L D A I A MENSILE DELLO SPETTACOLO ANNO LIV N. 11-12 Dicembre 1978 - Lire 2.500 M M R v 4 l ! / • r W é P x # s - 4 w < £ ^ v ' ^ * < * & A T * • / £ o s > v » B o s t o n Boston è una città piena di sorprese per il turista in cerca di novità. Venne chiamata così perché il gruppo di pionieri che comprarono dagli indiani Moswetuset il territorio dove attualmente sorge la città, proveniva da una città il cui nome era per l'appunto Boston. Tutto ciò avveniva nel lontano 1630. Ma prima di parlare di Boston, moderna città americana del XX secolo, è necessario un breve cenno sull’im- portanza storica di questa città dalla quale partì la scintilla rivoluzionaria. Probabilmente uno dei primi motivi di contra sto tra la colonia e l'Inghilterra si ebbe quando il re Carlo I cambiò parere riguardo alla situazione di completa autonomia concessa un anno prima alla « Massachusets Bay Company ». I coloni rea girono a questo tentativo organizzando un corpo armato di miliziani. Ma a far precipitare le cose fu tutta una serie di atti e di ordinanze che aumentavano a dismisura le tasse che la colonia doveva pagare all’Inghilterra: ad esempio l’impo polare « Sugar Act», la « Stamp Act », il « Quar- tering Act » e le « Townsend Duties ». Furono queste le cause, unitamente ai conti nui episodi di prepotenza e di violenza ai danni dei coloni, che portarono la popolazione del terri torio a ribellarsi e a seguire nella lotta per l’In dipendenza eroi come Samuel Adams e i « suoi figli della libertà », John Hancock, James Otis, John Adams, Josiah Quincy, Robert Treat Piarne, tanto per citare alcuni dei più noti capi della rivoluzione. Tornando alla Boston dei nostri giorni si può senza dubbio affermare che questa città è molto poco americana e molto europea per la struttura architettonica che la contraddistingue. La splen dida Beacon Hill, sinuosa collina residenziale sul la riva del Charles River, è un esempio significa tivo di questo tipo di architettura. Le case qui, quasi tutte in mattoni rossi, sono immerse nel verde dei giardini e si specchiano nelle acque del fiume molto spesso teatro di regate alle quali partecipano le rappresentanze delle principali uni versità di Boston. Ma Boston non è tutta qui: non è solo Beacon Hill, o la nuova zona commerciale, Boston è an che uno dei centri culturali più vivi degli Stati Uniti. Harvard e le altre università sono sempre state un polo di attrazione, un punto di riferimen to di gran parte della cultura americana. È a Boston che si trovano alcune delle più grandi università di architettura americana: il « Boston Architectural Center », « l’Harvard's Graduate School of Design ». Molte sono inoltre le at,tra- zioni che possiede questa città: dall’Arnold Aar- boretum, conosciuto come il più grande giardino degli Stati Uniti con una estensione di circa 265 acri, ricca di piante di ogni classe, al Museo delle Belle Arti, che è uno dei musei più ricchi d’arte oggi esistenti, con una collezione di an tichità egizie seconda solo ai musei del Cairo e di Torino. A Boston, inoltre, esiste una importante tra dizione musicale che si avvale di alcune tra le più famose orchestre americane, come ad esem pio la « Boston Symphony Orchestra », la « Boston University Percussìon Ensemble », la « Herbie Man and thè Family off Mann », il « National Center Chrous » e il noto quintetto « Orpheus Woodwind ». Per il giro turistico della città tappe d'obbli go sono il Tea Party Ship e l'annesso Museo. Da non perdere la « Trinity Church », una chiesa costruita nel 1877 da Henry H. Richardson, uno dei più riusciti prodotti della sua opera di ar chitetto. Per gli appassionati sportivi non c’è che da scegliere tra le avvincenti corse di cavalli a Suf- fol Dows, il Basket Boston Celtics e l'Hockey sul ghiaccio a Boston Bruins. Vanno anche ricordate le città più interessanti dello Stato quali ad esempio Lowell, Salem, Pittsfield, Worcester, Springfield e Cape Cod, la spiaggia bostoniana famosa in tutti gli stati. Agenzie di viaggio ed enti governativi studiano sovente facilitazioni per chi, a scopo turistico o per altri motivi (per esem pio di studio) voglia andare in America. Per accordi con le ferrovie americane spesso il turista può usufruire di biglietti circolari sulle ferrovie e sulle linee interne di autobus serviti dalla Greyhoun a prezzi bassi: si paga, a titolo d’esempio, 150 dollari per due settimane, con un chilometraggio illimitato in ferrovie e solo 125 per l’uso di tutta l’efficiente e moderna rete di auto bus. Infine, speciali combinazioni tariffarie « tutto compreso » vengono studiate dalle agenzie di viaggio proprio allo scopo di offrire ad un pub blico sempre più numeroso la possibilità di « sco prire » Boston o, comunque, l’America. Per raggiungere Boston l’ALITALIA ha pro grammato quattro voli settimanali da Roma e due da Milano effettuati' con i moderni DC-10. Le par tenze avvengono il mercoledì, giovedì, sabato e domenica da Roma e il mercoledì e sabato da Milano. Te tariffe di andata e ritorno nel periodo di alta stagione (giugno-ottobre) sono di L. 692.400 da Roma e L. 644.000 da Milano. Sempre in alta stagione (luglio-settembre) sono previste delle ta riffe di andata/ritorno « escursione » di L. 478.300 da Roma e L. 444.800 da Milano, con una perma nenza minima di 14 giorni e massima di 60 giorni. MENSILE DELLO SPETTACOLO ■ ANNO LIV - N. 11-12 Dicembre 1978 - L. 2.500 SO M M ARIO MARIO GUIDOTTI FERRUCCIO SCAGLIA DANTE CAPPELLETTI ANGELO LIBERTINI MARCO TESEI NICOLA FANO DIEGO FABBRI DANTE CAPPELLETTI ROBERTO REBORA GIUSEPPE MANFRIDI ALBERTO TESTA BUON FINE E BUON PRINCIPIO L'anno 1978 si chiude per il tea tro in un’atmosfera dì attesa. Ci sono molti interrogativi in aria che dovranno trovare risposta entrcf il 1979: la legge per il teatro, (final mente!), l’iniziativa delle regioni, il rinnovamento degli Stabili, la tra sformazione dell’Ente Teatrale Ita liano, tanto per citare i più impor tanti. Sono temi su cui si è discus so molto, proprio negli ultimi me si in termini concreti, tra gente di teatro e anche in Parlamento. Il fervore del dibattito poggia su una stagione teatrale ricca e su una soddisfacente risposta del pub blico. Sul finire dell'anno la Commis sione Prosa del ministero dello Spettacolo ha concesso contributi alle iniziative teatrali in corso per circa sette miliardi. « Il ministero — dice il comunicato — intervie ne, con un miliardo 35 milioni a favore degli enti teatrali; con un primo contributo a titolo di antici pazione di due miliardi 360 milioni a favore degli undici teatri a ge stione pubblica; con due miliardi per 60 cooperative; e con un miliar do 200 milioni per 45 complessi a gestione privata, che beneficeranno inoltre dei contributi percentuali sugli incassi ». L’augurio di questi giorni è « buon fine e buon principio ». 2 Lettere al Dramma 4 Più pubblico e tante prime 7 Un boom dai lati oscuri 14 Prosa recensioni (di O. Bertani, D. Intervista a Franco Cordelli Cappelletti, A. Libertini) 47 Lo splendore dei classici 55 Molière, lo sconosciuto 59 La prosa alla radio 62 La prosa in TV 66 « Le mani sporche » in televisione 69 Paludi d'altri tempi 72 Paludi 92 L'avanguardia e le sue ceneri 97 99 Va in scena l'assurdo quotidiano 104 106 Lirica recensioni (di G. Nastasi) 111 Baryschnikov trionfa a Parigi 113 Margherita Parrilla in continua ascesa 115 Libri recensioni (di D. Cappelletti) II tutto per tutto di Michèle Morgan Associato all’unione Stampa Periodica Italiana Comitato di direzione: Odoardo Bertani, Diego Fabbri, Mario Guidotti, Maurizio Livera- ni, Ugo Ronfani. Direttore editoriale: Carlo Fuscagni. Condirettore editoriale: Angelo Libertini. Responsabile: Diego Fabbri. Segreteria: Anna Maria Menna, Renata Fabbri. 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Casciano (Forlì) L e tte r e a l D ra m m a assolvere ad un compito di solle citazione culturale da sommare al richiamo della prosa, della musica, del cinema, delle arti figurative. Il Centro delle Arti romano po trebbe risolvere innanzitutto ran noso problema deH’Auditorium (og gi l'Istituzione dei Concerti di S. Cecilia è costretta ad utilizzare la Sala di Via della Conciliazione di proprietà della Santa Sede); po trebbe pure trovare soluzione il problema da sempre negletto di un Teatro Nazionale che — senza giungere alle proporzioni del Na tional Theater di Londra (tre sale per una capienza complessiva di 2.500 posti) — possa realizzare tut tavia un teatro funzionale, sui 1000 posti ed un teatro-laboratorio sui 300-400 posti per la sperimenta zione. Se si aggiungesse un Filmstudio Nazionale, il complesso potrebbe degnamente completare le struttu re per lo spettacolo della capitale, come avviene a Parigi, Londra, Tel Aviv etc. Va anche rilevato che il luogo è già fornito di una stazione della Metropolitana al Colosseo, il che lo rende facilmente raggiungi bile anche con mezzi pubblici di vario genere, esattamente come a Londra dove il Centro delle Arti ha alle spalle la stazione ferrovia ria e metropolitana di Waterloo. Va contrastata — a mio avviso — la tendenza di portare lo spetta colo in teatri di periferia o nelle fabbriche, poiché l’ascolto di un concerto o di un dramma non solo deve avvenire con il conforto dei requisiti tecnici di acustica e di scenografia, ma l'evento artistico deve essere vissuto come un di stacco totale dalle occupazioni quo tidiane; andare a teatro o al con certo deve avvenire a fine pome riggio, a sera o in una giornata di riposo proprio perché si realizzi l'e vento artistico in un momento ed in un luogo decisamente diversi dal tempo e dal luogo di lavoro. Me glio ancora, questa occasione può comprendere una visita a quei mo numenti del passato capaci di ri collegare l'individuo alle proprie matrici culturali e spirituali, che l'ubicazione appropriata del .Centro delle Arti dovrebbe naturalmente favorire. Ce speranza ..che qualcosa si muova? Fernando Bevilacqua Roma I mostri al posto degli zoccoli Caro Direttore, molti scrivono che il cinema ita liano è in crisi. E vi è, innegabile, una crisi degli incassi. Ma che dire Un vero centro delle arti per Roma Caro Direttore, in alcuni articoli da tempo si discute, anche se la discussione pare purtroppo una di scussione accademica, sulla crea zione di un vero centro culturale a Roma. Come soluzione del pro blema ho già avuto occasione di proporre l’area alle pendici del Monte Celio din nanzi all'Ospedale Militare, che degrada verso il Colosseo tra la Via Claudia e la Via Annia; il luo go risponde in pieno ai requisiti fondamentali di una simile istitu zione, in quanto situato in una zona tranquilla e provvista di spazio e di verde; per di più è circondato da una serie di monumenti di epo ca romana e cristiana (Colosseo, Palatino, Domus Aurea, S. Clemen te, S. Stefano Rotondo] capaci di Ogni anno dal 75 si tengono, con il patrocinio della Pro-Loco e della Amministrazione Comunale, le se rate: « Poeti di casa nostra » vol te a scoprire nel vasto repertorio locale autentiche promesse delia nostra poesia. Nel Montefeltro è di rilievo, proprio in funzione del teatro, la poesia dei grandi artisti scomparsi come Oreste Mazzoni (nato a PennabilIi nel 1869 e mor to nel 1935). « Un uomo ha ucciso un uomo e non ho pianto! Ed amo l’uccisor ». Le nostre iniziative non trovano però molti appoggi, a parte il plau so del pubblico. Dappertutto si par la molto di sostenere la cultura, ma poi tutto si risolve nel volonta riato di pochi. Che cosa si può fare? Maurizio Seripa Pennabi11i (Pesaro) L’adulterio questione nazionale Caro Direttore, per alcune sere, in diverse settimane, gli italiani adul+i e i ragazzi (quelli del '68, quelli del 70, quelli de! 72, gli autonomi e quelli del movimenti e quelii che fanno i dibattiti con Gior gio Bocca e quelli che non li fanno) hanno assistito ad uno spettacolo in comune: la rappresentazione in TV di Perché « Scene da un matrimonio », regia di Ingmar Bergman, il film ha « preso » tutti? Perché tutti, adulti e ragazzi (quelli del '68, quelli dei 70, ecc. ecc.), han no da fare i conti con le questioni di casa. Si ha un bel dire aboliamo la coppia, superiamo i ruoli, facciamo as semblee in famiglia aperta, usiamo il triangolo e recuperiamo l’identità. Poi, nella famiglia media borghese, in quel la proletaria e nella comune, quando tra due arriva l’altro, o semplicemente tra due arriva un po’ di noia, apriti cielo! Si litiga, si discute, si argomen ta, si dibatte, e ci si sbudella come nelle antiche commedie di Plauto e si tradisce come nelle antiche commedie di Terenzio. I conservatori, a questa riflessione, aggiungono il commento « tutto il mon do è paese ». I progressisti dicono « il privato non è politico! ». Nella sostanza però tutti ammettono che alle faccende pubbliche bisogna as sommare sempre le faccende perso nali, altrimenti, lotta di classe o no, la felicità dell’uomo resta un mirag gio. « Scene da un matrimonio » ha avuto quindi questo gran merito: il merito di spiegare che la vita di un uomo e di una donna qualunque, oltre la politica, ha dei nodi che si sciol gono attorno al tavolo di cucina. As salteranno le cucine? Faremo dell’a dulterio una questione nazionale co me è la questione meridionale? Può darsi. Il « Corriere » ha aperto il di battito. Si arriverà forse alla fonda zione di un sindacato autonomo mogli e mariti traditi e allo sciopero delle mogli. Come in Aristofane. Tanto me glio. Mi pare, del resto, che nel tea tro queste cose si erano capite da sempre. Aldo Lucchitti Roma della crisi intellettuale che afflig ge l'intero settore? Ultimamente si è visto l’organi smo supremo dei produttori privati italiani scegliere, per inviarlo al l’Oscar, nientemeno che « I nuovi mostri », un’opera incredibilmente vuota, ripetitiva, commerciale. E questo film ha prevalso su « L’al bero degli zoccoli », di Ermanno Olmi, film venduto al mondo Intero, apprezzato da centinaia di critici e da migliaia di spettatori, premia to a Cannes con la Palma d’oro. La crisi intellettuale che affligge il cinema dunque non è tanto crisi di proposte; ma è crisi di idee di coloro che governano la barca, che non sembrano voler tentare altre strade che1 non siano la rotta del facile consumismo e dei prodotti di regime. Serve protestare? lo credo che protestare serva; ma bi sognerà anche intervenire affinché avvenga un cambio di mentalità al l’interno delle strutture produttive e in quelle preposte a propagan dare il cinema italiano nel mondo, e sono strutture private, ma anche strutture pubbliche. Franco Fontani Milano In difesa del teatro locale Caro Direttore, forse lei non conosce nemmeno il nome di Pennabi11i : è un paesino dell’entroterra marchigiano, scono sciuto ai più. La gente qui lavora, e sa cosa sia il lavoro, dovendo adattarsi da sempre al lavoro me no redditizio, quello dell’agricoltu ra e della pastorizia, se non è vo luta emigrare. Ora però le cose stanno cambiando, è sorto un gros so complesso industriale in quel nodo di Ponte Messa, che sorge a pochi chilometri da Pennabi11i. Si stanno muovendo molte attività. È nato anche il » Gruppo Teatrale Pennese ». L'aria di casa nostra, la passione per il teatro, avanti tut to! Gente che amando il teatro lo fa con amore. Il Comune ci ha con cesso un piccolo palazzo abban donato. Nel 76 abbiamo portato sul pal coscenico pennese: « Anna dei mil le giorni » con la traduzione dello Squarzina: il lavoro piacque ai più. A p p u n ti s u lla s ta g io n e t e a tr a le 1 9 7 8 -7 9 P i ù p u b b l i c o e t a n t e p r i m e La stagione teatrale italiana si è aperta all’inse gna della quantità, almeno per quello che riguarda le grandi città e i circuiti organizzati. Soltanto a Roma, su poco più di duecento giornate di spetta colo, si hanno novantasei debutti, novantasei prime che faranno impazzire i critici e i loro vice. Dicia mo subito che sarebbe auspicabile una stagione forse meno intensa, ma più lunga; in nessun paese del mondo come da noi i teatri stanno chiusi cin que o sei mesi. Comunque, se si pensa alla crisi che dominava fino a due o tre anni fa c’è di che rallegrarsi di questa crescita, anche se secondo noi è soprattutto una crescita quantitativa, che riguar da il numero degli spettacoli e del pubblico. È anzi questa riconquista del pubblico che costitui sce la nota più confortante: in un anno si è rivela to un incremento di circa il 14 per cento di pre senze e si è arrivati a sei milioni e settecentomila biglietti venduti. La campagna abbonamenti ha su perato i livelli dell’anno