buonasera. Sei tornato un’altra volta? Quan to a provviste, sai... schwartz: No, non si tratta di questo, ora. Vengo a chiederti un altro segnalato favore. Ma anzitutto, eccoti, per quel che mi desti... (Trae di tasca il borsellino di Obernofer). sigfrido (senza muoversi)-. Non serve. schwartz (avvicinandoglisi): Ti ringrazio, ma non avrò più che farmene, tra poco, di questo danaro. (Gli svuota in mano il borsellino). Il borsellino, invece, lo conservo. È un caro ricordo. Sigfrido: Che altro, dunque, vuoi da me? schwartz: Puoi restituirmi quel mio..., sì, quel mio Sigfrido: Vado a prendertelo. schwartz: No, non ancora. Mi servirà più tardi. A meno che tu non abbia fretta di tornartene al faro. sigfrido: Non ho fretta. È il mio turno di riposo. E son venuto a godermelo qui. scafandro? al faro. È un po’ orso. schwartz: E il tuo compagno, qui, non ci viene mai? Sigfrido: No, lui preferisce restarsene sempre laggiù, schwartz: Lui, dici? E tu...? sigfrido: Io no, di certo. Vedi, sto qui a discorrere con te. E non mi dispiace. Mi piace, di tanto in tanto, discorrere con qualcuno. Con quelli delle provviste, che vengono ogni mese. E qualche volta anche con qualche altro, che capita da queste parti. schwartz: Ma, se ricordo bene, non c’è nulla che ti interessi. Né di questo, né di altri mondi. sigfrido: Difatti. schwartz: E allora? sigfrido: Mi piace discorrere, così, per discorrere. Così come mi piace fumare il mio sigaro. Solo per fare qualcosa. Per aprire la bocca, e dire delle parole. L’altro, il mio compagno, non parla mai. schwartz: Anche là dove sono stato, sai — e dove tornerò —• si discorre assai poco. E in un modo un po’ diverso dal nostro. Gli avvocati, i politici, non vi farebbero fortuna. Ed allora, per tenermi in esercizio e non dimenticarmi di parlare come si parla tra noi, mi toccava fare qualche volta come fai tu: aprire la bocca, e parlare senza nessun interesse per quello di cui si parla. Ma, a differenza di te, organizzavo io stesso dei dialoghi. Provvedevo alle domande e alle risposte. sigfrido: È un divertimento come tutti gli altri. schwartz: L’ho sempre detto, che sei un filò... {a uno sguardo di Sigfrido) No, non lo dico. So che ti offendi, se ti chiamo filosofo. E a ripensare a certi nostri professori di filosofia, hai forse ragione. sigfrido: Non so che vuoi dire. schwartz: Non importa. Tanto, anche questo, come il resto, non ti interesserebbe. Ah, ecco lo sferragliare di un trabiccolo. Sono certo loro. Arrivano. sigfrido (con mediocre interesse)-. Chi è, che arriva? Scena seconda (Sigfrido, Schwartz, Swendborg, poi Obernofer) swendborg (irrompendo de destra, e precipitandosi tra le braccia di Schwartz): Papà, papà mio! obernofer (apparendo anche lui, di dietro ad un rialzo del terreno): Quando lo riporteranno, questo macinino, al suo padrone, non lo riconoscerà, come lo abbiamo ridotto. Un bell’affare, per quel povero uomo! schwartz (sciogliendosi dall’abbraccio della figliuola, in tono di sorridente rimprovero ad Obernofer): Vedo che non sei un campione, in fatto di serbare segreti. E sei l’uomo delle congiure! obernofer: Scusami, non ho potuto tacere. Ma ho fatto, del resto, quel che avresti fatto tu, se fossi rimasto altri cinque minuti, ieri, con la tua Swen dborg, lì a casa tua. schwartz (carezzando Svendborg, che sta a guardarlo e ad ascoltarlo come in una sorta di estasi): Si vede, Obernofer, che in fondo anche tu li conosci, i cuori degli uomini. Per lo meno, nella loro parte migliore. Ed anche se, per il resto, hai ancora molto da imparare. Ma è un tuo limite, questo, che non mi dispiace. E te lo invidio. swendborg [non stancandosi di guardare teneramente Schwartz): Papà, n’ero certa, che tu vivessi: che saresti tornato. schwartz: Tu, almeno, n’eri certa. Come il buon Obernofer. Eppure, che ricordo potevi avere di me? Avevi sei anni, credo, quando me ne andai... swendborg: Non te ne sei mai andato, per me. Ti figuravo sempre con noi, accanto a noi, a far parte della nostra vita. E man mano che crescevo, ti vedevo quasi andare anche tu innanzi agli anni, insieme con me: di anno in anno un po’ più maturo, più vecchio. Perciò ieri non ti riconobbi sùbito: non perché fossi troppo invecchiato, da quando mi la sciasti, ma proprio per il contrario: perché nella mia immaginazione ti avevo fatto più vecchio di quello che sei... (sorridendo). Perdonami, babbo; non è stata molto gentile, con te, la mia immaginazione. schwartz: Cara, non è tua la colpa, ma degli esempi che la vita ti ha offerti, in questo tenero tuo tentativo di farmi invecchiare con te. Mi avevi forse visto nello stato in cui mi avrebbero ridotto le Università e le Accademie: come sarei diventato nel nostro squallido mondo nello sforzo di piegarmi a tutto pur di non rinunziare a nulla; o, nel migliore dei casi, a furia di sentir discorrere di vulcani or autonomi ed ora interdipendenti, o discettare delle dieresi e delle sineresi nei versi del Manzoni. Lassù, invece, dove sono vissuto, tutto è più giocondo e più lieve: più lieve il peso del carico della nostra carne; più lievi, perché più semplici, e più onesti, i pensieri. È un altro mondo, sai... altro pianeta. swendborg (con entusiasmo): Sì, babbo, lo so, è un schwartz (a Obernofer): Anche questo le hai detto? obernofer: Anche questo, sapevo bene che glielo avresti detto anche tu, e già ieri, se ti fosse stato possibile. E lei, lei almeno, lo avrebbe meritato, non ti pare? schwartz: Ancora una volta hai ragione, mio buon Obernofer. Lo avrebbe, e lo ha meritato. E perciò l’ho voluta qui, con te. obernofer (guardandosi intorno): Ma perché qui? Non ce lo hai ancora spiegato, Schwartz. schwartz: Perché qui approdai, al mio ritorno sulla terra. E di qui — erano ancora vicini, sai, ed ho ripresi ieri i contatti nel mio laboratorio — di qui tornerò lassù, con quella brava gente, stasera. swendborg [con dolore): Tornerai, babbo lassù? E schwartz (a Sigfrido, che ha spento il sigaro e guarda adesso, or ai tre che discorrono, or alla sua casamat ta)'. Che ne pensi tu, Sigfrido? Ti piacerà che le cose cambino, in questo nostro vecchio pianeta, che anche tu ne abbia la tua parte, di questi tempi migliori? SIGFRIDO: Non so che state impasticciando, voi due. Badate solo che io resti qui dove sto. Vivo come mi piace, e non mi piacciono i cambiamenti. schwartz (con una risata)-. Te lo immaginavi, mio buon Obernofer, che il più retrivo dei reazionari lo avresti trovato qui, su questa spiaggia e su quello scoglio, a guardia del faro? Bell’affare, in tempi in cui — a quel che ho sentito dire — i banchieri, i grossi industriali, i latifondisti, i campioni dello sno bismo salottiero della letteratura in frak e falpalà, fanno a gara a chi sia il più ardito e il più inflessibi le, negli sbandierati loro propositi di riforme socia li... obernofer: Anche lui, un giorno, si renderà conto... schwartz: No. E, non rammaricartene, io sono con lui. Ho riflettuto molto, in queste ultime venti- quattr’ore. Lasciamoli pure, gli uomini di questa vecchia terra, con le loro virtù e i loro limiti, alla vita che a proprio modo si sono scelta; e non pre tendiamo di relegarli in paradisi terrestri che li pri vino anche di questa libertà. Del resto, anche noi due le nostre scelte le abbiamo fatte così come ci piace. swendborg: E me, me, babbo, mi dimentichi, che pure ho tanto bisogno di aria e di luce? Che farò io, sen za di te? di noi, di me, che sarà? T’ho appena ritrovato e già mi lasci di nuovo? schwartz: Non ti lascio per sempre, Swendborg. Ora so che su questa terra avrò chi cercare, al mio ritorno: te, Obernofer. Bastano due esseri soli, due quali voi siete, in quanto grande è il mondo, per potersi ritrovare, tra gli uomini. obernofer: No, non lasciarci, Schwartz. Anche gli altri uomini non sono del tutto cattivi. C’è, sì, da lottare, ma potremo fare ancora qualche cosa per loro... Proprio oggi, in città, ho rivisti alcuni vecchi amici. Si agitano già per tempi migliori. Giungerà bene un giorno... Vedrai, le cose cambieranno! schwartz (con tenerezza)-. Continuerai a farmi invec chiare nel tuo cuore, ma con un po’ più di discrezio ne, che diamine!; e poi mi rivedrai di nuovo, un po’ più vecchio di oggi, in effetto, ma non tanto; e sempre più vicino a te che ad ogni altro essere al mondo, quando sarò qui di ritorno. E intanto ti sarai sposata anche tu, avrai avuto dei bimbi, con i quali discorrere del babbo tuo, nell’attesa. swendborg (con impeto)-. No, babbo, portami piutto sto ora, con te. obernofer: Ed anche me, anche me: portami via. schwartz: E che fareste, lassù? Tu, Swendborg, non potresti viverla, la tua vita, tu che sei nata madre, e tutto, in te, lo rivela: non potresti sposarlo un essere dell’altro pianeta, e Obernofer è troppo vecchio per te. E tu, Obernofer, che faresti lì, dove tutto è in ordine e non c’è bisogno di rivoluzioni? swendborg: Non scherzare, papà, per sottrarti alle nostre preghiere. Obernofer lo conosci; e, quanto a me, ormai ne sèi convinto che anche io ti somiglio, sia pure come una piccola donna può somigliare ad un grande uomo quale tu sei. Dici che io potrei sposare, ed avere dei figli: e figli, sì, mi piacerebbe averne. Ma da chi? Se sapessi che individuo, lezioso e butirroso, la mamma ha scelto per me! Rabbrivi disco al solo pensarvi. schwartz: Potrai scegliertene tu un altro: uno che magari non sia, come tua madre mi disse, un’alta autorità dello Stato, ma un uomo semplice; o, ancora meglio, un uomo un po’ lui stesso partecipe delle tue e delle mie stravaganze. swendborg: E intanto, perderò te. schwartz: No, te l’ho detto, non mi perderai. Ritor nerò. Ritornerò per te. E per Obernofer. Quanto agli altri... avrai notato che ho il senso del comico: sarà divertente, tra l’altro, portar qui ancora una volta un po’ di scompiglio. (Consultando l'orologio, a Sigfri do). Sigfrido, te ne prego, va a prendermi quell’arne se. swendborg: Se tanto ci tieni, al tuo senso del comico, non pensi come sarà tutto buffo, qui, se mi porterai via? Pensa: il mio pretendente, il... l’alta autorità dello Stato, sarà il primo uomo al mondo, che per sfuggirgli una donna se ne sarà andata addirittura su di un altro pianeta. E, quanto alia mamma... schwartz (dolcemente): Non essere severa con lei, Swendborg. A modo suo, ti vuol bene. E ne ha voluto anche a me. E se io e lei non c’intendiamo, il torto non è suo, così come non è mio. Gli esseri umani parlano ciascuno un diverso linguaggio; e di nessuno è la colpa se chi parla non ha voce intelligi bile per chi a volta a volta lo ascolta. (Sigfrido vien fuori con lo scafandro, Schwartz comincia a indossar lo). swendborg (con voce di pianto): Papà, non abbando narci. Non ci tradire, me e Obernofer. Portaci anche noi lassù. schwartz: Anche se ora lo volessi, non sarebbe possi bile. E questo è un bene, per ora: sento che mi state sviando dai miei propositi. Volevo solo, e da solo, andarmene a respirare un po’ di quell’aria che mi occorre, per poi di nuovo, ma assai più in là, potermi risommergere in questo vecchio mondo birbone. Ora, farò di meglio. Vedi questo arnese che sto indossan do? Pregherò gli amici di lassù che me ne costrui scano altri due. E li porterò qui con me, al mio ritorno. E non tarderò, a tornare. Ma intanto, a mente serena, tu e il buon Obernofer ripenserete a quello che v’ho detto: cercherete di vedere se potre te viverla qui, la vostra vita. Altrimenti... (Si ode da sinistra un rullo di motori). Addio, Swendborg, non piangere. Addio, Obernofer; non farti trovare di nuovo in carcere quando tornerò. A presto. Ve l’ho promesso; e manterrò. (Va via da sinistra, mentre Sigfrido riaccende placidamente il suo sigaro, e Swen dborg si appoggia commossa a Obernofer, ambedue fisso lo sguardo in lui che si allontana). FINE « I coniugi Snowden ovvero l'autocomunismo » di Egische Ciarenz: un testo in forma dì poema e allo stesso tempo di sceneggiatura cinematografica, che Mario Verdone ha riscoperto e presentato nel suo volume « Poemi e scenari cinematografici d’avanguardia ». Nato nel 1923 nel clima futurista, e non per il teatro, rimasto inedito fino ad oggi, è stato portato sulla scena dal Gruppo Libero di Bologna di Arnaldo Picchi che l’ha fatto recitare, ora in forma di commedia, ora di pantomima, ora di balletto, ma puntando preva lentemente sui valori visivi dello spettacolo, arricchito da musiche di Beethoven e di Haendel. Interpreti in frac e in calzamaglia: Fabio Romano, Renzo Morselli, Giorgio Bulla, Bianca Pirazzoli e Claudia Colombi; coreografia di Roy Bisier. Lo spettacolo, messo in scena a Roma, ai teatrino Flaiano, era già stato presentato con successo in Emilia ed alla Università di Wroclaw (Polonia). L a S c a l a d i p r i m a i Ancora una volta, in principio c’è la parola. Collocata in un epoca precisa, i primi anni del secolo. Non sempre esattamente percepita, talvolta udita soprattutto come suo- no, ascoltata di preferenza quando la famiglia è seduta a tavola, nella luminosità del mezzogiorno o sotto la lu ce della lampada a gas che ogni tanto oscilla e alla quale, ogni tanto, bisogna cambiare la « reticella ». Operazione difficile, spesso compiuta al chiarore incerto di una can dela, mentre sulla tovaglia bianca in quel buio dominan te sta la zuppiera posata da poco. Prima che la luce ri torni, è bello veder salire dalla zuppiera o dalle scodelle fumanti i vapori della minestra appena servita. Qualcuno parla della notte del Sabba e delle nebbie che avvolgono le cime del Brocken. Gli altri ridono. Durante quel rito, il bambino da poco ammesso ai pasti in comune, ode i primi nomi di musicisti e cantan ti e i titoli delle prime opere che s’imprimono nella sua memoria. Quei titoli sono in massima parte gli stessi che egli ritroverà più tardi sugli spartiti allineati in un mobi- letto, il « portamusiche », situato vicino al pianoforte. Piu tardi riuscirà a decifrarli dopo avere indugiato sulle immagini che adornano le copertine: quella giovane in veste bianca calata dall alto di un muro a tarda notte mentre Rigoletto con gli occhi bendati regge la scala; la splendida Violetta, tutta d’oro su uno sfondo rosato, con in mano il calice dal quale trabocca lo spumante; Aida nel sotterraneo del tempio di Vulcano in cui ha trovato sepoltura accanto a Radames. Si imparano per la prima volta i nomi di Verdi e di Bellini, di Rossini e di Doni- zetti. Più tardi quelli di Mascagni, di Puccini e di Wagner. Ancora più tardi, Riccardo Strauss, Mussorgski, Rimsky- Korsakov, Debussy e Ravel. Poi, un poco alla rinfusa, Wolf-Ferrari, Cilea, Giordano, Pizzetti, Zandonai, Monte mezzi, Pick-Mangiagalli, Alfano e Respighi. Le preferen ze e i « distinguo », non esclusa qualche avversione, si affacceranno sul finire dell’adolescenza. Adesso quei nomi stampati^ a caratteri vistosi sono spesso collegati a un nome più piccolo che fa pensare a terre lontane e a pae si sconosciuti. È il nome di Michele Saladino, il quale ha ridotto per pianoforte tante opere insigni. Esso figu ra anche sulla copertina del Mefistofele di Boito, che fra gli spartiti occupa un posto d’onore e non di rado è la sciato in bella mostra sul leggìo del pianoforte. Una gio vane zia di tanto in tanto lo sfoglia e ne tenta qualche pagina, magari sottolineando il suono, se non proprio il canto, con emissioni a mezza voce: « Cavaliere illustre e saggio / come mai vi può allettar / la fanciulla del vil laggio / col suo rustico parlar? ». Oppure: « L’altra not te in fondo al mare / il mio bimbo hanno gittato... ». È il pezzo che lei preferisce. Ognuno di quei nomi, un po’ alla volta, verrà riferito a un solo luogo, il Teatro alla Scala (anzi La Scala, si diceva nelle famiglie), come al loro naturale centro di raccolta. Ma a tavola sono pronun ziati anche nomi d’altre provenienze, narrate storie che alla mente del fanciullo si presentano senza un nesso ap parente e che soltanto più avanti egli riuscirà a collega re con la vita e con la storia di quel luogo illustre. La Scala: un oggetto prima ancora che un edificio quale ap punto può riuscire a vederlo un bambino che non cono sce ancora il teatro, e ancora non ne ha avuto nozione. Sorgono così nei discorsi dei grandi, isole insospetta te che si identificano con personaggi quasi sempre al centro di un aneddoto, di un fatto di cronaca o di un pettegolezzo. Nomi imprevedibili ai quali è meno facile assuefarsi. Si parla di Armida e delle stupende fontane che ne abbelliscono il giardino; peccato che in esso si muova la grande mole di Eugenia Burzio, cantante dalla voce stupenda ma il cui corpo ha assunto proporzioni fuori dell’ordinario: « una donna che bisogna ascoltare senza guardarla ». Si indugia su un ultimo acquisto di par ticolare attrazione, la bellissima Rosina Storchio, che è una impareggiabile Norina al cui fascino non si sottrae nessuno, nemmeno i direttori d’orchestra (su un mobile del salotto, insieme alla fotografia della Storchio, figura va la fotografia di Virginia Reiter: un altro campione della femminilità vagheggiata secondo il gusto di quegli anni). Si discute sulla risata che Bonci