L D A I MENSILE DELLO SPETTACOLO - ANNO LIV ■ N. 9-10 OTTOBRE-NOVEMBRE 1978 - Lire 2.500 M M R A JSyi' mSBà * o ° V i i V f é . o / V / ° / / W M O ^ V s / / / « TEA PARTY » di Harold Pinter P I N O T “ d e l l a R o c c a ” v i n o t i p i c o s p u m a n t e d a t a v o l a denom inazione d’origine controllata con le pregiate e tipiche Prodotto in quantità limitata uve Pinot dell’Oltrepò Pavese e distribuito da Casa Gancia solo presso i migliori ristoranti e negozi specializzati del settore MENSILE DELLO SPETTACOLO - ANNO LIV - N. 9-10 OTT.-NOV. 1978 - Lire 2.500 SO M M AR IO BRUNO D’ALESSANDRO DANTE CAPPELLETTI E BEATRICE SERANI ODOARDO BERTANI ANGELO LIBERTINI DANTE CAPPELLETTI CLAUDIO CAPITINI ROMEO DE’ BAGGIS HAROLD PINTER SIMONA FASULO E NICOLA FANO DANTE CAPPELLETTI ALBERTO TESTA GUIDO NASTASI IRENE FREDA PITT MARCO TESEI LUCIANO LUISI ROSARIO PORTALE UMBERTO BONETTI DANTE CAPPELLETTI 2 Una stagione senza sorprese 7 Teatro come un'avventura I premi IDI 1978 8 Speciale Prato 36 37 La tempesta di Strehler 41 Prosa recensioni (di O. Bertani, A. '47 54 Libertini, D. Cappelletti, N. Fano) II terribile potere della parola II Rassegna tro popolare internazionale del tea 56 L’ultima intervista a Luigi Vannucchi 58 Tre poesie e una commedia di Ha- rold Pinter 62 Tea party 76 Estate ’78 80 Pescara: Festa dell’Amicizia 81 Genova: Festival dell'Unità 82 Spoleto '78 - prosa 85 Spoleto '78 - danza 88 Lirica a Spoleto e a Verona 93 Danze estive a Parigi e Londra 96 99 Premio Flaiano '78 101 Qui Londra 109 Qui New York 117 Notiziario 119 Libri recensioni II 30° premio Italia per la TV Associato aM’unione Stampa Periodica Italiana Comitato di direzione: Odoardo Bertani, Diego Fabbri, Mario Guidotti, Maurizio Livera- ni, Ugo Ronfani. Direttore editoriale: Carlo Fuscagni. Condirettore editoriale: Angelo Libertini. Responsabile: Diego Fabbri. Segreteria: Anna Maria Menna, Renata Fabbri. 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Casciano (Forlì) Q u e s t'a n n o a te a tr o U n a s t a g i o n e s e n z a s o r p r e s e Da un esame ragionato dei programmi di stagione per l’annata teatrale 1978-79, si possono ricavare indicazioni ab bastanza precise per capire dove va il teatro di prosa in que sti anni e come il teatro intende comunicare con la di stratta, disorientata, e complessa società in crisi. Il panorama della stagione che sta per cominciare può avere diverse chiavi di lettura: crediamo però che, a parte qualche considerazione, sia preferibile innanzitutto lasciare che ciascuno legga, attraverso titoli ed autori, il teatro che gli sembra più facile da individuare. Cominceremo dai cartelloni dei Teatri Stabili, notando come la tendenza degli organismi più importanti del nostro teatro pubblico rimanga quella di affidarsi a produzioni che abbiano una vita articolata su più di una stagione, costi tuendo quel teatro di repertorio che certamente rappresen ta uno dei cardini di un’istituzione pubblica al servizio della cultura. Qualcuno ha scritto che i Teatri Stabili vivono di ren dita-. ma, se la rendita è veramente tale, ben vengano le proposte del Piccolo di Milano, dello Stabile di Torino, del Centro Teatrale Bresciano che appaiono, quest’anno, i Teatri Stabili meno ricchi di novità. Se prendiamo in esame il Piccolo di Milano, appare in tutta la sua evidenza che il cartellone di quest’anno è im postato sulla cosiddetta ripresa della « Tempesta » di Sha kespeare, spettacolo in realtà nuovo e presentato solo per poche recite nel giugno scorso, preceduto e seguito da un interesse che non si riscontrava ormai da anni anche per le produzioni dello stesso Strehler. Ma i programmi dello Stabile milanese comprendono anche « La scuola delle mogli » di Molière con la regia di Enrico D’Amato, già presentato l’anno scorso, l’eterno « Ar lecchino », ormai immancabile nelle stagioni italiane e stra niere del Piccolo, ed un « Aspettando Godot » che appare per ora l’unica novità in cartellone, non firmata da Strehler, che certamente però dovrà mettere in scena la produzione 1978-79 per la quale pensa o a Brecht o a Goldoni. Passando al Teatro Stabile di Genova ci accorgiamo che l’organismo diretto da Ivo Chiesa ha, dopo il trasferimento di Luigi Squarzina a Roma, sempre più puntato sul rifiuto del regista stabile per avvalersi, volta per volta, di colla borazioni preziose nella linea di un rinnovamento anche ge nerazionale attingendo alle forze migliori che si chiamano Luca Ronconi, Egisto Marcucci, Marco Parodi e Marco Sciaccaluga. Quest’anno lo Stabile di Genova presenta due atti unici di Schmitzler (« Pappagallo verde » e « La Contessine Mizzi » con regia di Luca Ronconi). Ci sarà ancora uno spettacolo di Cecov, composto da alcuni atti unici come « L’orso » e « L’anniversario » con regia di Sciaccaluga; un altro spettacolo composito da Achille Campanile affidato a Marco Parodi, e una commedia di Carlo Gozzi che vede il debutto con lo stabile genovese del giovane regista Egisto Marcucci, uomo di punta del Gruppo della Rocca e certa mente tra i talenti più interessanti della generazione dei nuovi registi del nostro teatro. A Torino spira aria di riprese: avendo compiuto uno degli sforzi massimi nella sua storia di ente produttore di spettacoli di grande livello nella stagione passata, quest’an no lo stabile Torinese si affida agli stessi « Zio Vania» di Cecov e « Verso Damasco » di Strindberg, cui si aggiunge « La Duchessa di Amalfi » di Webster, nato come spettaco lo estivo a Spoleto e confermatosi come l’ennesimo risul tato dell’eccellente momento di vena del nuovo direttore artistico dello Stabile di Torino, che è Mario Missiroli. Il Teatro di Roma riaffronta il progetto già annunciato lo scorso anno e rinviato per cause di forze maggiore, vale a dire quel « Terrore e miseria del terzo Reich » di Brecht, con regia di Luigi Squarzina, che rappresenta uno degli im pegni più interessanti dell’intera stagione degli Stabili. Ac canto a Brecht, viene annunciata una « Celestina » di Sastre, sempre con la regia di Squarzina. L’Emilia Romagna Teatro, in collaborazione con gli As sociati, mentre non rinuncia alla ripresa del « Commedio- ne » di Diego Fabbri, punta come novità di stagione su altri 2 grande autori: sono infatti previsti « Un sorso di terra » di Boll con regia di De Bosio e « I demoni » di Do- stojevskj con regia di Giancarlo Sbragia. È in gestazione an che « La tragedia della fanciulla », un testo elisabettiano af fidato ad Aldo Trionfo. Il Teatro Stabile dell’Aquila affida quasi interamente le sorti di questa stagione all’idea di fare « La Madre » di Luigi Pirandello; la Stoppa-Vaieri con « Gin Game » di Coburn e regia di Giorgio De Lullo; la Vannucci-De Fran- covich con « Esuli » di Joyce; la Valli-De Lullo con « li malato immaginario » di Molière e l’« Enrico IV » di Luigi Pirandello con regia di Giorgio De Lullo, cui si affianca la Compagnia Stabile del Teatro Eliseo che darà «Le femmi ne puntigliose » di Carlo Goldoni con la regia di Giuseppe Patroni Griffi e « La dodicesima notte » di Shakespeare; la Staccioli-Granata con « I giorni del sole » di Ciccolella; la Pambieri-Tanzi con « Il seduttore » di Diego Fabbri, re gia di Enrico Maria Salerno; la Ferrari-Ghione con « Dol ce intimità » di Coward. A questo primo elenco di progetti affidati alla cosiddet ta ditta ne facciamo seguire un secondo che in qualche modo porta alla ribalta l’attore solista ed alludiamo a Tino Buazzelli con « La bottega del caffè » di Carlo Goldoni; £ Salvo Randone con « Tutto per bene » di Luigi Pirandello; a Giuliano Vasilicò con « L’uomo senza qualità » di Roberi Musil; a Anna Proclemer con « Signorina Margherita » d: Duras; a Nino Taranto con « Un napoletano al di sopra d, ogni sospetto » di De Majo con regia di Gennaro Magliulo a Sarah Ferrati con « Gallina vecchia » di Augusto No velli; a Ugo Pagliai con la ripresa di « Anonimo Veneziano >: di Giuseppe Berto e « Don Giovanni torna dalla guerra >: Romolo Valli in « Enrico IV » di Pirandello (foto Le Pera) di Horvath con la regia di Roberto Guicciardini; a Luigi Proietti con « Gaetanaccio » di Luigi Magni; a Mario Scac cia con « L’avaro » di Molière; a Mario Maranzana con « Quasi un uomo » di G.C. Millet, « Anno Zero » di Siro Angeli ed uno spettacolo su Ruzante; a Nando Gazzo- l'o con un testo di Vincenzo Ziccarelli con la regia di Ales sandro Giupponi; a Carmelo Bene con « Otello » di Sha kespeare secondo Carmelo Bene; a Massimo Mollica con Brecht con Pupella Maggio, regia di Calenda; mentre lo Stabile di Bolzano ha diviso le tre produzioni nuove della stagione tra tre registi: per Fersen è prevista « Spudorata verità » di Peter Muller; per Augusto Zucchi l’« Adulato re » di Goldoni; per Taglioni l’« Elettra » di Hofmansthal. Il Teatro Stabile di Trieste, oltre alla commemorazione sveviana (« La coscienza di Zeno » con Renzo Montagnani e regia di Giraldi), ha nel proprio cartellone anche « La donna di garbo » di Carlo Goldoni, con regia di Francesco Macedonio. Il Centro Teatrale Bresciano La Loggetta riprende « La vita che ti diedi » di Luigi Pirandello con Valeria Moriconi e regia di Massimo Castri; prevede poi ancora di Piran dello « Così è se vi pare » ed una novità di Giuliano Scabia dal titolo « Fantastica visione ». Infine lo Stabile di Catania, con una programmazione molto articolata e, al solito, densa di proposte che ne ca ratterizzano la presenza in un territorio così culturalmente vivace come quello siciliano, presenta: « Dal tuo al mio » di Verga, una commedia con musiche di Tony Cucchiara — ispirata all’opera dei Pupi (novità) ed un lavoro di Betti (ancora da definire). I progetti delle compagnie private rispecchiano abba stanza diffusamente la linea di tendenza basata su scelte prudenziali, laddove a far pendere l’ago della bilancia sono soprattutto i grandi classici, i titoli in qualche modo già affermati o comunque il tentativo di riproporre spettacoli di qualche anno fa, in una sorta di generale remake, che si è visto funzionare assai bene l’anno scorso e l’anno prima ancora. La composizione delle compagnie è quasi sempre impo stata sulla classica ditta e così troviamo V Aldini-Del Prete con la ripresa de « La Bugiarda » di Diego Fabbri per la regia di Cobelli; la compagnia Gabriele Lavia-Ottavia Picco lo con « Il vero amico » di Goldoni e, « La marchesa Von O » di Kleist; la Brignone-Miserocchi con « I parenti terri bili » di Cocteau con la regia di Enriquez; la Tieri-Lojodice con « L’uomo, la bestia e la virtù » di Luigi Pirandello e « Le pillole d’Èrcole » di Hannequin e Billaut; la Lionello- Gravina-Orsini con « Tradimenti » di Harold Pinter, più un atto unico di Sacha Guitry e « Il piacere dell’onestà » di Una foto delle prove di « Terrore e Miseria del Terzo Reich » di Brecht. Tra gli altri: Luigi Squarzina, Adriana Asti e Ivo Garrani « La leggenda di Glauco » di Luigi Pirandello, a Massimo Foschi e Irene Papas con « Macbeth » di Shakespeare. Ancora nel quadro delle compagnie private si segnala no alcune formazioni di curiosa estrazione che rappresenta no dei nomi e delle proposte in qualche modo alla ricerca di verifiche e crediamo di poter includere in questo grup po le formazioni che fanno capo a Nino Castelnuovo-Mi- randa Martino-Gianni Nazzaro con una commedia musicale di Scaglia affidata alla regia di Lorenzo Salveti; e ancora pensiamo alla compagnia Steni-Pani che ripropone « Luv » di Schisgall già successo di Walter Chiari, Gianrico Tede schi, Franca Valeri; ad Arnaldo Ninchi con la novità ita liana di Casaretti « Prima del compimento » che presenterà insieme a Vittorio Sanipoli; a Diana Torrieri e Sergio Ve lati che intendono rappresentare « Colorati d’ombra » di Velitti e « Fedra » di Racine. Passando alle compagnie Cooperative innanzi tutto, vie ne confermata l’idea dell’abbandono quasi totale dell’auto re italiano contemporaneo, anche per le cooperative, l’in dirizzo è verso il porto sicuro dell’autore collaudato specie se classico e non italiano, che è stata la tendenza che ha imperversato nelle stagioni passate. Vediamo il dettaglio di quanto le Cooperative propon gono per la prossima stagione che, per disposizioni mini steriali, dovrà concludersi il 31 maggio 1979. Bruno Cirino con la cooperativa Teatroggi darà « Il dia volo ed il Buon Dio » di J.P. Sartre con regia di Aldo Trionfo ed una novità assoluta di Vincenzo Di Mattia dal titolo « I Confessori ». Giulio Bosetti accanto a « Non si sa come » di Luigi Pirandello mette in scena, sempre con Nada (nelle vesti ap punto della fanciulla del Pigmalione Bosetti), « Pigmalio- ne » di G.B. Shaw. Giancarlo Nanni mette in scena, sempre con la Kuster- mann, « Jean Harlow e Billy The Kid », di McClure. La Cooperativa dell’Atto si evidenzia fra le altre forma zioni dello stesso settore non solo per la scelta del « Matri monio » di Gogol, con Adriana Innocenti e Paola Bacci, ma anche per essersi assicurata la regia dell’astro nascente Giancarlo Sepe. Silvio Spaccesi continua con un testo di Guido Finn dal titolo « ...Lei ci crede al diavolo ” IN ” mutande » testo di vertente e di puro trattenimento. La Cooperativa di Parma riprende il « Gargantua » di Rabelais. Luca Ronconi con la sua Cooperativa del Tuscolano ri prende le « Baccanti » di Euripide con Marisa Fabbri, il « Calderon » di Pasolini e « La Torre» di Hofmansthal. La Cooperativa Teatro Libero, diretta da Armando Pu gliese, ha concordato con il Teatro Tenda di Piazza Man cini a Roma la messa in scena, nella linea del collaudato « Masaniello », di una novità di Elvio Porta: « L’opera dei morti di fame », premio Pirandello ’78. Luigi Sportelli, regista Ruggero Iacobbi, metterà in scena « Paludi » di Diego Fabbri, un testo che non veniva rap presentato dal 1942. La cooperativa Nuova Scena di Franceschi ha scelto il « Tartufo » di Molière, mentre Carlo Cecchi riprende sia il « Borghese gentiluomo » sempre di Molière, che il « Don Giovanni ». Il Teatro Popolare di Roma diretto da Maurizio Sca parro gioca sul « Giulio Cesare » di Shakespeare con Pino Micol, Renzo Giovampietro e Gigi Diberti. Franco Parenti alternerà all’« Ivanov » di Cecov, « La Palla al piede » di Feydeau. Il Gruppo della Rocca, oltre al « Suicida » di Erdman, è una fra le poche cooperative, che darà una novità italia na: si tratta di « Esercizi spirituali » di Renzo Rosso. In cartellone anche la ripresa di « Aspettando Godot » di Beckett. La Cooperativa ATA con Carlo Alighiero ed Elena Cot ta si rivolge a Shakespeare con « Pene d’amor perdute » con la regia di Marco Parodi. Mentre la Ringhiera di Franco Molò metterà in scena « Caravaggio » dello stesso Molè con Martine Brochard. La Cooperativa di Costantino Carrozza ha un testo ita liano dal titolo « Catilina » di Negri. Francesca Benedetti con Philippe Leroy continuerà il discorso di collaborazione con la regione Marche che aveva caratterizzato la Cooperativa Teatro in aria. Allo studio. « Un tram che si chiama desiderio » di Tennesse Williams. La Cooperativa Attori e Tecnici ha in calendario una « Giovanna d’Arco » di Voltaire, una « Stordita » di Gol- doni e la ripresa di « Intrichi d’amore » di Torquato Tasso. La Cooperativa Teatro in Trastevere riprende « Classe di Ferro » di Aldo Nicolaj ed una novità dello stesso Nico la; dal titolo « Esperimento Collettivo ». La Cooperativa Club Rigorista ha deciso per « Uscita 24 » di Anna Maria Borgonovo. La Cooperativa G. Belli, che quest’anno sarà diretta da Antonio Salines e José Quaglio, con « Il supermaschio » di Alfred Jarry, con la regia di Salines, riprende il discorso in terrotto lo scorso anno. Mentre la Cooperativa Ora Zero, con Mario Valdemarin e Paola Dapino, propone un testo novità di Roberto Maz- zucco. Veniamo, finalmente, agli Sperimentali di cui al mo mento conosciamo pochi programmi. Memè Periini dopo aver ripreso « Risveglio di prima vera » ha in progetto « Komike » dello stesso Periini, una curiosità assoluta sul mondo dei guitti dell’avanspettacolo che dovrebbe rappresentare una piccola bomba nel settore del teatro di ricerca. Leo e Perla con « Avita muri » e Carlo Quartucci che si impegna su « Nora Helmer » da « Casa di bambola » di Ibsen, sono altri due nomi certamente in lizza nei program mi 78-79. I Meta Virtuali hanno scelto « Re » di Nello Saito. La compagnia il Teatro Evento con « Il giorno che al Pieve arrivò un cinese » di Sergio Gaiessi. Il Teatro Nuova Edizione darà « Freud e il caso di Dora » di Luigi Gozzi. In attesa di conoscere gli altri programmi degli speri mentali chiudiamo la rassegna con gli spettacoli musicali. Il vecchio e simpatico Macario ha rispolverato Marisa Del Frate e presenta « Il coniglio » di Novelli. Poi c’è Alighiero Noschese che ha intenzione di fare compagnia con Minnie Minoprio; e Walter Chiari, che, co me già si è letto da molte parti, si è definitivamente incon trato con Ivana Monti e presenta « Hai mai provato nel l’acqua calda » di Paolo Mosca. Ci saranno anche due spettacoli « nudi »: « Maquilla ge » con il corpo di ballo del Crazy Horse di Parigi, e «Love and Life » del tipo « Oh! Calcutta ». Includiamo anche in questo quadro, per ultimo, lo spettacolo di Garinei e Giovannini imperniato sullo straor dinario Gino Bramieri, sulla bravissima Valeria Valeri e sulla splendida Paola Tedesco che riprendono « Anche i bancari hanno un’anima », di Terzoli e Vaime, spettacolo in qualche modo musicale e soprattutto di grande successo la scorsa stagione ed altrettanto ne troverà quest’anno. Poi c’è « Rugantino » di Garinei e Giovannini con Enrico Mon te sano, che terrà cartello al Sistina di Roma. Come si vede, ci sono molte iniziative e il primo rilie vo è consolante: « anche quest’anno faremo teatro ed è quello che conta », diceva pochi giorni fa un appassionato operatore del settore. Pochi sono gli autori italiani e pochis simi i nuovi. Poche, in generale, le novità, italiane o stra niere che siano. Un’annata d’attesa? Aspettiamo che si alzi il sipario per giudicare. Bruno D’Alessandro « Verso Damasco » di Strindberg (foto Marcello Norberth) " B l a n c d e B l a n c s ” P r i n c i p e d i P i e m o n t e . L o s p u m a n t e f a t t o s o l o c o n u v e b i a n c h e . E c c o p e r c h é è c o s i d i v e r s o . D i v e r s o . S e c c o . L e g g e r o . P r o f u m a t o . R a f f i n a t o . P e r c h é f a t t o s o l o c o n u v e P i n o t b i a n c h e c o l t e i n u n n u o c i s o m o m e n t o d e l l a m a t u r a z i o n e . C i n z a n o p e r n o n s b a g l i a r e . T e a tr o c o m e u n 'a v v e n tu r a P o c h e c e r t e z z e m o l t i d o v e r i La prima sensazione che si ha nell’esaminare i proget ti di attività 1978-1979, e nell’intuire i costi relativi, è che quello teatrale è un mondo di schizofrenici. Totale divaricazione dalla realtà, se è vero, come è vero, che alle compagnie teatrali diversamente etichettate (stabili, cooperative, teatro privato ecc.) non sono stati assegnati i contributi finali 77-78 per carenza di fondi. Certo, l’ennesimo provvedimento finanziario in corso di gestazione tamponerà alla meno peggio questa situazio ne. Ma quando? e su quali presupposti e con quali cer tezze finanziarie, gli operatori teatrali, questi « cavalieri dell’avventura », hanno potuto impostare i progetti 78-79? Il fatto è che il teatro è quasi per intero ancora co stretto ad essere vissuto come un’avventura. Poche certezze, molti doveri e molte sollecitazioni per la socialcultura-impe- gnata. Ma pochi fondi, specie se paragonati a quelli in vestiti in altri settori dello spettacolo, o dell’economia nazionale. Pure, dall’anno teatrale 77-78 sono emersi segnali e indicazioni di fondo più o meno evidenti che fortunata mente confermano essere il teatro di prosa sempre in anticipo sulla realtà codificata (e questo è ovvio) e codi ficabile (e questo è l’interessante). Così si è parlato sempre più di teatro pubblico e di teatro privato, come modi di essere « istituzionali » che nel proprio interno possono anche rivelare eterogenee componenti. I convegni di Iseo e de L’Aquila hanno fortemente riportato all’attenzione il teatro pubblico ed il suo ruolo. Non è un caso che queste iniziative siano nate con l’am pliamento dell’area del settore. Ma, attenzione! I documenti sono ottima cosa, purché ne siano realizzate le enunciazioni. Bisogna uscire dal generico per andare al concreto, che, per il teatro pubblico, significa parlare subito della preannunciata politica dei bilanci. A quando? Che dispo nibilità reali si sono manifestate in questa direzione? Come si conciliano cristallizzate esigenze di prestigio — locali e nazionali — con il necessario contenimento dei costi? Sono domande che attendono risposte, non da questo o quel teatro stabile ma da tutto l’insieme del settore. Nel teatro ad iniziativa privata, sono in atto una serie di processi, di chiarimenti che possono portare a risultati importanti. Ci si è finalmente e definitivamente ricordati — o accorti — che la cooperativa è una « società » rego lamentata dal Codice Civile che vi si riferisce come « im presa cooperativa ». Il primo requisito di un’impresa è quella... di essere tale. Senza fini di lucro, in questo caso, per il noto principio della mutualità ma, con alla base, un’organizzazione aziendale necessariamente seria, relazio nata e dimensionata ai fini che si intendono raggiungere. La cooperativa teatrale ha un futuro solo se ha una struttura aziendale solida, e, ovviamente, fa dei discorsi culturali interessanti. Quali non deve importare, fortuna tamente continuando a sussistere nel nostro Paese libertà di espressione. I figli del ’68 sono cresciuti e si sono ac corti che l’operatore culturale non può continuare ad essere tutto-insieme, anche appassionatamente, regista, au tore, attore, organizzatore, e, magari, tecnico. Non sono più i tempi per ammantare sotto una veste pseudo-collet tivistica velleitarismi individuali (autori, interpreti, registi) o di presumere che un nome possa ovviare ad una struttura aziendale che non esiste, e che alle prime difficoltà rivela il niente che c’è dietro. L’altra componente del teatro privato, quello ad ini ziativa capocomicale, singola o societaria, sta prendendo coscienza del ruolo che le compete. L’intervento al conve gno di Riccione del giugno scorso ha certamente sorpreso per il taglio « politico » delle affermazioni, per una visione del futuro che non è più certamente solo quella della logica del botteghino. Le posizioni espresse nella sede ricordata da Lucio Ardenzi a nome dell’impresariato privato sono molto simili a quelle delle cooperative. Con tutte le possibili differen ziazioni operative, si individua quindi, nei fatti, la possi bilità di una strategia comune nell’ambito del teatro privato. Questa linea avrà tante più possibilità di affermazio ne, quanto più all’interno della situazione impresariale si saranno chiariti i termini di intervento dello Stato o de gli enti locali. Molte iniziative del teatro impresariale han no le caratteristiche di un rischio « commerciale ». Uno spettacolo è fatto anche per girare, incassare, produrre utili. Ma quando, con i contributi statali, l’utile diviene speculazione il discorso non quadra più. Anche nel teatro impresariale una serie di operazioni passano poi a « riscuo tere » nel nome della « libertà » dell’iniziativa privata. Così come per il teatro pubblico l’etichetta non deve giu stificare niente a priori; anche per i complessi impresariali e le cooperative la libertà, come in tutte le democrazie, ha un limite. Quello dell’interesse collettivo che, per ta lune iniziative dei complessi impresariali, può comportare aiuti solo per l’attuazione di condizioni oggettive di attività (teatri a disposizione) senza i quali viene a sparire l’ele mento « rischio », che è componente essenziale della « li bertà » di agire. Il Dramma K? « f i l i * . l l < « ll J T T r a p o l e m i c h e e r i c e r c a II Laboratorio teatrale di Prato è nato come esperimento sulla comunicazione scenica. Parte da un presupposto cul turale di ricerca per mettere a fuoco alcuni momenti del fare teatro. Questo tipo di ipotesi è stata perseguita da tempo da Ronconi, ma anche da altri registi e operatori cul turali. L’insediarsi per due anni in una città ha voluto si gnificare la creazione di un rapporto tra teatro e ambiente. Ovviamente questo tipo di dinamica non si pone immedia tamente; tanto meno si può supporre che intervento sul ter ritorio possa significare impostare un lavoro di « animazio ne » e rapido coinvolgimento — apportato dall’esterno — nei confronti della realtà locale. Ogni ambito culturale ha le sue leggi, i suoi tempi di sviluppo, le proprie possibilità di crescita. Ronconi non si è posto, insieme al suo gruppo di settanta persone, in una posizione di mago, venuto “da fuori ” a portare il verbo del teatro. Ha voluto inserire il suo lavoro all’interno del quadro culturale oggettivo di una città. Ne sono nati spettacoli, come Le Baccanti e La Torre, che non si spiegherebbero al di fuori di quel contesto. Si tratta di lavori che potranno avere anche una possibilità di misura con un pubblico diverso da quello pratese e con luoghi diversi, ma non si capirebbero, per ora, al di fuori della realtà di quella città. Non si tratta di difendere il la voro del Laboratorio. La cosa più importante è spiegarne il significato e la portata. Quest’ultima, ad esempio, non è, nei suoi dati apparenti, molto eclatante, perché si precisa in una scala che, quantitativamente, è molto ridotta. Un dato, questo, che ha portato — e ancora porta — a molti travi samenti e polemiche, motivate o meno. In questo servizio sul Laboratorio di Prato è stata data la parola ai protago nisti perché ripercorressero la dinamica attraverso cui si è sviluppata, nel corso dei due anni, l’esperienza pratese. Per ora lasciamo da parte le polemiche e cerchiamo di vedere alcuni significati di un episodio tra i più importanti della nostra vita teatrale. Non occorre dire bravo a nessuno, quan to porre alcuni dei protagonisti di fronte a una serie di que siti e di necessarie riflessioni. Istituto Magnolfi: messa in scena per « Le Baccanti » di Euripide (foto Bencini) La p a r o la a i p r o ta g o n is ti LUCA RONCONI Luca Ronconi nasce a Susa, in Tunisia, l’8 marzo del 1933. Rientrato in Italia fa studi irregolari e, ad otto anni, concluse le elementari, viene mandato in collegio a Basilea dove studia francese e tedesco. Iniziata la guerra torna in Italia e a Roma presa la licenza liceale al Tasso, s’iscrive per desiderio della madre a Giurisprudenza. Già a 15 anni le numerose letture di Molière, Goldoni, Ibsen gli avevano fatto intuire quale sarebbe stata la sua strada. Così, paral lelamente all’ilniversità, frequenta l'Accademia Nazionale e, eccezionalmente, dopo soli due anni sui tre previsti, si diploma. A vent'anni, nel 1953, debutta con successo come attore in « Tre quarti di luna » di Squarzina con la regia del l'autore e di Gassman, che ne è anc’ne l'interprete. Proprio Squarzina lo aveva scoperto e voluto nel suo lavoro. Nei dieci anni successivi lavora con nomi affermati e presti giosi come la Compagnia De Lullo - Falk - Guarnieri - Valli, poi col Piccolo di Milano, e sempre con discreto successo. Nel '63 esordisce alla regia con un gruppo di attori-amici: Carla Gravina, Maria Occhini, Corrado Pani, Gianmaria Volontà, con i quali aveva in previsione la mes sa in scena de « La Cimice » di Majakovskij che non trova finanziatori. Così al Valle debutta con loro in un collage dal titolo « La buona moglie » di Goldoni, in cui era com presa anche « La putta onorata ». Incertezze, riflessioni, progetti e pochi successi se gnano gli anni successivi, fino al ’65-'66, quando scoppia la crisi del teatro detto « tradizionale » e si affaccia anche in Italia l’esperienza internazionale del Living Theatre. È la nascita delle cantine, degli sperimentali e delle discussio ni. Anche Ronconi, nel novembre del '66, è tra i firmatari di un manifesto in cui si afferma la certezza « che ci si possa servire del teatro per insinuare dei dubbi, per rompere delle prospettive, per togliere delle maschere, mettere in moto qualche pensiero ». Nell’agosto del '66 propone se condo queste teorie « I lunatici » di Thomas Middleton e William Rowley. Ma è nel '68 con l’« Orlando Furioso » che esplode internazionalmente il « fenomeno » Ronconi. A Parigi alle stisce, ìn armonia con il nuovo concetto di spazio, la casa lignea di « XX » e sul lago di Zurigo nel '72 presenta « Das Kàthchen von Heillbronn » di Heinrich von Kleist. Ancora nello stesso anno a Belgrado, al Filmskijgrad Atelier, rap presenta l'« Orestea » che riscuote il favore della critica internazionale, mentre in Italia non trova spazi di rappre sentazione. Torna così a lavorare per il Burgtheater di Vienna e a Parigi. A Berlino mette in scena intanto l'opera di Cari Maria von Weber « Oberon » e all'Odeon di Parigi « Il Barbiere di Siviglia » di Rossini. Per il Maggio Musicale Fiorentino alle stisce anche « Il Nabucco » e « Il Trovatore » di Verdi. Nel '77, per lo Stabile di Genova, firma la regia de « L'anitra selvatica » di Ibsen. Regie Teatrali '65 « Il nemico di se stesso » di Terenzio '66 « Comedia degli straccioni » di Annibai Caro '67 « Misura per misura » di William Shakespeare '68 « Riccardo Mi » di William Shakespeare « Lucrezia?... » di Jean Giraudoux « Candelaio » di Giordano Bruno « Le mutande » di Cari Sternheim « Orlando Furioso » di Ludovico Ariosto '69 « Fedra » di Seneca '70 « La tragedia del vendicatore » di Cyril Tourneur '71 « XX » Atelier sperimentale internazionale animato e diretto da Ronconi. Testo: « La Roue » di R. J. Wilcock '72 « La Centaura » di Giovan Battisti Andreini '73 « La partita a scacchi » di Middleton '74 « Le Baccanti » di Euripide '75. «■ Gli Uccelli » di Aristofane so », nel '75 la regia de « La Bettina » da Goldoni. Da ricordare per la televisione oltre all'« Orlando Furio U o n ’ o s t i n p a e r a z i o n e t a m e n t e p r o v o c a t o r i a Come è nata l’idea del Laboratorio teatrale di Pra to? A Prato erano già stati realizzati due spettacoli in precedenza, spettacoli che hanno significato molto nel mio lavoro registico: YOrestea e Utopia. Quando l’amministrazione comunale della città ha proposto lo svolgimento di un’attività teatrale, ho pensato ad un laboratorio di ricerca. Sviluppare un lavoro all’interno dei canoni tradizionali lo trovavo poco significativo: in fondo questo compito lo assolve già il Metastasio. Nel nostro teatro esistono molte persone di talento: rap presentano un momento di forza della scena italiana che va coagulata in maniera organica. Uno studio e un approfondimento del modo di comunicare attraverso il teatro mi sembrava il discorso più urgente e interes sante. Quali sono le linee di lavoro che hai seguito? Ho cercato di mettere a fuoco dei temi e dei momenti costitutivi della drammaturgia: che cos’è un personaggio, cosa vuol dire rappresentazione, e per le sue caratteristiche originarie, e per quello che è venuta ad assorbire durante il corso della storia fino ad oggi; in che cosa consista il rapporto che un attore viene ad assumere col personaggio e se questo è determinante, — e allora in che modo — nei confronti della scena... Come vedi, sono interrogativi abbastanza fondamentali, addirittura generali, ma stanno alla base di qualsiasi lavoro organico nei confronti del teatro nel momento in cui si vuole approfondirne e chiarirne la natura e la sua portata. Oltre a questi motivi, legati ad una meto dologia di tipo strutturale, vi sono stati altri progetti di analisi e di verifica: per esempio il problema della identità, intesa come autoriconoscimento, da studiare e approfondire in testi e contesti diversi. È difficile rias sumere in due parole un lavoro che ha avuto sfaccetta ture e momenti di sviluppo diversi, articolati. Mi pare di aver capito che, tra le altre cose, hai voluto seguire un filo tematico unitario-, ricapitolare, attraverso alcuni modelli particolarmente significativi, le tappe di sviluppo della cultura cristiana. Certo, c’è anche questo. Il rapporto con la figura divina è una delle componenti oggettive dei quattro testi, Le Laccanti, La vita è sogno, Calderon, La Torre. Ma il Laboratorio non si è certo caratterizzato per questo. La scelta dei lavori drammaturgici non è stata strumentale ai contenuti. Mi interessava molto di più vedere la presenza di un momento tematico di un’ope ra in un’altra, il suo livello di mediazione, la trasfor mazione e così via. Un altro grande punto è stato quello della messa in discussione del ruolo dell’attore: non è detto che debba fare i conti solo o soprattutto col personaggio: la sua dimensione può essere allarga ta, portata ad altri livelli, magari anche più esaltanti. Questa direzione ha caratterizzato il lavoro per Le Laccanti, e non solo. Credo che il momento della ricerca, espresso con Le Baccanti, abbia dato dei risultati particolarmente com piuti, non solo a livello di comunicazione teatrale, ma anche a quello più direttamente espressivo. È uno spettacolo che avevo già realizzato cinque anni fa, a Vienna, in forma assai diversa. Allora mi interessava il criterio della rappresentazione come mo mento ultimo e forma compiuta da raggiungere. Da un certo punto di vista, l ’edizione di Prato viene in ri sposta a quella viennese. Allora avevo sperimentato l’impossibilità a rappresentare la tragedia greca nel quadro di uno spazio teatrale borghese. Che valore dai all’attore? Chi poi fa lo spettacolo, è l’attore. Mi è sembrato, però, che in alcuni casi il valore della presenza dell’attore debba entrare in profonda dialettica con quello dell’oggetto: c’è una forma di simbiosi, addirittura, oggetto-attore, o viceversa. Questo può accadere in uno spettacolo come Le Laccanti e con la presenza di un’attrice come Marisa Fabbri. Ma non è una regola. Quel tipo di risultato è nato da un lavoro con l’interprete. Insieme abbiamo compiuto un itinerario che ci ha portato a certe con- vinzioni e precisi punti di arrivo. Sono convinto che, se avessi lavorato con un’altra attrice, con una diversa personalità e sensibilità, avrei raggiunto risultati diffe renti; non voglio dire né peggiori né migliori, soltanto differenti. Di questo ne sono certo. Ma insomma, come lavori sugli attori? Dipende. Io non saprei esporre alcuna regola, alcun metodo. E forse non mi ha mai interessato: non credo di averci mai pensato. Una cosa è certa: ogni attore ha una sua personalità, un suo modo di essere, privato ed esistenziale; ha un suo gusto: sono dati da cui non si può prescindere. Io sento sempre che lavoro con per sone differenti e che devo rispettare, prima di tutto, la loro natura e la loro dimensione umana. Poi esiste un altro discorso abbastanza fondamentale. In ogni rap presentazione, a contatto, quindi, con un autore parti colare, si richiede un diverso tipo di consapevolezza. Ne Le Baccanti, ad esempio, si presuppone un rappor to col testo molto diverso da quello che si richiede nel Calderon. In quest’ultimo caso, l’attore deve raggiun gere la coscienza di trovarsi di fronte ad una scrittura retorica, con tutta la sua apparente aridità e ricchezza « Le Baccanti » di Euripide contenutistica. L’attore, si pone di fronte al gioco delle macchine e ne trae un atteggiamento dialettico. Ne Le Baccanti era fondamentale, invece, la coscienza che il problema della comunicazione, come categoria espressi va di fondo, era alla radice di tutta l’operazione. Ecco: sono queste condizioni che connotano il lavoro con e sugli attori, lavoro che ha una sua costante mutevole e che si caratterizza in modo diverso a secondo dei casi. Tu hai scelto dei testi che, in qualche modo, nega no la rappresentazione. Dei testi antiteatrali. Non credo che si possa dire che un testo è teatrale o antiteatrale-, non esistono le condizioni culturali e sceniche per proporre questa forma di distinzione. E- siste, eventualmente, il valore di un testo. In altri momenti della nostra storia, nel periodo elisabettiano ad esempio, vi erano dei codici precisi che definivano la teatralità. Oggi non è così. Un testo di Shakespeare o di Ibsen è teatrale, ma secondo quale idea di teatro? Come vedi, siamo di fronte a un problema che esige profonda attenzione e che ci deve assolutamente far riflettere sull’idea che possiamo avere di teatro. In ogni caso, credo che tu provi un certo fascino per la non-rappresèntabilità. Intendo dire-, esiste un teatro che, convenzionalmente, intendiamo legato alle forme sceniche, magari usuali, di rappresentabilità. Al contrario vi sono degli episodi della nostra cultura che difficilmente si legano ai modelli convenzionali del nostro teatro. Nelle tue scelte mi pare ci sia una preferenza per il secondo caso. La tragedia greca, con la mediazione post-rinasci- mentale o il recupero pseudo-filologico, risulta lontana e negatrice della scena, almeno come la possiamo in tendere oggi. Ogni testo, però, ha in sé, quando ha raggiunto una sua compiutezza, una possibilità di rap presentazione. Allora tu concepisci un teatro nella sua possibile resa scenica, indipendentemente dalla intenzionalità e dallo specifico per cui l’ha concepito un autore. Non ho detto questo. È ovvio che ogni autore concepisce uno spettacolo nelle forme di rappresenta zione che conosce. Milton magari non pensa di scrivere per il teatro, per quel teatro per cui Ibsen ha scritto Casa di bambola. Ci sono delle condizioni drammatur giche che ancora ci riguardano, e sono vicine alle convenzioni che ancora oggi noi abbiamo assunto. Al lora stabiliamo che gli autori, che ancora sono all’inter no di quelle condizioni, sono autori rappresentabili. Esistono, tuttavia, aspetti del teatro che non ci riguar dano più al livello comunicativo. È il caso, tanto per scendere sul concreto, della tragedia greca. Come si fa, allora, a stabilire l’origine di un modello rappresen tativo, di un cerimoniale, di un’intenzione che non ci appartiene più? Evidentemente si dovranno compiere altre operazioni, cambiare atteggiamento e ricostruire una nuova coordinata, per quanto ci è possibile, di una forma comunicativa teatrale. Allora tu affermi questo : occorre cercare nei testi la rappresentabilità, anche se non era implicita al mo mento della scrittura; occorre ricavare, quando è pos sibile, la dimensione scenica in rapporto ad un modello nuovo, o rinnovato, di comunicazione teatrale. Generalmente si pensa che il teatro si rinnovi at traverso la scelta dei contenuti: si estrapolano dei momenti tematici e poi si mettono in rapporto ad una immutata concezione scenica. Allora si potrebbe fare Le Laccanti con sottintesi riferimenti a personaggi e problemi a noi contemporanei. Ma, secondo me, questo indirizzo non è interessante; comunque è una conce zione di teatro che non mi riguarda. Quanti sono in Italia a fare un lavoro sulla comu nicazione teatrale? Non lo so. Non credo di essere l ’unico, comunque. In tutti i casi non è un problema che deve riguardare me. Una delle accuse che ti viene mossa è che il Labo ratorio di Prato è appannaggio di pochi eletti. I pochi che hanno assistito a Le Laccanti sono oltre duemila persone: lo spettacolo ha fatto già sei mesi di repliche e, se l’esperimento di Prato continua, si replicherà ancora per un anno e mezzo. Bisognerebbe stabilire se gli spettatori erano davvero degli eletti e perché, eventualmente, lo erano. Io credo che un rap porto vero con gli spettatori non si raggiunga attraver so la quantità. Mi pare molto più serio fare uno spettacolo con un numero di persone che, poi, hanno la possibilità di discuterlo, di assorbirlo attraverso una fruizione selettiva e non di massa. La penetrazione di nuovi modelli culturali si opera attraverso il tempo e non può addursi al criterio dell’immediatezza. Occorre ridare all’individuo un rapporto più umano con la realtà; recuperare un atteggiamento di difesa e di co scienza di fronte a quanto avviene intorno a noi; combattere la passività a cui ci costringe tutta l’indu stria culturale. II Laboratorio di Prato non ha voluto essere un modello. Nasce in una città di duecentomila abitanti, con carenze peculiari e con una tradizione particolare. Non succede mica che a Prato la gente senta il bisogno istintivo di andare a teatro; la nostra presenza, infatti, è stata di tipo conflittuale, ha voluto servire da stimo lo. A volte ce una strana concomitanza tra l’agire teatrale e quello sociale: nel mio caso è successo che la difficoltà di rapporto avuta con un testo come Le Baccanti si è riverberata non solo nel modello espressi vo compiuto, ma ha interessato anche momenti e a- spetti di natura sociale e sociologica, come il confronto con il territorio. Ma sono contento che il mio inquieto approccio al testo euripideo abbia portato ad una in quietudine nella fruizione dello spettacolo. Credo infat ti che prendendo in mano una tragedia greca non si possa fare altrimenti che scoprire i motivi della sua lontananza che, inesorabilmente, ci appartengono. Ma « Le Baccanti » una volta che hai compiuto questa specie di viaggio puoi anche dire: ora lasciamo perdere le tragedie gre che e facciamo dei dibattiti giornalistici. E non è una forma di catarsi: è molto di più. Le accuse e le polemiche sul Laboratorio sono nate anche perché la nostra è stata un’operazione ostinata- mente provocatoria. Si è sempre teso a mantenere una precisa fisionomia e a rigettare i travisamenti che si sono tentati di fare. Non abbiamo pensato di dimostra re che da domani il teatro deve essere concepito e realizzato per ventiquattro persone. Dalla nostra espe rienza si può dedurre, invece, che ci possono essere tanti tipi di teatro per quanti sono i testi, tanti tipi di teatro per quante sono le persone e così via. Alcuni hanno detto: è giusto che un esperimento debba costare un miliardo? Io posso rispondere in termini di produzione. In due anni, e con molto meno di un miliardo, abbiamo fatto cinque spettacoli teatrali e due film (uno di Jancso e uno per la televisione). Il costo reale si aggira sui seicento milioni. Hanno lavorato al Laboratorio 70 persone e, bene o male, le rappresentazioni fatte am- nostra vita professionale, tuttavia sarà una di quelle tante incongruenze che siamo soliti vedere nel nostro paese. Ti piacerebbe se il Laboratorio diventasse una struttura di ricerca teatrale permanente? Questo Laboratorio si identifica con un programma e non con una istituzione. Il Laboratorio ha un senso finché ha un programma che è attivo e operante, che ha la possibilità di essere discusso mentre si mettono in moto, parallelamente, tutta una serie di altre inizia tive. Forse se diventasse una struttura permanente po trebbe perdere la carica che deve avere in quanto laboratorio. Non lo so esattamente, ma credo che sa rebbe così. Personalmente credo che ognuno di noi dovrebbe portare dentro di sé l’idea e la pratica del laboratorio. Nel mio lavoro di regista mi sono sempre riconosciuto in una attività da laboratorio, che non è cessata mai e ogni volta è ricominciata daccapo. Vorrei parlare ora degli spettacoli. Nel Calderon mi pare che tu abbia compiuto un lavoro teso a dare peso essenzialmente all’immagine. Ma questo succedeva anche ne Le Laccanti. Ne Le baccanti, però, la fabula veniva schiacciata dal modello comunicativo scelto : la presenza di una voce unica. Da quel modello dipendeva il sotterraneo viaggio nell’inconscio. In Calderon l ’apparenza è fer mata, vuole diventare quasi un momento tangibile : l’immagine diventa oggetto palpabile (vedi « la disce sa » de Las meninas), riflessione, essa stessa sul teatro. Nel testo di Pasolini c’è una continuità tutta appa rente nello svolgersi dei tre sogni. La struttura di Calderon si apre con un sogno e si chiude con un altro sogno, che sancisce l’impossibilità della fuga. Tra que sta architettura drammaturgica e la sua scrittura c’è, però, una profonda frattura: l’impalcatura teatrale vie ne soverchiata dal modello letterario. Ti faccio un esempio: nella scena interpretata da Edmonda Aldini e Giancarlo Prati, seguendo il testo, si tratterebbe semplicemente di un episodio relativo al rapporto tra una puttana e un ragazzo. Questo, secondo l’intenzione drammaturgica. Il modo con cui l ’episodio è scritto, però, ti mostra che la puttana è una donna e il ragazzo è qualcosa di più indefinito: è il rapporto Donna-Ado lescenza. Tra il parlato e lo schema, quindi, non c’è corrispondenza. Tutto il lavoro è stato compiuto te nendo presente la predisposizione architettonica del testo e il momento del soliloquio. C’è poi un altro dato: la retoricità del lavoro. Quello che viene detto non corrisponde ad una realtà storica. Pasolini si rife risce al ’68, ma in modo autobiografico, senza voler compiere delle precise analisi su quel momento: lo interessava il fatto personale, l’espressione del proprio giudizio. Si tratta di una serie di riflessioni concettuali che si dissociano, forse anche inconsciamente, dal quadro di riferimento enunciato. Le stesse realtà che « La Torre » di Hofmannsthal montano a 130. L’Istituto Magnolfi è stato restituito alla città di Prato, insieme al Fabbricone: si tratta di due imponenti spazi utilizzabili per il teatro o altre attività culturali. Il pubblico complessivo non lo co nosco in termini di cifre; in ogni caso non si tratta di gruppi di raffinati intellettuali o privilegiati consorzia ti. Chi attacca l’esperienza di Prato usa delle unità di misura per compiere valutazioni che sono estranee ad una corretta considerazione della cultura come bene sociale e strumento di avanzamento e progresso civile. Si fanno delle valutazioni-peso senza ricordare tutto il resto. Io non voglio scendere sul piano delle polemi che: non mi interessa. E poi credo che non tutto quello che è stato aspra critica sia realmente costrutti vo. Certo, la logica seguita dal Laboratorio non è la stessa che segue l’industria culturale: bisogna vedere, però, qual’è la più giusta. Una cosa avevo dimenticato: ognuno di noi ha lavorato percependo i minimi sinda cali: nessuno si è messo in tasca un centesimo. Tra l’altro, Le Laccanti, con le sue ventiquattro persone spettatrici, si è mantenuto con gli incassi, nel corso dei sei mesi di rappresentazione. In conclusione, credo che chiudere il Laboratorio sarebbe una folle sciocchezza. Non sarà la fine della l’autore esprime sono dei fantasmi, delle fole che inva dono, prima di tutto, lo spirito soggettivo, non i ter mini di un mondo oggettivo realmente esistente. La borghesia pasoliniana è un termine generico per defini re un bersaglio: il bersaglio è chiamato borghesia, ma questa non definisce più una classe sociale. Allora tu non sei d’accordo con la visione pasoli niana dell’omologazione culturale delle classi popolari nell’area del mondo e del modo di essere borghesi? Non è questo: quel concetto è tanto attendibile da apparire, oggi, addirittura ovvio. È il modo passionale con cui Pasolini afferma quel tipo di problema che non può essere più adottato. L’analisi pasoliniana, in quan to compiuta all’insegna di un profondo coinvolgimento personale, esclude uno spessore storico ai diversi pro blemi, tanto che tutto volge verso una sorta irreversi bile di apocalisse. Intendiamoci: i personaggi di Calde- ron hanno sempre diritto di cittadinanza nel nostro panorama culturale, ma sono dei fantasmi. A volte sen ti, comunque, che l’autore vuole caparbiamente propor li come realtà. Questo non può essere accettato. Come mai hai fatto interpretare il ruolo di Rosaura a tre diverse attrici? Il cambiamento dei ruoli avviene spesso nella mes sinscena di Calderon. È arbitraria la scelta che ho fatto di rompere la continuità del personaggio, come è arbi traria la divisione in personaggi che ha compiuto Paso lini. Tutta l’opera è divisa in tante parti, in diversi momenti rappresentativi: in realtà non esistono perso naggi. Basilio, Luca, rappresentano diversi aspetti e volti di una verità, di un problema. Il testo è auto- biografico e strutturalmente composto di parti che si interrogano tra di loro; di termini in conflitto per potersi dare delle impossibili risposte. Mi è sembrato di avvertire un momento di debo lezza tra le pieghe delle ultime due scene. Mentre il primo e il secondo atto avevano una forza rappresenta tiva rara. Penso a tutta la prima scena e a quella — vero gioiello teatrale: un pezzo di antologia — deh secondo atto con l’Aldini e Prati. Questi dislivelli, in Calderon, a cosa sono dovuti? Il testo, nelle ultime scene, è troppo dichiarativo. « Calderon » di P.P. Pasolini Perché negli ultimi due atti ci sono delle incertez ze nella realizzazione? Se tu hai rilevato delle incertezze io potrei spiegar le in molti modi. Mi pare, comunque, che alla base di questa eventuale carenza esista anche una precisa in congruenza del testo: La Torre parla di un conflitto insanabile, e questo lo vediamo chiaramente fino al terzo atto. Nel quarto e quinto atto, l ’autore cerca di dare una soluzione a degli estremi inconciliabili. Nel terzo atto viene espresso l’apice delle misure conflittua li, poi vi è come una parabola discendente, che è una specie di caduta sulla terra: i sogni acquistano un peso di zavorra, le illusioni ristagnano e perdono qualsiasi tensione, la ricerca di identità non appartiene neanche al passato. « Le Baccanti » Penso all’ultimo momento, a quello, cioè, relativo al campo di concentramento: non si sa più da che parte stare. Senti che il momento autobiografico soverchia la forma rappresentativa e lascia uno spazio minimo al lavoro registico (a meno che non si scelga di privilegia re solo una esplicita organizzazione di materiali). Devi fare i conti con argomenti che non mantengono quella oniricità che avrebbero nelle intenzioni della scrittura: tutto è concreto: il lager, la bandiera rossa e così via. Il linguaggio stesso acquista uno spessore di tipo gior nalistico che, in alcuni momenti, può provocare disagio e ridurre a zero la portata di certe intuizioni poetiche. Ne La Torre hai recuperato, a differenza degli altri due lavori, la misura del personaggio : in che senso l’hai fatto? Nel testo di Hofmannsthal vi era da una parte una storia tangibile, un racconto, dall’altra un linguaggio che negava la struttura e il reale dei personaggi. Lavo rando su questo motivo, particolarmente evidente nella prima edizione del dramma che io ho adottato, ho cercato di ricomporre questa implicita misura di antite si, motivandola come dialettica interna e necessaria. Quando il tempo di rappresentazione soverchiava quel lo drammaturgico, ogni situazione assumeva un tangi bile aspetto di negazione e costruzione insieme. A questa direzione interpretativa si affiancava il ribalta mento della fisicità dei personaggi: gli attori che li interpretavano, in genere, erano fuori d’età, molto più giovani rispetto al ruolo. Certo, tutto ciò deve avveni re in una specie di gioco segreto, che non puoi porre come manifesto esplicito o chiave di lettura. Del resto il processo di negazione è presente, nel testo, anche in altri aspetti: il momento letterario, di straordinaria bellezza, va contro la possibilità della realizzazione sce nica. In questo senso La Torre è, infatti, un’opera irrappresentabile. Perché hai scelto proprio La Torre piuttosto che un altro dramma di Hofmannsthal? Intanto perché mi permetteva di perseguire una tematica già espressa ne La vita è sogno di Calderón De la Barca, e ripresa nel pasoliniano Calderón. Mi interessava, poi, il problema dell’identità del soggetto, che è poi il dramma di Sigismondo. L’io che pone l’interrogativo del suo autoriconoscimento, che tenta perennemente di autodefinirsi, che si pone di fronte alla misura di un identico ritrovarsi: è un tema che dalla natura squisitamente filosofica si pone anche nel la misura teatrale. L’io si riconosce nella molteplicità dei personaggi, e in tutti trova una possibile parte di sé; in nessuno trova sé stesso. Questo processo infinito è di natura esistenziale, ma è anche tipico del fare teatro: nella scena trovi un momento di identità, ma scopri presto che è illusione, desiderio subito divorato dal tempo, spazzato via per sempre dallo stesso mo mento in cui ha? potuto comporlo. Nella vita, come nel teatro, esiste questo perenne conflitto tra il bisogno di riconoscersi e di superarsi insieme. A t t o r e e s p e t t a t o r i c o m e i n u n o s p e c c h i o M AR ISA FABBRI Marisa Fabbri è nata a Firenze il 5 agosto del 1931. Dopo aver