scorso. La seconda caratteristica della stagione è l’e terogeneità. Già altra volta abbiamo lamentato la mancanza di dinee culturali precise. Non è che au spichiamo un minculpop teatrale che determini gli indirizzi; e d’altra parte un indirizzo prevalente sugli altri c’è ed è quello marxista che sia pure molto stancamente viene tenuto in vita dalla mag gior parte dei direttori dei teatri stabili. Ma a par te questa linea che è bassamente politica più che ideologica, si riscontra un intreccio di orienta menti che solo in parte è manifestazione di sano pluralismo. C’è un po’ di tutto e ci sono tutti o quasi. C’è anche una superstite avanguardia, sia pure in proporzioni minime rispetto a quella di al cuni anni fa (non appartengono infatti più alla avanguardia i Bene, i Nanni e gli altri che non solo hanno lasciato le cantine ma hanno modifica to sostanzialmente la loro posizione). Le prefe renze del pubblico hanno indotto a non fare tanti salti nel buio; solo gli Stabili infatti possono non preoccuparsi troppo delle preferenze degli spetta tori. Quasi tutti hanno cercato di andare sul sicu ro, con riprese di classici antichi e moderni; ai classici si è rivolta addirittura l ’avanguardia; basti pensare a Sepe che ha messo su « Il matrimonio » di Gogol, sia pure a modo suo. C’è un po’ di tutto, ma sinceramente poco di veramente cattivo. E questa è un’altra nota positiva. Noi non siamo fra quelli che lamentano che si ricorra sempre a Sha kespeare e a Goldoni e magari a Fabbri (il mag giore autore italiano vivente), tanto più che con tinua l ’alluvione di Brecht, anche del minore, e si insiste giustamente su riscoperte come quella di Svevo. Certo: sottolineiamo con piacere il corag gio di Romolo Valli con la nuova gestione dell’Eli- seo dove, sia nel grande che nel piccolo teatro, si rappresentano, oltre ai classici, testi della produ zione più recente e spettacoli di ricerca struttu rale e linguistica (ma Valli, oltreché un grande at tore, è anche un coraggioso operatore teatrale). impegno degli attori migliori; Un altro elemento positivo è costituito dal massiccio tranne Gassman, ci sono tutti; non si riscontrano defe zioni di rilievo; quasi nessuno ha ceduto alle lu singhe del cinema e della televisione e tutti, so prattutto quelli delle compagnie private e delle cooperative, hanno dimostrato di voler tener conto dei gusti di un pubblico stanco di non capire. Stanco soprattutto della sempre più stravolgente mediazione del regista. Noi non ci auguriamo un ritorno al divismo; tuttavia pensiamo che un ri torno all’attore come protagonista dell’avvenimen to teatrale sia un fatto assolutamente positivo. E infatti scorrendo i cartelloni delle varie compagnie si rileva come gli spettacoli concepiti in funzione degli interpreti siano numerosissimi. Forse sta ve ramente cominciando il declino del regista-demiur go e il recupero del ruolo dell’interprete inteso nel senso legittimo ed etimologico della parola. Naturalmente non ci auguriamo neanche un ritor no dell’interprete-mattatore; ma in verità non ci sembra che ci siano pericoli. Importante è che fra regista e interprete si stabilisca un utile equilibrio che andrà a tutto vantaggio del risultato dello spettacolo. In questo gioco di equilibri deve natu ralmente rientrare nella sua interezza la persona lità dell’autore, quell’autore che nel contrasto fra gli altri due personaggi era, in fondo, quello che più ci aveva rimesso. L ’evento teatrale è un fatto unitario, prodotto appunto da questa triade com posta dall’autore, dal regista e dall’attore. La teoria della storicizzazione, della duttilità e dell’aggiorna mento del testo viene sempre più contraddetta dai maggiori teorici teatrali. La stagione fa sperare che ci si avvii verso una stabilizzazione di questo equilibrio, soprattutto per quanto riguarda le compagnie private e le coope rative. Ultima notazione: teatro sperimentale sembra in decadenza, confinato in periferia (e non intendiamo tanto la periferia metropolitana) e af fidato a tenaci gruppuscoli. Solo l ’Eti gli ha aperto le porte. Un processo di ridimensionamento dopo gli eccessi del precedente decennio era forse ne cessario; ma che non si arrivi alla sua estinzione! Il teatro sperimentale ha il diritto di vivere e non solo di sopravvivere. il M ario G uido tti E D IT R IC E T U S C U L U M s.r.l. VIA PIAVE 4 FRASCATI C O L L A N A T E A T R A L E CONCESSIONARI Piemonte p e p i IIQIVI Distributrice Nord s.r.l. PER LA S rin o 6'" " 32 M O D E R N A d ire tta da Ita lo A lig h ie ro Chiusano ‘ RIUSCIRÀ’ MIA MOGLIE A SPOSARLO? " COSA DITE? " Lucio De Felici 1 Lucio De Felici 9 ^ Italo Alighiero Chiusano O la silvia dell’arcobaleno (e altri atti unici) ” Lucio De Felici . Antonio Lo Iacono A H ‘ UNA SCIARPA LUNGA VENT’ANNI Alberto Perrini I- " N0N 81 D0RME A kirkwall 3 Ermanno Carsana 6 DIAPASON (e altri atti unici) Samy Fayad *7 il nudo e la nuda * " Sandro Parrini 8 FAUST ■ Paolo Levi n legittima DIFESA 3 ■ 4 n Pier Benedetto Bertòli I D|ARI u ' I“ÌaJ Cantucci ^ 11 - . _ 12 - ÌNtUcnAVALPLOC|paERn0SUA MAESTÀ’ Siro Angeli 40 13 - ASSURDO MIO FRATELLO IL CILIEGIO a a Enzo Maurrì ' PESCI " snx. DISTRIBUZIONE £ £ 3 , via 'str'a’ 1ot PADOVA Lombardia L D.C. ... n- ■ c„ Via CilOia, bZ CT.9. MARCHE Rolando Albertinj Via Risorgimento, 33 SAN BENEDETTO DEL TRONTO TOSCANA L E S v'ia Gioberti, 39 A FIRFM7F I A7IO _ - , . . Messaggerie del Libro Via Severo Carmignano, 24 ROMA CAMPANIA DE.RO.MA. s.s.a. Via S. Sebastiano, 72 NAPOLI LIGURIA Ufficio Propaganda Editoriale GENOVA SICILIA O.P.A. Via XX Settembre, 70 PALERMO lezzi, 14 p. 1 . lavorò poi con Si è spento a Milano il 21 ottobre l'attore Renzo Ricci. Nato a Firenze il 27 settembre 1899, Ricci aveva cominciato l'attività teatrale giovanissimo nel 1916 nella compagnia Borelli-Piperno; le sorelle Gramática, con Ermete Zacconi, Gandusio, Talli. Dal 1.925 al 1928 fu il capocomico di una compagnia in cui recitava anche la prima moglie Margherita Ba gni, dalla quale ebbe Nora, attrice bravissima, morta qualche anno fa. Dal 1935 al 1939 lavorò con Laura Adani e nel dopoguerra con Eva Magni, che poi sposò. L'ultima applauditissima apparizione in teatro risale alla stagione 1976-77, in cui lavorò per la regia di Giorgio Strehler nel « Giardino dei ciliegi » di Ce- chov, vestendo i panni del vecchio maggiordomo Firs. La scomparsa di Ricci ha scosso tutto l'ambiente teatrale; Romolo Valli ha detto: «è stato l’ultimo grande rappresentante di una tradizione interpretativa che veniva da lontano e che per lui si incarnava nella mitica figura del suo maestro Ermete Zacconi ». Streh ler, ricordando l’interpretazione di Ricci nel dramma cechoviano ha detto: « Nel "Giardino dei ciliegi" il ruolo di Firs er,a sempre risolto con grande manieri stico mestiere. Renzo seppe farne addirittura un pro tagonista assoluto ». « Quando lo vidi l’ultima volta, nel 1971, ha dichiarato Mario Scaccia, Ricci mi parlò del teatro con accenti strazianti: rimpiangeva che non fosse più come lo aveva amato e conosciuto lui, at tore essenzialmente lirico ». R o m a c a p ita le te a tr a le U n b o o m d a i l a t i o s c u r i « Perché dunque il teatro deve essere così cat tivo? Perché, diciamolo pure, è su un livello cata stroficamente basso: debole, annacquato, pieno di ripetizioni, tetro e cretino. Perché non ci devono essere commedie che riflettano l ’eccitazione, il mo vimento, i cangiamenti, i conflitti, le .tragedie, le miserie, le speranze e l ’emancipazione di un mo mento così drammatico della storia del mondo co me quello che viviamo? Perché i nostri attori sono così pigri e senza passioni? Perché così pochi tra loro pensano al teatro, sognano il teatro, lottano per il teatro, soprattutto fanno pratica di teatro tutto il tempo che hanno a loro disposizione? ». Peter Brook scriveva queste parole alcuni anni fa e si riferiva naturalmente alla realtà inglese. Ma erano parole adattabili anche al teatro italiano di quel periodo (con le dovute eccezioni, si intende). Oggi, ed è trascorso poco tempo, quelle frasi sem brano appartenere ad un passato remotissimo e il teatro sembra vivere un momento di eccezio nale fortuna, un vero e proprio boom. E non solo in Italia, a leggere sui giornali stranieri quanto ac cade in questo momento a Londra e a New York. Così dicono tutti che il cinema è in profonda crisi. Ma il teatro va bene, anzi benissimo! Le compagnie annunciate in Italia questa sta gione sono il doppio di quella passata, si aprono nuovi e impensati spazi, debuttano registi e attori giovani. Ma è tutt’oro ciò che riluce? L ’esplosione di Roma come città teatrale di li vello europeo risale all’anno passato con una sta gione ottima da ogni punto di vista: buoni incassi, molto pubblico, molto parlare di teatro come non avveniva da tempo. Questo ha portato nella pre sente stagione a un proliferare di iniziative tutte senza dubbio interessanti ma che, se da un lato fanno piacere, dall’altro preoccupano. Perché sorge spontanea una domanda: se ci sono nuove sale e sono nuove sale con molti posti, esiste il pubblico che riempia queste sale ogni sera? È un discorso che vale soprattutto per Roma, dove è avvenuto un cambio di mentalità. Il teatro, per la prima volta, è stato inteso come « Festa » e il luogo dove avveniva « l ’evento teatrale » è diventato il luogo deputato della « Festa ». In sostanza alcuni ope ratori teatrali hanno fatto un ragionamento molto semplice: il teatro fino ad oggi è un fatto di élite. Gli spettatori sono ben identificabili. A Roma poi, città priva di fabbriche e dunque di classe operaia, molto ben identificabili. C’è dunque l ’abbonato ti pico che ama la grande tradizione, sia essa Eduardo o Valli o la Brignone o la Ferrati. C’è poi lo spet tatore occasionale che è attratto dalla curiosità in locandina, ad esempio Philippe Leroy o Massimo Ranieri accanto a Romolo Valli. C’è l’appassionato di spettacolo leggero che segue fedelmente dai loro inizi Garinei e Giovannini. Ci sono gli intellettuali e i radicali chic che popolano il cosiddetto under ground. Ma se si va a contare questo pubblico, numericamente, non supera le quaranta-cinquanta- mila unità. Che da sempre, ogni anno, si divide equamente tra i vari Eliseo, Sistina, Valle, Quirino, Argentina, ecc. E il resto? Cinquantamila spettatori in una cit tà di più di tre milioni di abitanti sono una mi nuscola fetta. Esiste dunque una potenzialità di pubblico inesplorata e bisogna trovare il sistema di portarla, a teatro. Ecco, questo ragionamento non so dire se sia stato fatto sulla carta e poi attuato o se sia avve- Gigi Proietti interpreta Gaetanaccio di Luigi Ma gni. Ma è interessante notare che le due nuove sale si trovano in zone di Roma non centrali anche se non periferiche. In zone dove solo due anni fa nessun esercente o nessun impresario avrebbe mai immaginato di aprire un teatro. Questo significa molte cose: se da un lato dimostra il totale falli mento della politica di decentramento perseguita dall’ente pubblico cioè dal Teatro Stabile, dall’altro dimostra che certe vecchie e romantiche idee di sa pore operaistico (fare dei camion con spettatori della periferia che gioiosi vengono condotti nel Tempio a vedere la rappresentazione e poi alla fine dello spettacolo vengono ricondotti nella loro periferia) sono anch’esse sbagliate. È vero, durante la gestione Enriquez fu aperto uno spazio nella zona di Pietralata ma gli spetta coli che ci venivano portati, mi ricordo un ottimo Woyzzeck di Carlo Cecchi, non erano assolutamen te adatti a un pubblico digiuno di teatro e imbot tito di western spaghetti o di Raffaella Carrà. Per cui il pur lodevole sforzo di offrirgli un teatrante intelligente, ma « difficile » come Carlo Cecchi, era in partenza destinato al fallimento. La programmazione del Giulio Cesare e del Brancaccio invece offre interpreti di grande presa e di grande richiamo come Gigi Proietti o Giorgio Gaber e spettacoli corali e di totale coinvolgi mento come quello di Porta. E, sempre sulla carta, dovrebbero essere delle operazioni vincenti. Ma accanto al « Teatro Festa Popolare » anche i « tradizionalisti », come si dice, si sono dati il belletto. Eliseo e Piccolo Eliseo hanno una pro grammazione ricca e affascinante e sono diretti da un trio di prestigio: Romolo Valli, Giorgio De Lullo, Giuseppe Patroni Griffi. C’è, e non molto velata, l ’intenzione di porsi come Teatro Naziona le dove accanto ai grande repertorio sono accura tamente misurate le novità. E poi il Teatro delle A rti con la Tieri-Lojodice, e il Parioli con Lionello (il Paridi è legato all’Eti quest’anno), e il Valle e il Quirino, e il Tenda con il Cyrano de Bergerac musicale interpretato da Mo- dugno, e il Sistina con una nuova edizione di Ru gantino affidata a Enrico Montesano, l’Argentina con un Brecht diretto da Squarzina e uno Schnitzler diretto da Ronconi... Insomma tutti spettacoli di grande interesse e molti teatri in piena attività. A Roma si potrà scegliere contemporaneamente, tra un Valli, un Bramieri, un Lionello, un Philippe Leroy, una Lisa Gastoni, uno Scaccia, un Monte sano, uno Sbragia, un Carmelo Bene, una Ferrati, una Brignone, una Aldini, un Domenico Modugno, un Proietti, un Randone, un Buazzelli, una Prode- Proietti in ■< Gaetanaccio » nuto il contrario: che cioè qualcuno, per esempio Molfese del Teatro Tenda, si sia trovato tra le mani Gigi Proietti con A me gli occhi, please e abbia visto decine di migliaia di persone che affollavano la sua tenda, ci abbia ragionato su e ab bia tratto le logiche conseguenze. Non è importante la conseguenzialità, dicevo: è importante che qual cosa, un certo giorno sia scattato nella testa di Molfese e di altri come lui e che abbiano recepito la lezione degli organizzatori dei concerti rock. Spet tacoli popolari a basso prezzo in luoghi di grande capienza: e soprattutto il teatro come luogo di divertimento, di gioia, e non luogo paludato, per gente benvestita, e nemmeno luogo « intelligente » per intellettuali alla ricerca di affascinanti mani festazioni visive o foniche. Così si spiega la tra sformazione di due grandi cinema (evento sto rico) in teatri: parlo del Giulio Cesare e del Bran caccio. Nel primo opera Molfese e presenterà come primo spettacolo L ’opera ’e muorte ’e famme di Elvio Porta con la regia di Pugliese. Nel secondo, mer, un Corrado Pani, un Massimo Ranieri, un Vittorio Caprioli, una Franca Valeri, un Paolo Stop pa... e tra un Ronconi, uno Strehler, un Trionfo, un Missiroli, uno Squarzina, un De Lullo, un Pa troni G riffi, un Guicciardini... Ma anche tra regi sti giovani. Accanto agli ex avanguardisti Nanni, Periini, ormai e, giustamente, arrivati nei grandi teatri, debutteranno al Quirino e al Valle, tre gio vani di cui si dice un gran bene: Giancarlo Sepe, Lorenzo Salveti e Marco Gagliardo. E anche un fatto del genere non era mai accaduto. Fuori Roma il boom si risente, per esempio a Firenze si apre un nuovo spazio, il Niccolini, che annuncia una programmazione ricca di grandi nomi: come la Ferrati. Luogo incerto rimane Milano: « a Milano si fanno i forni », questa era la voce che girava la scorsa stagione tra gli addetti ai lavori che quest’anno guardano la capitale del nord con molto sospetto. Ma in tutto questo parlare di teatro, di Roma europea, di nuovi spazi, di possibile pubblico nu meroso e plaudente, di intelligente politica dei prezzi (oggi andare a teatro costa quanto andare al cinema, e con poche migliaia di lire di abbonamen to uno spettatore può vedersi gli spettacoli che più gli interessano; l ’Eti ad esempio ha inventato l ’abbonamento scambio tra Quirino, Valle e Pa rid i), di Festa Popolare, di riprese televisive delle manifestazioni più interessanti (è prevista la regi strazione del Cyrano di Modugno, ad esempio) esi stono delle note fortemente stridenti e preoccupan ti. Che il teatro privato la faccia da padrone, que- Romolo Valli ne «Il gioco delle parti» una delle sue più riuscite interpretazioni (foto Le Pera) st’anno, è un dato indubitabile. Le iniziative più curiose e più rischiose, sono dei privati (vedi Tenda, Giulio Cesare, Brancaccio, Eliseo, Arti, ecc.) Se dunque bisogna ammirare per il loro coraggio e la loro spregiudicatezza certi impresari privati, bi sogna anche domandarsi cosa fa il teatro pubblico, non solo a Roma. Il teatro pubblico rischia di far acqua: non a caso, se qualcuno scorre i vari arti coli apparsi sui giornali in questi giorni che an nunciavano i calendari della stagione, può notare che la programmazione annunciata