riesce a intercala re nella cabaletta del Ballo in maschera (« È scherzo od è follìa / siffatta profezia: / ma come fa da ridere / la lor crudelità ») e si nomina Enrico Caruso che ormai sara difficile riascoltare in Italia. Con una tal quale insi stenza si discorre di Victor Maurel, baritono di origine marsigliese « prediletto » da Verdi, che lo prescelse per interpretare Jago nella prima rappresentazione di Otello. Un fatto che risaliva molto indietro, l’anno 1887, ma al quale è rimasto legato il ricordo di un episodio non pro prio trascurabile. Al tempo di Otello la maggior parte degli uomini portava i baffi folti, le due punte ripiegate verso l’alto; degli uomini senza baffi si diceva, con una punta di disprezzo, che « erano americani o preti ». Mau- rel, bell’uomo, faceva mostra di bellissimi mustacchi. Ma Verdi non riusciva a immaginare un Jago che non fosse glabro e pur sapendo di procurargli un grande dolore aveva chiesto a Maurel di raderli completamente. Maurel lo aveva accontentato. Verdi valeva bene due baffi accu ratamente coltivati per più di venti anni, e di quel bari tono non si sarebbe dimenticato. Sei anni dopo, infatti, Maurel era stato il primo Falstaff. A questo punto l’ondata dei ricordi, o la richiesta di qualche famigliare inducevano il babbo ad alzarsi da ta vola, ad andare nel suo studio, aprire un cassetto e ri portarvi una fotografia protetta da un foglio di carta tra sparente che tuttavia non era riuscito a evitarle di lie vemente appannarsi. Sul margine inferiore della fotogra fia, che ritraeva una ventina di persone raggruppate in attesa, era scritta una data: « 9 febbraio 1893 ». E, sot to la data, la stessa mano aveva aggiunto: « ore 7,30 del mattino ». Così il bambino imparò che quel 9 febbraio si rappresentava l’ultima opera di Verdi, nuova per il mondo; che la parete grigia dalla quale era occupata gran parte della fotografia era il lato sinistro della Scala; che quella gente mattiniera sostava davanti all’ingresso del l’ultima galleria la cui apertura non sarebbe avvenuta Maggio 1946: Arturo Toscanini dirige il primo concerto alla Scala restaurata prima delle sette di sera, e infine che il giovane alto e sottile la cui figura spiccava dal gruppo era suo padre, studente non ancora ventenne che in quel giorno aveva eccezionalmente rinunziato ad andare a Pavia dove fre quentava la facoltà di giurisprudenza. Un conoscente, an dato a osservare quella scena insolita e tuttavia non im prevedibile, aveva scattato la fotografia e ne aveva do nato una copia al babbo. Del quale si potevano ravvi sare le sembianze anche attraverso una lente di ingrandi mento, avendo cura di cercare la luce giusta e tenerla a giusta distanza. Seguivano immancabili, specialmente se a tavola se deva qualche parente o amico di passaggio, molte do mande, sempre le stesse, circa il clima di quel 9 febbraio (« con il freddo che in quel mese solitamente colpisce Milano »), sul come era stata ingannata la lunghissima attesa (dodici ore senza potersi sedere); e non tanto sul come quella gente aveva mangiato, perché sicuramente quanti facevano porta erano arrivati muniti di pagnottelle imbottite, ma se e come era stato possibile bere. Si do mandava soprattutto se nessuno avesse pensato al modo di procurarsi una bevanda calda. A quelle domande il babbo rispondeva sorridendo, e a conclusione dei ricordi non mancava di aggiungere che a vent’anni lo stare in piedi, la fame (o più semplice- mente l’appetito) e la sete si sopportano facilmente. Quel la volta, comunque, « l’importanza dell’avvenimentq » le aveva rese piacevoli, e tali le risuscitava la memoria di dopo. Le ultime parole erano pronunziate quando il fanciul lo già stava per abbandonarsi al sonno. Tra poco, nel let tino situato in una grande stanza con le finestre che da vano sulla strada, il freddo delle lenzuola lo avrebbe per qualche attimo risvegliato. Il tempo necessario a farsi il segno della croce e a dare la buona notte, a vedere accen dere sul cassettone un moccoletto la cui fiamma di tan to in tanto oscillava entro un paralume rosato, a udire richiudersi la porta della stanza e magari udir salire, dal fondo della strada, da piazza San Giovanni in Conca a piazza Sant’Alessandro, il rumore di una carrozzella al trotto e il tinnire dei bubboli appesi al collare del cavallo. Poi silenzio. E in quel silenzio, spesso lacerato da voci di giovani avvinazzati, una volta tanto una voce chiara, straordinariamente bella e intonata, nella cui lim pidezza era facile percepire parole delle quali non era facile capire il senso: « Spirto gentil / nei sogni miei / brillasti un dì... ». Le cantava, rincasando, un giovane noto agli abitanti del quartiere che ne avevano presto apprezzato la voce tenorile. Era figlio, così dicevano, di un custode del Li ceo Beccaria e si chiamava Giuseppe Armanini. Il suo nome, di lì a pochi anni, sarebbe ripetutamente apparso negli annunzi della Scala. E il fanciullo che più di una volta ne aveva udito il canto nel sonno, divenuto ragaz zo lo avrebbe ascoltato, e soprattutto ne avrebbe seguito i gesti, assistendo alle prime opere alle quali lo avreb bero accompagnato: Figli di re di Humperdinck e II ma trimonio segreto di Cimarosa. Due titoli da non dimen ticare. Raul Radice (da « Teatro alla Scala » Mondadori. Per gentile concessione dell’Editore) La m ostra dei duecento anni D u e o r e d i s p e t t a c o l o c o m e a T e a t r o Due ore. È il tempo che un cartello indica come ne cessario per una visita completa. Ma le sale del Palazzo Reale sono una gigantesca macchina del tempo. En trarci è un po’ come annegare in duecento anni di sto ria, quelli che vi saranno proposti fino al 10 settembre: la vita intera del Teatro alla Scala. Le due ore non bastano: una di esse per un secolo di Scala è una risibile misura. Ho voluto però rispettare la poco prudenziale tabella di marcia indicata dagli organizzatori della mostra. Strapparsi a forza dagli in cantesimi da favola d’un teatro, mi son detto, sarà come resistere, senza cera alle orecchie, a'certi canti di sirene. Più sofferto sarà il distacco da Palazzo Reale, maggiore, vorrà dire, sarà stata la presa della rappre sentazione allestita nelle venticinque sale. Ma già: può, una mostra sulla vita di un teatro, fare essa stessa teatro? Due ore sono il tempo giusto per una media proposta drammaturgica. Che gli organizza tori della « Duecento anni alla Scala » abbiano appun to voluto informare i visitatori che, a Palazzo Reale, si rappresenta « 1778-1978 », grande opera che si re plica fino al 10 settembre? Porsi domande davanti a una porta aperta è eser cizio pericoloso, oltre che inutile: può portare a vol gerle le spalle. « Se a teatro non si entra, recensir non vale », ho letto una volta a Milano sulla locandina di una sala di periferia. La sentenza, anonima e di liriche pretese, aveva forse un fondo di verità. Palazzo Reale come teatro d’una sacra rappresentazione sulla Scala? Può anche essere: dunque vediamo. Il percorso-rappresentazione è, in un certo modo, obbligato. La struttura labirintica delle sale bisogna percorrerla con il filo di Arianna della storia. Si co mincia dall’atto di nascita del teatro. La gloriosa isti tuzione nasce da una disgrazia: l’incendio della sala regia ospitata dal Palazzo Ducale. È il 25 febbraio del 1776. Il fatto è, di per sé, già drammatico: un riusci to, plateale inizio di una vicenda sospesa fra l’epico e una scontata predestinazione alla gloria. È l’ultima notte di carnevale di una città che già conta 130 mila abitanti. Fra i proprietari dei palchi del vecchio teatro e la corte di Vienna si stabilisce un filo diretto: si vuole costruire un nuovo, grande e degno teatro. Alle disgrazie, si sa, ci si oppone sempre con propositi che le superano con vasto margine. Maria Teresa d’Austria concede il terreno necessa rio, il luogo è scelto: lo slargo della chiesa di S. Maria alla Scala. Si affida il progetto all’architetto Giuseppe Piermarini, a Milano per la sistemazione del Palazzo Ducale. Mentre si scava per l’augusta costruzione, affiora un bassorilievo che riproduce le fattezze del mimo romano Pilade. È un vero e proprio colpo di sce na, quasi voluto da un autore amante delle eclatanti coincidenze. Un buon auspicio, si dice, visto che si stava innalzando un teatro. A fine maggio 1778 la sa la è pronta. Se ne prova l’acustica: perfetta. A lasciar rotolare una monetina sul palco, il tintinnio corre per tutta la pianta a ferro di cavallo. Il 3 agosto si fe steggia il « solenne aprimento » della Scala. È il primo vagito d’un mito. Si rappresenta il dramma « Europa riconosciuta ». « Lo spettacolo piace, perché sempre variato. Gli occhi sono sempre occupati, e l’udito non si annoia con la uniformità », scrive Pietro Verri. È la prima recensione, il « la » è tratto. Tutto questo è scritto a grandi caratteri sopra un pannello della prima sala d’esposizione. Lungo una parete s’innalza una gigantesca riproduzione della fac ciata della Scala. Illuminata come si deve, luci e ombre fanno il loro gioco. Si è ormai in piena rappresenta zione, e già si capisce che in questo allestimento sce nico non si è certo risparmiato sui mezzi. Si capisce anche che il luogo deputato dell’azione è qui determinato dalla muta (fin quanto è muto un complesso di segni riferito a un’espressione storico-culturale che vive da Una sala della mostra con elementi scenografici di varie opere (foto Picicagliani) duecento anni) riproduzione di eventi e concatenazio ni, e che lo stesso congegno di rappresentazione diven ta, come testo scritto ad hoc, il fatto rappresentato, la vita stessa della Scala. Compreso il meccanismo di rappresentazione, al giovane visitatore « ics » della mo stra-teatro rimane da afferrare il senso della lunghis sima, intensa continuità artistica del « rappresentato ». Il segnale della nuova decifrazione proviene subito da una connessione evidente in tutte le sale. Non c’è evento artistico alla Scala che non abbia stretti riferi menti storici, così come non c’è travaglio storico del Paese che non trovi riscontro nelle intuizioni artisti che del teatro. Pannelli, dipinti, incisioni, modelli, documenti: na ti tutti da circostanze dell’arte della musica, tutti ri mandano ai grandi fatti che la storia propone. Brillano in una bacheca gli speroni d’argento di Napoleone, la sua « N » incisa fin lì, strumento di tortura per il suo cavallo grigio. Era il 14 maggio 1796, dice una scrit ta sul vetro. L’avanguardia francese, comandata dal ge nerale Andrea Massena, entra a Milano, da Porta Ro mana. Una delegazione cittadina gli si fa avanti, of frendogli le chiavi della città. L’indomani, la Scala ac coglie Napoleone, futuro re d’Italia, al suono della « Marsigliese ». Nella bacheca è anche esposto il suo manto regale. Verde, tempestato di « N » tessute con fili d’argento. Milano, una città che, secondo Ugo Foscolo, ha saputo anche essere inutilmente servile. « Correvano qui assume cadenze decise. Un gigantesco ingrandi mento fotografico presenta i cannoni del generale Bava Beccaris in piazza Duomo. Il prezzo del pape è au mentato e aleggiano le leggi liberticide del Pelloux. Milano è già quasi metropoli: le masse popolari già insorgono. Per le sale pressoché deserte — è giorno feriale — si aggirano incantate Gianna e Francesca, 17 e 15 anni, sorelle studentesse del Molise. « Però — dice la prima — , dietro uno spettacolo della Scala quanto lavoro ci sta. Ci sta un sacco di gente ». Toscanini, la Callas, Ronconi, Abbado, Strehler, Nono, Zeffirelli, Grassi: il tempo stringe. Le due ore stanno scadendo. Nessuno impedisce che ci si fermi oltre, ma la tentazio ne di considerare uno spettacolo teatrale la « Duecento anni alla Scala » è troppo forte, perché ci si lasci an dare a quella di ritenerla soltanto una teoria di date e di fasti. Appena uno sguardo al modello-diorama di un al lestimento de « I Masnadieri » (due alberi spogli, una panchina: un fondale su misura per Beckett e il suo « Aspettando Godot »), che già si è di fronte agli an ni della contestazione. Sono i nostri giorni, e la rap presentazione è alle ultime sue battute, che ancora echeggiano nella città. Sui pannelli i titoli dei gior nali ricordano le serate violente di piazza della Scala. Si contesta il lusso, il superfluo scenografico, l’offen siva ostentazione delle ricchezze. È l ’anno « caldo »: il ’68. «Protagonista il dramma nel «Don Carlo» alla Scala », scrive l’« Avanti! » del 7 dicembre. Un salto di dieci anni (una di quelle frequenti di dascaliche « a parte » dei palcoscenici) e si è alla prima dell’« Otello » 1976. Circoli giovanili e autoriduttori ancora in piazza. Un giovane, inseguito dalla polizia, si spezza le gambe cadendo da un lucernario. Lacrimogeni, fiamme, uomini in assetto di guerra. Si è ormai all’usci ta. Dalla penombra delle sale di Palazzo Reale passo al chiarore pomeridiano di piazza Duomo. Le due ore so no trascorse. Applausi. Sono quelli diffusi dagli impian ti della mostra, dopo un assolo registrato di una voce stupenda. Maria Callas, forse la Tebaldi, chissà. Certo, la voce giusta per un dramma. Maria Callas ne « La Vestale », regia di Luchino Visconti Piero Lotito medaglie battute al Marchesi, cantante eunuco loro con cittadino... », scrive nella sua lettera di fuoco contro i nobili milanesi, che avevano fatto coniare una meda glia dedicata a Luigi Marchesi, meglio conosciuto co me il « Marchesino », uno degli ultimi celebri evirati. Era il 1791 e la tomba di Giuseppe Parini, ricorda Foscolo, era dimenticata da tutti. I tempi si fanno difficili: basta la collocazione del grande lampadario nella Scala, a dirla lunga. « Il lam padario piace a pochi, ma la polizia lo vuole per invi gilare la platea, ove mi dicono vi sono visi assai brut ti », dice in una lettera un ignoto, timoroso spetta tore. La rappresentazione dell’« Aiace » del Foscolo è proibita pochi giorni prima del debutto. Il governo del Regno d’Italia vi ha scorto un’allusione alla cam pagna di Russia preparata da Napoleone, e precisi ri ferimenti, anche se celati ad arte, agli uomini politici del momento (Ulisse è Fouché, Calcante è Pio VII). Anche la censura austriaca si oppone, nel 1819, all’o pera, « perché anela in essa uno spirito di libertà ». Ma la libertà è anche una caricatura in terracotta di Rossini. Lo è pure il commento d’un visitatore-spet tatore: « Rossini era un ladro; ha rubato di qua e di là: a Mozart, ad esempio ». loro gigantografie È la grande epoca dei grandi compositori: Bellini, Rossini, Donizetti. Le fanno da quinte a una sala spoglia di altro. Ed è già Verdi. La sua Amelia di « Un ballo in maschera » è la prima eroina del melodramma che si rivolta contro le ro mantiche predestinazioni, contro gli amori assoluti. È una donna moderna, già turbata dai problemi esisten ziali. E la musica cos’è? Sopra un grande pannello, e sotto i loro ritratti in bianconero, ne parlano D’Azeglio, Cavour, Mazzini, Gramsci. « Io non capisco una nota di musica — diceva Cavour — , non distinguo un tam buro da un violino, ma capisco benissimo che per la na zione italiana l’arte musicale non è solo sorgente di gloria, ma è causa altresì di una vera e grande indu stria che ha ramificazioni in tutto il mondo. Credo quindi obbligo del governo aiutare una simile impor tantissima industria ». E, accanto, la pacata breve ana lisi di Gramsci: «Durante il Risorgimento, la demo crazia artistica italiana ha avuto un’espressione musi cale e non letteraria. In Italia la musica ha, in una certa misura, sostituito, nella cultura popolare, quel la espressione artistica che in altri paesi è data dal ro manzo popolare, e i geni musicali hanno avuto quella popolarità che invece è mancata ai letterati ». II mitologico filo di Arianna —- giacché a Palazzo Reale è anche storico — porta anche davanti alla Sca pigliatura. È un altro quadro della rappresentazione: il movimento di artisti — Arrigo Boito in testa — che contestano il conformismo e la cultura ufficiale. « Signori, la Scala è un grande teatro — dice Giulio Ricordi in un’altra sala, da un altro pannello — Non è vera, non è fondata quell’accusa di decadenza che gli viene lanciata con tanto poco accorgimento e con tanta leggerezza ». Era ancora il 1885, ma già era tempo amaro: per l’Italia, per Milano. Il dramma % % y % ,1 I VFQDR1 CimilAMI Opera in cinque atti di E. Scribe e Ch. Duveyrier Musica di Giuseppe Verdi Interpreti: Renato Bruson (Guido di Monforte), Veriano Luchetti (Arrigo), Ruggero Raimondi (Giovanni da Precida), Re nata Scotto (Elena). Maestro concertatore e direttore d’orc’nestra: Riccardo Muti Maestro del Coro: Roberto Gabbiani Regia: Franco Enriquez Scene e costumi: Pier Luigi Samaritani Coreografia: Paolo Bortoluzzi Firenze, Teatro Comunale Cinque ore di spettacolo, cinque ore di godimento con tinuo. Tale è stata l'impressione ricavata dall’ascolto di questi Vespri. Un’emozione costante che, dalle prime note della famosissima sinfonia a quelle lugubri delle campane finali, ha travolto letteralmente il pubblico del Comunale di Firenze. I