compiuto studi superiori, si iscrive all’Universi- tà (Facoltà di Scienze economiche), che interrompe per frequentare la scuola di recitazione fiorentina diretta da Raffaello Melani. Il suo esordio teatrale avvenne in una compagnia universitaria: interpreta il ruolo di Viola ne « La dodicesima notte » di Shakespeare. Per qualche tempo recita nella compagnia Albertazzi - Toccafondi, mentre, nel ’57, affronta alcuni lavori in televisione. Tra il 1957 é il 1960, Marisa Fabbri è a Milano dove, al teatro S. Erasmo, diretto da Carlo Lari, ottiene un vivo successo di critica e di pubblico in spettacoli come « L’annonce faite à Marie » di Claudel, « Questo matrimonio s'ha da fare » di Brancati e « Il figlio di Ettore » di Bacc’nelli. Dalle letture brechtia ne, compiute nell’ambiente fiorentino, Marisa Fabbri aveva indirizzato la sua recitazione al teatro critico, con un asse di congiunzione verso la cultura mitteleuropea, che aveva amato e approfondito. Quest’ultimo aspetto delia sua for mazione giovanile porta l’attrice ad accettare un contratto di quattro anni presso lo Stabile di Trieste. In questa città la Fabbri compie un’intensa attività di operatrice culturale insieme ad un gruppo di teatranti idealmente legati alla linea del Piccolo Teatro di Milano. In queste quattro sta gioni, fino al '65, la Fabbri è interprete di alcuni impor tanti lavori: « Un uomo è un uomo » di Brecht, « Antigone » di Brecht-Sofocle, « Vinzenz e l’amica degli uomini impor tanti » di Musil, ■< Dialogi con Leucò » di Pavese, « Tre quarti di luna » di L. Squarzina, « Elettra ■> di Sofocle, che inaugura il teatro romano triestino e che mostra una Fabbri memorabile. È fondamentale, nel 1966, l'incontro, a Roma, con Luca Ronconi. Il regista la chiama in un suo spetta colo: La commedia degli straccioni » di Annibai Caro. Sempre nel '66 fa la parte del re ne « I lunatici » di Midd- letton-Rowley. L’anno successivo è accanto a Strehler ne “ I giganti della montagna » mentre nel '68 ritorna con Ron coni nel « Riccardo Ili » di Shakespeare. Nel '69 lavora an cora con Strehler in « Ballata per un fantoccio lusitano » di P. Weiss (Gruppo Teatro-Azione), cui segue, l'anno suc cessivo, « Nel fondo » di Gorki. Intanto, insieme a Paolo Modugno, forma un gruppo di ricerca drammaturgica che tende a misurare il teatro con la realtà politico-sociale e antropologica: ai lavoratori delle fabbriche romane, geno vesi, torinesi, propone un discorso legato alla militanza ideologica e all’ipotesi di un teatro politico. Questo tipo di impegno si svolge, dal '70 al '76, pa rallelamente ad altre attività, come quelle nel sindacato attori (SAI), e alla partecipazione ad importanti spettacoli. Interpreta il ruolo di Clitennestra nell'» Orestea » di Ron coni (1972); è protagonista dell'» Elettra » di Sofocle (1975, regia di Aldo Trionfo) e, l’anno dopo, di « 1976 », spettaco lo scritto e diretto da Paolo Modugno. Nel '77 è a Prato nel laboratorio di Ronconi, dove diviene l'unica interprete di « Le Baccanti ». Tra le diverse prove televisive della Fabbri vanno ri cordate quelle in: « I tromboni » di Zardi (1969, regia di Meloni), « Ritratto di signora » di James (1974, regia di Se qui) e « George Sand » (1977). Ha partecipato a molti film, tra i quali « Sacco e Vanzetti » di Montaldo, « Diario di un maestro » di De Seta e « Milarepa » di Liliana Cavani. Come è avvenuto l’approccio al testo euripideo? Ronconi aveva in mente di fare un lavoro in pro fondità sulla comunicazione scenica. La prima direzio ne, quindi, è stata di tipo metodologico. Ma questo discorso investe anche la natura dei contenuti, che vengono assimilati all’ipotesi rappresentativa e acqui stano un significato nuovo. Ne Le Laccanti è avvenuta prima l’operazione di oggettivazione dei dati tematici, poi la loro soggettivazione. Tutto è stato ribaltato. Se vuole rappresentare la paura, in genere, l’attore deve mostrarla; ora la paura qui viene data allo spettatore nel rapporto che, personalmente, viene a instaurare col testo. L’attore ha una funzione riflettente, fa da spec chio, provocazione, e opera un conflitto. Lo specchio, la sedia che sposto, le parole che dico diventano tutte memorie progressive che, attraverso il testo, agiscono nella coscienza dello spettatore-riflettente. Ma il rap porto tra chi guarda e la mia azione è un rapporto vita a questo tipo di proposta scenica. Spostare Le Baccanti è possibile quando si trovi una struttura ar chitettonica tale da permettere di riproporre le stesse unità di linguaggio che abbiamo potuto sviluppare a Prato. Certo non è possibile proporre un lavoro del genere su di un palcoscenico: allora non sarebbe più un discorso sulla comunicazione, ma semplice rappre sentazione. Nel momento in cui salgo sul palcoscenico e volto le spalle al pubblico già si evidenzia la negazio ne della rappresentazione. Alcuni momenti dello spettacolo ti vedono nascosta dietro le quinte, allora sei soltanto voce, eco lontana che nega la fisicità della tua presenza. In quei momenti si evidenzia l’idea del modello comunicativo del dionisiaco: la realtà ti appartiene anche se non la vedi, è possesso del tuo mondo inte riore. Ma tu puoi interpretare quei momenti in tanti Marisa Fabbri dialettico che si compone gradatamente: non c’è mai la rappresentazione. Questo mi sembra un fatto veramente rivoluzionario, un modo assolutamente nuovo per mi surare le possibilità comunicative del teatro. Pensi che questo spettacolo, nato per la struttura dell’Istituto Magnolfi di Prato, possa essere in qualche modo trasferito altrove.? È un grosso problema, ma non è insolubile. Il problema di fondo è rispettare il momento che ha dato modi. Puoi arrivare a dire come la civiltà capitalisti- co-borghese ti impone un suo modello culturale attra verso squallidi strumenti di occulta persuasione. In questo senso l’affermazione del teatro nella sua provo cazione comunicativa è un atto di civiltà. È anche un discorso politico. La voce, da sola, ti porta ad una sorta di smarrimento: non eri abituato a calcolare la sua presenza come dato strutturale e la intendevi come modello ornamentale di una più complessa e- spressione scenica. L’accoppiamento della voce con il deserto del teatro può infine avere mille significati: accentuare la natura evocativa di molti dati dell’opera zione teatrale e così via. Allora Le Baccanti rappresentano una specie di invito alla rivalutazione del concetto di teatro e delle sue funzioni. Con Luca Ronconi, un certo giorno, siamo arrivati a dire: partecipazione significa fare teatro insieme con e per. Lui sottolineò che questo era stato un modello di lavoro fino a ieri. Oggi dobbiamo pensare a cosa vuol dire partecipazione. La partecipazione non si sta bilisce dal consenso, ma attraverso lo scontro. Ci siamo beati nell’assistere a spettacoli progressisti, dichiarata- mente militanti, e non ci siamo resi conto che ci stavamo autogratificando delle nostre conquiste, ora sociali, ora politiche. In fin dei conti è molto più importante prevedere l’incomprensione, mettersi in una condizione di critica alle norme, ai canoni; al tempo stesso occorre avere chiare, dentro di noi, le linee di un progetto. Un aspetto singolare de Le Baccanti è dato anche dai suoi ventiquattro spettatori, dalla sua localizzazione in un punto (a Prato), dal suo carattere selettivo quin di, che ha in sé come forma di comunicazione. Non credo che si debba continuare a fare la pole mica sulla presenza delle ventiquattro persone. Tutti quanti hanno ormai capito che è un modo di porre il problema in termini di pura faziosità. Intanto per cominciare, Prato è stato lo spazio politico che ha recepito il tipo di funzioni e la necessità del Laborato rio. Allora fare la polemica su perché Prato e non Roma è un fatto poco interessante a questo punto. Chi viene ad assistere allo spettacolo lo fa per propria necessità, spinto da una curiosità culturale, comunque da una scelta. Il problema più importante è quello di poter agire sul territorio e far si che esperienze di questo tipo, magari con configurazioni particolari a seconda dei casi, si facciano altrove. Ventiquattro per sone vuol dire recupero di una forma di comunicazione a misura d’uomo. Vuol dire lotta contro l’imbarbari mento, che sta avvenendo, perché non si perda l’auto nomia di pensiero. Vuol dire mettere a confronto uno spettatore, deturpato da una cultura massificante, con le radici dell’espressione scenica. E poi, perché non diciamo, una buona-' volta senza vergognarcene, che il teatro è sempre stato un fenomeno d’élite? Chi ha mai detto che altre forme di teatro toccano le platee di milioni di spettatori come accade per la televisione? Chi se la sente di affermare che la cultura di massa è più educativa ed ha più valore di una cultura che vuole essere altro, non perdere di vista l’uomo, se è possibi le? Ventiquattro persone per ritrovare la possibilità del riconoscimento di un’esperienza collettiva e socializzan te com’è quella teatrale: ecco il punto. Se l’esperimen to è valido cerchiamo di vederne la portata reale, senza mistificazioni e demagogie spicciole e gratuite. Allora il Laboratorio, Le Baccanti, si pongono co me un momento di stimolo nei confronti della nostra cultura massificata: c’è quindi una dimensione sociolo gica, oltre che estetica? Certamente. Ma io non scinderei i due momenti. Discutendo con alcuni operai mi è stata spesso rimpro verata l’incomprensibilità di questo spettacolo. Allora io ho detto: « compagno, non credi che si possa andare avanti cercando di capire? Non credi che la scelta che hanno fatto assessori o sindaci che tu hai votato sia anche a tuo beneficio? Non credi che il tuo rifiuto e non comprensione possano essere conseguenza di un retaggio ingiusto di sottomissioni a cui sei stato sotto posto? ». Io sono convinta che le operazioni estetica- mente valide hanno anche una necessaria validità socia le. Credo che non si può continuare a fare il discorso sulle quantità. Esiste un problema di qualità che poi, in definitiva, riguarda la qualità della nostra stessa vita. Dimenticarsi che i singoli hanno una propria personalità da rispettare e un proprio mondo da discu tere, credo che sia uno dei sacrilegi che oggi si stanno compiendo. Ecco perché, a parte il momento delle mie convinzioni di attrice e teatrante sul livello estetico de Le Laccanti, non posso che difendere le ventiquattro persone. « Le Baccanti » Una sera, a Prato, uscendo dall’Istituto Magnolfi, ho sentito uno studente che affermava la necessità della diffusione di uno spettacolo come Le Baccanti. Parlava delle lezioni che erano state fatte da Cicognini nei licei, e cercava di coinvolgerci nel suo appassionato discorso sulla bellezza e il valore dello spettacolo. Lo stesso pomeriggio, davanti al teatro Metastasio, due studentesse, con cui ho casualmente parlato, esprime- vano la loro contrarietà per la cifra di danaro — a loro avviso eccessiva — spesa per il Laboratorio. E intanto dicevano : « perché insieme al teatro non si difende anche il centro degli invalidi che è stato chiuso? ». Ecco un esempio di rapporto critico e di sordità vissuto dai giovani. E aggiungerei tutta la demagogia che faceva al caso. Se le studentesse si fossero informa te meglio, avrebbero saputo queste cose: quando ce ne andremo da Prato, lasceremo alla città il restauro del l ’Istituto Magnolfi, il Fabbricone restituito a spazio per incontri sociali più disparati e così via. Delle set tanta persone che hanno lavorato a Prato nessuno ha rubato una lira: non torniamo a casa arricchiti, questo è certo. Abbiamo percepito lo stipendio minimo sinda cale, tutti quanti. E la leggenda del miliardo è una favola costruita per colpire un’iniziativa democratica e avanzata. La cifra reale — non è un mistero per nessuno — si aggira sui seicento milioni. Il Fabbrico ne, tra l’altro, è uno di quegli edifici che indicano, nella storia di Prato, le lotte dei lavoratori per la difesa del loro salario e molti momenti importanti della resistenza locale al fascismo. La tua intepretazione de Le Baccanti mi sembra particolarmente interessante, non solo di rara efficacia. Oggetti, spazio, individuo, dovevano essere contempla ti in una misura unica, proprio perché, come tu hai rilevato, non c’era rappresentazione. « Le Baccanti » È così. Con Ronconi abbiamo fatto un lavoro pre liminare che consisteva nel rilevare le funzioni dei singoli personaggi euripidei. Una volta messo a fuoco questo punto, si è scartata ogni ipotesi di ordine psico logico: si doveva evitare il portato psicologico dei singoli personaggi. Ne è nato un asse preciso di lavoro, quello intorno alla storia di una comunicazione. Per fare tutto ciò non basta il criterio classico del recitare: occorre far ricorso al gesto, all’oggetto inteso come segno e non come simbolo, raccogliere in sé la dimen sione spaziale. Il concetto-guida era dato dal fatto che non c’erano fruitori: tutti erano dei riflettenti del testo e io il tramite speculare e, a mia volta, termine riflettente. Le Baccanti fanno parte di una tetralogia sulla cultura cristiana — gli altri momenti sono rap presentati da La vita è sogno di Calderon De La Barca, La Torre di Hofmannsthal e Calderon di Pasolini — di cui svolgono il primo momento, quello antropologi co, dove emerge il bisogno dell’uomo ad una religiosità che, in occidente, si ratificherà attraverso il cristiane simo. È l’ultima tragedia greca che ci è arrivata, .ed esprime tutto il dionisiaco come momento di recupero di un atteggiamento umano e culturale. Le quattro forme di individuazione compiute da Ronconi vogliono rappresentare alcuni punti nodali per meglio mettere a fuoco una cultura che ci appartiene, a qualsiasi fede noi siamo legati. Studiare un nuovo tipo di espressività vuol dire anche porsi nel quadro della tradizione, comprenderla a fondo per poter agire me glio in funzione del futuro, e non solo del presente. È quasi un momento di ricerca in senso socio-lin guistico. Lo spettacolo allora c’è come momento casua le? Il teatro non è un modello così definito come si crede. È un incontro di diverse discipline che si coagu lano nelle costanti e nelle variabili di momenti espressi vi articolati e non fissi. Credo che, oggi, occorra recu perare alla scena quella forza d’urto che, in gran parte, ha perduto, riconoscerne il cumulo di altissima espe rienza umana. In alcuni momenti sembrava che si fosse giunti ad una specie di strano concerto : tu eri la voce solista, il silenzio era il corpo intero dell’orchestra. È vero. Il silenzio è il tramite fondamentale di un rapporto con i presenti. Nel silenzio si veniva a inse diare una forma di provocazione che spingeva alcuni a voler dare delle risposte immediate, a voler instaurare un rapporto, prima di essere soverchiati da un’inquie tudine soffocante. Me lo hanno detto in molti. C’è chi ha sottolineato come il tipo di esperienza che si viene a determinare con uno spettacolo come Le Baccanti è difficilmente descrivibile. Si tratterebbe di un episodio scenico che va semplicemente vissuto... Certo. Come fai a raccontare quello che avviene? Tutto si consuma in un’esperienza: la mia, e di chi è presente. È un itinerario nel nostro inconscio che si materializza, momento per momento, in alcuni fram menti della fisicità antistante: le stanze, le pareti che si chiudono, gli oggetti nella loro fatale immobilità e così via. Una volta Jancso disse che aveva vissuto una esperienza irripetibile, e siccome il suo mestiere è quel lo di fare il cinema, si era messo a pensare al modo di riprendere lo spettacolo. Alla fine ha desistito e ha detto: « ma questo è cinema vivente! ». Ogni volta ho la certezza che i ventiquattro spettatori siano ciascuno la ventiquattresima unità di un tutto inscindibile. A ognuno piacerebbe stabilire un rapporto personale e privato con l’evento, al tempo stesso ognuno avverte la forza che gli viene dal gruppo. Eppure per ciascun presente l’unità di misura del fatto è fatalmente indi viduale. Come hai vissuto, a livello interpretativo, questa messinscena de Le Baccanti? Sono partita dal mio personale bagaglio di attrice. Quello che fai il giorno prima è sempre il punto di partenza. Tutto ciò che non mi riusciva lo discutevo con Ronconi. C’è sempre qualcosa che devi aggiungere, che devi penetrare. È un processo infinito. Lavorare con Luca è anche un modo costante per prendere coscienza. Se dovessi tracciare un referente di metodo direi che mi ha aiutato un tipo di rapporto interpreta tivo che definirei critico. Da una parte la lezione di Brecht, dall’altra la lucidità diderottiana o l’oggettiva- zione che ti insegna Piscator. Sapevo che dovevo esse re soprattutto un’attrice oggettiva, senza languori stani- slavskiani e senza psicologismi. Dovevo portare con me l’imperativo di una coscienza individuale, sintesi e par te insieme di un momento collettivo. Alla fine crolla il muro e il teatro rimane in un deserto freddo e inquietante. Luca faceva l’attore, prima di passare alla regia. Ha vissuto in pieno la realtà del teatro. Ne è uscito alla ricerca di nuovi spazi. E si tratta di un percorso senza fine, che ogni volta lascia un deserto, delle ceneri forse. Su quei detriti, però, si può e si deve ricomin ciare a costruire, perché niente si compie in assoluto. Qualsiasi episodio di ricerca, alla fine, ti darà dei risultati che, per quanto importanti, devi considerare relativi. L a p a r o l a t r a d i z i o n e m i i r r i t a FRANCO BRANCIAROLI Franco Branciaroli nasce a Milano il 27 maggio del 1948. « Mio padre - dice Branciaroli - era un abruzzese immigrato in Germania e ritornato in Italia durante la guerra. A 17 anni gli misero un fucile in mano e fece il partigiano. Arrivò a Milano alla fine della guerra e sposò mia madre senza aver ancora un lavoro. Poi fece il piazzi- sta. Non era né contadino né operaio, soltanto un sotto- proletario ». A 14 anni Branciaroli è a Torino e si diplo ma Perito in Telecomunicazioni ail’Avogadro, una specie di Politecnico a livello preuniversitario. Quasi per caso decide di frequentare la Scuola del Piccolo e, contempora neamente, si iscrive a Biologia, frequentando l'Università per due anni. Fatto l'esame di ammissione al Piccolo, con Grassi e Ferrante, passa ai corso di animatore e si diplo ma, quindi, in soli due anni. Viene subito individuato da Aldo Trionfo che lo vuole in « Arden of Feversham » nel '71 e, nel '72, in « Nerone è morto? » di Miklòs Hubay per lo Stabile di Torino. Proprio in « Nerone è morto? » viene notato da Luca Ronconi che quest’anno gli ha affidato la parte di Sigismondo ne « La Torre » di Hofmannsthal. Intan to lavora dal '72 in poi ancora con Trionfo e con Carfcielo Bene e, nel '75, fa « Bei-Ami e il suo doppio » di Luciano Codignola. Nel '76, sempre per Io Stabile di Torino il « Faust-Marlowe-Burlesque » al fianco di Carmelo Bene. Sempre con Bene interpreta per la televisione una serie di lavori televisivi sul teatro elisabettiano nel '77; quest’an no è il protagonista di « Alto Tradimento », uno sceneggiato su Cesare Battisti per la regia di Walter Licastro. « La Torre » Ormai sei un attore di quelli noti. Di te si ricorda no le belle prove che hai dato con Nerone è morto, Faust-Marlowe insieme a Carmelo Bene e così via. Sei, quindi, un attore giovane affermato. Come sei arrivato al teatro? Devo la mia fortuna ad Aldo Trionfo, uno dei pochi registi convinto che i ruoli importanti bisogna affidarli presto. Mi sono iscritto alla scuola del Piccolo ma non terminai il corso per attori e passai a quello per anima tori. Era intorno agli anni settanta. Eravamo due allie vi e i nostri insegnanti Paolo Grassi e Guazzotti. In precedenza avevo concluso gli studi tecnico-industriali e mi ero diplomato in perito in telecomunicazioni al l’Istituto Avogadro di Torino. In questa città vivevo dall’età di quattordici anni, quando ci ero giunto da Milano, mia città natale. Mi iscrissi all’Università, a Biologia: frequentai per due anni quella facoltà. Una mia amica, che faceva l’attrice, mi spinse a provare ad andare al Piccolo. Non c’erano in me particolari con vinzioni e non sentivo nemmeno la spinta di una situa zione vocazionale. Fu Grassi a darmi fiducia quando, presentandomi come comparsa, mi affidò un ruolo di un certo peso in uno spettacolo teatrale. Poi c’è stato il lavoro con Trionfo, con Bene, fino a quello con Ronconi era ed è un attore bravissimo. Se uno fa l’attore, si impone di esserlo, facilmente rischia di scadere nella scolasticità. Ronconi lavora, prima di tut to, sui concetti: ti offre le strutture del lavoro, nel suo insieme, e poi nel caso particolare del personaggio. Lui ti fa vedere i nessi, le discrepanze, gli accordi che esistono all’interno di un’opera. Tu, attore, perdi subi to la genericità che potevi portarti dietro e ti rendi « La Torre » Ronconi. Forse sono stato anche fortunato, ma io cre do che la fortuna bisogna crearsela con l ’impegno e con molta dose di senso critico. Come ti definirestri in quanto attore? È difficile. Qualsiasi definizione la trovi sempre unilaterale. E poi io non saprei mai dire che cosa sia un attore. Cerco sempre di essere me stesso. Ecco, in questo caso, dovrei dire che la mia caratteristica è quella di essere spontaneo, presente a me stesso, con tutte le mie caratteristiche umane, con il mio mondo privato. Non mi pongo mai l’ipotesi teorica del perso naggio quanto, invece, cerco di farlo mio, di adattarlo alle mie caratteristiche psicologiche, in modo che rag giunga un risultato che è, al tempo stesso, una reale forma di autoriconoscimento. Forse sono anche un at tore stanislavskiano — e questo può sembrare fuori moda — ma non saprei come altrimenti definire que sta mia disposizione verso il vissuto interpretativo, co me vissuto della mia personale esperienza umana. E il ruolo di Sigismondo ne La Torre? Sigismondo e l’unico personaggio che deve mante nere delle connotazioni psicologiche precise. Per molto tempo deve essere soltanto una presenza — una pre senza che pesa — senza pronunciare parole: tutto deve essere espresso da un modo di essere interiore che manifesti una precisa condizione di smarrimento, soli tudine o rabbia remota. E questo deve essere chiaro, palpabile, concreto. Qualcuno dice che dopo aver lavorato con Carmelo Bene tu lo abbia imitato. Tu cosa pensi? Questa leggenda può essere nata dopo lo spettacolo che ho fatto, insieme a Bene, per la televisione. Una volta, comunque, certi episodi e certe forme di espe rienza si chiamavano scuole. Ora si chiamano imitazio ni. Credo che a molti dia fastidio quel po’ di fortuna che viene ad un attore ancora giovane. Non si perdo nano i passi avanti che puoi fare (e spero di averne fatti); peggio che mai se hai raggiunto un pizzico di notorietà. Un giovane deve fare una carriera graduale, guai se brucia le tappe: tutti ti guardano con un occhio che nasconde una maliziosa riprovazione, come se uno avesse fatto uso di mezzi illeciti. Invece io so benissimo che si possono compiere degli errori, che si va avanti sulla propria pelle e attraverso la propria esperienza. E so che i regali della sorte ti vengono dal tipo di scelte che compi. Non sta a me dire se sono più o meno bravo, tuttavia so benissimo che quello che ho fatto è un sudato percorso che, pur conoscendo certe gratificazioni, non mi è stato concesso dal destino in virtù di qualche sortilegio celeste. Hai detto di essere un attore spontaneo, che rima ne legato al suo modo di essere umano particolare. Con Ronconi come hai potuto esprimere queste tue caratteristiche? conto della realtà precisa con cui ti devi misurare. In quel momento capisci anche il legame che esiste tra il mondo espresso da un autore attraverso il personaggio, e il mondo che ti appartiene nella vita reale. Ecco che istintivamente trovi più di una identità e più di una differenza. Sia l’identità che la differenza ti apparten gono, fanno parte inequivocabile del tuo privato, della tua realtà. Allora tu arrivi ad essere quel personaggio e, al tempo stesso, te stesso: non c’è più differenza. Questo è quello che capita a me. Ronconi, poi, è un grande regista. Sa lavorare con l’attore come pochi: spiega la parte come fa il saggista, ti fa essere parteci pe, in prima persona protagonista, di una scoperta, di un fatto che magari lui aveva già in mente (e questo, poi ha un’importanza relativa per l’attore-interprete-e secutore). Hai esposto una tua singolare ipotesi sul lavoro dell’attore. Hai parlato anche di un’idea stanisla- vskiana, però non è sufficiente : il tuo è un modello interpretativo basato su una forte consapevolezza non-tradizionale. La parola tradizione mi irrita. Vuol dire tutto e niente. Ronconi, per esempio, è uno che la tradizione la va cercando, ma non per recuperarla in quanto filologia, quanto invece per restituirla alla realtà del nostro presente. Un attore non può essere tradizionale: secondo quale tradizione, del resto? Allora inventiamo una tradizione moderna: in questo caso varrà anche una interpretazione tradizionale, ma in quanto non si canonizza mai e si esprime nella diversità necessaria delle varie circostanze. In questo senso è vero, allora, che sono un attore non-tradizionale. In Italia noi attori dobbiamo fare ancora molta strada, toglierci la malat tia del mattatorismo, di una esagerata autoconsidera- zione, la stessa che ci porta a pensare che Dostoevskij o Shakespeare non si sono pienamente espressi e che bisogna aiutarli con la bontà della nostra interpretazio ne. La Torre presuppone settanta spettatori, per l’esat tezza settanta presenze in sala-, il concetto di spettato re, infatti, viene bandito in questa messinscena. Il teatro non deve giungere a molte più persone? Per le operazioni su di un pubblico molto vasto esiste il mezzo televisivo. Il teatro ha il compito di approfondire un suo rapporto col pubblico. Occorre provocare una nuova coscienza che non è più quella del semplice spedare. Per vedere La Torre occorrono due giorni, ci vuole quindi una precisa intenzione, una spinta ad una diversa comprensione dell’evento sceni co. Questo spettacolo, che è nato per settanta persone, perde la sua forza comunicativa quando lo proponi a ottocento persone. Con questo non dico che non si possano fare spettacoli per un pubblico molto più « La Torre » « La Torre » e realizzato un Orlando furioso che si faceva nei palaz zi dello sport. Se si accetta l’idea che un Laboratorio come quello di Prato si propone l ’approfondimento del modello di comunicazione scenica, allora non si può fare la polemica sul numero delle persone che parteci pano a questo momento dell’espressione teatrale. Cer to, noi abbiamo in mente la struttura borghese del teatro, con un palcoscenico e una platea. Ma è possibile che questa idea, per quanto radicata nella nostra cultu ra e nella nostra esperienza storica, non debba essere messa in discussione? L’idea di un vasto pubblico che assiste ad una rappresentazione, per alcuni è sinonimo di operazione popolare. Ma cosa vuol dire popolare oggi? Non sta a me rilevare l ’ambiguità di questa ipotesi. Non esiste, come vogliono far credere molti, un bisogno di teatro nella gente. Occorre, invece, crea re i presupposti perché questo divenga una necessità reale, un modo per potersi riconoscere seriamente. Questo è il vero significato del lavoro compiuto a Prato da Ronconi nell’arco di questi due anni. Ne La Torre ci sono momenti bellissimi. Per esem pio l’incontro tra Sigismondo e il padre, la scena del filo spinato. Insomma il terzo atto raggiunge i livelli di maggiore tensione. Sei d’accordo? Avendo in mente tutta l’opera, mi sembra che il lavoro compiuto da Ronconi possieda una sua splendi da omogeneità. Certo non tutto può essere espresso con compiutezza anche — e soprattutto, direi — per le ragioni del testo, troppo dichiarato negli ultimi due atti. È vero che il terzo atto ha una sua più evidente riuscita. Nell’incontro padre-figlio vi è come la nascita dell’individuo a sé stesso. Il tema di fondo è la ricerca dell’io, il suo ritrovarsi: Sigismondo cerca il padre, ma si rende conto che non potrà trovarlo mai, e capisce la prigione perenne in cui è avvolto, come nella scena, di struttura junghiana, del filo spinato. Non rimane che la realtà del sogno, unico dato concreto e possibile. E secondo Hofmannsthal il potere non può esistere più: non si può essere mai più re: può esistere solo l’allegoria di quello stato. Non credi che Ronconi ti abbia restituito una di mensione attoriale più tua? Luca è molto « fattucchiere ». Sa meglio di qualsia si altro cosa ti riguarda veramente. La sua ricerca investe anche l’attore e si svolge parallelamente. Espe rienze come questa compiuta con La Torre credo che lascino una traccia incancellabile nel mio lavoro. U n * a n a l i s i d e l l e n o s t r e i n t e r i o r i EDM O NDA ALDINI Edmonda Aldini nasce il 15 marzo del 1934 a Ca' di Rocco, Reggio Emilia. Recita ancora allieva nella Compa gnia dell’Accademia Nazionale in « Aminta » di Tasso e nel « Mistero » di Silvio D'Amico. Il suo debutto ufficiale è però nell’estate del '52, prima a San Miniato e poi al Piccolo Teatro di Roma. Nella parte di Suor Costanza de « I dialoghi delle Carmelitane », per la regia di Orazio Costa, ella conquista il favore della critica e del pubblico. Negli anni successivi è assai intensa la sua presenza radiofonica e inizia anche la collaborazione con Vittorio Gassman interpretando Consuelo nella « Leonora » di Troiani. Nel '55 interpreta il primo romanzo televisivo italiano « Il dottor Antonio » di Ruffini. Nel maggio del '56 torna a lavorare con Orazio Costa nel ciclo delle rappresentazioni classiche che si tengono a Siracusa e nel gennaio succes sivo sarà la protagonista ■ di « Persefone » di Strawinsky. Ancora per due anni fa compagnia con Vittorio Gassman e, appena venticinquenne, interpreta Clitennestra in « Ore- stea » di Vittorio Alfieri. Nel ’61 il suo ricco bagaglio di attrice è accresciuto con l'esperienza del Piccolo di Milano dove Strehler le affida il ruolo di protagonista femminile accanto a Tino Buazzelii in « Schweyk nella seconda guerra mondiale » di Bertolt Brecht. Nel '63, dopo il ritorno al repertorio classico, partecipa con Gassman ad un fortunato spettacolo televisivo « Il gioco degli eroi » in cui i due mattatori danno vita ai personaggi più intensi del repertorio classico e moderno. Sempre in quell’anno partecipa per la prima e, per ora, unica volta ad un film, interpretando la parte della Madonna ne « La ricot ta », diretto da Pier Paolo Pasolini. Durante le varie tournées con Gassman, che la portano da Vienna a Londra, da Parigi a Barcellona, da San Paolo del Brasile a Città del Messico, nel '65 vince a Buenos Aires il Premio come migliore attrice straniera. Anche in Italia ottiene due riconoscimenti dalla critica: per la sua inter pretazione dell’* Antigone » di Sofocle vince a Siracusa l’Eschilo d'Oro, e per la partecipazione all'adattamento tele visivo di « Vita di Bohème » di Murger, la Maschera d'Ar- gento nel 1964. Protagonista ancora con Strehler ne « Le notti dell'ira » di Salacrou, e, nell’estate del '64, al teatro romano di Pompei, ne « Gli Uccelli » di Aristofane. Nel '65 è di nuovo in televisione interprete de « Gli occhi consa crati » di Bracco, « Assunta Spina » di Di Giacomo per la regia di Carlo di Stefano e ancora ne « La maschera e il volto » di L. Chiarelli per la regia di Flaminio Bollini. A Roma, al teatro Centrale, si presenterà pure in un recital di canzoni. Nel '68 incontra Luca Ronconi che le affida il ruolo di Lady Anna in « Riccardo III » di Shakespeare. Con Ronconi, Paolo Radaelli, Duilio Del Prete, e Giovanni Arnone fonda « La comunità teatrale dell’Emilia Romagna ». Da questa esperienza nasce anche in seguito il Teatro Libero, che si presenta al Festival dei due Mondi di Spoleto, con l'« Or lando Furioso », tappa memorabile nella cultura italiana e internazionale. Nel marzo del '70 è interprete, con Mariange la Melato e Ottavia Piccolo, de « La tragedia del vendicato re » dell’elisabettiano Tourneur. Nella stagione ’76-'77 vin ce il premio IDI, Maschera d’oro del teatro italiano, per la novità italiana di Salvato Cappelli « Appuntamento con la signorina Celeste ». Nell'ultima stagione si è ripresentata in « Confessione scandalosa » di R. Wolff. In televisione è riapparsa quale interprete di « Yerma » di Federico Garcia Lorca per la regìa di Marco Ferreri al fianco di Franco Cittì e Michele Placido. « Calderón » Che cosa ha rappresentato per te l’incontro con Luca Ronconi, cosa ha voluto dire nella tua carriera di attrice? Venivo dall’esperienza strehleriana, che affonda le sue radici nello storicismo, nella cultura marxista, nella ragione e criticismo brechtiani. Il lavoro con Gassman ha rappresentato il rafforzamento della conoscenza tec nica dell’espressione attoriale. Avevo quindi sedimen tato due diversi momenti esperienziali: quello di un modello interpretativo straniato e lucido; quello legato alle possibilità di espressione totale della fisicità. Sono stati due aspetti fondamentali nella mia vita di attri ce. Con Ronconi ho scoperto un’altra dimensione di lavoro che, per quanto mi riguarda, ha rappresentato una vera forma di rivelazione. La prima cosa che mi ha colpito è l’insegnamento alla lettura di un testo attra verso un metodo che, genericamente forse, definirei di tipo strutturale: lui discopre lo strato profondo di un’opera, evidenzia la logica di composizione dei vari materiali, coglie il ritmo e la natura del linguaggio. Il lavoro che lui compie lo fa scaturire da un rapporto costante con l’attore. Il suo scavo non è solo .nella direzione analitica, ma anche in una direzione che si pone immediatamente come dato comunicativo, attra verso la mediazione dell’espressione. La gioia della sua scoperta è anche quella dell’attore, perché è posto in una condizione quasi di coscienza felice, come chi sente di aver capito qualcosa che esalta il conoscere. Non voglio dire che questa sia una legge, che accada a tutti. Io parlo in conseguenza della esperienza che ho avuto. Luca Ronconi ha una personalità complessa, una sensi bilità che si esprime in una specie di sublime nevrosi cosmica. In questo suo modo di essere si intrecciano intuizioni, ricerca, studio. Credo che, dato il rigore nell’impostazione del suo lavoro, Luca ottenga i mi- gliori risultati con quegli attori che assommano al gros so bagaglio tecnico l ’intelligenza e la sensibilità. E poi credo che occorra essere con lui molto disponibili, lasciarsi andare al sapore della scoperta, convinti di compiere un cammino sconosciuto che ti porrà di fron te a continue novità. Ronconi sembra che non sappia mai cosa vuole esattamente da un attore. Lascia aperte tutte le possi bilità, eppure ti accorgi che, dentro di lui, c’è una visione precisa e chiara delle cose, come dì uno che sa esattamente dove andare. Non è così? Luca rifugge da ogni schematismo. Ama la realtà nella natura del suo movimento. Certamente parte da precise ipotesi, ma non le spiffera mai, non le fa diventare leggi. Ama far scaturire tutto dal lavoro, mentre si compie e si crea. Parallelamente si verifica, per l ’attore, una forza di liberazione che, probabilmen te, non è altro che il portato di una nuova coscienza acquisita. C’erano molti aspetti della mia esperienza di attrice che, nel corso di questi anni, non ero riuscita a mettere a fuoco: non basta capire una verità, occorre trovare il modo per renderla un dato palpabile, oggetto del fare, azione insomma. Con Ronconi è avvenuto questo: il sentire maturare il mio atteggiamento e trovarne una verifica nella felice coscienza di questo mio modo di essere. Per questo l’incontro con Cal- deron rimane, a tutt’oggi, uno dei dati più signifi cativi della mia esperienza di attrice. L’ultima volta che avevi lavorato con Ronconi è stato nella Tragedia del vendicatore se non sbaglio. Si. Ed è stata una di quelle messinscene che hanno prevaricato i tempi: da qui l’incomprensione del pub- blico. Era uno spettacolo basato su straordinarie intui zioni, quelle relative all’astrazione del concetto di cru deltà. Era la fine del ’69 e gli inizi del ’70. Si era parlato moltissimo di crudeltà nel teatro: Bene era arrivato al Gran Guignol anche se con una sua partico lare forma di stilizzazione. Ronconi voleva raggiungere 10 stesso effetto giocando tutta la rappresentazione su di un piano astratto: era un’idea semplice e geniale al tempo stesso. Aveva scelto interpreti tutte femminili per dare, in maniera più violenta e sconvolgente, forma alla truculenza « maschile » del teatro elisabettiano (l’autore era Cyril Tourneur). Ricordo con quanta vio lenza emergevano i concetti di cattiveria spaventosa dalle bocche di creature fragili e graziose. Credo che se 11 Vendicatore fosse stato realizzato oggi forse sarebbe apparso come uno spettacolo molto moderno e di grandi invenzioni registiche. Vi furono tre mesi di prove: un’esperienza fondamentale che mi fece capire un nuovo modello di lettura di un testo, un nuovo modo per esprimere tutto un concentrato recitativo. Si trattava di un’analisi volta a recuperare le pieghe di uno stato umano oltre i sedimenti primi di un testo: nella psicologia del profondo, dove si annidano i più segreti motivi delle passioni, i dati inconfessabili della nostra esperienza. « Calderon » Vorrei che tu mi parlassi del tuo lavoro in Calde ron. Se non sbaglio, in questo caso si sono fusi tre momenti della tua esperienza-, quello della tua rinno vata coscienza di attrice, quello di un rapporto esaltan te con Ronconi e quello di una conoscenza personale dell’autore, Rasolini. Nella prima edizione, quella dello scorso anno, in terpretavo due ruoli. Nella prima parte quello di Don na Lupe, e poi quello di Rosaura. Donna Lupe è la moglie del potente: una donna che aveva cercato di sfuggire da giovane alla logica del potere, per rientrare nella norma subito dopo aver commesso l’errore. Era stata come Rosaura, la giovane che vive il suo incubo, il suo sogno. Nella scena de « Las meninas » parla della naturalezza del fascismo, come di una cancellazio ne di tutti i valori puri della giovinezza. Non sapevi se ridere o piangere. Ronconi aveva dato un’andatura crudele e, al tempo stesso, astratta al personaggio. Diventava orribile e pietoso. Mi ricordai del Vendica tore. La seconda Rosaura, quella che interpretavo quest’anno, nel nuovo e completo allestimento di Cal deron, era una specie di complesso di colpa della don na aristocratica. In questa figura si concretizzano le visioni di una vita che avrebbe potuto essere di emar ginazione e di tragico vuoto se non fosse stata vissuta nell’agio e nelle ricchezze. Quindi Rosaura è la parte in nero di Donna Lupe. Ma, in questo personaggio, Ron coni ha voluto sviluppare l ’asse di un appassionato esame del personaggio femminile secondo la concezione pasoliniana. Allora ne viene fuori il tema della dinami ca di confronto uomo-donna secondo quella sincerità che era insita nella mente e negli scritti dell’autore. Pasolini non si nascondeva niente e andava a mettere il dito nella propria piaga fino in fondo, fino a tirarne fuori le ultime stille di sangue. Era il suo bisogno disperato di verità. Ora capisci perché questa Rosaura, secondo la regia di Ronconi, è diventata la sintesi di una serie di donne: è la Donna. È la madre, ma anche il medico che fa l’analisi ed esplora la coscienza; è il tormento di voler vicino a sé la figura femminile, di volervi dialogare: memoria turbata dell’amante e fossa dell’emarginazione. Tutti questi volti di donna si sus seguono come momenti singoli di una tormentata esi genza di identità. Per portare a termine la lunga scena sulla Donna mi resi conto che c’erano molto difficoltà: riguardavano il piano umano e consistevano nella ne cessità di riuscire a guardarsi fino in fondo, proprio come aveva fatto Pasolini. È per questo che capii immediatamente l’imbarazzo di Luca, cui si accompa gnava la mia serenità e una totale disponibilità. Mi ero resa conto del piano sottile e delicato in cui voleva svi luppare tutta la scena. A quel punto capimmo che la presenza di altre persone turbava quella specie di poetica seduta psicoanalitica in cui dovevamo scende re: io, Prati e Luca. Così ci siamo chiusi per tre giorni e soltanto noi tre abbiamo compiuto questo lavoro, che è un lavoro sulle nostre coscienze, un’analisi delle nostre verità interiori, un discendere sul piano persona le, per trovare quelle leggi di valore universale che sono proprie dell’animo umano. Soltanto alla fine dei partecipazione i diversi momenti, spesso è lì che trovo modo di realizzarmi. Ho una profonda necessità di comunicare, un desiderio di donare che spesso sento ricongiungersi alla presenza di un costante bisogno di maternità. Può sembrare anche banale, ma certe attese non sono semplicemente da ascrivere a delle aspirazioni generiche: hanno un preciso referente nell’esperienza privata che si sta vivendo. Con Luca anche questi momenti diventano delle sottili forme di intesa, episo di del nostro stare insieme, aspetti del nostro lavoro comune. In linea generale, mi sembra di avvertire una tua nuova posizione nei confronti della scena. C’è la tua recente esperienza con Ronconi, e poi c’è la tua inter pretazione para-negatrice di Yerma, con Marco Ferreri. È vero questo? Se per negazione si intende una posizione dialettica con quanto uno ha già fatto è vero quello che dici. Il cambiamento, comunque, deve essere un dato costante della nostra esperienza e deve rappresentare un preciso momento del nostro necessario evolversi. Il mio in gresso ufficiale in teatro avvenne con Totò. Chiese a D’Amico una giovane attrice e fui scelta per un suo spettacolo. Totò commentò la mia prima interpretazio ne dicendo che era di estrema naturalezza. Si era con vinto che io fossi figlia d’arte. Quella naturalezza veni va anche da una fragile coscienza del palcoscenico, nel senso che era il risultato del mio grande entusiasmo. Più tardi, con Gassman, capii che quello era un punto di arrivo e non un punto di partenza. L’essere naturali è il raggiungimento di un modo compiuto di porsi di fronte al palcoscenico, il risultato concreto di una con sapevolezza di tutti i segreti della scena, l’esito natura le di un sedimentato rapporto conoscitivo di tutti gli attributi di una realtà. Spesso capita di ritrovare la naturalezza in quegli attori che sono nati dal palcosce nico, nei figli d’arte, nell’attore di tradizione. Quando io, ancora oggi, ne trovo qualcuno, mi metto ad ascol tare gli episodi del suo lavoro: so che da lì posso sempre scoprire qualcosa di nuovo, un segreto che magari mi era sfuggito. Con Marco Ferreri sono arriva ta ad un modello di recitazione del tutto peculiare. Quello che è successo riguarda lo straordinario mecca nismo di accordo tra momento interpretativo e realtà cinematografica. Ferreri, in Yerma, mi ha chiesto il pudore: mi ha indicato questo atteggiamento umano come coordinata costante del mio recitare. Ma il pudo re, in questo caso, diventava un preciso modello e- spressivo e si accordava col mezzo televisivo in cui mi venivo ad esprimere. Pudore voleva dire recitare a voce bassa, rendere tenui i toni dei sentimenti, porre ogni dato delle passioni come aspetto naturale della comunicazione. La scelta, del resto, riguardava il modo di intendere il personaggio lorchiano secondo un’intima logica contadina. La donna dei campi non urla i propri sentimenti (a parte il discorso legato alla peculiarità comportamentale relativa a certe culture locali: vedi il senso della morte particolarmente espresso nelle regio- « Calderón » tre giorni mi sono resa conto del miracolo che era avvenuto. Tutto, a quel punto risultava chiaro, raffor zato dalla luce di una precisa leggibilità, beneficiato dalla coscienza liberatoria che ne era conseguita. In quei tre giorni Vesplorazione è avvenuta non solo al livello testuale, ma anche a quello relativo al piano privato, al confronto appassionato e totale con la real tà, quella soggettiva e quella oggettiva: momenti che, alla fine, risultano essere dei dati inscindibili anche se distinti. Quindi il testo pasoliniano finiva per diventare un sottotesto, un modo strumentale per compiere un lavo ro di analisi. È l’ipotesi che ha guidato Ronconi questa. E l ’idea centrale rimane quella della ricerca di un processo di identità. Le figure di donne dipanavano una specie di scala psicologica che non ha un preciso punto limite: tutto è infinito e il processo di indagine acquista un necessario valore relativo. Per quanto riguarda la mia realtà di attrice, il mio lavoro interpretativo, ho sentito di vivere una splendida forma di approfondimento, un passo avanti verso una maturità espressiva che devo senz’altro a Luca. Io amo molto il teatro, ne vivo con espressive: in genere coagula l’atteggiamento del pub blico di massa destinato a mutare col mutare del gusto. Certo se divismo vuol dire avere più pubblico che ti guarda credo che a tutti piacerebbe essere divi. Nel mio piccolo, però, mi accontento di quella fetta di popolarità che mi sembra di aver avuto. Per raggiunge re le grandi platee ormai c’è la televisione: intepretare film per la televisione è chiaro che mi affascini molto, e proprio per la possibilità di raggiungere un vasto pubblico altrimenti irraggiungibile con il teatro. Il ci nema non mi ha aperto le porte perché non avevo i canoni fisici che si richiedevano. Soltanto di recente l’attore non deve essere il bello o la bella. Fino ad alcuni anni fa, l’aspetto fisico era spesso determinante. Non rimpiango niente, però. A quarantanni mi sento pronta a nuove forme di esperienze, mi sento come rinnovata, fiduciosa nel futuro. Se oggi mi chiamasse Fellini — come già fece per Casanova — non sarei più presa dal panico. Ferreri mi ha aiutato anche in que sto: a perdere quella specie di soggezione che mi era nata nei confronti dello schermo cinematografico. E se posso guardare con tanta serenità al futuro, vuol dire che del mio passato non ho buttato niente. Questo è quello che conta, credo. Interviste a cura di Dante Cappelletti « Calderon » ni italiane del sud). La donna, comunque, non grida i propri stati d’animo: li vive nell’intimo, spesso li su bisce. Nei campi il grido ha una funzione relativa al lavoro, alle condizioni sociali dell’esperienza, al mutare dei cicli stagionali e così via. Quando si tratta di sentimenti assoluti come la ricerca del proprio uomo, dello stato d’amore, subentra una profonda discrezione. Provenendo da un ambiente contadino, conosco molto bene questo modello di comportamento. È ovvio che, in un certo senso, il lavoro che ho fatto con Ferreri ha rappresentato anche un ritorno consapevole alle mie origini. Yerma ricerca l’affetto del marito e il figlio altro non è se non il transfert di quel desiderio d’amo re. L’incontro con altri uomini, al di là della realtà coniugale, non la interessa: Yerma persegue fino in fondo la logica del proprio destino. Questa ipotesi poetica, Ferreri l’ha voluta sviluppare attraverso la coordinata dell’intimo, senza per questo intimizzare la situazione. Ho dovuto tener sempre presente la discre zione delle immagini, come risultato di una discreziona lità interiore: questo ha fatto si che il modello recita tivo ne risultasse nuovo, per me assolutamente singola re. Ecco perché dico la naturalezza è una conquista. È veramente un risultato: con Ronconi e Ferreri ho im parato questo. Ma oggi, credo di essere finalmente matura per raggiungere questo tipo di espressività. Mi sento aperta e disponibile a qualsiasi nuovo modello di cambiamento; ho dentro di me quella serenità che esalta la possibilità di esperienze e l’acquisizione di un accordo inedito con il reale. Ho compiuto come un viaggio di « ritorno » rispetto a quella partenza avuta con Totò, ma si tratta di un viaggio compiuto all’in segna di una coscienza e una consapevolezza che, all’i nizio della mia carriera, non potevo avere. Cosa pensi del tuo lavoro futuro? Vorrei avere una casa, un luogo preciso che mi permetta di compiere un lavoro più organizzato e sempre più coerente: un teatro, cioè, dove poter dare forma alle mie passate esperienze, dove poter trovare un costante incontro di ipotesi e momenti espressivi. Sto cercando a Roma un luogo dove poter realizzare questa mia idea. Non è che penso di istituire un’Acca demia, ma credo che, arrivata a questo punto, sarebbe molto più proficuo, per il mio lavoro e per quello di alcuni compagni attori, avere un referente in un luogo dove puoi meglio coagulare le tue energie e i tuoi sforzi. Avere un teatro vuol dire permettersi di fare una attiva politica culturale, misurarsi più da vicino con l’occasione storica del presente e con il bisogno della programmazione del nostro futuro. La critica televisiva ti ha dato un premio per l’atti vità svolta nel teatro e in televisione nella passata stagione. Sei un’attrice, quindi, a cui vengono ricono sciute molte qualità. Però non sei mai stata una diva, non hai fatto cinema. Perché? Non rimpiango il fatto di non essere diventata una diva. Nel divismo c’è tutta la fugacità delle esperienze I l p u b b l i c o d i P r a t o p r e t e n d e l a q u a l i t à CASINI (direttore del Metastasio) A ottobre riprenderanno a Prato le repliche dei tre la vori presentati dal Laboratorio di Luca Ronconi nella scorsa stagione: Le Baccanti di Euripide, il Calderon di Pier Pao lo Pasolini e La Torre di Hugo von Hofmannsthal. Ma probabilmente nemmeno quest’anno si riuscirà a soddisfa re il forte numero di richieste affluite in città. Prato ha da sempre fornito una partecipazione notevole alla stagione teatrale. Certamente è merito della « politica del cartellone » che fa confluire nella città toscana i mi gliori spettacoli della stagione teatrale nazionale. Naturale, quindi, è stata la nascita proprio a Prato del primo laboratorio teatrale che cerca di instaurare un rappor to teatro-territorio. Ed è la prima volta, come si afferma in un documento del Laboratorio, che « un’Istituzione so stiene una compagnia teatrale... per realizzare uno studio aperto, avente come campo d’azione e come interlocutore la città ». Per capire quali risultati ha avuto finora il lavoro del Laboratorio abbiamo parlato con il direttore del teatro Metastasio doti. Casini. Quando sono cominciate le rappresentazioni, direttore? Abbiamo cominciato nel luglio del 1977, presentando Le Baccanti e il Calderon e invitando i lavoratori dello spettacolo. E La Torre? La Torre ha iniziato solo ad aprile di quest’anno, anche se il quinto atto è stato rappresentato dal 16 di giugno. Infatti l’adattamento che ne ha fatto Ronconi per la tele visione mancherà del quarto e del quinto atto. E il pubblico, come ha risposto? Quale è stato l’af flusso? Le Baccanti, che iniziate a marzo hanno quattro mesi di programmazione, contano già 3.200 presenze. E non di mentichiamo che al Magnolfi ogni sera non possono che essere più di 27-30 persone. Il Calderon, che si programma al Comunale che può contenere 300 persone per ogni rap presentazione, ha avuto circa 3.500 presenze. La Torre al Fabbricone con i suoi 75 spettatori per sera ha avuto 1.200 presenze. Ma La Torre è l’ultimo spettacolo, in termini di tempo s’intende, prodotto dal laboratorio. E gli incassi degli spettacoli a quanto ammontano? Il Calderon e La Torre solo di Abbonamenti hanno 8 milioni d’incasso. Il Calderon a questa cifra ha aggiunto an che un altro milione. Per Le Baccanti, tenendo presente il numero assai limitato di spettatori, con le sessanta repliche a una media di 90 mila lire, abbiamo toccato i sei milioni. Le Baccanti si sono pagate, e si mantengono interamente, con gli incassi, ed è una gran cosa, no! Avete potuto soddisfare tutte le richieste in questa sta gione? Magari, invece per Le Baccanti e La Torre abbiamo dei seri problemi anche per il futuro. Le richieste non ci arriva no solo dall’Italia, ma da Francia, Inghilterra, Jugoslavia, Austria... e bisogna organizzare bene e accontentare tutti. Ogni anno a Prato c’è una « prima nazionale » impor tante, qual’è stata quella di quest’anno? Verso Damasco. Perché secondo lei, si sceglie Prato per presentare nuovi spettacoli? Ma, il pubblico di Prato è abbastanza preparato e cri tico, « pretende la qualità », ma è giudice onesto. Per chi vorrà verificare la qualità del lavoro del Labo ratorio di Ronconi restando a casa, ricordiamo che tra otto bre e novembre prossimi, la