dagli Stabili viene relegata agli ultimi posti. Non ha banalità ma nemmeno toni eccelsi: Squarzina fa quello che si prevede da lui, Strehler anche, Missiroli anche e così via. Tutte cose di alta qualità, nessuno lo met te in dubbio, ma distanti da una politica di lungi mirante programmazione e di continuo rinnovamen to. Così ci troviamo nella situazione assurda di enti pubblici che dovrebbero inventare e sperimentare nuovi spettacoli e nuovi modi di coinvolgimento del pubblico e non lo fanno, lasciando lo spazio ai privati. E di privati che, rischiando in proprio, sapendo di muoversi su un terreno minato, accet tano nuove proposte, lanciano nuovi registi, fir mano ditte bizzarre, ma se l ’esperienza andrà male, sono pronti a rimangiarsi tutto e a tornare l ’anno venturo agli spettacoli sicuri (Pirandello per 'in tenderci, e Shakespeare e Molière...). E nessuno potrà dar loro torto visto che spendono il proprio denaro. Ecco perché il boom ha dei lati oscuri e peri colosi. Per una via di uscita duratura qualcuno pensa alle regioni, a teatri regionali. Dovendo fare cose nuove si potrebbero fare con fantasia e corag gio. Ma il discorso è lungo e complicato. Si devono mettere d’accordo le forze politiche e il rischio è sempre quello della spartizione e della lottizzazio ne, al di sopra dei programmi e della linea cultu rale. Meglio attente riflessioni che decisioni sbri gative. Infine qualche parola sull’autore italiano. Nel- l ’entusiasmo di iniziative del ’78 manca quasi com pletamente la drammaturgia nazionale contempo ranea. C’erano in cartellone più commedie di au tori italiani viventi ieri, in tempi di magra, che oggi, in tempi di boom. I motivi? È che mentre si inventavano iniziative nuove, si radicalizzava il ri luogo comune che i buoni testi non esistono, che se esistessero ogni capocomico sarebbe ben felice di metterli in scena, non foss’altro che per le agevo lazioni ministeriali. Scrivere per il teatro è difficile, e questo lo sanno tutti. È il momento della plura lità linguistica perché la scrittura teatrale è unione di scenografia, dialogo, gesti, musica, luci. La com media, per vivere, ha necessità di molte mediazioni: che sono l ’attore, lo scenografo, l ’elettricista, il fo nico, il regista, e poi lo stesso pubblico che ogni sera è in platea a ridere, a piangere, a fischiare o ad applaudire quella determinata battuta. Non esi ste mai un copione finito, come invece esiste un romanzo finito. Ma il tale attore, o il tale regista o il tale impre sario hanno l ’abitudine di leggere i copioni, di trovarli nel migliore dei casi carini ma ovviamen te da trasformare. E la trasformazione non avviene mai. Perché l ’autore si mette a riscrivere il testo, e poi lo riscrive, e poi lo riscrive, ma non va mai bene, perché è lontano dalla scena. Perché la ste sura finale deve avvenire in scena, perché nei pri mi giorni di prova si modifica questo o quello, ci si rende conto che una battuta sulla pagina bellis sima, recitata è invece banalissima... Ma ciò non avviene mai... Ecco dunque che si è costruita negli anni una tribù di frustrati con delle conseguenze responsabili: che una drammaturgia nazionale con temporanea non esiste e poiché la drammaturgia nazionale è alla base della cultura teatrale di un pae se, molto presto se ne sentiranno le conseguenze. E saranno in molti in quel momento a versar lacri me: ma saranno solo lacrime di coccodrillo. Franco Scaglia 1 9 7 9 R I N N O V A T E I L V O S T R O A B B O N A M E N T O A I L D R A M M A l a p i ù p r e s t i g i o s a r i v i s t a d e l l o s p e t t a c o l o i n I t a l i a I n o g n i n u m e r o d e “ I l D r a m m a ” - T e s t i i n t e g r a l i d i n o v i t à i t a l i a n e e s t r a n i e r e - L e r e c e n s i o n i d e i p r i n c i p a l i s p e t t a c o l i t e a t r a l i - T u t t e l e n o t i z i e d i t e a t r o , m u s i c a c i n e m a , t e l e v i s i o n e Nuova serie I D R l A Piazza in Campo Marzio, 5 - 00186 Roma A M M Italia S o ste n ito re annuo sem estrale Estero annuo sem estrale una copia L. 50.000 L. 15.000 L. 8.000 L. 30.000 L. 15.000 L. 1.500 Scrivere nella causale in STAMPATELLO il nome, cognome, dell'abbonato, e l’indirizzo con il CAP. I d a ti d e ll'u lt im a s ta g io n e O l t r e s e i m i l i o n i d i s p e t t a t o r i Dopo la breve stasi della stagione di prosa del 76-77, che fece registrare una flessione del 4% nelle presenze rispetto alla precedente stagione, quella conclusi a giugno ha fatto constatare un incremento del 14% delle presenze a parità dell’offerta di rappresentazioni. Le recite sono state 24.011. I biglietti venduti 6 milioni e 701 mila. Non sono compresi in questa cifra quelli del teatro per i ragazzi, la cui produzione è cresciuta del 20%. I teatri a gestione pubblica hanno avuto un incremento nella vendita dei biglietti del 32% a fronte di una produzione cresciuta solo del 9%. Lo Stabile di 'Genova, che ha visto 1 afflusso di 47 mila 821 presen ze in più rispetto alla stagione 76-77 e che nel bilancio ha un 43% dovuto alle sovvenzioni locali e statali ed un 57% ricavato dalla propria attività, chiude la stagione con un utile di 43 milioni. II teatro a gestione privata di fronte alla diminuzione della domanda del 2% ha fatto rilevare una forte diminuzione dell’offerta del 13%, che vuol però significare in parte la diminuzione dell’attività itinerante per una permanenza più lunga su quelle piazze che offrono una maggiore domanda. Le cooperative, infine, che dal 76-77 mancano de « Gli Associati » (entrati con 1 ATER a far parte del teatro a gestione pubblica) non hanno avuta alcuna flessione nell’andamento e quindi sono state in grado di compensare al proprio interno la produzione con la piena risposta del pubblico. Le statistiche dicono che il pubblico risponde. Il teatro, intanto, attende una legge di riforma per un rilancio definitivo. Prime indicazioni conclusive della Stagione 1977/1978 Numero Complessi 76/77 77/78 Numero Recite 76/77 77/78 dif. arit. dif. in % Numero Biglietti venduti _______________________________ djf_ ^ % 77/78 76/77 djf[ 8 11 2.422 Teatria gestione Pubblica _______________ I Cooperative Teatrali (*] 58 _______________ L i ______________________________________________________________________________ Comp. a Gestione l _____________________________________________________________________________ 1.043.000 1.382.000 + 339.000 + 32 1.682.000 1.678.000 8.496 — 16 + 207 2.629 8.513 + 9 4.000 — 56 7-801 6.708 —994 — 13 2.949.000 2.898.000 — 51.000 —2 Privata (*) 59 45 _______________ h ______________________________________________________________________________ Comp. Sperimentali (*) 204.000 284.000 + 80.000 + 39 + 255 3.738 3.993 + 7 67 65 25 24 _______________ L a ______________________________________________________________________________ C'pIratRagazzi (*) _______________ L i ______________________________________________________________________________ 5.879.000 6.701.000 + 822.000 + 14 TOTALI (-) Confrontando i dati dal n. 1 al 4 le presenze si sono incrementate di __________________________________________364.000, + 6%.________________ r*i | dati 77/78 sono incompleti. (”) 6.242.000 per i nn. 1/4. 24.111 —269 — 1 n.c. 458.000 — — 24.380 + 378 2.284 1.906 + 20 202 192 X X X <*• \ X \ X TERRORE E MISERIA DEL TERZO REICH di Bertolt Brecht Regia di Luigi Squarzina. Interpreti Ivo Garrani, Rosa Di Lucia, Anna Maestri, Toni Ucci, Relda Ridoni, Claudio Sora, Stefano Ve- scovelli, Vittorio Congia, Adele Pellegatta. Scene di Uberto Bertacca. Ai primi del 1938, un editore di Praga stampava « Terrore e miseria del Terzo Reich », ma l'arrivo del le truppe hitleriane impediva la diffusione dell’opera. Trent'annl dopo, un'altra invasione, proveniente dalla parte opposta, avrebbe ripetuto lo strangolamento del la cultura. Mi pare questa la migliore accoglienza che, nel riconoscere lo contemporaneità di fondo, possa darsi al primo allestimento italiano al testo di Bertolt Una foto d’insieme di « Terrore e miseria del III Reich » Brecht, più che con lo agitare i fantasmi duna sorte italiana. Non siamo ancora la Repubblica di Weimar, e la « degenza capitalistica » non è il più incombente dei nostri mali. Infine, la storicità del testo brechtia no, variamente risolto sul piano artistico, non può non offrire che indirettamente e mediatamente spunti per allargare il discorso sulle responsabilità degli intel lettuali, per esempio, e suN'etica del « no ». Direi, an zi che gli intellettuali in sofferenza in molti partì del mondo hanno risposto bene a Brecht, non ne hanno lasciato al deserto gli ammonimenti. E, insomma an- ch'essi giustificano che lo si rappresenti. « Terrore e miseria del Terzo Reich » fu scritto dallo « scalpellino in esilio » fra il 1933 e il 1938, partendo da fatti che accadevano in Germania e dei quali veniva a conoscenza in Danimarca o negli altri Paesi in cui si fermava in quegli anni inquieti. Si tratta di un « montaggio » di trenta scene non coor dinate, e fruibili a piacere. Tante vero, che tutte le rappresentazioni del lavoro — spesso affidate a di lettanti — hanno avuto come premessa una scelta tra i ventiquattro quadri della stesura definitiva, scel ta motivata da possibilità teatrali, convenienze politi che, interessi culturali. E’ stato rilevato che il Ber- liner Ensemble, il santuario brechtiano, solo nel 1957 e solo usando dieci quadri allestì — per modo di dire — il dramma in questione. il livello di vita materiale dei tedeschi nel primo quin quennio del devastante raid nazista. Ma questo — questa rapina al popolo minuto per avviare la mac china degli armamenti — sta sullo sfondo rispetto a Ivo Garrani e Stefano Vescovelli in «Terrore e miseria del Ili Reich» quel « reportage » su un angosciante rovinio delle co scienze, che il Terzo Reich perseguì e attuò. ideologici, né egli deve mettere in scena i potenti. Basta qualche loro servo, e se ne può fare anche a meno, perché è il clima di terrore, è la spietatezza dell'indottrina mento a terremotare le coscienze, dividendosi un popolo privato di autentici ideali in due classi: i car nefici (e i complici per essi radunati dalla paura) e le vittime. Nel campo d'osservazione brechtiano sono gli intellettuali, la piccola borghesia, gli operai. Per le prime due categorie, la deformazione spirituale è raccontata attraverso l’ironia, con un garantito diver timento tutto affidato all’arguzia dialogica in assenza del movimento, dell’azione. Salvo sospendere in una amarezza velata ma estrema (vedi « La moglie ebrea »), in cui si nota anche una pietà profonda, il caso di una lacerazione coniugale, dove un esito del razzismo è anche l'egoismo individuale. L’opera, dunque, si aggira nel « privato », senza generali o eroi, ma solo militanti delle Squadre d'As- salto e cittadini comuni. Solo lo sguardo va a uno struménto di potere corruttivo, ed è quando l’accusa •— antiveggente — è portata ai mezzi di comunicazione di massa — la radio, i gior nali — come veicoli di una manipolazione delle menti. « Terrore e miseria del Terzo Reich » non raggiun ge la qualità poetica di alcune altre delle opere tea trali scritte da Brecht nel quindicennale esilio. I gran di capolavori sono altri, ma è certo che il lavoro con tiene alcuni piccoli capolavori: i quattro quadri, intan- Un esterno e ventitré interni per raccontare Non occorrono a Brecht discorsi l’uncino che estrae in due momenti to, che sono dei veri atti unici (« La croce col ges so », « La moglie ebrea », « La ricerca del diritto » e « Lo spione », dove sono aree comiche assolute, astratte e cariche di minaccia), e almeno il breve schizzo di « Soccorso invernale », che sta nel novero dei quadri dedicati ai proletari, nei quali il didatti cismo pesa, e la scherma satirica di Brech non trova posto per l’ispirazione. Su quest'opera si sono accese anche discussioni circa uno svincolamento compiuto dall'autore nei con fronti delle sue teorie sull'epicità. Si è visto un ri torno alla tradizione, nella costruzione di talune figu re. Il tema può attrarre i teologi del brechtismo, non chi abbia cara soprattutto la libertà creativa, e chi cerchi invece di capire, se l'adozione di formule di verse risponda o meno a criteri di necessità. Nel ca so specifico, quale alternativa ai modi espositivi, che appaiono di bruciante incisività, di brutale eloquenza, di viva e tonda rappresentatività. Si consideri che qui Brecht, per così dire, riferisce, annota gesti, compor tamenti, « dal vero », lasciando che essi diano la mi sura di uno sfacelo morale, dal quale pochi sapranno salvarsi, col rifiuto. Come non tenere conto, infine, del linguaggio di questo lavoro nei suoi livelli e nelle sue adozioni, dominate da un intento di spietata de mistificazione? La prova dello spessore del dramma e dei suoi punti lirici viene dallo spettacolo realizzato da Luigi Squarzina per il Teatro Stabile di Roma. Il regista ha scelto, con criterio ineccepibile, diciotto dei venti- quattro quadri, alcuni raggruppando per l’affinità dei protagonisti; l'impianto prevede anche il montaggio incrociato, e con bell’effetto, di due scene in cui agi scono fisici e chirurghi. La sistemazione compiuta è ineccepibile, e l’arco della rappresentazione, che include anche una pertinente « ballata delle S.A. », del 1932, è di ottimo disegno. Nel merito lo spetta colo adempie il compito informativo generale, lo scrit tore di Augusta ne rispetta e tramanda, senza for zature e appiccicati « aggiornamenti » il messaggio, nello stesso tempo sfrondandolo delle parti caduche, e ancora ne interpreta la fondamentale e non eludibi le ragion teatrale, senza debordare nel divertimento a fondo perduto. L'impianto scenico è grandioso. Lo scenografo Uberto Bertacca ha trasformato il palco dell’Argenti na in una enorme camera mortuaria, nella quale via via squillano sino al kitsch, o raccontano miseria, gli arredi e gli spezzati. La monumentalità nazista intinta di lugubre nero sovrasta questi piccoli uomini, che si smarriscono o perdono il discernimento, agitandosi in una rete sempre più stretta. Lo spettacolo è tutto tagliente e severo, di una i11ustratività ricca nella fedeltà. Non si arrovella, ma illumina e colpisce. E la recitazione è fluida e con creta, porta con sostenutezza alle fulminee conclu sioni. Vedi la bravura di Ivo Garrani svelarsi nella figura, non ignara di una piega drammatica personale, del giudice: un pezzo per grande attore eseguito con lucido impeto. 