Vespri siciliani è opera assai bella. Arrivata sulle scene francesi dopo la grande Trilogia (Rigoletto, Il trovatore, La Traviata), segna un importante rinnovamento nel modo di concepire il teatro da parte di Giuseppe Verdi: l’approdo al grand opéra. Un modo di vedere nuovo con molte danze e molti colpi di scena. E dunque, un nuovo modo di realizzare la partitura: splen dida e sontuosa, a cominciare dalla appassionante sinfo nia; satura di momenti smaglianti e per larghi tratti squi sitamente raffinati. Gli stessi personaggi vengono scolpiti da questa musica straordinaria in atteggiamenti certo tea trali, ma profondamente carichi di una prorompente umanità. E questa musica è venuta fuori in tutta la sua bellezza grazie all'accuratissima lettura che ci ha proposto Riccardo Una foto d'insieme de « I vespri siciliani », direttore d’orchestra Riccardo Muti, regia Franco Enriquez (foto Marchiori) Muti. Si è ascoltato un Verdi completo, totale, esaurien tissimo; una limpidezza di esecuzione come raramente ci capita di ascoltare. Muti ha sviscerato attimo per attimo la struttura musicale e ci ha regalato momenti eccezio nalmente belli e puri. L'orchestra ha splendidamente seguito la bacchetta del direttore e mai abbiamo notato, nonostante la dura fatica, un momento di cedimento. La compagnia di canto era eccellente. Dopo tanto tempo, finalmente, abbiamo riascoltato la bellissima voce di Renata Scotto: una voce limpida, serena, splendente. La Scotto ha delineato con il suo bel fra seggio e la sua grande interpretazione scenica un'Elena assolutamente inimitabile. Un’interpretazione da manuale e una tecnica strepitosa. Bruson è stato un inappuntabile Guido di Monforte, dalla dizione e dalla presenza veramente eccezionali. Un grande baritono verdiano. Luchetti, nei panni di Arrigo, ha ancora una volta di mostrato le sue ottime qualità interpretative di altissima scuola. Qualche leggera difficoltà alla fine, dovuta proba bilmente, alla lunga ed estenuante prova cui il tenore dei Vespri viene sottoposto. Bravo anche Ruggero Raimondi che, imponente nella sua figura, ha forgiato un Precida esemplare. La regia di Franco Enriquez mi è sembrata molto equi librata e ha sottolineato la grande abilità, propria di questo regista, a muovere elegantemente le masse. Le scene di Samaritani mi sono apparse un po’ opprimenti e, franca mente non molto originali. Un ultimo riferimento alle coreografie che hanno oc cupato gran parte dell'atto secondo. Gli interpreti principali (Bortoluzzi e Lowski, la Samsova e la Bozzolini) hanno dato ampia dimostrazione della loro abilità coreutica, ma la lunghezza dell'inserto e la modernità forse un po' troppo accentuata di alcuni passi coreografici, hanno un po’ in tiepidito l’entusiasmo del pubblico. Un successo veramente trionfale ha salutato questa serata inaugurale del 41° Maggio musicale fiorentino. Renata Scotto e Veriano Lucchetti ne « I vespri siciliani » TOSCA Melodramma in tre atti di Giuseppe Giacosa e Luigi lllica tratto dal Dramma omonimo di Victorien Sardou Musica di Giacomo Puccini Interpreti: Teresa Kubiak (Tosca), Giorgio Merighi (Cavaradossi), Rari Nurmela (Scarpia), Bernardino di Bagno (Angelot- ti), Giovanni de Angelis (Sacrestano), Augusto Pedroni (Spoletta), Fabrizio Valeri (Sciarrone), Giovanni Ciavola (Carceriere), Vincenzo Milazzo (Pastore) Maestro concertatore e direttore d'orchestra: Oskar Danon Regia: Marcello Aste Scene: Ettore Rondelli dai bozzetti di Adolf Hohenstein Maestro del Coro: Luciano Pelosi Roma, Teatro dell'Opera Quando si affronta una recensione per un'opera nota come Tosca i problemi che si presentano allo scrivente sono sempre tanti. Non si sa mai se sia più giusto rifu giarsi nella solita, ennesima esegesi del capolavoro pucci- niano o se sia meglio abbandonarsi totalmente a pure e semplici considerazioni sull'allestimento appena visto. Certo la prima possibilità è allettante: tornare a parlare di Tosca e sottolineare una volta di più l'importanza e la straordinaria invenzione dell'opera pucciniana è un invito cui difficilmente si rinuncia. Ma il rischio di annoiare il lettore con il consueto « svisceramento » della partitura e con il ribadire il significato e l'influenza che essa ha avuto sulla musica del nostro tempo, è assai forte e preferisco evitarlo. Mi limiterò, allora, ad una cronaca il più possi bile articolata, relativa al « nuovo » allestimento del Tea tro dell'Opera. Si è trattato di un « répechage » della prima, originale realizzazione del lavoro pucciniano, quello stesso che andò in scena il 14 gennaio 1900 al vecchio Costanzi, in « prima assoluta ». Ettore Rondelli, con molto buon gusto, ha ripreso i bozzetti originali di Adolf Hohenstein e ce li ha riproposti in maniera elegante e raffinata: una riproposta spolverata da qualche fronzolo e qualche ornamento in più, ma estre mamente attuale e molto piacevole alla vista. Tra un S. Andrea della Valle molto vicino all'originale, un Palazzo Farnese incupito da tendaggi violacei e un Castel Sant’Angelo immerso in una deliziosa alba romana, si è sviluppato ancora una volta il dramma passionale e umano di Tosca e di Mario. Ma proprio dai protagonisti sono arrivati i primi dispiaceri e le prime delusioni. Teresa Kubiak, reduce da non meglio identificati « suc cessi al Metropolitan di New York », mi ha lasciato molto perplesso. Tosca è essenzialmente un soprano drammatico, che raramente si abbandona a momenti di estremo lirismo. È un personaggio sanguigno, sensuale, di esuberante femmi nilità: esattamente il contrario dell’interpretazione della Kubiak. La sua voce che a volte mi è parsa affaticata, ci ha offerto una Tosca leggermente opaca, mai veramente donna, mai veramente sensuale. Il modo di porgere, l’« arte scenica » di Teresa Kubiak, mi ha assai imbarazzato e spesso, anche nelle scene più altamente drammatiche, ha strappato qualche involontario sorriso. Peccato! Pe-rché la Kubiak possiede un gran temperamento e una buona tecnica, ma questa volta non mi è sembrata all’altezza del suo nome e dei suoi successi. Cavaradossi era Giorgio Merighi. La sua voce, assai gradevole, mi è sembrata molto a posto particolarmente carica di passione e di straordinario lirismo. Molto bello il suo « Recondite armonie » ed estremamente triste e appassionato il magnifico « E lucean le stelle ». Scarpia è stato molto ben interpretato dal baritono Karl Teresa Kubiak (Tosca) e Giorgio Merighi (Cavaradossi) Nurmela che assai bene ha assecondato la partitura sia pure con qualche eccesso nella realizzazione scenica. Uno Scarpia comunque di buon livello e di grande presenza. Il resto del cast era alterno: Bernardino di Bagno è stato un Angelotti misurato, ma eccessivamente circo spetto nei suoi movimenti. Giovanni de Angelis: il solito sacrestano macchietta. Senza infamia e senza lode lo Spoletta di Augusto Pe- droni e lo Sciarrone di Fabrizio Valeri. Un bravo tutto particolare, invece, a Vincenzo Milazzo, il pastore. La direzione di Oskar Danon si è mantenuta nei limiti di una corretta lettura della partitura senza offrirci mo menti particolarmente esaltanti. Molto triste e raccolta mi è sembrata l'introduzione al terzo atto, con la descrizione dell’alba romana intrisa di struggente lirismo. Molto gradevole il coro diretto da Luciano Pelosi. Della regia ho, implicitamente già detto. Moltissimi applausi, anche a scena aperta, hanno de cretato una volta di più il successo di questo interessante spettacolo. Monserrat Caballé In « Adriana Lecouvreur » di Cllea (foto Troncone) ADRIANA LECOUVREUR Commedia-Dramma di E. Scribe e E. Legouve ridotta in quattro atti per la scena lirica da Arturo Colautti Musica di Francesco Cilea Interpreti: Montserrat Caballé (Adriana), José Carreras (Maurizio), Maria Luisa Nave (la Principessa di Bouillon), Loris Gambelli (Bouillon), Mario Ferrara (Chazeuil), Attilio d’Orazi (Michonnet). Maestro concertatore e direttore d’orchestra: Ugo Rapalo Regia: Vittorio Viviani Scene e costumi: Camillo Parravicini Coreografie: Giuliana Barabaschi Maestro del Coro: Giacomo Maggiore Napoli, Teatro di San Carlo Opera fra le più significative del periodo post-verdiano, è andata in scena al San Carlo di Napoli una piacevole edizione dell'Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea. Un'opera piena di finezze armoniche e strumentali, quel la di Cilea, teatralmente ben costruita e ricca di un discorso musicale rigorosamente organico e ben determinato. Fin dall’inizio ci imbattiamo in una melodicità e in un fraseggio musicale che si arricchisce sempre più e sfocia, infine, nella grande aria della protagonista « lo son l'umile ancella » che sarà il motivo conduttore di tutta l’opera. Ad un primo atto di intenso respiro e liricamente assai limpido, succede un secondo con alcune tra le più belle pagine di tutta l’opera: l'« Acerba voluttà » della Princi pessa di Bouillon o » L’anima ho stanca » di Maurizio. Nel terzo atto, come leggiamo''nel programma, prevale l’elemento decorativo sottomesso al dramma che si riaf faccia con « la declamazione del brano di Fedra nel quale la musica sa mantenere la solennità del commento e dare forza all'invettiva ». L'ultimo invece, il più bello a mio parere, è tutto sof fuso da un’incredibile aria sottilmente malinconica che risulta essere una delle pagine più alte del musicista calabrese. L’edizione cui ho assistito ha mantenuto fede a quanto detto sopra, grazie soprattutto alle significative interpre tazioni dei tre personaggi principali. Montserrat Caballé ha ancora una splendida voce, leggermente appesantita nel registro acuto, ma incredibilmente affascinante nei filati e nelle mezze voci, suoi noti cavalli di battaglia. José Carreras è stato un Maurizio passionale, pieno di slanci amorevoli: una voce superlativa che fa di lui uno dei più grandi tenori de! nostro tempo. Maria Luisa Nave è stata un'attenta e scrupolosa Principessa di Bouil lon e la sua voce, tranne qualche asprezza ogni tanto, è molto suggestiva e piacevole all'ascolto. Gli altri compo nenti il cast si sono mantenuti su un livello più che auto revole. Non altrettanto autorevole è stata la direzione di Ugo Rapalo guidato (?) da certe esigenze caballiane, sem bra, inevitabili. La regia pressoché inesistente è stata coa diuvata dalle scene non particolarmente esaltanti di Ca millo Parravicini. U n a v e n ta ta d i g io ia d i v iv e re Recital di danza e canto aH'Auditorium S. Leone Magno L Associazione ICEP e il Circolo Culturale Abruzzo '80 hanno organizzato aH'Auditorium San Leone Magno un recital di danza-canto e poesia con la partecipazione della danza trice Stefania Minardo, del tenore Ennio Buoso, di Carlo Bressan per la dizione di alcuni versi, del pianista Rolando Nicolosi, del critico musicale Luigi Fait che ha illustrato il variato programma. Sull intervento della Minardo e del Buoso conviene in particolare spendere due parole poiché esso rappresentava per noi chiari e distinti elementi di interesse. La danzatrice Stefania Minardo, proveniente dal Teatro dell'Opera, perfezionatasi alla scuola di Maddalena Platania, anch'essa proveniente da quel teatro e non dimenticata dan zatrice sul massimo palcoscenico della Capitale, merita dav vero di essere segnalata all'attenzione del pubblico e della critica, cosa che difficilmente potrebbe avvenire se la Mi- nardo non avesse spiccato questo volo fuori dal proprio nido poiché è risaputo come i teatri lirici non diano ali ai loro artisti di danza, destinati per lo più a consumarsi nella routine di tutti i giorni. Occorre che qualcuno pensi a loro fuori da quelle orbite e gli dia la possibilità di mettersi in evidenza, di fare qualcos’altro, di imporsi. Ecco il caso della Minardo e l'occasione del recital al San Leone Magno. Ste fania Minardo ha la ferrea volontà di bruciare le tappe. Ha perciò studiato all’estero, si è perfezionata e continua a farlo. Ciò che colpisce di primo acchito è la sua gioia di danzare e lo spirito di affrontare nuove prove. Natural mente deve curare ancora qualche particolare ma il tempe ramento non le manca, quel temperamento che le permette di affrontare il « mezzo carattere » come si è visto molto bene nella suite del balletto « Carmen » sulla celebre musica di Bizet e nella coreografia della stessa Minardo, un pezzo che le ha valso i più calorosi applausi del pubblico con la richiesta del bis, concesso. Se la parte tecnico-virtuosistica necessita di un lavoro di lima, bisognerà anche evitare qualche effetto di troppo, frenare l'esuberanza che può of fuscare la linea dei classici ma certamente l'inizio è degno di nota e di lode in quantoché la danzatrice possiede la luce interiore necessaria che traspare in ogni momento, come si è visto nel valzer del primo atto di « Coppelia » o nella Variazione dal » Don Chisciotte » di Minkus-Petipa. Dunque: un elemento prezioso al nostro teatro di danza proprio per questa disponibilità ambivalente tra classico e mezzo carattere. Tutt altro discorso si ha da fare per il cantante Ennio Buoso, già affermatosi e ascoltato in numerose occasioni anche all'Opera di Roma, al S. Carlo di Napoli, alla Fenice di Venezia, attraverso numerosi ascolti radiofonici e per aver partecipato a stagioni sinfoniche pubbliche della Rai. Canta con quel gusto che sembra ormai perduto nei cantanti della nuova generazione. È un tenore lirico-leggero e ti offre anche qualche sorpresa, proprio in tema di gusto, quando intona e sospira, come raramente si ascolta, quella partico larissima, difficilissima romanza che è l’« Amor ti vieta » dalla « Fedora » di Giordano, un arioso che il personaggio del Conte Loris Ipanov sussurra quasi inavvertitamente alle orecchie di Fedora, e questo in un dramma lirico apparte nente al verismo canoro. Ennio Buoso talvolta ci ricorda Tito Schipa proprio per il garbo, l’intelligenza del suo canto anche se la voce ci pare più cupa. Così non ci stupiremo dei dolci sospiri donizettiani del « Quanto è bella » dal- ]'« Elisir d'amore » o la veemenza trattenuta, modulata della disperazione di Federico dall’» Arlesiana » di Cilea. La deli catezza, il lavoro di cesello, la nitida dizione sono emersi particolarmente in due pezzi cameristici: « La Rosa » di Mercadante e la celebre « Serenata » di Schubert. La pro prietà nello stile, il rifiuto di ogni effetto ci hanno ricordato un tenore specialista in questo genere: Petre Munteanu, confortandoci nella speranza che forse in Italia abbiamo finalmente trovato, in mezzo a tanti « urlatori », un cantante appropriato di « lieder » o della romanza da camera, un genere che, inspiegabilmente, la civiltà musicale del nostro pubblico rifiuta. Stefania Minardo in un « grand )eté » Una Mostra a Roma lo scorso anno al Teatro dell'Opera, un libro, un’altra Mostra in questi giorni nelle sale del Museo teatrale alla Scala, più esauriente della precedente, ricchis sima di documenti, di lettere, di quel grafismo tipico alla Satie che ha un riscontro nei geroglifici di un altro artista, Boris Kochno, avvolto nella spirale dei Balletti Russi, uno spettacolo infine al Teatro Lirico dove la Scala ha trasferito momentaneamente le sue attrezzature. Questa « fantaisie sérieuse » intitolata « Esoterik Satie » altro non è che un « excursus » nel mondo, nelle opere di Satie ma per chi non ne ha conoscenza, non ha letto i suoi aforismi paradossali, non si è informato sulla sua vita stra vagante, non ha ascoltato la sua musica che è valida per quello che non c’è e che è enunciato, non ne ha penetrato l’intellettualismo raffinato, poco o nulla potrà capire del fe nomeno « Satie », nato tra surrealismo e dadaismo, il quale ammetteva di aver scritto opere incomprensibili ma nello stesso tempo dichiarava che non avrebbe avuto indulgenza per chi non sarebbe stato in grado di apprezzarle. Uno spettacolo « dada » in retrospettiva per la Scala al Teatro Lirico di Milano È proprio vero che talvolta le iniziative individuali gene rano movimenti culturali. È bastato che Ornella Volta risco prisse il musicista Erik Satie e che circondasse del suo scrupoloso amore filologico questo singolare personaggio della Parigi degli Anni Venti perché si accendessero subito interessi e desideri di conoscerlo meglio. Più che un bailetto questa produzione potrebbe intito larsi « fantasia coreografica ». Perfettamente naturale che ad allestirla sia stato chiamato Lorca Massine, figlio del grande coreografo Léonide. Ne ha le movenze, lo spirito caricaturale, il gusto della smorfia e dello sberleffo ed egli stesso, ballerino e mimo, è stato bravissimo. Intorno a lui si muove tutto l'armamentario dei Russi di Diaghilev e degli Svedesi di Rolf de Maré che rappresentarono le fantasie di Satie. E così noi vediamo sfilare sul palcoscenico quei ce lebri personaggi affidati per lo più al segno di un Picasso, di un Derain, di un Picabia, alla « fumisterie » di un Cocteau, di un René Clair e, per l’appunto, di un Massine. Lo spasso è molto ed assicurato, c'è qualche lungaggine ma quando il ritmo sta per allentarsi subito interviene l'estro vivificatore di qualche