seconda rete televisiva ci of frirà un « assaggio » della splendida Torre di Hofmannstha dal Fabbricone di Prato. Un invito da non perdere. N o n d i m i n u i r e g l i i n v e s t i m e n t i n e l l a c u l t u r a LANDIN1 (sindaco di Prato) Il Laboratorio di Prato, costituitosi per la progetta zione e la ricerca, in grado « più di porre problemi che di risolverli », dalle parole dello stesso Ronconi, ha posto l’amministrazione comunale della città al centro di molte polemiche puntate per lo più sul problema dei costi di quest’operazione. Le spese che hanno portato a rendere permanente e stabile una struttura come quella del Fab bricone, vengono ritenute nella polemica, eccessive. Il Fabbricone con 350 milioni e però divenuto un impianto stabile, uno spazio sociale e culturale che alla città man cava. Sulle polemiche la parola al Sindaco della città, Gof fredo Lohengrin Landini. Che cosa ha voluto dire per il Comune di Prato tro varsi così polemicamente all’avanguardia nel campo della politica culturale? Certo, Luca Ronconi ha reso più eclatante il nostro impegno culturale, ma voglio ricordare che siamo stati una delle prime amministrazioni comunali in Italia che ha af frontato il problema della ristrutturazione di un teatro del ’700, qual’è il Metastasio, senza nessun contributo da parte dello Stato e finanziando tutto autonomamente. At traverso il teatro abbiamo dato il via a tante iniziative e siamo state una delle amministrazioni, non la sola, che abbia avvertito l’esigenza che in Toscana si dovesse avere una struttura associativa e da qui è nata l’idea del Teatro Regionale Toscano. Partiti dal presupposto di essere un punto e non il tutto del dibattito di politica culturale che è assai com plesso, abbiamo messo in piedi una serie di iniziative tra le quali il Laboratorio. Insieme sono nate forme di col laborazione con il Comune di Firenze che non hanno solo valore culturale, ma anche recupero del ruolo del capo luogo di regione, del capoluogo di provincia con una parte del territorio della regione Toscana. Abbiamo avuto e man teniamo un atteggiamento di apertura e disponibilità a tutte le forme culturali che nel territorio preesistevano ed esistevano, spesso finanziandole: come il mantenimento di tradizionali attività corali come la Guido Monaco, delle attività musicali delle bande, mentre può essere solo ap parso il nostro impegno nell’attività teatrale perché ne ha parlato la stampa, perché se ne è discusso da parte delle forze politiche e anche perché i risultati investono realtà più vaste che la sola città. Ma la vostra attività ha destato molte critiche per il suo eccessivo impegno economico a discapito di altre atti vità sperimentali assistenziali come per esempio quella per gli handicappati? Vede, ci siamo trovati in una crisi economica che ha attraversato il nostro paese e che si è riflessa anche nella pubblica amministrazione. Così l’attività finanziaria ha do vuto rivedere certi orientamenti nel campo ad esempio della politica dei servizi e qui sono abbastanza naturali le critiche cittadine. A Prato avevamo il trasporto gratuito e ora abbiamo invece tariffe, ma il problema non ci è certo nato dall’impegno nell’attività culturale. La rifles sione è stata in ambito generale sul ruolo che devono as solvere i Comuni nel quadro delle difficoltà economiche che attraversa il Paese. Ma non è certo l’impegno econo mico della nostra politica culturale che è andato a detri mento di altre attività e che sia stato ragione e causa dei nuovi orientamenti. Quando mi si dice, lei me ne cita un esempio, si fa quest’attività culturale e si chiude una attività di sperimentazione degli handicappati, desidero dire che l’impegno finanziario dell’amministrazione comu nale per quella iniziativa è stato pari al contributo che dà il Laboratorio, e che è di 50 milioni l’anno. In un periodo di crisi non si tratta di diminuire l’in vestimento nel settore dell’attività culturale proprio perché si dice che la crisi è sociale, ma anche di valori. Si tratta semmai, di riuscire a trovare una giusta collocazione degli investimenti. Nel settore della cultura credo che l’impegno che noi abbiamo nel bilancio del Comune con l’attività culturale sia un impegno compatibile al bilancio del Comu ne e sia un contributo importante al dibattito che si è aperto di riflessione critica in relazione alla crisi del Paese. N e l r a p p o r t o c o n l a c i t t à c ’ è p o c o d a i n v e n t a r e 'M ONARCA (assessore alla cultura) Prato quest’anno ha mostrato il lavoro svolto da due anni dal suo « Laboratorio di progettazione teatrale » con dotto dalla cooperativa Tuscolano sotto la direzione di Luca Ronconi. Il Laboratorio nasce due anni fa in una realtà in cui, come dice Ronconi, in un’intervista al Notiziario della città: « Esistono dei gruppi, delle compagnie, anche pre stigiose, che si piazzano in una città, in un paese, vanno in giro per tutte le piazze dalle otto del mattino a mezza notte, per creare movimento, e sono tanto contenti. Poi il giorno dopo se ne vanno. Chiaramente il nostro scopo è proprio l’opposto. Quella gita dà molto piacere reci proco e dà anche l’illusione di una grande partecipazione, di una grande festa collettiva. Io che credevo alle feste nel 1969 quando abbiamo cominciato a fare un tipo di teatro che è stato per l’appunto definito molto festaiolo, molto popolare, festevole, oggi non ci credo proprio più. Non credo che i problemi culturali seri si risolvano in cli ma festevole e so che una ricerca lunga come quella che cerchiamo di fare qui non provoca entusiasmo, provoca noia, sofferenza e in qualcun altro interesse ». A sei mesi da questa dichiarazione di Ronconi, dopo aver visto quanta eco ha avuto nazionalmente e interna zionalmente l’« esperienza » del Laboratorio, per poter comprendere quanto e come la città sia stata coinvolta in quest’operazione, abbiamo parlato con la dottoressa Elia- na Monarca, Assessore alla cultura del Comune di Prato. In un suo articolo lei scriveva che « è necessario in vestire » nel settore della cultura « per toglierla dall’isola mento e recuperare il suo ruolo politico di conoscenza ». Come si è realizzata a Prato questa operazione e come si è arrivati al Laboratorio di Luca Ronconi? La prima tappa è stata negli anni ’60, il recupero del teatro Metastasio come teatro comunale e non come teatro autonomo, e quindi con un organismo direttivo eletto in consiglio comunale. Poi è iniziata una « politica del car tellone » del Metastasio facendo arrivare a Prato gli spet tacoli più importanti della produzione nazionale, e questo vuol dire anche creare un pubblico nella città, un pub blico teatrale che funziona. Altro momento è stato quando negli anni 70 è cominciato il rapporto con Strehler e si sono gettate le basi per un’organizzazione del Teatro Re gionale Toscano. Alla produzione di Strehler de « Il Fon do » di Massimo Gorkji si è aggiunta poi quella dell’« O- tello » di Gabriele Lavia e si sono accolte molte speri mentazioni, come il Living, all’esterno della cultura ita liana. Parallelamente Prato ha ospitato mostre e balletti e a questo scopo è stato recuperato alla città il Castello dell’Imperatore. Un altro recupero d’importanza eccezionale per la cit tà è stato fatto quando Ronconi venne con l’« Orestea », dopo Spoleto. Infatti il suo « Orlando Furioso » lo rappre sentammo in piazza, ma per l’« Orestea » dovevamo cer care un luogo, uno spazio che divenisse teatrale. Pensam mo al Fabbricone che era una specie di monumento delle lotte operaie di Prato. Nel Fabbricone trovarono spazio pure i concerti di Lui gi Nono e ancora « Utopia » sempre di Ronconi, e « Il Masaniello » di Porta e Pugliese. Poi Ronconi ci ha fatto la proposta articolata del laboratorio, la ricerca sugli spa zi, la ricerca sull’attore, la ricerca sul testo, la ricerca sul l’utente e su questo famoso territorio. Proprio perché ci è stata presentata come proposta culturale a vasto raggio, ab biamo creduto possibile cimentarci in quest’opera. E qual è il bilancio che si può trarre dopo i due anni di attività del Laboratorio? La formazione fu fatta agli inizi del 76, ma da allora il Laboratorio ha subito un’interruzione di circa sei mesi per mancanza di finanziamenti, quindi il lavoro effettivo è stato di un anno e mezzo. In questa prima fase dell’espe rienza la ricerca sugli spazi è andata abbastanza avanti. C’è stata la riscoperta di spazi tradizionalmente deputati al tea tro come è avvenuto per l’Istituto Magnolfi, dove il teatri no era quello di un collegio e gli spazi intorno non erano mai stati utilizzati. Lo stesso Metastasio è stato utilizzato in termini diversi. La ricerca sullo spazio è andata avanti e ha dato risultati che faranno riflettere il teatro italiano, ma anche noi come città. La ricerca sul testo che si è portata anche nella scuola è stata già meno produttiva essendo più difficile instaurare un rapporto di scambio. Infatti finché i componenti del Laboratorio sono andati a leggere e recita re, per esempio, Le Laccanti c’è stata partecipazione. Quan do poi però la scuola doveva elaborare un suo rapporto con il Laboratorio il meccanismo non è scattato. Mentre invece è scattato con i corsi delle 150 ore dove c’è stato un più ricco rapporto di scambio probabilmente dovuto alle mo tivazioni di questo servizio sociale. Anche da un punto di vista teatrale il bilancio non può essere che positivo, mentre per quello che riguarda il rap porto con la città ci sono molte perplessità. Fino a oggi in fatti il Laboratorio non aveva dei prodotti già elaborati, la fase della ricerca era estremamente interna per cui confron tarsi con la città, su cose non realizzate, è stato molto pro blematico. Forse bisognava trovare, come è stato tentato, diverse forme di rapporto con la città; si è dato spazio, per esempio, alle iniziative collaterali: gli incontri sul giorna lismo, la televisione, che però non si differenziavano da tanti altri incontri. Anche in questo, il Laboratorio è stato supercritico con sé stesso, sperando di inventare chissacché, mentre credo che nel rapporto con la città ci sia poco da inventare, c’è da rapportarsi. Molto probabilmente, alla ripresa, sarà possibile farlo su cose già realizzate. Durante la conferenza stampa di giugno, al Ridotto del Metastasio, lei ha sostenuto che il Laboratorio ha dato con questa esperienza un contributo al teatro, un contributo «di crescita libero da certi schemi, che dovrebbero essere rivi sti ». Intendeva parlare degli Stabili? Molti hanno visto il Laboratorio di Prato come espe rienza alternativa agli Stabili. Noi non abbiamo inteso fare la guerra allo Stabile, al teatro pubblico italiano, nei con fronti del quale c’è un dibattito aperto che coinvolge la città in cui esso ha sede, vedi Milano, Genova, Roma, ecc., per ché anche lì c’è il problema del rapporto tra questa strut tura e la città e le altre strutture culturali della città. Noi volevamo dare soltanto un contributo diverso anche nella organizzazione istituzionale, infatti a Prato è un ente locale che fa una convenzione con una cooperativa. Abbiamo volu to dare un contributo al dibattito su come certi schemi, in cui il teatro italiano è andato avanti fino ad ora, possono essere rivisti e corretti. La nostra è una proposta non « al ternativa a », ma all’interno del dibattito generale sul teatro. E nel dibattito culturale della città in quale modo e in che misura il Laboratorio ha fatto segnare delle tappe? Prato ha sempre avuto nella politica culturale, in questi ultimi dieci anni, un impegno non indifferente di rilievo regionale e nazionale. L’esperienza del Laboratorio ci ha posto a galla del dibattito nazionale e internazionale. Quin di la città ne è stata arricchita proprio perché ha dinanzi a sé dei problemi a cui deve dare delle soluzioni. La cronaca cittadina registra puntualmente le prese di posizione e le discussioni di forze politiche, di gruppi culturali, di cor renti politiche all’interno dello stesso schieramento di par tito e la città, si può dire, ne è stata coinvolta nel suo insieme anche se il dibattito poi non è stato mai appro fondito. Troppe polemiche forse? Certo, troppo spesso il terreno su cui si sono impostate le discussioni è stato limitato all’ambito delle spese. Certa mente il problema dei costi è un problema reale che esige anche però una correttezza d’impostazione che non c’è stata. Bisogna paragonare concretamente i costi del Laboratorio con quelli di analoghe esperienze e tener conto dei risultati, dopodiché si potranno accettare, valutare e discutere tutte le critiche. Invece tutto ciò non è stato fatto e la polemica è servita solo a sacrificare il dibattito politico e culturale di quest’operazione e così anche certe correzioni, che si potevano dare al Laboratorio per modificare il suo modo di rapportarsi con la città, non sono state fatte. Mentre si continua a dire perché il Laboratorio e non le fogne, perché il Laboratorio e non le scuole, perché il Laboratorio e non la refezione, confrontandolo cioè con cose anomale rispetto all’esperienza nel suo insieme. Il comune di Prato che rapporti ha avuto con istituzioni come l’Istituto d'Arte di Firenze, ai cui allievi sono andate 30 borse di studio per la loro partecipazione al Laborato rio, il DAMS di Bologna o l’Università di Siena? Le borse di studio sono state date a titolo di rimborso spese per cercare di evitare il pendolarismo dei ragazzi. Il rapporto con le istituzioni è stato quasi inesistente, mentre singolarmente la partecipazione degli studenti è stata note vole. Forse il rapporto non c’è stato per la mancanza di un « prodotto finito », infatti, finché si è nella fase di studio, il confronto è possibile con i giovani che hanno quell’in teresse, nella fase dei risultati anche le istituzioni, che han no dei prodotti finiti, possono mettersi al confronto, non prima. Penso che i limiti siano stati questi anche perché l’esperienza era nuova, sia per noi che per gli altri. Non è certo il primo Laboratorio ma è certo l’unico ad essere così articolato. Quale allora il bilancio con l’utente, con lo spettatore? Il rapporto con l’utente, il rapporto prodotto-spettatore, si è mostrato in maniera del tutto originale rispetto a quelli che il teatro comunemente produce. Spesso la validità di un prodotto viene misurata dalla quantità delle persone che lo fruiscono, ed è forse anche giusto. In questo caso Prato si trovava ad avere tre spazi teatrale aperti: Le Baccanti con 24 spettatori, La Torre con 75 e il Calderon con 350 per un totale di 500 persone. E questi sono dati nuovi per il teatro italiano. Per cui nasce il problema: che cosa scatta, quale meccanismo si mette in moto quando 24 persone si trovano con Marisa Fabbri, unica interprete di un dramma a più voci. Questo è un rapporto che va approfondito in un dibattito più ampio che Prato. Anche il rapporto con lo spettatore è quindi stato completamente sperimentale. Se riprenderà questa esperienza, quindi, potremo pure ri mettere in discussione, a livello non solo di distribuzione ma anche di produzione, il problema di un rapporto con l’utente anche in termini quantitativi. Complessivamente allora è un bilancio in positivo? Certo in tutte le articolazioni di cui abbiamo parlato, l’unica insoddisfazione è perché non siamo stati capaci di dibattere questi temi mano a mano che il Laboratorio li metteva alla luce. Interrompendo adesso, la verifica è stata più con il teatro nazionale e internazionale che con la città e la regione stessa. A questo punto c’è la necessità di una seconda fase che potrebbe essere a gennaio del ’79 con la ripresa dei lavori e la discussione, che a prodotto finito, si potrebbe finalmente realizzare nella città. C o n s e n s i p e r p l e s s i t à e c r i t i c h e INDACO (consigliere DC) La Democrazia Cristiana rappresenta a Prato l’opposi zione nel Consiglio Comunale. Alla discussione in Consiglio per decidere se si rinnoverà a Ronconi la convenzione per concludere il lavoro del Laboratorio, la DC ha preparato per ottobre una conferenza-dibattito da tenere nella città. Lo scopo è di sensibilizzare la popolazione sul pro blema del Laboratorio per trovare una soluzione che ri- specchi la volontà di Prato. « L’assenso che noi abbiamo dato fin da principio a questo esperimento — dice il prof. Indaco — si è mano mano trasformato in perplessità e critica, mentre interna zionalmente il Laboratorio aveva favori e riconoscimenti. Ma noi, come città, avevamo visto sfumare il discorso che era stata proposto sul e con il territorio ». La città, insomma, si era sentita esclusa mentre Ronco ni « narcisisticamente — aggiunge Indaco — si era quasi chiuso in un’accademia». A differenza delle critiche e delle discussioni che ave vano animato i mesi estivi, solitamente sordi alle polemi che, e ' che avevano toccato sempre, o almeno prevalente mente, i tasti economici, la DC di Prato si ripropone, ora, interventi sui contenuti e sulla gestione. « Infatti le verifi che sono risultate piuttosto negative, — dice il prof. Indaco — Alla fine di giugno gli spettacoli erano tre (di cui uno, “La Torre” incompleto) sui quattro previsti. Il discorso fatto sulla carta e articolato nelle intenzioni del Laboratorio sull’intervento nel territorio, può dirsi in gran parte fallito. I fondi serviti per la realizzazione dei tre lavori di Ronconi avevano completamente messo in secon do piano le altre attività sociali e culturali della città ». Il Laboratorio cioè aveva assorbito, anche secondo altre voci cittadine, troppe energie per una città come Prato e questo era andato inevitabilmente a discapito di altre attività. « Prato era diventata solo il Laboratorio, ma non lo sapeva », afferma il prof. Indaco. È difficile risvegliare una città tranquilla, ma i sociali sti sono riusciti a farlo con le polemiche. «Certo al Festival dell’"Avanti!” Martelli ha addirittu ra lanciato la “minaccia” di fare un referendum sul Labo ratorio, ma i socialisti in città, si sa, sono degli strani animali politici. Aprono spiragli e poi al dunque... ». E la vostra posizione allora? « Le Baccanti » « Noi la diciamo esplicitamente-, vogliamo più chia rezza, più onestà politica anche. Per ora non ci pronun ciamo né per l’interruzione né per il proseguimento, ma se Prato vorrà ancora il Laboratorio esigiamo garanzie, con precisi momenti di verifica e di confronto con l’Ammini strazione e quindi con la città ». U n r e f e r e n d u m s u R o n c o n i G AM BASSI (della segreteria del PSI) Il 21 luglio al Festival dell’«Avanti!», a Prato, Claudio Martelli, responsabile culturale del PSI, ha lanciato la minaccia di un referendum cittadino, attizzando di nuovo le polemiche per il rinnovo della convenzione Prato-Ron coni. Sono soltanto le troppe energie economico-finanziarie chieste alla città a far prendere una posizione così spregiu dicata al PSI? « Non solo — ci ha risposto il vicesegretario della Federazione pratese Gambassi — ma certo la fetta che il Comune assegna alla cultura è stata monopolizzata da Ronconi e mi sembra più che un buon motivo per chiedere il consenso alla città prima di ogni altra decisione ». Anche i socialisti infatti rimproverano al Laboratorio il « tradimento » del discorso sul territorio. Per loro, Ronco ni è passato a Prato senza aver lasciato traccia, se non con forti buchi nel bilancio comunale. Pur non ignorando le strutture, come il Fabbricone o l’Istituto Magnolfi che sono state restituite alla città come centri polivalenti, rimproverano all’Amministrazione Comunale la troppa lar ghezza nell’accettare le richieste del Laboratorio. « Non è solo Ronconi che fa cultura in città! E anche se — prosegue Gambassi — il lavoro sperimentale deve necessariamente essere fatto, non è detto che debba pesare solo ed esclusivamente sulle energie di una città come Prato ». E s’intuisce che parlare di referendum è servito come ennesimo tentativo per coinvolgere la città prima della seduta della Giunta. Così la città si è ridestata, o almeno pare, e tutti ora parlano del Laboratorio, anche se dopo due anni di « poche parole ». « Anche l’ARCI ha preso posizione — dice Gambassi — echeggiando in maniera sia pure attutita perplessità e preoccupazioni ». Probabilmente però Prato ha ancora bisogno di chia rezza in mezzo a questo turbine di dichiarazioni e per questo anche i socialisti pensano a una necessaria riflessio ne collettiva. Intanto affermano di non voler essere la causa della fine della sperimentazione ma « se per ripro durre otto mesi di spettacoli — conclude Gambassi •— la Cooperativa Tuscolano chiederà 600milioni, diremo addio a Ronconi! ». « La Torre » Servizio fotografico di Marcello Norberth Interviste a cura di Beatrice Serani I p r e m i I d i 1 9 7 8 Il 13 settembre sono stati assegnati a Saint Vincent i premi IDI 1978 per la drammaturgia italiana. Per la migliore novità italiana il primo premio è andato a Diego Fabbri, per « Il Commedione », rappresentato dalla Cooperativa degli Associati. Il primo premio per la migliore regia di novità italiana è stato assegnato a Luca Ronconi per la regia di « Calderon » di Pierpaolo Pasolini. Le « Maschere d’oro » per i migliori interpreti di novità italiane sono andate a llaria Occhini per l'interpretazione di « Vita di William Shakespeare », a Giancarlo Sbragia per l'interpretazione de « Il Commedione », a Gabriella Zamparini per l’interpreta zione di « Calderon ». Riconoscimenti speciali ad Aldo Ni- colaj per le novità rappresentate nel corso della stagione, a Mario Guidotti per l'attività del Teatro Povero di Montic- chiello, a Silvio Spaccesi per l’attività svolta in favore del teatro italiano, a Perla Peragallo per il suo contributo di attrice nell’area più avanzata di sperimentazione. Nell’ambi- to della Rassegna delle novità italiane organizzata dall’IDI sono stati inoltre assegnati premi a Dacia Maraini per il « Don Juan »; a Massimo Castri per « Il Bianco, l'Augusto e il Direttore », migliore regia; a Patrizia De Clara per « Poli zia è bello », migliore interpretazione femminile; a Aldo Reggiani, per in « Strindberg contro ». interpretazione maschile la migliore E D IT R IC E T U S C U L U M s.r.l. VIA PIAVE 4 FRASCATI C O L L A N A T E A T R A L E M O D E R N A d ire tta da Ita lo A lig h ie ro Chiusano Lucio De Felici 1 " RIUSCIRÀ’ MIA MOGLIE A SPOSARLO? Lucio De Felici 2 " COSA DITE? Italo Alighiero Chiusano 3 " LA SILVIA DELL’ARCOBALENO (e altri atti unici) Lucio De Felici - Antonio Lo Iacono 4 " UNA SCIARPA LUNGA VENT’ANNI Alberto Perrini 5 " NON SI DORME A KIRKWALL Ermanno Carsana 6 DIAPASON (e altri atti unici) Samy Fayad 7 IL NUDO E LA NUDA Sandro Parrini 8 Paolo Levi 9 Pier Benedetto Bertòli \ I DIA,RI lu " Luigi Santucci n Fortunato Pasqualino a o Siro Angeli a q 13 " ASSURDO MIO FRATELLO IL CILIEGIO a a Enzo Maurri " L’ARCA DI NOE’ * UN CAVALLO PER SUA MAESTÀ' " " FAUST " LEGITTIMA DIFESA " I PESCI Giancarlo Sbragia ne « Il commedione » di Diego Fabbri CONCESSIONARI ESCLUSIVI PER LA DISTRIBUZIONE PIEMONTE Distributrice Nord s.r.l. Via Beretti, 32 TORINO VENETO Faggiani & Zampini s.n.c. Via Istria, 101 PADOVA LOMBARDIA L.D.C. Via Gioia, 62 MILANO MARCHE Rolando Albertini Via Risorgimento, 33 SAN BENEDETTO DEL TRONTO TOSCANA L.E.S. Via Gioberti, 39 A FIRENZE LAZIO Messaggerie del Libro Via Severo Carmignano, 24 ROMA CAMPANIA DE.RO.MA. s.s.a. Via S. Sebastiano, 72 NAPOLI LIGURIA Ufficio Propaganda Editoriale Via Zolezzi, 14 p. 1 GENOVA SICILIA O.P.A. Via XX Settembre, 70 PALERMO L a te m p e s ta d i S tr e h le r L ’ a r t i s t a s i i n t e r r o g a s u l l a s u a p r e s e n z a c o m e u o m o e s u l l ’ u s o d e l l a s u a v o c a z i o n e Un’isola « disabitata »? Si e no. Ha uno strano abitante di diritto e sovrano: Calibano. E due naufra ghi della storia: Prospero e la figlia Miranda. In più, una coorte di spiriti, dei quali attivo è, per ora, soltan to Ariel. Prospero, Calibano ed Ariel formano una triade, legati come sono — nelle diversificazioni — alle forze sotterranee, alla dimensione ulteriore, agli elementi fondamentali della natura; e alla scienza che vi si applica: negromantica, poiché lo scientismo sta ancora accorrendo. Dei tre, il vantaggio è di Prospero: « utriusque linguae ». Infatti, fu duca di Milano donde, spodestato, con la tenerissima figliola quivi sbarcò, a sua volta spodestando l’incolto Calibano (dalla deformità non precisata, ma certamente carica di metaforicità). Pro spero, da usurpato a usurpatore; il Vecchio Mondo cala sul Nuovo, con tutti i suoi « vizi » e tentando un’impossibile comunione. La figlia del cultore d’arti magiche e il figlio, il nigger, della strega Sycofax, in qualche modo sono parenti, e fuor di dubbio speculari (Il tema dell’educa zione, che fallisce con lui, è tra i fondamentali e sintomatici). Si manifesta la prima delle specularità, comincia la sequenza dei « doppi », dei ricorsi, delle ripetitività di ruolo e di situazioni, delle cabalistiche ricorrenze numeriche (il dodici, per eccellenza), dei quali « La tempesta » è intessuta, e nei quali si tradu cono la inquietudine, l’incertezza, l’irrealtà che, a vela rio appena tolto, si accampano, cominciando con quel sossopra marino, che è subito un incantesimo, ma che è soggettivamente patito come esperienza. L’aura conflittuale è ormai data. E che è' « La tempesta », se non un continuo dissidio, che non tro verà la sintesi, ma la rinuncia? L’inizio è una scena di disordine, un anti-masque suggerisce Jan Kott; comin cia una serie dialettica che, dal livello tecnico-linguisti co si estende a quello dell’intera sfera dei contenuti, sino al grande sconcerto della vita che è sogno. Si comincia, dunque, con un’azione di violenza. La promuove ancora Prospero, figura complessa di tiranno e di padre, di studioso, di evocatore d’incantesimi teatrali e no, e di colonialista. Il quale pone il tema del tempo. Se, fuori dallo spazio abitato, l’occhio si fa critico, la conoscenza è possibile, fuori dal tempo si può vivere? Il « tempo » di Prospero è quello di un passaggio, di una consegna. Nell’isola, il presente è un passato ripetuto, e serve da premessa ad un futuro che, per Prospero, è contemplato nella morte, mentre per gli altri è un’ipotesi di pace. Non più che un’ipotesi, fondata sul matrimonio tra Miranda e Ferdinando, e sulla durevolezza del pentimento dei malvagi sbarcati su questa terra, che sembra essere lo spazio e il tempo — sospeso •— di un Purgatorio. « La tempesta » — nell’ottica allegorica — è anche lo stretto discorso di Shakespeare poeta e uomo; la finale petizione d’indulgenza dell’attore è carica di smarrimenti e di preghiere, che muta gli spettatori in uomini. Le acque della finzione hanno fatto presto a placarsi, ma i pelaghi notturni sono irrimediabilmente quelli dell’anima. A tanto s’arriva dopo aver lasciato parlare Gonzalo di un’utopica età di natura (ma dove il Machiavelli così ben conosciuto in Inghilterra? Già quando s’arri va ai nodi esistenziali le risposte politiche non basta no...), e dopo che Prospero stesso, rifacendosi autore d’uno spettacolo di figure del mito evocate con l’aiuto di Ariel (galvanizzato da continue promesse di libertà) e ciò quasi per ribadire, attraverso analogie esemplari, un’esigenza di distacco dal « superfluo » immaginario, aveva concluso, con ferma malinconia, che « noi siamo della materia / di cui son fatti i sogni / e la nostra piccola vita / è circondata da un sonno ». Il tema del sogno: percorrerà attraverso Cervantes i secoli fino al nostro Hofmannsthal. Insieme con quel lo costante dal primo « homo sapiens » dell’utopia, nell’età scespiriana rincalzata dal fascino dei nuovi mondi scoperti. E qui siamo su un’isola, anche, della terra sino a ieri incognita. Gli studiosi hanno già per corso le strade culturali antecedenti Shakespeare. Ora Jan Kott, il saggista polacco, ribadisce e completa opi nioni d’altri circa i nessi tra « La tempesta » e l’« E- neide », volendoci persuadere delle analogie sulla ver sione teatrale di alcuni episodi del poema virgiliano (Virgilio, tramite anche il Cristianesimo, attraversò il Medio Evo, con fama culminata nell’opera dantesca •— un’altra visione! — , come illustrò Davide Comparen ti), ma non di altre, nulla essendo nel dramma della « pietà » di Enea, né del suo mondo di affetti, né delle ragioni del suo errare. Lo spirito della « Tempesta », ricca in esuberanza di temi, è un altro. Alla concreta terraferma toccata da Enea, premessa a Roma storica, qui si contrappone l ’isola nuda, semplice, fuori del tempo, alternativa al mondo acculturato. In essa si ripetono vicende logore, la civiltà non sa che riproporvi tre regicidi, e ripassare un antico gioco di potenti. Che vi si invischi, una volta, Calibano, non condanna costui, che è sì, un mostro, ma che dice le parole più pure sulla natura, della quale è un elemento (terra, acqua) come Ariel (aria, fuoco). Appunto, gli altri (Prospero) si sono manifestati a lui come usurpatori, ed egli non fa che applicare le regole, ubriaco secondo il proprio comprendonio. Forse che gli si possono preferire i rozzi e sozzi e sgrammati cati Stefano e Trinculo? Un altro tema, dunque, è passato, e ha lasciato un senso d’amaro e ha deposto un problema senza risolverlo: quello dell’incontro fra Giorgio Strehler due livelli di civiltà, tra natura ed educazione. Poi c’è il tema del perdono, momento d’afflato cristiano. Gli si mescola l’inquietudine assoluta, mentre il seppellimento della verga magica in fondo al mare sembra poter unificare il permanente parallelismo della sua storia. Tuttavia, Prospero non sarà più quello di prima: il distratto, il libresco, il convinto di sé; pro prio « scrivendo » (uso un termine bivalente, che indi ca insieme la bacchetta del mago e la penna dell’auto re) ha sperimentato e conosciuto l’insufficienza di uno stare fuori, d’una progettazione gelida. Shakespeare, a un certo momento, cessa di essere un « supporter » del Prospero prima maniera. Forse egli ha voluto mettere in dubbio — interrompendo, ad esempio, i « ma- sques » ideati — uno dei poeti ch’egli era, quanto a disponibilità tecnica, quello che lavorava per il teatro nuovo dei Black Friars. « La tempesta » non nasce a caso, ma in un clima d’ispirazione e di riflessioni introdotto dal « Cimbeli no » e dal « Pericle ». La sua grandezza non è eviden te, e qualcuno ha pur storto il naso. La enorme diffi coltà di rappresentarla risiede probabilmente nel fatto, che tiene tutto dentro. Mettere in scena la scorza è facile, e avviene. Ma significa non dire nulla, e prende re in giro un’opera un po’ allegra, un po’ patetica, con danze e melodia, esotismi e lieto fine di conver sioni e di pace, mentre « dentro » è la visione di un mondo sempre gremito di malvagità cui nuove terre pongono problemi che non sa risolvere, e che anzi ri schia di inquinare, resta la legge dell’amore, àncora di speranza. La favola e la storia, la fantasia e la filosofia, il teatro e la confessione; i sortilegi e l’eterno umano; le passioni e il perdono; l’arte e la natura. Tutto questo ed altro ancora si confronta e si scontra su un’isola disabitata, ma non desertica. Un’isola, per il teatro del mondo. Dove il ricalco del vero fa che ci rileggiamo come burattini. E ci fa supplicare, che Prospero non dimetta la sua verga prima della nostra salvezza. Del resto, proprio dai venti versi d’epilogo ricaviamo una implicita conclusio ne sul livello di vita che dobbiamo proporci: sopra quello animale, sopra quello umano, si addice all’uomo il grado intellettuale, che è quello della conoscenza. Penso a Miranda, e a quello che ancora dovrà dirle Prospero, dopo averla istruita, per così dire, in asepsi. Ora dobbiamo discorrere della « seconda paterni tà » che, senza ironia, è quella registica. Chi consideri che la commedia — ora indirettamente indicativa ora troppo esplicita, più incline al lirico-filosofico e al narrativo che non alla conflittualità, più paga di taluni effetti figurativi che non intesa a responsabilizzare i personaggi, e procedente per blocchi e mixages, quasi al limite d’un composto laboratoriale — impone a un regista il maggior lavoro col massimo rischio, converrà che l’appropriazione sia inevitabile, e persino doverosa. Impresa cui Giorgio Strehler non si è sottratto, anzitutto riversando, in questo suo secondo incontro con l’insidioso e suggestivo copione (il primo avvenne a Boboli, nel 1948; tutta un’altra faccenda), una enor me scienza dell’artigianato teatrale, subito accompagna ta da una minuziosa creatività di segni e da una spa smodica ricerca dei livelli tonali più reconditi. Vi sono tre momenti eccelsi: il primo è dato dalla burrasca, realizzata con tale impeto sonoro, con tale sinistro guizzare di luci, con tale scotimento scenico nei quadri della nave in avvicinamento, della furia delle onde sulla tolda e del crollo delle velature e dell’albe ro, da far oggetto di celia Capo Horn, e da coinvolgere l’intera sala in una specie d’ira celeste e universale. Poi c’è l’aspro episodio del banchetto interrotto e di Ariel mutata in Arpia, dove il più sapiente luminismo inve ste una scena di veli aerei e d’ombre sgomente, produ cendo un effetto lancinante di terrore. Infine la con clusione, che, riallacciandosi al quadro finale dei « Gi ganti della montagna » di Pirandello (la carretta dei comici sfasciata dal sipario di ferro), presenta un pal coscenico dissestato — metafora di una navigazione umana non altrettanto felicemente giunta alla riva pur dopo severe peripezie — davanti al quale, stando in platea (e acutamente, dato che l’ora dei resoconti non è più quella delle finzioni), Prospero pronuncia le parole rarefatte e durissime dell’epilogo. Le parole d’una stan chezza e di una impotenza, che peraltro non rinne gano nessun atto compiuto. Il prodigio continuo è costituito da Ariel, dal suo trattamento e dalla sua esecuzione. Lo spirito buono e tutto servizievole è da Strehler visto in una successio ne di rapporti con Prospero, che si fa via via più complessa e squisita e sofferta. Si direbbe, un Ariel che esegua una missione sacra, che compia un itinera rio verso la salvezza attraverso il sacrificio; che nell’in timo, forse, sogni persino di potersi mutare in una creatura umana. Non si dimentichi il mirabile e inten zionale punto del testo, l’acme etica e l’altissima inven zione, là dove Ariel induce Prospero a farsi da mago uomo, mediante il recupero del senso della pietà e del perdono; dice Prospero, a proposito della tenerezza che egli dovrebbe provare per i nemici ora suoi tormentati prigionieri sull’isola che lo ospita da dodici anni: « Lo credi, spirito? », e Ariel risponde: « Io sì, l’avrei se fossi umano ». C’è una specie di progressiva compenetrazione tra Prospero e Ariel, quasi il farsi dello spirito una neces sità per il suo padrone, ed un intenerirsi di costui, come se lo spirito si facesse via via specchio a lui e veicolo di nuovi e migliori pensieri. Ariel è un messag gero angelico, è fatto di luce incontaminata, e la fre quentazione degli uomini (un po’ come per Miranda) gli ha suggerito un antiveggente rispetto, comunque sia, e provocato insieme una gioiosa attività, quasi un piacere di stare con loro. Ariel è, naturalmente, anche fantasia, scherzo, mu sicalità, miracolo. Ma non è, appunto, solo sorpresa e bizzarria o astratta liricità: il suo spessore è quello del mistero poetico, delle voci di dentro. A questa figura, Giulia Lazzarini presta stupendamente sé stessa, tra sformandone le apparizioni in una autentica, dramma- tica storia personale, rendendola la più concreta e per suasiva. Tra un volo e l’altro nello spazio scenico animosamente affrontato, essa canta e incanta, gioca e sfaccenda con inesauribile grazia di movimenti, con suprema intelligenza e sensibilità, con una fluida reat tività, esile « clown » di uno spettacolo che ha tutta la malinconia di un « passo d’addio ». Chi potrà mai fare Ariel, dopo che la Lazzarini — fatta segno d’una dimen sione desiderata dal profondo — ce ne ha data una dimensione estesa sino all’area della commozione? L’assidua penetrazione del testo da parte di Streh ler si esercita in ogni sezione e in ogni sillaba. Egli cerca e ottiene il puro linguaggio teatrale, e trae dalla favola tutto il potenziale d’incantesimi pittorici e di riflessività. La sua isola è un tavolato di palcoscenico circondato da mare, sicché è chiaro il doppio binario, è evidente la specularità della vicenda, che ha come per no Prospero, spodestato duca di Milano, nelle vesti di mago, ma anche di regista. Per cui i livelli di lettura, spinti sino a un biografismo strehleriano che è a sua volta il « doppio » — l’ennesimo bipartitismo, la mil lesima « ripetitività » così egregiamente individuata da Jan Kott nella « Tempesta » — di quello shakespea riano, concernono un’avventura d’uomo ma anche di artista, e le domande investono il potere prima e le possibilità poi di entrambi. Il discorso si unifica nel momento in cui ogni divisoria è tolta, e l’artista si interroga sulla sua presenza come uomo e sull’uso della sua vocazione. In questa attenzione nessuna prevaricazione sul te sto, bensì una interpretazione che, se rinnega persino l’ipotesi del divertissement, come chiave di lettura, ne realizza però anche i momenti di più scoperta comicità. Certo è che i toni della preoccupazione, dell’attesa d’oscure sorti, dello spiazzamento rispetto a una realtà sicura, della angoscia permeano a poco a poco la scena, e ne incupiscono le tinte. Lo stile rappresentativo di Strehler qui è di grande limpidezza e si esercita sia in ariosi affreschi, sia in una forte scolpitura delle varie lifure: i valori plastici sono una permanente acquisi zione nello spazio scenico così virginalmente spoglio, così casto di gesti, di suoni, di forme. Il taccuino degli appunti registra anche un Caliba- no difforme e non deforme: egli è un negro, carico di forze naturali e lo spettacolo tien conto del sotterraneo rapporto tra lui e Prospero espresso nella misteriosa frase del suo signore: « Questa cosa del buio la rico nosco mia ». Che cosa Prospero scarica in Calibano? Forse una sepolta lussuria? Note sparse per un allestimento coerente e incisivo, ostinatamente indagatore di se stesso, acuto fruitore di materiali e trucchi teatrali, scontroso e appassionato, violento e delicato, smemorante e meditativo. Un alle stimento pensato quasi ai limiti della comunicabilità così, da far registrare, al suo esordio pubblico, zone di inadeguatezza e di sordità. Opportunità dunque, di un rodaggio, che non oc corre per Tino Carraro, un Prospero di forte indivi duazione, di densa personalità, di balenante inquietu- Un « volo » di Ariel dine, di sottili distacchi da sé. Un Calibano ben tem prato è quello di Michele Placido. La Miranda di Fabiana Udenio è stata probabilmente intimidita dal l’atmosfera della « prima », che vedeva in sala mezzo apparato teatrale italiano. Corretti Claudio Gora, Lu ciano Virgilio, Osvaldo Ruggieri, Massimo Bonetti, Mario Carrara; generosi buffoni, sgangherati a dovere, Mimmo Craig e Armando Marra. La nervosa, ambigua poesia shakespeariana è stata loro offerta nella traduzione purissima di Agostino Lombardo, scandaglio esperto e sensibile in questa in trecciata proiezione dei misteri umani, che « La Tem pesta » è. Tra gli artefici della qualità dello spettacolo, anzi della sua eccellenza, lo scenografo e costumista Luciano Damiani, che qui non arreda, ma crea uno spazio purissimo e cangiante, e vi realizza alcuni prodigi di scenotecnica. Preziose le musiche di Fiorenzo Carpi, davvero melodie d’aria; indispensabile l’assistenza mu sicale di Raoul Ceroni. Bravissimi gli allievi del Piccolo Teatro nell’inarcare le onde ruggenti. Odoardo Bertani ? c? ,6° I • 0 LA DONNA DI GARBO di Carlo Goldoni Regia: di Francesco Macedonio Interpreti: Lucilla Morlacchi, Vittorio Franceschi, Gianni Ga- lavotti, Bob Marchese, Giorgio del Bene, Franco Mezzera, Donatella Ceccarello, Franco Jesurum, Nadia Srebernik Scene e costumi di Sergio d'Osmo Musiche: Giampaolo Coral Una mediocre commedia » (la definizione è dell'Apol- lonio), che molto affida, per essere ricordata, al fatto che fu la prima ad essere scritta per intero — ossia, anche nelle parti delle maschere, che qui sono due: i canonici Brighella e Arlecchino — da un trentaseienne Carlo Goldo ni. E non la poesia, dunque, bensì la poetica s'ha da cercare, qualcosa che c'è, di sostanzioso, sul piano della riflessione stilistica. Non è di poco conto, infatti, quel suo muoversi su due piani linguistici: il volgare, il dialettale e quello del latino giurisprudenziale. All’interno di essi, l’autore si muove con diverso, e interessantissimo spirito. Quasi trattiene, confina, deprime il dialetto e le maschere sue principali portatrici, come per indicare un distacco. Critica violentemente un dettato volgare enfatico, privo di rapporti con la vita e la sincerità dei sentimenti (di quest'atteggiamento falso e sterile è campione l'eufuistico Elio). Sfoggia, ma per irridere, la sapienza giuridica ridotta a formule e a una dialettica di artificiosi •< distinguo ». Osservava, con l'acutezza sua pro pria, sempre l'Apollonio, che qui « la cultura è, prammati- sticamente, intesa come mezzo per vincere d'astuzia il mondo ». Ecco, i sensi impliciti della commedia cominciano ad affiorare. Possiamo credere del tutto immotivata la infor mazione circa lo stato sociale della protagonista, di Ro- saura? Servo il padre, lavandaia la madre. Lei, autodidatta attraverso l’udito. Una vocazione naturale ad apprendere, una rapida intelligenza, un abile raziocinio. La causa della donna, Goldoni la sostiene in modo ben palese e, se vo gliamo, questi borghesi e questi nobilastri, così posseduti da manie e da vizi, sono una ben livida sfilata d'abiti sen za corpo, d’individui spenti. Spettri di una società che sembra non riuscire a spiegarsi, e votata e ristretta al sopravvivere. Un altro punto di meditazione offerto da Rosaura è il suo veloce stare al gioco, è la nuova forza, la plebea Lucilla Morlacchi furbizia con cui essa organizza il consenso intorno a sé, manovrando l'esangui apparenze dei mondo in cui si è intromessa come marionette pieghevoli, attese ormai da un ripostiglio buio. Rosaura, vive, essa sola, con la sua de terminazione e anche con la sua natura femminile: si rammenti che non tardò a donarsi a Flaminio, e lo dice senza mezzi termini. C'è, in lei, dirittura, disinvoltura, auto- coscienza, franchezza: molto dopo verrà Mirandolina, simi le e no nei suoi calcoli più mercantili e nell'ombra di una condiscendenza rassegnata, mentre nella « Donna di garbo » Rosaura è il motore, è II centro; la giovane vive un'ora d’estro, e afferma la propria compatta persona. Non l'avere scritto ogni parte, ma l’avere contrapposto questa Rosaura senza radici ed echi all'Arte è il segno della commedia, davanti al quale possono ben retrocedere le insoddisfazioni per la pochezza drammaturgica, le evidenti pretestuosità dei movimenti, la modesta « Vis comica ». Il Baratto, dal canto suo, ha messo in evidenza che la Rosaura del Goldoni porta altresì una coscienza d’essere personaggio, desistere cioè in un rapporto con gli altri, che « donna di garbo » la vedono, mentre gli spettatori possono dubitare che doti e comportamento tale la quali fichino. Rosaura ha un suo ■■ doppio » interiore, potremmo aggiungere, e così diventa di singolare importanza il mono logo finale, dov'essa si rivolge prima ai compagni di scena e poi alla gente in sala, decifrando insieme la sua natura teatrale parallelamente alla sua verità etica interiore. Infi ne, Rosaura è doppia anche in arte, recitando essa, da serva, una parte da padrona: essa ha posto una maschera sulla carne, anziché sugli stereotipi del tipo. E nasconde e vendica un'umiliazione, un insulto, uno stato avvilito. La commedia viene ora presentata, a cura del Teatro Stabile di Trieste, con la regia di Francesco Macedonio. Il quale ha avuto una fine idea iniziale; ha, cioè, immaginato che la recita avvenga — come fosse la ■■ prima » assoluta — dallo stesso gruppo di comici dell'Arte, che si accinge quindi ad esplorare un terreno incognito con nuovissime regole di comportamento. È un buon principio, che meritava di esse re ripreso non solo tecnicamente (come accade con le alzate e calate di certi siparietti sulle edicole in cui si « La donna di garbo ». Costumi per Beatrice e Lelio articola la spiritosa scenografia di Sergio D'Osmo), ma con qualche altra perdonabilissima inserzione. Lo spettacolo non raduna i grandi nomi che, in tempi più prolifici di primattori e di aspiranti tali, costellavano le locandine che oggi guardiamo con occhi invidiosi. Ma il complesso è pur rispettabile e specie nel primo atto dà corpo ad uno spirito tagliente, poco disposto a vezzi se condari e ad autocompiacimenti. Tali risultati sono ottenuti quando, soprattutto, sono presenti Lucilla Morlacchi e Vit torio Franceschi. L'attrice intaglia una Rosaura poco vezzo sa e molto necessitata, realizza una figura calata in un combattimento, che ha come posta la propria esistenza e che quindi è intimamente drammatico. All'efficacia pre gnante del suo stringato recitare (che merita qualche rinforzo di invenzione nella parte finale] corrisponde l’argu zia splendida con cui Franceschi devasta il suo Ottavio, patito del lotto, stringendolo in una follia solitaria di astratte tonalità. Vengono poi ¡1 preciso Arlecchino di Franco Jesurum e il sapido Brighella di Bob Marchese: le due maschere ridotte all'osso dal Goldoni qui al suo storico esperimento, con le trepidazioni e incertezze espressive del caso. Piace vole il Momolo di Giorgio Del Bene; un po' esagerato e funambolesco ¡I Lelio del Mezzera; onesta la Beatrice della Ceccarello; di bella presenza la Isabella di Nadia Sreber- nik. A sconvolgere i tempi e a fare, con le interpolazioni, lo sgambetto a Goldoni — anche ammettendo l’intenzione di dissacrare il vieto personaggio — pensa Gianni Galavotti (il Dottore], principe dei riboboli scenici e qui oltre il limite del decoro... interpretativo e ignaro di un lavoro comunitario. AMLETO di W. Shakespeare Traduzione, riduzione, scene, costumi e regia di Giancarlo Nanni Interpreti: Manuela Kustermann, E- doardo Fiorio, Alberto Cracco, Ales sandro Vagoni, Giovanna Fregonese Musiche di Gianni Fiori « Amleto », dunque, protagonista Manuela Kustermann. Arriveremo a lei, dopo, anche, ma non solo, per abbassare il grado di curiosità, magari maliziosa, che una siffatta assunzione femminile di un personaggio maschile potrebbe destare, non dimenticando il tipo di rapporti esistente tra Amleto e la madre, Amleto e Ofelia. Subito, però, si può fare un’osservazione, che non abbiamo mai raccolta in altri let tori della tragedia shakespeariana, su quella frase: « Fragilità, il tuo nome è donna », che il giovane Principe pro nuncia riferendosi alla madre, ma che fa parte anche della sua costituzione morale. Che è altra cosa, s'intende, dal pensarlo donna. Qui, il processo è di asessualizzazione, non di carica mento erotico. Non si tratta di trave stimento, ma di intellettualistica ridu zione del personaggio ad una essenza, ad una condizione generale. Ma vediamo l'impianto, e la parten za. Inizio bellissimo, mezz'ora di af fascinante visionarietà. Il palcoscenico costeggia un’edificio — la reggia — piacentino, ma anche metafisico alla De Chirico; c'è una grande scalinata, e mura forate d'occhi. A destra una grande parete di tela rossa, la nota del sangue contro il biancore dei muri. Un lungo drappo nero si allunga sui gradini, un mantello blu notte (per Amleto), un grande velo bianco cala e palpita nell'aura invasa di fumigazione (è lo spettro). I personaggi sono ap parizioni, loro discorsi abbreviati, scene si intersecano diversamente con altre: siamo alla strutturalità drammaturgica. E c'è un grande spec chio, che rimanda ai personaggi il loro volto, e sta lì come per stimolarli ad interrogarsi. Le luci modellano spazi di mutevole inquietudine e la musica è u- n’onda dinamica. Sollecitati così ad una ammirazione partecipativa godia mo questa promessa. Poi, via via, gli interventi creativi di Giancarlo Nanni — traduttore e riduttore del testo, regista e scenografo e costumista — andranno attenuandosi, pur rima nendo intatta una squisita linea stili stica, pur mantenendosi un fascino fi gurativo di tutto rispetto. In questo ambito scenico si muovo no figure di incisivo disegno: ecco il re Claudio col suo scettro permanen te, tanto simile al cartaceo re di ba stoni; ecco i cortigiani in costume vagamente militaresca, e tra essi uno, gobbo e muto, che, dovunque stri sciando, sembra andare annusando il marcio danese. Si evidenzia, a mano a mano, una ricerca di segni, di uno i Manuela Kustermann in « Amleto » di Shakespeare (foto Brenzoni) scabro esprimersi. Posizioni e movi menti diversi e non forzati, tuttavia. Ma poi il diagramma si appiattisce. Si ha l'impressione che gli attori non siano allenati allo sforzo prolungato, pur essendo puntuali e fedeli alla ri spettiva impostazione. Si ha pure l'impressione, che non ci sia più da scavare molto sotto il linguaggio sce nico pur rapido e secco. Siamo al punto, ossia alla domanda sulla chiave di lettura, Forse non c'è, nel senso di una risposta ottenuta, per sé e per noi, dal regista. Forse si tratta, nonostante le apparenze, di un non intervento e di un fermarsi, di una « noia » voluti. Forse il regista dà oggettività e mette innanzi a noi dei blocchi e dei materiali. Forse c’è, die tro tutto, una stanchezza psicologica, o una perplessità culturale. Pare, quindi, che non il fare Amleto una donna (fu già pensato), ma il dargli voce di donna, stia tra la ridu zione dell'eroe (senza offesa alle femministe) e la sua critica, sia un farci sentire subito quella sua conna turata debolezza, che lo porta a farsi regista, cioè a trasferire su un altro piano, e con la mediazione di altri, gli attori fuori di sé), l'adempimento del dovere, cioè l’uccisione dello zio. E allora ecco un Amleto subito preso dal suo interroga tivo: « essere o non essere », e vol- gersi ad una malinconia irrorata di lacrime e spezzata di singhiozzi. Un Amleto sì piccolo ed errante dentro una storia che lo soverchia. E la Ku stermann che nel « Cimbelino » aveva tirato fuori le unghie, qui le ritrae, e si fa esangue forse più del necessa rio. È una maschietta che intenerisce, e si comprende che non potrà essere gravata di troppe ambasce. Essa con corre a quel desiderio di ulteriori e più marcati e innovativi segni e ritmi, che vien formandosi in chi cerchi — assistendo — spiegazioni più salde e attive e provocatorie. Senza negarle un continuo fiuto scenico. Un « Amleto » senza Fortebraccio è altresì un Amleto » non tanto apoliti co, ma anche di etica defenestrata? Non lo crediamo, e pensiamo piuttosto a un'indicazione di totale pessimismo, e dunque a un negativo per coerenza. Però se è vero che esiste un « leva re » in scultura, occorre sotto il corpo di solido marmo: lo spettacolo di Nanni sembra piuttosto esercitarsi su una lastra. Teniamo conto del sicuro valore di Edoardo Fiorio, che scolpisce con lucida tensione Claudio, e dell'ef ficace tratteggio di Rosencrantz e Guildstern fatto da Alberto Cracco e Alessandro Vagoni. Giovanna Fregone se si rivela in un’Ofelia nervosa e disperata, senza fiori e tremuli accen ti. Gli altri debbono irrobustirsi. (è una proiezione IL VERO AMICO di Carlo Goldoni _Regia: dì Gabriele Lavia Interpreti: Gabriele Lavia, Renato De Carmine, Ottavia Piccolo, Annarita Bartolomei, Nino Blgnamini, Roberto Mlnucci, Giampiero Bianchi, Anna Maestri Scene di Giovanni Agostinucci Costumi: di Vera Marzot Nuova Compagnia del dramma italiano Fu probabilmente la Compagnia Rea le Sarda — che tra II 1821 all 'incirca e il 1855 mise in scena un migliaio di spettacoli — l’ultima a rappresentare in Italia « Il vero amico » di Carlo Goldoni, commedia che invece ha tro vato fortuna permanente nei Paesi Bassi e che Aleksandr Ostrowski (l'autore di « La foresta », di « L'uraga no ») meditava di tradurre in russo. La critica italiana, dal canto suo, l'ha rigettata o col silenzio, o imputandole un moralismo che, se altrove apprez zato, per essa costituisce un mortale impedimento a risultati d'arte. Nessu no può sognarsi un capovolgimento della opinione corrente, ma forse qualche correzione alla drasticità del giudizio è possibile, soprattutto quan do, nella sua sbrigatività, trascura u- n'equa