0 la sensibile modulazione dell'Imper via figura della moglie ebrea condotta dalia più che promettente Rosa Di Lucia, attrice per evidente voca zione e di talento. O le sofferte popolane di Anna Maestri. O le duttili e persuasive delineazioni di un limpido Toni Ucci. O la maschera forte e l'asciutta pronuncia di Relda Ridoni, per non tacere di Claudio Sora, del corposo Stefano Vescovelli, deH’ameno Vit torio Congia, di Adele Pellegatta e dei loro compa gni, tutti ben definiti. implacabilmente mito di stupori e di domande. Di quale destino e di quale civiltà era l’alba. Qualcuno concludeva, chie dendosi se c'era poi un destino, una costruttibiIità del mondo. La crisi dell'individuo borghese, nel dopoguerra precedente, ora si po neva come crisi dell'essere, sotto un cielo vuoto. Il celeberrimo testo — ma non il più bello, e nemmeno l’ultimo traguardo filosofico — di Samuel Beckett viene ora presentato dal Piccolo Teatro. L’istituzione, stata quasi fedele al teatro della ragione, apre adesso al teatro dell'assurdo? E che cos’è: una commemorazione? O è l'ini zio di un discorso sull'altro ver sante della drammaturgia europea, quella che confina con i problemi dello spirito, quella che conduce dalla storia alla metafisica? Ri sponderanno i fatti (che per il mo mento, però, non intravvediamo) al la legittima curiosità: se questo allestimento sia, cioè, in un orga nico piano (di solitaria elaborazio ne) di risposte articolate alle istan ze della comunità, o se sia stata solamente l’occasione per l’uscita in campo aperto di un giovane vo tatosi alla regia. Peraltro, pare a me di poter con siderare un sottile legame segre to, tra Beckett e Shakespeare, di cogliere nella loro contemporanei tà (« La tempesta » e « Aspettando Godot ») un segno, che si confor ta con le immagini-matrici di « Re Lear », e che sembra configurare un discorso da « teatro della do manda », coinvolgente ciascuno. Il dibattito, quindi, se la ricerca pro seguirà, dovrà vertere sulle rispo ste scelte come messaggio. Una opzione di testi, attendiamo, non candidati alla classicità, nudi di genealogie e di corredi, bensì testi moni del tempo; cavalli del rischio e dell’imprevisto, documenti imme diati persino da bruciare. È l'oggi che abbiamo bisogno di riconoscere, perché ne riceviamo patente a un nostro motivato e di gnitoso esistere. È dei giorni che, oggi, dobbiamo convincerci, per il futuro, basta la fede, e c’è chi si accontenta della utopia. Questa fame di un ordine, di una spiegazione immediati rende remo te, in una certa misura, proposi zioni appena ieri sconvolgenti, ci distacca da posizioni che, per l’af flato intenso della pronuncia, in sinuavano in ciascuno un tanto di ASPETTANDO GODOT di Samuel Beckett Traduzione: Carlo Frutterò Regia: Walter Pagliaro Interpreti: Renato De Carmine, Ti no Schirinzi, Piero Di Jorio, En nio Balbo, Luigi Ottoni Scene: Enrico Job Musiche: Renato Sellani « Aspettando Godot » fu scritto trent’anni fa. In tempo di fiorente esistenzialismo e di entrata in cam po dell’assurdo (Sartre e lonesco, primi riferimenti), in un mondo ap pena dilaniatosi e senza guida. Gre Piero Di Jorio, Ennio Balbo, Renato De Carmine e Tino Schirinzi in « Aspettando Godot » (foto Luigi Ciminaghi) sconcerto. Si vuol dire che questo « Aspettando Godot » non ci ha messi in stato di attesa, ma è di venuto un oggetto, e che Vladimiro ed Estragone ormai rappresentano solo se stessi, e comunque un punto nella storia di uno scrittore e delia sua opera. Il fatto è — ab breviamo — che il mondo sembra essersi intanto inserito nuovamente in una Storia e in un Disegno, e fa di essi i termini di un confron to; lo sforzo vasto è di ridisegnare dei valori, è di accorpamento e non di distruzione. Perciò, sentiamo che a Vladimiro e ad Estragone avremmo qualcosa da dire e che non è necessario insistere crudelmente a lasciarli nella landa allucinata ad aspettare chi, d'altra parte, è già venuto. (Se questo Godot è Dio, come Beckett stesso non hai mai ammesso). Non rimane che parteggiare per l'agonismo della nostra coppia, per l’intrepidezza sottesa — che è ri conoscimento dell'uomo — per la speranza di salvezza che, nel moto e nel silenzio, nell’attesa senza fi ne che appare così prossima allo scacco, essi mantengono in statura eretta e coi pantaloni tirati su, e con la residua eleganza della loro bombetta clownesca. Essi non san no nulla di Godot. Sono stati chia la prima battuta. « Andiamo » è l’ultima, dopo la tentazione d’impic carsi e dopo l’ostinata convinzione di Vladimiro, che Godot, domani, venga, sicché saranno « salvati ». Termine, questo, di evidente pre gnanza simbolica. La commedia ha esercitato gli ingegni per una de crittazione che non è venuta. Le ipotesi di spiegazione si intreccia no in una stuoia impraticabile. For se, l'unica necessità è quella di as sistere a questo combattimento, cogliendo un clima gravido di inter rogativi, e l'assenza seconda, quel la di un maestro. Perché Beckett neppure possedeva la chiave. L'altro diletto non può non con cernere l’opera letteraria in sé, le sue strutture linguistiche, la sua circolarità, il tema del tempo, la comicità circense e quant’aitro è escogitato attraverso questa strana irriducibile coppia, che proprio a tale assemblaggio sembra fermarsi l'unica certezza, che è quella, quan to meno, di sopravvivere. Direi che il positivo etico è in questa bal bettante ed inconscia consapevo lezza che l'altro è una parte im prescindibile di te. Accattivante nella ambiguità e nel taciuto, tenera e minacciosa, te sa nella suspence o sciolta nella gag, « Aspettando Godot » lungi Un'altra scana di « Aspettando Godot » (foto Luigi Ciminaghi) mati ad un appuntamento, davanti a un albero. È stata la risposta vaga — dunque, qualcuno c’è sta to — a una supplica. Una seconda risposta sono pure i cinque fiorellini che spunteranno sull’albero. Segno di vita, segnale di presenza, « Niente da fare », è dal codificare ¡1 nulla o dal sanzio nare la morte, tiene alta la fronte dell'uomo. Qui, la partita non è fi nita. Ad illustrarla si dedica il ven tottenne Walter Pagliaro, figlio in arte di Giorgio Strehler. Il Pagliaro, come ogni altro regista, aveva un campo di manovra piuttosto ristret- inclinato to di ifc ssidue dida: sceno- graficne e di movimir j e di toni immesse nel dialogo dall'autore. Egli sembra, inoltre, spontaneamen te essersi rivolto al lavoro teatrale, più che alla esegesi ed alla prefe- renzialità per uno o per l'altro ca nale. Il punto che ci pare sottoli neato, e attraverso la scenografia, che è un bellissimo gioco di geo metria, è quello della Inesaustività del testo, del suo essere un conti nuo ricorso, una ripetizione nell’im mobilità della condizione. C'è dun que una sottolineatura della cru deltà esistenziale, e nei personaggi una specie di asprezza difensiva, e di rifiuto del martirio con tutte le risorse. La scena dicevamo: un a- nello di ferro, che dal soffitto del palcoscenico scende in platea (« cielo » astronomico e cer chio dantesco) imprigiona una pe dana circolare, che è ben la terra, sospesa in una neutralità siderale, ma anche arena provocatrice, sfida continua. Sfida perpetua e senza soluzioni, come sembra ancora al ludere la scena, con quel cerchio che è visibilmente un orologio del tempo reale assimilato da quello della recita (e si ritorna a « La tem pesta »), e scandito da un faro in movimento; il suo arrestarsi è provvisorio, in attesa di una nuova e medesima avventura umana e teatrale. L’andamento recitativo è di vali dissima corposità, e quindi si e- nuncia il merito del Pagliaro,, la sua padronanza del mezzo e la fermez za della sua visione scenica. Gli attori sono eccellenti punti di rife rimento di un gioco teatrale che è racconto e angoscia del vivere. A Tino Schirinzi, (Vladimiro) at tribuiamo una limpida intelligenza strategica, una severa nozione del dovere umano dentro una contro versia radicale; a Renato De Car mine (Estragone) il perfetto dosag gio di carnalità e di smarrimento; a Piero di Jorio (Lucky) una nevro tica sensibilità di peso drammati co; a Ennio Balbo (Pozzo) un cali brato mestiere. Il ragazzo è Luigi Ottoni. Molto pertinente la musica di ispirazione jazzistica di Renato Sellani. La traduzione, di Carlo Frutterò, tiene conto delle due ver sioni — la francese e l'inglese — del testo, con qualche forzatura terminologica. Anna Maria Guarnieri ne « La Duchessa di Amalfi » (foto Maurizio Buscarino) LA DUCHESSA DI AMALFI di John Webster. Traduzione di Giorgio Manganelli Regia di Mario Missiroli Interpreti: Anna Maria Guarnieri, Glauco Mauri, Giulio Scene di Lorenzo Ghiglia Costumi di Elena Mannini Musiche di Benedetto Ghiglia Brogi, Mario Valgoi. L'elisabettiano John Webster, che con i suoi col leghi — bettole a parte — condivide una scheda ana grafica avarissima di notizie, ha per proprio conto la sfortuna d’una critica divisa, e tale in rapporto, con veniamone, con la capacità (del critico], di non par lare di lui sospirando perché non è Shakespeare, e, invece, di cogliere nel suo modo, nel suo stile, i se gni di una burrasca generale, d’ordine filosofico. Una diversità importante, quella di Webster. E conforta la tesi questa « Duchessa di Amalfi », ora allestita a Torino. A parte la mediocre spiritosaggine di uno Shaw che si sbriga dei personaggi di Webster come di ceree figure da museo di Madame Tussaud, si con tano diverse letture ora generiche ora parallele, sino a quella fortemente riduttiva di Gabriele Baldini in quello che è il saggio più completo di un anglista italiano sull’autore elisabettiano, da lui praticamente accusato di insufficienti motivazioni, di inattinti tra guardi di universalità, di fallita aspirazione alla tra gedia pura. Ma c'è un altro versante critico, che dà una ma no a penetrare il mondo di Webster, il quale ci affida la « Duchessa di Amalfi » insieme con il precedente « Il Diavolo bianco », della seconda decade del 1600. Per tutti, Giorgio Melchiori con le diciotto paginette rintracciabili nel volumetto che raccoglie lezioni di studiosi diversi tenute a Vicenza nel 73; basti la conclusione: « Le due grandi “rappresentazioni lut tuose” di Webster sono dunque teatro della crudeltà, ma non sono esibizioni di violenza gratuita: quel che le rende valide allora come oggi è che la crudeltà è vista in funzione dell’esercizio del potere ». Sono parole con le quali, mentre si fa giustizia di una corriva sistemazione di queste opere nel ge nere del « teatro della vendetta » caro agli spettatori londinesi e non malamente coltivato da parecchi au tori, per altro verso si imposta una ricerca seria di lettura, che muove dalla considerazione che, alla base delle sinistre visioni e delle azioni efferate, sta un rapporto di Webster con la vita. Che l’artista poi prevalga e si addivenga alla mera « rappresentazione » è forse vero sino ad un certo punto; che l’aspetto politico s'accampi esclusivo può anche essere non esaustivo (anche se è evidente) e meno ancora frut tuosa un’insistenza sulle differenze d'ordine sociale; ma abbiamo una serie di stimoli e di intuizioni, che fanno ripensare alla vastità e profondità di sguardo di Una Ellis-Fermor, quando nel suo ormai lontano saggio sul dramma giacobiano definiva Webster come il drammaturgo che più chiaramente degli altri ave va percepito io stato di caos e di conflitto in cui la sua generazione era caduta (e Shakespeare ne aveva dato le avvisaglie, aggiungo qui), mostrandosi inca pace di uscire dal profondo buio. La vistosa tragedia degli onori, ricca di fantasmi e di eccessi, anziché essere un esercizio di sbalor dimento, ecco che si rivela la confessione di una inquietudine, la deposizione di interrogativi esisten ziali in senso lato, cui Webster stesso non sapeva dare risposta. E allora, controluce, il dramma da leg gere attiene alla metafisica, ben oltre gli accidenti scenici e di » mestiere ». « Un apologo, scarno e ter ribile, sul Male », scrive acutamente Guido Davico Bonino, approfondendo una frase di Alfredo Obertello. E aggiunge: « ... come portato insopprimibile del Po tere ». Ne deriva, che non ci sono più, secondo quest’ot tica, vincitori e vinti, buoni e malvagi: ma vittime in distinte e variamente consapevoli di un destino tutto e soltanto negativo ». Non so se la negatività è dav vero sigi Matrice dell'opera. Qualche buono è pur ri masto, ìe stelle brillano ancora. E, se si può colle gare il Male al Potere, resta vero che l’uomo ha una sua zona riservata e intoccabile. Proprio la figura di Bosola ci svela la libertà deH'uomo, la sua diversa e alta sudditanza e dignità, la sua possibilità di nefan dezze ma anche di redenzioni. Questo Bosola, dalla fedeltà di nazista (ecco un inaspettato tocco di con temporaneità], questo servo prono ad ogni bassa ese cutività, che però possiede, col suo cinismo melan conico, la capacità di pensare e di mutare. Il suo di sprezzo del mondo — che è poi il clima del dram ma — diviene a mano a mano il disprezzo di se stes so, il progressivo allontanarsi dell’animo dalla mec canicità delle azioni, infine il tentativo di salvarsi, nel recupero delle pietà. La pietà come residuo mezzo di comunicazione col prossimo, in una triste età omi cida. La pietà come superstite strumento per ricono scere la comune umanità. Se entriamo in quest’ordine di idee, acquista ben altro sapore la vicenda che vede la Duchessa d'Amal- fi, giovane vedova, compiere una « trasgressione »: sposarsi segretamente con Antonio il virtuoso mag giordomo (o meglio, col sovrintendente alla sua Ca sa); di qui le ire dei fratelli: il Cardinale, esemplare perfetto di « politician » machiavellico, e Ferdinando, Duca di Calabria, a lei gemello e, per questo sangue condiviso, legato da una latente, morbosa gelosia. In quel luogo eletto di intrighi e delitti cortigiani che fu l'Italia rinascimentale, si consuma — tra Amalfi, Ro- Glauco Mauri ne « La Duchessa d'Amalfi » (foto Maurizio Buscarino} ma, Loreto e Milano, e siamo agli inizi del Cinque cento — la vendetta: dopo sottili torture, tra appa rizioni e contatti terrificanti, la Duchessa è strango lata, e uccisi sono due suoi figli e la serva. Esecu tori, un Bosola ormai consegnato ai potenti ma an che ormai staccato dai propri atti, uno e due. Poi, la mano efferata e l'irrefrenabile voluttà di risarcimen to dell’onore violato (c’entra anche la disparità di gra do sociale tra i coniugi) si spostano a Milano, per l’ultimo atto, ossia la eliminazione di Antonio. Ma il destino darà scacco matto: Bosola ammazza sì, ma per incidente, Antonio, e volutamente invece il Car dinale e l'impazzito Ferdinando. Il laccio è spezzato. Egli può morire a sua volta, di una morte che è, so stanzialmente, una cercata espiazione. La tragedia (che tale è, e proprio per le implica zioni di universalità ora chiare) di Webster dipana i suoi quadri come una galleria di affreschi fiammin ghi; e se Shakespeare (ci si casca, inevitabilmente) lasciava liberi e arbitri di se stessi i suoi « villain », qui sentiamo l'autore più presente, quasi un invisi bile coro che commenta e suggerisce, e trasferisce questo suo sentimento della vanità delle cose uma ne, di tutti i desideri e i propositi, buoni o cattivi che siano. Se « La Duchessa di Amalfi » è tragedia della ven detta (e non è tragedia della strage di Stato), lo è della misteriosa vendetta del fato sui disegni indi viduali; è la tragedia di una tardiva e sanguinante giustizia realizzata in un modo in cui l’autore è de bole, di fronte alla malvagità arroccata nel sistema. E tuttavia... La remota novella di Matteo Bandello, dunque, s'è ben intessuta di implicazioni, nelle ma ni di Webster, che non a caso propone una corte (quella del rinascimento italiano, di pessima e non ingiustificata fama) al nuovo pubblico londinese, che è venuto cambiando di qualità, o per meglio dire di ceto e censo (vi si adeguano anche i Beaumont- Fletcher). E il testo nuovo, ora, è carne teatrale, di tanta sanguigna presenza, da far pensare cattivi pensieri, circa una opportunità per i saggisti di commedie di passare, qualche volta, dalle parti di un teatro. Ed ecco l'allestimento della tragedia, impervia per il suo procedere tecnico e per il suo supposto essere « fuori moda », che tale diventa solo in quanto una sordità spirituale dello spettatore lo escluda dal par tecipare ai delicati problemi ed alla drammatica mo ralità che essa contiene. Il regista è Mario Missiroli, il quale mi pare che qui raggiunga (quasi del tutto) una fusione tra le ma tematiche cadenze e l’indagine strutturale compiuta in « Verso Damasco » di Strindberg e le sue prece denti predilezioni per il grottesco e la dissacrazione. L’idea fondamentale è quella già indicata del Male connesso col Potere; ma non si cede davvero a con sunti stilemi di rozzo ideologismo, ché anzi il regi sta par dare forza ed eloquenza proprio ai punti dove ha voce o il puro dolore o la nascita e la rivolta del la coscienza: insomma, dove tra i casi enormi e le vistose crudeltà affiora il Male come mistero. Corre pertanto, per me, nello spettacolo, un filone di reli giosità: o almeno, esso offre appiglio a riflessioni di tale ordine. E religiosità quivi è, per forza di fatti, sentimento deH’inferno, di un inferno corposo e balenante, ghi- gnante e contraffatto. Che non necessariamente è quel luogo laggiù e sotto, ma che è qui, sopra e at torno. L’inferno è la Corte (la terra), e i diavoli vi pullulano. Ma sono ignari di esserlo, perché sono nel contempo delle vittime anch’essi. Di qui una loro condizione assurda, che va tradotta in termini grot teschi. Tale luce è pertinente alla natura del testo, neppure estraneo a suggestioni melodrammatiche. Il grottesco è disvelatore di verità. Fa cadere le maschere. Ed ecco il grande avvio, coi personaggi sommersi dai loro « esagerati » costumi, e coi visi caricati di colori, che stanno congelati frammezzo a statue non liete e a mascheroni; si scioglieranno via via, faticosamente, all'ingresso del Bosola, il corti giano a tutto servizio, che è il Cattivo, che sembra un Mefistofele intrigante, ma che sempre più si pre cisa come figura filosofeggiante e poi come protago nista, in quanto unico pellegrino verso l'identità della propria coscienza. Tutta l'azione si svolge dentro un cubo rotante, che è stupenda creazione di Lorenzo Ghiglia, il suo capo lavoro. Questo edificio, mentre richiama nelle strut ture un modulo lecorbuseriano, dentro svela una di sposizione di luoghi deputati che, per essere separati tutti da inferriate, dichiara l'idea del mondo come carcere, abitato insieme