trovata come nella lunga scena dei bambini al mare tratta da » Sport e divertimenti ». La car rellata è conclusa da una frenetica risata sulla morte di Satie (ed egli stesso vi partecipa) una morte che avvenne più presto della norma sempre che egli avesse avuto qual cosa ancora da comunicarci. Lo spettacolo, applauditissimo, si avvale di scene e co stumi disegnati con molto spirito da Raimonda Gaetani che ha penetrato con disinvolta comicità il caustico ambiente di Satie. Fra i numerosi interpreti segnalerei Anna Razzi che ha rivelato un insospettato temperamento di « soubrette » con molto brio ma anche con molto stile e misura, Rosalia Kovacs, Gabriele Tenneriello un caratteristico « cinese », Paolo Podini, Bruno Vescovo, Oriella Dorella, Anna Maria Grossi, ma soprattutto la morbida grazia e l'aderente perso nificazione di Maurizio Bellezza nel « fauno » che sembra disceso da una tela di Bakst trasformata dalle invenzioni di Picabia. Le didascalie da testi di Satie proiettate sul bordo del palcoscenico non sono visibili da chi sta seduto in platea. Ma, a proposito dell'esoterismo di Satie, resta un mistero che lo spettacolo, divertente e riuscito, sia stato liquidato in tre sole rappresentazioni. Speriamo che sia ripreso nella prossima stagione scaligera. Tahon, a fior di labbra, ci fa simpatici ed ironici sorrisi, ci intrattiene amabilmente con molto garbo e intanto ci spiega l'origine medioevale di queste marionette, persino il senso etimologico della parola, fa della cultura senza farcela pesare e tutto lo spettacolo sarà improntato alla più colta, intelligente raffinatezza. Perché, innanzitutto, è uno spetta colo che parte daH'intelligenza, dall'« esprit de finesse » che ancora alberga nei francesi di buona cultura e tradizione, memori di essere figli di Cartesio. Con le sue battute, sempre argute, in vena anche di « persiflage », Tahon com menta la rappresentazione sia che si trovi di fronte a noi, alla ribalta del palcoscenico, oppure dietro al « tréteau », in perfetta simbiosi con i suoi pupazzi. Nella seconda parte, addirittura, assisteremo al rovescio della medaglia e cioè potremo capire come il ritmo impresso a queste meravigliose, espressivissime marionette sia quello degli animatori stessi e l’espressività gli appartenga (questi animatori posseggono un ritmo straordinario, sono dei di screti ballerini che agiscono nell’ombra ma qualche volta ne intendiamo il battito dei piedi...). È un lungo balletto dove ritmo e musicalità esplodono sul filo di una invenzione e di una genialità inesauribili. Si esce da questo spettacolo come da una seduta di evasione ma si portano anche con noi tante impressioni felici, annotazioni a non finire perché in esso serpeggia costante una felicità inventiva: il senti mento della natura, la poesia delle cose più semplici della vita, il tutto entro una cornice smagliante di costumi ric chissimi ed eleganti. La rappresentazione potrà forse man care (per gli incontentabili di turno, per gli « impegnati ») di contenuti, di messaggi ma, vivaddio, una volta tanto li possiamo lasciare dormire in pace sotto il cuscino e addor mentarci tranquilli sopra di loro. Quando ci sveglieremo, sarà come da un sogno troppo bello che ci avranno dato queste adorabili « marottes ». Alberto Testa Le « Marottes de Paris » a Roma Marionette, che passione Sono tornate a Roma per la benemerita Accademia Fi larmonica Romana al teatro Olimpico le « Marottes de Paris » con il loro animatore André Tahon e il bagaglio di estro scintillante, di magico potere, di lazzi scoppiettanti, che gli conoscevamo. Insieme a tutto questo: una ventata di gioia di vivere. Francamente se ne sentiva il bisogno. Il mondo di Tahon è ottimista. Inutile chiedergli ciò che non vuol dare. Sin daM’inizio, a guisa di cabaret parigino, ci rendiamo conto che il divertimento sarà molto ed assicurato per l’intera serata, appena entrati nei segreti di questi pupi che sono quelli dei loro espertissimi animatori. . D ia lo g h e tto a r u o ta lib e r a s u B e r to lt B r e c h t A — Bertolt Brecht? Ancora? Ma non se n’era par lato insieme nel 1976, in occasione del ventennale della morte? B — Sì, ma dimentichi che siamo nel 1978 e che commemoriamo gli ottantanni dalla nascita. A — Abbastanza indiscreto, quest’uomo. Due anni: non ci dà nemmeno il tempo di rifiatare. Come preferisco quel gentiluomo di Thomas Mann: nel 1976 ci ha fatto ricordare insieme il centenario della nascita e il venten nale della morte. Tin po’ di applicazione, e ci siamo tolti il pensiero. B — Se per te ricordare uno scrittore o un autore teatrale è una corvée, tolgo il disturbo e arrivederci al prossimo incontro. A — Dove vai? Non farmi il suscettibile. Non si può più scherzare, adesso? B — Se è per scherzare, mi trovi sempre pronto. Ma di’ la verità: tu scherzavi soltanto? A — Be’, se proprio devo esser sincero... Un pizzico di serietà c’era. Mi pare infatti che di Brecht si sia par lato, per tutti questi anni, fino alla saturazione (qualcun altro, più drastico, direbbe « fino alla nausea »). Tanto più nell’anno commemorativo 1976. Ora ci risiamo anco ra? E che altro c’è da dire? B — Posso darti ragione, in parte. Bertolt Brecht è stato al centro di una discussione che, in Occidente so prattutto, e anche in Italia, ha avuto un’intensità e per sistenza non sempre proporzionale al valore, alla lucidità degli interventi. Per di più, essendo Brecht anche autore teatrale, non si è soltanto « parlato » di lui, ma lo si è anche « fatto », cioè rappresentato. Talvolta assai bene, più spesso così così, moltissime volte in maniera non so se più fastidiosa o pietosa. A — Ecco. E mettici anche Brecht ideologo, usato in tutte le salse, dal comizio di villaggio all’esposizione di disegni scolastici sull’antifascismo, dalla citazione « culta » dell’intellettuale d’avanguardia al fiore infilato all’occhiel lo della più grigia e indigesta opera di sociologia. B — Giusto. Non mi sogno nemmeno di contraddirti. A — E allora? Vogliamo contribuire anche noi a que sto pluridecennale « bla bla »? Perché non parliamo di donne, di gioco, di brigate rosse? B — Mi stai dando un’idea. Accetto la condanna di questo parlarsi addosso su Brecht, alla solita maniera, ri badendo quello che ormai sappiamo di lui e dell’opera sua... A — Cioè tutto. B — Eh no, qui ti fermo. Questo non è vero. A — Ah no? E’ saltato fuori qualche grosso inedito? B — Non è questo il problema. Inediti brechtiani, grossi o piccoli, ne saltano fuori sempre, ma il suo corpus significativo ormai è quello che è, dopo la pubblicazione (peraltro deludente) dei Diari di lavoro. A — E allora, che altro resta da dire? B — Resta da dire quello che per noi può essere Brecht oggi, con tutto quel po’ po’ di roba che è pas sata nel mondo, sulla scena politica e sulla scena-scena, cioè sul teatro. A —- Ho capito. Brecht rivisitato. Si rivisita quasi tutto, oggi: sembra di essere una comitiva turistica obbli gata a vedersi Parigi o Siena con « occhi nuovi ». B — Lo sai che hai detto una cosa, come oggigiorno si suol dire, « stimolante »? A — Grazie. Ma a me pareva una banalità. B — Non farci caso, forse lo era. Ma è una banalità che mi ha richiamato una cosa molto, molto brechtiana. A — Aspetta, lasciami indovinare. Sbaglio, o il mio vedere con « occhi nuovi » ti ha fatto pensare al brech tiano «effetto di straniamento »? B — Esattissimo. L’effetto di straniamento, cioè lo strumento metodologico principe del suo teatro, qualcosa che ha l’importanza strutturale e caratteristica, oltre che rivelatoria di una psicologia e di una ideologia, dei fa mosi « temi conduttori » wagneriani. A — D’accordo. Ma proprio questo parallelo con Wa gner (che Brecht avrebbe respinto con rabbia, mentre a me pare abbastanza pertinente) deve farci precisare che il Verfremdungseffekt o V-Effekt, insomma il famoso effetto di straniamento, non è soltanto, come hai detto pur bene tu, uno « strumento metodologico », ma anche e forse soprattutto una movenza poetica personale, un modo di configurarsi e di prendere forma e dinamicità di Brecht artista e drammaturgo. B — Vedo che ti sei riscaldato: e il calore ti ha dato quella concezione del comuniSmo, dal 1953 o dal 1956 in poi, con la svolta definitiva del 1968, è entrata in crisi, in una crisi gravissima: nei Paesi liberi anzi si può dire tramontata. A — Ah, ci sono! È vero. Neanche a farlo apposta, in questi ultimi anni l’interesse si è spostato sul Brecht prima maniera, non solo prestalinista ma precomunista, anarcoide, molto vicino anche se mai mescolato all’espres sionismo-. il Brecht di Baal, e più ancora quello dei cosiddetti « inediti del 1919 », cinque atti unici in cui Brecht è tutto — un provocatore, un contestatore, un marxista rivoluzionario — tranne che un iscritto al par tito ligio a una linea anche solo velatamente staliniana. B — Ci siamo capiti. Però questa nuova visuale, que sto recupero di un Brecht « eretico », dissidente, ancora acerbo e perciò vicino agli ideali della contestazione gio vanile e del dissenso, stingerà fatalmente, e in parte sta già stingendo, su tutta la lettura di Brecht, grandi dram mi della maturità compresi. Ci saranno storture critiche, sempre feconde. Sono queste storture appassionate e un po’ faziose che salveranno Brecht dal pericolo, paventato da Max Frisch, di diventare un classico. inevitabili, ma saranno A — Aspetta, ma non finisce qui. B — Lo spero bene. Il teatro dell’assurdo avrebbe potuto vedere in Brecht un suo parziale profeta, e non l’ha fatto. A —- Stava troppo a ridosso del Brecht canonico, o addirittura ancora vivente. Ma oggi questa operazione la possono fare (la stanno facendo?) anche i movimenti teatrali e letterari che sembrerebbero lontani da lui. Che so?, il teatro gestuale, il teatro-documento, il teatro-veri tà, il neoteatro della crudeltà e della demistificazione ses suale... B — Lo stanno facendo, anche se non con l’impe gno che potrebbero, perché in parte sono movimenti di giovani, ribelli e talvolta presuntuosi, che a Brecht non guardano già più, come non guardano a Goldoni, tranne che per dissacrarlo. Ma lo fanno i critici, gli esegeti: e si sentono cose interessanti. Brecht e il teatro ludico, Brecht interprete teatrale del relativismo di Einstein, Brecht e il « Come se », o addirittura, sotto segno con trario: Brecht rivoluzionario teatrale apparente, in realtà restauratore di un nuovo teatro borghese ed edificante... Che te ne pare? È proprio esaurito il discorso su Brecht? lapsus. Prego, mettiamoci più comodi. Posso servirti un whisky, un amaro? Benone. E adesso cominciamo a parlare di Ber tolt Brecht. ritiro, consideralo un A — Ritiro, Italo Alighiero Chiusano lucidità, come ogni calore che si rispetti. A questo punto, concludi tu stesso. A — No, temo di compromettere la bella figura che ho fatto. Concludi tu. B — Bene. E allora propongo questo: non sarebbe ora di rivolgere su Brecht l’arma che Brecht stesso ha prodotto, affilato, perfezionato e regalato al mondo, ap punto il V-Effekt? A — Se ti capisco bene, tu suggerisci di non guar dare più Brecht, come per troppo tempo si è fatto, al modo con cui si guarda una realtà ormai cognita e ammi rata, o magari cognita e disprezzata, ma di fare lo sforzo di vederlo come un « novum », una cosa mai vista né incontrata prima, senza timori reverenziali, anzi con una continua tentazione di ribaltarla, riplasmarla, leggerla se condo una chiave nuova? B — Non avresti potuto dir meglio. Hai afferrato per fettamente la mia idea. Che te ne pare? A —-M i pare che come proposta sia bellissima. Ma metterla in pratica-, qui ti voglio. Non è impossibile? B — Impossibile? Direi che non solo non è impossi bile, ma non è neanche difficile; non solo non è difficile, ma non è neanche facile; non solo anzi è facile, ma non si può ormai fare altro. A — Ti diletti di paradossi. Come puoi affermare una cosa simile? B — Semplicemente guardando alla storia, in parti colare a quella letteraria. Prendi il caso di Dante. La prima generazione lo vede come forse lui vedeva se stesso: poeta ma soprattutto profeta e teologo, voce ispirata del Cattolicesimo imperiale. Più tardi lo si vede come preu manista, come anticipatore del Rinascimento, come arti sta della parola. Più tardi ancora come maestro barocco della metafora e della meraviglia. In seguito ti diventa romantico e risorgimentale, un patriota appassionato e anticlericale; quindi... A — Riposo, riposo. Il resto è un ovvio « eccetera ». Sì, afferro l’idea. E forse hai ragione-, così accadrà anche per Brecht. Ma quando? Dove sono le premesse di que sta rivisitazione « straniante » di Bertolt Brecht? B — Ma intorno a noi, dentro a noi, addirittura alle nostre spalle! A — Non credi di esagerare? B — Penso proprio di no. Faccio l’esempio più gros solano: ammetterai che Brecht ha qualcosa a che fare con la politica, col marxismo? A — Se dicessi di no sarei maturo per il manicomio. B — E invece non lo sei. Dunque. Questa grande realtà, politica più marxismo, lo riconosci o no che è cambiata, che sta cambiando, che cambierà ancora nei prossimi anni? A — Anche qui, negare sarebbe da ciechi . B — E allora, credi che questo non porti, non por terà, in parte non abbia già portato a una visione del tutto nuova di Brecht? A — Ti sarei grato se mi facessi qualche esempio, concreto. Il Brecht dei grandi drammi, da B — Volentieri. Vita di Galileo, che è del 1939, al Cerchio di gesso nel Caucaso, che viene terminato nel 1945, è un Brecht di guerra, politicamente qualificabile con lo sgradevole ag gettivo di « staliniano ». Non lo intendo nel senso de teriore... A — Speriamo bene, povero Brecht. B — Ma ci moviamo in quel campo, in quella con cezione del comuniSmo e della lotta di classe. Ebbene, Vagabondaggi teatrali: Arezzo C lu b , s c u o la , la b o r a to r io (1||||j p e r m e tte r e r a d ic i Uno va per Cervantes e gli danno gli intermezzi. Bene. Non è poca cosa, anzi è quasi un premio. Dopo che raf fiche vistosamente colorata ti ha fatto rimbalzare da muro a muro questo nome perentorio « Cervantes » {in caratteri enormi rispetto agli altri, minutissimi); dopo che al bar di Cortona non ho trovato un amaro che mi andasse bene; dopo che si è fatta sera sulle venti e trenta, e le televi sioni ti hanno informato sul governo e sui sindacati; dopo tutto questo: affluire in sordina al teatro è quasi un atto di genuflessione come ai bei tempi che si andava in chie sa, davanti al Santissimo, un segno di croce e via. Cioè un gesto consacrante mi diventa questo entrare nel teatro, l’inizio'di un rito, il prendere l’auspicio, il propiziare l’e vento. Entro nel teatro di Cortona ed il rito si compie e tentassi pure a distrarmi con la coscia della Locatela — pe raltro gradevole sulla scena — non ci riesco; il fascino del rito teatrale mi riprende e premia questo mio vagabon dare alla ricerca del teatro perduto. Arezzo o Cortona? Arezzo, parlo di Arezzo. Il Piccolo Teatro di Arezzo, senza dubbio alcuno, gioca il suo ruolo ad Arezzo. Cortona è solo il luogo dell’appuntamento. Par liamo subito di questo Piccolo Teatro. Innanzitutto è un club di teatro che conta duecentocinquanta iscritti; questo club agisce con una duplice componente, la compagnia « sperimentale », ma che poi gestisce autonomamente una sua propria attività teatrale di tipo dilettantistico parteci pando a rassegne e festivals italiani ed esteri e razzolando splendidamente in quel settore. « E’ una formula (scuola - professione) che si è dimo strata felicissima in questi ultimi anni », mi dice Antonio Viviani, che è il regista stabile del teatro, « perché ha con sentito al Piccolo di Arezzo di svolgere una intensa pro mozione culturale alla maniera di quelle strutture care al Bragaglia di tanti anni fa e più facili a rintracciare, oggi, presso teatri di ricerca stranieri che in quelli italiani ». La compagnia « sperimentale » del Piccolo invece si forma di volta in volta per un dato repertorio aggregato at tori professionisti ai migliori del suo vivaio, non fa « giro » se non attraverso impegni saltuari, non ha particolari sov venzioni ministeriali dato il numero ristretto di recite che, volente o nolente, può fare, si sceglie le piazze a seconda dei gusti e delle sollecitazioni territoriali, anche se questa « aristocraticità » non ha assolutamente dei significati eli- tari, ma è solo da mettere in diretto rapporto con fatti fi nanziari ed economici. E mi aggiunge Francesco Fornasari, che del Piccolo è il Presidente, « il nostro teatro possiede anche un vivacissimo laboratorio scenografico che ha in tenti didattici ed operativi allo stesso tempo: anche questo fatto — e ne convengo anche io — contribuisce a fortifi care il ”Piccolo” in una sua precisa armonia strutturale ». Chiedo del repertorio di questo «Piccolo» e Viviani e Fornasari mi snocciolano a memoria tìtoli ed operazioni culturali di tutto rilievo: LA TALANTA dell’Aretino (fu recitata nelle piazze delle città toscane, con indubbia sin cronia spirituale tra ambiente, pubblico e poesia); AUGU STO, AUGUSTO, AUGUSTO di Pavel