analisi delle componenti e In sostanza, si lascia condizionare dal l’assunto goldoniano, dimenticando che ¡I compito della critica è di sco perta, è dialettico rispetto al testo considerato ed alle intenzioni manife ste dell’autore. * Il vero amico » — che appartiene al momento (1750) di avvio ad un fre netico ritmo produttivo del Goldoni, e che in Francia dette il via ad un vivace scandalo letterario, per essere stata una commedia assai adoperata da Diderot in « Il figlio naturale » e per avere II filosofo replicato ai suoi accusatori denunciando a sua volta l'ignaro e pacifico italiano di plagio nei confronti dell'» Avaro » di Molière — è certamente un lavoro, che prende ¡I valore dell'amicizia a tema, e lo conduce sino in fondo ma anche sino al ridicolo, perché attraverso un’artifi ciosa ripetizione di equivoci e di so- prese sconfina nell'astrattezza, nella Ottavia Piccolo, Gabriele Lavia, Renato De Carmine ne « Il vero amico » di Goldoni (foto Donatella Rimoldi) caricatura di un rapporto, e l'amore dell'assunto lo induce a premiare il vacuo Lelio e a strangolare i senti menti naturali. Lelio e Fiorindo, i due amici sono in larga misura insopporta bili in sé, e oggettivamente strumenti di un discorso che alla fine diventa sgradevole e stucchevole, nonostante l’accumulazione farzesca e non comica) delle trovate. Ma la commedia non è tutta qui. Vi si può trovare un secondo binario, una sorta di sguardo cinico, e forse d’am biguità. Intorno ai citati particolari, c'è una piccola umanità che lascia per plessi. Ognuno ha un difetto e si va dalla stramberia all’orrido etico. Se lo stesso Lelio sembra amare più la dote di Rosaura, sua zia, la non giovanissi ma signora Beatrice concupisce grot tescamente Fiorindo con viscere di zitella. Sul che, diciamo che, allora, Diderot avrebbe anche potuto ricor darsi del personaggio di Belisa nelle « Femmes savantes » per rimproverare Goldoni di troppo avide letture. In se condo luogo, che cos'è questa dote delle figure goldoniane, d'essere « a- perte » a scandagli e a interpretazioni non incipriate? Si tratta davvero di una forzatura critica, o dell'ascolto di un messaggio che venlya sommessa mente pronunciato, nonostante le re more dei convincimenti individuali e del costume sociale? la bella Rosaura, non si disvela estremamente interessata ai quattrini del padre? E costui, il signor Ottavio, non è una bella tempra d’ava ro, spintò dalla passione nella catego ria dell’assurdo com’è di colui che nega persino l’esistente. Brutta gente, e se le figure positive sono quelle dei due giovanotti (ma non di primo pelo) non c'è davvero alcuna lusinga a fre quentarli. È la stessa ondulante Ro saura, non convinta mai di sé, a giusti ficare la malevola soluzione registica del finale, dove si ipotizza un « ména ge » a tre. C'è, per questo, più duna premessa nella commedia. Le coperte asprezze, i celati sogghigni, i pungenti tocchi, le verità psicologiche sono il sale non trascurabile di una commedia che è poi costruita a dovere. Il buon mestiere si giova di queste cattiverie, di questi inizi d'attacco verso la defi nizione del carattere. Siamo al di qua del passaggio verso il respiro profon do dell’arte, e tuttavia non sono negati momenti di curiosità e di divertimen to. L'elettroencefalogramma di Goldoni proprio piatto non rimane. Suppongo che la realizzazione della commedia da parte di Gabriele Lavia per l’ottava estate teatrale di Borgio Verezzi sia il massimo ri-sultato possi bile sul palcoscenico. Ritengo che l'obiezione, secondo la quale lo sforzo potrebbe essere stato applicato su u- na materia troppo esigua, vada respin ta. È sempre un grado di conoscenza in più, che ci viene consentito, e ri schiare è opportuno. Del resto il lavo ro di Lavia è quello che cl ha consen tito di sentire meglio 11 testo, ed ha avuto un riscontro immediato nei con tinui consensi del pubblico. Ciò è av venuto perché la sua regia è pene trante e estrosa, e determina un lin guaggio scenico. Una moderata demi stificazione irrora di luci grottesca- mente retoriche le figure di Fiorindo e di Lelio: operazione prevedibile, ma condotta con molta, gustosa icasticità. In parallelo, la ricerca dentro gli altri personaggi approda a centrati disve lamenti. E se di ogni caso siamo av vertiti quando vediamo gli attori via via comparire con visi tendenti alla maschera, per altro essi non sono rag gelati a marionette, ma vivono piena- (fredda, Ancora, mente esplicitando i loro visi o le loro strettezze mentali. Un’allegra ferocia sottende lo spettacolo, che si svolge a girandola attorno a un enorme altis simo letto, che impone tutta una per formance atletica agli attori e soprat tutto un movimento nuovo, carico di slanci e di nuovi segni. Gli attori fanno a gara nell'acuta definizione dei rispettivi ruoli. E se il Lavia ribadisce come Lelio la sagacia dimostrata come regista, Renato De Carmine dona una lucida drammaticità ad Ottavio, è un avaro agghiacciante che ha fatto degli scrigni e delle mo nete le suppellettili duna liturgia: la casa è ormai una specie di chiesa; vedi come voglia restare solo, e macerarsi, per adorare in purità il suo Dio. Un Dio che lo asserisce, e che determina anche i comportamenti intorno: si noti come i contratti di nozze vadano e vengano. Davvero originale il lucido taglio interpretativo del De Carmine, e splendida l'articolazione umanissima data dalla Anna Maestri a Beatrice, un personaggio imparentato, s'è detto in cui l'attrice, che è appena stata Belisa, ha saputo rinnovarsi. Brava Ottavia Piccolo (Rosaura), e da segnalare Giampiero Bianchi nel l’ingrata parte di Lelio per quanto di sporco » vi ha messo, con bella in telligenza e puntualità comica. Finis simo Trivella è Roberto Minucci, e citiamo ancora Annarita Bartolomei e Nino Bignamini. La bella scena è di Giovanni Ago- stinucci; i costumi di Vera Marzot. dramma shakespeariano tradotto nel nostro paese: correva l'anno 1756, e dunque il poeta era morto da quasi un secolo e mezzo! Domenico Valentini, il pioniere dei traduttori, Ernesto Rossi quello degli interpreti. La rappresenta zione avvenne nel 1888 a Firenze; Mi lano non ne seppe nulla. Si vedano, sulla fortuna di Shakespeare nei teatri milanesi, lo studio di Hilary Catti, e su quella specifica del <> Giulio Cesa re » il saggio di Marisa Sestito, che ne segue le sorti fino al 1974. En trambi i volumi sono pubblicati dalla « Adriatica Editrice » di Bari, nella Bi blioteca di studi inglesi diretta da A- gostino Lombardo. In questo secolo, meno romantico e più politico, le recite del dramma si sono infittite, specie nel secondo do poguerra ed al Teatro Olimpico se ne celebra la decima apparizione, che ri ceve un particolare sigillo dal semina rio organizzato intorno all’opera, con vogliando interessi su un arco che va dalle strutture alla linguistica, dai con tenuti politici ai temi di fondo. « Giulio Cesare » è, certamente un dramma politico. L'intellettuale Bruto è la punta di diamante di una congiura che tenta di stroncare alla radice u- n'avvisaglia di assolutismo, un proces so di cesarismo. Il lavoro è la storia di un’iniziativa di necessaria crudeltà e del suo fallimento sul piano indivi duale e su quello storico, ma non secondariamente anche culturale. Ma « Giulio Cesare » non è soltanto un resoconto di fedeltà plutarchiana, e magari un manifesto, non descrive un meccanismo del potere. Si pone, inve ce, delle domande, si interroga sul presente e sul dopo. Riflette una in quietudine filtrata da un sentire che i tempi stanno cambiando, a livello di Pino Micol e Renzo Giovampietro in « Giulio Cesare » di Shakespeare (foto Casadeì) società, ma soprattutto a livello di civiltà. Come è stato già notato, pros simo è « Amleto » a dispiegare il tur bamento dell'uomo su motivi di base. Il teatro massimo di Shakespeare co mincia con questa tragedia lineare e spoglia, dove nulla sta fermo ed ha un’identità garantita, dove la realtà si foggia secondo gli sguardi, e la diffi coltà di pensare il nuovo fa esitante Bruto e incompiuta l’azione. La •> man canza di certezze », approfondita dal Lombardo, contraddistingue un gesto che invano Bruto cercherà di tener fuori dalla mera impulsività, e la tra gedia tutta. Non a caso, a parer mio, vi si fanno tre importanti richiami al teatro (più che altro annotazioni su alcuni speci fici teatrali, come il travestimento e il dialogo nel dialogo), quasi a conforta re una lettura dell’opera in chiave di rappresentazione di un mondo a due livelli, di finzione d’una finzione; del l'opera come rappresentazione d’una crisi definita da una conflittualità permanente tra l’essere ed il parere, tra i nomi e le cose. Dramma politico: meglio, di filosofia politica. La domanda: se sabbia da uccidere Cesare, è superata da quella che, collocando il tirannicidio nella sfera della necessità, pone il problema più ampio della soluzione totale di una situazione informe di libertà e di giu stizia. L'emblematico cammino di Bru to, nella solitudine d'uno spirito medi tativo, verso il silenzio e la morte, svela tutte le difficoltà di « fare la storia » e l’amara osservazione implici ta è che a vincere è l’astuzia machia vellica di Marcantonio, subito dopo in tegrata dalla inesorabile fermezza di carattere di Ottavio Cesare, il nuovo Principe; la realtà umana dei compor- GIULIO CESARE di William Shakespeare Traduzione di Angelo Dallagiacoma Regia di Maurizio Scaparro Interpreti: Renzo Giovampietro, Pino Micol, Luigi Diberti, Fernando Pan nullo, Piero Nuti, Leda Negroni, Giu lio Pizzirani Scena di Roberto Francia Costumi di Vittorio Rossi Teatro Popolare di Roma Sommerso dai « Giulietta e Ro meo », dagli « Amleto » e dagli ■> Otel lo », l'Ottocento conobbe, in Italia, una sola edizione scenica del Giulio Ce sare », che pure era stato il primo tamenti e dei metodi si rivelerà bene nel successivo ■< Antonio e Cleopa tra », dove non ci sarà più posto per le scorie costituite dagli affetti, dalle esitazioni, dai dubbi, se si voglia tene re in mano il mondo e dove non occorrerà più interpellare, anche se demagógicamente, gli altri, il popolo, che ancora nel « Giulio Cesare » ve diamo affollare ¡I Foro e far cose scervellate, ma comunque indicatrici di una presenza. Tutto un retroterra di perplessità, uno spezzone di ipotesi si riflette nei personaggi, impossibili eroi in un'epo ca di transizione, ed esposti a con tinui errori, a turbamenti e cadute: da Cesare a Bruto. Con questa ric chezza di spunti, Shakespeare legge, attraverso un episodio di storia roma na, il proprio tempo, senza prendere posizione, o meglio senza fare del dramma un’enfatica tragedia della li bertà. A chi affidare, del resto, la bandiera? Shakespeare, ormai, s’è av vicinato al mistero dell’uomo, e co nosce la sua difficoltà d’essere e sa che, oltre tutti i giochi del mecca nismo del potere, l'uomo è atteso dai confronti più importanti; quelli con la coscienza e con la grande Legge. Il « Giulio Cesare » è ora presentato dal Teatro Popolare di Roma diretto da Maurizio Scaparro, il quale — avva lendosi della traduzione solida e pronta di Angelo Dallagiacoma — ha ricerca to le scansioni interne del dramma, i successivi nodi caratteriali, spirituali e politici. La scarnificazione dell’appara to coreografico esalta la percezione dei conflitti e delle forze in campo, delle posizioni morali e delle risposte che ciascuno si dà in ordine all’esi stente ed alle sue sfide, non meno che alla propria idea di sé nei mondo. E, dal suo esercitarsi nell’ambito di un « teatro povero » Scaparro ha tratto, inoltre, spunto per alcune soluzioni originali, con ciò dominando la « pro vocazione » offerta da un testo così folto di cortei e radunate, e così orna to della Roma monumentale. La scena di Roberto Francia non offre che una lignea pedana su cui convergono tre passerelle, con possibilità di trasfor mazioni semplici, ma felicemente sug- geritrici dei vari ambienti. E i costumi, sempre del Francia, avvertono, nel bi colore delle toghe, la indeterminatezza come costante, la dicotomia esistenzia le, la ambiguità di una sorte: bianca di vittoria o nera di morte. Nella fervida e limpida consecuzione scenica, ribadita da un fermo e chiaro recitativo che filtra un'austerità ed e- levatezza di tono classiche, emerge la problematicità del testo, e la intensità delle lacerazioni sottese. Dal punto di vista dell’intervento registico, molto interessante la abolizione fisica del coro, non la sua cancellazione struttu rale, come premessa ad una sua as sunzione nel personaggio di Antonio che, al momento della famosa orazio- zia, la moglie di Bruto, sostenuto con vibrante impeto e squisite tenerezze da Leda Negroni, rapida conquistatrice di applausi, mentre Luigi Diberti ha dato a Bruto una impostazione vigoro sa e, direi, aperta, nel senso che non ce lo consegna giudicato e pregiudica to. L'asciutto, preciso Cassio di Fer nando Pannullo, il Casca sottile di Pietro Nuti e le onorevoli prestazioni di Luigi Pizzirani, del neofita Martino Duane, di Riccardo Vannuccini e degli altri giovani attori contribuiscono bene al concerto non soltanto animoso, ma bene studiato nella incisività delle preposizioni principali e nel posarsi delle sfumature. Luigi Diberti e Fernando Pannullo in « Giulio Cesare » (foto Tapparo e Trentin) ne sul cadavere di Cesare, ne dice sommarie battute quasi ripetendo a se stesso ciò che viene ascoltando o immaginando di poter udire. Di più egli governa con la mano i consensi e perfino li sollecita (non fa che tradur re lo spirito del suo astuto discorso). Ma entrambe le allocuzioni, quella scarna di Bruto e quella effusa di Antonio, hanno anche il taglio d’una recita: si accenna in entrambi i casi ad una prova di gesti ed intonazioni, come per sottolineare la crisi della parola in uno stato di crisi di valori, e dunque, il suo ridursi ad artificio. Nessuna delle due strade condurrà al vero bene di Roma, perché entrambe passano sopra la testa della gente, e allora la mancanza del coro acquista un preciso significato simbolico: è as sente dalla scena chi è assente dalla storia. Converrà dire subito che Pino Micol, nella parte di Antonio, esegue una « performance » di strepitoso e mo dernissimo istrionismo e si espone in una vertiginosa scrittura di segni, lun go un assolo che non ammette scarti o soste nella esecuzione di una parti tura di sapiente dodecafonismo. Si segue con il fiato in gola questo eser cizio di equilibrio espressivo permeato di intelligentissima malizia, di diaboli co senso dell’effetto, congiunto al li vido dolore per la morte dell'amico, che, come un imbonitore, signori e signore, qui si piange e qui si vende. C'è poi il Cesare di Renzo Giovam- pietro, mirabile per finezza di allusivi tà, reso umanissimo e segreto nella sua grandezza e nella sua debolezza. Nulla di tonitruante o di volgarmente demistificatorio, ma una specie di as sorta e presentita discesa verso la propria sorte. Un Cesare nuovo e liri co, drammatico e misterioso. Gli ri sponde il puro canto d’amore di Por- Il « G iu lio C e s a re » s p u n to p e r u n d ib a t tito I l t e r r i b i l e p o t e r e d e l l a p a r o l a Mentre nel meraviglioso spazio palladiano del Teatro Olimpico Giulio Cesare secondo Shakespeare e Maurizio Scaparro veniva riproposto al pubblico, con fluito a Vicenza da ogni parte d'Italia ed anche dall’e stero, in un altro lato dello stesso edificio — seppure in orari ovviamente diversi —> nella sala delle confe renze, la stessa tragedia shakespeariana è stata occasio ne di un seminano di studi organizzato dall’Accademia Olimpica sul tema « Giulio Cesare e il delitto politi co »: tre giornate di intensi e affollati lavori sotto la direzione di Agostino Lombardo e Maurizio Scaparro, con vasto e qualificato intervento di studiosi ed opera tori teatrali, ma soprattutto con larga ed interessata partecipazione di un pubblico composto in massima parte di giovani-, dimostrazione evidente che l’argo mento non era riservato solo agli addetti ai lavori ma presentava motivi di più ampia e profonda risonanza, sia sul piano dell’approfondimento culturale, sia nell’i nevitabile riferimento all’attualità in una fase di ripen samento critico sulla base di un modello così autorevo le e universalmente valido. In questo accenno si pos sono già identificare le due anime di un dibattito che non è certo possibile qui riassumere se non nella sem plice indicazione di queste due linee di tendenza: da una parte l’analisi approfondita del testo shakespearia no per rintracciare le intenzioni autentiche dell’ autore ; quasi voler scoprire — dall’indagine sulle fonti, dell’e same sia diretto che comparato delle battute assegnate ai diversi protagonisti, dall’interpretazione più o meno autentica dei passi più significativi — le vere indica zioni politiche di Shakespeare come possono risultare da un’attenta ed approfondita lettura del « Giulio Cesare ». Una scoperta che rischierebbe però di rima nere in una dimensione astratta senza la capacità di procedere oltre, di ricavare da questa occasione — secondo il postulato del valore universale della lezione shakespeariana — indicazioni che sia possibile applica re ad ogni realtà politica, da Roma antica all’Inghilter ra elisabettiana, all’Italia contemporanea. Anche in questa prospettiva il seminario non è certo venuto meno al suo compito: al « reazionario » Shakespeare non sfuggiva affatto il vizio inguaribile e mortale •— sia pure sotto le migliori apparenze — del cesarismo; ma soprattutto il drammaturgo di Stratford-on-Avon ha messo in chiaro un procedimento che risulta oggi più che mai d’attualità, la ricerca del consenso — non importa a favore di quale causa, buona o, più facilmen te, cattiva — attraverso la forza della parola e del l’immagine. Si può così verificare (per usare l’espres sione di Odoardo Bertani nella sua relazione nel semi nario vicentino) il terribile « potere della parola slegata dal servizio del vero ». La lezione del « Giulio Cesa re » — sempre secondo l’indicazione di Bertani — è nella battaglia di Filippi come semplice accidente, av venimento quasi secondario. Roma repubblicana si era già sconfitta da sé quando si era lasciata travolgere dall’abile arte retorica di Antonio invece di prestare attenzione alle pacate argomentazioni di Bruto. Angelo Libertini__ Leda Negroni e Luigi Diberti in « Giulio Cesare », regia di Mau rizio Scaparro (foto Tapparo e Trentini V % % % % % % Luigi Sportelli e Emilio Mardhesini nisce per puntare essenzialmente sul la forza della parola trovando nel pub blico — per quanto ci è stato possi bile verificare direttamente — un'atten zione ed un consenso certo superiore alle più ottimistiche aspettative. Lo stesso Sportelli è il valido interprete del personaggio di Prometeo, mentre gli altri ruoli sono efficacemente ge stiti da Emilio Marchesini, Carla Ro manelli, Pierluigi Aprà, Lily Tirinnanzi, Paola Corazzi e Alessandra Pailadino. PROMETEO INCATENATO di Eschilo Adattamento e regìa: Luigi Sportelli Interpreti: Luigi Sportelli, Emilio Mar chesini, Carla Romanelli, Pierluigi Apra, Lily Tirinnanzi, Paola Corazzi e Alessandra Palladino. Scene e costumi di Franco Laurenti. Movimenti coreografici: Gabriella Mu- Musiche a cura di Carlo Savini. lachiè. Taluni studiosi sono addirittura arri vati a mettere in dubbio che « Prome teo incatenato » — riproposto ora al pubblico italiano da Luigi Sportelli con la Cooperativa Compagnia Italiana di Prosa » •— sia realmente opera di Eschilo, almeno nella versione giunta fino a noi: la leggenda del Titano in catenato ad una roccia per punirlo di aver avuto pietà degli uomini sve lando loro il segreto del fuoco è in fatti occasione per tali invettive nei confronti di Zeus, rappresentato come un tiranno crudele e capriccioso, e degli altri dei, visti come servi timo rosi e opportunisti, da sembrare dav vero poco in accordo con lo spirito tradizionalmente « religioso » di Eschi lo. Certo non va dimenticato che il « Prometeo faceva par te — come tutte le tragedie greche — di una trilogia destinata ad essere rappresentata come un tutto unico e non separatamente, per cui qualsiasi valutazione dovrebbe semmai riferirsi al complesso dell’opera: viceversa del la seconda e terza parte (secondo una attendibile ricostruzione il testo da noi conosciuto andrebbe situato in apertu ra della trilogia, seguito da un ■< Pro meteo liberato » e da un ■■ Prometeo portatore di fuoco »; c'è peraltro chi ritiene che il « Prometeo portatore di fuoco » costituisse la prima anziché incatenato » la terza parte dell'opera) ci sono ri masti rispettivamente alcuni frammen ti e addirittura un unico verso; dav vero troppo poco per valutare appie no il reale significato e lo sviluppo del discorso eschileo. Certo per la no stra sensibilità — che non sappiamo dunque fino a che punto coincida con le effettive intenzioni di Eschilo — il ■> Prometeo incatenato » è opera au tosufficiente e compiuta: la figura del ribelle che non si piega neppure da vanti al castigo crudele quanto ingiu sto, cara ai poeti romantici (valga per tutti il nome di Shelley), rappre senta in termini di altissima poesia l'immagine della forza dello spirito contro la prevaricazione del potere ed insieme riafferma il diritto dell'uomo a sollevare lo sguardo verso il cielo. In conclusione •— fra tante interpreta zioni a cui pure il testo, con le con suete forzature, potrebbe prestarsi •— si torna inevitabilmente al punto di partenza, alla religiosità di Eschilo: una religiosità più alta delle crudeltà e delle meschinità degli dei dell'Olim po — troppo simli agli uomini nelle loro peggiori debolezze —, una religio ne di superiore giustizia che trovi nel la divinità il coronamento delle più alte e insopprimibili aspirazioni del l’animo umano invece di una capric ciosa opposizione o della semplice in differenza. Una tragedia di cui è più facile pro porre la lettura, per i valori poetici di cui si è detto (che ebbero, nel corso dei secoli, estimatori come Sant’Ago- stino e Goethe, per citare due nomi fra i più illustri), che non la rappre sentazione per l’inevitabile staticità che l'argomento impone: la regìa di Sportelli, pur cercando di rimuovere questo limite grazie ai movimenti co reografici immaginati da Gabriella Mu- lachiè per il coro delle Oceanine, fi- LA BOTTEGA DEL CAFFE’ di Carlo Goldoni Regia: Lucio Chiavarelli. Interpreti: Gianrico Tedeschi, Luisella Boni, Piero Sammataro, Gianpiero Beccherelli, Marianna Laszlò, Salva tore Puntillo, Aurora Trampus, Lucio Rosato, Sandro Dori. Scena: Emma Rinaldi e Massimo Spe roni. Costumi: Francesca Panicali. Musiche originali: Rate Furlan. Nella consueta linea del teatro gol doniano, ma con approfondimento an che maggiore rispetto ad altri testi dello stesso autore, « La bottega del caffè » costituisce senz'altro un docu mento particolarmente fedele di una epoca e di un luogo specifici: è l’im magine piena di vita della Venezia set tecentesca, non certo dal punto di vi sta della storia maggiore (anche se si intravede chiaramente il segno di avvenimenti come la decadenza poli tica ed un radicale cambiamento di costumi e di situazioni sociali), quan to piuttosto nella dimensione quotidia na del campiello e della stessa botte ga del titolo. Eppure questi riferimen ti specifici non hanno impedito che <> La bottega del caffè » venisse tra dotta nelle più differenti lingue stra niere, adattando spesso l'azione a luo ghi ed epoche differenti da quelli im maginati dall’autore: ultimo della serie il trasferimento della vicenda nella Ragusa asburgica — con apposita tra duzione in dialetto raguseo — in occa sione della recente edizione del Festi val di Dubrovnik. Non di questa par ticolare « Bottega del caffè ■> vorrem mo però occuparci in questa sede, quanto dell'edizione messa in scena — nell’originale linguaggio goldonia no — dal regista Lucio Chiavarelli; un’edizione rappresentata, in luglio ed agosto, praticamente in tutte le abi tuali sedi del teatro estivo italiano. Il riferimento ad altre trasposizioni, più o meno esotiche e fedeli allo spirito originale del testo, serve a sottolinea re come questa commedia non si esau risca in un ritratto di costume o di situazione, ma assuma caratteri d’uni versalità. Si potrebbero mettere in evi denza — come è stato già fatto in passato con ricchezza e profondità di argomentazioni — certi sviluppi che il discorso goldoniano propone chiara mente sotto l'apparente leggerezza del l’argomento: ad esempio il contrasto — così in linea con una certa tendenza d'interpretazione dei testi teatrali — fra classi sociali decadenti ed emer genti, fra l’aristocrazia di Don Marzio e la borghesia del caffettiere Ridolfo. Crediamo però che l’attualità e validi tà del testo goldoniano stiano più che in tali indicazioni — che pure esisto no ed hanno un loro fondamento — sopratutto invece nel perfetto funzio namento della macchina teatrale, al cui meccanismo è piacevole abbandonarsi a parte ogni possibilità di affrontare o meno i significati più difficili ed impe gnativi. In questo senso si è mosso — senza grandi voli ma con sufficien te padronanza dell’argomento — l’alle stimento di Chiavarelli che poggia so pratutto sul personaggio di Don Mar- (iianrico Tedeschi zio, il ritratto del maldicente che — già secondo la testimonianza dello stesso Goldoni — pubblici di ogni pae se hanno sempre riconosciuto come figura familiare, talmente autentica da sembrare uscita dalla personale espe rienza di ogni spettatore. Del resto è un'antica costante in questa comme dia per il personaggio di Don Marzio — che non sarebbe, a rigore, il pro tagonista — di trovarsi ad essere qua si involontariamente il momento cen trale e condizionante dello spettacolo e ciò anche in forza della personali tà degli interpreti ai quali è stato di volta in volta affidato il ruolo; nel l'occasione Don Marzio era l’ottimo Gianrico Tedeschi al quale si sono af fiancati con bravura, nelle altre parti di maggior rilievo, Piero Sammataro, Salvatore Puntillo, Giampiero Becherel- li, Luisella Boni, Marianna Laszlò e Aurora Trampus. % <5> \ <%> % \ <$> \ \ POZZO di Claudio Remondi e Riccardo Capo rossi Remondi e Caporossi sono certa mente i più significativi rappresentanti di un teatro di ricerca che, da alcuni anni, ha avuto luogo nella fascia della nostra sperimentazione. I loro spetta coli si sono caratterizzati per il rigo re di una nuova impostazione comu nicativa che si può riassumere nella costante di una « metafisica del con creto » (o concretezza del metafisico). Anche nel precedente lavoro, Cottimi sti, era bandita l’allusione, tanto che si era giunti ad una forma di non-rap- presentazione. Tutto avviene nei termini scoperti di un'azione che, nel suo svolgersi, proprio perché esplicita e dichiarata, sembra rifiutare ogni canone metafo rico. Il teatro di Remondi e Caporossi, però, è tutto giocato sulla palpabilità dell'inconscio, come momento che as sume una propria forma di necessità oggettiva. Pozzo ha uno svolgimento tutto interiore, pur legandosi alla lo gica concreta dell'evento. C’è una pic cola sala, che è situata sotto il teatro, in una specie di cunicolo sotterraneo. Tutto è bianco: le pareti, il pavimen to, il soffitto. Al centro del pavimen to, però, si apre una circonferenza ne ra che descrive il buio profondo di un pozzo. È il centro in cui si coagu lano i nodi irrisolti e irrisolvibili della nostra coscienza, e da quel centro parte e si raccorda tutta l’azione. Il preludio è disegnato dalle note di un organetto e dall'ingresso stupito, in questo ambiente bianco, di un uomo che vaga in un nulla infinito. Un pun to preciso, un dato che si pone con cretamente di fronte: l'oggetto si pre senta nel verde scuro di un ombrel lo aperto che chiude la bocca del poz- Una scena di « Pozzo » zo. L'uomo estrae l'ombrello e scopre il pozzo e da questo emerge un altro uomo: a prendere possesso dello spa zio ora sono in due, due antagonisti, o semplicemente due volti di una stes sa misura di confronto con la realtà. Le frasi che pronunciano sono bana li, richiamano il peso della loro pre senza o la verifica del loro esserci. Ognuno, infatti, pone di fronte all’al tro il possesso di cose personali che ratificano l’appartenenza a « quella » realtà, o ad una qualsiasi realtà. Ma il buco nero, la bocca di quel pozzo, la sua verità, ostentata attraverso una insondabile oscurità, non può che es sere il centro di ogni riferimento. Il gioco df possibili riconoscimenti o confronti non potrà avere mai fine. Nel centro buio i fatti hanno origine e, al loro fine. Presenze esterne possono uscire co me immergersi nello spessore infini to del buio. Esce una cornacchia o en tra un cieco. Tra l'altro questo mo mento dello spettacolo è di grande suggestione: vicino al pozzo questo sconosciuto pronuncia, quasi sillaban doli, i nomi degli spettatori presenti; tempo stesso, una lentamente, poi, scompare per sempre dentro al pozzo. Il piano simbolico è ormai distrutto completamente; non esiste più alcun richiamo a forme re ferenziali; gli spettatori sono chiama ti in causa direttamente, e una specie di impaccio si mescola alla inevitabile sorpresa. Se il cieco può rappresenta re la nostra coscienza dimenticata, è anche vero che questo richiamo ad un necessario presente lascia ognuno di fronte alla concretezza di un inesisten te piano di confronto. La vicenda con tinua e può essere infinita, come le funi che rotolano senza smettere mai dentro alla misteriosa cavità. Dentro viene calata anche una pietra nel ten tativo di scorgere una possibile uni tà di misura. Azione che rimane senza esito finale perché anche questo og getto non aiuta ad identificare niente. Rimane il silenzio e quel pozzo che continua a suggerire messaggi indeci frabili e dimensioni insondate e inson dabili. Può essere paura, desiderio, o anche salvezza. Questa, viene sugge rita dall’emersione lenta e inarresta bile di una figura umana. I due vorrebbero distruggere que sta nuova presenza, ricacciarla dentro il pozzo, o più semplicemente dimen ticarla, legandola, magari, ai dati di un eventuale sogno. Ma tutto avviene perché deve avvenire: l'apparizione umana si impone a dispetto di ogni tentativo di eliminazione. Dal pozzo salgono strumenti musicali, oggetti co muni e forse dimenticati; sale anche l’acqua che potrebbe coprire tutto quanto. Invece ogni cosa torna come prima. La figura umana continua a uscire, gli oggetti impongono la loro presenza e prevale la logica di un agire che si pone fuori di noi, indipen dentemente dalla nostra volontà. Si tratta di aspettare, allora, di trovare un momento giusto per porre una fi ne e stabilire un punto di arresto. Viene posto un agguato a quell’essere estraneo e viene finalmente chiuso dentro l’oscuro pozzo. Si è giunti alla fine. Ora tutto ha assunto una defini zione. Così sembra per un momento. Ma quell’essere muto ricompare da un’altra parte e, sopra il pozzo, non rimane che una pietra sospesa a mi nacciare il fondo di una oscurità che non conosceremo mai. Paola Quattrini ne « Le donne al Parlamento » p : \ \ % sO <%> A DAVIDE LAZZARETTI: PERCHE'? tre atti di Mario Guidotti e Dante Cappelletti interpretato dalla comunità del Teatro Povero di Monticchiello Regìa di Arnaldo Della Giovanpaola Perché Davide Lazzaretti?, è la do manda che ogni spettatore si è posto assistendo allo spettacolo del Teatro Povero di Monticchjello. Infatti la vo lontà di questa comunità è stata quel la di affiancare, nel lavoro di quest'an no, la formula più volte sperimentata deH’autodramma alla ricerca di una analisi sociale. La personalità storica dell’amiatino Davide Lazzaretti, oltre che come tappa della cultura toscana, è stata interpretata, in alcune scene molto significative del lavoro, come mezzo di acceso dibattito sociale. Le battute iniziali della commedia infatti sono dedicate alla discussione tra i Una scena d'insieme di « Davide Lazzaretti: perché? » monticchiellesi sull'utilità e sulla vali dità della loro scelta di portare In scena la storia del Profeta deH’Amlata. E la forza di questo lavoro, Intitolato proprio » Davide Lazzaretti: perché? » e scritto da Mario Guidotti e Dante Cappelletti, è proprio nell’aver stimo lato — nei monticchiellesi durante la preparazione della messa in scena e poi negli spettatori — un acceso di battito sulla condizione sociale tosca na della seconda metà del secolo scor so. E si capisce che da qui il passo verso l'analisi della situazione presen te è breve, specialmente se tutto ciò è ambientato in un piccolo e antico borgo, le cui caratteristiche umane sono state solo sfiorate dalla civiltà del Progresso e dei Consumi. La stessa rappresentazione teatrale monticchiel- lese non risponde a nessuna legge di consumo. È un « prodotto » che vive di vita propria. Non deve per forza es sere « consumato » dagli spettatori; in fatti ciò che più è interessante del fe nomeno è proprio quella discussione popolare che precede la realizzazione dello spettacolo. In queste lunghe riu nioni vengono discussi i problemi di tutta la comunità, così come tutta la comunità concorre alla risoluzione dei problemi trattati. Davide Lazzaretti quindi è stato un pretesto per i monticchiellesi; un au torevole pretesto per discutere della propria condizione sociale e per ren dere nota questa a tutti coloro che hanno assistito alla rappresentazione La scena centrale del lavoro infatti potrebbe essere ravvisata in quella dove alcuni operai discutono del valo re che per loro hanno le idee e soprat tutto le iniziative di Davide. « A me più che i miracoli, interessa il sodo. Se ci levano le tasse, se ci liberano dallo sfruttamento dei ricchi, se ci rendono tutti uguali, questo è il vero miracolo ». Così termina questa scena e c'è da dire che Arnaldo della Gio- vanpaola, regista dello spettacolo, con òttimi accorgimenti scenografici e di luce, ha saputo attirare l’attenzione degli spettatori sull'importanza di cer te battute che centralizzavano gli in tenti di tutto il lavoro. La tensione interna della rappresen tazione insomma sta nel tentativo di analizzare i fondamenti di una parti colare e realistica filosofia sociale propria del mondo contadino. Una sor ta di superamento dell’astrattismo di certe teorizzazioni cattoliche e sociali ste, tendente a rendere più tangibili e reali i frutti di quelle idee generali. Il lavoro però non vuole fare delle affermazioni definitive, ma solo ana lizzare questo importante problema, ri facendosi all'esempio iazzarettiano. Lo stesso « profeta dell'Andata » non vie ne giudicato, ma solamente studiato in una chiave di doppia ricerca, stori ca e di attualità presente. Andrea Oresti, insegnante di scuo la media, è Davide Lazzaretti, e la sua buona interpretazione serve a tirare i fili della coralità dello spettacolo; ca ratteristica questa, a cui Arnaldo deh la Giovanpaola ha dedicato la maggior parte del suo lavoro, proprio per fare in modo che tutta la rappresentazione potesse essere interpretata come di battito popolare, e non come celebra zione di un personaggio storico — nel mese di agosto infatti ricorreva il pri mo centenario della morte di Lazza retti. Sulla scena quindi la tradizione po polare, passata e presente, della cul tura subalterna della Toscana e so prattuto monticchiellese, fa da prota gonista, cercando di aprire i propri confini^ e di farsi conoscere da una buona parte del pubblico di teatro. Questo incontro insomma permette al la comunità di Monticchiello di stabili re una scala di valutazione dove mi surare la validità e la profondità del la avvenuta presa di coscienza dei propri problemi. Un fenomeno abbastanza singolare quindi, quello del Teatro Povero di’ Monticchiello, che ha voluto ancora fa re del teatro un mezzo di conoscenza comunitaria; infatti alle riunioni pre liminari e alla rappresentazione par tecipano tutti gli abitanti del borgo, dal più giovani ai più anziani, ed è molto importante che questa comunità che studia o lavora nella maggior par te della propria giornata, abbia scel to come « hobby » la crescita comune attraverso il teatro. E su questa ca ratteristica, tanto apprezzabile quan to inconsueta, la gente monticchiellese costruisce i propri autodrammi da or mai più di dieci anni, senza tuttavia restare coinvolta nei mezzi di produ zione consumistica che caratterizzano certa parte del teatro tradizionale. Il R a s s e g n a In te r n a z io n a le d e l te a t r o p o p o la r e a l T e n d a d i R o m a L " ’ a v v e n i m e n t o è s t a t o l a c l a s s e m o r t a , , II Teatro Tenda di piazza Mancini, a Roma, ha pre sentato la II Rassegna Internazionale di Teatro Popolare. L’iniziativa ha confermato, anche quest’anno, la validità di un’operazione tesa ad un incontro di diverse voci sceniche. La manifestazione si è svolta a partire dal 29 giugno e si è conclusa il 5 agosto. Il programma di quest’anno ha visto: una serata dedicata a Eduardo De Filippo, uno spet tacolo di Kathakali del Kerala, l’olandese Hauser Orkater Group con lo spettacolo II presagio, Muzzi Loffredo che ha presentato Un giorno Lucifero, il Teatro Campesino con La Carpa {regia di Luis Valdez), Le Grand Magic Circus di Savary con Mille e una notte, il gruppo polacco « Cricot 2 » con La classe morta (testo e regia di Tadeusz Kantor), il gruppo ugandese Ahafumi che ha presentato Amayirikiti {regia di Robert Serumaga). Un programma ricco e stimolante che, ancora una vol ta, dà ragione aU’iniziativa patrocinata da Carlo Molfese. Non tutto è sembrato allo stesso livello: Muzzi Loffredo, per esempio, è entrata nella rassegna in modo non troppo motivato. Eppure la presenza di una forma di espressività popolare italiana poteva apparire non solo necessaria, ma anche logica. A questo punto sorge, però, un interrogati vo. Che cosa veramente si intende per forme di espressi vità popolare? La domanda è d’obbligo e non vale sol tanto per lo spettacolo della Loffredo. Il popolare di Eduardo riassume la voce partenopea in termini di esal tante espressività; finisce, comunque, per caratterizzare l’arte grandissima di un drammaturgo nel suo mondo ori ginale. Allora per popolare, in questa rassegna, dobbiamo in tendere il modello di intervento sulla realtà folklórica, sia essa italiana che straniera. Fin qui si avrebbe un asse di riconoscimento di gran parte degli spettacoli presentati. Tuttavia non è poi sufficiente a spiegare altre rappresen tazioni incluse nella rassegna. Fatta eccezione per il Katha kali indiano, dove la realtà rappresentativa si confonde con quella antropologica, gli altri spettacoli impongono un minimo di scarto verso l’aggettivazione popolare. Il grup po olandese Hauser Orkater ha proposto una specie di operetta rock. È vero che anche questo può essere un di- « La classe morta » scorso popolare, ma sì tratta di quel popolare che si de finisce in rapporto coti il giusto di una società di massa. In altri termini-, si è di fronte a forme di rappresenta zioni nate nel quadro di precise espressioni dell’industria culturale, alla quale si ribellano per rivendicare l’autenti cità creativa dell’uomo (e della sua personalità), di contro alla massificazione. Il presagio è anche un’operetta gra devole, ben impostata da un gruppo di attori affiatatissi- mi. Che cosa rappresenti, però, nell’ambito dello spetta colo olandese rimane un mistero. Forse la rassegna, da questo punto di vista, dovrebbe stare più attenta. L’Olan da era presente anche l’anno scorso con lo scatenato e bravo fango. Che peso ha, nel suo paese, questo nuovo gruppo? E perché questa scelta? E, visto che tra l'Hauser Orkater Group e fango vi sono molte affinità, dobbiamo davvero arguirne che la forma di spettacolo « popolare » olandese si definisce soltanto in questa linea? Non si tratta di questioni polemiche; al contrario: sono domande che non possono non essere fatte, visto che il Teatro Tenda ha ormai maturato un quadro di scelte che, tra l’altro, vanno oltre la rassegna estiva. Importante è stata la pre senza del Teatro Campesino che conferma di una precisa relazione, esistente in una parte del teatro americano, tra momento politico e rappresentazione popolare. Questa mu tua dal basso le istanze di spinte al cambiamento sociale, per trasformarle in spettacolo organico, efficace, pieno di forza. Le Grand Magic Circus di Savary è una delle pre- « Ramayana » senze costanti in questa rassegna romana. Quest’anno è sta to rappresentato Mille e una notte. A Savary e al suo grup po non si può che tributare plauso: tutti gli attori sono molto bravi e lo spettacolo è, come sempre, un susseguir si continuo di invenzioni registiche, un vero incalzare di fuochi d’artificio. Quello che non si capisce è la scelta del referente orientale-, i fatti, l’umore e il clima de Le mille e una notte risultano essere un pretesto talmente occasio nale che l’operazione compiuta ne appare alquanto tradi trice e fuorviante. L’avvenimento eccezionale è stato, invece, La classe morta del gruppo polacco Cricot 2. Di questo spettacolo ha già parlato nella nostra rivista Odoardo Bertani, rile vandone le grandissime qualità. A Toma, comunque, si vedeva per la prima volta e si deve rilevare il grande successo di pubblico. Una felice sorpresa, infine, ha rap presentato lo spettacolo ugandese. Qui il motivo antro pologico si è fuso continuamente a quello politico, e lo spettacolo è stalo di grande intensità. Una fetta di realtà africana presentata con molto rigore e senza facili folklo- rismi. In conclusione: a parte certi interrogativi legati a qualche scelta e a motivi di impostazione generale, la ras segna del Teatro Tenda si è chiusa, anche quest’anno, con un bilancio senz’altro positivo. Dante Cappelletti L ’ u l t i m a i L u ig i V a n n u c c h i L’ultima apparizione sulle scene Luigi Vannucchi l’ha fatta nel « Mercante di Venezia » rappresentato poche settimane or sono proprio al Teatro Romano di Verona. In quella occasione lo avevamo avvicinato ed ora è stranamente sconcertante ripercorrere quelle domande e quelle risposte. Questa che vi proponiamo è quasi certamente l ’ultima sua luce del drammatico fatto accaduto, essa diviene impudicamente premonitrice. intervista e alla In più di una occasione hai malinconicamente e- spresso giudizi avviliti ed annoiati sul teatro di oggi, sugli spettacoli prodotti. Addirittura ti piace ricordare una frase di Flaiano che dice « Il teatro non è più necessario, anzi a questo punto è inutile! ». Perché ti esprimi così riguardo ad un teatro che, quando è in terpretato e fatto da gente come te, diviene anche un fatto di cultura assai importante? Questa è una mia impressione del tutto personale, come probabilmente fu quella di Flaiano. Ci sono mo menti della mia vita in cui, quando sento di giocare e di continuare a giocare a quasi cinquant’anni, il teatro mi diverte molto. Ci sono altri momenti in cui il far teatro mi sembra un po’ vacuo. Mi sembra cioè ci siano altri mezzi, magari non della stessa levatura, non della stessa finezza del teatro, che indubbiamente hanno un impatto molto maggiore sul pubblico. E quindi, qualche volta, ho la sensazione personale di fare un lavoro che rischia di diventare sterile e confi nato ad un’« élite ». Altra mia vecchia convinzione •— prosegue Luigi Vannucchi — è infatti che il teatro, anche uno spettacolo di enorme successo, resti comun que un fatto di élite che non può combattere, anche in termini numerici se vuoi, contro ciò che è prodotto dal cinema o dalla televisione. Ogni tanto, a livello perso nale, proprio a livello di avvilimento del tutto privato e non quindi come fatto critico nei confronti del tea tro, ho questa sensazione e ci sono dei momenti in cui questa sensazione prevale sul mio amore per il teatro e per il recitare. Questo mi dà un certo tipo di avvili mento; la sensazione di essere un pochino fuori del tempo! Se tu dovessi pensare : sono partito da quel punto, allora, in tal giorno sono arrivato là, e oggi mi trovo Luigi Vannucchi ne « Il mercante di Venezia » di Shakespeare, regia di Giancarlo Cobelii qua, cosa diresti di questa tua carriera di attore, di questa tua vita dedicata al teatro? Sto attraversando un momento abbastanza confuso e critico rispetto a me stesso. Ti ho accennato prima a questa mia difficoltà nei riguardi del teatro che amo molto quando sono sul palcoscenico e che amo meno quando sono in platea... questa mia fatica ad andare a teatro. Questa è già una contraddizione notevole che devo in qualche modo risolvere! Cosa posso dire della mia carriera di attore? So che è successo uno scatto in me molto preciso sei o sette anni fa e proprio qui a Verona in un « Otello » di Puecher che fu molto criticato, ma che io considero ancora oggi uno degli spettacoli più interessanti che abbia fatto. Io ebbi allora un notevole successo personale come Jago! Direi che quello Jago mi ha fatto scattare una nuova dimen sione di attore che si è sviluppata negli ultimi anni nel lavoro che poi ho fatto con la compagnia degli Asso ciati, in particolare col « Vizio assurdo » di Lajo- lo-Fabbri, in cui interpretavo la figura di Cesare Pave se, che mi ha dato una nuova dimensione di me stesso come attore e come uomo! Indubbiamente sono più soddisfatto del mio lavoro degli ultimi sei o sette anni di quanto lo fossi precedentemente, anche se era un lavoro onesto. E credo di poter ancora giocare delle carte interessanti per il futuro, se mi metto prima in pace con me stesso! Spero naturalmente di poter risol vere il dilemma di cui ti parlavo prima, perché non posso continuare a fare l’attore con la convinzione che in fondo fare l’attore soltanto in teatro, sia una cosa relativamente inutile! Ecco, questo è un dilemma che non posso risolvere purtroppo in una conversazione come questa nostra! Conversazione che io vorrei concludere così, con Brecht il quale scrive nel « Discorso agli attori dane si »: « Siete venuti qui per fare del teatro, siete venuti qui per mostrare alle genti voi stessi, quello che sapete fare, e quindi per essere esposti come cosa degna di essere vista. E la gente, così sperate voi, vi applaudirà, trascinata per opera vostra dal suo mondo ristretto nel vostro immenso... e ora dovete dirci a che cosa ser ve! ». Per concludere, Luigi, ti chiedo-, A che cosa è servita questa tua vita? Vorrei e potrei darti tante risposte, ma perché dovrei rispondere a questa domanda proprio io, visto che nemmeno lo stesso Brecht ha risposto? Claudio Capitini T r e p o e s i e e u n a c o m m e d i a i H d tradotte da Romeo de Baggis a r o l d P i n t e r Trascurate dalla critica, sconosciute ai più, le poe sie di Harold Pinter costituiscono ancor oggi un uni verso sotto vari aspetti ignoto. Eppure esse non sono di scarso rilievo, specie se riferite alla sua attività drammaturgica, in quanto ci testimoniano di un accani to ed incessante lavoro di affinamento del verso che non cessa mai di affaticarlo e che trova poi il suo naturale compimento nella raffinata tessitura linguisti ca delle sue opere. È una abitudine quella della poesia che Pinter contrae assai precocemente, anzi la si può definire in assoluto la sua prima manifestazione letteraria ed arti stica compiuta e che egli non trascurerà neppure in seguito. La poesia diviene così una sorta di attività complementare, seppure autonoma, non subordinata, ma che egli farà di tutto per far rimanere nella sfera del privato e che si differenzia, talvolta accompagna, altre volte precede, la compiuta elaborazione di una commedia. La poesia di Pinter ci si mostra, quindi, non in modo unitario; subordinata spesso a queste esigenze di ordine espressivo. La raccolta che conosciamo comprende poesie e racconti che si riferiscono a precedenti abbozzi di ope re ulteriori e come tali rappresentano un confronto ed una verifica, come appunto questo poema Kullus, scrit to nel 1949, e che in seguito gli offrirà la materia per The Basement. KULLUS Stava sulla soglia. Brillava una vivida luna. — Entra. Avanzò nella stanza, battendomi una mano sulla — Vieni, Kullus. Avvicinati al fuoco spalla. Si curvò verso la grata e stese le mani. — Tu non ami il caldo, disse Kullus. — Come? — Non c’è accordo. C’è soltanto ostilità. — Non sono prevenuto. — Tu sei prevenuto, replicò Kullus. Sei prevenuto verso il freddo. Non ti piace il fred do, ma neppure ami il caldo. Questo in alcun modo può essere definito un fuoco. È soltanto un altro aspetto della luce e dell’ombra in questa stanza. Non lo puoi considerare un comune fuoco. Non si ravvia da sé, solo perché tu ne hai l ’intenzione. Tu vivi schivan doli entrambi. — Siedi, Kullus. Prenditi una sedia. — Non sono solo. — Uhm? —- Posso chiamarla? Sedetti su uno sgabello. — Chiama. Sulla porta, Kullus chiamò. Subito nella stanza comparve una ragazza, avvolta in uno scialle. Io an nuii, lei annuì. Si chinò verso la grata, sostò, si solle vò, guardò verso Kullus. — Qui, disse Kullus. Si diresse verso di lui. Si cacciarono nel mio letto. Coprii la lampada con la giacca e restai ad osservare la luce riverberarsi dal soffitto sul pavimento. Allora la fiamma dalla grata si agitò nella stanza. Spostai il mio sgabello e sedetti accanto al fuoco. — II — Kullus si impossessò della stanza. La finestra era chiusa, se faceva caldo, e aperta se faceva freddo. Le tende erano aperte di notte e chiuse di giorno. Perché chiuse? Perché aperte? —• La notte è mia, disse Kullus. — Il giorno è mio. — Vivi lontano da qui? Kullus allora aprì le tende. Poiché esse erano aper chiese la ragazza. te, se faceva freddo, e chiuse se faceva caldo. Stesi le mani verso la grata.. Perché aperte? Perché chiuse? — Conosco il freddo, Conosco i suoi dintorni. Siedi. Tu sei solo. Sedetti così sullo sgabello che Kullus aveva prepa disse Kullus. rato per me. dissi. — Non c’è fuoco qui, Kullus se ne andò. Guardai la ragazza. Lei parlò a me solo. — Perché non vieni qui? -— Posso? disse. — Puoi venire qui? disse la ragazza. disse la ragazza. — Come potrei? — Chiuderò le tende, — Ma adesso è notte. •— Non voglio solo quello. —' Questa è la notte di Kullus. — Qual’è la tua stanza? disse la ragazza. I l i Le tende erano chiuse. Io mi accovacciai lontano dal fuoco. chiesi. — Che cosa è successo a Kullus? È cambiato. Ero accovacciato lontano dal fuoco nella sua stanza. — Che è successo a Kullus? Restò attaccata alla grata. — Perché non sei venuto qui? — No. — Qual’è la tua stanza? — Non sono più nella mia stanza. Il freddo si diresse verso l’angolo. — Perché ti sei avvolto nello scialle? Chiese la ragazza ed aprì le tende. La vivida luna ed il freddo si diressero verso l’an — Che ti è successo? La luce si riverberò dal soffitto sul pavimento. — Non hai tolto la giacca dalla lampada, disse. disse. golo. dissi. la contemporanea scrittura de L’uso della poesia si risolve spesso in Pinter in una sorta di brogliaccio di lavoro dove appuntare immagini, pensieri, episodi che altrimenti rischierebbero di vani ficarsi. Come in questo Sguardo della festa che accom pagna nel 1958 II Compleanno, la sua prima commedia regolare in tre atti ma che risale a tre anni addietro. In quegli anni Pinter, abbandonati gli studi e trascorso qualche tempo in una scuola di recitazione senza una autentica voca zione, si scrittura col nome di David Barón nella com pagnia di Anew Me Master, un vecchio attore e capo comico irlandese che gira la provincia inglese con alle stimenti shakespeariani. Ricopre più parti, talora anche di impegno, ma senza una grande fortuna. Di questo periodo ci resta un intenso profilo che lo scrittore traccia per commemorare la figura di Mac e dal quale traspare l’affetto che legava il giovane poeta al vecchio istrione ed il rispetto che provava per l’arte e l’umani tà di questo suo primo maestro. Ci restano inoltre di questa vita girovaga alcune lettere e, naturalmente, le poesie. Una lettera in particolare si sofferma a consi derare l’ambiente nel quale viveva, vecchie stanze di pensione sudicie « disgustosamente sporche » e le per sone che le abitano: « una enorme donna scheletrica che ha dei seni che le ricadono fin sulla pancia, una famiglia oscena, cani, gatti, sporcizia, macchie di tè, disordine, chiacchiere, cicaleccio immondizia escre menti, confusione letame veleno, infantilismo, deficien te sviluppo mentale ». Saranno proprio questi disagi patiti, gli ambienti conosciuti, le persone incontrate, unitamente a Shakespeare che recita la sera, a fornire al drammaturgo un prezioso materiale per tratteggiare i lineamenti di quei personaggi ambigui e misteriosi che