da carcerieri e vittime. E dentro, coi personaggi vivono statue ossessive, di pro porzioni e atteggiamenti nordici, che concorrono a quella pertinente irridente, minacciosa, Carlo Simoni, Anna Maria Guarnieri e Patrizia Giangrand (foto Maurizio Buscarino) stravolta, ossessiva, che suol definirsi fiamminga e che da tempo la critica ha ritenuto consanguinea a questo teatro, solo esteriormente però granguigno lesco. Questa macchina scenica è coprotagonista dello spettacolo, tanto lo governa, lo intride e « parla ». Per un tratto, poi, montata da una copertura in nudo edificio manicomiale, sarà struggente emblema di mi seria e di patimento. I suggerimenti alla mostruosità e al visionarismo non sono certo trascurati dal Missiroli; però trasfor mati in sillabe di un discorso che converge al fuoco morale di una voluta epifania di vizi, che il nostro ri fiuto violenta, per così dire, e, narrandoli, deforma. L'apparato comprende i costumi stupendi interminabi li di Elena Mannini, genialmente acconci a rappresen tare un vuoto ben dipinto, una gonfiezza malata, un reame di appariscenze. Lo spettacolo, rispetto a Spoleto dove esordì, è stato un poco raccorciato ed anche liberato di alcune ridondanze. Lo trovo compatto nel coinvolgimento sin tattico di tutte le componenti e di severissima e coe rente idealità. Esso dichiara senza compiacimenti il marcio, scruta le difficoltà dell’animo, canta la sof ferenza. La prima parte del secondo tempo, tutta de dicata all'agonia spirituale e fisica della Duchessa, è di limpido strazio, è di rarefatta scansione delle sil labe ultime e smarrite del dolore. Un punto oscuro e probabilmente stonato è quello dei tre pazzi che figuratività fanno l’opera; nell'ultima scena c'è un più di incli nazione al comico. E qui incalza la citazione degli attori chiamati ad una sottile recitazione critica, ad una ampollosità consapevole, di freddo ed inquietante divertimento. Un taglio che non si esaurisce nella ripetitività atro fizzante sia perché nutrito di balenìi interiori, sia per ché contrappuntato dal diverso stile di Bosola, che si oppone alla regola asservitrice con l'esercizio del l’intelligenza e si pone come rivelatore e sperimen tatore del sistema. Spicca una mirabile ricognizione della natura e dell’Insufficienza basilari della Duches sa compiuta da Anna Maria Guarnieri, la quale poi cambia registro, nella fase di disgrazia, elevando il personaggio all’assoluto tragico. L’acme è toccata nel quadro in cui ripete, denudati, i gesti gonfi e burattineschi del tempo delia fortuna. Non diversa la forza creativa di Glauco Mauri, che a Bosola dà un esauriente spessore, la più sensibile ambiguità, e che dimostra la propria autorità mantenendo l’unità sua e dell’opera sopra tutte le alternanze di toni grotte schi ridicolizzanti. Un Cardinale di grande risalto è realizzato da Ma rio Valgoi, che scolpisce una figura di cruda perfi dia, di soffocante demonismo, con perfetta misura di voce e di gesto. Vivido è il Ferdinando erompente di Giulio Brogi, da registrare un momento nella zona in cui si devono indicare i segreti del personaggio, una sua muta devastazione interiore. Più che corretto è Carlo Simoni. I comprimari sono efficaci, ma siamo un pò sul ... risparmio. Alla traduzione diligente di Alfredo Orbetello e a quella perspicua di Mario Praz segue adesso quella di Giorgio Manganelli, con le sue decisioni originali e soprattutto con la sua creatività sul piano lingui stico. Fedele o quasi, comunque ci restituisce un re spiro nervoso, una icastica drammaticità. LF FFMMINE PUNTIGLIOSE di Carlo Goldoni Regia: Giuseppe Patroni Griffi. Interpreti: Lina Sastri, Cristina Noci, Ezio Marano, Franco Acampora, Fulvia Mammi, Cecilia Pollzzi, Mariano Rigido, Nestor Garay e Elio Pandolfi. Scene e Costumi: Gabriella Pescucci. Il silenzio teatrale che — la Biennale da un lato e la pigrizia intellettuale dei rissosi amministratori dall'altro in non esemplare duetto — Venezia pati sce da anni e sempre aspettando la riapertura del « Goldoni », trentanni dopo, è stato interrotto da una iniziativa corsara che, languendo le forze locali, ha fatto ricorso all'estero. Ed è arrivato il teatro Eliseo, a proporre alla Fenice, quello che dovrebbe essere pane quotidiano: Carlo Goldoni, appunto. Ecco le sue « Femmine puntigliose », una delle quattro più riuscite nel concerto di sedici commedie impegnativamente spese per dare corso alla riforma, anno 1750. Furono date a Venezia — dopo un esor- Elio Pandolfi, Mariano Rigillo e Fulvia Mammi ne « Le femmine puntigliose » (foto Le Pera) dio mantovano — per otto sere. Con scarso « incon tro », onestamente ricorda l'autore, che poi cerca (nella prefazione) di spiegarsi la fortuna mancata qui, non altrove. Un anno prima, ricordiamolo, era stata introdotta nella Serenissima la censura. Le parole del l'autore sembrano coprire male la sua intima consa pevolezza di avere colpito nel segno, ma soprattutto di avere innescato una miccia polemica a largo rag gio. Il beH'argomento adoperato è che la nobiltà vene ziana non poteva, virtuosa qual era, correre II rischio di riconoscersi nei tipi rappresentati, e che quindi una critica di costume rivolta ad altri non poteva interessarli. Forse, invece, questa nobiltà, non diret tamente proclamata, avvertiva un disagio per l’essere stata comunque messa in scena come classe; e che, in ogni modo era ferita la categoria. Dentro di sè, sentiva che il nuovo, vero padrone era Pantalone. Di là dal costume, doleva l’interesse toccato. II punto, dunque, è l'« altrove ». Che nella prima stesura era Firenze e poi, per un’aggiunta significa- tiva di prudenza, divenne Palermo. Una Palermo ben incerta circa il proprio meridiano, anzi parallelo, se l’unico dialetto che vi si parla e ascolta è il vene ziano naturale di Pantalone, ribadito da quello pur meccanico di Brighella! Nella città remota sono arrivati il giovane e ric co mercante Fiorindo con la sposa Rosaura, intestar ditasi a voler entrare nella conversazione delle Da me. Una d’esse si farà mezzana a pagamento, ma il puntiglioso rispetto delle norme di comportamento, le la gelosia di una casta chiusa e immobile non curiosa e ambiziosa, tesa verso uno « status Symbol » in esperienza: Rosaura è salvata, nonostante gli ap prezzamenti sulle donne formulati dallo scapolo Pan talone. Il marcio, dunque, prima nel nido dei nobili, dove si estenua un perfido chiacchiericcio di anime morte. Dal negativo al positivo. Il caso della mercan tessa serve per tutta una serie di affermazioni circa la funzione civile della classe mercantile, la quale conserva e tramanda un patrimonio di virtù, che è poi il corredo iIl-uministico della cultura goldoniana. consentiranno l’accesso, e le accumuleranno addosso tante umiliazioni; esasperata, e liberata dai propri va ni desideri, Rosaura spiattellerà ruvidamente alla con grega femminile la realtà dei fatti e delle spese so stenute, procurando l'enucleazione di Beatrice e del suo cavalier servente dalla società dei nobili. Che il finale, astringendosi a responsabilità indi viduali, può sembrare riduttivo. La commedia mette in gioco molto di più. In fatto di rapporti di costumi, di identificazione sociale, dal Masi all’Ortolani al Daz- zi al Fido, è stato messo in luce il carattere di de nuncia, è stata rilevata la forza di certi interventi di esplicita protesta. Il disegno dei gruppi di nobili ba^ta da sè a prendere delle distanze: fannulloni, corrotti, formalisti li descrive Goldoni che con ragione non ricorre ad enunziazioni generali e superflue. Quanto a Rosaura ed alla sua pretensione di sca lata sociale, si noti che il Goldoni non l'approva, ovviamente, ma non ne fa un personaggio deriso, e trasforma anzi il soggiorno palermitano della giovane « Le femmine puntigliose »: Una Sastri e Mariano Rigillo (foto Le Pera) Qui ebbe ad osservare finemente Mario Baratto, che Pantalone tende a « definirsi in una polemica diver sità dalla classe aristocratica, ma non in contrasto con essa nell'ordine sociale »; insomma, è la coscien za di un ruolo autonomo e portante, che detta il rim provero alle smanie salottiere di Rosaura. Ma Pan talone è anche un segnale linguistico; la sua parlata diversa recupera tutta una genuinità, tutto un valore di comunicazione, cui l’anonima e indifferenziata lin gua rituale dei nobili non poteva attingere. Ma Pantalone non ha soltanto questi tratti: il suo sguardo abbraccia l'intera realtà: la sociale come la familiare. E davanti a lui non sta soltanto la congrega dei nobili, con le sue miserie materiali e spirituali; stanno anche gli infimi, i servi, e in loro difesa dirà le parole più vigorose, raccolte come una eco da Flo- rindo in una battuta inopinata: « Tutti gli innocenti oppressi gridano vendetta contro i loro oppressori ». Non è davvero un’espressione morbida ed eviden temente Goldoni ha voluto che fosse detta, quasi per l'ingiustizia, indignazione contro concludere il suo non rassegnato discorso. C'è della rabbia, in queste « Femmine puntigliose »; direi an che, che la rabbia ne determina il tono, perché intride e compromette tutte le relazioni, viene continuamente sfogata. Essa si trasforma in positivo, allorché di viene la violenza, la vendetta. « Pregiudizi, errori, pazzie! », esclama Pantalone. L’incontro con questo abbandonato copione, per corso da asprezze e agitato da sommovimenti etici, avviene — dicevamo — per tramite della Compagnia di prosa del teatro Eliseo di Roma, diretta da Gior gio De Lullo e Romolo Valli, invitata qui dall'Istituto di Cultura di Palazzo Grassi. L'ufficio registico è svol to da Giuseppe Patroni Griffi, la cui lettura snoda le « Femmine puntigliose » in una scansione di quadri di gelida denuncia, di graffiante delucidazione. Il nudo apparato scenografico di Gabriella Pescucci — pro tagonisti lo spazio e la luce in campiture geometri che; sedie fuor da ogni databilità; ingombro, invece, di leziosi costumi —, stabilisce l'atmosfera di una vi cenda, che qui riversa calcolatamente tutte le sue brutture. E' con furore bianco che Patroni Griffi defi nisce questi giocattoli umani, ed alza il tono a tutti con un disprezzo costante, che concede appena i sal tuari risentimenti di Pantalone. La fedeltà a Goldoni Una scena d’insieme de « Le femmine puntigliose » (foto Le Pera) è nell’adesione ad una temperie morale; la doverosa libertà creativa è nell'instaurazione di uno stile reci tativo, che dà nel metafisico. La ricerca è di stridori, rotture, esagitazioni: di un duello irrimediabile. La scontrosa impostazione e l’assidua condotta generale soffrono però di qualche lentezza e di qual che eccesso, che riducono l’accettabilità. La rappre sentazione deve regolare qualche tempo e togliere ciò che viene ad essere un disordine all’interno della concezione, ciò che appare barocco rispetto all’in flessibilità polemica dell’espressione. Qualche note vole dubbio solleva altresì in flessioni sicule. Questa dialettizzazione sembra con traddire lo spirito universale della commedia. E' una coloritura, che non si accorda con la tensione intel lettualistica degli altri elementi dello spettacolo. Es sa rilancia la vita linguistica nel paese dei morti. Comunque, ne soffre anche la pronuncia, che non è affidata ad attori siciliani. E tra gli attori si distinguono Lina Sastri (una Rosaura di secco intaglio), Cristina Noci (argutissima contessa Clarice), Ezio Marano (un Pantalone diverso, ma non tradito), Franco Acampora (Florindo), Fulvia Mammi (una Beatrice che non si riesce a condanna re), Cecilia Polizzi, Mariano Rigillo, Nestor Garay ed Elio Pandolfi, dalle coloriture un po’ esteriori. l'introduzione delle ma permanente dell’indagine; il passato come prevalente campo di osservazione. Donde si ricava che questo garbato scrittore si scosta alquanto da ogni nostalgico tradi zionalismo e dal macchiettismo dialettale; non solo, la sua vivave curiosità per la storia e il costu me lo porta a distogliersi dal filo ne prevalente nella drammaturgia in dialetto milanese, titolata da un Carlo Bertolazzi che è quello rea listico. Ecco il Fontana, qui, pur facendo sede principale del dramma rievo- atto d’una onesta sofferenza e di una non evasiva proposizione, quasi reclama una controspinta; cioè pro voca a chiedersi se, in questo mo mento d'ombra e di sangue, i va lori debbano essere abbrunati e ri nunciati, come sembra accadere nella sorte ingrigita del protagoni sta, il focoso ma puro socialista unitario Bizzarri. Il quale — dopo aver avuto, in sieme con l’amico Libaiani, che in vece dall'osservazione del mondo ha tratto una sua filosofia di spic ciolo scetticismo, la traumatica e- DIANA: LA MAZURKA BLEU di Ciro Fontana Regia: Filippo Crivelli Interpreti: Milly, Paride Calonghi, Lorenzo Grechi, Riccardo Pradel- la, Miriam Crotti, Gianni Quilli- co, Natale Ciravolo Scene: Gianni Quaranta Costumi: Dada Scaligeri Musiche: Gino Negri Tra i fatti, per i quali si potreb be ipotizzare una elaborazione sce nica al Brecht didattico — per quan to di « profetico » racchiudevano, e la storia confermò e la cronaca ri pete — l’episodio della sciagurata bomba fatta scoppiare il 23 marzo 1921 a Milano, presso il teatro Dia na (quattordici morti e tanti, tanti feriti) si pone di sicuro come sog getto disponibile. L'eco di quello scoppio, rinfor zato da quello uditosi in Piazza Fontana, non sono molti anni, si ascolta al Filodrammatici di Milano, la dove si rappresenta: « Diana: mazurka bleu ». Il luogo, appunto, e titolo dell'operetta che, in quella sera, che ai milanesi offri va tante occasioni di svago teatra le, ivi si rappresentava. L’autore è Ciro Fontana, autore in utroque, ossia in lingua e dialetto, e sarà il caso di ricordare, per i due in dirizzi, ricavata dalle poesie di Carlo Porta e articolata nei copioni « Marchionn di gamb averi », « Storia della Ninetta del Verzec e del Pepp parrucchiere ». « I desgrazi de Giovannln Bon- gec »; italiana, comprende l'inedito « Il giorno di S. Stefano », e i conosciuti « Sen tenza data a Gian Giacomo Mora », e questa commedia di cui parlia mo. Se si tiene conto anche delle altre commedie originali e degli adattamenti, si rileva che vi sono due punti fermi: Milano come te trilogia lingua l'altra, in il la la Miriam Crotti, Paride Calonghi e Milly in « Diana: la mazurka bleu » (foto Paolo Pissard] cativo un piccolo bar di Porta Ve sperienza a San Vittore con inter nezia, far rifluire tutta la vicenda rogatorio, a causa della sconsidera nell'animo di un solo personaggio, ta e loquace presenza di entrambi il maestro Libero Bizzarri. Il che è sul luogo della strage —, convin un tocco indicativo e moderno, che to dalla moglie, pare ritirarsi in non mi sembra sia stato raccolto, un avvilito tram-tram tra casa e benché sia esplicita nel lavoro, si scuola. no a condizionarlo, intenzione Non è nessuna delie conclusioni dell’autore. Egli si propone, infat attese, né sul piano politico, né ti, non solo e non tanto di consi su quello morale. E allora, a pre derare eventi e loro ricorsi (piazza valere sembra essere l’animo del Fontana è un « doppio », quasi, del l’autore, gravato da un’apprensione Diana anche per il primo modello ben legittima, considerati i tempi, di indagini che si svilupparono, per e interprete di uno stato d'animo le ambiguità che aggiunsero fumo diffuso. Ma poi, sul piano stilisti a fumo); il suo è un occhio d’oggi co, forse qui — per fare esplicita che, stabilito un confronto, pervie la indubitabile non complicità con ne all'amara opinione che la ripe la rinuncia — occorreva forse un titività di azioni cruente è riferibile guizzo rabbioso, abbisognava qual sia a deprecabili fanatismi, sia ad cosa di eccentrico, un crac, uno errori politici, sia ad un generale schiaffo, magari, all’auditorio. Ser disfacimento morale. viva una protesta contro siffatta Ma questa « Diana: la Mazurka umanità incapace, ieri ed oggi, di Bleu », una volta che si sia preso creare una società di libertà e di giustizia. Il pessimismo che sover chia, invece, attenua il vigore dia lettico e di denuncia, ed infiltra un risentimento non drammatico verso debolezze umane. Ho parlato della conclusione, ma occorre che dica del buon percor so, della scelta asciutta e coeren te degli episodi, di uno spaccato milanese che non dà mai nel corri vo, della domestica ma plausibile fisionomia dei personaggi, del cli ma intenso. Qualcuno dei perso naggi, a prima vista, sembra talo ra volgere alla enunciazione retori ca della propria fede; ma non è così; non bastasse il