Kohout (fu dato in prima assoluta per l’Italia); IL PROLEMOSCOPIO di Casanova, con silloge di Piero Chiara (opera che fu pub blicata su « Il Dramma » e data anch’essa in prima asso luta per l’Italia); IL DILUVIO di Ugo Betti, (una risco perta, dopo l’edizione così discussa all’« Argentina » di Ro ma negli anni dell’immediato dopo guerra e presentata dal « Piccolo » di Arezzo in una lettura di tipo espressionistico che ebbe favorevoli commenti nella critica e nel pubblico); IL GIOVANE DAL ROSSO MANTELLO, collage di far se di Garcia Lorca; BERTOLDO A CORTE del Dursi, quasi in contemporanea con lo Stabile Torinese. L’ultima fatica del gruppo sono « GLI INTERMEZZI » del Cervantes, per la regia di Antonio Viviani, che si sta replicando qua e là nei teatri della Toscana. Ma prima di parlare dello spettacolo vorrei concludere qualche giudizio sul significato di questo gruppo teatrale. A me pare che il teatro decentrato vada fatto proprio come lo stanno facendo questi bravissimi teatranti aretini, dai quali sono certo che alcuni animatori di teatri pubblici potrebbero imparare molto. Ciò che mi ha impressionato profondamente è la qualità del loro discorso, il senso che loro danno a questo ampio approccio al teatro che favo risce confronti culturali di indubbio valore, cioè la ricerca di una autentica promozione culturale, attraverso il lavoro paziente di laboratorio; una pedagogia che è, oggi più che mai, l’unico modo per fondare radici sane ad un teatro che sta riscoprendo un suo antico valore, quello della sua socialità, e l’unico modo per favorire una crescita armonio- sa della collettività stessa. In questa prospettiva si muove il « Piccolo » di Arezzo e tale vitalità — vi assicuro — fa proprio piacere riscontrarla. Lodevolissime quindi sono le iniziative di scuola (spettacoli per « personaggi » curati da Giuliano Tenti, Lucio Panetti, Alfredo De Antoniis e lo stesso Antonio Viviani, nei quali i numerosi allievi pro vano loro stessi nella sfaccettatura polimorfica del gioco teatrale) altrettanto lodevoli i raffronti sul palcoscenico con altre compagnie semiprofessionistiche (quest’anno il «La boratorio di Verona» ed il «Gruppo Teatrale Versilia», rispettivamente con « I Persiani » di Eschilo e con « L'uo mo disabitato » di Alberti) e sopratutto lodevole e de gno di menzione il maturare anno per anno spettacoli di prosa di seria qualità. E veniamo allo spettacolo: « GLI INTERMEZZI » del Cervantes. Bello: perché ben recitato, mosso con giudizio, illuminato espertamente, ambientato con curiosità e con fi nezza. Muovo appunti semmai alla eccessiva monotonalità del recitato, cioè giocandosi le scene nei vari intermezzi, risultano questi troppo simili tra loro: una maggiore si nuosità nel loro tessuto non avrebbe nuociuto affatto. Gli attori alcuni molto bravi: la Giovanna Fiorentini (è molto attraente quel suo danzare con le parole e con il corpo), la Ira Ferri, ottimamente calibrata e molto sicura sulla scena, Gioia Locatelli, gioiosamente femminile nei suoi scoppi vivaci; molto bravo il Tenti nella parte del Soldato (un miserabile Don Chisciotte caricaturale pungente nel suo spadone e nella sua parrucca cuspidata) Ricordo il Maz zini, il Fanetti... e poi dovrei citare gli altri venti attori, tutti di buon livello, tutti onestamente consapevoli di fare un buon lavoro: ma come faccio? Insomma, e sono alle conclusioni, l’insieme dello spettacolo mi è sembrato vera mente una cosa importante, per il modo come è stato fatto, per il discorso che c’è dietro, per il risultato che si è veri ficato sotto i nostri occhi, serio e robusto, per le speranze che mi ha dato: quelle di un teatro, in decentramento, molto, ma molto produttivo di stimoli culturali. Il giorno dopo, quando sono ripartito da Arezzo por tavo con me un rimpianto di teatro e di Piero della Fran cesca: vorrebbe forse dirmi, questo rimpianto, che per re spirare bisogna ritornare nella provincia? Fabio Storelli Gioia Locatelli in « Intermezzi » da Cervantes (foto Roberto) 4 ? -0ÒN « R u n a w a y s »: pi s ta n a s c e n d o u n n u o v o t ip o d i m u s ic a l? « Runaways », di Elizabeth Swados; scene di Douglas W. Schmidt; costumi di Hilary Rosenfeld; luci di Jennifer Tipton; prodotto dal New York Shakespeare Festival; mu sica e regia di Elizabeth Swados. Personaggi e interpreti principali: Hubbell...........................Bruce Hillbok A.J.....................................Anthony Imperato Jackie Nikki K Kane................... Nan-Lynn S undar...........................Bernie Allison Lazar...............................David Schechter Eric ...............................Evan Miranda D e id re ...........................Karen Evans ...........................Diane Lane Lo strepitoso successo che ha avuto in questi mesi « Runaways » (dal 9 marzo, quando ha aperto al Teatro Cabaret del Public Theatre di Joseph Papp -off Broadway- è stato sempre tutto esaurito fino a metà maggio. Poi è passato in un gigantesco teatro di Broadway dove i bi glietti sono già tutti venduti per i prossimi due mesi) è dovuto a diversi fattori, ma una cosa è importante notare subito: «Runaways» (non è traducibile in italiano con una sola parola, ma significa « gli scappati di casa ») è uno di quei musicali di tipo nuovo, che non hanno una vera storia, non hanno le sontuose scenografie tipiche del ge nere, non hanno neppure le musiche altisonanti delle grandi orchestre. È fatto invece di una serie di canzoni di alto contenuto lirico, legate tra di loro da una situazione generale comune, accompagnate da un’orchestra di sei elementi, su un modesto sfondo di una palestra. Il precedente più immediato che viene in mente (non mancano esempi più lontani, ma non hanno « fatto scuola » o comunque non hanno avuto un successo del genere) è « Chorus Line », che è stato — ed è — uno dei più grandi successi della storia di Broadway, prodotto anch'esso da Joseph Papp, prima nel Public Theatre, poi a Broadway. In « Chorus Line », la situazione che giustificava la rappresentazione e dava uniformità agli interventi indivi duali degli attori era il concorso per entrare a far parte della compagnia di un musical (e dai vari interventi veni vano fuori, di ognuno, le frustrazioni del passato, le aspi razioni e i timori del presente); in « Runaways », la situa zione che accomuna è, per un gruppo di bambini e ra gazzi, la difficoltà di vivere in famiglia, la fuga e l'espe rienza della vita di strada. (Nel campo del teatro non-mu- sical il precedente più immediato è l'ormai famoso « For colored girls who have considered suicide, when thè rain- bow is enuf », in scena a Broadway da un anno e mezzo, ma originalmente prodotto — tanto per cambiare — da Joseph Papp off Broadway: senza una vera storia, racconta le esperienze di quattro ragazze di colore attraverso le bellissime poesie di Ntozake Shange). E se « Runaways » avrà, come sembra sicuro, un suc cesso duraturo, si può veramente vederlo come la con ferma di un fenomeno che, con « Chorus Line », sembrava invece isolato ad un caso unico: e cioè l'affermarsi, pro prio a Broadway che è sinonimo di produzioni opulente, di un tipo di musical non più basato sulla spettacolarità della storia e sulla ricchezza deirimpianto, ma sulla liricità e dolcezza delle canzoni e della musica. Un musical in timo, insomma, che qualche anno fa sarebbe rimasto per sempre nei pìccoli cabaret del Greenwich Village. Autrice del testo (poesie e canzoni) e della musica e regista è Elizabeth Swados, e crediamo valga la pena di illustrare brevemente questo personaggio perché, consi derata anche la sua età — 27 anni — ne sentiremo di certo parlare, e molto, nel futuro del teatro di New York. Nata a Buffalo nel nord dello stato di New York, a cin que anni componeva già musica e scriveva storie, ed era già scappata di casa una volta. A sedici anni lasciò Buffalo definitivamente, ed entrò all'Università di Bennington, dove si dedicò a composizione musicale e a letteratura. E attra verso l'Università incontrò la grande Ellen Stewart, fon datrice e anima del famoso « Cafe' La Marna ». Fu uno di quegli incontri che decidono di una vita, perché Elizabeth Swados, sotto la spinta della Stewart, scoprì il mondo dell'off Broadway e conobbe e cominciò a collaborare con registi della portata di Peter Brook e di Andrei Serban. Con Serban soprattutto l’incontro fu straordinariamente produttivo, perché dalla loro collaborazione nacquero quei meravigliosi adattamenti di tragedie greche che sono « Me dea », « Elettra », « Le Troiane », dove la musica della Swados aveva una parte di primo piano, e che resero famoso il « Café La Marna » con tournées trionfali in Europa. Con Peter Brook lavorò in un lungo giro per tutta la Africa, studiando le abitudini e le forme teatrali dei pri mitivi, e tentando di comunicare con loro attraverso mu siche e canzoni. Di quest'esperienza rimase poi per sem pre nella sua musica un continuo richiamo ai suoni della natura, e in particolare degli uccelli. Di nuovo con Serban, compose le canzoni della versio ne dell'» Anima buona di Sezchuan », del « Giardino dei ciliegi» e dell'» Agamennone ». A poco più di 25 anni, era ormai matura per fare qualcosa di suo, e venne la creazione di ■< Night Club Cantata », la sua opera prima che fu uno dei più grossi successi off Broadway due anni fa. Era un’opera allegra, piena di vita e di ironia, un in sieme di canzoni diverse nello stile ma tutte piacevoli, uno spettacolo divertente in cui si celebravano grandi scrittori, campioni del circo, musicisti e gente di teatro. La critica ne fu entusiasta. Nello stesso tempo concepì l'idea di « Runaways », e il successo di ■■ Night Club Cantata » le portò molte of ferte commercialmente attraenti per la realizzazione della sua idea, ma lei preferì la libertà che poteva avere lavo rando con Joseph Papp. E così, senza la fretta e le pres sioni delle grandi produzioni commerciali, cominciò un la voro di indagine che durò più di un anno. Andando e ve nendo per le città e i paesi dello Stato di New York, intervistando migliaia di bambini ■< difficili » ed esperti di problemi infantili, mise insieme un materiale imponente sul mondo dei « runaways », e da quello stesso mondo cominciò a scegliere gli attori. Adagio adagio l’idea assumeva una forma precisa, co minciavano le prime prove, si delineava il numero degli attori. Alla fine sarebbero stati diciannove, quasi tutti ragazzi veramente scappati di casa, senza nessuna espe rienza di teatro (solo tre provengono dal cast di « Canta ta »). E dopo alcuni cambiamenti suggeriti da Joseph Papp (che voleva uno spettacolo duro, che parlasse proprio solo di bambini — ma non solo dei bambini dei ghetti — e che non assomigliasse a ■■ Chorus Line » — ma un po’ asso miglia, comunque) all’attesissima « opening night » fu un trionfo di critica e di pubblico. La struttura dello show è semplicissima. Sullo sfondo della palestra, entra la compagnia e, in un collage di mo nologhi, canzoni, balli, poesie, ne viene fuori un ritratto completo dei bambini di strada, con ì loro giochi, le loro cattiverie, le loro attività sessuali, i loro furti, tutte le loro furbizie per sopravvivere, ma anche la loro dolcezza, la loro tenerezza, il loro humour involontario, la forza della loro giovinezza. C’è dentro, ed è cosa rara, la capacità di divertire e di commuovere, di far sorridere e di far meditare seriamente sulle enormi responsabilità delle fa miglie e della società verso quei ragazzi, la capacità dì rendere tutto terribilmente credibile. La musica cambia di stile con quella facilità tipica della Swados, va dalla samba al pop, dal flamenco al rock, dalla « country music » alla musica africana, ma è sempre adatta al soggetto, dolce o violenta, commoven te. Gli attori sono bravissimi, individualmente e come in sieme, ed è facile immaginare quale straordinario lavoro di regia ci deve essere stato per renderli così disinvolti. Sono bravi a cantare, a ballare, a recitare, a fare acro bazie, a scivolare sullo « skateboard »... (Chissà -perehé — ci domandavamo durante lo spettacolo — in Italia non esistono attori capaci di fare tutte queste cose insieme? Perché qui un attore, anche se senza esperienza — ma anche se è famoso — è capace a recitare, ballare, canta re — e sempre come un professionista —, mentre per gli attori nostrani è quasi un sacrilegio anche solo pensar lo?) Di questi ragazzi, appena passati dalla strada al tea tro, volutamente non nominiamo nessuno individualmente, perché la prestazione d’insieme è così eccezionale che nominarne qualcuno parrebbe uno sminuire gli altri. Alcune delle canzoni — come « Let me be young before f get old » (•< Lasciatemi essere giovane prima che diventi vecchio »), « Where do people go when they run away » (« Dove va la gente quando scappa di casa »), « Where are thè people who did Hair » (« Dove sono quelli che hanno fatto Hair ») -—• sono memorabili e stringono il cuore con le loro semplici, e terribili, verità. Le storie che raccontano sono nella maggior parte vere, e molte fanno inorridire, altre sono tenere, altre so no dolorose, ma su tutte c'è come un'atmosfera d'amore, Ranoy Ruiz e Diane Lane in « Runaways» (foto Martha Swope) perché di certo l’autrice ha visto tutto attraverso un'otti ca più d'amore che di vera e propria denuncia sociale. L'orchestra entra come parte integrante dello spetta colo, e non è certo un’orchestra » normale »: è composta da un piano, un piano-giocattolo, un contrabasso, un com plesso di conghe, timpani, bonghi e campane, un comples so di maracas, triangoli etc., un sassofono, un flauto e una chitarra, suonata dalla stessa Swados. Concludiamo dicendo una cosa che sarebbe forse più adatta a uno spettatore che a un critico, il quale sarebbe tenuto ad analisi approfondite con terminologie ricercate; ma a volte lo spettacolo è così bello nel suo insieme, che scinderlo nell'analisi sembra un peccato, e uno vorrebbe poter scrivere soltanto: « Andate a vederlo, è uno spetta colo stupendo ». Umberto Bonetti « E lv is »: 111 u n m u s ic a l p e r i f ig li d e lle d is c o te c h e ,.ii teatro due apparecchi di proiezione, uno per i brani a colori, l'altro per i brani in bianco e nero. Speciali im pianti acustici sono stati usati per permettere a una squa dra di cinque tecnici di valorizzare i diversi stili musicali adottati da Presley dal suo debutto al periodo di Las Ve gas. Quanto all’orchestra essa ha dovuto impegnarsi in settanta numeri musicali differenti. Infine ci sono voluti due elaboratori elettronici per programmare gli effetti di luce, utilizzando ben duemila lampade. Si potrebbe aggiungere ai primati vantati da Cooney an che l'uso di due attori per il protagonista. Sono contempo raneamente in scena due Elvis, un Elvis giovanissimo, qua si infantile, smilzo e piccolino e un Elvis più maturo, più grosso e più pasciuto. Il primo, un sedicenne sorprenden te, Timothy Whitnale, allievo dei benedettini, è un debut tante che dall'età di dodici anni imitava Presley per fa miliari ed amici. Timothy Whithall è Elvis Presley nella prima giovinezza Cortine translucide di foglie morte, di nudi, di stelle, di fiori, cadon sulla ribalta per marcare le tappe della vita del « re del rock ». Sugli schermi-gigante al centro ed ai lati del palcoscenico si succedono fotografie e brani di film: il ritratto ingiallito dei genitori sudisti, due volti gio vani, chiari, magri e poi le stelle nere dell'anno della na scita, il mondo della crisi e della disoccupazione, Hitler, i raduni di Norimberga ed ancora sfilate e cortei nunziali, Churchill, De Gaulle, Mac Millan, musi pelosi di barbon cini e musi lisci di bulldog, bandiere a stelle e strisce, de solati scorci suburbani, paesaggi rurali del « profondo sud », ragazze in maglietta con la scritta Elvis. Il musical biografico su Elvis Presley che furoreggia a Londra adopera l'epoca che va dal '35 al '77 e che coin cide con la sua vita, come un contrappunto visivo della sua storia personale e musicale, ed ecco dunque gli eventi contemporanei alla sua nascita, al suo esordio, ai suoi trionfi, alla sua partenza per il servizio militare, al suo accantonamento dopo l'avvento dei Beatles, al suo ritorno sulle scene di Las Vegas nel 1969. Ma la scelta delle fo tografie e dei brani filmistici non risponde alla comple tezza storica ed espunge le punte tragiche come le guer re, si adatta cioè ad un personaggio la cui vita non co nosce svolte drammatiche e nemmeno scatti passionali e che è appena sfiorata dagli eventi esterni, dallo scorrere pur intenso della storia. Conforme alla vita del protago nista è la sequenza cinematografica di chiusura: il suo funerale in technicolor con le Cadillac bianche che proce dono in un giorno pieno di sole tra le folle accaldate del l'estate e i prati sovraccarichi di fiori verso un inverosi mile mausoleo neoclassico. Il produttore di « Elvis », Ray Cooney ha enumerato in termini semisportivi i record superati con il suo musical. Tre ricercatori hanno dedicato complessivamente mille ore a selezionare milioni di parole