compaiono nelle sue prime commedie. Con le poche lettere ci restano le poesie, come questa che scrive di mattina, libero dagli impegni di lavoro. UNO SGUARDO DELLA FESTA L’idea che Goldberg fosse Un uomo che avrebbe potuto conoscere Non sfiorò i pensieri di Meg Quella mattina nella stanza. L’idea che Goldberg fosse Un uomo già conosciuto Non le sfiorò la mente Quando, festosa, lo accolse. Un uomo sconosciuto Al centro di una stanza. E l’ultimo sguardo di Stanley Spezzato da Me Cann. Altrove, e sono queste le poesie che francamente prediligiamo, l’afflato lirico si fa più intenso. L’imma gine più netta assume i caratteri di una visione; si compone in un lucido, ordinato, delirio. IL NANO il nano nel sìbilo dei venti, Vidi Quella notte sulla vetta. Gli alberi chini, In balìa del vento E vidi anche Come morti, rigidi come cadaveri In quel posto tranquillo, Le mani giunte, le tube in testa. il bestiame silente, i viaggiatori pietrificati, L’idea che Goldberg fosse Un uomo da aver paura a conoscere Scosse Stanley nell’animo Quando, turbato, ne udì il nome. Anche Petey lo riconobbe, non subito, In seguito, quando la luce Rischiarò la loro scena Ed egli gettò uno sguardo nella stanza. E di mattina Petey vide La luce affievolirsi (Quel giorno risplendente di sole) Per quanto non si potesse evitarlo. C’era il sorriso sulle labbra di tutti Quando Nat Goldberg giunse, Accompagnato da Me Cann, E la loro venuta determinò un cambiamento. L’idea che Goldberg occupasse Il centro della stanza E sovrintendesse al gioco, Un uomo della sua età e della sua importanza. L’idea che fosse stato Me Cann Ad organizzare quella festa, Un uomo pelle ed ossa Con una macchia verde sul petto. Compagni nella stessa impresa Ingiunsero nella stanza Una condanna ed uno scompiglio, Per quanto Meg sapesse di non poterlo evitare. Iniziò la festa Per festeggiare il compleanno; Apparvero simpatici e gentili, Per quanto Stanley sedesse in disparte. Brindarono e cantarono, Ricordarono altri tempi, Lulù, sul petto di Goldberg, Lo guardava fisso negli occhi. E Stanley sedeva in disparte, Mentre un uomo che avrebbe potuto conoscere, Trionfava al centro di una stanza, Che non era la sua. Stanley non aveva più posto, Perché c’erano Goldberg Ed il suo segugio Me Cann. Allora Stanley ne rammentò il nome. Giocarono a moscacieca, Rincorrendosi ad occhi bendati, Me Cann raggiunse Stanley, L ’oscurità fu completa. Stanley comprese di aver perso il gioco, Meg, dimentica di tutto, Una notte d’amore di Lulù sciupata, Petey impotente; I d l m i s t e r i o s o c r o l l o i u n u o m o a r r i v a t o Anche Tea Party, che qui pubblichiamo, è ricavato da un precedente racconto scritto nel 1963 ed al quale l ’autore, per sua stessa ammissione, è particolarmente affezionato. Il racconto ha la caratteristica di essere scritto in prima persona, narrato cioè dalla voce mede sima del protagonista, e si apre con le parole « I miei occhi sono peggiorati ». Per il resto l’opera, commis sionatagli dalla European Broadcasting Union e tra smessa la prima volta dalla BBC Television con il titolo complessivo di The Largest Theatre in The World il 25 marzo 1965, è il successivo sviluppo di quella idea originale della quale peraltro conserva il titolo. In essa è descritto, con allusioni ambigue, il pro gressivo e misterioso crollo di un uomo, di un self-ma- de man, di un capitano d’industria, anche se industria di rubinetti, fino a poco tempo prima uomo felice e padre esemplare di due ragazzi. L’uomo, al centro della vicenda che lo vede protagonista, riunisce nel suo uffi cio per un tea party (dal quale la commedia prende il titolo) i propri familiari, i collaboratori, tutti i suoi vecchi e più cari amici. Nel corso del ricevimento però la malattia agli occhi si aggrava ulteriormente mentre i sospetti che lo avevano fino ad allora tenuto dubbio so ed incerto si rafforzano. L’uomo è colto da malore e si schianta a terra rimanendo incastrato tra le schegge di legno della sua poltrona, espressione del suo labile e precario dominio. Romeo de Baggis HAROLD PINTER è nato a Londra nel 1930. Il « Times » di Londra lo ha definito il più originale ed importante scrittore apparso negli ultimi venti anni in In ghilterra. Le sue opere sono continuamente oggetto di studio. Il contributo più completo apparso finora in italiano è quello di Guido Davico Bonino: « Il teatro di Harold Pinter » (Mar tano editore, 1977), che raccoglie anche alcune fotografie dei più significativi allestimenti in Italia. La presente versione di Tea Party è condotta per essere rappresentata in teatro. T e a P a rty Versione di Romeo de Baggis. di HAROLD PINTER disson, un uomo di quarant’anni. Wendy, una donna di trenta. diana, una donna di trenta. W illy, un uomo di trenta. tom e john, gemelli di tredici anni. disley, un uomo sui cinquanta. lois, una donna di quaranta. i l padre e la madre, sui sessanta. L ’uomo dei brindisi. Ufficio di Disson. Mattino. Ambiente ben arredato, tranquillo. Le pareti sono rivestite di seta giapponese. disson: (si alza da dietro la scrivania e va a stringer la mano a Wendy). Come sta, signorina Dodd? Sono molto contento che lei sia venuta. Si accomodi, pre go. (Torna a sedere dietro la scrivania mentre Wendy siede su di una sedia all’angolo della scrivania). Bene, bene. (Scorre alcune carte sul tavolo) Ho dato un’oc chiata alle sue referenze. Mi paiono ottime. Lei ha molta pratica. wendy: Si, signore. disson: Non nel mio settore, naturalmente. Noi fab brichiamo articoli sanitari... questo lo sa, nevvero? wendy: Naturalmente, signor Disson. disson: Ha già sentito parlare di noi, è così? wendy: Oh, si. (Accavalla la gamba sinistra sulla de disson: Bene, le piacerebbe allora lavorare in... in stra) . questo settore? wendy: Oh si, certamente signore. Mi Giacerebbe. disson: Noi siamo all’avanguardia in questo paese. Credo di poterlo affermare in tutta franchezza. wendy: Beh si, suppongo di si. disson: Altroché. Fabbrichiamo i migliori dibets di tutta l’Inghilterra, (ride). È per noi una missione. Impianti speciali, flussometri, pedali a pressione. wendy: Pedali a pressione? disson: Al posto della catena o del rubinetto. Un bel pedale a pressione. wendy: Oh, che meraviglia. disson: Diventano ogni giorno più popolari e a ra gione. (Wendy accavalla la gamba destra sulla sini stra). Insomma il... fatto è, in verità, che io cerco una segretaria privata. Lo ha capito? Una vera se gretaria privata. Certo avrebbe delle responsabilità. Si sente... di assumersele? wendy: Una volta correlati tutti gli aspetti del lavoro, si, credo di si, signore. disson: Tutti gli aspetti fondamentali, certo. Bene. (Wendy accavalla la gamba sinistra sulla destra). Vedo che ha lasciato il suo ultimo impiego improv visamente. (Pausa) Posso chiederle la ragione? wendy: Beh, è... piuttosto imbarazzante, signore. disson: Sul serio? (Pausa) Beh, dovrei saperlo, non le pare? Su via, coraggio, me lo dica. Come è stato? (Wendy si accomoda la gonna sulle ginocchia). wendy: Un... motivo personale, signor Disson. disson: Si, ma dovrei saperlo, no? (Pausa) wendy: Beh è semplice, non riuscivo a convincere il mio principale a... smetterla di usarmi delle pre mure. disson: Cosa? (Sfoglia delle carte sul tavolo) wendy: Cerca qualcosa, signore? disson: Una ditta così rinomata. Incredibile. wendy: Eh, purtroppo è la verità (Pausa). (Pausa) disson: Che genere di premure? wendy: Oh, io non... disson: Che genere? wendy: Non smetteva di palparmi, questo è tutto. disson: La palpava? wendy: Si. disson: Dove? Immagino dev’essere (rapidamente) stato molto seccante per lei. wendy: Francamente si, lo confesso. È molto seccante essere palpata in continuazione. disson: Vuole dire in ogni momento? wendy: Si, signore. (Breve pausa) disson: Piangeva? wendy: Piangere? disson: La faceva piangere? wendy: Un po’, solo un po’. Ogni tanto. disson: Che mostro. (Breve pausa) Ha tutta la mia comprensione. wendy: Grazie, signore. disson: E si che uno pensa che tutto questo... pai- paggio, questa manomissione delle segretarie sia qualcosa di superato, un mito, in verità, qualcosa che si trova solo nei romanzi. Tch, The. (Wendy accavalla la gamba destra sulla sinistra) Comunque, sia come sia, lei ha ottime referenze. Ha mostrato intelligenza e bella presenza, due qualità che reputo necessarie per questo impiego. L’assumo immedia tamente. wendy: Oh, che meraviglia. La ringrazio molto, si disson: Non c’è di che. gnor Disson. (Si alzano. Lui attraversa la stanza verso un’altra scrivania). Questa sarà la sua scrivania. wendy: Ah. DISSON: Vorrei che controllasse alcune mie faccende personali, nel pomeriggio. Io... mi sposo domani. wendy: Ah, auguri. disson: Grazie. Si, tra una cosa e l’altra, questa è una settimana importante per me. (Squilla il telefono sul suo tavolo. Lui va a rispon dere). Ah Disley, sei tu?... Come? Ma non dirmelo, santo Iddio. Salotto in casa di Disson. Sera. diana: Questo è mio fratello Willy. disson: Piacere di conoscerti. WILLY: Anch’io. Auguri. disson: Grazie. diana (versandogli da bere): Per te, Robert. disson: Grazie. Salute. diana: Salute. W illy: A domani. disson: Si. (Bevono). Temo ci sia una complicazione. diana: Perché? disson: Ho perduto il mio testimone. diana: Oh, no. disson (a Willy)-. Il mio più vecchio amico. Si chiama Disley. Ha l ’influenza. Domani non potrà venire. W illy: Che peccato. disson: Doveva pronunciare un discorso al ricevimen to... in mio onore. Un superbo discorso. L ’ho letto. Ora non potrà farlo. (Pausa). W illy: Conosci nessun altro? disson: Si, è naturale. Ma non come lui... vedi. Lui era il preferito. W illy: Che seccatura. (Pausa) Beh, senti, posso farti io da testimone, se vuoi. diana: Non puoi, Willy. Tu devi accompagnare me. W illy: Ah già. disson: Oh, il testimone non è importante. Si può sempre trovare un testimone... deve solo stare lì. È il discorso che è importante, il discorso in onore dello sposo. Chi farà il discorso? (Pausa) WILLY: Beh, posso farlo io il discorso, se vuoi. disson: Come puoi fare un discorso in onore dello sposo quando ne fai già uno in onore della sposa? W illy: Ha importanza? diana: No. Perché dovrebbe averne? disson: Si, ma vedi... oh io ti sono molto riconoscen te... ma il fatto è... che tu non mi conosci, dopotut to. Ci siamo appena conosciuti. Disley mi conosce da anni, avrebbe parlato della nostra vecchia amicizia, vedi, dei lati del mio carattere... W illy: Ah si ,ti capisco. Ma io, ciò che voglio di re è che sono disposto a fare quattro chiacchiere per te, se proprio non c’è altra soluzione. A darvi una mano durante il ricevimento, per così dire. diana: È un magnifico oratore, Robert. Sala di un elegante ristorante per il ricevimento di nozze. Willy sta pronunciando il suo discorso. W illy: Ricordo i giorni in cui mia sorella ed io nuotavamo insieme nel lago, a Sunderley. La grazia del suo stile, fin da allora, appena giovinetta. Ricor do le lunghe sere estive trascorse a Sunderley, mia madre ed io che attraversavamo il prato erboso fino alla terrazza dove fuori delle grandi vetrate la udi vamo suonare Brahms. La delicatezza di quel tocco. Mia madre ed io, sulla soglia della sala di musica, che fissavamo in silenzio le lunghe dita di Diana che correvano in delicate movenze sulla tastiera. Nostro padre poi, nostro padre aveva una passione, quella di osservare sua figlia ricamare. Un uomo i cui interessi erano gli interessi dello Stato, un uomo infaticabilmente attivo, si distraeva dalle sue preoc cupazioni sedendo a guardare per ore la figlia inten ta al suo lavoro di ricamo. Diana, mia sorella, era la grazia della nostra casa, il fiore, il bocciòlo della nostra serra. Allo sposo si può solo dire: Sposo, la tua fortuna è immensa. (Applausi di tutti. Diana lo bacia. Disson gli stringe la mano affettuosamente). l ’uomo dei brindisi: Milords, reverendi, signore e signori, un po’ di silenzio per Mr William Pierre- point Torrance che proporrà un brindisi in onore dello sposo. (Nuovi applausi) W illy: Non conosco Robert da molto tempo, posso dire anzi di averlo appena conosciuto. Ma in questo breve tempo ho apprezzato l’integrità, l’onestà, la modestia della sua persona. Da un inizio modesto, ha reso la sua industria una delle più solide e pro spere del paese. E tutto questo, quasi da solo. Ora ha sposato una fanciulla che eguaglia, se non supera, la sua integrità. Ha sposato mia sorella, che possiede quella rara ed eccezionale qualità che si chiama bel lezza interiore, senza contare poi l ’avvenenza del suo aspetto. Eccezionale con l’ago, ancor più eccezionale per gusto, intelligenza, sensibilità e fantasia. Una eccellente nuotatrice che, con ogni probabilità, batte il marito nei duecento metri stile libero. (Risate ed applausi. Willy aspetta che torni il silen zio). È ai nostri genitori che si deve la sua purezza, la sua raffinatezza, la sua sensibilité. I nostri genitori che, benché scomparsi, sono qui tra noi in questo giorno solenne, vi porgono il loro saluto, il loro amore alla sposa, e gli auguri allo sposo. (Applausi. Diana lo bacia. Disson gli stringe la mano affettuosamente). disson: Una meraviglia. W illy: Diana, voglio dirti una cosa. diana: Dimmi. W illy: Hai sposato un bravuomo. Ti farà felice. diana: Lo so. disson: Un gran bel discorso. Davvero splendido. Senti, di che ti occupi in questo momento? W illy: Niente di speciale. l ’uomo dei brindisi: Milords... disson (sottovoce)-. Che ne diresti di lavorare con me per un po’? Vedi se ti piace, se ti convince. Puoi farmi da sostituto. L’ufficio è tutto tuo. Serviti pure della mia stanza, se vuoi. W illy: Splendida idea. Accetto senz’altro. disson: Molto bene. (Diana bacia Disson). diana: Tesoro. l ’uomo dei brindisi: Un po’ di silenzio per lo sposo. (Disson avanza. Applausi. Silenzio). disson: Questo è il giorno più felice della mia vita. Camera di un lussuoso albergo in Italia. Penombra. Si sentono solo le loro voci. disson: Sei felice? diana: Si. disson: Molto felice? DIANA: Si. dissoni Sei mai stata così felice?... Con qualcun’altro. diana: Mai. dissoni Io ti faccio felice, vero? Più di quanto tu lo sia stata... con chiunque altro. diana: Si. Tanto felice. (Pausa). (Pausa). Si. (Silenzio). Soggiorno in casa Disson. Mattina. Disson e Diana sono a tavola per la prima colazione. disson: Ti brillano gli occhi. (Pausa). Ti brillano. diana: Mmmnn. dissoni Ti brillano da mesi. diana (sorridendo): I miei occhi? Davvero? dissoni Tutte le mattine. (Pausa). Sono contento che tu non abbia sposato quel... Jerry.. o come si chiamava... diana: Oh, quello... dissoni Perché non l’hai sposato? diana: Era un debole. (Pausa). dissoni Io non sono un debole. diana: No. DISSONI Sono debole? diana: Sei forte. (I Gemelli entrano nella stanza. Bor bottano « Giorno ». Diana e Disson rispondono « Buongiorno ». Silenzio. I Gemelli siedono. Diana versa loro del tè. Mangiano. Silenzio). Volete le uova? tom: No, grazie. DIANA: Tu, John? (Silenzio). dissoni John? JOHN: Eh? dissoni Non dire « eh ». JOHN: Che devo dire? diana: Vuoi le uova? (Pausa). John: Ah. (Pausa). No, grazie. (I ragazzi mangiano ridacchiando. Silenzio. John sus surra qualcosa a Tom). dissoni Che stai dicendo a Tom? Parla forte. JOHN: Niente. dissoni Pensi che sia sordo? tom: No, penso proprio di no. dissoni Non parlavo con te. Parlavo con John. JOHN: Con me? Mi scusi, signore. disson: Non fare il cretino. Non mi hai mai chiamato signore. È un modo un po’ strano di rivolgerti a tuo padre. john: Lo zio Willy chiamava suo padre signore. Me l ’ha detto lui. dissoni Si, ma tu non mi chiami signore! Hai capito? Ufficio di Willy. Mattino. Disson entra con Willy. dissoni Ecco, Willy. Questo è il tuo ufficio. Ti piace? W illy: Eccellente. dissoni Questi due uffici sono completamente separa ti dagli altri. Quelli sono tutti al piano di sotto. Il nostro unico contatto è il telefono interno, tranne che io non debba incontrare qualcuno personalmen te, ma è raro. Ugualmente, non mi va che questi due uffici fraternizzino tra di loro. Ci incontreremo solo previo appuntamento, altrimenti non riusciremo a concludere niente. Siamo d’accordo? W illy: Perfettamente. dissoni C’era uno che lavorava qui, ma l’ho licen ziato. Ma vieni, passiamo nel mio ufficio. Potrò offrirti un caffè. (Passano nell’altro ufficio. Disson si avvicina al tavolo e versa il caffè). Penso di doverti spiegare che tipo sono. Sono un uomo deciso. Mi piace fare le cose e farle bene. Non amo l’indulgen za, l ’indecisione. Non amo l’incertezza, l’agitazione. Mi piace la chiarezza. Propositi chiari. L’esecuzione perfetta. Un po’ di latte? W illy: Si, grazie. dissoni Ma non sopporto la vanità e la presunzione. Un uomo deve valutare freddamente le proprie ca pacità e, con altrettanta freddezza e precisione, quel le degli altri. Solo così può tentare di stabilire un rapporto equilibrato e ragionevole col prossimo. Se condo me la vita sta in una partecipazione viva e spontanea della volontà. Così il lavoro. Zucchero? W illy: Due cucchiaini, grazie. dissoni Ora, fiducia non è parola da usarsi alla legge ra, ma io la userò senza considerarla una debolezza. Capirne il senso significa capire che abbiamo delle capacità limitate e che vivere con gli altri non è solo ragionevole, ma è l’unico modo per lavorare e con quistarsi una dignità. Nulla è più sterile e deplorevo le di un uomo che vuol vivere chiuso in se stesso. Mi sono sempre preoccupato di essere in contatto più diretto possibile con i miei collaboratori e di pendenti. Seguendo il mio esempio, tutti esprimono liberamente la propria opinione, con assoluta fran chezza. Mi pare essenziale che noi si riesca ad af frontare lucidamente i nostri problemi per essere in grado di risolverli. È per questo che tua sorella mi ama. Io non sto a rimuginare su un problema. Lo affronto direttamente. Credo nell’efficienza. Non sciupo le mie energie in una timorosa indecisione. Non pretendo di essere amato. Mi aspetto solo ciò per cui ho lavorato. Se fai una torta, che te ne fai? Non la conservi mica. Ci pianti dentro un coltello e te la mangi. Ogni cosa assolve una funzione. In altre parole, se lavoreremo insieme dobbiamo renderci conto che interdipendenza è la parola chiave, che ciò che importa è intenderci reciprocamente. D’accor do? W illy: Perfettamente. disson: Allora, per prima cosa ti occorre una segreta ria. Provvederemo subito. W illy: Posso suggerirti una persona? Posso assicurar ti che è molto intelligente e anche competente, direi. disson: Chi è? W illy: Mia sorella. {Pausa). disson: Tua sorella? Mia moglie, vuoi dire? W illy: M ’ha detto che le piacerebbe. disson: A me non l’ha detto. W illy: È timida. disson: Ma non ha bisogno di lavorare. Perché vuole lavorare? W illy: Per starti più vicina. Ufficio di Disson. Disson e Wendy sono seduti alle rispettive scrivanie. Wendy batte a macchina. Disson guarda fuori dalla finestra. Si volta. Guarda in dire zione dell’attiguo ufficio di Willy. Suona il citofono sulla scrivania di Wendy. Lei risponde. wendy: Il signor Disson desidera non essere disturba to fino alle 15,30. [Disson guarda di nuovo in direzione della porta dell’ufficio di Willy. Silenzio). Salotto in casa di Disson. Sera. Diana e i gemelli stanno leggendo. diana: Sentite la mancanza di vostra madre? JOHN: Quasi non l’abbiamo conosciuta. È morta quan do eravamo piccoli. diana: Vostro padre vi ha cresciuti ed educati molto bene. john: Oh, grazie. Gli farebbe piacere saperlo. diana: Gliel’ho detto. jonh: E lui che ha risposto? diana: Gli ha fatto piacere che la pensassi così. Signi ficate molto per lui. john: Pare che i figli significhino sempre molto per i genitori. Mi sono chiesto spesso cosa significhi « molto ». TOM: Io mi sono chiesto cosa significhi « significare ». diana: Sarete fieri dei successi di vostro padre? john: Si. Direi di si. diana: Ora che vostro padre si è risposato... c’è stato {Pausa). un cambiamento nel vostro attaccamento? john: Che cambiamento? diana: Vivendo con me. john: Ah. Beh, credo proprio che dovremo trovare un accomodamento. Tu che ne dici, Tom? {Si ode chiudere la porta d’ingresso. Diana e i Gemelli leggono. Entra Disson. Tutti lo guardano e sorridono). {Tutti rispondono, ridendo). disson: Salve a tutti. gemelli: Salve. diana: Salve (Disson li guarda, uno per uno). Ufficio di Disson. Mattino. Il sole splende attraver so i vetri della finestra. Disson è seduto alla scriva nia. Wendy è all’armadietto. Lui la guarda. Lei si volta. proprio una magnifica giornata. wendy: C’è un sole stupendo fuori, signor Disson. E disson: Chiuda le tende. (Wendy chiude le tende). Prenda il taccuino. wendy: Si, signore. disson: Sieda. {Wendy siede su di una sedia all’ango lo della scrivania di Disson, che comincia a dettare). Warwick e Figli. In risposta alla vostra del 21 ultimo scorso, possiamo accedere senza difficoltà alle vostre richieste. Che c’è? wendy: Cosa? disson: Si sta dimenando. wendy: Mi scusi, signore. disson: È la sedia per caso? wendy: Mmnn... può darsi. disson: È troppo dura, suppongo. È un po’ dura per lei. {Pausa). È così? wendy: Un po’. disson: Sieda sul tavolo. wendy: Sul tavolo? disson: Si, è foderato in pelle. (Breve pausa). Sarà più morbido... per lei. {Pausa. Wendy si alza e guarda verso la scrivania). Mi pare un po’ alto... per sedermi. wendy: Eh, che bellezza. disson: Nient’affatto. wendy {incerta)-. Uhm, uhm. disson: Avanti, salga. Non è poi così alto. {Wendy si appoggia alla scrivania e lentamente cerca di sedervisi sopra. Si arresta). wendy: Dovrò mettere i piedi sulla sedia, per darmi disson: Può darsi benissimo la spinta anche senza la spinta. usare i piedi. wendy: (dubbiosa) Oh, beh... disson: Senta, o sale o resta giù. Si decida. Una cosa o l’altra. Voglio finire la mia lettera a Birmingham. wendy: Sto chiedendomi se non le spiace che io salga con le scarpe sulla sua sedia... per aiutarmi a salire. {Pausa). disson: Faccia pure. wendy: Mi spiacerebbe però che i miei tacchi scheg disson: Ah si? {Pausa) Avanti, provi, coraggio. Non giassero il legno. Sono tacchi a spillo. scheggerà alcun legno. (Wendy poggia i piedi sulla sedia e si solleva sopra la scrivania. Disson la osserva). {Wendy, seduta sulla scrivania, prende matita e tac cuino. Legge). wendy: Possiamo accedere senza difficoltà alle vostre disson: Visto? Bene, dove eravamo rimasti? richieste. Casa di Disson. Giorno. Disson e Willy giocano a ping-pong. I gemelli assistono alla partita. Lungo palleggio. Disson si aggiudica il punto con una schiacciata. JOHN: Bel colpo, papà. tom: Tredici a diciotto. W illy: È stata una bella schiacciata, Robert. {Willy serve. Palleggio. Disson si aggiudica il punto. I Gemelli applaudono). tom: Tredici a diciannove. W illy: Una schiacciata sulla rimessa. {Willy serve. Palleggio. Disson fallisce la rimessa). JOHN: Punto per lo zio Willy. tom: Quattordici a diciannove. {Disson posa la racchetta e si accosta a Willy). disson: Hai servito due palle. W illy: Cosa? disson: M ’è parso di vedere due palle, vecchio mio. WILLY: Due palle? disson: Ne hai lanciate due. W illy: Ma no, una sola. disson: Ne ho viste due. {Pausa). JOHN: Una, papà. disson: Cosa? tom: Una. {Pausa. Willy raccoglie la palla). W illy: Guarda, è una. {Lancia la pallina sul tavolo) Prendila. Ah, attento! Studio medico di Disley. La stanza è nella penombra. Una torcia elettrica illumina gli occhi di Disson. Prima l’occhio sinistro, poi il destro. La torcia si spegne. Si accende la luce. disley: Non hai niente agli occhi, mio caro. disson: Sei sicuro? disley: Stanno perfettamente. Sul serio. disson: Che strano. disley: Si può dire che la tua vista è perfetta. disson: Uhm. disley: Guarda un po’ l’ultima riga laggiù. {Disley spegné la luce ed accende il quadro delle lettere). Che ci leggi? disson {leggendo)-. ELNVCGTZ. disley: Perfetto {Spegne il quadro e accende la luce nella stanza). DISSON: Si, lo so... lo so che... disley: Di che ti preoccupi? disson: Non è questo... disley: Confondi i colori? Guardami. Che colorito ho? disson: Terreo. disley {ride, s’interrompe)‘. È molto strano. Noti dei disson: Due. DISLEY: Quali? disson: Hai una frezza bianca nei capelli. Appena segni particolari su di me? accennata. disley: È vero. E altro? disson: Una macchia bruna sulla guancia sinistra. disley: Una macchia bruna? Riesci a vederla? {Si guarda allo specchio). Non pensavo fosse così evi dente. disson: Certo che è evidente. Ti macchia la faccia. disley: Beh... lascia andare, vecchio mio. Però, non avrei mai creduto fosse così evidente. Non l’ha nota ta mai nessuno. disson: Neppure tua moglie? disley: Si, lei si. Mi pare che tu abbia una vista molto aguzza. Di che colore sono quei paralumi? disson: Blue scuro. Col bordo dorato. Il tappeto è disley: Questo non è un colore. disson: È bianco. Laggiù, accanto all’armadietto, di stingo il nero duna bruciatura. disley: Una bruciatura? Dove? Parli di quell’ombra? disson: Non è un’ombra. È una bruciatura. disley {va a guardare): È così. Come diavolo sarà indiano. successo? disson: Senti... non ho detto che non ci vedo. Cer ca di capire. Ho una vista eccellente... quasi sempre. L’ho sempre avuta. Ogni tanto... si fa incerta, irre golare. Improvvisamente, alle volte, casualmente, succede qualcosa... qualcosa... di sbagliato... ai miei occhi. {Pausa). tua vista. disley: In ogni modo non ho trovato anomalie nella disson: Tu non capisci. {Bussano alla porta. Compare Lois). mene. degli occhiali? lois: Sto uscendo. Volevo salutarti prima di andar disson: Ciao, Lois. {La bacia sulla guancia). lois: Sei qui da un pezzo. Non dirmi che hai bisogno disson: I miei occhi stanno perfettamente. lois: Non c’è dubbio. disson: Hai un magnifico vestito. lois: Ti piace? Sul serio? disson: Certo che mi piace. lois: Voglio vedere se gli uccelli sono ancora lì. {Apre le tende). Si, ci sono. Stanno facendo il ba gno. {Guardano tutti in giardino). Guardateli. Sono così felici. Gli piace il mio bagno. È così. Gli piace molto. Loro mi rendono così felice, i miei uccelli. Pare che lo sappiano, istintivamente, che io li ado ro. Sul serio. Camera da letto di Disson. Sera. Disson, solo, davan ti allo specchio. Sta annodandosi la cravatta. Il nodo viene troppo corto. Lo disfa e lo riforma di nuovo. Questa volta il nodo è ancora più corto. Scioglie la cravatta, se la toglie e la guarda. L’annoda ancora una volta. Li misura. I due capi sono di eguale lunghezza. Soddisfatto sospira, esce dalla stanza. Sala da pranzo in casa Disson. Sera. Diana, Willy e Disson sono a tavola. diana: È stata una autentica fortuna trovarla. W illy: Oh, è di un inestimabile valore per l’azienda. immobile. La porta si apre. Entra Wendy. Disson si alza. disson: Lei è in ritardo. wendy: Occupava la mia sedia, signor Disson. dissoni Ho detto che è in ritardo. wendy: Nient’affatto. (Wendy si avvicina alla propria scrivania. Disson si toglie. Fa alcuni passi nella stanza). disson: Perché? wendy: Ho messo il vestito nuovo. (Disson si volta e la guarda). disson: Quando? wendy: Stamattina. (Pausa). disson: Dove? wendy: Nel mio appartamentino. disson: In quale stanza? wendy: Nell’ingresso, in realtà. Ho un grande spec chio. lì. (Disson la osserva a lungo). Le piace? disson: Si. È molto bello. non trovi anche tu, Robert? disson: Senz’altro. diana: Una persona che... effettivamente... non fa parte di noi... un’estranea, insomma... dedicarsi al proprio lavoro con tanta dedizione e buona volon tà... beh, è veramente notevole. Siamo stati molto fortunati a trovarla. disson: L’ho trovata io, veramente. W illy: Hai trovato anche me, vecchio mio. DIANA: {Ridendo). E me. (Pausa). È talmente fidata e così persuasiva al telefono. L ’ho sentita un paio di volte... quando c’era la porta aperta. W illy: Una ragazza straordinaria, insomma. disson: Non è poi così straordinaria. (Pausa. Gli altri lo guardano). È molto a posto, ma non è così straordinaria. diana: Beh, forse non è così perfetta come me. Mi trovi una buona segretaria privata. Willy? W illy: Eccellente. (Pausa. Continuano a mangiare). DISSON: Non mi pare una buona idea che tu lavori. diana: No? Perché? A me piace. disson: Non ti vedo mai. Se fossi in casa potrei assentarmi qualche pomeriggio... vederti. Ma così, non ti vedo mai. Tutto il giorno. diana: Vuoi dire che ti sono vicina, tuttavia lontana? (Pausa). disson: Si. diana: Preferiresti che facessi a te da segretaria? disson: No, questo no, naturalmente. Neanche per sogno. (Pausa). W illy: Ci vediamo a colazione. Ci vediamo la sera. palpava in continuazione. (Disson lo guarda). diana: A me piace lavorare. Tu non vorresti che lavo rassi per qualcun altro. Vero che non lo vorresti? disson: Certo che no. Lo sai che m’ha detto Wendy? diana: Cosa? disson: Mi ha detto che il suo ultimo principale la W illy: Ma no? disson: In continuazione. La palpava. diana: Il corpo, vuoi dire? disson: Cos’altro allora? diana: Beh, se la consideriamo una pratica comune, credo sia meglio restare in famiglia, dopotutto. Ba date, potrebbero non volermi palpare come palpava no lei. (Pausa). Ma, Robert, tu devi capire che io non voglio essere solo tua moglie, ma anche una tua dipendente. Non ti metto in imbarazzo, vero Willy? W illy: No, certo che no. diana: Perché come dipendente posso aiutarti ad au mentare i tuoi profitti, i nostri profitti. È questo che voglio fare. E anche Willy. Non è così? (Pausa). Casa di Disson. Tom tiene poggiato sul tavolo un tron cone di legno. Disson lo sta piallando. disson: Tienilo fermo Tom. Tu non lo stai tenendo fermo, (s’interrompe). Stringilo forte. JOHN: Ci vorrebbe una morsa. disson: Una morsa? Voglio che voialtri ragazzi impa riate a concentrare le vostre energie fisiche per qualcosa di utile. John: Che vuoi farne, papà? disson: Aspetta e vedrai. (Disson pialla il legno) John, dammi la sega. John: La sega? disson: Si. Dammela. Tom, che stai facendo? tom : Tengo fermo questo pezzo di legno. disson: No, basta. Ho finito di piallare. Guarda come JOHN: Se ci metti dentro la grafite puoi farne una disson: Ti trovano molto spiritoso a scuola, dì la ve è appuntito. matita rità. John: C’è chi mi trova spiritoso e chi no, papà. disson:1 Tom, prendi la sega. tom: Perché io? disson: Voglio che tu seghi questo pezzo di legno... da qui. (Disson indica col dito un punto sul legno). tom: Io non so segare. john: E il compito, papà? Dobbiamo fare un tema sul Medio Evo. disson: Lascia andare il Medio Evo. john: Lasciare andare il Medio Evo? tom: Facci vedere come si fa, papà. Noi ti osservia mo. Ufficio di Disson. Mattino. Disson è solo, in piedi al centro della stanza. Guarda verso la porta, si accosta alla scrivania di Wendy. Si avvicina alla sua sedia, la tocca. Vi si siede, lentamente. Resta seduto disson: E va bene, dalla a me. (Indica con la sega un punto sul legno) Ecco... da qui. tom (indicando)-. Ma non avevi detto da qui? disson: No, no, ho detto da qui. JOHN (indicando un altro punto sul legno): Avrei giu rato che avessi detto da qui. (Pausa). disson: Vattene in camera tua. (Pausa). Vattene. (John esce. Disson guarda Tom). Vuoi imparare qualcosa? tom: Si. disson: Dov’è che ho detto che volevo segarlo? (Fissa il legno. Tom lo regge). Tienilo fermo, eh Tom. Non farlo muovere. (Disson sega. La sega sfiora le dita di Tom. Tom lo guarda preoccupato. Disson finisce di segare). tom: A momenti mi tagliavi le dita. disson: Non è vero... no. (Guarda Tom irritato) Eri tu che non tenevi fermo il legno! Ufficio di Disson. Le tende sono chiuse. disson: Wendy, venga qui. Mi metta il suo fazzoletto di chiffon intorno agli occhi. Mi fanno male. (Wendy benda con il suo fazzoletto di chiffon gli occhi di Disson). Voglio telefonare alla ditta Martin a New Castle. Dobbiamo ancora ricevere la merce della fattura n. 634729. Chieda quale è il motivo del ritardo. (Wendy solleva il ricevitore, forma il numero, aspetta). wendy: Vorrei parlare con New Castle 77254, per favore. Grazie. (Lei aspetta, lui la palpa). Si, resto in linea. (Lui continua ancora a palparla. Lei si di mena). Pronto. Il signor Martin? L’ufficio del si gnor Disson... ah, è già stato informato... (ride) Sì, sì... ah è stata spedita. Bene. Il Signor Disson sarà contento (Lei si dimena mentre lui la palpa. Pausa). D’accordo, lo farò senz’altro. (Wendy riappende il ricevitore. Disson allunga la mano). Il signor Martin si scusa del ritardo. La merce è già stata spedita. (Squilla il citofono. Wendy risponde Si ode la voce di Willy). Pronto? da me per cinque minuti. da lui per cinque minuti. W illy: Ah, Wendy, c’è il signor Disson? wendy: Vuole parlargli, signor Torrance? W illy: No. È solo per chiedergli se può mandarla qui wendy: Il signor Torrance chiede se può mandarmi disson: Gli chieda che è successo alla sua segretaria? wendy: Il signor Disson vuol sapere che è successo W illy: S’è sentita male. È tornata a casa. Solo per alla sua segretaria. cinque minuti, non di più. disson: Va bene, vada pure. wendy: Vengo subito, signor Torrance. W illy: Ringrazi il signor Disson per me. wendy: Il signor Torrace mi ha detto di ringraziarla. disson: Ho sentito. (Wendy attacca il citofono). (Wendy passa attraverso la porta comunicante nel l’ufficio di Willy. Silenzio. Disson resta seduto im mobile, col fazzoletto di chiffon intorno agli occhi, rivolto verso la porta. Si odono risatine, gorgoglìi e bisbigli. Va alla porta, si china, solleva lo chiffon e guarda attraverso il buco della serratura. Poiché non vede niente, si toglie lo chiffon e poggia l’orecchio alla porta. I rumori continuano. D’improvviso,, silen zio. La porta si apre. Compare Diana. Nell’altra stanza Wendy è seduta e scrive quello che Willy in piedi le detta). DIANA: Che giuoco è questo? Alzati. Che fai lì in ter ra con quella benda sugli occhi? disson: Stavo cercando una cosa. DIANA: Che cosa? (Willy va alla porta e, sorridendo, la chiude). Che stavi cercando, eh? Ma alzati. disson (alzandosi): Non parlarmi così, sai. Come osi parlarmi così. Ti riempio la faccia di schiaffi. (Lei si copre il viso). Credevo te ne fossi andata. Che ci facevi lì dentro? diana: Sono tornata. disson: Vuoi dire che eri lì con quei due? Che stavi lì dentro con quei due? diana: Si. E allora? (Pausa). disson (tranquillamente): Stavo cercando una matita che m’è caduta dal tavolo. Eccola qui. L’ho trovata poco prima che tu entrassi e l’ho messa in tasca. Ho male agli occhi. Ho chiesto a Wendy il suo foulard per riposarmi la vista. Perché ti agiti tanto? Ufficio di Disson. Giorno. Disson sta scrivendo sedu to alla sua scrivania. Wendy va verso Tarmadietto, consulta uno schedario. Silenzio. disson: Com’è il suo appartamento, Wendy? wendy: Piccolo, signor Disson. Ma piuttosto gradevo disson: Piccolo, eh? Molto isolato? wendy: Oh, no. Piccolo e intimo. disson: Come sono le attrezzature del bagno? wendy: Adeguate, signor Disson. Certo, non al nostro le. livello. (Pausa). disson: Ci vive sola? wendy: No, lo divido con un’amica. Ma lei non c’è quasi mai. È hostess. Vuole che lo diventi anch’io, per la verità. disson: Mi stia a sentire, Wendy. Che non le venga in mente... di fare l’hostess. Mai. Può sembrare un mestiere affascinante ma, mi creda, è una vita in. fernale. Infernale... (Osserva Wendy mentre va alla propria scrivania con alcuni documenti e poi torna allo schedario). Era molto sola da bambina? wendy: No. disson: Neanch’io. Avevo tanti amici. Veri amici. Molti di loro ora stanno all’estero... piantatori di banane, ingegneri petroliferi, Jamaica, il golfo Persi co... ma se volessi incontrarli domani, vede... giusto così... non ci sarebbe niente di strano, nessuna diffi coltà. L’amicizia immediatamente. (Wendy si curva, Disson le guarda le gambe) È questione di affetto, capisce? Un affetto immutabile... (Wendy si solleva). wendy: Cosa è stato? disson: M’è caduto l’accendino. riprenderebbe, IL DRAMMA - 69 wendy (va verso la scrivania di Disson): Dov’è?... (Si inginocchia, guarda sotto la scrivania. L’accendino è vicino ai piedi di Disson. Lei si protende per pren derlo. Lui con un calcio lo manda in mezzo alla stanza. Ridendo). Oh, signor Disson, perché fa così? (Lei si rialza. Anche lui si alza. Lei va verso l’accen dino. Lui ci arriva prima di lei e lo trattiene col piede. Lui guarda verso di Lei. Lei si arresta). Che le piglia, adesso? (Disson fa una finta, spostandosi col corpo da sinistra verso destra). disson: Venga qui. WENDY: Cosa? disson: Avanti. Mi marchi. Prenda la palla. wendy: Come faccio a marcarla? disson: Coi piedi. (Lei si porta all’attacco. Lui la scar ta, si volta, calcia l’accendino lungo il tappeto verso di lei. Lei stoppa l’accendino col piede. Si volta). Ah! (Lei lo aspetta, lo sguardo procace, le gambe divaricate, l’accendino al piede. Batte ritmicamente il piede). wendy: Su, venga avanti lei adesso. (Lui le va incon tro. Lei lo evita. Lui l’afferra per un braccio). No, così non vale. (Lui la lascia). disson: Mi scusi. (Lei lo aspetta sempre con l’accendino al piede). wendy: Avanti, allora. Sù, venga a prenderlo. Venga. (Lui fa per muoversi, si arresta, si affloscia al suolo. Lei va verso di lui). Che le succede? disson: Niente. Non è niente. wendy: Aspetti che l ’aiuto disson: No! Lasci stare. Wendy, lei è preziosa in questo ufficio. È una buona impiegata. Impeccabile. Se ha dei reclami da fare, dica pure. Sistemo subito. Lei è una segretaria molto efficiente. Quello che mi è sempre mancato. Ha tutto ciò che desidera? È soddisfatta del suo lavoro? wendy : Completamente. disson: Ah, bene. Bene... Bene. Stanza da letto in casa Disson. Notte. Disson e Diana a letto, stanno leggendo. Lei alza li occhi su di lui. diana: Mi sembri un pò depresso... ultimamente. disson: Io? Niente affatto. Sto leggendo la vita di Napoleone, ecco tutto. diana: No, non dico adesso. Parlo in generale. C’è... disson: Non sono affatto depresso. Sul serio. diana: Mercoledì prossimo è il nostro primo anniver (Pausa) sario di matrimonio. Lo sapevi? sciremo insieme la sera. Tu ed io. Soli. disson: Certo che lo sapevo. Potrei dimenticarlo? U- diana: Ah. Bene. disson: Darò anche un piccolo ricevimento in ufficio, diana: Bene. nel pomeriggio. Farò venire i miei genitori. disson: Sei stata felice in questo primo anno? diana: È stato magnifico. Un anno molto emozionan (Pausa) te. (Pausa) disson: Sei stata bravissima coi ragazzi. diana: Mi vogliono bene. disson: Si, è così. Te ne vogliono. (Pausa). Il tuo la voro è stato utilissimo per l’azienda. diana: Mi fa piacere. Molto piacere. (Pausa). Sarebbe bello andare in Spagna. (Pausa) disson: Non ti mancano i soldi, vero? Voglio dire, hai abbastanza soldi per comprarti tutto quello che vuoi? diana: Oh si, ne ho. Grazie. disson: Sono molto orgoglioso di te. diana: Ed io di te. (Pausa) (Silenzio) Ufficio di Disson. disson: Ha scritto a Corley? wendy: Si, signor Disson. disson: E a Turnbull? wendy: Si, signor Disson. disson: E ad Erverley? wendy: Si, signor Disson. disson: Mi favorisca la copia, per favore. wendy: Eccola, signor Disson. disson: Ah, vedo che Erverley è scritto giusto. wendy: Giusto? disson: Di solito, con facilità, dimenticano la prima R wendy: No. e scrivono Everley. Lei non l’ha fatto. (Lei fa per andarsene) sillabi. disson: Aspetti, come ha scritto Turnbull? Me lo wendy: T.U.R.N.B.U.L.L. disson: Perfetto. (Pausa). Perfetto. Ora sentiamo... Ma dov’è? (Pausa). Non la vedo. wendy: Sono qui, signor Disson. disson: Qui, dove? wendy: Mi sta guardando, signor Disson. disson: Vuole dire che ho gli occhi aperti? wendy: Sono sempre stata qui. Non mi sono mai mos (Pausa) sa. disson: Ho gli occhi aperti? wendy: Signor Disson, veramente... disson: È lei? Sto palpando lei? wendy: Si. disson: La sto proprio palpando? wendy: Ecco che ricomincia coi suoi giochetti, signor Disson. Ricomincia a fare il cattivo. (Ride). Però, che furbacchione. Studio medico di Disley. La torcia illumina gli oc chi di Disson. Prima il destro, poi il sinistro. La torcia di spegne. Si accende la luce. disley: Sono in perfette condizioni. disson: Cos’ho allora? disley: Sono oculista, vecchio mio. Perché vieni da me? Perché non va da qualcun altro? dissoni Perché ho dei disturbi alla vista. disley: Senti, prova da qualcun altro. (Disley prende a riporre gli strumenti). Non hai preoccupazioni, vero? DISSON: No, affatto. Nessuna preoccupazione. disley: Presto vai in vacanza. dissoni Vado in Spagna. disley: Beato te. dissoni Ascolta. Sei il mio più vecchio amico. Dovevi farmi da testimone al matrimonio. disley: È vero. disson: Hai scritto un magnifico discorso in mio ono disley: Si. dissoni Ma ti sei ammalato. Non hai potuto pronun (Pausa) re. ciarlo. (Pausa) disley: Precisamente. disson: Aiutami. disley: Chi ha poi fatto il discorso. Tuo cognato, (Pausa) non è vero? dissoni Non credere che io non sia felice. Lo sono. disley: Che razza di discorso ha fatto, eh? Saiatto di Disson. Sera. Dove giocavate a fratello e sorella. dissoni Parlami di Sunderley. W illy: Sunderley? dissoni Parlami del luogo dove voi due siete nati. W illy: Non giocavamo. Eravamo fratello e sorella. diana: Smetti di bere. disson: Bere? Lo chiami bere, questo. Macché. Mi scolavo undici pinte per notte. Undici pinte, se lo vuoi sapere. Tutte le sere che ha fatto nostro signo re. Io e i ragazzi. I ragazzi! Ed io! Mi facevano bere per... fregarmi meglio. Questo prima che diven tassi operaio specializzato. Prima che... (S’interrom pe. Siede). W illy: Sunderley era magnifica. dissoni Lo so. W illy: E questo ora è finito, per sempre. dissoni Non sono mai stato laggiù. (Disson si alza e va a versarsi da bere. Poi torna indietro). Cosa stai sussurrando? Credi che non senta? Credi che non veda? Anch’io ho i miei ricordi. E molto più lon tano dei tuoi. W illy: Oh si, Sunderley era magnifica. disson: Il lago. WILLY: Il lago. dissoni Le grandi vetrate. WILLY: Del salotto. dissoni Che davano sulla terrazza. WILLY: La musica suonava. dissoni Un pianoforte. W illy: Le notti d’estate. I trepidi cigni. disson: Quali cigni? Quali cavolo di cigni? W illy: Le civette. disson: Negri al cancello, sotto gli alberi. W illy: Nessun negro. disson: Come mai? W illy: Non ne avevamo. dissoni Come mai, in nome del cielo? W illy: Un capriccio di famiglia, Robert. diana: (alzandosi) Robert. (Pausa). Andiamo a letto. disson: Davanti a lui? (Va verso di lei). Perché mi hai sposato? diana: Ti ammiravo. Eri così sicuro di te. disson: Mi amavi. diana: Eri gentile. dissoni Mi amavi per questo? diana: Ammiravo in te la chiarezza di idee, la si curezza dei propositi, la volontà, la forza che il suc cesso ti aveva dato... disson: E mi adoravi per questo? W illy: (A Disson) Posso dirti una parola in privato? dissoni Mi adoravi per questo? (Pausa) diana: Lo sai. W illy: Posso dirti una parola in privato, vecchio dissoni Bada a quello che fai, Bill. Bada... a quello mio? (A Diana) Scusaci. (Diana esce dalla stanza. Disson guarda Willy). che fai, ragazzo mio. che preoccupazione? W illy: Ascolta. È molto che me lo chiedi. Hai qual dissoni Qualche preoccupazione? No, nessuna. W illy: Allora non sei soddisfatto del mio lavoro, o qualcos’altro? dissoni Al contrario. Sono soddisfattissimo. W illy: Ah, bene. Il lavoro mi piace molto. Cerco di fare del mio meglio. dissoni Senti. Voglio che tu diventi mio socio. Mi senti? Voglio che tu divida ogni responsabilità... con me. W illy: Dici sul serio? dissoni Certamente. WILLY: Tante grazie, allora. Non so che dire. disson: Non dire niente. Ufficio di Disson. Willy è sulla porta. W illy: Vogliamo andare, vecchio mio? disson: Vengo subito. W illy: Questa è una colazione importante. Ma penso che ce la faremo, non è vero Robert? (A Wendy). Grandi progetti in vista. dissoni Andiamo? WILLY: Si. (Disson e Willy escono. Wendy raduna alcune carte. Entra Diana dalla porta comunicante). wendy: Oh, buongiorno, signora Disson. diana: Buongiorno, Wendy. (Pausa. Diana osserva Wendy mentre riunisce le carte). Le piace fare la segretaria? wendy: Oh, si, mi piace. E a lei? diana: Anche a me. {Pausa) Ho sentito che il suo ex principale la palpava... un po’ troppo spesso. wendy: Non è questione della frequenza, signora Dis- son. Un tocco era già abbastanza per me. diana: Ah, se ne è andata subito dopo il primo tocco? wendy: Beh, non subito dopo il primo, si capisce. diana: Si è mai chiesta perché gli uomini si ostinino a palpare le donne? wendy: No, non me lo sono mai chiesta, signora Dis- {Pausa) son. diana: Molte donne se lo chiedono. wendy: Ah si? Io non so. Non ho mai parlato con altre donne di questo argomento. DIANA: Ne sta parlando ora con me. wendy: Si. E lei si è mai posta questa domanda signora Disson? diana: No. Mai. {Pausa) Perché non fa colazione con wendy: Molto volentieri. me oggi. Mi parlerà di lei. disson: Ho dimenticato... un disegno. (.Entra Disson. Loro lo guardano. Lui ricambia lo sguardo. Silenzio). {Diana gli sorride. Wendy raccoglie le sue carte. Disson va alla propria scrivania, prende una cartella, la esamina. Diana guarda fuori della finestra. Wendy riunisce le carte. Disson guarda verso di loro, poi esce. Diana e Wendy rimangono in silenzio.) Casa di Disson. Disson e Willy stanno giocando a ping-pong. La partita è molto accanita. I Gemelli osservano e commentano il gioco. Willy attacca mentre Disson tenta disperatamente di rimontare. Taglia i colpi, gioca con grande energia. gemelli {In diversi momenti del gioco): Dai, papà. Così, attacca. Bel colpo. Bella, papà. {Willy impegna Disson a fondo, rispondendo energi camente a tutti i suoi colpi). W illy: Su, Robert, prendi questa e questa. E ancora questa. {Willy schiaccia, Disson risponde). gemelli: L’ha presa. Forza papà. Avanti, così. Dai resisti. Non mollare, papà. {Disson scivola a terra). disson: Aaaah! Il salotto di casa Disson. Sera. Disson con i suoi genitori. madre: L ’ho già visto quello specchio? disson: No. È nuovo. madre: Sapevo di non averlo visto. Guardalo, John. Che magnifico specchio. padre: Ti dev’essere costato un bel po’. madre: Hai visto com’è lavorato, John? Scommetto dev’essere molto antico, quello specchio. disson: Infatti è antichissimo. padre: Scommetto che t’è costato un bel pò. disson: Beh, non me lo hanno regalato. padre: Regalato? madre: Che magnifico specchio. padre: Hai sentito che ha detto, Dora? Che non glie lo hanno regalato. madre: No, scommetto proprio di no. padre: {ridendo) Regalato. {Pausa) madre: La signora Tidy ti manda i suoi saluti. disson: Chi? padre: La signora Tidy. I Tidy, caro. disson: Ah si. Come stanno? padre: Sempre molto bene. Non è vero, Dora? madre: Ti ricordi i Tidy? disson: Certo che me li ricordo. {Pausa) E voi come padre: Tua madre ha avuto un po’ di dolori. Giusto madre: Solo un po’, John. Non ne ho avuti molti. padre: Ho detto che ne hai avuti solo un po’. Non state? un po’, sai. molti. {Pausa) madre: I ragazzi pensano alle vacanze? disson: Non vedono l ’ora. padre: Tu quando vai? disson: Io non vado. Ufficio di Disson. disson: Più stretto. {Wendy stringe il fazzoletto di chiffon intorno ai suoi occhi). wendy: Ecco. Così le sta bene. disson: Questa benda puzza. wendy: Oh, le chiedo scusa. Puzza di che? {Pausa) le sta Lei è molto sgarbato con me. Ma lo sa che proprio bene. Sul serio. {Disson si strappa la benda). qui. disson: È inutile. Chiami Disley. Gli dica di venire wendy: Ma verrà alle quattro, per il ricevimento. disson: Lo voglio qui ora. Lo voglio... subito. wendy: Non le piace più il mio chiffon, il mio bel chiffon, per bendarsi gli occhi? {Pausa. Lui resta seduto immobile). Mi vien sempre voglia di baciar la quando ha il mio bel chiffon intorno agli occhi. Lo sa? Quando non mi vede. {Pausa). Se lo metta. {Prende lo chiffon e lo piega) Glielo metterò io. Con delicatezza. {Lei si sporge in avanti, lui la pal pa). No... non deve palparmi se prima non mette il mio chiffon. {Lei mette lo chiffon intorno ai suoi occhi. Lui trema, si porta una mano alla benda, l’abbassa len tamente, la lascia cadere a terra. Lei lo guarda, lui forma un numero al telefono). Ufficio di Disson. Disson è nella stessa posizione. disson: Voglio una benda stretta, Disley. Molto stret ta. tu. disley: Te la può mettere chiunque. disson: No. Sei tu il mio oculista. Me la devi mettere disley: Va bene. {Prende una benda dalla sua vali getta e la passa intorno agli occhi di Disson). Solo mezz’ora, però. Non vorrai tenerla quando arrivano gli invitati, no? {Disley l’annoda). Questa ti terrà al buio completo. E ti stringerà le tempie. È que sto che vuoi? disson: Si. È questo che voglio. disley: Ecco fatto. Come ti sta? {Pausa) Vedi niente? Ufficio di Disson. Pomeriggio. Disson è seduto so lo, con la benda intorno agli occhi. Silenzio. Willy entra dal suo ufficio. Vede Disson e va verso di lui. W illy: Come va, vecchio mio? Tutto a posto con la benda? {Gli dà un colpetto sulle spalle ed esce attraverso la porta di comunicazione. La porta sbatte. Disson sie de immobile. La scena frattanto va riempiendosi di gente. Entrano per primi Lois e Disley conversando tra loro). lois: Perché ha dato un tea party e non un cocktail party, dico io. disley: Non riesco a capirlo. {Entrano i genitori di Disson). John? (Seguiti da Diana e Willy). madre: A me basta anche una tazza di tè. E a te, time. diana: Perché non vieni in Spagna con noi, Willy? WILLY: Ma si. Penso proprio che verrò. {Frattanto due anziane signore servono tè, tartine e dolci. Tutti sono raggruppati attorno alla tavola, in silenzio. Disley bisbiglia). disley: Ha solo gli occhi un po’ affaticati. Questo è tutto. Li sta riposando un po’. Non parlatene. Lo imbarazza. Va tutto bene. {Sorseggiando il tè e mangiando tartine). John: {Prendendo una pasta). Queste paste sono ot Non è vero Peter? erano alti così. Vero Tom? tom: Che paste sono? diana: {Prendendone una anche lei). Cannoli. lois: La trovo bene, signora Disson. Proprio bene. disley: Si, sta benissimo. lois: Che ne pensa dei suoi nipotini? padre: Sono un po’ cresciuti, no? lois: Beh, naturale. Noi li abbiamo conosciuti che padre: Anche noi. tom: Si. W illy: Si sono fatti due ragazzoni ora, eh? John: Vuoi una pasta, nonna? madre: No grazie, l’ho già presa. John: Prendine un’altra. padre: Ne prendo una io. madre: Tu l’hai già presa. padre: Ne prendo un’altra. {Wendy porta una tazza di tè a Disson e gliela mette tra le mani). wendy: Ecco il tè, signor Disson. Lo beva. È caldo. lois (A Diana)-. Partite presto per la Spagna, non è diana: Si, molto presto. disley: {A voce alta). Ed ora ti toglieremo la benda, vero Diana? vecchio mio. lois: La Spagna è splendida in questa stagione. W illy: Lo è tutto l’anno, per la verità. lois: Sì, ma questo è il periodo migliore. Non è così? diana: Che crema abbronzante usi tu, Lois? {Improvvisamente si fa silenzio. Le persone si muo vono in atteggiamenti sospetti, bisbigliano tra loro. Poi riprendono a parlare ad alta voce). tom: Ieri ho fatto goal. W illy: Come hai fatto? lois: È possibile trovarlo ovunque. È ottimo. John: Tom ha fatto due magnifiche parate. tom: La prima è stata per fortuna. lois: Come ti abbronzi, allora? diana: Debbo stare attenta. tom: La seconda parata invece è stata migliore. lois: Lei come si abbronza, Wendy? wendy: Oh, senza troppa difficoltà, per la verità. lois {Alla signora Disson): Tutti gli anni, quando andiamo nella nostra piccola isola, dobbiamo lascia re il nostro gattino siamese a mia madre. madre: Davvero? lois: I siamesi sono quasi esseri umani. diana: Sono sicura che il mio lo fosse. lois: Quasi esseri umani, non è vero Peter? diana: Willy, ti ricordi Tiger, a Sunderley? Beh, dimmi tu se non lo era. WILLY: Ti adorava. disley: I siamesi sono realmente quasi esseri umani. Non è così? {Di nuovo silenzio. Gli invitati si dividono in piccoli gruppi che bisbigliano tra loro. Le due anziane si gnore sono accanto al buffet e mangiano. I genitori di Disson siedono uno accanto all’altro. I gemelli sono con Lois e Disley. Willy, Wendy e Diana appartati in un angolo. La conversazione riprende). lois: Se fossi in lei ci andrei di corsa. wendy: Chi? Io.? Andare in Spagna? diana: Si. Perché no? W illy: Ma certo che deve venire. wendy: Che meraviglia. {Willy si accosta a Disley). {All’improvviso la sedia si schianta e Disson piomba a terra. La tazza gli cade di mano e si rovescia. Lutti i presenti si voltano. Disley e Willy accorrono pres so di lui. Tentano di estrarlo dalla sedia, ma non ci riescono. Disley taglia la benda e la getta via. Gli occhi di Disson sono spalancati. Disley gli tasta il polso. Il polso è regolare. Presto, tiriamolo fuori disley: di lì. (Disley e Willy provano ad estrarlo