controcanto, la funzione critica esercitata con sommessa arguzia dal Libaiani, l’au tore pare piuttosto voler stabilire, anche attraverso momenti di elo quenza, una fedele memoria, un quadro di onesti convincimenti, che del resto, a livello dei protagoni sti, non potrebbe non avere un che di appreso e di entusiastico e di ingenuo, non essere riverbero di quotidiane letture giornalistiche. Il copione ha poi ricevuto dal re gista, Filippo Crivelli, un taglio mo derno, ed un ulteriore distacco dal piccolo cabotaggio nel vento loca le. Vedi l'introduzione di due « songs » di brechtiana influenza, l’aggiunta del discorsino iniziale di Milly (sì, canta e recita con la fi nezza e la proprietà di sempre, da Nuccia barista in coro), e il bellissimo siparietto in cui i personaggi, immobili al pro scenio tra le due strette labbra del ferrigno sipario a doppio movimen to verticale, rievocano i momenti della strage (mentre Bizzarri e Li baiani fanno parte a sé in sala), con un crescendo di doloroso stu pore e di inquietudine; soluzione ottima per stringata pregnanza. Ve ro è, che il primitivo copione re cava un maggior dinamismo e una più accentuata coralità e un più forte senso delle luci e del fiato della città. Ma c'erano, evidente mente, ostacoli di spazio. Serata, dunque, di tutto rispetto grazie al tono generale dello spet tacolo, che è sigillato da una pro fessionalità severa, da una dignità formale ineccepibile. Il caldo Biz zarri di Paride Calonghi, il sottile Libaiani di Lorenzo Grechi, le salde prestazioni di Miriam Crotti, Gian ni Quillico, Natale Ciravolo, Luisa Cranata e le due « performance » -di vivida spontaneità di Riccardo trasformandosi Pradella si dipanano in un concer to scenico senza sbavature o ritar di o cadute. E vanno citate le so luzioni scenografiche di Gianni Quaranta l’interno del bar) non meno degli accurati costumi di Dada Scaligeri e delle musiche di Gino Negri. (specialmente UN SORSO DI TERRA di Heinrich Boll Traduzione: Hans Cominotti Regia: Gianfranco De Bosio Interpreti: Roberto Herlitzka, Giu liana De Sio, Virginio Gazzolo, Angela Cardile, Roberto Alpi, An tonio Garrani. Scene e costumi: Maria Antoniet ta Gambaro Musiche: Lorenzo Arruga « Un sorso di terra » è frase da pronunciare con desiderio e tene rezza. La terra è stata data da Dio per l’uomo e per il suo governo. La terra può anche essere perduta. Già una volta fu il diluvio. Un se condo immagina che sia stato pro vocato (per imperizia di tecnico? per ultima malvagità?) dall'uomo, secoli addietro, Heinrich Boll. Lo scrittore tedesco compose per la scena « Un sorso di terra » nel 1962 dopo una esperienza di autore radiofonico. Siamo in un futuro, che è passa to. In una fine, che si chiude in un nuovo principio. Boll non ci dà un testo di fantascienza: non c'è nes sun apparato nuovo, e la ricerca è tutta di reperti del « come si vi veva ». Lo schema sociale poi è es- senzializzato e ripetitivo, quello a stretta piramide, non proprio igno ta ai nostri giorni. E nemmeno si può parlare di utopia, etichetta quasi inapplicabile ad un copione, come dimostra anche il vuoto di un eventuale scaffale riservato: s’intende, utopia come progetto al ternativo, come ipotesi risolutiva d'assetto mondiale, non come at teggiamento di fuga dal presente. Siamo piuttosto nell’allegoria di un presente, che può ripetersi, ma non più opprimendo stabilmente gente inavvertita. Il potere riger minante di adesso sa di correre un rischio. Il racconto di Boll è di timbro etico: al centro sta l’uo mo, e lo accompagna la persuasio ne (quasi esorcizzatrice di un pos sibile scacco storico, ancora una volta) della sua dignità e della sua immortalità sulla terra. L’acqua, dunque, ricopre la ter ra. Qualche suprema roccia, qua e là, ne emerge. Ad una di esse, è attraccata una piattaforma, con ascensore,, e una gabbia. Non è un'isola di naufraghi scomposti, bensì è una microsocietà, con fer ree gerarchie dove gli esseri infe riori, se non inguaribilmente tali « Un sorso di terra » di Boll (foto Studio F.N.) (per cui si meritano solo la gan- bia, che si popolerà via via di com pagni puniti), scendono sott'acqua e ne traggono cose della civiltà sepolta. Ne viene un aiuto a ricercare nella memoria sapori, gesti, senti menti, a riempire la vita che era. Quell’estremo spazio abitato è gre mito di divieti, l’arma del terrore è freddamente usata: ma l’uomo è l’uomo. Le sue esigenze non sono resecabili. Ed ecco gli umili, a ma no a mano, affermare dapprima le esigenze elementari, e poi scoprire il superfluo, cioè l’arte e il gioco e infine vincere secondo natura, libertà e verità . Tocca agli schiavi recuperare la E conviene dire che mio Nobel, non sembra scarsa mo tivazione per un allestimento. il ritorno di De Bosio alla regia teatrale do po sei anni di assenza, è sì, nel segno del rischio, ma nel rischia stimolante. Dalle mani gli è uscito uno spettacolo di rara misura, di toni preziosi, di compatta incisi vità. Questo « futuribile preistori co » che è il quadro dei superstiti di una umanità sepolta che ricomin cia a vivere, offriva tutte le insidie di una allegoria basata su eventi minimi, su ambiguità e su certe reazioni ed evoluzioni. Ebbene, De Bosio ha realizzato una proposizio ne scenica dove il didatticismo non è mai inerte, dove la eccentricità della partenza è subito scontata e il racconto si fa contemporaneo, commosso, e coinvolge Io spetta tore. Garbatissima esecuzione, dun que, tutta rassodata verso i nodi concettuali, chiara nei riferimenti, distesa e fervida nei momenti di pensosa rigidità. Molto si deve alla intelligenza partecipante di « non » prezzolati interpreti. Quale « dras », l’ultimo degli ultimi, più scava to e drammatico di quello che Roberto Herlitzka ha saputo creare? Quasi un ominide che recupera non solo il fuoco, ma l'avidità dell'uo- mo: ecco l’attore ha dato i suoi mezzi illuminanti. E poi Giuliana De Sio, freschissi ma Bertlet, e Virginio Gazzolo che incide il potere delirante di Tren- ner, e Angela Cardile accorta e vi vace Simone; e ancora Roberto Al pi, Antonio Garrani, Pierluigi Gior gio, Filippo F. Fassina, e gli altri attenti e precisi. La bella scena e i costumi sono di Maria Antonietta Gambaro, mentre l'efficace colon na sonora è stata curata da Lo renzo Arruga. Un divertimento di grana fine e non distraente. Uno spettacolo per tinente al testo. Un rischio oppor tunamente corso. l’Itinerario cui creatività, e non per partenogene si, ma riallacciandosi all 'ieri, alla storia. Anche attraverso la riappro priazione del linguaggio. La ricon quista di se stessi, della coscienza di essere, avviene mediante quella della parola come fatto inventivo, non solo come termine di vocabo lario. Sono i « kresti » cioè i « pa ria » che vivono quotidianamente il problema vitale dei bisogni prima ri in termini drammatici, a posse dere il dono dell'invenzione seman tica. Sulla pagina, il procedimento di Boll è arguto, ma pressoché in traducibile. La lingua di quelli che stanno sopra è, al contrario, tutta raziocinante, ma senz’altro morta e inadeguata a cogliere e definire la nuova realtà. Si dimostra inca pace di leggere il passato e smar rita di fronte ad un presente che sca e nessun filosofema, bensì una gioia della fantasia nel formulare ipotesi di comportamento. « Un sor so di terra » è specialmente una fa vola poetica, di una poesia che na sce da componenti tecnici, che è fatta di stupori albari, che rintrac cia lo sposalizio dell’uomo con la natura. E qui si coglie il, suo valore filosofico e religioso, di segno op posto a quello che si coglie, per esempio, e pur in un contesto lu minoso, in un'opera come « Aspet tando Godot » di Samuel Beckett, anche se vi sopravvive un minimo di fratellanza. Per curiosità si può notare come i « kresti » — gli infi mi degli uomini, in cui però è una risorsa i « Knouk », nominati nella citata commedia (che è del 1952) dello scrittore irlandese. riecheggino finale — Scena d'insieme di « Un sorso di terra » (foto Studio F.N.) le sfugge così, come scricchiola la struttura sociale prestabilita, ottu samente ripetitiva. Assistiamo in sostanza, di là dal l’estrosa polemica, alla nascita di una comunità nel vincolo unico del l’amore. Una comunità di fratelli, intimamente preparata ad un mes saggio cristiano. Una comunità di puri di cuore. Lo scrittore tedesco ci offre quindi lacrime, ma anche speranze. La sofferenza vincerà il male. L'opera di Boll si nutre di ironia e di denuncia, ma soprattutto di un piacevolissimo naif, avvolge di simpatia i suoi diseredati e con essi esplora vie di un nuovo mon do. Nessuna accentuazione grotte Un giudizio autorevole ma anche sbagliato più che sbrigativo, avreb be voluto seppellire il « poco riu scito dramma utopistico », che uto pistico non è. Ma per un copione, il verdetto lo si dà in teatro. E, « Un sorso di terra », scelto dalla ATER — insieme con « Gli Asso ciati » — affidato a Gianfranco De Bosio, credo che dimostri di essere un testo di impegno e di sugge stione culturalmente provveduto e di forma originale. Concordiamo con chi lo ha definito « la vibrante, commossa allegoria d'una condizio ne umana non già contemplata con divertito stacco, ma intimamente sofferta » (Claudio Magris). Che, trattandosi oltre tutto di un pre- IVANOV, IVANOV, IVANOV di Anton Cechov Traduzione, adattamento e regia: Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah Interpreti: Franco Parenti, Lucilla Morlacchi, Bob Mar chese, Gianni Mantesi, Grazia Migneco, Simona Caucia, Rolanda Benac, Giorgio Melazzi, Secondo De Giorgi Scene: Gianmaurizio Fercioni Musiche: Fiorenzo Carpi A ventisette anni, il novelliere Anton Cechov di venta ufficialmente drammaturgo. É « Ivanov, Ivanov, Ivanov » a segnare (1887) il suo ingresso nell'arena teatrale. Va in scena a Mosca, con attori che hanno calato nel verismo personale la finzione scenica del bere; contrastatissimo esito, ma qualcuno annotò di avere assistito alla rappresentazione di un'opera « ma gistrale ». Era lo scrittore Leskòv, qui più profeta, che altro. « Ivanov » poco dopo andò benissimo a Pietro burgo, calmando le angustie dell’autore, espresse in una lunga e famosa lettera al critico Suvorin. L'affetto per questa opera Cechov lo dimostrò correggendola più volte. Si pensi, ad esempio, che nel primo finale Ivanov non si uccideva, ma rimaneva ad interrogarsi sulla propria condizione. Abbiamo nascosto, sino adesso, il problema. La « pièce » è una commedia o un dramma? Si sa quanta grigia atmosfera calò, per decenni, sui lavori di Ce chov; si sa, per contro, come egli parlasse volentieri di vaudevilles (e la faccenda sa di infraintendimenti, ma anche di freno ad un troppo greve e retorico, rappresentare). Dobbiamo dargli credito, quando scri ve: « Non è un dramma. Fio semplicemente voluto indicare che la gente vive male, che non sa vivere ». E in « Ivanov », egli « sembra voler mostrare a qual disastro conducono l'assenza di volontà, l’affievolimen- to di uno sforzo, un debilitante "a che serve?” , un un falso nichilismo » (cito da un saggio di Aimèe Alexandre). Ne si può intascare la sua prerogativa di scrittore ironico, non si può non cogliere il suo sguardo impa vido su una società in disfacimento, popolata di mani chini buffi e nella quale poche anime sensibili non potevano trovare né comprensione, né risposta. Il « movimento », in Cechov, è la fuga: e (’altrove è la morte, oppure Mosca. Da tali premesse scaturisce la « immediatezza » dell’» Ivanov », che, artisticamente, raduna sì i mate riali che poi, decantati, si sistemeranno nei testi mag giori, ma lo fa con una certa ridondanza teatrale, una certa granulosità, una certa propensione alla enuncia zione (i lunghi monologhi del protagonista) e alla stilizzazione, in attesa che poche parole rivelino un dolore esteso, e che le marionette pretendano la no stra pietà. Ecco, mi pare che la differenza di qualità tra questa e le opere successive risieda principal mente nel modo con cui noi spettatori consistiamo: qui assistendo a un meccanismo, mentre poi parteci peremo, attraverso una conoscenza d'anime, al fluire (non alla memoria) della vita. I casi di Ivanov si sbrigano in breve. Giovane, ebbe sogni, fece progetti, nutrì fede, fu per il progresso, si entusiasmò e amò, sposando — un segno impor tante — una donna ebrea. A trentacinque anni, ecco lo ritirato in campagna, indebitato a causa del suo di sinteresse; ma lo sfacelo economico è il riflesso di un abbandono interiore, di uno svuotamento, di un tedio della vita progressivamente insinuatosi in lui, mentre d'attorno si muove un mondo di sciocchi e di egoisti. Rubato a se stesso, Ivanov invano si inter roga e lascia che un senso di colpa via via lo pos segga. Non « può » più amare la propria moglie, gra vemente ammalata; e solo per illudersi ancora di avere di che vivere accetta l’amore della giovanissima Alessandra. Il suo contegno contraddittorio lo fa brac care dalie malignità del vicinato e dalla denuncia degli onesti per antonomasia (il Dottore, per tutti). La stan chezza — un connotato preciso — conduce alla noia: nella noia, ogni progetto è un’utopia, ogni pro- posito una menzogna, ogni problema una parete non valicabile. E allora, nel momento in cui — è il gior no del suo matrimonio con Sandra, perché intanto la moglie è morta — dovrebbe compiere un gesto, un gesto inutile, non risolutorio e non liberatorio come i precedenti, l'uomo invischiato, l'uomo scoraggiato dal proprio bilancio, e atterrito dal mondo, esce di scena. Con rapida mossa e un secco colpo di pistola. Si è sottratto. Si è giudicato. La soluzione arriva imprevista, perché gir scon forti di Ivanov non sono mai divenuti melodramma tici o si sono mai condotti aH'aut-aut. È stato un processo lento di disaffezione a se stesso e di cono scenza della propria diversità rispetto all’ambiente. Ambiente che ha largo spazio nella commedia, come antagonista e come soggetto della corrosiva osservazione di Cechov. Ambiente annoiato se pur rumoroso per una assenza perenne dello spirito, men tre Ivanov ha conosciuto l’altra faccia dell'esistenza, e sente la fatale voragine che gli è stata spalancata. Dell’opera si fanno portatori Franco Parenti e An- drée Ruth Shammah, che l’hanno tradotta, adattata e messa in scena a quattro mani. L'adattamento con siste precipuamente nell'uso di « Quaderni del dot dire abbreviato in una reticenza significativa, che è distinto in un « a parte », dove il suo ruolo d’intellet tuale coltiva il senso della propria inutilità e dell'e marginazione. Quella società, del resto, sospinta verso il grottesco, sembra tentare accenni alla « contem poraneità », nel suo basso standard etico. Franco Pa renti ha evidentemente adattato a sé il personaggio, ma bene scorporando patetismi e sviluppando l’au- toironia. Il colpo di pistola finale fa precipitare un dramma giustificato dall'ottusità dell’ambiente. Nes sun amletismo nel suo Ivanov, ché di questo non si tratta, ma di consumare tutta la pazienza. E tanto meglio risuona il « no », in una società che si è ri dicolizzata da sé. Il vadeuville è magari un po' cari cato, ma è anche grazie al cielo l’altra faccia del realismo, e fa da cassa di risonanza al gesto di ri fiuto. Non è il melodramma il depositario della tra gedia. La cronaca non fa che mostrarci suicidi inspie- gabilì: era un giovane (e Ivanov è giovane) tranquillo, si legge. Appunto. La prestazione di Parenti come attore è finissima. Col minimo dei mezzi crea un Ivanov secco e lon tano, e perviene quasi ad estraniarsene e a giocarlo come un pupazzo buono per gli altri. Gli inventa per- tor Cechov » e delle loro pungenti note, con amplia mento del lato satirico. L'impostazione parte dal tito lo che suona esattamente « Ivanov, Ivanov, Ivanov », dove la ripetizione amplificatrice sembra alludere alla ricerca di un uomo inesistente, perché uomo finito. Il taglio registico è di secca distinzione tra l’ambien te, che viene vivisezionato con bisturi opportuno nel la sua meschinità, e il protagonista, che è per così Una scena d’insieme di « Ivanov, Ivanov, Ivanov» (foto Privitera) sino una zoppia alla Zeno Cosini. Ce, nel suo Ivanov, una destrezza disperata, una funambolicità dello spi rito, una sorridente e segreta pre-morte lucidamente portata a concludersi. Lucilla Morlacchi era la moglie. Parte povera, difficile. L'attrice ha dato l’immagine del personaggio, nella sua purezza da stereotipo, e poi la muta tragicità del conoscere e poi l'aspro ri chiamo ai doveri e ai diritti, con una assoluta