e milioni di fotografie per definire le parole e le fotografie più significative di Presley. Sono stati chiesti permessi di riproduzione ad un centinaio di compagnie e di persone compresi i fami liari del cantante scomparso. Una squadra fotografica di 18 membri si è poi dedicata all’adattamento delle imma gini scelte alle esigenze del palcoscenico: esse infatti sono state proiettate da ben 12 proiettori su degli schermi appositamente costruiti per la scena dell’Astoria, il teatro londinese dove ■ Elvis » è stato presentato: gli schermi, ha fatto notare Cooney, sono i più grandi finora utilizzati per un lavoro teatrale in tutto il mondo. Per scegliere i brani filmistici una squadra di ricercatori ha esaminato ben 150 chilometri di pellicole e sono stati installati nel Tanti sforzi di tecnologia e di immaginazione sono stati coordinati dal regista Jack Good, un personaggio multi forme che, dopo essersi laureato ad Oxford, ha fatto l'at tore di cinema, lavorando anche con Gina Lollobrigida e poi si è specializzato nella regia di spettacoli televisivi e di rivista. Quanto al risultato esso, a prima vista, lascia perplessi ma, se ci si riflette sopra, probabilmente anticipa certe linee di tendenza del nuovo musical e addirittura un nuovo genere teatrale, il teatro per le nuove genera-, zioni. La prima novità è apparentemente negativa. Il contrap punto visivo, il gioco delle immagini sugli schermi giganti, sostituisce interamente la scenografia che praticamente scompare: un fenomeno che dalle produzioni televisive va ormai diffondendosi alle produzioni teatrali. L'uso delle immagini come fondo scenico accelera la dinamica dello spettacolo ed è in effetti sincronizzato con un'interpreta zione condotta a briglia sciolta. Si passa con un ritmo estremamente rapido da una scena all'altra: non vi sono né pause né tempi morti. I dialoghi si esauriscono in uno scambio di battute e sono ridotti al minimo sicché al flash visivo corrisponde il flash sonoro o musicale. Il mon taggio diventa insomma nel musical un elemento non me no essenziale che nel film. Lo spettatore viene preso in un ritmo indiavolato che non lascia tregua, che abolisce completamente le pause anche quelle comiche. Ma il ritmo non riduce per questo lo spettatore a fruitore passivo dello spettacolo, anzi lo convoca come complice e come partecipante, come mem bro del coro se non come attore. In sostanza un musical come « Elvis » combina l'espe rienza del cinema, della televisione, della rivista per pre sentare un genere nuovo, un genere che può portare nei teatri la nuova generazione, i figli della televisione e delle discoteche. Ed il pubblico che affolla l'Astoria, il cinema della Charing Cross, che ospita « Elvis » è effettivamente un pubblico giovane, di ragazzi, di ragazze e persino di bambini accompagnati dai genitori. A suo modo, dunque, « Elvis » è un’opera di avanguardia, ma non I avanguardia politica sociale che rimastica Brecht, ma la vera avan guardia, quella che viene incontro alle nuove generazioni, alla nuova, alla grande » ondata » di domani. Ludovico Incisa Smekin Stevens, è l'Elvis divenuto il re del rock'n roll R ic o r d o d i L u c io R id e n ti Questa nota « in memoria di... » è principalmente mo tivata da due ricorrenze che riguardano in modo partico lare Il Dramma e la famiglia dei suoi collaboratori vecchi e nuovi, in generale tutti i teatranti-, il 15 gennaio del 1973, poco più di cinque anni addietro, moriva a Torino Lucio Ridenti; egli s’era congedato dai suoi lettori dieci anni fa, con il numero doppio 380-381, maggio-giugno 1968, anno 44° nuova serie, l’ultimo da lui firmato come direttore re sponsabile a partire dal n. 9, agosto 1926, anno 2° prima serie. Succeduto a Pitigrilli '(pseudonimo di Dino Segre, 1893- 1975), che aveva fondato nel dicembre del 1925 questa ri vista mensile di « commedie di grande successo » affian candola al suo già fiorente quindicinale di novelle Le Gran di firme ma dirigendola solo per otto mesi, Lucio Ridenti (nome d’arte di Ernesto Scialpi, nato a Taranto il 7 agosto 1895) ne continuò dapprima l’impostazione un po’ frivola che poi, a poco a poco, trasformò compiendo una paziente opera di popolarizzazione del teatro, esattamente per un ventennio (1926-1946), e quindi una vera e propria azione culturale nel campo delle arti e dello spettacolo. « Il dram ma » diventò con Ridenti strumento di informazione sempre più ampio, di critica vivace verso chi non gli andava a ge nio per ragioni le più disparate, ma soprattutto divenne un valido sostegno per le fortune della nostra scena dramma tica di cui sistematicamente Ridenti esaltava le glorie pas sate, metteva in luce i valori presenti, senza trascurare al contempo le note di eventuale dissenso, e tutto ciò con un impegno ed una dedizione assoluti che gli venivano da una vocazione teatrale autentica che, non avendo potuto realiz zare in pieno sulla scena come attore, trovò di esplicare meglio e con un ruolo primario come giornalista. Se Ridenti nel 1925 non fosse stato colpito da una grave menomazione dell’udito avremmo avuto un attore poco brillante in più ed uno scrittore molto brillante in meno. Ma la storia non si fa con i « se », e allora rico struiamo in breve le tappe artistiche del giovane e smilzo tarantino che, pieno di belle speranze, come si leggeva nei romanzi d’appendice tornati in voga alla radio ed alla tele visione, non ancora diciottenne emigrò a Milano per fre quentare la scuola di recitazione di Boetti Valvassura. Di plomatosi con buoni voti, assieme a Memo Benassi fu scrit- Lucio Ridenti ritratto da Gregorio Sciltian turato come generico da Ermete Novelli; nel 1915, con lo stesso ruolo, passò nella compagnia di Tina Bondi e Orlan- dini; promosso brillante l’anno appresso nella compagnia Ferrero-Palmarini-Celli-Pieri e primattor giovane nella Gal li-Guasti-Bracci, dove rimase per un triennio, cominciò a mettersi in luce anche per la irreprensibile eleganza (rima- sta una sua caratteristica unitamente al monocolo che por tava aristocraticamente incastrato nell’orbita dell’occhio si nistro miope)-, dal ’21 al ’24 svolse attività cinematografica ed apparve sullo schermo con la sua figura altera, il viso glabro e un po’ spiritato in film lacrimevoli tra cui II Fi glio o L’Atroce accusa e Senza pietà dei quali non è rima sta alcuna traccia; poi fu attor comico nella Compagnia di Alda Borelli e, infine, nel ’25, fu scritturato da Tatiana Pàvlova per la quale, in collaborazione con il regista russo Strenkovskij, più tardi, nel ’29, ridusse Resurrezione di Lev Tolstoj. La carriera di Ridenti attore durò, dunque, poco più di un decennio e s’interruppe bruscamente nel ’25 perché divenuto mezzo sordo quando non esistevano gl’invisibili apparecchi acustici transistorizzati. Essendo, certo, supe riori le sue doti di scrittore (aveva pubblicato nel ’23 un libro intitolato Palcoscenico con prefazione di Renato Si- moni; scritto vari articoli d’argomento teatrale ed una com media, Il Malinconico, quand’era con la Borelli che gliela rappresentò, lui protagonista, nel ’24 al Teatro Margherita di Genova; ed ancora per la Pàvlova ridotto Delitto e ca stigo da Dostojevskij, poi messo in scena nel ’27), il nostro Lucio pensò di darsi al giornalismo e si trasferì a Torino come redattore, vice critico drammatico e inviato speciale a La Gazzetta del Popolo. L’incontro con Pitigrilli (a quel tempo scrittore di successo come romanziere umorista a sfondo erotico e direttore della rivista Le Grandi firme, diffusissima) fu decisivo. Con Pitigrilli preparò II Dramma, assumendone la direzione al nono mese-, rimase il suo uni co figlio (non ne ebbe con la moglie Donata) e gli dedicò se stesso, interamente, con una passione che si può dire senza freni, che non ha altri esempi e commoveva, per cui si faceva perdonare anche talune prese di posizione sba gliate e certe predilezioni e partigianerie. Non aveva la stof fa del critico distaccato né sapeva restare ài di sopra e al di fuori delle parti in contesa, tanto era l’ardore che lo ani mava nello sposare una causa di citi vedeva soltanto gli aspetti per lui positivi e giusti; ma senza dubbio possede va una conoscenza del teatro a lui coevo che pochi altri potevano vantare e ne riuscì a svelare la vita intima, i re troscena meno noti anche attraverso un’aneddotica preziosa di cui i fascicoli di II Dramma sono ricchi e costituiscono una fonte d’informazioni che non si trova in nessun’altra rivista teatrale italiana di questo secolo. Parte di codesto suo ineguagliabile patrimonio teatrale di notizie, fatti, esperienze, ricordi personali, testimonian ze, egli raccolse organicamente in libri che si chiamano La Vita gaia di Dina Galli (1928), Ritratti perduti (1960) e Teatro italiano tra due guerre (1966), tanto per citare i più importanti, ritentando di quando in quando la prova sce nica come autore drammatico, assieme a Dino Falconi con Cento donne nude (Milano, Teatro Olimpia, Compagnia Fàlconi-Borboni, 10 marzo 1927), e, da solo, con l’atto unico Così comincia la commedia (Roma, compagnia La Stabile, 22 dicembre 1928). Ma le soddisfazioni maggiori Ridenti le ebbe non come attore, non come autore drammatico, non come critico quando s’avventurò a recensire spettacoli, ben sì come giornalista, memorialista, scrittore di costume tea trale e, ovviamente, artefice d’un periodico che felicemente ha oltrepassato il mezzo secolo di vita pressocché ininter rotta. Le parentesi, i brevi vuoti sono stati pochi-, quello post-bellico, ottobre 1944-aprile 1945, in cui 11 Dramma (per motivi politici) passò alla direzione di Cipriano Gia- chetti; quello dopo il suo congedo del maggio-giugno 1968 (nell’ottobre la rivista riappariva nelle edicole ristrutturata anche tipograficamente e con la direzione di Giancarlo Vi- gorelli)-, quello dell’acquisto della testata da parte di altro editore nel 1973 (e la ripresa delle pubblicazioni nel di cembre con la direzione di Maurizio Liverani); infine l’ulti mo, del giugno-luglio 1976, che, a séguito della costituzione di una cooperativa di giornalisti, è sfociato nell’attuale as sestamento con la direzione di Diego Fabbri. Francesco Càllari •oN / < / I, Boggio M. - Cerlani A. - ANNA KULISCIOFF - Marsilio, pag. 229, Lire 5.800 Le vicende umane e politiche di Anna Kuliscioff han no giustamente ispirato due donne: Mancia Boggio e An nabella Cerliani. Ne è nata un'opera teatrale. La vita di quella donna è piena di avvenimenti, ora pubblici ora pri vati, che sembrerebbe difficile trattenere nel quadro uni tario di un dramma. Ti viene di pensare: in fondo il dram ma vero, che può giustamente contenere e dare ordine a tutto quanto, è quello della sua stessa vita. È una rispo sta facile, ovvia, comunque non fortuita. Evidentemente le due autrici questo tipo di problema — e molti altri ancora — se lo devono essere posto con molta serietà. Infatti quest'opera è veramente legata alla sua necessità rappresentativa: nel senso che la lettura ne propone già delle immagini, ne suggerisce un con fronto con la scena, ne suscita un rapporto più ampio ri spetto a quello privatissimo del testo scritto. La storia di Anna è individuata in due grandi tronconi: quello rela tivo alla sua giovinezza fino ai trentanni, al suo legame con l'anarchico Andrea Costa; quejlo della sua vita più squisitamente « italiana », vissuta in parallelo con l’altro uomo della sua vita, Filippo Turati. Intendiamoci: si tratta semplicemente di due termini orientativi della vicenda umana e politica, nonché culturale, di Anna Kuliscioff. Questa donna — e ciò appare molto bene dal testo della Boggio-Cprliani — ha una sua fisionomia precisa: non è l’ombra di nessuno, è sempre un costante polo dialettico rispetto a quanto vede, sente, legge. Quello che piace di più, in ogni caso, all’interno di questa opera teatrale, è quel carattere di coralità che la vicenda assume; in altri termini: la storia di Anna è an che quella del socialismo, del suo nascere nel quadro della realtà italiana, del suo porsi come forma di svi luppo della società in senso democratico. Dice infatti la Kuliscioff a Turati: « Come avrai visto è morto Plechànov, ciò che aumentò oggi le mie malinconie. Tornarono in mente tutte le nostre peripezie di 40 anni fa: eravamo allora ventenni e si apriva appena la vita dinnanzi a noi. Deutsch, Plechànov, la Zasùlich ed io abitavamo insieme, e fu quella l'epoca che si aprivano e si cercavano oriz zonti, Povero Plechànov! È morto probabilmente triste, esasperato, abbandonato da tutti mentre fu veramente per l’opera sua che si organizzò un movimento proleta rio in Russia ed anche il terrorismo ed il bakuninismo sempre prevalente in mezzo alla gioventù russa. Lenin fu suo seguace, quasi allievo e, quale ironia degli eventi!, fu proprio lui che avvelenò l'ultimo anno di vita al povero Plechànov ». Da queste parole di Anna, tratte dall'episto lario intercorso tra la donna e Turati, si legge tutto lo sconforto per le degenerazioni socialiste sovietiche. In Anna troviamo sempre, come molto bene si vede nel dramma, una lungimiranza incredibile: riesce a cogliere molto prima il senso degli avvenimenti della storia, ne sa dare una valutazione quasi sempre anticipatrice, sor retta da una logica straordinaria. La « Signora » di Mila no, come alcuni la chiamavano, non si astraeva mai dagli eventi, come non guardava il mondo da lontano. Coscien te che la storia si compie momento per momento, attra verso un lento e sottile lavoro, Anna non si abbandona mai alle « inutili soste del vivere ». Il ritratto di questa donna, inserito in un grande affresco, viene reso con no tevole efficacia rappresentativa, in un felice Incontro tra realtà storica e necessità fantastica. R. Alonge - R. Tessari (a cura di) - IMMAGINI DEL TEATRO CONTEMPORANEO - Guida Edi tori, pag. 400, Lire 3.000 Questo saggio di Roberto Alonge e Roberto Tessari è un Interessante esempio di lavoro critico sull'opera tea trale nel suo «montaggio» scenico. I due studiosi hanno preso in esame lo spettacolo teatrale, così come è stato realizzato, ne hanno confrontato i diversi momenti con la realtà del testo, per giungere alla identificazione di alcuni modelli di lettura relativi alla rappresentazione scenica. Non è un’operazione semplice, tuttavia affascinante pro prio se la si mette in relazione con la dimensione di « fatuità » temporale che la vita sul palcoscenico porta con sé. Gli autori avvertono, nella prefazione ai cinque saggi, che « L’atto che sancisce lo spettacolo... è sogno di comunione scaduto a livello di pseudo-comunicazione: non può fare a meno di rivelare come ciò che si è con cluso sia evento effimero in cui ci si dovrebbe soltanto riconoscere o non riconoscere; ma vorrebbe avere la pos sibilità di farsi discorso intorno all'evento, chiacchiera con pretese di critica ». Gii autori non hanno tutti i torti: mol- to spesso il valore che finisce per avere la critica tea trale non è altro che quello di rapporto intorno all'opera zione, reso sterile però dalla necessità di compiere, at traverso le parole, una possibile figurazione dello spetta colo. Le immagini, per quanto relative, possono essere un momento meno fittizio e, al tempo stesso, di mag gior controllo critico della scena. È chiaro, a questo pun to, che il punto di vista si amplia, fino a diventare di scutibile: quale tipo di immagine si dovrebbe (o si deve adoperare) per restituire al tempo la dimensione più va lida di una più corretta testimonianza dell'evento teatra le? Nella dialettica parola-immagine, i due attori mettono di fronte alla valutazione scritta quella fotografica. I due momenti si integrano molto bene. Il tipo di rapporto con l’opera non può essere definito in una precisa logica me todologica, se non nel più ampio quadro di scelta di la voro (quello del rapporto tra valore-immagine e valutazio ne scritta). Gli autori prendono in esame cinque spetta coli: La Fantesca di G. B. Della Porta (nell'edizione dello Stabile di Bolzano, regia di Fersen), Il giuoco delle parti di Pirandello (nell’edizione della Compagnia di prosa Ro molo Valli, regia di G. De Lullo, 1976-77), Vestire gli ignudi di Pirandello (edizione della Compagnia - La Log- getta » di Brescia, regia M. Castri), Il bagno di Majakov- skij (nell'edizione dello Stabile di Torino, regia di Missi- roli), Ballata e morte di Pulcinella capitano del popolo di L. Compagnone (edizione del Gruppo della Rocca, regia di E. Marcucci). In appendice c’è un saggio sull'Amleto, nella versione che ne ha dato Carmelo Bene. Questo volume di Alonge e Tessari, al di là delle spe cifiche valutazioni, mi sembra un serio contributo per di scutere il lavoro della critica teatrale in Italia e, per que sto motivo, lo trovo molto stimolante. Sergio Trasatti - ROSSELLINI E LA TELEVISIONE - La Rassegna Editrice, pag. 303, Lire 5.000 Rossellini comincia a lavorare per la televisione nei 1965, quando pone mano a L’età del ferro. Questo ciclo di film per il piccolo schermo si conclude nel 1974 con il Cartesius. Che cosa voleva il grande regista