dalla sedia, ma non ci riescono, John e Tom li aiutano). Forza. Tiriamolo fuori di lì. (Tirano tutti e quattro con grande sforzo, spingendo coi piedi contro la sedia. Disson è inamovibile). Dobbiamo tirarlo fuo ri di lì. Due tengano ferma la sedia e gli altri due lo tirino fuori. (John e Willy tengono la sedia. Disley e Tom lo tirano. La sedia scricchiola, ma non si muove. Gli invitati si affollano tutti intorno alla sedia. I quattro tirano col massimo sforzo. La sedia scricchiola ma non si muove). W illy: Sembra inchiodato alla sedia. disley (Tira e urla): Vieni fuori di lì. madre: Bob! (Smettono di tirare. Disson resta incastrato nella sedia, immobile, con gli occhi spalancati). • Diana. diana (s’inginocchia accanto a lui): c (Pausa) Puoi sentirmi? (Pausa) Puoi vedermi? (Pausa) Robert. (Pausa) Mi senti? (Pausa) Mi vedi, Robert? (Pausa) Sono io. Sono io, tesoro. (Breve pausa) Sono tua moglie. Kishegyi Arpad (Volpini) e Pasztky Jìulia (Corallina) nell'opera in un atto « L’impresario delle Americhe », musica di Lamberto Gardelli su libretto di Mario Verdone, rappresentata in prima mondiale alla televisione ungherese E s t a t e ’ 7 8 p i a z z e e s t r a d e s i f a n n o p a l c o s c e n i c o La stagione estiva quest'anno è stata particolarmente proficua per quello che riguarda il teatro e le manifesta zioni in genere. In nome della « partecipazione alla cultu ra » sono stati organizzati festival di maggiori o minori pretese, feste collettive e spettacoli musicali. I risultati sono stati in alcuni casi ottimi, in altri un po’ meno, ma ciò che conta in definitiva è la voglia di coinvolgere e di lasciarsi coinvolgere della gente in una forma culturale, quale quella teatrale, che si alimenta della creatività e del confronto continuo col pubblico più vario. A Formello, per esempio, si è svolto dal 20 al 30 luglio il festival promosso dal centro Mario Apollonio e dal Comune. Il cartellone comprendeva una rassegna cinema tografica intitolata « I Rimossi », alcuni concerti di musica classica, una serie di balletti, una mostra di pittura, grafica e scultura, un concerto rock, oltre, naturalmente, ad un vero e proprio festival nel festival, quello della avan guardia teatrale italiana. Poiché si parla già di avanguardia storica (quella degli inizi, delle cantine, del ’68), si può affermare che quella di Formello è stata la concentrazione del passaggio dai primi che hanno tentato il « nuovo » in scena, agli ultimi in ordine di tempo, che sperimentano forme diverse di teatro. Non a caso il festival è stato inaugurato da Carmelo Bene, che — ancora non a caso ha interpretato i « Canti Orfici » di Dino Campana, un poeta tutto proteso a vivere una « vita indistinta, dove la parola è senz'altro idea e la realtà trabocca insensibilmen te nel sogno ». La « vita indistinta » che l'ultima avanguar dia sta cercando di raggiungere col tentativo di rendere compatto, senza smagliature, un discorso che sia di gesti più che di parole, che rivaluti il linguaggio del corpo, per un teatro che lasci sensazioni sinestetiche, che sia nello stesso tempo, musica, gesto, suono, plasticità, nell aspira zione alla semplicità. A Carmelo Bene si sono succeduti, in questo paesino a una ventina di chilometri dalla capitale, abitato prevalente mente da pendolari, Leo e Perla, con una novità assoluta « Tre Jurni », che fantastica sugli avvenimenti che caratte rizzano l’indomani della fine del mondo. E F tre jurni sono i tre atti della commedia e le tre epoche di adattamento alla nuova situazione: la prima, infatti è di sconquasso, i due sopravvissuti non riescono ad articolare un linguaggio, sono sperduti in un mondo di oggetti di cui non conoscono l'uso; nella seconda qualcuno ha inventato una ruota che è quadrata, quindi inservibile, i due superstiti della prima epoca si sono organizzati in una tribù e usano un loro linguaaqio (che sta tra il foggiano e il napoletano); nella terza epoca c’è « finalmente » l’avvento della scienza, la successiva perdita dell'ingenuità, fino ad un abbozzo di quarto atto, in cui gli oggetti si fanno protagonisti e la ruota quadrata diventa circolare. Sulle tavole del palcoscenico allestito in piazza e tra le quattro mura del teatro-garage, si sono via via avvicendate altre compagnie dell’avanguardia, quali il Patagruppo con « Fedora » da Giordano, la Cooperativa teatro Nuova Edi zione di Bologna che ha realizzato « Macchina » di Luigi Gozzi, il lungo monologo di una donna (Marinella Mani- cardi), trasformata, attraverso una infernale macchinazione in robot. Tra i più applauditi la « Fedra » di Maricla Boggio da Euripide, Seneca, Racine, D’Annunzio e De Unamuno, con Cecilia Polizzi e la Compagnia Teatro in Aria che ha presentato « La via umida o il mistero di Eieusi » per la regia di Alessandro Berdini. Questo lavoro, come gli altri precedentemente portati in scena dal gruppo, ha come tema il racconto mitico e sacro del mondo delle origini. Nato in laboratorio, lo spettacolo dà allo spettatore il senso dinamico dello svolgimento rituale del mito nell’an tichità, attraverso il movimento armonico dei corpi. Al di fuori del teatro d’avanguardia si colloca la rap presentazione più attesa a Formello e la più seguita: « La Mafia » di Luigi Sturzo, che Diego Fabbri ha ridotto e adattato. Amleto e Shylock — invece — i due personaggi più complessi e più di altri avvolti da secoli di discussioni critiche, sono stati i protagonisti del XXX Festival Shake speariano, che come di consueto si è tenuto al Teatro Romano di Verona. Si sono voluti avvicinare i due momenti più significativi e più popolari dell'altissima esperienza del drammaturgo inglese. L’« Amleto » e « 11 mercante di Venezia » sono due drammi diversi nella costruzione scenica, ma i due prota gonisti discendono da un'unica particolare analisi umana dell'autore. Si potrà dire che tale fenomeno è abbastanza naturale, ma effettivamente le caratteristiche intime di Amleto e Shylock fanno parte di una via di studio dalla quale gli altri eroi » shakespearani si discostano, tenden do verso caratteristiche umane e sceniche diverse e — se vogliamo — meno generalizzabili. Insomma « Il mercante di Venezia» dei 1594 e l’« Amleto » del 1601, intessono un carattere umano universale, frutto della più feconda analisi del grande drammaturgo elisabettiano. Il character shakesperiano è in conflitto con la società perché la sua genesi umana non riesce ad inserirsi nella « sozzura » degli intrighi che si trova a vivere. E il caratte re particolare, ma non atipico, delle due messe in scena tende ad esaltare il parallelismo esistente tra i personaggi chiave. Giancarlo Cobelli, che ha diretto Luigi Vannucchi nella parte di Shylock e Giancarlo Nanni, che ha guidato Manue la Kustermann nelle vesti di Amleto, hanno messo in risalto la « frattura » prima umana e poi scenica tra il protagonista e la situazione che a livello intimo decreta il diverso sviluppo e la diversa caratterizzazione della vita di Amleto e Shylock rispetto allo svolgersi della scena, af fermando insomma che il fermento che stimola l’azione del personaggio chiave ha ben poco in comune con le condi zioni umane del resto dei personaggi. Un terzo spettacolo poi, ha fatto parte dell’estate tea trale veronese: « La donna di garbo » di Goldoni, che, come dice lo stesso autore, è « la prima commedia di carattere da me disegnata e interamente scritta, senza lasciar a' comici la libertà di parlare a talento, come in quel tempo accostumavano ». Francesco Macedonio regista dello spet tacolo — che riporta la succitata frase in una sua nota interpretativa — ha cercato di mettere in luce le caratte ristiche principali di questo primo frutto della riforma goldoniana, soffermandosi sul valore teatrale di certe in novazioni e attenendosi il più possibile al dettato primario del commediografo veneziano. Anche quest'anno, insomma, l’Estate Teatrale Veronese si è presentata al pubblico e alla critica come un importan te momento di dibattito culturale e sicuramente questi hanno raccolto lo stimolo proposto dalla manifestazione che da molti anni si presenta tra le più ricche di spunti culturali in tutta la stagione estiva. Quello di Santarcangelo di Romagna è stato un vero e proprio esperimento teso a suscitare la partecipazione della gente. Il programma del festival infatti non compren deva prime assolute, per evitare che l’interesse del pubbli co e della critica fosse mosso unicamente dallo spettacolo Carmelo Bene e Lydia Mancinelli Vlarinella Manicardi in « Macchina » di L. Gozzi di richiamo. Gli attori, i musicisti, gli organizzatori del festival hanno lavorato con gli abitanti di Santarcangelo nella ricerca di una teatralità nuova che sia appunto vita in comune. Così, fin dai primi giorni, gli addetti ai lavori si sono avvicendati nelle piazze e nelle strade coinvolgendo la gente incuriosita, cercando spazi da riscoprire e da fare propri, per le rappresentazioni collettive. E la città intera è stata conquistata con la musica, le risa, le corse, i fuochi accesi durante la notte agli angoli delle vie e sui tetti. Il programma prevedeva che fin dalla prima metà di luglio alcuni gruppi tra quelli che avrebbero partecipato alla rappresentazione si recassero nei paesi vicini a Santarcan gelo per farsi conoscere e stabilire così un rapporto diret to con la gente; il teatro Potlach di Fara Sabina, il teatro Ventura di Treviglio e il Piccolo teatro di Pontedera hanno assunto questo compito e si sono recati nei comuni limi trofi, superando le iniziali diffidenze dei cittadini, riuscendo a trascinarli (soprattutto i giovani) alla conquista della città di Santarcangelo attraverso un’operazione giocosa. Il cartellone del festival comprendeva anche alcune mostre d’arte povera che hanno attirato l'interesse di molti visita tori: i Maestri Cartapestai di Barcellona, Lecce e Viareggio hanno presentato il Gran Teatro della Cartapesta; Peter Schumann del Bread and Puppet ha realizzato una mostra dell'opera di Masaccio ricostruita in cartapesta; Donato Sartori ha proposto una scelta di cento maschere della commedia dell’arte. Al settore teatrale hanno preso parte tra gli altri l’Ac cademia Ruchu di Varsavia, il balletto di Kala Kendram dall'India, la compagnia del collettivo di Parma con il - Gargantua » di Rabelais, l’applauditissimo teatro Campesi no, oltre a un gran numero di saltimbanchi, mangiafuoco, burattini, giocolieri, acrobati, suonatori di jazz e la banda cittadina del Passatore che si è uniformata al colore della festa e ha attraversato la città insieme agli « invasori ». Tra le altre iniziative una rassegna di film e audiovisivi e un incontro-dibattito sul « Ruolo e prospettive dei festival teatrali oggi ». Sono stati organizzati dai partecipanti labo ratori di studio in cui si insegnava il linguaggio del corpo e si discuteva sulle rappresentazioni. Insomma Santarcan- gelo, che vanta importanti tradizioni storiche (fu abitata a lungo dai Malatesta) ha vissuto per quindici giorni in un’atmosfera nuova, viva e l'incontro tra la cultura tradi zionale e quella odierna ha dato risultati inattesi. A differenza delle esperienze di quasi tutte le città italiane, gli spettacoli estivi a Roma hanno avuto un indi rizzo molto ben delineato: gli organizzatori dell'Estate Ro mana hanno voluto dare all’Iniziativa il taglio di un decen tramento culturale. Dopo l'avvio di luglio con la manifestazione ■■ Punti Verdi » a Villa Ada e Villa Pamphili, gli spettacoli si sono mossi alla volta di tutte le circoscrizioni, facendo in modo che gli abitanti di ogni quartiere potessero organizzare o prendere parte ai vari spettacoli. Naturalmente le manife stazioni più centralizzate « regolavano » — concludendolo — il panorama generale. A luglio, come si diceva, con i Punti Verdi si è avuta la manifestazione più vasta e risonante con un'ampia serie di film tratti da opere teatrali di grande importanza, un gran numero di concerti di musica leggera e la rappresentazione per bambini « La storia di tutte le storie » di Gianni Rodari. Il cartellone cinematografico-teatrale comprendeva tra gli altri: tre film da altrettanti lavori di Shakespeare, « Amleto » di Kosintzev, « Macbeth » di Roman Polanski e la «Bisbetica Domata» di Zeffirelli; «Un tram che si chiama desiderio » di Elia Kazan, dal dramma di Williams; « Liolà » diretto da Blasetti dal testo pirandelliano; « Casa di bambola » da Ibsen con la regia di Losey; « Metti una sera a cena », scritto e diretto da Giuseppe Patroni Griffi, « Filumena Marturano » scritta e diretta da Eduardo De Filippo e infine « Il Gabbiano » da Cechov, realizzato recen temente per la RAI da Marco Bellocchio. Come si può vedere il programma era molto nutrito e il pubblico romano dopo un avvio un po’ lento, ha voluto seguire con il massimo interesse questa rassegna che metteva insieme un gran numero di capolavori teatrali rivisitati in chiave « più accessibile » al gran pubblico. il grosso impegno culturale dell’Estate Romana è conti nuato poi, tra la fine d'agosto e settembre, con altre dùe rassegne di grande importanza. Alla Basilica di Massenzio c'è stata una lunga serie di film intitolata « Il doppio gioco deH'immaginario » che comprendeva, oltre a molti altri, « Il Sorpasso » di Dino Risi, l'« Amleto » di Lawrence Olivier e svariate maratone di cui una su Marilyn Monroe. La formula è quella già esperimentata l'anno passato e anche in questa occasione la rassegna ha richiamato un folto gruppo di spettatori di ogni età e ceto sociale. Al cortile di Sant’lvo alla Sapienza, infine, si è tenuta una serie di spettacoli riguardanti il periodo medioevale. Oltre ad alcuni concerti di musica da camera e di canti gregoriani è stata rappresentata la giullarata « Il detto del gatto Lupesco » che fa parte del teatro medioevale tipica mente preborghese e si presenta come la vera favola di saltimbanchi. Anche in quest'ultimo caso il pubblico roma no ha saputo apprezzare l'iniziativa che forse più delle altre aveva un intento culturale preciso. a cura di Simona Fasulo e Nicola Fano DUBROVNiK Nei mese di agosto si è tenuto a Dubrovnik un intenso festival di teatro. Il programma prevedeva tre rappresentazioni giornaliere e comprendeva, tra gli altri spettacoli « La bottega del caffè » di Carlo Goldoni, tradotta al tempo record di cinque giorni dal profesor Ciale, noto italianista e studioso di Goldoni, in dialetto ragusino; « Edipo re » di Sofocle; « Amleto » e « Ric cardo II » di Shakespeare. Gli spettacoli hanno avuto un colore tutto particolare, integrati in scenari naturali affascinanti. I Vir tuosi di Roma per la quinta volta a Dubrovnik, hanno commemo rato Vivaldi, con due concerti. Gli italiani c/he partecipavano al festival hanno ricevuto un’accoglienza entusiasta. Il direttore del Festival, Niko Nàpizza ha auspicato infatti, per l'anno ven turo, la partecipazione a Dubrovnik dell’Opera di Torino con il « Don Carlos », il « Barbiere di Siviglia », « L'Elisir d'amore ». MONTEPULCIANO Si è svolto dal 28 luglio al 12 agosto il terzo festival di Mon tepulciano, dedicato quest'anno alla Spagna. Sono stati presen tati spettacoli e Concerti iberici che lasciavano chiaramente trasparire l'amore per la libertà. « II trionfo dell'amore sulla magìa » di Calderon-SIothauwer e « Antiche voci di bambini » di Federico Garcia Lorca rappresentavano la « follìa » iberica, men tre « La Casa di Bernarda Alba » di Lorca allestito dagli allievi dell'Accademia d'Arte Drammatica di Roma e le musiche di Ma nuel De Falla occupavano la parte riservata alla « passione ». Di rettori d'orchestra spagnoli si sono avvicendati sul palco. Per fi nire Giorgio Albertazzi ha interpretato alcune poesie in una se rata dedicata alla Resistenza spagnola. FIRENZE ESTATE 78 Il bilancio della manifestazione Firenze Estate 78 è stato complessivamente di 86 recite. Sette spettacoli di prosa tra cui tre « nuovi »: « Edipo » di Seneca prodotto da il Centro Teatrale bresciano per la regìa di Massimo Castri, « I balli di Sfessania », danze, scene e scontri verbali dal rituale contadino alla farsa cittadina, presentato dalla Compagnia di musica e Teatro Po polare Pupi e Fresedde e « Winnie, dello sguardo » tratto da « Giorni felici » di Samuel Beckett per la regìa di Pier'Alli con il gruppo Ouroboros. Sono stati ospiti della manifestazione « La duchessa d'Amal- fi » di Webster don la regìa di Missiroli, « Le mille e una not te » del Grand Magic Circus, « Gargantua » di Rabelais portato in scena dal Collettivo di Parma, « Come conquistare le donne » e « lo e Maiakowskij » di Costantini e Sannini. Gli spettacoli pomeridiani dedicati ai ragazzi hanno visto impegnati la Compagnia E per la strada dì Milano, il Teatro dell’Angolo di Torino, Il Teatro delle Briciole di Reggio Emilia e il Teatro Gioco/Vita di Piacenza, il programma di Firenze Estate 78 investiva tutta la città, organizzando numerosi punti d'incontro, soprattutto nei quartieri d'Oltrarno dove i cortili e i portici cinquecenteschi hanno creato spazi di aggregazione per un nuovo modo di appropriarsi della Città. CASERTA Tra la fine di agosto e l'inizio di settembre si è tenuta a Caserta Vecchia, in piazza del Duomo, l'ottava edizione di « Settembre al Borgo »; del cartellone facevano parte la rap presentazione « Amore e cummedia », una pulcinellata in due tempi di Getty Gleises e Mario Meta, ispirata a un canovaccio ottocentesco di Carlo Guarini; « Eloisa e Abelardo » presentato dall’Istituto Popolare del Dramma Sacro di San Miniato per la regìa di Franco Enriquez, che ne è anche l’autore, e l'interpre tazione di Valeria Monconi e Nando Gazzolo; inoltre « Uno due tre: fanti briganti e re » di Carlo Monterosso con la regìa di Sergio Bargone e interpretato da Ennio Balbo e Anna Teresa Rossini. Per la musica, c’è stato un concerto di « Musiche not turne dal Settecento a oggi »; per il balletto la novità assoluta « Partenopeide » di Alberto Testa con Margherita Parrilla. AVIGNONE Nel mese di luglio si è tenuto ad Avignone il 32esimo Festival del Teatro. Nel programma figuravano « Il cerchio di gesso del Caucaso » di Bertold Brecht per la regia di Benno Besson, « cresciuto artisticamente all'ombra di Bre cht al Berliner Ensemble ». Gli attori dell’Atelier di Lovanio sono stati all'altezza del grande regista svizzero e hanno portato sulla scena uno spettacolo « stupendamente brech tiano ». Antoine Vitez ha proposto ai Chiostro dei Carmeli tani una tetralogia di Molière (« Ecole de femmes », « Tartuf- fe », « Don Juan », « Misanthrope »). Per celebrare il decimo anniversario della nascita di un tipo di spettacolo che fonde la parola, la musica e il canto con la recitazione è stato messo in scena « Il nome di Edipo » composto dal musicista francorumeno André Boucourechliev per la regia di Claude Régy, presentato nel sacro recinto della Corte d’Onore del Palazzo dei Papi. Tra gli altri spettacoli sono da ricordare ancora « L'affare Hauser » di Michael Raffaelli, « Rimbaud e il figlio dei sole », musicato da Lorenzo Ferre rò, « Teste morte » da Beckett, realizzato da Jean e Claude Fall, « L’Abecedario condizionale » per la regia di Michel Garneau. È da segnalare la messa in scena di « Aspettando Godot » di Samuel Beckett, con la regia del cecoslovacco Otomar Krejca. Una passeggiata-spettacolo proposta dal regista André Benedetto e dalla sua Compagnia dedicata a Cyrano de Bergerac si concludeva con la rappresentazione delle « Ricche ore della Signora Lucia Popolo ». Dal 20 settembre all'11 dicembre si svolge a Parigi il Festival d'automne 1978 che prevede un grande numero di novità inte ressanti, sia per quel che riguarda la musica che per la danza (Rudolf Nurejev ballerà al Theatre des Champs Elysées), oltre ad una mostra di grafica giapponese. Per il teatro il cartellone comprende » Puntila e il suo servo Matti » per la regia di Georges Lavaudant con il Centro Drammatico nazionale delle Alpi; « Mori el merma »; « La tavola » per la regia di Denise Peron; Rodo- gune - Edipo - Faust » per la regia di Jean-Marie Patte; la te tralogia di Molière per la regia di Antoine Vitez (« L’ecole de femmes », « Le Tartuffe », » Don Juan », « Le Misanthrope »); » La Mouette » con la regia di Bruno Bayen; « Ame Tsuchi » per la regia di Olda Yoshi; « Remagen » portato in scena da Jacques Lassalle; « Elle est la » per la messa in scena di Claude Regy; .< Misura per misura » con la regia di Peter Brook; « L’Execrée » con la regia di Pierre Friloux e Françoise Gedanken. Romolo Valli si è dimesso da Direttore artistico del Festival dei due Mondi a causa degli impegni assunti sin dalla passata stagione teatrale don la gestione del teatro Eliseo di Roma. Dopo aver curato sette edizioni del Festival spoletino, la sua decisione ha suscitato rammarico tra gli organizzatori della manifestazione estiva. Valli, comunque, non ha escluso il contributo di una sua collaborazione al Festival per i prossimi anni. ,< Puntila e il suo servo Matti » di Brecht, regia di Georges Lavaudant P e s c a ra : F e s ta d e ll'A m ic iz ia S t u r z o “ l a m a f i a „ L’estate ha offerto a due tipi di pubblico un po’ fuori dell’ordinario (quello del festival di Formello e quello del la « Festa dell’Amicizia » di Pescara), uno spettacolo che non esitiamo a definire « di eccezione », non tanto per il suo valore estetico, quanto per quello documentario; docu mentario di un periodo e di una vocazione teatrale ben presto sopraffatta da quella politica e dal senso del dovere « missionario » di un grande protagonista della storia italiana. Si tratta de « La mafia », un testo teatrale inedito di Luigi Sturzo, scritto dal grande pensatore e uomo politico cattolico alla fine del secolo scorso (nel 1899). « Dramma si ciliano in cinque atti » fu rappresentato nel teatro Silvio Pellico di Caltagirone il 23 febbraio del 1900 da una com pagnia di soli uomini, com’era nella tradizione dei gruppi filodrammatici che agivano all’ombra delle parrocchie. E d’altra parte i personaggi sono soltanto maschili, anche per la condizione subalterna della donna nella Sicilia di ottan- t’anni fa. Diego Fabbri ha curato la riedizione del testo che ha trovato, però, incompleto nel primo volume degli scritti inediti di Sturzo: mancava il quinto e ultimo atto. Fabbri si è trovato di fronte all’alternativa se lasciare il copione mutilo com’era o immaginarne una conclusione; d’accordo con il regista Mario Giampaolo ha ripreso il personaggio di un giornalista che figurava nel cast iniziale e non era mai apparso nei quattro atti disponibili e ha creato il finale drammaturgico dell’ultimo atto. Così com’è stato ridotto e strutturato, lo spettacolo dura circa un’ora e venti, ed è in un tempo unico. Diciamo subito che l’iniziativa è lodevole e sorprenden te. Certo, non conferirà gloria teatrale a Sturzo; ma dimo strerà come l’impegno politico e morale del grande siciliano non esitasse nell’estendersi anche a campi estranei come il teatro. Questo lavoro, infatti, non costituisce l’evasione di un dilettante, ma rientra in quell’azione di denuncia della corruzione pubblica e della connivenza tra mafia e politica che Sturzo sempre si propose nelle sue opere. Siamo in un grosso comune della Sicilia, forse lo stesso Caltagirone, patria di Sturzo, alla vigilia delle elezioni po litiche. L’onorevole di San Baronio ha bisogno dell’aiuto di tutti e non esita ad avallare le aspirazioni di un potente e prepotente locale, Roberto Palìca, ad essere rieletto sin daco, nonostante le risapute malefatte amministrative, e se gretario del partito di maggioranza. Quali sono le malefatta di Palìca. Quelle di oggi, potremmo dire; speculazioni edilizie, concussione, intrighi con la borghesia locale domi nante. Alle mire di Palìca si oppone Enrico Ambrosetti, l’eroe « positivo » del dramma; praticamente isolato, egli chiede che Palìca rinunci sia alla guida dell’amministrazione comunale sia alla carica di segretario del partito e con l’aiu to dell’unica persona per bene (oltre lui) dell’ambiente po litico, riesce a impossessarsi dei documenti che comprovano le gravi malefatte del Palìca. Il quale, a questo punto, di fronte al pericolo di una denuncia e quindi del carcere, ri corre alla mafia. La mafia minaccia di morte Ambrosetti e i suoi figli. Invitato a cedere dagli amici e dai nemici, Am brosetti resiste. A sua volta l’onorevole di San Baronio cer ca di far recedere Palìca dal proposito dell’omicidio mafio so e Ambrosetti da quello della denuncia; ma la sua inte ressata mediazione non si realizza. A questo punto la rap presentazione finisce; si fa avanti, con un meccanismo pi randelliano, uno « speaker » il quale tira fuori dal mazzo la figura del giornalista citata nel cast e non trovata nel l’inedito. Il giornalista prospetta le soluzioni possibili: ce dimento di Ambrosetti o di Palìca. Ma nessuna delle due appare possibile, dati i caratteri dei due: eroico e intran sigente quello di Ambrosetti, prepotente e criminale quello di Palìca. Come risolvere allora la vicenda? Non è essen ziale, in fondo. L’importante è che nella Sicilia postborbo nica, non ancora democratica e falsamente unitaria, qualcu no abbia denunciato un costume e un fenomeno che pur troppo non sono estinti nemmeno oggi. Lo spettacolo, quindi, s’impone soprattutto per quei va lori morali e di impegno civile e pedagogico che Sturzo si proponeva; ma dobbiamo dire che ha anche una sua forza drammatica e quindi una validità teatrale che ne giustifi cano pienamente il recupero. Emergono gli ideali di Sturzo, il suo sdegno per la corruzione politica, la sua fede nella ribellione delle coscienze. La figura di Ambrosetti è dise gnata con sicurezza e con calore. Mario Giampaolo ha mes so in scena il dramma spogliandolo di tutti i cascami di un linguaggio ovviamente arcaico, facendolo scorrere veloce verso il suo non epilogo, con una tecnica forse un po’ tele visiva (non per niente è stato ripreso e verrà teletrasmesso dalla prima rete). Gli attori hanno recitato con bravura e dignità. Walter Maestosi è stato un Ambrosetti per niente retorico, misurato, efficace. Carlo Alighiero ha impersonato Palìca, torvo e prepotente e Aldo Alori ha disegnato con bravura il personaggio del deputato. Bravi tutti gli altri, Bru no Cattaneo, Filippo Degara, Giuseppe Fortis, Sergio An- tonica, Gianni Olivieri ed Edmondo Tieghi. Il Dramma G e n o v a : F e s tiv a l d e ll'U n ità B d r e i b c a h t t t i t i e m a n i f e s t a z i o n i Brecht e il Brechtismo. Questo è il titolo della rassegna che il Festival nazionale deH’Unità — che si è svolto a Genova dal 2 al 17 settembre — ha voluto dedicare al drammaturgo tedesco. Tra un dibattito e l’altro di politica, economia e so ciologia, sulle tavole dei palcoscenici allestiti nella città, si sono avvicendate commedie e recital sull’intellettuale tedesco, ma non solo con l’intento di commemorare il suo ottantesimo « compleanno », anche cercando di dare nuovi presupposti critici e d’interpretazione, per « recuperare » questo autore forse un po’ troppo mistificato e a volte anche sfruttato. Gli spettacoli di maggior richiamo erano certamente l’allestimento del « Cerchio di gesso del Caucaso » dello svizzero Benno Besson — che fu assistente di Brecht negli anni di Berlino —, già presentato al festival di Avignone e un incontro con Giorgio Strehler, intitolato « Essere amici al mondo », che prevedeva, oltre al racconto — som mario ■— dei lunghi anni di affettuosa frequentazione tra Strehler e Brecht, l’interpretazione di alcuni testi poetici del « grande festeggiato ». Il Cerchio di gesso è una delle più popolari opere brech tiane e l’allestimento di Besson risulta abbastanza legato al dettato dell’autore, ma cerca di modernizzare (o solo ren dere più originale?) l’impianto scenografico. L’elemento che colpisce fin dall’inizio è che ogni attore recita con una maschera sul volto, forse per rendere più grottesco il senso e l’aspetto della rappresentazione. Il resto della scena, pur rimanendo nell’ambito del realismo brechtiano, si avvale di ghiacciai e torrenti, palazzi e locande di stoffa o alberi animati; tutto quindi « gestito » da un buon gu sto artigianale e completato dalle convincenti interpreta zioni degli attori, soprattutto quelle dei protagonisti, Col line Serau e Philippe Avron. Il recital strehleriano si esprimeva invece con un tono più familiare, anche se vissuto in rigoroso — quasi ecces sivo — silenzio. L’intervento di Strehler voleva rivalutare soprattutto la tensione verso il senso di amicizia umana proprio del Brecht più maturo, sottolineando ciò fino dalla scelta del titolo della manifestazione, appunto « Essere amici al mondo ». E per affermare questa sua idea Strehler ha voluto presentare e analizzare la parte più sconosciuta dell’opera brechtiana, la poesia. Nel quadro dei festeggiamenti del drammaturgo tede sco vanno ancora inseriti un recital sul Teatro di Weimar e uno intitolato II signor Brecht compie 80 anni; inoltre è stato presentato un collage di brani brechtiani, il Dialogo dei profughi realizzato da Marco Parodi e Marco Sciacca- luga, il recital Milva canta Brecht, un convegno su Brecht in Italia e infine una singolare messa in scena del Cerchio di gesso da parte di Gennaro Vitellio, capofila dell’avan guardia napoletana. Il Dramma « Il cerchio di gesso del Caucaso » di Brecht, regia di Benni Besson 4 . « / . i l i A * ' ll ¿ f a T r a d i z i o n e e a v a n g u a r d i a a c o n f r o n t o Gli spettacoli di prosa presentati quest'anno a Spoleto sono stati, in generale, di buon livello. Date le scelte che gli organizzatori avevano compiuto, era facile supporre un esito felice di questa fetta dello spettacolo spoletino. Tut tavia esistevano alcune incognite relative alla opportunità di alcune delle presenze indicate in cartellone. Premesso, comunque, che la XXI edizione del festival è stata sen z'altro positiva per quanto riguarda la prosa, vediamo, in particolare, i singoli spettacoli. VIRGILIO, L’EXIL ET LA NUIT SONT BLEUS di Gerard Gelas è un'opera abbastanza curiosa presentata dal gruppo Le Théâtre du Chêne Noir; la regia è dello stesso Gerard Ge las. Questa compagnia teatrale è molto popolare in Fran cia dove ha un grande seguito nel pubblico giovanile. Il '68 ha stabilito la data di nascita ufficiale dello Chêne Noir e Avignone la sua città elettiva. Mi era capitato di vedere, nel '72, uno degli spettacoli di Gelas, L’eclipse de l'Indien. Il '71 era stato l’anno di Aurora di cui si raccon tavano leggende. Era interessante, nell'impostazione sce nica di questo gruppo, la felice commistione dei linguaggi, tutti tendenti a una concezione unitaria deH'immagine. La presenza musicale, senz’altro molto importante, non pre varicava mai l'innesto tra recitazione, canto, luci e ombre. Il risultato era una forma di elegia malinconica, contenuta nei toni, anche se sottilmente struggente. Non mi sembrò esattamente un miracolo, in ogni caso mi parve di riscon trare molta originalità e ricchezza espressiva. Lo spetta colo che ha presentato a Spoleto lo Chêne Noir è senz'al tro di tono molto minore: l’impasto dei vari momenti espressivi è un po' disordinato e l’idea che guida la rap presentazione soverchia i risultati reali. In altri termini: non vi è un rapporto di causa ed effetto tra quanto si vo leva esprimere e quanto è stato espresso. Rimane il tono elegiaco, probabilmente costante di questo gruppo nei di versi lavori; il buon livello dei vari interpreti-musicisti e alcuni momenti lirici della poesia di Gelas. Per il resto è difficile riconoscere l'organicità di questa rappresenta zione, tra l’altro animata da una felice idea: un itinerario ideale e « poetico » alla ricerca delle radici umane e antro pologiche; un viaggio nella memoria della vita e della sto ria. Virgilio, personaggio di natura autobiografica (Gerard Gelas è di lontane origini italiane) percorre le tappe del proprio vagabondaggio di emigrante, senza una precisa me ta se non quella di cercare una società umana degna e civile. Tra un brano musicale e l’altro, un pezzo ballato o « Virgilio, l’exil et la huit sont bleus » di Gérard Gelas (foto De Furia) animato, punteggiano la rappresentazione le poesie di Ge- las che, per la verità, si potrebbero, forse, apprezzare co me momenti autonomi piuttosto che come modelli di nar razione. ACCADEMIA ACKERMANN e IN ALBIS di Giancarlo Sepe sono stati due spettacoli piacevoli che hanno confermato, ancora una volta, le doti di uno dei più interessanti rappre sentanti del nostro teatro di ricerca. In Albis è una ripre sa: lo spettacolo era già stato rappresentato alcuni anni fa. Torna molto a proposito, però, la rivisitazione che Sepe compie su se medesimo, in quanto ci aiuta a capire l'idea del suo teatro, l'organizzazione dei materiali, il momento dichiarato della ricerca e quello di una sottile apparte nenza ai moduli più maturi della nostra tradizione. Assi stiamo ad una festa dell’alta borghesia negli anni del char leston. Allo spettatore, però, non giungono che vacui bru sii e, al massimo, qualche parola banale. Quattro coppie [cinque con quella che si forma tra il cameriere e la ca meriera) ballano, si sdraiano mollemente sui divani, si compongono in rigorose posizioni geometrice. Durante la festa c'è- anche un tentativo di suicidio. Ma tutto avviene nella piatta attesa di qualcosa che non sai bene immagi nare. Questo gioco inutile è condotto dietro una grande grata di vetro che separa gli attori dal pubblico, in un’aria di passato remoto che rimuove, però, gli stanchi pesi della nostra coscienza. A un certo punto ti accorgi che le attese sono più generali, che il vuoto incombe su qualsiasi aspetto delle cose. Potrebbe essere una tragedia. Se non lo è questo accade perché tutto può sfumare dal nulla al nul la: questi, infatti, sono i due poli dello spettacolo. Alla fine la realtà di ciascuno si compone in un gioco immaginario di forme crepuscolari, tutte ordinate fuori dal mondo di quel gruppo, chiuso nella sua prigione dorata. In Albis sembra essere una specie di addio che Sepe formula nei confronti di una sua esperienza ormai maturata e com « Accademia Ackermann » di Giancarlo Sepe (foto De Furia) piuta. Quasi un dato di una rappresentazione che non vuole ripetersi più. Accademia Ackermann era la novità che presentava Sepe al Festival di Spoleto. Si ispira alla scuola teatrale creata nel 1938 da Lily Ackermann; in obbedienza ai voleri del Dottor Gobbels e agli editti hitleriani sulla gestione della cultura nazista e del teatro. Lo spettacolo si apre con la presenza oscura e minacciosa, in una sedia a ro telle, della stessa Signora Ackermann. In una scenografia cubiforme, ricoperta di nero lucido e funebre, vengono avanti figure dagli atteggiamenti marziali e i movimenti nervosi. In questo spettacolo, come nell’altro, sempre di 'Sepe, hanno un ruolo fondamentale la scenografia (di Uber to Bertacca) e le musiche (di Stefano Marcucci): sono dei momenti scenici su cui è costruita la dinamica dei movi menti degli attori, la progressione stessa dell'Immagine. Quest'ultimo dato, poi, è alla base della posizione teatrale di Sepe. Il suo primo intento è quello di un corpo iconico nel cui raggio convergano i diversi modi di essere (o apparire) di un'idea. In altri termini: l'immagine è la strut tura stessa della rappresentazione, in qualche modo ne è la vera sostanza. Data questa scelta, è facile debordare nell'estetismo, compiere un discorso semplicemente figu rativo, fine a sé stesso. Pericoli che Sepe ha evitato con un rigore e una raggiunta maturità estetica da cui, sen z’altro, potrà partire una sua felice e successiva fase evo lutiva. Il modello di appartenenza alle scuole dell'Avanguar dia (vedi, in particolare, il « movimento » della Scuola Romana ») non sono più nemmeno dei punti orientativi: ormai la posizione sepiana è del tutto autonoma, libera da rimandi mimetici, compiuta in un personale e originale iti- nerario. Questo ci porta a non legare nemmeno il lavoro passato ai movimenti sperimentali: insieme a quelli ha vissuto di uno stesso clima, di un bisogno di rinnovamen to che era generale, di una necessità alla posizione di ri cerca. Ma niente più. Accademia Ackermann, infatti, al di là di un referente genericamente « sperimentale », è uno spettacolo che su pera le semplici intenzioni di ricerca. L’episodio di questa scuola hitleriana di formazione dell’attore — dove si irride al teatro brechtiano e a quello della Repubblica di Wei mar, e dove si esaltano i valori del nazismo — tinge di scu ro non solo il quadro di un nefando momento della nostra storia, ma anche della nostra coscienza contemporanea, di cui rimuove tutte le inquietudini per imporle al piano della coscienza. Alla bella prova di regia si aggiunge l’af fiatato gruppo di attori del Teatro della Comunità: Sofia Amendola, Gianni Camponeschi, Franco Cortese, Massimo De Paolis, Nicola D’Eramo, Remo Girone, Massimo Milaz zo, Daniela Piacentini, Roberta Rem, Valeria Sabel, Pino TufiIlaro, Victoria Zinny. Molto belle le musiche di Stefa no Marcucci e le scene di Uberto Bertacca. LA DUCHESSA D'AMALFI di John Webster è lo spetta colo che ha presentato a Spoleto Mario Missiroli. Webster è un drammaturgo elisabettiano la cui fama è legata so stanzialmente a due tragedie: La duchessa d'Amalfi [1613- 14) e II diavolo bianco (1611-12). Difficile, secondo gli stu diosi e gli specialisti, ricostruire la personalità di questo autore, difficile inquadrarne a pieno la poetica, difficile recuperarne motivi all'interno di costanti e variabili pre cise. La duchessa d'Amalfi rimane, comunque, una inte- Anna Maria Guarnieri e Carlo Simoni in ■< La Duchessa d'Amalfi » di John Webster, regia di Mario Missiroli (foto De Furia) in una costrizione ressante occasione di incontro drammaturgico. Da un lato la vicenda — pare sia stata raccolta, dal vero, dal Ban- dello che, per primo, l'ha trasposta in una sua novella — propone un intricato gioco di passioni; dall’altro i perso naggi permettono, con le loro caratteristiche, di interpre tare un più vasto gioco: quello del potere. Questa seconda direzione è quella scelta da Missiroli. Ma quello che più ha interessato il regista è il momento di una scansione, interna alla vicenda, dell'incedere e dell’affermarsi del Ma le. Male inteso come categoria del negativo, come ciò che è contro alLuomo e alle sue vere ragioni desisten za, come impossibilità alla scelta libera e personale. La storia è quella di una giovane duchessa rimasta vedova e impedita dai fratelli a seconde nozze. La donna trasgre disce, in segreto, a quell'ordine e sposa il maggiordomo, da cui avrà tre figli. La disobbedienza della donna è, prima di tutto, contro le mire economiche fraterne, a cui si ag giunge l'attaccamento incestuoso del fratello Ferdinando. Tramite l’azione di un oscuro sicario, un certo Bosola, si scatena la morte che colpisce i trasgressori e, alla fine, anche i mandanti. Tragedia nera, dove il Male divora tut to, quest'opera di Webster è stata tradotta in uno splen- dito italiano da Giorgio Manganelli. Missiroli ha voluto sot tolineare i ritmi negativi della malvagità, divisi da cesure musicali per organo (le sobrie musiche sono di Benedetto Ghiglia); ha inquietante l’azione (la scena è di Lorenzo Ghiglia), strutturata in for me e ritmi geometrici; ha impostato gli attori verso una recitazione astratta e un po' meccanica perché si eviden ziasse la misura strutturale dell'operazione. Forse un mag gior coraggio nell'apportare alcuni tagli alla vicenda avreb- incastonato be giovato alla messinscena: una riduzione della durata dalla rappresentazione può aiutare lo spettatore a un più concreto rapporto con questo spettacolo. Gli attori sono quasi tutti bravi; in particolare vanno ricordati: Anna Ma ria Guarnieri, Glauco Mauri, Giulio Brogi e Cesare Gelli. GIN GAME di D.L. Coburn è stato lo spettacolo di gran dissimo successo di questa edizione del festival spoletino. Un successo che è andato a tutto riconoscimento della straordinaria bravura dei due interpreti: Franca Valeri e Paolo Stoppa. Il ritorno di queste due grandi figure della nostra scena italiana era molto atteso. Da un lato si aveva una Valeri da anni più dedita alla sua attività di autrice e regista (soprattutto di lirica: basterebbe ricordare il suo intenso lavoro con Maurizio Rinali); dall’altra parte si at tendeva il ritorno alle scene, dopo un comprensibile smar rimento per la scomparsa della Morelli, di un attore che, come Stoppa, ha riscosso sempre un grande favore di pubblico. La coppia Valeri-Stoppa si è dimostrata eccezio nale: così intonato e rafforzato da un sublime incastro è il loro modo di recitare che non si sa a chi concedere più elogi. Gin Game presenta il dramma dell’emarginazione nella vecchiaia. Weller Martin e Fonsia Dorsey si incontra no in una casa di riposo per poveri, una certa Villa Ben- tley. Lui settantenne e lei sui sessantacinque, si confidano le piccole cose della loro vita durante le partite di carte. Lei non sa giocare — così dice all'inizio — però vince una partita dietro l'altra. Lui accetta, dapprima con una certa sufficienza, le sconfitte, poi arriverà a scoppiare in vio lenti moti di rabbia. Le partite a carte si svolgono per tre pomeriggi di domenica, e una sera di un lunedì. Intorno ai due anziani c'è squallore e desolazione, brusii che giun gono da lontano, la luce opaca e triste di un inesorabile tramonto delia vita. Tra le pieghe di un dialogo banale e quotidiano viene fuori il carattere dei due, e i fallimenti delle loro esistenze: lui è divorziato con tre figli (che non vengono mai a trovarlo); ha tentato di fare i soldi e ora si trova senza un dollaro; lei, divorziata solo dopo quattro anni di matrimonio, ha un figlio (che non si cura affatto della madre) e due nipoti. La loro vita è quasi interamen te trascorsa e non c'è rimasto che il silenzio, un grande silenzio che accompagna la mediocrità di un passato ba nale e prevedibile. È la vita dell’uomo medio americano che trova, alla fine, l'ultima realtà di vuoto in una vec chiaia spenta ai margini della società. Della bravura dei due interpreti si è già detto. Va aggiunto: la rigorosa re gia di Giorgio De Lullo e il funzionale impianto scenico di Pier Luigi Pizzi. Dante Cappelletti K i i ^ > cP l l l l l f o l l f c E ’ m a n c a t a l a c r e a z i o n e f o l g o r a n t e Cinque compagnie di balletto per un totale di venti- quattro rappresentazioni in diciannove giorni: ecco il bi lancio coreografico del Festival di Spoleto 1978, giunto alla sua ventunesima edizione. Chi volesse attaccare in particolare anche questo set tore tanto importante del Festival per quella smania di fu rore distruttivo dei contemporanei per le cose consolidatesi nel tempo, i motivi di argomentazione non mancherebbero. Dovrebbe essere risaputo, come ci ammonì Gide, che oc corre, senza dubbio, « minor sforzo e minor pazienza per maturare un’arte di ciò che occorra in seguito per impe dirle di corrompersi ». In questo caso era estremamente difficile per gli organizzatori del Festival rimanere nelle posizioni d'inizio, addirittura esaltanti, ma ciò non era forse dovuto alla sconvolgente novità dei procedimenti coreo- grafici nelle creazioni di Robbins, Ross, Butler, Taylor, Cun ningham, Nikolais, e allo stupore che ne derivò? Quasi impossibile, dunque, mantenersi a quel livello anche perché in vent'anni la formula spoletina e la risco perta della danza si sono andate allargando sempre di più. Oggi non occorre attendere i messaggi dell'estate a Spoleto poiché tutta l’annata teatrale è percorsa da mani festazioni simili: non ce luogo turistico, il più piccolo o il più grande, il più appartato o il più ravvicinato che pos siede un giardino, qualche pietra antica di vestigia pas sate, una torre, una cìnta di mura gloriose in posizioni particolarmente privilegiate tra cielo e mare, tra cielo e monti che non si senta autorizzato di varare i suoi spetta coli, immancabile fra quelli la serata dedicata alla Danza. Se una riflessione si deve aggiungere è che a difettare II « Ballet Internacional de Caracas » (foto De Furia) sono sempre le produzioni nuove, le creazioni apposita mente allestite mentre i programmi provengono in massi ma parte da complessi di importazione che girano il mon do Intero. Essi si sono visti altrove e continueranno ad essere visti nell'annata un po' dovunque. È mancata la creazione folgorante che dà al Festival la sua cifra nei campo della creatività coreografica, il marchio indelebile come lo diedero I lavori di Robbins (« The Concert », « New York Export Opus Jazz », « Events » e le altre piccole cose che recavano tante annotazioni preziose]. Quest'anno le primizie si son dovute ricercare sparse nella lunga Mara tona di Danza: tre ore di spettacolo con i giovani e i gio vanissimi solisti italiani e la partecipazione straordinaria d Elisabetta Terabust e Patri ce Bart. Le autentiche crea zioni mondiali del Festival in campo coreografico si tro vavano radunate in questa Maratona. Barry Moreland, nuo vo artista della coreografia britannica, aveva preparato per i due danzatori ospiti un passo a due ricco di ele ganza e di respiro sulla « Fantasia op. 28 » di Scriabin. I due artisti l'hanno eseguito con un profondo senso del •< cantabile » nelle linee, uno slancio, una musicalità, una ricchezza di sfumature (e questo valga soprattutto per la Terabust) al punto di meritare gli applausi frenetici degli spettatori. La Terabust, ancora migliorata, non cessa di stupirci con la sua tecnica pulita, sicura, brillante (vedi il « Clalcovski Pas de deux » di Balanchine che è una perla nella produzione del Nostro) e Bart ci ha provato che si può girare « alla seconda » senza spostarsi di un milli metro dal proprio posto. E quale partner prezioso egli è! Per la Terabust c’è da fare un discorso che riguarda prin cipalmente le direzioni dei nostri teatri ed anche pubblico e critica. Fedeli al motto, ormai logoro, « Nemo propheta in Patria », ci si ostina a non riconoscerle quel posto che pure ha conquistato nel panorama della danza mondiale. La nostra insipienza è tale, lo spirito disfattistico dilagante in ogni settore di questo Paese crudele, per giunta mala fede e cattiveria sono arrivate ad un tal punto di ottusa violenza da provocare seri guasti per ciò che riguarda una oggettiva collocazione di questa artista. Per Spoleto la Terabust aveva scelto due pezzi certamente non facili, non plateali, cioè non del repertorio comune ma spesso l'ac quiescenza alla « routine » è indice di pigrizia spirituale tanto più che in aitro teatro, nelle stesse giornate, due esimi artisti si producevano proprio in due « cavalli di bat taglia » di quel repertorio e poi anche così gli effetti non sono mancati. Con la sua disciplina (nei tre giorni di recite non ha fatto che allenarsi, provare i pezzi del Festival e le cose che l'attendevano dopo) lo sfuggire ai luoghi comuni delle interviste e alle scemenze dei « reporters », il parlare poco, sommesso, pareva che la Terabust vo lesse dirci, con umiltà: « Guardate la mia danza, io sono tutta lì, il resto non conta! ». E difatti il resto non ha importanza, non contano le eresie di coloro che blaterano in preda alla nevrosi distruttiva come non conta l'assen teismo di chi non vuol vedere. Bisogna subito segnalare una coreografia molto sem plice e nello stesso tempo profonda, ricca di contenuto, firmata da Birgit Cullberg, intitolata « Ninna Nanna », un assolo sulla maternità impossibile, danzata e interpretata con arte raffinatissima da Iride Sauri che ha presentato anche una danza di Giuseppe Carbone (oggi direttore del Cullberg Ballet) su musica di Ravi Shankar « Ashrawa » dedicata alla danzatrice indiana Lilavati. Tra le giovanissi me Brunella Buonomo (Napoli) e Pompea Santoro (Torino), tutte e due sedicenni, hanno forse riscosso il successo più unanime, la prima in « Clair de lune » (Debussy) e nel pas- so a due della « Filie mal gardée » (versione sovietica nel l'attenta riproduzione di Mara Fusco, ormai una specialista in simili ricuperi), la seconda nell’assolo della « Carmen » di Alonso realizzato da Margarita Trajanowa e danzato con sorprendente carica appassionata e sensuale. Sono anche da ricordare i fratelli gemelli Christian e Guy Poggioli (Palermo) che hanno danzato con molto spi rito due coreografie di Riccardo Nunez insieme a Patrizia Saggio su musiche di Nicolò Castiglioni e Girolamo Arrigo. La grande rivelazione proveniva dai danzatori scaligeri (diciamolo francamente: non s'era mai vista la danza ma schile italiana rappresentata con tanta larghezza). Gli spet tatori più attenti non avranno di certo dimenticato i nomi di Maurizio Bellezza, Davide Bombana, Marco Pierin, cia scuno con la sua personalità precisa e ben definita: dram- matico-eroico il primo con una buona dose di ispirazione che lo guida; lirico con dolcezza e morbidezza mai stuc chevoli, il secondo; caratteristico l’ultimo con una maschera interessante, tutti e tre tecnicamente molto ben preparati con studi anche in Unione Sovietica (e l'« imprimatur » è inconfondibile). Essi hanno danzato due coreografie di Se bastiano Coppa, un giovane coreografo di talento della Scala di Milano, non privo di estro da disciplinare e Marco Pierin era il partner di Brunella Buonomo nel passo a due di Dauberval-lvanov riprodotto da Mara Fusco. Maria Gra zia Garofoli, in coppia con Enzo Cesiro, ha riproposto la celebre scena d'amore del « Romeo e Giulietta » di Béjart- Berlioz mentre Lia Musarra e Roberto Nieddu hanno dan zato il passo a due della singolare « Sonnambula » balan- chinianà. Lilia Riccio è apparsa in un delicato assolo « Syrinx » di Egri-Debussy accompagnata al flauto da An- tonmario Semolini (alla chitarra nel pezzo di Paganini era Marco De Santi). La parte « modern dance » era rappresentata dal Grup po « I Danzatori Scalzi » diretto da Patrizia Cerroni con Enrica Palmieri e Paolo Morelli su musiche di Cage e Mauro Bortolotti (« Fontana Mix » e « Self Mirror » erano indubbiamente i pezzi più riusciti anche se già conosciuti). Gli altri spettacoli di Balletto, come si è detto, non re cavano elementi di novità. Il Ballet de Wallonie non ha fatto una scelta felice per il suo programma al Teatro Nuovo: due coreografie mistificanti di Joseph Lazzini: « Cantadagio » (musica di Mahler) e una nuova versio ne (?) di « Schiaccianoci ». Per fortuna c’era la coppia Maximova-Vassilev, vale a dire due autentici artisti della danza. Ci si è dimenticati di tutto: della scenografia or ribile, della qualità molto oscillante del corpo di ballo, della banalità di certe risoluzioni sceniche e coreografiche per guardare, ad essi e a loro soltanto. Maximova ha in cantato con la sua dolcezza e con la bellezza delle sue posizioni, Vassiliev ha trascinato il pubblico al più travol gente entusiasmo grazie al suo fuoco dionisiaco che « ni- cianamente » sottintende l’apollineo. Il pubblico internazionale e quello di Nervi hanno già visto e ammirato il ■< Ballet Internacional de Caracas » di cui fanno parte splendidi danzatori anche giovani con co reografie un po’ meno splendide (di Vicente Nebrada, Alvin Ailey, John Neumeier, Margo Sappington). Ancora una vol ta è uscita fuori la classe di Zhandra Rodríguez e la qua lità dei danzatori Gina Bugatti, Marielena Mencia, Dale Tal- ley, Zane Wilson. Le altre compagnie erano la Murray Louis Dance Com pany e il Nederlands Dans Theater, la prima nello stile molto personale di Louis della •< modern dance » più volte iodato su queste pagine (v. >< Il Dramma » n. 6 - Giugno 1972) e la seconda in quello del balletto moderno (coreo grafie tutte di J¡ri Kylian che non essendo un genio co reografico ci ha causato qualche fuggevole attimo di mo notonia ma ha condotto molto bene il gioco satirico di un balletto su musica di Haydn e un po' meno i pensieri co reografici degli altri balletti tra l'oscuro e il pretenzioso). Pompea Santoro in « Carmen » (foto Paola Buonomo) Alberto Testa ®.,ll ¿$0 t\ ^ Ì i l V M Q u a s i s e m p r e t u t t o e s a u r i t o Un’estate particolarmente densa di avvenimenti ha ca ratterizzato la stagione lirica 78 in Italia. Numerosi, come sempre, i luoghi noti é meno noti che hanno contribuito, una volta di più, a sviluppare e continuare un « discorso » estivo sulla lirica non più improntato, nella maggior parte dei casi, a pure e semplicistiche esibizioni per turisti, ma ad una riscoperta precisa e puntuale del « fenomeno liri ca ». Purtroppo non abbiamo avuto