e ferma limpidezza di incisive espressioni. È apparsa quasi una Ofelia, e si è calata nelle lacrime segrete di una donna che invano cerca di tenere il sogno e il pas sato alti sulla realtà devastatrice. Un Conte di gau dioso spessore è quello di Gianni Mantesi, che ne fa una sobria ma intensa caratterizzazione; e altret tanto maturo e sottilmente complesso è il Lebedev del bravo Bob Marchese; amenissimo Borkin ci dise gna dinamicamente Secondo De Giorgi; un L’vov di asciutto risalto è quello di Giorgio Melazzi; la appas sionata Rolanda Benac (Sandra) ha mostrato buone doti nella seconda parte; deliziosa la goffagine di Si- mona Caucia. L’intero complesso agisce bene, e il divertimento prende quota via via con ricchezza di gags puntute, rimanendo nell'aria forse più del ne cessario, e specie nelle scene ultime, dove il colore un poco sovrabbonda e si vorrebbe un più sfatto e amaro sapore delle cose. Le scene sono eccellente creazione di Gianmaurizio Fercioni, che ci dà un ver ticalismo modulato poeticamente. Le musiche sono di Fiorenzo Carpi. Ma si vorrebbe che il Living recepisse più seria mente lo spessore civile e culturale che io circonda da tempo, e fosse più sensìbile alle peculiari sfuma ture che vi ricevono i problemi più generali, sottraen do così la enunciazione alla tenericità, e che, di con seguenza, non compisse anacronistiche passeggiate con sit-in come quella fatta la sera della « prima » dal teatro al comando dei carabinieri, in nome di una ideale protesta verso il potere, che non può non ap parire, nel concreto contesto temporale, un gesto pri vo di senso politico o etico. Patetico, infine. E questa era la terza parte dello spettacolo, ed accadeva alla quinta ora. Di « Prometeus », il punto di riferimento è la tra gedia di Eschìlo. Là, il Titano patisce come vittima perenne, soffrendo la cacciata e l'incatenamento per ordine di quel Zeus, che pure egli aiutò a confermar si successore di Crono, dopo avere dato agli uomini la conoscenza ed il fuoco, padre di ogni tecnica. Fi gura che accompagna una fase di transizione teologi ca e teogonìca, proprio per questo vivere una crisi e PRQMETEUS di Julián Beck ed Edith Malina Gruppo del Living Theatre Il Living Theatre è sempre più liturgia. Celebra i propri riti immobili e ripete le parole di una fede laica. Ma, poiché esiste ormai da 27 anni, si è anche in grado, oramai, di misurare l'incidenza di questo verbo liberatorio, di questo anarchismo allo stato pu ro, e quindi di valutare una parabola che ha pure at traversato il teatro, ma che ora sembra astringersi alla propria formula, ad un modulo che traina un con tenuto astratto. (Non è di poco peso e limite il dover operare da espatriati, in una diversa storia, in una cultura tanto più antica e quindi complessa). Tale la prima osservazione allo spettacolo che — essendo trascorsi quattro anni dalla presentazione ve neziana di « La torre d’avorio » — ci riporta il Living Theatre e il suo messaggio di sempre, candido e marginalmente provocatorio: « Prometeus », al Meta stasi di Prato. Le lingue italiana ed inglese si intrec ciano. per la accennata contraddittorietà del personaggio; e sarebbe apparsa coerente una sua assunzione per uno sviluppo di questi aspetti così moderni, così proble matici e dialettici, fino a negare •— in estremo — questo schiavo dell'industria e questo collaboratore dei potenti, Prometeo, in nome di una ecologia... ve getariana. Un Prometeo non solitario, perché visitato da Or feo ed Eros, da Narciso e da Pandora, e farcito di Esiodo, di Shelley e persino di Marcuse, di Schope nhauer e di Nietzche; cioè da un Phanteon e da ver sioni e letture che ribadiscono l'idea di un passato ove, celato oppure palese, il potere è richiamato dal mito. Visione parzialissima, ognuno vede, della mito logia, col suo grande interrogarsi sugli enigmi del l’uomo. Questa assunzione di Prometeo e compagni a metafora della condizione umana caratterizzata dalla punizione si esprime in un primo tempo straricco di accorgimenti tecnici, di luci stroboscopiche, di proie zioni, di musiche, di cose agitate, di voli e movimenti, di esibizioni di nudi, di discese in platea, di masche- ramenti e giochi all'orientale, che costituiscono un veicolo di effetti vistosi e, in qualche caso, pur sug gestivi. Ritrovare il vero Living non è certo facile, an che se parevano prometterlo gli attori legati alla pol trona, che gli spettatori trovavano entrando in sala, a significare che « siamo legati al passato ». Gremita di allusioni, comunque, la prima parte, così animata, feo, un Narciso e poi Pandora e Pantea, etc.; tutti poi si ritrovano, nel secondo tempo, in un logoro « dop pio »: ed ecco Julian Beck da Zeus mutarsi in Lenin {e, come non bastasse, in Trotzkij) e il bravo Hanon Reznikov divenire l'anarchico americano Alexander Berkman e via accoppiando. Siamo nell'era moderna, e se rimane il ferrigno Hanon Reznikov come Prometeo (foto Toby Marshall) non è poi un esempio di chiarezza ma piuttosto di estrosa versatilità. Tutt'altra campana suona nella seconda parte, quan do, ponendo il tema del riesame delle problematiche contemporanee, ossia della onnipresenza di tanti Pro metei incatenati, non sa confluire se non in un mon taggio sui rivoluzionarismo russo, chiudendo con la morte dell'ultimo Promoteo, cioè di Vladimir Maja- kovskij. Che è storia di ieri, superata da altri esempi e da altfe inquietudini e da circostanze modificate e complesse. Il dissenso è ancora troppo caldo, per in durlo già a contemplazione. La rappresentazione — dicevo — nella prima sua parte, non è uno specchio di chiarezza, quanto a leg gibilità di contenuti e di allusioni, e ripete slogan già ascoltati. Ad esempio quello di una libertà su tutte le linee. Vive, tuttavia, nella figura di Prometeo, non ignaro del ritratto eschileo e bene stagliato anche figurati vamente; attorno a lui, oltre a residui dell'antico cor teggio, si muovono disinvoltamente aggregati, un Or- impianto scenico (una piramide ed un arco: la bella ideazione è di Beck e di Apollo Broom), cambia il lin guaggio. Come si è avvertito, entrano in scena gli apo stoli moderni del socialismo e della sua utopia paci fista, che però sul loro cammino (o non fu per ragio ni intrinseche all’ideologia?) incontrano non solo la Rivoluzione d’ottobre, tuttavia foriera di speranze, ben sì un « dopo » che, pur non essendo ancora quello staliniano, già instaura norme e divieti: con grande disperazione di Julian Beck, che è per abolire ogni legge. In parallelo, muta lo stile, sparisce la recitazione, viene organizzato un « happening » di massa. Julian Beck si fa Gran Seduttore e dalla ribalta persuade e convoca un centinaio di spettatori — tutti giovani — che, rapidamente istruiti, danno vita — non estetica, cartellonistica — ad alcuni episodi della Rivoluzione. Intanto, Beck e compagni (che erano deliziosamente « arrivati » in Russia attraverso la platea, ed erano incantevoli, un Beck impeccabilmente vestito e una Malina in cappotto e cappellino e scarpette) recitava- no filze di documenti, citavano Essenin e Majakov- skij: al quale ultimo toccava, infine, di morire, emble- meticamente, cadendo giù in palcoscenico, come un Prometeo abbattuto. Perché la morale è questa: Zeus cambia nome e si mimetizza: ma sempre regna e governa. È questa la risposta alla domanda che tiene insieme lo spettacolo e che è: « per quale crimine subiamo una punizione, quando veniamo puniti? ». Premessa alla conclusione suddetta, la convinzione è che noi non siamo crimi nali, ma subiamo una ad un’altra violenza. Bilancio pessimistico, di un pessimismo che sembra compren dere e la storia del mondo e quella della predicazio ne del Living. Diventa quindi un gesto inevitabile ma stanco quel la uscita dal teatro (il passaggio dalle parole ai fatti), quella protesta pubblica che sì ribadisce la non-vio- lenza, ma resta un fatto più che simbolico, astratto, ancora teatrale, e quindi contraddittorio sul piano del la stretta conduzione logica del discorso; a parte l'« errore » rispetto alla realtà specifica e contingente. Di questa seconda parte, alcuni si sono rallegrati, per la vivacità della partecipazione. Penso che non sia edificante indossare e deporre un’idea di teatro a seconda dei casi, per improvvisi intenerimenti, e va lutare professionalmente, invece, la dicotomia stilisti ca di uno spettacolo in cui si legge, infine, la grave ri nuncia di un gruppo ad essere se stesso, a creare una forma strenua, di rottura e di liberazione. Rispetto a ciò, secondaria diventa l’annotazione che, nella seconda parte, la tensione espressiva su bisce un’irrimediabile caduta verso il bozzettismo e l’approssimazione, senza un saldo recupero di una nuova « finzione ». Onore, comunque, ai meriti recitativi — finché so no consentiti — di tutta la compagnia, nonché al com mento musicale di Carlo Altomare. Judith Malina come lo e Julián Beck come Erme nel loro « Prometeus » (foto Toby Marshall) > c / cSf / ■ c / < / V & NON C’È DA RIDERE SE UNA DONNA CADE di Franca Valeri. Da Henry Mitton Regia: Franca Valeri Interprete: Franca. Valeri Scena: Giulio Coltellacci Canzone di Manuel De Sica importanti di questa Tra i fenomeni romani più stagione teatrale c’è questo legato all’apertura di un nuovo spazio scenico, il Piccolo Eliseo, diretto da Giuseppe Patroni Griffi. L’inaugurazione di questa sala, completamente rinnovata e restaurata con gran buon gusto da Pier Luigi Pizzi e dall'architetto Gian carlo Capolei, è stata contrassegnata dal ritorno alle scene, come autrice e interprete, di Franca Valeri. Si era già presentata in teatro questa estate, al Festi val di Spoleto, con Gin Game. Il fatto era accom pagnato da un successo enorme: il pubblico non fi niva mai di applaudire e forse, più che l’autore, L. Coburn, era proprio l’attrice, nell’occasione affiancata da uno splendido Paolo Stoppa, che trovava vera mente Insostituibile. Questo, insieme a molti altri riconoscimenti e stimoli, deve aver convinto la Va leri, autrice, al ritorno alle scene, in parte trascurate per altre attività legate al mondo lirico e, in alcuni momenti, alla televisione. In ogni caso il discorso di questa importante figura del nostro spettacolo non si è mai interrotto. Dietro le quinte ha lavorato senza sosta, ha studiato e approfondito il mondo che le è più caro e congeniale, quello dei personaggi femminili distrutti e ricostruiti secondo un suo metodo assolu tamente inimitabile. Nelle regie liriche la Valeri ha portato tutto quel bagaglio di vasta cultura, affatto provinciale, che, in alcuni casi, non poteva trovare il giusto respiro nel quadro della prosa. E sicuramente non si tratta di un discorso ora interrotto, quanto di un’esperienza che, oggi, si lega a quella di una sua splendida ricongiunzione con il ruolo di autrice e in terprete. Si vorrebbe cercare di dare una buona volta una qualche definizione a questo personaggio, inqua drarlo in un filone di riconosciblità, comporlo, forse, in una specie di sezione di comodo. È impresa vana. Forse insensata. Per disperazione occorrerebbe chie derlo a lei, e qualcuno, infatti, l'ha fatto. Così, nel programma di inaugurazione del Piccolo Eliseo, la Valeri, svista da se stessa, ha detto: « ... Fin dal primo vagito ho peccato di comicità. Ho fatto in forma stret tamente privata una carriera infantile degna soltanto di quella di Shirley Tempie. L'imitazione delle maestre e delle amiche di mamma e la parodia dell’opera lirica erano le mie grandi specializzazioni. Sono nata con un istinto formidabile, una femminilità prorompente, una gran bella faccia e una naturale disinibizione che avrebbe fatto invidia a una sedicenne di oggi ... Ho pensato prestissimo di fare ”il teatro". Non neces sariamente l'attrice. Il tuttofare nel genere è rimasta la mia caratteristica. Adoro essere indefinibile. L'umo rismo però non l’ho mai perso di vista ... lo voglio citare la qualità che mi è più cara del nostro teatro: la sintesi... ». Ecco: ora sappiamo tutto di Franca Va leri, insomma la biografia è completa: c’è tutto il suo curriculum. Manca solo l’età, ma da fonti più che at tendibili si è finalmente appurato che non supera i venticinque, anche se ne dimostra venti al massimo. Il fatto è che a lei pare che non gliene importi pro prio niente e che l'unità temporale sia un dato del tutto misconosciuto. L’ultima commedia che aveva scritto è del 1969, e si intitolava Meno storie. La Va leri non ha un interesse preciso al racconto, alle grandi fantasie di sviluppo in un fatto: va diretta- mente al fatto. Per questo motivo il suo teatro si po trebbe definire « teatro di situazione ». Vuol dire che l'episodio viene fotografato, attraverso una angolàtura tale che permette di dedurne tutte le possibili artico lazioni, i momenti del passato e del futuro, le ipotesi risolte e quelle ancora da risolvere. Lo diceva anche la stessa autrice: la sintesi è quello che più la inte ressa, e infatti in questo è una vera maestra. Quello che appare più evidente, nel metodo di confronto con la realtà, è il dato umorismo, con impasto di sarcasmo e ironia. Ma è quello che si coglie in un primo momento. Se si guarda attentamente, infatti, dietro all'umorismo, troviamo tutta una serie di strati ben sedimentati: l’approfondimento della condizione psicologica, il confronto sottile e acuto con la storia, l’idea che un evento non può essere preso se non nella sua profonda significazione. Si aggiunga un at tento studio della parola che, senza per questo giun gere alle semiologie o alle "linguistiche” più scien tifiche, è quanto di più rigoroso si conosca. Anzi nella parola sta una delle chiavi di lettura della sua cifra scenica, forse la più importante. Il monologare della Valeri è molto stretto: non lascia spazi all'interno del la frase che, per la sua densità, non sembra posse dere forme aggettivali. Non c'è da ridere se una donna cade è il titolo dello spettacolo, ripreso da uno analogo dello scrit tore francese Henry Mitton. Da questo autore, co munque, l'autrice ha mutuato » l’involucro » — come lei stessa ha detto ■— che ha poi adattato alle pro prie caratteristiche. Si tratta di una struttura labile, un referente quasi evanescente, una forma di sottile provocazione che stia ad indicare che i termini della creatività sono tutti interni, e si misurano direttamen te nell'episodio scenico. Nella prassi, diciamo così, la Valeri esclude ogni forma di ritualizzazione, decom pone quella stessa misura dell’evento teatrale come, luogo di «^scarico » o di catarsi. Infatti tutto viene ribaltato, in una sorta di rimando continuo alla cir conferenza. Il punto centrale della rappresentazione è sempre lei, nel continuo comporsi, ma è una centra lità che, ogni volta, ricomincia daccapo. Se si tratti veramente di un monologo, così come il teatro delle cantine ci ha abituato a vedere da un po’ di tempo a questa parte, non si può dire esattamente. Infatti la struttura non è esattamente quella di un assolo. In quei casi si verifica il rimando, più o meno visibile, ad una forma di vicenda. Qui, invece, si è di fronte ad una serie di vicende e i personaggi sono tanti, una vera moltitudine. Sono donne che, come afferma la Valeri, « continua ad amare e saccheggiare ». Nella prima parte dello spettacolo assistiamo, in generale, ad una graffante satira del linguaggio e del l'atteggiamento delle avanguardie. Il paradosso, cui spesso affida la situazione, non vuole certo omettere una seria considerazione di fenomeni che hanno ca ratterizzato questi ultimi dieci anni della nostra ri cerca teatrale. Al contrario: l’obiettivo è quello di vo ler radere al suolo i luoghi comuni che, in nome di un rinnovamento non perseguito con la dovuta tenacia e serietà, hanno portato a forme snobistiche senza motivazioni adeguate. Quando satireggia sulle cantine e le varie ricerche « tatti Io-spaziali », sottintende quel la serietà nascosta, ma forte e incrollabile, che l'au trice mantiene di fronte alla storia della nostra scena, al suo cambiamento e necessità di rinnovarsi. L’aper tura dello spettacolo consiste in un happening tutto disegnato all'Interno del kitch: un vestito improba bile, l'inno di Mameli sullo sfondo, e una stupita in terrogazione al pubblico sulle sorti della serata. Pote va essere un gioco scontato se non fosse stato tra sformato in una specie di sarcastica e divertita ri flessione sulle strane sorti del recitare, composto di povere e inutili cose, tutte finte come i fiori che le vengono gettati sul palcoscenico. Allora