dal mezzo televisivo? Tutto quello che il cinema, in tanti anni, non era in grado di offrirgli: la possibilità di compiere quella straordinaria operazione didattica che, mettendo in secon do piano i termini della categoria-spettacolo, ponesse lo spettatore di fronte alla necessità di un suo autoricono scimento nella storia e nella civiltà. Forse un progetto culturale ambizioso, senza dubbio; comunque, uno dei più arditi che abbia osato intraprendere un uomo di cinema nel nostro dopoguerra. È vero, come afferma Trasatti, che la critica cinematografica non ha posto la dovuta attenzione al Rossellini regista televisivo, come è vero che, in gene rale, l’importanza che ha avuto si è capita molto in ri tardo. Se si seguono, passo passo, i lavori rosselliniani per la TV ci si rende conto del progetto lucido che aveva in mente questo grande uomo di cinema. E va detto che, in definitiva, non c’era in Rossellini una profonda dicoto mia tra linguaggio cinematografico e televisivo. Quello che si può cogliere, quale differenza sostanziale tra i due mezzi, è nel significato rispetto al pubblico e alle fun zioni che, appunt oper il pubblico, venivano per assume re questi due diversi mass media. La nozione di servizio — più volte chiarita e « teorizzata » da Eco — sembra trovare in Rossellini la più viva concretizzazione: la tele visione traduce in fatti, in dati, in documenti i vari ter mini del suo modello comunicativo. E lo spettacolo fini sce per essere quasi un elemento esornativo, secondario. Come pretendere, infatti, che il piccolo schermo assolva alle sue funzioni ludiche attraverso un uso sapiente e raf finato delle immagini? È un interrogativo che si è sempre posto il regista e dalla cui risposta è nato quel tipo di operazione che rimarrà esemplare per la coerenza che ha avuto in sé. Sarebbe ridicolo mettersi dalla parte di Ros sellini e difendere la sua posizione nei confronti della televisione. Il problema è un altro: dare ragione dell’at teggiamento rosselliniano e spiegarlo per quello che è stato, e per il peso che ha avuto nella generazione dei registi che, in televisione (ma anche nel cinema) l'han no seguito. Trasatti è questo che mi pare indichi nel suo documentato volume. La prima parte è dedicata ad una dettagliata analisi delle singole opere del regista, le altre parti ci riportano direttamente il pensiero e l'atteggia mento rosselliniano attraverso suoi scritti e interviste da lui rilasciate. Inoltre vengono pubblicati alcuni brani delle sceneggiature televisive del grande maestro, accanto ad una serie di materiali che rendono completo questo ex cursus intorno al lavoro televisivo di Rossellini. E questo regista, ricordiamolo, anche se non ha avuto il successo di pubblico nel piccolo schermo, si ostinava a ripetere: « Per usare la facilità di conoscenza, coscienza e pensiero di cui siamo capaci bisogna concepire in termini comple tamente nuovi un’informazione, la più vasta possibile, di dati autentici... Bisogna promuovere il sapere di tutti gli intelletti possibili ». (a cura) Beatrice Barbalato - MASS-MEDIA E PROCESSI DI TRASFORMAZIONE CULTURA LE IN ALCUNE BORGATE ROMANE - Bulzoni, pag. 177, Lire 3.500 Questo di Beatrice Barbalato è un testo utilissimo a tutti gli operatori culturali e, soprattutto a quelli di spet tacolo. Infatti il saggio propone, con rigore scientifico e con una articolata metodologia di indagine, il problema del rapporto tra mezzi di comunicazione di massa e i diversi contesti culturali negli agglomerati urbani periferici. La ricerca della Barbalato è condotta in alcune borgate ro mane e parte da una precisa ipotesi: nell’area popolare il processo di mutamento negli atteggiamenti culturali av viene attraverso il filtro di una leadership. Accanto ad un esame della situazione culturale delle « periferie » (e qui il discorso da « romano » acquista dei connotati più universali), la studiosa ha compiuto un’attenta ricerca sul campo. Come scrive Evelina Tarroni, in un suo saggio compreso in questo volume, « sono stati distribuiti que stionari diversi ai genitori e ai figli in cui i singoli que siti riguardavano: a) la composizione familiare; b) le aspi razioni; c) l’informazione; d) le relazioni interpersonali; e) gli interessi; f) l’influenza dei mezzi educativi; g) l'uso dei mass-media; h) il controllo della famiglia sull'uso dei mass-media... Si è proceduto... mediante questionari ten denti a individuare le dimensioni e il livello qualitativo della fruizione dei mass-media, ed altri tendenti a valu tare le relazioni interpersonali, da cui sono emerse con sufficiente evidenza le figure degli opinion-leaders della borgata ». Di volta in volta sono stati presi in esame i diversi mezzi di comunicazione di massa, dalla televisione al cinema, dalla stampa ai più disparati modelli di pub blicità iconica e verboiconica. Quello che emerge è la condizione di emarginazione culturale che trova la possi bilità di un « riscatto » attraverso il tipo di consenso ope rato dai leaders di opinione. Ma, oltre i dati, si fa avanti la storia, con i danni di un passato che riverberano nel l’oggi le necessità di un radicale mutamento delle condi zioni di vero e proprio sottosviluppo culturale. IN Giovanni Antonucci - LA REGÌA TEATRALE ITALIA - Edizioni Abete, pag. 170, Lire 3.200 Giovanni Antonucci è un attento studioso dei rapporti che intercorrono tra testo e messinscena. Anche in prece denti volumi, come quelli sullo spettacolo futurista in Italia, l'autore aveva sempre tenuto presente la coordi nata del confronto, ritenendo, come è giusto, che l'aspet to più delicato di ogni messinscena è proprio quello della mediazione da compiere dall’opera scritta. In questo sag gio sulla regia teatrale Giovanni Antonucci tira le somme di molteplici esperienze espresse nel corso degli ultimi anni, esperienze di studio intorno alla regia e ai suoi più significativi rappresentanti. Quali sono stati gli orienta menti della regia italiana intorno agli anni Sessanta? E quali sono gli orientamenti che sta prendendo oggi? An tonucci sembra orientato ad ipotizzare la fine del « regi sta-dittatore », è probabile — dice — che la funzione della regia, intesa come « coscienza critica » dello spetta colo, come lettura articolata e insieme unitaria dei mol teplici elementi che convergono nell’evento teatrale, sia destinata a recuperare il terreno perduto in questi anni. Antonucci ha raccolto una serie di interventi su que sto tema, della regia appunto, e vanno da quelli di Orazio Costa, Giorgio De Lullo, Ferse e Guicciardini, fino a quelli di Missiroli, Sbragia, Spadaro e Trionfo. Le varie testi monianze sono precedute da un saggio emblematico de dicato a Strehler, dove vengono messe in luce le ombre della « regia demiurgica ». Nel corso di questi anni, in ef fetti, la mancanza di una nuova drammaturgia (problema non solo italiano, per la verità) e la crisi dei valori cul turali, accanto a quella più generale, ha fatto sì che si sia irrobustita un tipo di attività creativa affidata so prattutto alla regia. Il fatto è che spesso si è andati molto oltre: la creazione registica ha portato a una for ma di totale reinvenzione compiuta ai danni del testo ori ginario. Quanto ciò sia legittimo è cosa che ancora deve essere dibattuta; in ogni caso l’autore non può fare a meno di evidenziare certi casi di vera e propria arro ganza culturale ed estetica. La seconda parte di questo volume è dedicata a temi diversi, uniti dal minimo comun denominatore del rap porto testo-scena: si analizzano le forme di teatro e spet tacolo nella Roma del Cinquecento, si approfondiscono gli aspetti del teatro simbolista, poi un saggio sull’opera teatrale di Prampolini, fino ad una lettura critica de II malato immaginario di Molière, portato in scena dalla Compagnia De Lullo-Valli, per la regia di Giorgio De Lullo. Questo volume di Antonucci, tra l'altro, ha il pre gio di una esposizione chiara e precisa: è cosa da rile vare perché non capita sempre. •>l||||| Renato Minore - MASS-MEDIA INTELLETTUALI SOCIETÀ’ - Bulzoni, 255 pag., Lire 4.000 Nell’assai indicativa « avvertenza » che si legge ad apertura di libro Minore dichiara di raccogliere alcuni suoi scritti nati in situazioni e tempi diversi e, tra l'al tro, destinati a contesti non propriamente omologhi che di volta in volta richiedevano la pratica del saggio da rivista specializzata, l’intervento problematizzato etc. etc. Ma il libro ci sembra molto unitario, proprio perché è una la pratica che di volta in volta sceglie i suoi obbiettivi e, insieme, le tattiche con cui affrontarli. Ed è la pratica di un’intelligenza assai lucida e attenta, naturalmente lai ca e disincantata, attenta ai fenomeni minimi della no stra quotidianità (i « prodotti » dell’emporio culturale di massa di cui intelligentemente si parla nella quarta di il saccheggio televisivo dei » classici », copertina: le « fiabe » settimanalmente narrate su « No vella 2000 » o « Bolero-film », i fasti dell'intrattenimento radiofonico, il maccheronico fantascientifico), ma sorprendentemente vi gile in analisi di messaggio, « testuali », che restano il fondo più autentico del libro. Si pensi alle penetranti pa gine sul Flaiano « intimo » o « segreto », a quelle su Nic colò Gallo eminenza grigia del mondo editoriale o, anco ra, a quelle su un pittore decisamente Kitsch e pratica- mente sconosciuto (Federico Spoltore) su cui Minore di spiega tutti i suoi molteplici strumenti di lettura, in di rezione sociologica e interdisciplinare. Ma nel libro non manca una persuasiva intenzione si stematizzante che è quella fissata nel lungo saggio in troduttivo dedicato alle comunicazioni di massa in Italia dal 1950 al 1970. iÈ, questa, una utile, utilissima (e non solo a livello didattico) rassegna bibliografica che si pre senta con una doppia e integrantesi articolazione: di di scorso complessivo sui ritardi della nostra cultura nel- l'accettare le problematiche dei media e di guida ragio nata, per assaggi e campioni di alta significazione, all'ap proccio interdisciplinare dei media. Un’ultima cosa (e non secondaria). Il libro è scritto bene ed è una cosa rara nella sciatteria della nostra pro sa accademico-universitaria (Minore insegna presso l’Isti tuto dello Spettacolo della Musica e della Comunicazione dell'Università di Roma). Conferma, cioè, quel fine sag gista e (perché no?) giornalista che abbiamo imparato ad apprezzare nei suoi saggi su rivista e nei suoi fre quenti interventi sul « Messaggero », giornale di cui Mi nore è uno dei critici letterari. SEGNALAZIONI Franco Quadri - L’AVANGUARDIA TEATRALE IN ITALIA - Einaudi, 2 voli., pag. 826, Lire 15.000 Edoardo Fadini e Carlo Quartucci - VIAGGIO NEL CAMION DENTRO L’AVANGUARDIA OVVERO LA LUNGA CINE MATOGRAFIA TEATRALE 1960-1976 - Cooperativa edi toriale studio forma, pag. 247, Lire 7.000 Adelio Ferrerò (a cura di) - STORIA DEL CINEMA - Dalle origini all'avvento del sonoro - Marsilio, pag. 272, Lire 4.800 I. C. Jarvie - UNA SOCIOLOGIA DEL CINEMA - Comuni cazione e società, pag. 306, Lire 8.000 Vittorio Lanternari - CRISI E RICERCA D’IDENTITÀ’ - Fol klore e dinamica culturale - Liguori, pag. 246, Lire 4.200 Bela Bartok - SCRITTI SULLA MUSICA POPOLARE (a cura di Diego Carpitella) - Universale scientifica Boringhieri, pag. 303, Lire 3.000 Italia, Simona Costa - LUIGI PIRANDELLO - La Nuova pag. 160, Lire 2.500 Luigi Della Croce - LE 75 SINFONIE DI MOZART - Eda, pag. 315, Lire 4.000 Mario Colangeli - LE FESTE DELL’ANNO (Almanacco delle feste popolari italiane) - SugarCo, pag. 349, Lire 5.800 Alberto Testa - DISCORSO SULLA DANZA E SUL BAL LETTO - Trevi, pag. 363, Lire 5.000 Renato Minore - MASS-MEDIA INTELLETTUALI SOCIETÀ’ - Bulzoni, pag. 247, Lire 4.000 Alfonso Canziani - GLI ANNI DEL NEOREALISMO - La Nuova Italia, pag. 268, Lire 6.000 AA. -Lire 2.000 L. Pinzauti - LA MUSICA E LE COSE - Vallecchi, pag. 240, Lire 4.500 Nanni Loy - QUALE CINEMA PER GLI ANNI ’80? - Gua- raldi, pag. 164, Lire 2.500 VV. - L’ARMA DELL’IMMAGINE - Mazzotta, pag. 128, BELLI - pag. 242, Lire 6.000 MA - Guida Editori, pag. 359, Lire 5.000 pag. 85, Lire 1.600 storo, pag. 96, Lire 1.600 pag. 127, Lire 1.600 pag. 223, Lire 8.000 129, Lire 1.600 LIA - Longanesi, pag. 233, Lire 8.000 trice, pag. 102, s.i.p. storo, pag. 107, Lire 1.400 pag. 126, Lire 3.500 Lire 1.400 Lire 5.000 153, Lire 1.600 moniosa Ed., pag. 102, Lire 2.700 pag. 120, Lire 1.600 pag. 99, Lire 3.000 pag. 103, Lire 1.600 pag. 139, Lire 1.600 Londra, A. & C. Black, L. 12.000 E. Groppali - IL TEATRO DI TRIONFO, MISSIROLI, CO- G. Oldrini - PROBLEMI DI TEORIA E STORIA DEL CINE M. C. Papini - CORAZZINI - La Nuova Italia, Il Castoro, L. Caruso-S. M. Martini - ROVERSl - La Nuova Italia, Il Ca M. Del Serra - UNGARETTI - La Nuova Italia, Il Castoro, L Bentivoglio - LA DANZA MODERNA - Longanesi Editore, E, Comuzio - CUKOR - La Nuova Italia, Il Castoro, pag. L. Cinque - KUNSERTU. LA MUSICA POPOLARE IN ITA G. De Santi - CARLO GALEFFI E LA SCALA - Electa Edi R. Camapri - VINCENTE MINNELLI - La Nuova Italia, Il Ca E. Ungari - IMMAGINE DEL DISASTRO - Arcana Editrice, I. Grotti - BUZZATI - La Nuova Italia, Il Castoro, pag. 120, AA. G. Cremonini - CHAPLIN - La Nuova Italia, Il Castoro, pag. D. M. Turoldo - LA PASSIONE DI S. LORENZO - Città Ar S. Arecco - ANGHELOPULOS - La Nuova Italia, Il Castoro, L. Santucci - L’ANGELO DI CAINO - Città Armoniosa Ed., A. Frezzato - TARKOVSKIJ - La Nuova Italia, Il Castoro, S. Bernardi - BELLOCCHIO - La Nuova Italia, il Castoro, D. Vaughan - FREDERICK ASHTON AND HIS BALLETS - J. Anderson - LA DANZA - Mondadori, Lire 8.500 G. Cournand - BEAUTE’ DE LA DANSE - Gautier-Langue- L. Cosi - SARO’ BALLERINA - Ed. La Sorgente, pag. 60 reau Ed. Paris, pag. 247 VV. - GLI UNI E GLI ALTRI - Arcana Editrice, pag. 128, G. Aristarco - SOTTO IL SEGNO DELLO SCORPIONE. IL CINEMA DEI FRATELLI TAVIANI - D'Anna, pag. 261, Lire 5.000 G. Tinazzi - IL CINEMA DI ROBERT BRESSON - Marsilio, pag. 138, Lire 3.500 A. Ferrerò - IL CINEMA DI P. P. PASOLINI - Marsilio, pag. 168, Lire 4.500 G. Venturi - ELSA MORANTE - Il Castoro, La Nuova Italia, pag. 142, Lire 1.400 A. Ferrerò - G. Grignaffinì - L. Quaresima - IL CINEMA ITA LIANO DEGLI ANNI '60 - Guaraldi, pag. 175, Lire 2.500 Nuccio Lodato - HOWARD HAWKS - La Nuova Italia, Il Castoro, pag. 133, Lire 1.400 S. Torresani - INVITO ALLA LETTURA DI IONESCO - Mur sia, pag. 152, Lire 2.500 J. Duvignaud - SOCIOLOGIA DELL’ATTORE - Ghisoni Edi tore, pag. 210, Lire 6.500 S. Sîataper - IBSEN - Vallecchi, pag. 241, Lire 7.000 G. Lukács - LA GENESI DELLA TRAGEDIA BORGHESE DA LESSING a IBSEN - SugarCo Editore, pag. 159, Lire 3.50C Aristofane - LE COMMEDIE - Laterza, 3 voli. pag. 744, Lire 9.900 L, Visconti - OSSESSIONE - Nuova Casa Editrice Cappelli, pag. 157, Lire 2.500 L. Visconti - LA TERRA TREMA - Nuova Casa Editrice Cappelli, pag. 245, Lire 2.800 L. Visconti - SENSO - Nuova Casa Editrice Cappelli, pag. 205, Lire 2.800 M. Antonioni - L'AVVENTURA - Nuova Casa Editrice Cap pelli, pag. 175, Lire 2.800 C. Molinari . STORIA DI ANTIGONE - De Donato Editore, pag. 337, Lire 4.300 Mario Ricci (a cura di) - PASOLINI E IL SETACCIO - Nuo va Universale Cappelli, pag. 196, Lire 4.500 M. Moscati - GUIDA AL CINEMA DELL'ORRORE - Edizioni Il Formichiere, pag. 153, Lire 4.000 G. Carli Ballola - BEETHOVEN - Edizioni Accademia, pag. 486, Lire 6.000 M. Franco Lao - TROVATORI DELL'AMERICA LATINA - pag. 325, Lire 4.500 AA. Lire 3.000 G. Amoroso - V. BRANCATI - La Nuova Italia, Il Castoro, pag. 173, Lire 1.600 VV. - L’ARCIPELAGO POP - Arcana Editrice, pag. 197, Massimo Mollica e Michela Pavia in « Liolà » di Pirandello tori sul teatro che si protrarranno oltre la conclusione dei Festi val, fino al 9 agosto. Temi principali saranno: il teatro nel Terzo Mondo, il significato e l'importanza della Maschera nel teatro (l’Italia sarà presente con una mostra sulla Commedia dell'Arte e un Laboratorio a cura di Donato Sartori), il ruolo e l’identità dell'attore nel teatro contemporaneo, lo spazio teatrale (per l'Italia parteciperanno Gae Aulenti e Lele Luzzati). Vi saranno anche mostre tra cui per la prima volta una espo sizione di materiali sul teatro venezuelano, dalle origini fino ad oggi.Il Festival è organizzato dal Consiglio Nazionale della Cultura, dall'Ateneo di Caracas, dall’Istituto Internazionale del Teatro e con il patrocinio dell'UNESCO. La 1. Rassegna del teatro popolare, dedicata al tema de « Il maggio drammatico nell'area tosco-emiliana » è stata organizzata a Buti e a Pisa dal 23 al 28 maggio dalla Regione Toscana, il Comune di Buti, la Comunità Montana dei Monti Pisani, la Pro vincia di Pisa, il Teatro Regionale Toscano, FARCI ed infine le ACLI. L'argomento di « maggio » è di solito un argomento tratto dalla storia greca, dalla storia profana, dalla mitologia, dalla let teratura antica. La tradizione del « maggio » certo resiste ancora, ma le sue tracce si stanno perdendo. Con questo convegno e gli spettacoli originali, la Regione e il Comitato promotore hanno inteso dare il loro contributo al mantenimento e al rilancio di un