la possibilità di seguire l’enorme, quasi infinita massa di rappresentazioni che si sono succedute nei vari teatri, arene o sferisteri. Ci limite remo, dunque, a tracciare per sommi capi l’iter di una Stagione che ha avuto i suoi poli di attrazione soprattutto a Spoleto e all’Arena di Verona. Il XXI Festival di Spoleto ha registrato il tutto esauri to e la passione per la lirica, divenuta ormai uno dei capisaldi della manifestazione, ancora una volta è stata più che largamente soddisfatta. Qualche cifra fra le più significative, relative alla Mu sica: 102 ore di lirica, 34 spettacoli, 34 cantanti protago nisti, 206 tra coristi e strumentalisti, 10 tra maestri con certatori e direttori. Il tutto per una presenza complessiva di 200 mila spettatori e per un incasso globale che supera i 205 milioni. Dati incoraggianti, dunque, per un Festival che costituisce, ormai, uno dei momenti caratterizzanti della cultura internazionale. Ma veniamo alle opere liriche in programma. Quattro « novità » e una ripresa. La Cenerentola di Rossini con le scene e la regia di Jean Marie Simon, i costumi di Claudie Gastine e la concertazione e direzione di orchestra di Sil- vain Combreling; Falstaff di Verdi con la regia di Giulio Chazalettes, le scene e i costumi di Ulisse Santicchi e la concertazione e la direzione di orchestra di Giu seppe Patané; La bugia di Martin e L’uovo ovvero i sette peccati mortali di Gian Carlo Menotti, con la regia dello stesso Menotti e i costumi di Constance Mellen. Infine una deliziosa e auspicata ripresa: quell’intarsio di musica e regia insieme che è il Così fan tutte di Mozart - De Lullo. La Cenerentola si è valsa di lina regia estremamente « psicoanalizzante » che ha un pochino distrutto la dolce e sognante favola di Cinderella. La fanciulla è risultata una ragazza ribelle, completamente stravolta dalle intenzioni del regista. Anche la scena finale, in cui Cenerentola si dimena in una specie di tormentoso ballo tarantolate, « appare diminuita nel suo significato: Rossini non crede alla pastorella che diventa principessa. Il sogno e l’innocenza di Cenerentola assomigliano molto ad una smentita del cinismo dell’Autore ». Una visione del tutto nuova che, oltre a lasciarci perplessi, e non del tutto convinti dell’efficacia della realizzazione, ci fa riflettere se in certi casi è indispensabile una rilettura, sia pure di questo tipo, di un’opera come la Cenerentola rossiniana. I cantanti, tuttavia, sono stati tutti all’altezza del com pito loro affidato. Un nome, fra tutti: Benedetta Pecchioli, nel ruolo della protagonista che nonostante qualche asprez za nell’emissione della voce, ha dimostrato una notevole padronanza scenica. Falstaff. Ancora un’occasione mancata. L’edizione spo- letina ci ha fornito l’esempio di quanto rumore per nulla si possa fare sul palcoscenico. Peccato! Perché Chazalettes e Santicchi sono una coppia affiatata: regista e scenografo costumista, in grado di poterci offrire deliziosi spettacoli come il recente « Sogno » di Britten al Maggio Musicale fiorentino. L’interpretazione del protagonista è stata buo na, ma speriamo vivamente in una revisione attenta e scrupolosa della vocalità e della presenza scenica. Un sicu ro Ford, quello di Alberto Rinaldi. Accattivante la Nan- netta di Carmen Lavani, mentre il rimanente terzetto delle donne ha lasciato molto a desiderare soprattutto per la pronuncia non certo sublime. Direzione un po’ troppo esteriore ed edonistica quella di Giuseppe Patané. Menotti Spoleto: quasi un nome e cognome per una tradizione ormai radicata che vuole almeno un’opera rap presentata del fondatore del Festival. Questa volta due opere moralistiche: La bugia di Martin e l’Uovo ovvero i sette peccati mortali, che hanno confermato il preciso e invidiabile senso teatrale dello stesso Menotti in veste di regista degli spettacoli. Un po’ meno invece ci ha convinto la parte musicale che, più di una volta, soprattutto nella « Bugia », ci è sembrata un po’ elementare. Più efficace e meglio riuscita è sembrata « L’uovo » dai chiari intenti « Falstaff » di Giuseppe Verdi. Nella foto, da sinistra: Angelo Romero, Tullio Pane, Ercole Mario Bertolino (foto De Furia) moralistici, dove ci è parso di ritrovare, in più di un momento, il Menotti della « Medium ». intenzioni scenografiche hanno Per concludere due parole sulla ripresa del Così fan tutte. Vero gioiello mozartiano che, una volta di più, ha dimostrato la sua innata e indistruttibile freschezza. Particolarmente significativa la prova di Lorenzo Ricci Muti che ha diretto con mano saggia e assai intelligente. Una superba Dorabella è stata Elena Zilio accompagnata dalla cordiale Despina di Betsy Norden. Sulla regia di De Lullo si è già detto lo scorso anno. Non possiamo che sottolineare ancora una volta il dispiacere di non vedere questa produzione anche in altri teatri. Passiamo ora a Verona. Tre opere fra le più note e popolari: La forza del destino, Trovatore e Madama Butterfly. Una struttura semplice, in fondo, ma estremamente suggestiva ha caratterizzato II Trovatore verdiano. Cinque grandi torri di legno e ferro hanno costituito la struttura portante di tutto l’elemento figurativo ideato da Coltellac ci. « Legno, ferro e fuoco: gli elementi della guerra e delle passioni che in un movimento di girevoli ed autoportanti si presentano man mano seguendo e determinando le esi genze dei diversi momenti. Le torri divengono castello-for tilizio, poi macchine da guerra, poi cattedrali dando modo, inoltre, agli zingari — in una sorta di corte dei miracoli — di far esplodere i loro tumulti e le loro passioni ». Queste trovato valido complemento nella regia cupa, nera, notturna di un Sandro Bolchi, tutto teso a fornirci il misterioso e interno lacerarsi di questo straordinario capolavoro verdiano. La compagnia di canto è stata eccellente: Leonora era interpretata da una Katia Ricciarelli splendida. Piena di grazia e di dol cezza, ci ha regalato un ruolo da protagonista sublime e affascinante. Azucena-Cossotto: binomio ormai consolidato dalla maestria e dall’eleganza consueta e raffinata della Cossotto, sempre in prima linea. Il cast maschile ha dato prova di grandi qualità — cosa assai semplice visti i nomi —. Bravissimo Pavarotti, eccellente Cappuccini. Appro priata la concertazione e direzione di Gavazzeni. Secondo spettacolo: La forza del destino, che si è avvalsa delle scene di Giò Pomodoro, i costumi di Pier Luciano Cavallotti e la regia di Dario dalla Corte. Spetta colo contrastato, per l’aggressiva emotività sollecitata dalla scenografia e dai costumi, più che dalla regia. « Un grande “ campo” dell’azione sul quale ha luogo que sto dramma “ patriarcale” con tre spicchi eguali di colore nero, rosso e bianco, misurato e descritto da un quadrato e da un cerchio, massimi, inscritti in quest’area segnata coi colori del medioevo ». Una messinscena non priva di inte resse, sovrastata dalla grande immensa Rota medioevale che incombeva su fatti e persone. Il cast: di prim’ordine. Bruson: una voce sublime, piena di incanti e di accorate tenerezze; Luchetti: tenore di magnifiche qualità con un fraseggio ed una vocalità assai rare. Qualche stridio, inve- cè, negli acuti e nei sopracuti di Lilian Molnar Talajic. Franca Mattiucci ha bene assolto il suo compito di « gio vane zingara ». Molto centrata è sembrata la direzione e la concertazione di Maurizio Arena. Terza opera Madama Butterfly per la prima volta in Arena. Magico, credo sia l’aggettivo giusto per questa realizza zione scenica, che ha visto la regia, le scene e i costumi di Beni Montresor. Uno spettacolo intenso, gradevole, magi strale. I tenui colori pastello hanno accentuato il carattere intimistico e tutto interiore della triste vicenda giapponese. Nonostante l’ampio palcoscenico veronese, mai è andata persa l’intima tragedia della protagonista, e il pubblico si è subito immerso, fin dal primo istante, in una sottile e tragica atmosfera. Raina Kabaivanska ha felicemente imposto il suo modo di cantare Puccini: pieno, totale, appassionato. Una grande e tragicamente vera Madama Butterfly. Luis Lima-Pinker- ton ha sostenuto con efficacia e appropriata passione il suo compito. Bene anche gli altri. Dalla Jankovic-Suzuki, al Mori-Yamadori, al Nucci-Sharpless. Piacevole scoperta quella di Yuri Ahronovitch che ci ha donato una lettura consapevole e corretta del capolavo ro pucciniano. Guido Nastasi La suggestiva scena di Giò Pomodoro per « La forza dei destino » di Giuseppe Verdi (foto Bisazza) L A N O T T E È F A T T A P E R V I A G G I A R E . . . I N T R E N O « C uscini da viaggio, cuscini da viag gio », la voce cantilenante del d is trib u to re echeggiava sotto la pensilina. L’uomo ra sentava il lungo convoglio, rinnovando la sua o ffe rta . E m olti s p o rte lli si aprivano, m olte mani si tendevano dai fin e s trin i. A n cora v e n ta n n i fa questa scena si ripeteva abitualm ente nelle m aggiori stazioni, alla partenza dei tre n i della sera. Il noleggio di un cuscino da viaggio era l'unico, tenue so llie vo agli inconvenienti e agli strapazzi di una notte da tra sco rre re in treno. L'azzurra « carrozza-letti » era lontana e irra g g iu n g ib ile com e una Fata M organa. I granduchi da operetta e le cortigia ne della Bella Epoque erano sp a riti da un pezzo e nessuno leggeva più « La M adòne des sleepings » di M aurice Dekobra. Tuttavia restava preclusa al la « carrozza-letto » via ggiato re m edio, sia per il lim ita to nu m ero di posti d isp o n ib ili, sia per le ta riffe non certo acce ssib ili a tu tte le borse. l ’entrata Nel 1957, in servizio delle « carrozze-cuccetta » segnò un punto di svolta. Il successo fu im m ediato. La gente com prese che era fin ito il purgatorio dei disagevoli e snervanti viaggi no ttu rn i col capo ciondoloni, la spina dorsale indolenzita. Valanghe di pre notazioni si rovesciarono sulle F.S. che non poterono, alm eno agli inizi, fa r fro n te a tu tte le richieste . il freddo nelle ossa, Oggi nella m aggior parte dei tre n i not tu rn i troviam o ve ttu re -cu cce tta di prim a e di seconda classe. Il supplem ento da pa gare sul prezzo del b ig lie tto è m odico. Le ve ttu re di prim a classe hanno quattro cuc cette per ogni com partim e nto, quelle di seconda ne hanno sei. Tutto qui. N iente cam bia circa il liv e llo delle prestazioni o f fe rte . I le tti sono sta ti razionalm ente stu d ia ti per co nse ntire un com odo riposo e sono dotati (ma occorre dirlo?) di coperte e biancheria che, dopo ogni viaggio, ven gono lavate e sterilizzate . Se questo servizio ha in contra to ed in contra tanto favore, esistono tu tta via altre p o ssib ilità per chi desideri un m aggior con fo rt. E qui il discorso torna alle « carroz ze-letto », la cui s tru ttu ra nel corso degli anni è andata gradualm ente evolvendosi (in Italia com e a ll'e ste ro ) secondo c rite ri di funzio nalità e razionalità che niente con cedono al falso deco ra tivism o e allo s tile flo re a le A nni Trenta. Le m oderne carrozze offro n o a ll’utente parecchie scelte. Le riepilogherem o, ser vendoci delle locuzioni gergali. Chi desi dera un com partim ento a un le tto può averlo, naturalm ente. Basta che chieda un « singolo ». Ma chi, pur desiderando star solo, si accontenta di un com partim ento più piccolo, può chiedere un « singolo spe ciale ». Spenderà di meno. Per due perso- ne, ci sono trad izio nali com partim e nti « doppi », cioè a due le tti. In tu tti questi casi, occorre pagare supplem enti, di d ive r so im porto, sul b ig lie tto fe rro v ia rio di p ri ma classe. A lla fascia degli utenti della seconda classe, le più recenti v e ttu re -le t to (le co siddette « tu ris tic h e ») offrono com partim e nti attrezzabili con due o tre le tti. Il supplem ento da pagare è abbastan za contenuto. Quale che sia la nostra sce l ta, prenotare i posti non è d iffic ile . Basta rivo lg e rsi alle Agenzie di viaggio autoriz zate o agli appositi u ffic i e siste n ti nelle p rin cip a li stazioni. in Italia sono circa seicentocinquanta. E in fo rm a rsi non costa niente. I punti di vendita Il tem po dei cuscini da viaggio è fin ito . Ma è fin ita anche la carrozza-letto, s tile Belle Epoque. Nessuno la rim piange. La m etam orfosi non è andata a scapito della i funzio nalità e della qualità del servizio. T u tt'a ltro . Le carrozze di più m oderna con cezione segnano anzi un progresso per il co n fo rt, d a ll’insonorizzazione, agli im pianti di condizionam ento d e ll’aria. A l p rin cip io del N ovecento, Renato Fu cin i, del tu tto digiuno della lingua inglese, sussurrò ad una avvenente Lady: « Sleep ing-car ». Come se fosse una parola ma gica, un segno di distinzio ne internaziona le, la sin te si di tu tti i sogni p ro ib iti. Oggi una disavventura com e quella dello s c rit tore m arem m ano sarebbe in com prensibile. Non potrebbe se rvire nem m eno a Carlo Dapporto per una sua barzelletta. Il viag gio in carrozza-letto non è più un sogno p ro ib ito , né un costoso ca priccio rise rva to ai banchieri col po rta fo g lio di co cco d rillo a fisarm o nica . R ivoluzione nelle lingue stra n ie re Scienziati in equipe si ribellano ai libri e inventano il nastro che fa parlare ali’istante tre lingue mondiali Poi ve Io inviano anche gratis e senza impegni per una prova in Inglese, Francese e Tedesco Una équipe di scienziati inglesi si incaponisce da anni per risolvere un grosso problema: elimi nare lo studio delle lingue a capo chino sui libri compilando frase per frase, abolire i tempi lunghi e letteralmente costringere a parlare immediata mente, pur conseguendo una conoscenza pratica e completa. Ebbene la tenacia è stata premiata. L’équipe è riuscita a inventare un sistema, sul na stro o dischi, che garantisce ciò che ieri sem brava impossibile (come l'elettricità o la conqui sta della luna]. In breve tempo, nel mondo, tre milioni di persone hanno adottato questo nuovo sistema e hanno appreso bene la loro seconda lingua in tempi sbalorditivamente brevi, essenzial mente con l’ascolto e con il semplice ausilio di un testo illustrato e di un dizionario complemen tare. Ora questa possibilità esiste anche in Ita- lia, dove sono giunti alcuni nastri e dischi a 45 giri di prova, da distribuire gratuitamente e sen za impegni perché l’interessato si convinca da se stesso. Per avere in dono il nastro o il disco di prova in Inglese, Francese e Tedesco, con un opuscolo dettagliato e le istruzioni d’uso, basta Compilare e spedire il tagliando qui sotto. Ripe tiamo che non vi sono impegni e che nastro o disco non devono essere restituiti in nessun caso. Una seconda fulmineamente e bene, è un patrimonio che vale più deN’oro. Scrivere SUBITO: il materiale di prova gratuito è limitato. lingua appresa Via Borgospesso, 11/15 - 20121 Milano Spett. LA NUOVA FAVELLA REP. 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(Scrivere in stampatello, per favore) . ^ A e & l B r i l l a n o “ L e s é t o i l e s , , B i r g i t t e K e i l e E l i s a b e t t a T e r a b u s t Quest’estate, per l’annullamento dell’ormai consueta stagione nella Cour Carrée del Louvre, Parigi ha avuto poco da offrire nel campo della danza dopo la fine di giugno. D'altronde, se non avesse provveduto il ritiro del l’invito al Klrov, sarebbero bastate le sfavorevoli condizioni metereologiche a rendere impossibili gli spettacoli all’aper to. In sostituzione, il corpo di ballo dell'Operà ha dato Giselle e La bella addormentata al Palais des Congrès (dove il Kirov dovrebbe venire a dicembre), mentre all’O- péra si replicava la Coppèlla. Tutto sostanzioso, ma di « ordinarla amministrazione », come anche il programma di riprese che ho visto verso la fine di giugno: Figliuol prodigo (ottimo Patrice Bari), Spectre de la rose, Petrou- schka, l'aprés-midi d'un faune, con qualche stranezza nella distribuzione. Più emozionante è stato il ritorno del Balletto di Stoc carda, col quale il Théâtre de la Ville ha chiuso in modo eccelso la lunga ed avventurosa stagione internazionale (Internazionale in quanto alla danza: Jean Mercure non ha bisogno di ricorrere all’estero per la prosa). Il rimodernato Théâtre de la Ville (ex Sarah Bernhardt) è un posto singo larmente simpatico, dove i prezzi sono contenuti e si dà a tutti il programmino gratuito, tuttavia manca la fossa per l'orchestra, onde l’uso di registrazioni; inoltre, la mancanza di spazio In palcoscenico ha condizionato la scelta del repertorio. Così, mentre al Coliseum Theatre di Londra (dove la compagnia era stata prima della visita parigina) si era potuto dare anche l’Onleghin di John Cranko, a Parigi hanno dovuto scartare i balletti lunghi. Ciononostante, e malgrado una programmazione non sempre indovinata, nel corso dei quattro programmi è stato possibile farsi una buona Idea dello stato attuale di questa grande compagnia, che non sarà ai primissimi posti della graduatoria mondia le, ma che sa accattivarsi la simpatia del pubblico per il grande impegno collettivo che si risolve in un lavoro d'insieme davvero notevole. È vero che gli artisti maggiori come in tutti i complessi di balletto della Germania Occi dentale non sono tedeschi (senza Haydée, Cragun e Ma- dsen le emozioni sarebbero poche), però l’incantevole Bir- git Keil è diventata una vera prima ballerina e altre pro messe si rivelano un po' alla volta. I lavori di John Cranko rimangono al centro del repertorio; ho gradito particolar mente Iniziali R.B.M.E. (balletto fatto per gli amici Richard, Birgit, Marcia e Egon -- cioè I primi ballerini della compa gnia, ' sul 2° Concerto per pianoforte e orchestra di Brahms), l’esilarante pas de deux principale dalla Bisbetica domata (dato dai creatori Haydée e Cragun) e la divertente Salade (Milhaud). Credo che Voluntaries (Poulenc) sia pro- babllmente il migliore balletto di Glen Tetley — è anche nel repertorio dell'American Ballet Theatre e del Royal Ballet, tutti e tre lo interpretano molto bene. Invece, ho trovato piuttosto disuguale l’ambizioso Caso Amleto di John Neumeier (Aaron Copland) e poco soddisfacenti le novità di tre giovani della compagnia. Quella di Rosemary Helliwell dimostra un certo mestiere almeno, ma anche se è lodevole incoraggiare i giovani nei loro sforzi creativi, sarebbe stato preferibile lasciare a casa i tentativi di William Forsythe e Patrice Montagnon. A parte John Cran ko, il più grande coreografo rappresentato è stato Kenneth MacMillan, il quale ha creato proprio in memoria dell’ami co Cranko il Requiem (1976) che ha avuto un caloroso successo ovunque. Devo ammettere che per il fatto di aver lavorato a lungo nel campo della musica francese, mi trovavo assai prevenuta contro questa appropriazione della partitura di Fauré, ma i timori si sono rivelati senza fondamento, perché il balletto è dato in un’atmosfera quasi sacramentale ed è uno dei più commoventi balletti di MacMillan. Di questi si era dato nel primo programma il già noto Canto della terra (Mahler), che figurerà nella « Soirée Kenneth MacMillan » all'Opéra di Parigi nel mese di no vembre. Ci sarà pure una « Soirée Jerome Robbins » in estate; se la coreografia francese non va tanto bene, almeno ogni tanto l'Opéra sa cf-i invitare. In quanto alla coreografia francese, l'Opéra riprenderà la Turangalìla di Roland Petit (Messiaen). Intanto, Petit sta preparando per il Festival di Danza questo autunno al Théàtre des Champs-Elysées la novità assoluta La Dama di Picche, per i suoi Balletti di Marsiglia, ospite d’eccezione Baryshnikov. Di John Cranko si è visto a Londra quest’estate un lavoro diverso dal solito, più vicino stilisticamente alla <■ Modern dance ». Song of My People (Canto del mio popolo) è stato creato nel 1971 proprio per il complesso israeliano Batsheva, che l'ha eseguito al Royal Festivall. Questo lavoro si basa su un ciclo di poesie ebraiche (recitate su nastro da Chana Maron), su temi del massimo impegno, i quali sembrano però aver bloccato alquanto la creatività di Cranko. La tavola verde di Kurt Jooss è sem pre di una tremenda attualità, ma il Royal Festival Hall è troppo grande per questo tipo di lavoro, che richiede un teatro normale. Valéry e Gaiina Panov sono stati ospiti abbastanza spaesati con questa compagnia, dato che non si trovano a loro agio nell'ambiente della danza moderna. Dovevano ballare anche in un gruppo eterogeneo di « stel le » nel mese di agosto, sempre al Royal Festival Hall, ma per un infortunio a Valéry hanno dovuto ritirarsi. Certo, da uno stretto punto di vista estetico questi programmi in gran parte di pezzi di bravura andavano disapprovati, ma siccome ci hanno dato l'occasione di rivedere la squisita e impareggiabile Natalia Makarova nonché il saltellante Fer nando Bujones, il formidabile Peter Martins, la versatile e irresistibile Lynn Seymour, il nobile Ivan Nagy, i virtuosi stici giapponesi Yoko Morischita e Tetsutaro Shimizu e la sempre magica Margot Fonteyn (e il bravo e simpatico Luigi Bonino, un’aggiunta dell'ultimo momento), non mi sentirei di essere troppo schizzinosa, anche se preferirei di vedere questi artisti in un diverso e più accettabile contesto. Per il pubblico londinese, •< la » danzatrice italiana si chiama Elisabetta Terabust. Prima del successo al Metropo litan di New York, sempre col Festival Ballet, la Terabust ha ballato una abbastanza vasta gamma di ruoli al Coli- seum di Londra. Con Manola Asensio, è stata splendida ne La chatte, novità di Ronald Hynd, è stata brillante ne La bella addormentata con Rudolf Nureyev, passionale nel Romeo e Giulietta, ancora con Nureyev. Nella Giselle ho visto invece con Nureyev la magnifica Èva Evdokimova — questo allestimento della Giselle fatto da Mary Skeaping rimane uno dei più bei fiori all’occhiello del Festival Ballet; il quale ha un altro asso nella manica adesso nella perso na del nuovo ospite, lo stupendo danese Peter Schaufuss. Elisabetta Terabust Chi abbia visto alle Terme di Caracalla nel mese di luglio il suo impeccabile Principe nella Bella addormentata del Teatro deil'Opéra avrà un'idea delle sue doti tecniche ed interpretative. Nel Lago dei cigni al Royal Festival Hall verso la fine di agosto, il suo principe Sigfrido è stato tra le poche consolazioni: lo sciatto allestimento di Beryl Grey provoca solo esecrazione da tutte le parti. Speriamo che si arrenda e incarichi qualcun altro ad occuparsene. Al Sadler's Wells Theatre, i complessi ospiti si susse guono senza sosta (Alwin Nikolais, Caracas, Marcel Mar- ceau, ecc.), ma alla fine di settembre tornerà il Sadlei's wells Royal Ballet con sei programmi. Per il Royal Ballet al Covent Garden, l'ultima rappre sentazione della stagione (29 luglio) è stata, purtroppo, il momento del commiato per tre artisti molto amati, in primo luogo per l’insostituibile Anthony Dowell, il quale passa aH'American Ballet Theatre per un anno in seguito al passaggio al New York City Ballet di Mikhail Baryshnikov. Anche Georgina Parkison raggiungerà la compagnia ameri cana, mentre Ann Jenner andrà più lontano ancora in Australia con l'Australian Ballet. Tutti e tre si sono'mostra- ti in grande forma la sera della partenza, Anthony Dowell elegante e sicuro nel balletto creato per lui da Hans Van Manen, Four Schumann Pieces, volutamente goffo nell'Uc cello di fuoco con Ann Jenner splendido Uccello (versione originaria di Fokine, ripresa particolarmente gradita dell’ul tima stagione); Giorgina Parkinson è stata perfetta nel ruolo della moglie bisbetica dal cappello già prepotente nel ni la stima e l’affetto sentiti per la fondatrice del Royal Ballet. Lesley Collier è stata anche la protagonista il 28 luglio dell'Anastasia di MacMillan. Ho ammirato molto la drammaticità della sua interpretazione, ma meno il ballet to: l'ultimo atto, fatto in precedenza in Germania, rimane di gran lunga quello migliore, e credo che il coreografo farebbe bene a gettar via gli altri, che non sono senza interesse ma contengono troppo riempitivo. Uno degli spettacoli più attesi dell'anno è quello dato al Covent Garden dalla scuola del Royal Ballet; così si antici pano le nuove leve. Il livello è sempre alto, ma quest'anno è stato eccezionale, in un programma molto impegnativo: dopo le accattivanti danze scozzesi e inglesi di prammati ca, Les Sylphides (balletto tanto elusivo), Diversions (bal letto astratto di MacMillan/Bliss) e Birthday Offering (Ashton-Glazunov, balletto creato nel 1956 per le sette prime ballerine di allora - Fonteyn, Grey, Elvin, Nerina, Jackson, Beriosova, Fifield - e i loro cavalieri). Tutti sanno com’è pignolo Ashton nella distribuzione dei ruoli (sempre fatti su misura), dunque il mero fatto che egli abbia con sentito agli studenti di dare questo capolavoro, venendo anch’egli in palcoscenico per ringraziare il pubblico, di mostra la fiducia che sentiva nelle capacità di questi giovani, che ballano tutti con un professionismo strabilian te. Alla Royal Academy of Dancing, la >■ materia prima » che partecipa allo spettacolo che segna la fine dell'annuale International Summer School è per forza meno scelta di quella della Royal Ballet School e bisogna accontentarsi di una sala della RAD, del pianoforte per le danze nazionali (per lo più dell'Europa orientale), di un nastro per i terzo atto del Lago dei cigni, di costumi qualsiasi. Ciò che non è minore, invece, è l'impegno, quello dei professori a partire dal direttore John Field e la moglie Anne Heaton, e quello degli allievi, di molte nazioni. Quest'anno la borsa di studio in nome di Louise Browne, direttrice del corso, è stata assegnata alla quindicenne fiorentina Simona Mangani, la quale potrà così tornare a Londra l’estate prossima e godersi di nuovo quell’ambiente insieme simpatico e labo rioso. Spero che sentiremo ancora il suo nome: mi sembra già molto promettente. Irene Freda Pitt Peter Schaufuss in « Giselle » (foto A. Crickmay) meravigliosamente lunatico balletto di Jerome Robbins The Concert. Accanto a lei Michael Coleman, sempre bravo nei ruoli comici, è stato impagabile nel ruolo deH’immaginario uxoricida: che risata al suo ispirato gesto di dare un colpetto al coltello appena messo di traverso in bocca, per dare l'impressione di battere via la cenere dell'inesistente sigaro! — e Merle Park, deliziosa, ha fatto un inatteso debutto nel ruolo della ragazza più folle fra quel pubblico tutto un po'... estroso al recital di pezzi di Chopin. Magi strale anche il pianista di Anthony Twiner. Una settimana prima c'è stata una serata un po’ speciale, destinata in primo luogo ai telespettatori statunitensi (i quali l'hanno vista in diretta, mentre è stato registrata dalla BBC). L’accento è stato messo sulla varietà e sul divertimento: le briose Elite Syncopations di MacMillan (Scott Joplin) da una parte, dall'altra, brani di Ashton e MacMillan più un paio di pas de deux classici, il tutto eseguito con l’abituale raffinatezza. Un'altra serata « speciale » è stata quella del 25 luglio, dedicata a Dame Ninette de Valois in occasione del suo ottantesimo compleanno. Poiché essa era in gran parte responsabile del più recente allestimento de La Bella addormentata (1977), si è scelta per questo doveroso o- maggio una replica del balletto che più di ogni altro è l'emblema del Royal Ballet, che l’ha rappresentato più di 500 volte dal 1946. È stato veramente un gran piacere rivedere questo auto revole allestimento dopo le varie approssimazioni viste altro ve. L’intera compagnia (in testa Lesley Collier e Anthony Dowell) ha testimoniato con la qualità delle loro prestazio Il 30° p r e m io Ita lia p e r la T V a M ila n o A n c o r a s o r p r e s e d a l c i l i n d r o d i E d u a r d o Si è conclusa a Milano, in un clima piuttosto distratto, la trentesima edizione del Premio Italia, la rassegna inter nazionale dei programmi radiotelevisivi. Quest’anno erano presenti 51 organismi in rappresen tanza di 34 nazioni. Vi ha partecipato, per la prima volta, anche la Cina popolare. L’Italia ha avuto i suoi punti di forza nel lavoro televisivo prodotto per la rete due: Cir cuito chiuso con la regia di Giuliano Montaldo e nel documentario radiofonico presentato da radio due: Eclissi di un giornalista di Rino leardi. Inoltre, in occasione del trentennale, si è svolta al Piccolo teatro una retrospettiva di vecchi programmi tra i più significativi ed una mostra fotografica realizzata da Piero Berengo Gardin e Virgilio Tosi dal titolo: L’Italia nel cassetto, il cui interesse è consistito soprattutto nella straordinaria efficacia delle immagini ricche di presenze, di evocazioni storiche, di epifanie rivelatrici (abbiamo visto persino una fotografia del 1860, scattata da un anonimo francese, riproducente l’assedio di Palermo da parte di Garibaldi e la fuga dei borboni dietro le barricate innalza te nella città). Un’altra mostra molto interessante è stata organizzata dall’Ente del Turismo di Lecce. Aveva come argomento il barocco nelle chiese e nei palazzi della città. L’iniziativa è nata dal fatto che la cittadina pugliese ospiterà l’anno prossimo la trentunesima edizione della rassegna radiotele visiva. Uno dei richiami più stimolanti del Premio Italia è rappresentato dal convegno annuale di studi che si occupa, in modo particolare, dei problemi che riguardano lo speci fico televisivo nella sua caratterizzazione di « medium ». L’idea di aprire un dibattito su questo tema così attuale e discusso può assumere, senz’altro, una connotazione di utilità e confronto oltre che di discussione dialettica. Ma, in questa occasione, abbiamo avuto l’impressione che il convegno, dedicato alle arti visive e al ruolo della televi sione, non sia riuscito a creare un vero dibattito costrutti vo. Al di fuori delle relazioni introduttive, alcuni interven ti ci sono sembrati dispersivi ed incompleti. Certamente si trattava di un argomento nuovo o perlomeno non ancora molto praticato: da qui, quel senso di insoddisfazione riportato alla fine da alcuni osservatori. Il dibattito era stato aperto da Douglas Davis che ha ;ottolineato come il mezzo televisivo debba godere di piena libertà affermando la sua autonomia da altre forme espressive come il cinema e produrre immagini particolari soprattutto attraverso la tecnica e il videotape. Non è vero — sempre secondo Davis — che il « mezzo è il messag gio » (e qui la polemica con Mcluhan è diretta): « È lo spettatore a fornire il messaggio. Durante una campagna elettorale televisiva, quando lo spettatore vede il suo can didato preferito, l’immagine televisiva è buona. Quando vede invece quello che non è di suo gradimento, lo spet tatore riceve una cattiva immagine ». Dobbiamo dire, tuttavia, che l’affermazione di Mcluhan era stata già confutata a suo tempo. Jean Cazeneuve lo scriveva a chiare lettere circa otto anni fa: « per agire sull’opinione pubblica è più facile creare atteggiamenti nuovi che non cozzare frontalmente contro le convinzioni pretendendo di sostituire ad essi delle prese di posizione diametralmente opposte ». In realtà la relazione di Davis ha ripetuto un concetto che già era stato espresso, discusso e analizzato. Tuttavia le sue osservazioni hanno rappresentato lo stesso un notevole contributo. Gillo Dorfles si è soffermato, invece sull’importanza di una specifica classificazione dei « generi televisivi » neces saria per distinguere la peculiarità del mezzo da altre caratterizzazioni (ad esempio quelle filmiche). Secondò Dorfles soltanto il videotape permette una contemporaneità di azione, di ripresa e di fruizione. Ciò significa che possono essere effettuate realizzazioni tipiche ed originali del mezzo televisivo ad esempio nella scansio ne del Tempo: « Nel caso della TV — specifica Dorfles — il fenomeno temporale subisce un’ulteriore modificazione. Quando la Tv trasmette interi, film o brani di film, ovvia mente si identifica con un « cinema a scartamento ridot to » e come tale va intesa, ma quando agisce secondo le peculiari modalità del medium, si vale di una temporalità molto diversa: quella cioè della presa diretta, dell’identità temporale tra azione e trasmissione ». E veniamo adesso ad alcuni dei programmi visionati nel corso della manifestazione. C’era molto interesse per II cilindro di Eduardo De Filippo, presentato dalla rete uno fuori concorso nella « 11 cilindro » di Eduardo De Filippo. Nella foto: Eduardo, Pupella Maggio, Monica Vitti, Luca De Filippo e, in basso, Ferruccio De Ceresa serata inaugurale al Piccolo teatro. La pièce di Eduardo non è una novità assoluta. Scritta nel 1965 e rappresentata al Quirino l’anno successivo, non ebbe accoglienze clamo rose. In realtà, pur ritrovando alcune delle caratteristiche di fondo della « intenzionalità » narrativa del drammatur go, Il cilindro si presenta come un’opera minore dove il ritmo recitativo si confonde spesso in tonalità farsesche troppo accentuate. La trama è semplice: Agostino Musca- riello (Eduardo) e la sua non più giovane compagna Betti na (Pupella Maggio), hanno subaffittato un sottoscala del loro misero alloggio ad una coppia di sposi: Rodolfo (Luca De Filippo) cameriere disoccupato e Rita, (Monica Vitti), giovane e bella. Il padrone di casa che da mesi non riceve l’affitto, ha dato l’ultimatum: o pagare o sloggiare. I quattro hanno perciò urgente bisogno di racimolare una discreta somma. Viene ideato un truccò. La giovane Rita dovrà adescare coloro che passano davanti alla sua finestra ed offrirsi loro. Dopo averli fatti entrare in casa, invece di dar seguito alla sua « proposta », Rita inizia un piagnisteo abilissimo condito di macchiettistica disperazione: racconta di essere diventata vedova da pochi giorni e di non sapere come tirare avanti. Naturalmente il marito è vivo e si finge morto in modo molto credibile nello stesso letto dove i «clienti» di Rita dovrebbero infilarsi. Il trucco funziona e tutti, di volta in volta, resisi conto della macabra situazione in cui si sono cacciati, scappano scon certati. Ma un giorno un distinto signore, Attilio, anziano e vedovo, scopre l’inganno; finge di non essere imbarazzato dalla presenza del cadavere, pretendendo di ottenere ciò che ha anticipatamente pagato. Ne nascono divertenti si tuazioni che rivelano, fino alla trovata finale, (l’anziano signore crederà di aver fatto l’amore con Rita mentre, al contrario, si è addormentato) l’inconfondibile vena creatri ce di Eduardo, ritmata, sorniona, pacatamente ammonitri ce. Infatti il cilindro, questo cappello cosi particolare, può essere, come lo stesso autore dice: « l’emblema di una società che non cambia ». E cosi Agostino nella sua prati cità, dove l’espediente geniale, improvvisato, a volte postic cio, è all’ordine del giorno, rivela, attraverso la sua indole in bilico tra ingenuità inconsapevole ed arguzia penetrante, una mentalità molto conservatrice. La sua visione del mondo, diventa in fondo, ristretta ed agnostica. La sua intelligenza non ha coloriture ideologiche. Agostino non si preoccupa certo di cambiare la società. Al contrario, la accetta e ricorre al sotterfugio istrionico per esorcizzarla e tirare avanti. Gli attori sono stati tutti molto bravi. In modo parti colare Luca De Filippo, soprattutto nei momenti di mag giore tensione drammatica e Monica Vitti, un personaggio dai toni di genuina popolarità romanesca calato in un contesto tutto napoletano. Un lavoro piuttosto particolare è stato il giallo televisi vo (rete due) Circuito chiuso di Giuliano Montaldo. Al di là della trama scorrevole fino alla conclusione, il film ci è sembrato legato a precedenti cliché contenutistici malgrado il finale assolutamente imprevedibile. in tutta la sua drammaticità quando Julie conosce Jean, valletto del conte. Questi sogna di migliorarsi innalzandosi al di sopra di tutto quanto desidera: ed è per questo che la seduce. A poco a poco Giulia cede ma poi, vedendosi disonorata, decide di suicidarsi. Il lavoro risulta piuttosto lento anche se il regista ha cercato di dinamizzare il più possibile le immagini senza lasciarsi trascinare dalla lentez za e fissità di alcune parti del melodramma. Non ci restano altre notazioni da fare. Il Premio Italia anche quest’anno non è riuscito a coinvolgere sul serio il pubblico a causa, soprattutto, di una formula ormai vec chia, senz’altro da modificare. Speriamo almeno che gli addetti ai lavori ne abbiano riportato una reale utilità. Per quel che riguarda gli osservatori, non ultimi i giornalisti, il discorso è diverso. La mancanza di sistema ticità nella presentazione dei programmi non solo rende dispersivo il lavoro, ma impedisce anche una seria compa razione tra un programma e l’altro. Una vera partecipazio ne non può non essere indotta attraverso una organizza zione più razionale ed attenta, tesa a considerare tutti coloro che, dall’esterno, desiderano rendersi conto di ciò che avviene con maggiore e più specifica consapevolezza. Marco Tesei La trentesima edizione del Premio Italia ha distribuito riconoscimenti sopratutto alla Tv inglese. Infatti, nel set tore dei drammi, Plnghilterra ha vinto con « I Parassiti », mentre in quello riservato ai documentari, ha avuto il I posto con « Pronto Soccorso ». Il premio regione Lombardia è andato a « I mesi del miracolo », presentato dalla CBS (Stati Uniti) che ha vinto anche il premio Rai nel settore drammatico con « Il me nestrello ». Per la Radio da segnalare la vittoria, nel settore dei documentari, del lavoro danese « La morte sulle monta gne », che parla dell’attuale situazione politico-sociale del Nicaragua. Segnaliamo ancora per l’Italia (fuori concorso), due lavori molto interessanti: Idillio (l’infinito di Giacomo Leopardi) per la regia di Nelo Risi presentato dal settore Ricerca e Sperimentazione Programmi e Alberto Savinio, il polipragmon per la regia di Anna Zanoli presentato dalla rete due. Il primo è un telefilm girato interamente dal vero nel palazzo dei conti Leopardi a Recanati e racconta, secondo una tecnica narrativa acuta ed incisiva, una gior nata del poeta. L’angoscia esistenziale di Leopardi è sotto- lineata da un’inquadratura sempre tesa, introspettiva, ana litica. Le sue azioni sono viste così attraverso la lente deformante di un obiettivo rivolto più verso l’interno, nello scandaglio minuzioso di stati d’animo e di intermit tenze psichiche, che verso atti esteriori ed evidenti. Il secondo è una biografia di Alberto Savinio realizzata in modo non tradizionale con una precisa simbologia che evoca immagini, eventi, momenti significanti della vita dell’artista. Le musiche a commento del documentario sono di Debussy, Strawinskj, Bartok, Shumann e di Savinio stesso dagli « chants de la mi-mort » e da la « vita del l’uomo ». Tra i lavori stranieri meritano un cenno tre opere: una presentata nella sezione drammatica e due in quella musi cale. Il primo è un dramma tedesco della Germania est dal titolo: Morte e resurrezione di Wilhelm Hausmman, tratto da un « recit » di Brecht. La storia si svolge alla fine della prima guerra mondia le. Wilhelm marito e padre di due figli ha la fortuna di ottenere un posto di guardiano notturno in una fabbrica. Ma Wilhelm muore prima ancora di iniziare a svolgere le sue mansioni. Per salvarsi la vita insieme ai figli, la moglie lo sostituisce assumendone l’identità. Un’altra donna rive ste il ruolo della moglie. La famiglia vive così in relativa sicurezza per diversi anni, finché un incidente in fabbrica pone fine alla messa in scena e il caso abnorme viene alla luce. L’atmosfera del dramma vive di toni cupi e realistici ma funziona a corrente alternata. Spesso, dietro un’appa rente riflessività dialogica, si nasconde una lentezza esaspe rante nell’azione e nella progressione narrativa. Ciò non toglie che le sequenze, grazie ad una fotografia molto efficace e professionale, abbiano suscitato un’attrazione no tevole. La Germania in crisi appare visualizzata all’interno di una successione per immagini che rivelano di per sé, nella loro caratterizzazione formale, lo svolgersi drammati co e irreparabile della vicenda. Nella sezione musicale ricordiamo Egmont della Ger mania Occidentale, un programma che ha cercato di rap presentare la pièce di Goethe su musica di Beethoven in modo da rendere quest’ultima il più esplicitamente possibi le sul piano emozionale. L’operazione è consistita nel ridurre il testo all’essen zialità e farne un supporto per la musica. Ne nasce davve ro un incontro perfetto tra musica e poesia, la cui funzione accresce ancora di più gli spunti « ascensionali » e dram matici del testo. L’altro lavoro si intitola: Mademoiselle Julie, presenta to dalla Danimarca e tratto dall’omonima pièce di Strin dberg. La signorina Julie è figlia di un abulico conte svedese e di una donna dal carattere molto forte che odia gli uomini. È stata perciò educata a credere nella superiorità delle donne. Il conflitto tra gli insegnamenti materni e il desiderio di avere un rapporto sereno con l’altro sesso, è alla base della sua progressiva nevrotizzazione. La tragedia esplode rf9 > vO L a d a n z a d e l f i l o s o f o In un paese come l ’Italia (ma la Francia, diciamo subito, non ci è seconda) dove i premi letterari po trebbero costituire una minutissima mappa dal nord al sud, il teatro è il più dimenticato. Se al primo posto si trova la narrativa che ottiene la più larga risposta pubblicitaria, la più vasta udienza del pubblico, anche la poesia e la saggistica hanno numerose e felici tappe in queiritinerario. I premi di teatro, tranne rarissime eccezioni, o non fanno presa sugli scrittori che temono questo « genere », o appaiono inutili o astratti, se il testo premiato non gode poi della verifica del palco- scenico, come è giusto che sia. E ciò comporta costi facilmente intuibili ma non altrettanto facilmente af frontabili. Ecco perché spesso i testi premiati restano nei cassetti, arricchiscono soltanto le bibliografie degli autori. È quindi sempre una operazione utile e coraggiosa quella di promuovere un premio teatrale. Lo ha fatto cinque anni fa riattizzando. le ceneri ancora calde del Premio Pescara (che ha avuto il suo chiaro significato in una città legata sopra tutto alle rappresentazioni dannunziane) Edoardo Tiboni, un intellettuale abruz zese dai molti interessi e dalle capacità organizzative tipicamente pescaresi. E lo ha fatto riproponendo il nome di uno scrittore che ci è stato particolarmente caro, di Ennio Flaiano, che era nato anche lui a Pescara, come D’Annunzio, anche se forse erano in pochi a ricordarlo. E nel nome di Flaiano, il premio non poteva che portare alla ribalta i « generi » nei quali egli si espresse, e cioè, tralasciando la troppo inflazionata narrativa, il teatro, la sceneggiatura cine matografica e persino, con coraggiosa indicazione, l’el zeviro. Certo in nome di Flaiano, la sua personalità che ora giudichiamo con maggiore compiutezza critica, do mina questa manifestazione. E lo fa in primo luogo riproponendo il dilemma che divise, nella considerazio ne, i suoi estimatori: letterato o uomo di cinema? Perché da quando la letteratura lo aveva riportato nei suoi ranghi a pieno servizio (occorreva l’intelligente iniziativa della Rizzoli che ne ripubblica l’intera opera per valutare il peso dello scrittore), quasi a stabilirne maggiormente il diritto di appartenenza, si è comincia to a dire e a scrivere, che Flaiano fosse « sprecato per il cinema ». Questa frase fra virgolette, con un punto interrogativo finale, è il titolo di uno dei pezzi di un numero monografico di « Oggi e domani », (una bella rivista mensile diretta da Edoardo Tiboni) dedicata allo scrittore pescarese. E Tullio Pinelli risponde. « Che lui fosse sprecato per il cinema non credo. Ha sempre cercato, e credo riuscendoci bene, a salvare, a preservare la sua qualità di autore autonomo... Non credo che il cinema l’abbia plagiato, assolutamente no! ». Il cinema che cos’è?... Sarebbe riduttivo se questo talento fosse stato incanalato, controllato in partenza e avesse dato -al cinema come lo scarto... ». Ma Luigi Zampa: « Lui era un grande scrittore. Se fosse nato ricco, probabilmente si sarebbe occupato meno di sceneggiature di cinema di quanto non abbia fatto. I suoi libri sono lì e si possono giudicare... mentre è più difficile dire quanta parte di Flaiano c’è in certi films... ». E Federico Fellini « Ma perché? Ma sentiamo cosa dice Flaiano stesso: « Per me il cinema è come l’America del Settecento che ha detto all’Europa mandami pure tutti i tuoi rifiuti, le tue sgualdrine, i tuoi ladri e i tuoi avventu rieri, i tuoi disgraziati e perseguitati: mandameli tutti e li farò diventare cittadini americani. Così il cinema ha detto alle altre arti: datemi tutto quello che voi rifiutate e ne farò qualcosa d’altro; ed ecco che allora subito la letteratura, la pittura, la musica, si sono affrettate a dare al cinema tutto quello di cui volevano disfarsi. Ma oggi la pittura è diventata astrazione, la musica non ne parliamo, la letteratura si è allontanata sceneggiatore gran parte del significato, diciamo pure del « messaggio » di un film, riconoscendosi coautore se non, in qualche caso, anche più. E certamente si deve riconoscere, ora che ci si avvia a collocare, a sistemare criticamente, quel momento essenziale del l’espressione in tutti i suoi linguaggi (dalla pittura, al teatro, dalla narrativa alla poesia e al cinema) che fu il neorealismo, che l ’opera degli sceneggiatori, la loro creatività, ha avuto un trascinante significato. E infine il premio (anche questo una novità, un premio non ripetitivo) per un elzeviro. Lo ha vinto Guido Ceronetti, particolarmente versato (come lo fu Flaiano) in questo genere giornalistico-letterario che ha suscitato, prò e contro, fiumi d’inchiostro. Divaga zione, commento, moralità, quasi-racconto, l’elzeviro è uno dei capisaldi della terza pagina come fu creata, cioè come momento di riflessione, di quiete, fra le troppe pagine del giornale che esprimono il nostro affannato modo di vivere. E Ceronetti ha detto di credere che, se pure inconsapevolmente, anche l’uomo della strada, abbia bisogno della catarsi della terza pagina dopo l’impatto ormai così tragico o almeno drammatico con le notizie della prima. Né può tacersi, in questa veloce nota su questo premio, la rassegna di alcuni films che portavano la firma di Flaiano. Abbiamo rivisto i « Vitelloni » (così vivo e fresco ancora) e, tra gli altri, quel lungometrag gio « Oceano Canada » che Flaiano realizzò poco prima di morire con il giovane regista Andrea Andermann, at tratto da quel vasto continente e da quella vasta soli tudine. Un omaggio a lui, certo (a lui che in quell’ul timo lavoro appariva come speacher, con le mani in tasca, con l’atteggiamento bonario e ironico di sempre), ma direi anche al pubblico, a quel pubblico che per molte sere ha gremito una vasta sala all’aperto a Pesca ra; che risponderà all’invito della Compagnia dell’A quila per lo spettacolo di Fortunato Pasqualino, a quel pubblico senza il quale il teatro non vive, che è forse il teatro stesso. Luciano Luisi dall’uomo soffocata dalla sociologia, dalle ideologie e da un linguaggio tetro e sibillino. E il cinema invece, con quelli che erano gli avanzi di un’epoca gloriosa, ha creato qualcosa di vivo e di stimolante ». È un pensie ro che dice come nonostante certe dichiarazioni ambi gue, tra io scontento e il rimpianto del tempo perduto a servirla, Flaiano abbia sentito il fascino della nuova arte, anche se la sua natura ha sempre continuato ad essere quella del letterato. Forse letterato è rimasto, nel senso limitativo del termine, lui che pure era così felicemente uomo di spettacolo, come autore di teatro, tanto che i suoi testi, una volta usciti dalla pagine e diventati voce e scena, non hanno avuto successo. E dunque giustamente Ti- boni, promuovendo questo premio di teatro a lui dedi cato, ha voluto che il testo premiato trovasse subito il suo pubblico, i suoi attori, che saranno quelli della compagnia del teatro stabile dell’Aquila guidata dal regista Antonio Calenda che faceva parte della giuria con Carlo Bo, Giorgio Albertazzi, Nicola Ciarletta, Leone Piccioni, Giorgio Prosperi, Giuseppe Rosato, Mario Sansone, e il Tiboni stesso. In questa sua quinta edizione la giuria ha assegnato il milione in palio a Fortunato Pasqualino per « La danza del filosofo » che, come voleva la precisa indica zione del bando, deve essere definito un testo comico. E questo può certo stupire se si considera che il tema del lavoro è tratto dal processo e morte di Socrate, al quale il Pasqualino si è liberamente richiamato, come ha già fatto altre volte nella sua produzione teatrale. E ci riferiamo in particolare a quell’« Eloisa e Abelar do » con cui vinse (è una città che gli porta fortuna, evidentemente) un precedente premio Pescara. Qui il Pasqualino esercita nella maniera più sottile e intelligente quelle sue capacità di ironia e di distacco, che sono proprie non solo della sua cultura e prepara zione filosofica ma anche della sua sicilianità: e l’ironia e il distacco di Socrate di fronte all’evento estremo sono i dati salienti del lavoro, così coincidenti con il suo più congeniale modo espressivo. Ma il premio non si conclude, come dicevamo, con questa sia pur alta indicazione (l’abile dosaggio, nella giuria, di letterati e uomini di spettacolo è garanzia di attenzione ai valori linguistici e a quelli più propria mente teatrali) ma troverà la sua giusta conclusione, il suo coronamento, proprio nello spettacolo aquilano, in quel rapporto con il pubblico senza il quale un testo teatrale non vive. Dicevamo prima (ed è la novità più singolare) di un premio per la sceneggiatura cinematografica, quasi a voler ricordare come prima del regista, vi sia un altro autore al quale troppo spesso si presta poca attenzio ne. Così appare significativo il premio dato, fra gli stranieri, a Jean Claude Carrière, la cui fantasia surrea listica, la grande capacità d’invenzione, è stata sempre la strada, il supporto costante, dell’opera di Luis Bu- nuel. E non poteva essere più felice, fra gli italiani, la scelta di Sergio Amidei, che è stato uno dei padri di quel cinema neorealista che ha stupito e commosso il mondo. Amidei, con foga polemica, ha rivendicato allo Qui Londra u t JS ,■ candidato al Tony ». Successivamente un gruppo di 428 personalità del tea tro votano tra i candidati scelti dalle commissioni e si arriva così alla serata conclusiva con i premi che, ripe tiamo, anche se le scelte sono sempre discutibili, sono un'iniezione di ossigeno per il teatro. Anche se i « Tony » si riferiscono soltanto al teatro di Broadway, che è una fetta del teatro di New York, costi tuiscono pur sempre il miglior termometro per misurare la salute del teatro americano. Tra i musical, i candidati, distribuiti nelle varie cate gorie, erano nove, e non c'è dubbio che, tutti insieme, rappresentano il meglio che si è visto quest'anno. Esami niamoli uno per uno. « Qn thè Twientieth Century » « Sul Ventesimo Secolo », che è il nome di un treno famoso che una volta univa New York e Chicago, candi dato in 9 categorie, alla fine ha ricevuto 5 premi (miglio re attore e migliore attore non protagonista, miglior li bretto, migliore musica, migliore scenografia). È la storia di un impresario teatrale, fallito e in fuga sul treno, che incontra un'attrice famosa che molti anni prima lui aveva scoperto e lanciato, e che adesso riesce a convincere a tornare con lui e a fare una commedia tratta dal vangelo, nella parte di Maria Maddalena. È un musical di tipo classico, grandioso, colorato, di vertentissimo, pieno di vita e di ritmo. Se è vero, come molti sostengono, che nel musical, ancor più che nel teatro parlato, è importante l'affiatamento fra le varie parti che contribuiscono al risultato finale, non c’è dubbio che tale affiatamento qui c'è in pieno. È come se gli autori del testo, il compositore, lo scenografo, il coreografo e il re gista si fossero fusi nella stessa persona, e avessero poi trasmesso la loro « fusione » agli attori, tanto è integrato il risultato d’insieme. Il testo è di Betty Comden e Adolph Green, autori fa mosi di cinema e teatro (basti citare, nel cinema, « Can tando sotto la pioggia »), che hanno tratto lo spunto dalla commedia con lo stesso titolo di Ben Hecht e Charles Mac Arthur (che a loro volta l’avevano derivata da una com media precedente di Bruce Millholland). Hanno rielaborato la storia in modo da dare più spazio alla vicenda d’amore e più risalto al personaggio dell'attrice famosa, che è così passata da figura di