elemento tra i più vivi e interessanti della cultura popolare, e nello stesso tempo ad un suo studio più rigoroso e appro fondito. IN BREVE TEATRO Presso l'Aula Magna della Scuola Germanica, a Roma, Il Gruppo Teatro Ubero di Palermo ha presentato lo spettacolo - Il Bagatto » di Beno Mazzone, ispirato ad una lettura incro ciata da « Il castello » di Kafka e a 32 carte tratte dal mazzo dei Tarocchi. Dal 26 al 28 maggio terzo appuntamento a Viterbo con le manifestazioni che il Centro di studi sul teatro medievale e rina scimentale realizza annualmente. Quest’anno il Centro ha conti nuato la sua esplorazione delle antiche forme drammatiche pre senti nella vita pubblica italiana del Medioevo dedicando il con vegno alla Eredità classica nel Medioevo: il linguaggio comico, eredità che è costituita dalla cosiddetta « commedia elegiaca ». Gli specialisti di letteratura medioevale hanno illustrato le di verse radici culturali delle « commedie »: la tradizione terenziana ravvivata nel contesto ecclesiastico, il mimo conviviale, la novel listica; hanno esaminato il linguaggio e i temi giunti fino a noi ed anche gli influssi che queste opere ebbero, nei secoli suc cessivi, sul teatro comico umanistico. Il convegno si è aperto con l’introduzione ai lavori di Federico Doglio, direttore del Centro studi sul teatro medioevale e rina scimentale, seguito da relazioni di studiosi italiani e stranieri. In piazza San Pellegrino, il gruppo del * Politecnico Teatro di Roma » ha rappresentato, per la regia di Giandomenico Curi, la comme dia elegiaca del XIII secolo De uxore cerdonis. A Venezia dai 14 al 20 settembre prossimo, presso la Fonda zione « Giorgio Cini », si svolgerà il XVI Corso Internazionale di Storia del Teatro, organizzato dall'Istituto Internazionale per la IRicerca Teatrale. Il Corso, che si aprirà da una relazione del dr. Raul Radice, Presidente dell’Istituto, sarà dedicato al tema « Nuovi aspetti del Teatro dalla fine del secolo XIX alla prima guerra mondiale » e riguarderà i seguenti paesi: Austria, Germania, Inghilterra, Italia, Svizzera. Il Corso sarà diretto dal Prof. Nicola Mangiai dell'Università di Venezia. Come negli anni precedenti, l’Istituto elargirà un certo numero di borse di studio agli studenti italiani e stranieri iscritti al Corso. Sarà, inoltre, assegnata una speciale borsa di studio dalla F.I.R.T. intitolata a Goffredo Bellonci, fondatore e primo Presidente dell'Istituto. Il « Teatro di Roma » — teatro scuola — ha promosso per il mese di giugno un seminario di introduzione alla fiaba (letteratu ra-teatro) con la partecipazione di gruppi come « assemblea tea tro » di Torino, teatro « La tosse » di Genova, la » Scatola » di Roma; e con scrittori, critici, insegnanti, operatori come Gianni Rodari, Lele Luzzati, Tonino Conte, Loredana Berissinotto, Mario Lodi, Luigi Malerba. Il seminario è dedicato ad insegnanti delle scuole materne, elementari e medie, oltre che ad operatori cul turali e teatrali individuali o in gruppo. Tra giugno e luglio si svolgerà a Caracas (Venezuela) il IV Fe stival delle Nazioni. Il calendario delle manifestazioni è suddiviso più o meno in tre settori: un « prologo », dal 16 giugno al 5 luglio, che comprenderà una mostra di film e video-tapes di argomento teatrale; dal 2 al 16 luglio avrà luogo la sessione teatrale, a cui parteciperanno alcuni tra i più interessanti gruppi di vari Paesi. Per l'Italia sono stati scelti la « Nuova Compagnia di Canto Po polare » con lo spettacolo « La canzone di Zeza » e il « Club del Teatro » di Remondi e Caporossi con » Sacco » e « Richiamo ». Tra gli interventi più rappresentativi ricordiamo: Peter Brook, Miklos Jancso, l'Atelier 212 di Belgrado, Tadeusz Kantor, il Bread and Puppet, Jacques Lecoq, il colombiano Enrique Buenaventura. Particolare rilievo avranno gli interventi di teatro Latino ame ricano. Durante tutta la rassegna si terranno seminari e labora Il Direttore d'Orchestra italiano Gaetano Delogu è stato nomi nato Direttore Stabile dell'Orchestra sinfonica di Denver. Delogu, che è nato a Messina, e che sostituisce l'attuale direttore americano Brian Prlestman, In questa stagione dirigerà numerosi concerti in altre città degli Stati Uniti. Il 18 e il 20 maggio nelle arene messicane di Monterey e di Guadalajara è stata rappresentata, per la prima volta in arena, Carmen di Georges Bizet. L’opera è stata eseguita da Franco Igle- sias, Anne Howard e Richard Kness. Direttore d'orchestra Robin Stapleton. Dal 1. luglio al 14 agosto si svolgerà a Trieste il IX Festival internazionale dell'Operetta. Tra le opere in programma figurano: « La donna perduta » di Giuseppe Pietri; * La duchessa di Chica go » di Emmerich Kalman e * La casta Susanna » di Jean Gilbert. La regia e le coreografie delie tre operette, che verranno ripetute sei volte ciascuna al Politeama Rossetti, saranno di Gino Landi. Il compositore di origine russa Nicolas Nabokov è morto a New York per un attacco cardiaco in seguito ad un'operazione. Aveva 75 anni. Era noto negli Stati Uniti soprattutto per la parti tura del balletto * Don Chisciotte », messo in scena a New York nel 1965. Tra le sue composizioni figurano altri balletti, tre sin fonie, due melodrammi, concerti per piano e flauto e alcune Im portanti opere per voce e orchestra. A Venezia, sotto gli auspici della Fondazione Levi, si è tenuto un ciclo di undici lezioni-concerto dedicato all’arte di Arturo To- scanini. Il ciclo è stato tenuto da Giusepe Pugliese, lo studioso veneziano che ai problemi dell’interpretazione musicale e dell'arte di Toscanini ha dedicato numerosi e approf.onditi studi. « Radio City Music Hall di New York, uno dei templi dei- |'« Art déco » e dello * Show Business » americano, non chiuderà i battenti come era previsto. Si è appreso infatti a New York che un accordo è intervenuto per mantenere in vita la grande e celebre sala. In base all'accordo, che sarebbe stato approvato dal governo dello Stato di New York, un grattacielo di venti piani verrà co struito sopra il * Music Hall » e una parte degli introiti dell'ope razione immobiliare sarà impiegata per finanziare il deficit della più famosa sala di concerti e spettacolo degli USA. Presentato il cartellone del 33.mo Festival di Musica di Mon- treux-Vevey 1978. Direttori ospiti saranno: Georg Solti con la Chi cago Symphony Orchestra, James Loughran con l'Orchestra Sin fonica di Bamberg; René Klopfenstein; Zdenek Macai; Gary Bertini. Fra i solisti ricordiamo: Alicia de Larrocha, Eugeni Korolyov (Premio Clara Haskil 1977); Leonid Kogan; Jean Pierre Rampai, Michel Dalberto (Premio Clara Haskil 1975); Philipp Hirschhorn; Herman Prey. Numerosi anche i complessi da camera. I 60.000 biglietti disponibili per il Festival annuale Wagner, di Bayreuth, sono completamente esauriti. II Festival, in programma dal 25 luglio al 28 agosto, prevede 30 spettacoli e fra le rappresentazioni più significative figurano una nuova edizione del * Vascello Fantasma » diretto da Harry Kupfer (Germania orientale), la riproposta del * Parsifal » di Wolf gang Wagner, allestimento di Goetz Friedrich, del * Tannhauser » e, sempre di Friedrich, il * Ring ». Dal 23 al 25 maggio ogni mattina operatori teatrali si sono incontrati con gli alunni delle scuole di Buti per discutere e com mentare gli spettacoli e i problemi ad essi legati. Nel pomerig gio si sono tenuti seminari dedicati agli aspetti letterari, gestuali e musicali del « maggio » e alle prospettive attuali. Ogni sera sempre a Buti è stato rappresentato uno spettacolo. Infine a Pisa dal 26 al 28 maggio si è tenuto un convegno di studi presso la Sapienza, con la partecipazione di Gerhard Rohlf, Gianfranco Contini, Giovanni Nencioni e numerosi altri stu diosi di livello internazionale. È nato a Torino, per la direzione artistica di Mauro Macario, II Teatro della Fantascienza che intende aprire un discorso cul turale serio e rigoroso, anche se non scevro di effetti suggestivi, su questo genere ancora inesplorato. Il primo spettacolo è anda to in scena il 9 maggio al Teatro Erba di Torino: il titolo « Da quale mondo viene? -, è suddiviso in tre parti: - Cristo delle stelle - di Peter Kolosimo, « I figli del sogno » di Lino Aldani e « Picnic al musiné » di Mauro Macario. Lo spettacolo è stato Invitato ad aprire il 7 luglio il Festival della fantascienza di Trieste. Presentato il programma dell'Estate Teatrale Veronese 1978. Verranno rappresentati « Il mercante di Venezia » con la regia di Giancarlo Cobelli e l'interpretazione di Luigi Vannucchi, Nino Ca- stelnuovo, Massimo Belli e Luisella Boni. * Amleto » con la regia di Giancarlo Nanni e Manuela Kustermann nel ruolo del protago nista. « La donna di garbo » di Goldoni con la regia di Francesco Macedonio e Carla Gravina e Gianni Galavotti nei ruoli prota gonisti. Inoltre « Il balletto nazionale del Senegai » con una storia di rettamente ispirata alla tragedia di Romeo e Giulietta. * Sputnik » complesso folkloristico dell’Unione Sovietica. « Scottlsh Ballet » di Glasgow. Infine In collaborazione con l'Ente lirico Arena di Verona il balletto nazionale polacco - Mazowsze ». IN BREVE MUSICA Si sono svolte a Trieste le manifestazioni celebrative del Cen tenario del Politeama Rossetti inaugurato il 17 aprile 1878. La se rata celebrativa ha visto alternarsi sul palcoscenico triestino l'Or chestra e il Coro del Teatro « Verdi » diretti dal maestro Giaco mo Zani, il soprano Katia Ricciarelli, il contralto Fedora Barbieri, il baritono Antonio Salvadori, il basso Agostino Ferrin. Edith Mar telli e Sandro Massimini hanno eseguito brani da operette; Lilia na Cosi e Marinel Stefanescu si sono esibiti in celebri pas de deux; inoltre Luigi Proietti e Wanda Osiris hanno ricordato i fa sti della commedia musicale. Il Consiglio Direttivo dell’Accademia Filarmonica Romana ha nominato il nuovo direttore artistico per il biennio 1978-1980 nella persona di Bruno Cfegli. Cagli, laureato in Storia della Musica all'Università di Roma, poeta, regista e autore di teatro, ha pubblicato vari lavori lette rari, tra cui una nota edizione dei sonetti del Belli. Come musi cologo si è dedicato in particolar modo all'opera e alla musica Italiana dell'Ottocento; in questo campo è considerato uno dei maggiori specialisti. Direttore artistico della • Fondazione Rossi ni » di Pesaro, si deve a lui il piano di pubblicazione dell’* opera omnia » del compositore pesarese. Critico musicale di Paese Sera, è docente di Storia dello Spettacolo all'Università di Urbino. L ’ A l i t a l i a e l a m o d a La moda è ormai considerata, a buon motivo, uno degli elementi indispensabili per « costruire » — a beneficio degli stranieri — il volto più rappresenta tivo del nostro Paese, anche in una funzione di ri chiamo turistico. L’Alitalia che è, per naturale vocazione, elemento trainante della migrazione verso l'Italia, sta da alcuni mesi portando in giro per il mondo una « Mostra Iti nerante », concepita ed articolata in modo da rap presentare — nei suoi aspetti più significativi — alcune realtà nazionali. Non soltanto, quindi, le im magini delle nostre coste e località montane, i nostri monumenti ed il folclore, ma anche la nostra moda, ambasciatrice di uno « stile » che è nel mondo sino nimo di buon gusto. La « Mostra Itinerante », ideata nel contesto di un vasto programma promozionale denominato « Vi- sit Italy », si articola in diverse sezioni: proiezioni in multivision di angoli della penisola tra i più carat teristici e talvolta poco noti, pannelli fotografici, dan ze folcloristiche di complessi regionali, rassegne ga stronomiche e, infine, sfilate di moda con la parteci pazione delle Case italiane più affermate in campo internazionale. L’inserimento della moda in una esibizione, neces sariamente sintetica di « motivi italiani » non è senza significato. Non soltanto per l’importanza che questa « voce » ha per l’equilibrio della bilancia valutaria nazionale, ma anche perché costituisce, per un vasto pubblico, una forte attrattiva ed incentivo a visitare l’Italia. La Mostra si inserisce, come si è detto, in una articolata serie di iniziative che l’Alitalia, in collabo- razione con l’ENIT ed alcuni Enti Regione, ha realiz zato col proposito di far conoscere il nostro Paese, nelle sue varie componenti culturali, artistiche, pae saggistiche e produttive, ai turisti di tutto il mondo. Si è in sostanza voluto presentare un « volto » nuovo dell’Italia; un volto che non sia soltanto quello di Roma, Firenze, Napoli o Venezia, ma anche e so prattutto quello di località meno note che, per vari aspetti — storia, costume, caratteristiche naturali ect. — costituiscono validi motivi di attrazione e di interesse per chi vuol programmare una visita nel nostro Paese. Il richiamo che la Mostra Itinerante esercita nel mercato estero attraverso la visualizzazione di de terminate località, nonché di aspetti produttivi e crea tivi italiani è sostenuto da una serie di proposte di soggiorni che l’Alitalia, con l’Enit e le Regioni inte ressate, hanno appositamente « confezionato », te nendo presenti le preferenze marine o montane dei turisti. località marine della « Italia Mare » suggerisce Sicilia, della Calabria, delle Puglie e della Sardegna ricche di fascino naturale, di tradizioni popolari, di « colore », di storia e... di sole, nelle quali una va canza — anche fuori dal periodo di alta stagione — manterrà inalterato il suo scopo di relax o di arric chimento culturale. La pace di queste località, le bel lezze naturali Inconfondibili di regioni ancora incon taminate, la cordialità degli abitanti che hanno saputo recepire, attraverso i secoli, i valori umani più genui ni delle popolazioni dell’intero bacino mediterraneo, sono le motivazioni di questa meditata scelta fatta dall’Alitalia per la sua clientela. L’altra proposta che, al pari della prima, si inse risce nel più ampio contesto del programma « Visit Italy », è Arco Alpino. Come già indica il nome, essa si indirizza agli amanti della montagna e della neve, suggerendo, ol tre alle note e celebrate località invernali o di alpi nismo puro, numerosi centri dell’Alto Adige e del Trentino, della Valle d’Aosta, del Veneto e della Lom bardia dove, negli ultimi anni, sono sorti importanti complessi alberghieri e sportivi in grado di offrire tutti i conforts I costi per un soggiorno in queste località sono peraltro estremamente competitivi se raffrontati con l’offerta di altri paesi europei. Se sole, mare e monti del nostro Paese costitui scono la carta vincente nel gioco della concorrenza turistica, la Moda italiana non lo è da meno per quan to riguarda il buon gusto. I passeggeri degli aerei Al ¡tal ia — e particolar mente gli stranieri — non mancano quasi mai allo appuntamento che la Compagnia di bandiera loro pro pone durante ogni viaggio aereo: l’acquisto di una cravatta, di un foulard, di un articolo di pelletteria o di uno dei tanti oggetti « firmati » dai più famosi crea tori di moda italiana. Nello scorso anno sugli aerei Al i tal ia sono stati venduti prodotti dell’alta moda per un valore di oltre un miliardo e mezzo, una cifra dav vero cospicua che testimonia del prestigio di questa nostra industria nel mondo. L’Alitalia, nel campo della moda, è inoltre da tem po presente collaborando in importanti iniziative, as sunte dagli organismi preposti alla penetrazione dei prodotti italiani sui mercati esteri. E’ una presenza dovuta non soltanto al fatto di essere, l’Àlitalia, il settore aereo nazionale, ma che si giustifica ed è resa possibile dalla sua stessa organizzazione, ramificata in tutto il mondo. A questo proposito la Compagnia ha istituito, nel la sua organizzazione centrale, un apposito ufficio denominato « Export & Business Travell » allo scopo di promuovere e proporre in tutti i mercati del mon do, in stretto contatto con gli operatori della piccola e media industria, i prodotti italiani. Nel corso del 1977, infatti, TANtalia ha contribuito all’organizzazione di importanti missioni economiche italiane sia in America Latina che in Estremo Oriente e, nel quadro delle numerose manifestazioni svoltesi, notevole importanza hanno avuto le sfilate e la pre sentazione dei prodotti dell’industria dell'abbigliamen to, dei tessili, della maglieria e degli accessori di moda. La presenza dell ’ Alital ia nel mondo della moda si può ben definire, pertanto, una riuscita formula per lo sviluppo delle esportazioni dei prodotti italiani. " B l a n c d e B l a n c s ” P r i n c i p e d i P i e m o n t e . L o s p u m a n t e f a t t o s o l o c o n u v e b i a n c h e . E c c o p e r c h é è c o s i d i v e r s o . D i v e r s o . S e c c o . L e g g e r o . P r o f u m a t o . R a f f i n a t o . P e r c h é t a t t o s o l o c o n u v e P i n o t b i a n c h e c o l t e i n u n d e l l a m a t u r a z i o n e . C i n z a n o p e r n o n s b a g l i a r e .

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Il dramma : rivista mensile di commedie di grande successo. - Torino : Grandi firme, 1925-1992.

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