secondo piano, sottomessa al grande impresario, a vera » antagonista » dell'impresario, forte e furba quanto lui. Il risultato è un testo con un brio, so prattutto nel secondo atto, straordinario, con personaggi simpaticissimi, che offrono grandi possibilità e buoni atto ri. E infatti John Collum (premiato come migliore attore in un musical), aiutato anche dalle sue qualità di cantante, ci dà un’interpretazione dell’impresario riuscita fino in fon do. E così pure Kelvin Kline (premiato come attore non protagonista) nella parte del bel giovanotto che si accom pagna all’attrice famosa per cercare di sfruttarne la fama e la ricchezza. la musica è composta da Cy Collman, noto per altri musicals (in questo momento a Broadway c’è un altro spettacolo suo, « 1 love my wife », che ha molto successo), per colonne musicali di film e di programmi televisivi. È una musica molto vicina alla musica lirica, è « quasi-ope- ra », ed è stata una trovata che il compositore ha avuto insieme agli autori, per dare allo spettacolo un tono di irriverente divertimento, per gonfiare l'importanza dei per sonaggi come se ironicamente si volesse avvicinarli, attra verso la musica, alia grandiosità e drammaticità dei per sonaggi delle opere. La scenografia di Robin Wagner (per presentarlo ba sterà ricordare che sue erano le scene di successi clamo rosi come « Chorus Line », « Jesus Christ Superstar », « Hair ») merita veramente un discorso a parte, se si con sidera che gli autori stessi hanno confessato di aver scrit to il teatro domandandosi spesso fra di loro chi mai sareb be poi stato in grado di realizzare le scene di quanto loro andavano immaginando. E Wagner non solo c è riuscito, ma ha fatto un vero capolavoro, tanto che molti critici hanno riconosciuto che le scene sono « un personaggio in più » in questo musical. Perché non è solo la linea degli interni del treno, che pure è azzeccata e ricorda immediatamente quegli « anni trenta » in cui si cercava il lusso in tutti i dettagli, non sono solo i colori che pure sono splendidi (tutto viola grigio e argento); quello che impressiona è come Wagner sia riu scito a trasferire in teatro tecniche cinematografiche. Così che, come avviene nel cinema, i personaggi, quando esco no dalia scena principale, non scompaiono ma passano in altre scene successive; il treno sembra viaggiare davvero e, con il movimento di una sola parete scorrevole, il pubblico passa di colpo dall'Interno del treno all esterno, esattamente come in un film, dove è normale che, se la scena si svolge dentro a un treno, ogni tanto si veda il treno in campo lungo che corre per la campagna. Nel secondo atto soprattutto ci sono invenzioni divertentissi me: come quella in cui, improvvisamente, la scena diventa buia e due trenini attraversano la notte con tutte le loro luci accese (ogni sera il pubblico va in delirio per questa scena: ricordi dell'infanzia?); o quella in cui uno dei personaggi, che sta cercando di nascondersi (è una vec chietta fanatica a cui l’impresario sta cercando di carpire un finanziamento per la sua commedia) appare prima in punta alla locomotiva che viaggia verso il pubblico e su bito dopo appena in coda all’ultimo vagone che si allontana. « On thè twentieth century » è in cartellone dal 19 feb braio, ed ha riscosso un grande successo di pubblico e di critica. Clive Barnes, del New York Post, ha detto: « Un musical perfetto! Un grande cast, una splendida musica. Questo è uno show meraviglioso dal principio alla fine » E Richard Eder del New York Times: « Un raro matrimonio tra elegante umorismo e comicità scatenata. Gli autori e il regista e tutta la compagnia hanno riportato la commedia vera nella commedia musicale ». « Ain’t misbehavin » 'Frase idiomatica e titolo di una canzone che si può tradurre « Non mi sto comportando male », in cartellone dal 9 maggio, era candidato in cinque categorie e ha avuto tre premi: migliore musical, migliore regìa e migliore at trice non protagonista. È un musical semplicissimo, un al tro esempio di quel nuovo tipo di spettacolo musicale che si va facendo strada anche a Broadway e che, come « Cho rus Line », « Runaways » e « Working » (di cui parleremo dopo) si basa non sulla ricchezza dell’impianto, ma sulla bellezza e liricità di una serie di canzoni e balletti legati da una situazione generale comune, non dall'intreccio di una vicenda. « Ain’t misbehavin » è la rievocazione della vita e dei tempi di Fats Waller, compositore, cantante e pianista ne gro tra i più grandi che il jazz abbia avuto, la cui impor tanza non venne capita mentre era in vita ma solo più tardi. L’idea di dedicare un musical alla sua musica venne a Richard Maltby jr. quando Murray Horwitz, profondo conoscitore di Waller, lo invitò ad ascoltare dei vecchi dischi. Racconta Maltby in un’intervista al New York Times: « Pensai che era la musica più spiritosa che avessi mai sentito. Non le battute del testo o cose del genere, non Fats Waller come esecutore, ma la musica stessa era così elegante, così divertente. Capii che se avessimo po tuto avere sul palcoscenico degli attori che facessero quel lo che era così spiritoso nella musica, avremmo avuto qualcosa che meritava di essere messo in scena ». Seguirono le ricerche dei testi musicali, complicate data la poca fama che aveva avuto Waller ai suoi tempi, gli arrangiamenti delle musiche, il lavoro di come costruire lo spettacolo. Alla fine Maltby, che aveva preso Horwitz come aiuto-regista, decise per la strada più semplice, e anche più difficile: la figura di Waller doveva venir fuori solo attraverso la sua musica. Nacque così uno spettacolo fatto da una serie di numeri musicali, con pochissime righe di dialogo solo dove erano strettamente necessarie per illustrare qualche particolare aspetto della personalità del protagonista. Trenta canzoni, la maggior parte composte da Waller, le altre prese dal repertorio delle sue esecuzioni, qualche balletto con semplicissima scenografia e coreogra fia. Ma il risultato è straordinario. Che si tratti di quelle poche canzoni tristi (ma sempre con una punta di ironia) che Waller aveva composto, come « Black and blue » che comincia così: « lo sono bianco dentro, ma questo non serve a niente »; o che si tratti, come quasi sempre, di canzoni divertenti e buffe, colpisce la facilità con cui, attraverso la musica, si va costruendo la figura di Fats Waller intero, in tutte le sue sfumature, e i tempi in cui viveva, con tutto il loro fascino. Il cast è eccellente: tre donne (una magrissima e due grassone) e due uomini, tutti negri. Meritatissimo è il pre mio a Neil Carter anche se non comprendiamo bene come la giuria abbia fatto a considerarla « attrice non protagoni sta » dato che, se è vero che in un cast così ridotto tutti sono protagonisti e quindi tutti sono « secondari », è anche vero che lo spettacolo gira tutto Intorno a lei. Comunque è di una bravura e soprattutto di una versatilità eccezio nali. Quando attacca a cantare « l've got a feeling l'm fal- lig >• (« Ho l'impressione che sto cadendo ») la sua voce ha la potenza di una tromba e poi una morbidezza come se alla tromba avessero messo la sordina. Quando canta « Mean to me » (« Cattivo con me ») è dolce, delicata, te nera e nello stesso tempo pungente. E la mimica di quel suo faccione rotondo è travolgente. Come meritatissimo è il premio a Maltby come regi sta, se si pensa che da una serie di canzoni è riuscito a fare un vero spettacolo, a darci la figura di un grande pro tagonista della storia del jazz e del suo ambiente. Lo spettacolo, che data la sua struttura semplicissima, aveva aperto off-Broadway, è passato trionfalmente a Broadway il 9 maggio, e da allora è stato un successo con tinuo. « Fantastico », elettrizzante », « perfetto » sono i termini che hanno usato per definirlo critici teatrali solita mente severi. « The act » >■ L’atto », che racconta delle difficoltà nella carriera di un’attrice, era stato indicato per 6 « Tonys », e ha vinto, con Liza M¡nelIi, nella categoria ■■ miglior attrice protago nista in un musical ». Premio meritato forse più dal nome e dalla simpatia in generale della Minelli che non dalla sua bravura specifica in « The Act », ma non c’è dubbio che se questo spettacolo modesto, con una regia svogliata di Martin Scorzese, ha retto con successo per tanto tempo (è in cartellone dal 29 ottobre 1977), lo si deve soltanto a lei, perché tutto il resto vale veramente poco. « Dancin » Ballando », candidato in sette categorie, ha vinto due premi: per la migliore coreografia e per le migliori luci. La coreografia, come la regia e l'ideazione, è di Bob Fosse, che è forse il regista-coreografo più noto di Broad way. Ma in ■■ Dancin » c’è qualcosa che non va. Non c’è dubbio che la coreografia è splendida, ma... non ce nien- t'altro. Forse Bob Fosse dopo aver « servito » i libretti dei musicals più famosi con le sue invenzioni coreografiche e le sue visioni di regista, adesso ha deciso di portare la coreografia al livello di protagonista unico. Il che però si gnifica che stiamo cambiando genere, stiamo passando dal musical al balletto, solo che « Dancin » non è né l’uno né l'altro. Forse un giorno Bob Fosse sarà l’applaudito coreo grafo di una sua compagnia di ballo, ma, per adesso, il suo modo di fare regia e coreografia ha ancora bisogno di una storia. Che può essere stupida o labile fin che si vuole, ma è un filo conduttore che da unità e significato a quelle meravigliose coreografie a cui Fosse ci ha abituati. Il « niente » di « Dancin » sorprende e lascia senza spiega zioni. I ballerini-cantanti sono bravi, e la scelta delle mu siche (da Bach al pop) è geniale, ma pochi numeri reggo no da soli. Gli altri, visti di per sé, e non come perso naggi di una storia, valgono poco. « Runaway» di cui abbiamo parlato diffusamente nel fascicolo 6/7, era stato nominato in cinque categorie, quattro delle qua li per Elizabeth Swados (regia di un musical — candida tura rarissima per una donna —, musica, libretto, coreo grafia), ma non ha vinto nessun premio. E anche se noi riteniamo che la Swados sia una grandissima artista, dob biamo anche dire che i ■< Tonys » premiano il teatro « di Broadway », che ha certe caratteristiche ed esigenze ben precise. « Runaways », e la sua autrice, sono più adatti all'off-Broadway, tanto che effettivamente lo spettacolo, che nel teatro-cabaret di Joseph Papp off-Broadway ci era « Dancin » di Bob Fosse il regista-coreografo più noto di Broadway (foto Martha Swope) apparso perfetto, rivisto nel teatrone di Broadway è meno brillante, e anche il pubblico non è più così fitto come al l’inizio, quando lo spettacolo era approdato a Broadway sul l'onda del continuo tutto esaurito dell 'off. « Timbuktu’ » Candidato in quattro categorie, non ha vinto niente, e giustamente. Ma se ci fosse stato il premio per « maggio re sfarzo del cattivo gusto », non avrebbe potuto certo mancarlo, perché è uno spettacolo che sembra quasi la caricatura dei classici musicals di Broadway, tanto è ovvio e pacchiano lo sforzo di piacere al grosso pubblico, dalia ricchezza delle scene e dei costumi, alla facilità della mu sica, alla bellezza delle interpreti femminili. È il rifacimento del famoso <■ Kismet », che tre dei quattro autori originali hanno creduto di rammodernare, ag giungendogli qualche canzone, sempre su temi tratti da Alexandr Borodin, e trasferendo l’azione dall’oriente al Mali. La storia è la stessa (una fiaba su un imperatore inna morato, una bella ragazza figlia di un poetastro, e un capo della polizia che tenta di approfittare della situazione), nuove sono solo le coreografie e i costumi. Ma proprio non ne valeva la pena, soprattutto se si pensa a quanto dev’essere costata la produzione e a quanto deve costare quotidianamente (il cast è composto di 54 attori...). Ma ogni tanto a Broadway queste cose capitano. Si mettono insieme produttori esperti (in questo caso c'è perfino dentro il Kennedy Center di Washington, che di solito produce o coproduce solo spettacoli di alto livello qualitativo), musicisti famosi, autori e registi affermati, un cast ottimo, e... nessuno si accorge che stanno facen do tutto sbagliato e preparandosi al classico fiasco. Ri chard Eder del New York Times così conclude la sua re censione (del tutto negativa): « È uno show che manca di brillantezza, e senza brillantezza Kismet-Timbuktu’ ha ben poco da offrire ». Si salva solo Eartha Kitt, nella parte della moglie del l'imperatore, che, nonostante il passare degli anni (erava- mo bambini quando arrivò in Italia il suo primo long play- ing, e che effetto faceva quella sua voce così sensuale!] continua ad essere una cantante meravigliosa e una pre senza scenica attraente ed autorevole. « Working » « Al lavoro », nominato in sei categorie e non premia to in nessuna, è un musical tratto dal libro, con lo stesso titolo, che Sturds Turkel ha scritto chiedendo a una serie di lavoratori americani che cosa pensano del proprio la voro. Il libro, best seller per molto tempo, era di un'imme diatezza e di una verità terribili, ma la sua forza stava pro prio nel linguaggio della gente, che Turkel riportava pari pari: le frustrazioni, le illusioni e le delusioni venivano fuori senza filtri o rimaneggiamenti. Portate sulla scena, e messe in poesia e musica, le interviste hanno perso, nella maggioranza, la loro autenticità, e ne è venuta fuori una serie di stereotipi poco credibili. Il cast è ottimo, e dove gli autori sono riusciti a salvare la verità dei personaggi (come il controllore del gas o il pompiere) lo spettacolo raggiunge momenti di grande intensità e commozione; ma in generale è evidente lo scadimento da quel linguaggio « registrato dal vivo » di Turkel alla banalità dei testi delle canzoni. Peccato, l’idea era ottima, forse con maggior sen sibilità poetica si poteva farne un buon musical del tipo di « Runaways », senza pretese di spettacolarità, ma di al to contenuto lirico e portatore di un messaggio. « A history of thè american film » « Una storia del cinema americano », candidato nella categoria <■ libretto di un musical », e non premiato, era un tentativo di portare sulla scena, attraverso una serie di numeri musicali, proiezioni e invenzioni varie, i momen ti più importanti del cinema americano. Anche in questo Liza Minelli « Tony » per la « migliore attrice protagonista in un musical » (foto Martha Swope) caso, l'idea era buona, ma la realizzazione, obiettivamente molto difficile se non impossibile, non è stata delle più riuscite, e lo spettacolo, dopo qualche mese di modesto successo, ha chiuso. Ultimo musical con una candidatura e senza premi è stato « Beatlemania », rifacimento dei temi e della musica dei Beatles, abbastanza riuscito ma a tratti anche di catti vo gusto. Al pubblico è piaciuto (meno alla critica) tanto che è in cartellone da più di un anno. Nel campo del teatro parlato, la parte del leone l’ha fatta «Da», che ha avuto quattro premi e tutti importanti: per la migliore commedia, la regia, l'attore protagonista e l’attore non protagonista. L'autore è Hugh Léonard, irlandese, molto conosciuto in Europa e specialmente in Inghilterra, dove sono state rappresentate, se non sbagliamo, una ventina di sue com medie. Qui a New York è conosciuto per « The au pair man » (« L'uomo alla pari ») rappresentata dal Lincoln Cen ter e per altre due commedie messe in scena off-Bròad- way, con successo di critica ma con scarsa risonanza dì pubblico. Anche « Da » ha cominciato off-Broadway, ma adesso è a Broadway da più di tre mesi e con uri suc cesso enorme. È la storia di un giovane, Charlie, che ritorna a Dublino per la morte del padre, ma nel fare pulizia tra le sue carte, si accorge che il fantasma del padre è ancora lì, nella stanza e soprattutto nella sua testa. Comincia così un viaggio nel passato, dove la figura del padre diventa sem pre più importante e positiva, anche nelle sue debolezze, e dove assistiamo ad altri ricordi di Charlie, la sua ra gazza, il suo superiore d'ufficio (nella cui parte Lester Rawlin è stato premiato come attore non protagonista), la madre, gli altri famigliari. È un'opera autobiografica, piena di amore, di pace, di senso della famiglia, ma anche di un acuto umorismo, e difficilissima — crediamo ■— da di rigere, dati i continui cambiamenti di livello temporale (ì ricordi di Charlie, che si materializzano sulla scena, vanno da quando ha sette anni al presente) e l'accavallarsi fra quanto avviene realmente e quanto avviene nella testa di Charlie. Ma il regista Melvin Bernhardt la tiene in pugno perfettamente, e gli attori non sgarrano mai. Grandissimo è il protagonista, Bernard Hughes, che dà alla figura del padre tutte le sfumature di tenerezza, di dolcezza che ci aspettiamo da un vero « papà », insieme a quelle caratteristiche di saggezza, maturità, fermezza che danno ai bambini quel senso di sicurezza di cui hanno bisogno. E infatti vediamo crescere nel figlio l’ammira zione per il padre man mano che lo « scopre ». 'Hughes è un attore troppo grande per presentarlo, non c'è anno in cui non sia una delle figure principali del teatro di New York; è popolarissimo in televisione ed è conosciuto all'estero attraverso il cinema (sua era, tra l'altro, la caratterizzazione del vecchio omosessuale in « L’uomo da marciapiede » di Schlesinger). Ma possiamo dire che l’interpretazione di « Da » è il suo capolavoro, e lui stesso in un'intervista ha dichiarato che questo perso naggio è il più congeniale che abbia mai trovato. E il sup plemento domenicale del New York Times dell’11 giugno dedicato agli spettacoli, intitola la prima pagina « Bernard Hughes: nato per interpretare Da? ». « Chapter Two » « Capitolo Secondo », candidato a quattro Tonys e premiato con uno (migliore attrice non protagonista) è l'ultimo lavoro di Neil Simon, notissimo per soggetti e sce neggiature cinematografiche e televisive, ma anche ap prezzato autore di teatro. « Chapter two » è la storia di un vedovo, che tenta disperatamente di sfuggire alle pressioni del fratello che vuole fargli dimenticare la moglie morta e costringerlo a « rifarsi una vita ». Finché incontra una donna più o meno nelle sue stesse condizioni (con recenti gravi ferite sen timentali, cioè), si uniscono, ma lui continua ad essere infelice e non sopporta di vedere la felicità di lei. È un'opera seria, abbastanza diversa dai precedenti la vori di Simon, la cui caratteristica era un certo tipo di umorismo basato sul fatto che i suoi personaggi dicono e fanno delle cose divertenti e buffe in aperto contrasto con presentarci dei personaggi davvero tristi, non spolverati dalla sua normale vena comica, e ci riesce solo in parte. Ci sono senza dubbio delle scene meravigliose (ma sono quelle in cui un certo umorismo affiora comunque), come la serie di telefonate fra lui e lei, nate per uno sbaglio di numero, e che finiscono con la decisione di incontrarsi in una specie di pre-appuntamento, tanto è il timore di entrambi di compromettersi; o come il racconto che lui fa delle pressioni del fratello. Ma il tutto è troppo lungo, e sembra che lo stesso Simon non si senta molto sicuro dei suoi mezzi, tanto da inserire una lunga storia di corteg giamento tra il fratello e un’amica di lei (l'attrice Ann Wedgeworth, premiata come non protagonista), che non c'entra per niente e distrae dall'azione principale. « The gin game » £ il nome di un gioco di carte simile al ramino, can didato a quattro Tonys e vincitore della categoria « miglior attrice protagonista » è una semplicissima commedia con due soli personaggi, due vecchi di un ospizio che passano il tempo giocando a carte e chiacchierando. Scritta da D.L. Coburn, e premiata con il Pulitzer di quest'anno, non ci è sembrata un testo eccezionale. Ma l’interpretazione di Hume Cronyn e di Jessica Tandy (che nella realtà sono marito e moglie) è superba, così profonda e sofferta'e piena di sfumature da riscattare totalmente le mancanze del testo. Merito anche, evidentemente, della regia di Mike Nichols, che ha reso il tutto, dov’era possibile, scorrevole e anche divertente. « Dracula » Spettacolo brioso e divertente di cui parlammo diffu samente qualche mese fa, era candidato in cinque cate gorie e ha vinto i Tonys per i costumi e per la migliore produzione di un revival. « Deathtrap » « Trappola mortale », ultimo titolo di questa rassegna del teatro di firoadway attraverso i Tonys, era candidato in tre categorie e non ha vinto in nessuna. Scritto cTa Ira Levin, è un giallo semicomico, molto ben congeniato e divertente. Il personaggio principale, inter pretato con grande bravura e comicità da John Wood, è uno scrittore di gialli per teatro, che è disperato perché da tempo gli è venuta a mancare l’ispirazione. Quando ri ceve un manoscritto di un giovane che gli chiede consigli, concepisce l’idea di appropriarsene togliendo di mezzo l’autore, e lo invita quindi a casa sua. Quando questi ar riva, inizia una catena di eventi a sorpresa, la cui comi cità è data da una voluta esagerazione delle tinte del clas sico giallo all’inglese, e dall’intrecciarsi delle azioni del giallo di cui discutono i personaggi (il manoscritto del giovane) e il giallo che si svolge sulla scena (i tentativi del protagonista di far fuori il giovane). Tutto sommato, anche se noi non siamo grandi amatori del genere, è un'opera che si lascia vedere con grande piacere, che non manca di suspense e che, nell'abbon danza dei premi distribuiti, avrebbe probabilmente meritato di dìù. Concludiamo ritornando a quello che dicevamo all ini zio; anche se i singoli Tonys forse non vanno sempre a chi li meriterebbe di più, di certo gli spettacoli che valgo no davvero entrano sempre tutti per lo meno nelta lista dei candidati. Il che non è poco e per il critico è un occa sione buona per rivedere quello che è successo durante l’anno, e per confrontare i propri giudizi con quelli altrui. Umberto Bonetti Hume Cronyn e Jessica Tandy in « Gin Game » la commedia di Coburn già nota in Italia per l'interpretazione di Paolo Stoppa e Francia Valeri, con la regia di Giorgio De Lullo (foto David Powers) 1 9 7 9 R I N N O V A T E I L V O S T R O A B B O N A M E N T O A I L D R A M M A l a p i ù p r e s t i g i o s a r i v i s t a d e l l o s p e t t a c o l o i n I t a l i a I n o g n i n u m e r o d e “ I l D r a m m a ” - T e s t i i n t e g r a l i d i n o v i t à i t a l i a n e e s t r a n i e r e - L e r e c e n s i o n i d e i p r i n c i p a l i s p e t t a c o l i t e a t r a l i - T u t t e l e n o t i z i e d i t e a t r o , m u s i c a c i n e m a , t e l e v i s i o n e Nuova se rie I L D R A Piazza in Campo Marzio, 5 - 00186 Roma A M M Italia S o ste n ito re annuo sem estrale Estero annuo sem estrale una copia L. 50.000 L. 15.000 L. 8.000 L. 30.000 L. 15.000 L. 1.500 Scrivere nella causale in STAMPATELLO il nome, cognome, dell'abbonato, e l'indirizzo con il CAP. In breve cinema « Turi e i paladini » è il titolo del nuovo film di Angelo D'Alessandro, interpretato da Riccardo Cucciolla, Rosalino Cella- mare e Mirella D'Angelo. Il film, prodotto dall'Istituto Luce con la partecipazione della Rai TV, riscopre il magico mondo dei pupi Siciliani. Angelo D'Alessandro ha già realizzato per la televisione una trasmissione dedicata alle « marionette » di legno. E' ormai ultimata la serie di film dal titolo * Invito allo sport » che Folco Quilici presenterà in autunno sulla prima rete televisiva. Le pellicole saranno venticinque per la durata di circa trenta minuti ciascuna, e tratteranno, ognuna, di un particolare tipo di sport. Non si tratta però di sport a livello agonistico, ma inteso come svago, salute e attività motoria. La serie di film è prodotta dal figlio di Folco Quilici, Brando. I fratelli Taviani, vincitori della palma d'oro al Festival di Cannes '77 per la realizzazione del film « Padre padrone », han no iniziato nella prima metà di settembre le riprese di un nuovo film che porta ancora il titolo provvisorio di « Grimm ». La pel licola tratterà una storia ambientata nei nostri giorni, ma con riferimenti alla favola del « Pifferaio magico » dei fratelli Grimm (ecco il perché del titolo provvisorio). Le riprese si protrarranno per circa due mesi e mezzo in Toscana e a.Roma. Il film, rea lizzato dalla rete 2 della Rai, sarà presentato prima nei normali circuiti cinematografici e poi andrà in onda in TV. Assegnati dai comitato per il credito cinematografico presie duto dal ministro del turismo e dello spettacolo Carlo Pastorino, sei miliardi e mezzo per il cinema: 2 miliardi e 776 milioni per la produzione cinematografica, 760 milioni per le industrie tecniche, 410 milioni per le ditte di distribuzione ed esporta zione, un miliardo e mezzo per le iniziative produttive con formula cooperativistica e un miliardo e 120 milioni per le sale cinematografiche. Il ministro ha dato notizia degli stanziamenti mettendo in rilievo l'importanza del rilancio del settore cinema tografico che versa in questo momento in condizioni disagevoli. Il primo Festival Nazionale del Cinema di Montagna (con sezione aggregata sulla Natura, l'Ecologia e l'Ambiente) si è svolto durante l'estate a Ponte di Legno in provincia di Brescia. Il festival si proponeva di operare come punto di riferimento permanente per quanti si interessano ai temi della montagna e della natura. In programma alcune opere di Marsi sulla natura e l'ambiente, presentate col titolo di « Memoria! Marsi », « Il cinema di montagna di Ermanno Olmi », « Incontro con Adalberto Frigerio ed il suo cinema », la presentazione di tre pellicole di Mario Giuliani, un film sui monti di Corallo commentato da Gianni Brera, un .incontro con Casimiro Ferrari, noto alpinista che ha presentato anche alcuni filmati sulle sue imprese all'estero, e per finire un convegno sul tema « Problemi e prospettive del cinema di montagna. Il ruolo dell'autore non professionale ». La RAI ha presentato due film televisivi al Festival interna zionale del giovane cinema, svoltosi a Flyeres (Tolone) dal 30 agosto al 5 settembre: « Volontari per destinazione ignota » di Alberto Negrini prodotto dalla rete 1 e « La morte al lavoro » di Gianni Amelio della rete 2. Quest'ultimo ha ricevuto il pre mio speciale della giuria, della critica e quello del circuito d'essai con la conseguente presentazione sugli schermi di Parigi per tre settimane. « Volontari per destinazione ignota » è stato invece segnalato dalla giuria con una speciale menzione, com pletando il successo della sezione italiana. In breve musica La XXXIII edizione della Sagra musicale Umbra si è aperta il 16 settembre al Teatro Comunale - Morlacchi » di Perugia con l'opera eroica romantica « Fierrabras » di Franz Schubert, presentata per la prima volta in forma di concerto e cantata in tedesco. Il cartellone prevedeva anche « Vesperae Beatae Mariae Virginis op. 37 » di Serghej Achmaninoff, eseguito dal Coro Filarmonico di Praga; un concerto di musiche organistiche di Antonio Vivaldi e Johann Sebastian Bach; « Die Winterreise » di Franz Schubert eseguita dal pianista Ulrich Weber e dal tenore Werner Flollweg; musiche di Purcell, Schubert, Mozart eseguite dal Gruppo strumentale di fiati dell'UMU Sintesi, Coro da Camera del Conservatorio di Perugia; « Lohengrin » di Richard Wagner; un concerto di musiche vocali di Schubert e Schumann; musi che organistiche di Benedetto Marcello, Galup, Bach. In collabo- razione con il teatro di San Miniato la XXXIII Sagra Musicale Umbra ha presentato lo spettacolo « Eloisa e Abelardo » con la regìa di Franco Enriquez. Sempre nell'ambito della manife stazione, sotto l'auspicio dell'Ambasciata tedesca a Roma, hanno avuto luogo le proiezioni de » Il flauto magico » di Mozart, Fi delio » di Beethoven, « Il Franco cacciatore » di Weber, « Le nozze di Figaro » di Mozart e ■ I maestri cantori » di Wagner. A Urbino si è svolta durante l'estate la X edizione del Corso Internazionale di Musica Antica, organizzato dalla Società Italiana del flauto dolce per promuovere la pratica musicale d'assieme tra persone di ogni età e perfezionare nell'esecuzione storica della musica antica, rinascimentale e barocca. Il corso prevedeva la partecipazione di circa cinquanta docenti prove nienti da tutta l'Europa, specialisti in flauto dolce, strumenti rinascimentali a fiato (ance incapsulate, cornetto), liuto, viola di gamba, violino, flauto traverso, fagotto, oboe barocchi, danza storica, ritmica, musicologia, canto corale, clavicembalo e or gano. I corsi sono stati integrati con concerti, conferenze e seminari. Un Convegno di Studi sul tema « Heinrich Schiitz e il suo tempo » e una tavola rotonda dal titolo « Il punto su Antonio Vivaldi » hanno concluso quest'anno l’incontro di Urbino. Promosso dall'ATER (Associazione Teatri Emilia Romagna) un Centro Sperimentale di Perfezionamento di Balletto per balle rine e ballerini a livello professionistico, che avrà sede presso il Teatro Municipale di Reggio Emilia. Il Centro ospiterà anche prestigiose personalità della Danza e avrà il compito sia di affiancare il momento produttivo vero e proprio quale vivaio per la stessa compagnia di Balletto dei Teatri dell'Emilia Romagna, che di essere un punto di riferimento per l’attività non solo regionale ma anche nazionale. La Dire zione Artistica del Centro è curata dal coreografo e ballerino Vittorio Biagi. L'ammissione è riservata per il numero massimo di trenta (diciassette donne e tredici uomini), a persone tra i sedici e i ventidue anni ed è subordinata ad una prova pubblica indetta per il 18 settembre. II 26 e il 27 agosto sulla piazza del Duomo di Carignano in Piemonte è stata rappresentata dai bambini del luogo « La Pas sione e la Sindone di Gesù ». La manifestazione, organizzata dalla Commissione Culturale Carignanese si collocava nell'am bito delle celebrazioni della Sindone, esposta a Torino. Il Gruppo l eatro-Laboratorio ha presentato il primo settem bre, al Teatro Romano di Verona uno spettacolo teatrale in forma di opera lirica sperimentale dal titolo « Diorama per Vladimir Il'ic Ul'Janov detto Lenin, monumento alla civiltà, al progresso, alle scienze, alla tecnica, alla cultura e all'uomo ». L'autore è Ezio Maria Caserta, veronese, inventore delle scene e anche dello schema operativo di regia. Lo spettacolo è assolutamente sperimentale e gioca su effetti di luce e sull'uso perpetuo della colonna sonora che è di Giorgio Gaslini. Gli attori vengono utilizzati in una scena di teatro-totale e la loro presenza è pre valentemente pantomimica. L'opera è, come riporta una nota di regìa, « soprattutto l’esegesi, il momento di crescita e di presa di coscienza di un operatore culturale militante nel '68, che riflette sul suo assenteismo, sul distacco, sulla sua non mancanza di partecipazione all’azione rivoluzionaria ». In breve teatro Dal 18 al 23 settembre si è svolto a Barcellona il XIII Con gresso della società Internazionale delle Biblioteche e dei Musei dell'Arte dello Spettacolo. II tema generale del congresso quest'anno è la diffusione culturale dell'arte dello spettacolo neU'America del Sud, nel Medio e nell'Estremo Oriente. E' in fatti per la sua posizione geografica aperta verso i paesi del terzo mondo che è stata scelta la città di Barcellona. La Compagnia del Teatro popolare Argentino di burattini •• La Calesita » ha replicato al Convento Occupato in via del Colos seo a Roma la rappresentazione di un’antologia di brani umori stici. Dall'esperienza personale degli animatori Adolfo Giuntoni, Victor Divic, Stella Esteban e Bojan Skofic è stato tratto l'atto unico « El golpe » che con « El soldatino di piombo » ha riscosso maggior successo di pubblico e di critica. Il Festival mondiale del Teatro delle nazioni ha lasciato quest'anno l’Europa per approdare in America Latina. Si è svolta infatti, a Caracas, dal 16 giugno al 9 agosto la manifestazione, che ha visto impegnati gruppi teatrali provenienti da tutto il mondo. La visione di film e di video-tapes di argomento teatrale, la partecipazione attiva di compagnie che hanno messo in scena numerosi lavori, i seminari e i laboratori sul teatro incentrati su argomenti specifici quali teatro nel Terzo Mondo, l'importanza della maschera in teatro, il ruolo dell’attore nel teatro contemporaneo, sono stati i punti fondamentali di svolgimento del festival. Per l'Italia hanno partecipato la Nuova Compagnia di Canto Popolare e il « Club del Teatro » che ha presentato » Sacco » e « Richiamo » di Remondi e Caporossi. il La nuova fatica teatrale di Giuliano Vasilicò sarà quest'anno la messa in scena del romanzo-fiume ■■ L’uomo senza qualità » di Robert Musil. Vasilicò che si è già cimentato in grosse pro ve quali la rivisitazione teatrale de « Le 120 giornate di Sodo ma » e de ■■ La ricerca del tempo perduto » ha confessato la grande passione che nutre per la letteratura più che per il tea tro, considerando i grandi testi letterari come un « grande viaggio totale ». Il regista, che ha iniziato le prove del nuovo lavoro nel laboratorio teatrale allestito per lui al Palazzo delle Esposizioni di Roma, ha deciso per la messa in scena de « L'uo mo senza qualità » l'uso della parola e del dialogo, che negli altri spettacoli aveva aboliti sostituendoli con la gestualità. I martedì del Teatro Eliseo, la novità ■< stabile » della stagione teatrale 1977-78, proseguiranno anche per la prossima stagione. Così ha dichiarato Romolo Valli conduttore dei « Martedì », che ne è poi anche l'ideatore, assieme a Giorgio De Lullo. Quest'anno vi saranno però altre novità; per esempio l'Associa zione Culturale « Amici del Teatro Eliseo », costituita con rego lare atto notarile e debita richiesta di aiuto ai ministeri com petenti; e poi ancora una serata dedicata a Svevo nell’anniver sario della morte, e l'ospitalità a spettacoli in allestimento. « Vor rei stimolare l'attenzione, l'invenzione, l'interpretazione. Penso ad un trampolino per le idee spontaneistiche » ha dichiarato Valli. Il Folkstudio di Roma ha ospitato per una settimana la mimo americana Julie Goell che ha presentato uno spettacolo dal titolo » Scarpe », ispirato ad uno degli elementi più evidenti nel costume dei clowns. La Goeli è già nota per molti suoi in terventi estemoranei nelle piazze della capitale. Presso la Fondazione « Giorgio Cini » a Venezia dal 14 al 20 settembre si è svolto il XVI corso internazionale di storia del teatro, organizzato dall'Istituto internazionale per la ricerca teatrale, il corso era dedicato ai » nuovi aspetti del teatro dalla fine del secolo XIX alla prima guerra mondiale », con particolare riguardo per la Francia, la Germania, l'Inghilterra, l’Italia e la Svizzera. il Festival Internazionale dei Teatro promosso per l'Autunno Romano dall'Assessorato alla Cultura del Comune di Roma e dal Teatro di Roma in collaborazione con il Teatro Club ha pre sentato un cartellone ricco di interessanti proposte. A comin ciare dal 5 settembre si sono susseguiti al. Teatro Argentina, all’Auditorium di Via della Conciliazione, al Teatro La Piramide spettacoli teatrali, concerti, incontri-dibattito e film. Ha inaugura to la rassegna il balletto della Komische Oper Tanztheater-en- semble cui è seguita la tetralogia di Molière per la regìa di Antoine Vitez (presentata durante l'estate al festival d'Avigno- ne), affiancata da un incontro-dibattito sul tema « Oggi Molière » tenutosi dal 3 al 27 settembre presso il Centro Culturale Fran cese. Jacques Lecocq ha presentato inoltre una conferenza spettacolo sul mimo, intitolato » Tout bouge ». Gli Stati Uniti d'America sono intervenuti con « Prometheus » presentato dal Living Theatre per la regìa di Julian Beck. Il 28 settembre all'Audltorium di Via della Conciliazione ha suonato l'Orchestra di musica tradizionale della radio della Repubblica popolare cinese. Per finire lo spettacolo più atteso che ha concluso l'autunno teatrale romano: « Ubu roi » di Jarry con la regìa di Peter Brook. / / *e> 6' Georg Buchner: TEATRO - Adelphi, Milano, 178 pag., 2.800 lire Il teatro di Buchner ancora oggi desta una profonda curiosità. Nella sua opera, peraltro frammentaria e non- programmatlca, possiamo anche andare a cercare delle forme più complesse di « passaggi » culturali e atteggia menti costanti. Si dovrebbe fare i conti anche con tutta la produzione letteraria, che sembra rappresentare quasi il momento di una distrazione dell’autore. Nella sua breve esistenza (1813-1837) ebbe modo di mettere in evidenza due posizioni, apparentemente in contraddizione tra di loro: il realismo perseguito fino alle sue estreme conseguenze, una lucida capacità di astrazione, al limite del modello onirico e della pura stilizzazione. In questo volume, tradot to da Dolfini, che lo ha anche annotato, vi è una bella introduzione di Gerardo Guerrieri. Di questa straordinaria figura di intelletuale che è Buchner, si vorrebbe sapere ancora di più. Capire le possibili relazioni tra il suo atteggiamnto scientifico e quello letterario (Buchner era docente di Storia naturale ail'Università di Zurigo). Certa mente le opere teatrali rappresentano la parte più ampia del suo lavoro letterario e, forse, riassumono molti temi relativi alle diverse mediazioni culturali compiute da que sta strana e straordinaria figura d'artista. Da una parte ecco il dramma storico (La morte di Danton), dall’altra la commedia (Leonce e Lena), dall'altra ancora — sempre in questa edizione dell'Editore Adelphi •— il dramma realistico (Woyzeck). Chi ha voluto leggere in Buchner tutte le premesse di un atteggiamento espressionista, non ha cer to compiuto un errore. Nella struttura delle sue opere teatrali si riconoscono tutte quelle misure di calcata e- spressività che costituiranno la poetica e l'atteggiamento dichiarato degli artisti di qualche stagione successiva. La lettura — o anche la riiettura —■ dei drammi buchneriani non può che essere stimolata e riproposta, soprattutto in un momento come questo, in cui le contraddizioni connotano gli aspetti più interessanti e critici della nostra cultura. Luchino Visconti: LA TERRA TREMA, OSSESSIO NE, BELLISSIMA, SENSO, ROCCO E I SUOI FRATELLI Michelangelo Antonioni: L’AVVENTURA, IL DE SERTO ROSSO Mauro Bolognini: LA VIAGGIA, Nuova Universale Cappelli Editore La collana cinematografica proposta dalla Nuova Cap pelli Editore, in una veste economica (che vuol dire, ov viamente, anche di divulgazione), merita una seria atten zione. Prima di tutto si tratta di una proposta (o ripropo sta) di sceneggiature dei registi più significativi del nostro cinema, in secondo luogo i volumi sono preceduti da introduzioni critiche scritte da alcuni dei più sensibili studiosi del fenomeno cinematografico. Ossessione ci giunge come una vera e propria novità. Questa sceneggia tura, introdotta da una nota di Renzo Renzi, è quella di un film che, secondo molti studiosi, ha preceduto o iniziato- il periodo neorealista del nostro cinema. Visconti, molto pro babilmente, non aveva intenzione di proporsi animatore di un movimento. E, d'altro canto, Ossessione è più un lavoro di sintesi di molte passate esperienze italiane, — con un ideale raggio di congiunzione al cinema francese degli anni quaranta — che un vero tentativo di indicare nuove solu zioni poetico-formali. È un film d’autore, come si dice, un’opera che si oppone al volto ufficiale di una cultura fascista che, nei film, riverberava soprattutto i modelli falsi di un vivere sociale stereotipato e « rosa » (o roseo). Quello che dissocia l’opera dal filone neorealista è l’analisi accurata che Visconti presenta delle passioni umane, il suo voler affrescare un quadro legandolo alla psicologia dei personaggi, il suo innesto alla misura di una ricerca sul l'individuo, piuttosto che della realtà che lo circonda o che riflette nel quotidiano vivere. Quello che prelude al Neo realismo è la maniera del racconto, il dato emergente da una contestualizzazione precisa degli episodi, la presenza costante della dimensione società. Ma qui individuiamo un metodo, quello che caratterizzerà il regista nelle sue suc cessive opere. La terra trema, presentata da Cappelli con l’introduzione di Francesco Rosi, è il secondo film, quello che più ci ricollega alle matrici letterarie cui Visconti rimarrà legato, fino alla fine. Come tutti ricorderanno lo spunto viene dal verghiano i Malavoglia. Visconti, comun que, compie un'operazione del tutto personale e rivoluzio naria. Basti pensare all’uso del dialetto siciliano, che scandalizzò moltissimo quando il film venne presentato alla mostra veneziana del cinema. È interessante vedere come viene presentato il mondo popolare. Il regista mostra sen z'altro una visione « estetica » della povertà e questo dato si riflette più nell'immagine che nei dialoghi. 1 poveri hanno una loro bellezza, anche negli stracci che portano, in quella dignità di atteggiamento che è naturale alla miseria subita da sempre, nel pudore dei loro sentimenti. Questi diventano la categoria di fondo, lo strato portante della rappresentazione in Senso. Qui si precisa il mondo a cui più spesso si rivolgerà Visconti: quello della nobiltà e alta borghesia del secolo scorso. I film del regista sono co struiti secondo la misura del melodramma, a volte esplici tamente denunciato nella presenza concreta (vedi Senso), altre volte dominante come struttura (vedi Rocco e i suoi fratelli). Bellissima è, invece, un film che si lega a dei momenti più contingenti delia nostra storia del cinema: l'affermazione del Neorealismo, la presenza del calore u- mano di Anna Magnani, l’analisi di un rapporto deformato tra industria cinematografica e mondo sottoproletario. La sceneggiatura di Bellissima è preceduta da uno scritto di Cesare Zavattini, quella di Senso da G. B. Cavallaro e quella di Rocco e i suoi fratelli da Guido Aristarco. Gli altri due registi che vengono presentati, in questa collana di cinema della Nuova Cappelli Editore, sono An- tonioni e Bolognini. Di Antonioni viene pubblicata L'avven tura e Deserto rosso. L’avventura rappresentò uno dei più importanti film degli anni sessanta. Apparve, espresso in termini di mirabile composizione cinematografica, il tema dell’alienazione. Film profetico, per molti aspetti, legato alla realtà presente per quel tanto che era necessario alla formulazione di una futura ipotesi sulluomo e sulla sua disgregazione, in una società sempre più lontana dai suoi bisogni. Antonioni va oltre il dato della solitudine, ne mostra la coscienza, vissuta alle soglie dì una angoscia non ancora definita ma già presente. La sensazione che il mondo prevarichi la realtà dell’individuo — logica in cui finisce per chiudersi in un vuoto di desolazione —, viene espressa in termini lucidi, attraverso personaggi dell'alta borghesia italiana. Deserto rosso è ancora più esplicito, in questo senso, de L'avventura. Le due sceneggiature sono precedute da un'introduzione di Tommaso Chiaretti, la pri ma, Carlo Di Carlo, la seconda. Bolognini è uno di quei registi che, proprio per l’inten zione di ricerca, tra il letterario sociologico e il sociologico figurativo, espone un mondo di decadenza, con un bisogno di narrazione da romanzo popolare. La viaccia (qui con l'introduzione di Pietro Bianchi) è uno di quei film che meglio rappresentano l'opera del regista. In Bolognini non bisogna andare a ricercare la grande invenzione estetica. Tutto è riposto nella figuratività rappresentativa, e meglio riesce laddove il riferimento letterario, in sé valido e compiuto, fornisce al regista le garanzie di un racconto. Ne La viaccia vi sono già quelle costanti che ritroveremo nei film successivi, i modelli di un racconto di uno dei nostri registi che andrebbe studiato e seguito con maggiore attenzione. Jean Duvignaud: SOCIOLOGIA DELL’ATTORE - Sergio Ghisoni Editore, pp. XXXIV-212 Lire 6.500 Duvignaud ha cercato attraverso molti suoi scritti di mettere a fuoco la realtà sociologica del teatro. Tra i suoi testi ricordiamo: Sociologie du théâtre, già tradotta in italiano da Achille Mango col titolo Le ombre collettive (Officina, 1974), Spectacle et société, Le théâtre et après, Fête et civilisation. Si tratta di saggi in cui l'autore francese ha messo a fuoco la realtà sociale della scena. Il suo punto di vista, ultimamente modificato nei suoi interventi sull’«'arte socio logica », parte dalla visione nietzchiana per giungere a un'ottica dichiaratamente marxista. Non sempre le analisi vengono portate a fondo, resta, tuttavia, lo sforzo di defini re, di volta in volta, l’anima politica del teatro, nei vari processi di inferenza con la società. La sociologia dell’atto re, tradotto, come il precedente volume, da Achille Mango, che ci propone un interessante saggio introduttivo, è una delle opere più affascinanti dello studioso francese. Duvi gnaud individua alcune costanti del comportamento attoria- le, che ricollega ai bisogni espressi nel vivere civile e sociale. Il referente primo è lo spaccato antropologico, che permette una individuazione di alcune misure comporta mentali: analisi delle forme di vita tribale e primitiva. Vi è anche una direzione psicologico sociale (in qualche caso psicoanalitica) e, infine, una di tipo storico. Duvignaud vede il passaggio dell'attore, dalle società non-storiche a quelle storiche, come un momento della conquista di un atteggiamento cosciente e della definizione di un mestiere « maledetto ». Così viene analizzata quella fetta di scandalo che l'attore porta con sé, come naturale forma di essenza sociale, come motivo di diversità nel quadro delle società organizzate. Il saggio di Duvignaud è del 1965 e risente anche di una sua precedente convinzione del rapporto teatro società: i motivi del riconoscimento delie varie inferenze vengono, in qualche caso, un po’ semplificate e schematizzate. Questo saggio, comunque, rimane estrema- mente significativo perché pone il problema del lavoro attoriale al di là di ogni forma letteraria, di una considera zione dei termini misteriosi di un'arte (o un mestiere) che ancora cerca — e cercherà sempre — una sua impossibile definizione. SEGNALAZIONI: Boris Vian - TEATRO - Torino, Einaudi, pag. 262, lire 3.500 Klaus Volker - VITA DI BERTOLT BRECHT - Torino, Einaudi, pag. 446, lire 6.500 Alberto Gozzi - ROSA FUMETTO - Torino, Einaudi, pag. 146, lire 3.500 Walter Benjamin - TRE DRAMMI RADIOFONICI - Torino, Einaudi, pag. XIII, 145, lire 4.500 Renzo Renzi - LA SALA BUIA - Bologna, Nuova Cappelli, pag. 125, lire 3.000 Annibale Ruccello - IL SOLE E LA MASCHERA - Napoli, Guida Editori, pag. 310, lire 6.500 Franco La Polla - IL NUOVO CINEMA AMERICANO - Vene zia, Marsilio, pag. 213, lire 6.500 Adelio Ferrerò (a cura) - STORIA DEL CINEMA - Venezia, Marsilio, pag. 241, lire 4.800 Claudio Meldolesi - SU UN COMICO IN RIVOLTA DARIO FO IL COMICO IL BAMBINO - Roma, Bulzoni, pag. 213, lire 6.500 Hugo Von Hofmannsthal - LA TORRE - Milano, Adelphi, pag. 216, lire 6.500 Roberto Nepoti - ALAIN ROBBE-GRILLET - Firenze, La Nuo va Italia, pag. 100, lire 1.600 Franco La Polla - SYDNEY POLLACK - Firenze, La Nuova Italia, pag. 135, lire 2.000 B o s t o n Boston è una città piena di sorprese per il turista in cerca di novità. Venne chiamata così perché il gruppo di pionieri che comprarono dagli indiani Moswetuset il territorio dove attualmente sorge la città, proveniva da una città il cui nome era per l’appunto Boston. Tutto ciò avveniva nel lontano 1630. Ma prima di parlare di Boston, moderna città americana del XX secolo, è necessario un breve cenno sull’im portanza storica di questa città dalla quale partì la scintilla rivoluzionaria. Probabilmente uno dei primi motivi di contra sto tra la colonia e l’Inghilterra si ebbe quando il re Carlo I cambiò parere riguardo alla situazione di completa autonomia concessa un anno prima alla « Massachusets Bay Company >*. I coloni rea girono a questo tentativo organizzando un corpo armato di miliziani. Ma a far precipitare le cose fu tutta una serie di atti e di ordinanze che aumentavano a dismisura le tasse che la colonia doveva pagare all’Inghilterra: ad esempio l’impo polare « Sugar Act », la « Stamp Act », il « Quar- tering Act » e le « Townsend Duties ». Furono queste le cause, unitamente ai conti nui episodi di prepotenza e di violenza ai danni dei coloni, che portarono la popolazione del terri torio a ribellarsi e a seguire nella lotta per l’In dipendenza eroi come Samuel Adams e i « suoi figli della libertà », John Hancock, James Otis, John Adams, Josiah Quincy, Robert Treat Piaine, tanto per citare alcuni dei più noti capi della rivoluzione. Tornando alla Boston dei nostri giorni si può senza dubbio affermare che questa città è molto poco americana e molto europea per la struttura architettonica che la contraddistingue. La splen dida Beacon Hill, sinuosa collina residenziale sul la riva del Charles River, è un esempio significa tivo di questo tipo di architettura. Le case qui, quasi tutte in mattoni rossi, sono immerse nel verde dei giardini e si specchiano nelle acque del fiume molto spesso teatro di regate alle quali partecipano le rappresentanze delle principali uni versità di Boston. Ma Boston non è tutta qui: non è solo Beacon Hill, o la nuova zona commerciale, Boston è an che uno dei centri culturali più vivi degli Stati Uniti. Harvard e le altre università sono sempre state un polo di attrazione, un punto di riferimen to di gran parte della cultura americana. È a Boston che si trovano alcune delle più grandi università di architettura americana: il « Boston Architectural Center », « l’Harvard's Graduate School of Design ». Molte sono inoltre le attra- zioni che possiede questa città: dall’Arnold Aar- boretum, conosciuto come il più grande giardino degli Stati Uniti con una estensione di circa 265 acri, ricca di piante di ogni classe, al Museo delle Belle Arti, che è uno dei musei più ricchi d'arte oggi esistenti, con una collezione di an tichità egizie seconda solo ai musei del Cairo e di Torino. A Boston, inoltre, esiste una importante tra dizione musicale che si avvale di alcune tra le più famose orchestre americane, come ad esem pio la « Boston Symphony Orchestra », la « Boston 'University Percussìon Ensemble », la « Herbie Man and thè Family off Mann», il «National Center Chrous » e il noto quintetto « Orpheus Woodwind ». Per il giro turistico della città tappe d’obbli- go sono il Tea Party Ship e l’annesso Museo. Da non perdere la « Trinity Church », una chiesa costruita nel 1877 da Henry H. Richardson, uno dei più riusciti prodotti della sua opera di ar chitetto. 'Le tariffe di andata e ritorno nel periodo di alta stagione (giugno-ottobre) sono di L. 692.400 da Roma e L. 644.000 da Milano. Sempre in alta stagione (luglio-settembre) sono previste delle ta riffe di andata/ritorno « escursione » di L. 478.300 da Roma e L. 444.800 da Milano, con una perma nenza minima di 14 giorni e massima di 60 giorni. Per gli appassionati sportivi non c’è che da scegliere tra le avvincenti corse di cavalli a Suf- fol Dows, il Basket Boston Celtics e l’Hockey sui ghiaccio a Boston Bruins. Vanno anche ricordate le città più interessanti dello Stato quali ad esempio Lowell, Salem, Pittsfield, Worcester, Springfield e Cape Cod, la spiaggia bostoniana famosa in tutti gli stati. Agenzie di viaggio ed enti governativi studiano sovente facilitazioni per chi, a scopo turistico o per altri motivi (per esem pio di studio) voglia andare in America. Per accordi con le ferrovie americane spesso il turista può usufruire di biglietti circolari sulle ferrovie e sulle linee interne di autobus serviti dalla Greyhoun a prezzi bassi: si paga, a titolo d’esempio, 150 dollari per due settimane, con un chilometraggio illimitato in ferrovie e solo 125 per l’uso di tutta l’efficiente e moderna rete di auto bus. Infine, speciali combinazioni tariffarie « tutto compreso » vengono studiate dalle agenzie di viaggio proprio allo scopo di offrire ad un pub blico sempre più numeroso la possibilità di « sco prire » Boston o, comunque, l’America. Per raggiungere Boston FAUTALIA ha pro grammato quattro voli settimanali da Roma e due da Milano effettuati con i moderni DC-10. Le par tenze avvengono il mercoledì, giovedì, sabato e domenica da Roma e il mercoledì e sabato da Milano. w m ¡ ¡ s i I n — — 1 m K S k « S s m ^ - % É : à ^ A t M m É

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Il dramma : rivista mensile di commedie di grande successo. - Torino : Grandi firme, 1925-1992.

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