lei reciterà, ma per negarne il senso proprio di quell'esercizio, di struggendone perfino le motivazioni. La galleria delle donne che tutti conoscevano c'è, ma è sullo sfondo; in primo piano emergono altre immagini che di quelle sono la conseguenza ma anche il motivo della nega zione. Nella seconda parte, attraverso l’invisibile tele fono — citazione di una sua storia di teatrante — ritornano alcuni fantasmi del passato: ma non sono che pallide ombre. Quelle donne ora parlano una lin gua grottesca, che le rende ancora più deformi e, in alcuni casi, le conduce al suicidio. La signora che te lefona al Maestro, in America, per avere precise istru zioni per mettere insieme una specie di puzzle che si definisce opera d’arte, appartiene già al passato mentre consuma, irrimediabilmente, un presente che non le apparterrà mai. La madre che commenta, senza saperlo, l'omosessualità del figlio come un vanto di osannate virtù, è già cadavere. Cioè è una figura che il mondo ha travolto e nella cui coscienza non ri mangono che i ricordi di troppo remoti valori sociali e culturali. Gli esempi che si possono riferire, qui, sarebbero tanti e lunga finirebbe per essere la de scrizione. Per uno spettacolo che abbisogna di un confronto diretto e immediato interprete-pubblico, ri ferirne i vari momenti sarebbe inutile. Al di sopra di tutto c'è la proposta di un continuo rimodellizzare Franca Valeri e Giuseppe Patroni Griffi (foto Le Pera) l'episodio scenico, e ipotizzarlo, che la Valeri, con grande umiltà ed equilibrio, presenta a tutti noi. E questo, in ogni caso, è sempre un invito a rinnovarsi; un esempio, insomma, di come si possano offrire "messaggi” senza le esplicite "formulazioni” a cui spesso siamo stati abituati da un po’ di tempo a que sta parte. Il messaggio, cosa forse antica, è lì, nel lavoro scenico seriamente compiuto. BRECHTOMANIA (LES FANTOMES DE PIERROT) Di Leopoldo Mastelloni. Regia: Gerardo D’Andrea. Interprete: Leopoldo Mastelloni. Costumi: Giovanna La Placa. Per il fatto che il dato della rap presentazione diventa travesti il mento potrebbe venire in mente di imparentare Leopoldo Mastello ni a Paolo Poli. Ma è un errore. Poli parte da una coordinata stori ca — misurata soprattutto in quel lo spessore morto della nostra Ita- lietta — che lo induce ad una de strutturazione di figure (e figura zioni) calcolate nel tempo, e ad es so restituite come fantasmi della coscienza (o incoscienza colletti va). Su quei brandelli di cultura, rimossi con apparente casualità, si sviluppa un disegno che ha appena il tempo di comporsi, prima che il gioco lo restituisca ad un suo cru dele valore ludico. Mastelloni il pas sato sembra darlo per scontato, lo trova nella realtà antropologica del mondo napoletano e lo accoglie co me dato oggettivo di un suo natu rale incontro. Come Poli, però, par te da una ipotesi sedimentata, pri ma, criticamente e poi consumata nella pratica dello spettacolo. Non si tratta, qui, di fare delle differen ziazioni o trovare gli apparentamen ti. E' molto più interessante cerca re di identificare a pieno i due fe nomeni. Visto che ricorre, spesso, un paragone (Poli-Mastelloni), è be ne definirne subito le fondamentali distinzioni. Se poi il confronto si basa sull'utilizzazione del « trave sti », allora non vale la pena nem meno di prendere in esame il di scorso. Mastelloni parte da un mondo connotato da una serie di scarichi; questi contengono inquietanti misu re storiche, ma divenute tanto ap prossimative come possono esserlo quelle delle realtà rimaste ai mar gini, e per tanto tempo. Non si po trebbe mai individuare l'origine di un oggetto piuttosto che di un al tro: tutti hanno perduto il loro con notato temporale e, forse, non l’han no nemmeno mai avuto. L’emargi nazione, il reale « senza importan za » ha il potere di somigliarsi sem pre, in qualunque epoca noi lo in contriamo. Un disgraziato di oggi, un povero sfruttato e abbrutito, un individuo non calcolato dalla socie tà somiglia a quelli che vivevano un secolo o due fa. Da questo tipo di coscienza deriva a Mastelloni la necessità di un confronto •— quel lo con il mondo brechtiano — che si compone presto nella simbiosi. La coordinata dei « rifiuti » diventa il tema su cui lavorare, costituisce la base del suo spettacolo e di o- gni possibile rappresentazione. Sia mo, quindi, ben lontani dall'imposta zione culturale operata da Paolo Poli. La storia è scelta nei suoi da ti marginali, mentre in Poli veniva considerata in quelli che erano stati i suoi valori dominanti, del presen te e del passato. In conclusione: se si può fare un minimo di accosta mento tra i due uomini di spetta colo, questo consiste nel loro porsi come intellettuali che riflettono e operano su materiali apparente mente inutili, al livello culturale e sociologico; insomma si tratta del lavoro su « uno scandalo » che si preferisce ignorare, su una realtà diversa e dall’apparenza « secon daria ». Questo abbozzo di confronto tra Poli e Mastelloni può servire non solo a delimitare le differenze esi stenti tra i due fenomeni, ma an che a demarcare il più compiuto di segno che, in questi due casi, a differenza di tanti altri, si realizza nel quadro della nostra scena. Si tratta, infatti, di due grandi figure del nostro teatro, difficilmente imitabili e che, alla base, posseg gono la forza di un progetto cul turale preciso e chiaro. Mastello ni, intanto, opera una ipotesi al- quanto suggestiva: la cultura na poletana, quella che si richiama alla realtà dei bassi, che anche Viviani in qualche modo ha approfondito, si ricollega, per uno strano e affa scinante gusto, alle direzioni e- spressionistiche del teatro tedesco. Non è un'idea affatto da scartare. Forse, tra i vari interventi sulla na poletanità, questo può dare dei si gnificativi sviluppi. Il personaggio brechtiano, infatti, collocato nei vi coli oscuri di Napoli, acquista una strana forza evocativa e diventa u- na straordinaria e irripetibile misu ra dell’emarginazione. I più famosi « songs » di Weil — da quelli del- l'« Opera da tre soldi » a quelli di « Mahagonny » — diventano vivia- neschi monologhi e canti della pro stituta Bammenella che, come la consorella brechtiana, invoca l'an tico amore per Mackie Messer. Co sì la « Tammurriata nera » e la sto ria del « criaturo niro niro » rigon fiano la memoria di un passato bellico di strazianti verità di un mondo, del mondo, senza molta speranza. Il tempo, allora, è sem pre quello della notte, il buio l’ele mento naturale alla vita dei per sonaggi, e l’assolata e aprica Na poli non si intravede nemmeno in lontananza. Qui c’è solo il passeg giare stolto delle prostitute e dei marchettari, il loro mondo di liber tà tenebrose e cariche di rifiuti. Là, del sole can tato della città, ci sarà forse una possibile esistenza, ma non è nep pure un sogno, neanche una spe intorno a ranza. Tutto si muove pochi elementi: un fer- in quelle 'lande' letto di ro, un bidè di plastica, un ritrat to della madonna di Pompei e molti stracci. La figura di Mastello- ni, avvolta di nero, con calze nere molto smagliate e parrucche disor dinate e scomposte, ruota intorno a quell'oscuro girone di dannazio ne. Si può anche ridere, perché la fantasia scalza in continuazione la situazione tragica e la ricopre di ostentata comicità. Ma presto ci si rende conto che è l'arte incredibile di un mattatore che non trova mai un punto dì arresto, sempre prote sa in una fuga di ironiche violenze, senza mesti abbandoni o sentimen tali ripiegamenti. Non c’è dubbio: nessuno potrebbe mai rifare Ma- stelloni e nessuno, come lui, ti por ta davanti, con quella misura scan dalosamente palpabile, la verità del l’emarginazione. E' inutile dire co me, poi, quella verità appartenga a tutti noi, ai recessi della nostra coscienza o ai dati stessi del no stro esistere. Questo gioco crude le di un autore-attore si compie con la libertà di chi non conosce i li miti di una specie di libido comuni cativa, forse, anche questa, dote di quella ricca cultura partenopea a cui appartiene. « Brechtomania » è una leggera variante di « Beri Kurt Raffaele & Company » che fu presentato a Roma circa due anni fa. In ogni caso la capitale non era stata, prima d’oggi, il luogo di un preciso incontro tra Mastelloni e il pubblico romano. Quest'incontro, invece, è avvenuto ora, con questo spettacolo, e in modo assai con vincente. Una cosa ancora: per mol ti, la linea del cabaret e soprat- tutto del Café Chantant passava attraverso i moduli della cultura e del gusto francesi. Mastelloni ci dimostra che questo discorso è quanto meno parziale, comunque poco attendibile. La sua stessa ma schera di Pierrot la disegna in fac cia come un ricordo astratto o una memoria che sta fuori del tempo e dello spazio: è l’emblema di una perenne tristezza, di una sofferen za e di una struggente solitudine che appartengono a tutti noi, fuori da qualsiasi riconoscimento conte stuale. «Brechtomania» è uno spet tacolo che si divide in due parti di stinte: la prima che collega il mo dello napoletano alla falsariga bre chtiana, la seconda che spazia in una più vasta latitudine di referen ti, mirando a citazioni che vanno dalla Osiris alle eroine del melo dramma. In questa seconda parte si ride molto di più, ma anche in ma niera più facile. Il rito del trave stimento diventa un’arma troppo e- vidente per trattenere tutte quelle forme di ambiguità espressive che rendono eccezionale la prima parte del lavoro. Va detto, poi, che la regia di Gerardo D'Andrea ha com piuto uno straordinario intreccio di sottolissimi fili disposti ai più ori ginali ed efficaci disegni. Mastello ni, sulla scena, è solo (e sembra una presenza di moltitudini), ma ha capito che il teatro è un fatto serio e, per farlo, occorre non pre varicare mai i ruoli. Lui asseconda in pieno la sua parte, D'Andrea, da abile e raffinato regista, compie il resto. LA COMMEDIA DI GAETANACCIO di Luigi Magni Regia: Luigi Proietti Interpreti: Luigi Proietti, Luisa De Santis, Daria Nico- lodi, Sandro Merli, Lombardo Fornara, Riccardo Billi, Nino Bignamini, Enrico Capoleoni, Raffaele Arzilli, Alessandro Molinari, Giancarlo Santelli, Giorgio Bettinelli, Angiolina Campanelli, Gianna Carlotta, Carmela D'Amelio, Angelo Giordano, Gian ni Mauro, Elga Pellegri, Mariano Perrella, Annarita Pirastu, Enzo Polito, Aldo Tamborelli. Scene e costumi: Bruno Garofalo Musiche: Piero Pintucci e Luigi Proietti. Parte corale e strumentale eseguita dai « Pandemonium ». Quante volte ci si è affannati a dare una defini zione del teatro popolare, tante volte sono venute a galla le diverse ipotesi che stanno alla base di at teggiamenti e modi diversi di interpretare il feno meno. Allora: popolare nella accezione di ispirazione gramsciana (popolare inteso come subalterno rispetto alla cultura dominante); popolare come atteggiamento e modello culturale della maggioranza delle persone (accezione mutuata anche dai mezzi di comunicazio ne di massa); popolare visto nel quadro di una area del mondo dei semplici, degli umili (e facile, spesso ne deriva il populismo). Si potrebbe continuare in una serie lunga di esemplificazioni, in una specie di ras segna sul significato del termine e sul suo uso nelle varie forme espressive. Il fatto è che ogni volta il problema si ripropone, perché ci sono dei fenomeni che, per la vasta eco che hanno, vengono definiti ge nericamente popolari, e questa aggettivazione, invece, non è sempre propria. Conviene spiegarsi meglio: alcuni aspetti della comunicazione sociale si definisco no popolari per il consenso che riscuotono verso i più, non dunque in quanto forma di espressione di quei più. Il vasto gradimento è la forma di riconosci mento della popolarità. Si tratta, spesso, di un gioco artificioso, creato anche dall’industria culturale. Il modello di cultura piccolo-borghese, ad esempio, si è imposto come il più ovvio referente di tutti, della "massa” che, come si sa, è vasta, anonima e etero genea. Ma in quel modello piccolo-borghese si posso no riconoscere una quantità di filoni della nostra espressione scenica che, in alcuni casi, hanno rag giunto i canoni di una loro compiutezza estetica. Per esempio la commedia musicale che, in Italia, hanno elaborato, con un alto senso artigianale, Garinei e Gio- vannini. I due autori hanno creato, in fondo, anche un genere che è molto difficile ignorare, soprattutto se si vuole raggiungere un pubblico popolare, magari piccolo e medio-borghese, come loro hanno fatto. Luigi Magni ha cercato di aggiungere una variante a quel genere. Eia cercato di individuare quella fascia di pubblico popolare ancora legato alla fascia proletaria. Non è un fatto semplice, anche perché, come ha dimostrato a suo tempo Pasolini, le forme di omologazione cul turale della nostra civiltà non permettono più di di stinguere fasce o classi sociali. Quindi rimane soprat tutto un’ipotesi, quella di voler raggiungere la fascia popolare attraverso lo spettacolo, tutta da verificare e riformulare, di volta in volta. La scelta del canale cinematografico permette, forse, un maggiore poten ziale al messaggio. E Magni, con i suoi film, ha cer tamente raggiunto una grande fascia di pubblico, da quello proletario a quello borghese. Ma nei « conte nuti », nel messaggio, c’era — e c'è —, l'ipotesi po polare, se non altro nella scelta dei significati. Era inevitabile, da un certo punto di vista, che Magni si dovesse incontrare con Luigi Proietti, attore che per un suo naturale modo di essere si dispone all'atteg giamento popolare, come se ci fosse, prima della sua intenzione, una specie di dannazione che lo condanni al rapporto immediato con il pubblico. È vero che Proietti è un attore dalle capacità rare. Nel suo cur riculum si pongono esperienze diverse, da quella di musicista a quella di attore colto e raffinato (chi lo ricorda quando recitava opere come quelle brechtiane o espressionistiche ne sa qualcosa). La convinzione di così, alla scelta di questo Gaetanaccio. Magni che fruga nell'Ottocento e Proietti che si affianca in que sta operazione. A voler essere precisi ci sarebbe da fare un lungo discorso sul dialetto romano. A tutti sembra che il romanesco sia quello che, in qualche modo, si rifa al Belli. Ma si sa, però, che il roma nesco belliano è una sublime invenzione letteraria. Si sa, d’altronde, che il « romano de Roma » è stato sempre contaminato da presenze esogene, che hanno portato a infinite varianti nel dialetto. A volerne fare una questione di purezza linguistica non si uscirebbe mai dal problema. Un modo per risolverlo, non l'unico comunque, è quello di privilegiare direttamente i con tenuti in una connotazione plebea o, in qualche modo, di classe. Il linguaggio, allora, lo scopri all'Interno delle situazioni e, forse, è più facile ovviare a molte imprecisioni. Basta non illudersi di aver trovato, così, il romanesco come dialetto, ma di aver focalizzato, invece, il romanesco come condizione. In questo sen so il discorso di Magni è molto coerente, e altrettanto coerente è quello di Proietti. E ora veniamo al personaggio della commedia, ci tando ciò che dice Magni: « Gaetano Sant'Angelo, in arte Gaetanaccio, nacque e visse a Roma dal 1772 al 1832 esercitando il mestiere di burattinaio. Scrive Anton Giulio Bragaglia nella Storia del Teatro Popo lare Romano: "Quando Leone XII sospese gli spetta coli per l'Anno Santo 1825, Gaetanaccio fu costretto a chiedere l'elemosina per i suoi pupazzi stesi in terra...". Questa e poche altre notizie, alcune battute diventate proverbiali è quanto resta e si sa del sin golare personaggio che si trascinava per Roma con il casotto o castelluccio sulle spalle e improvvisava scucite commedie a soggetto prendendo spunto dai fatti pubblici e privati allo scopo dichiarato di "Rom pere i coglioni” ». E Bragaglia, citando il Maes, ri- Le maschere di « Gaetanaccio » Gigi Proietti e Nino Bignamin (foto Le Pera) sottrarsi al teatro borghese e consolatorio deve es sere venuta a Proietti da una specie di graduale au toriconoscimento, espresso in tappe successive, fi no a raggiungere una precisa forma di definizione. A me gli occhi please doveva essere l'ultimo atto di questo suo percorso verso una compiuta determina zione delle sue doti mattatoriali. È ovvio che questa ultima esperienza teatrale doveva in qualche modo trovare anche una sua collocazione sociologica, per quanto riguarda una distribuzione fisica dell’offerta teatrale nel tessuto urbano. Quindi, a pensarci un momento, appare più che logico che Proietti sia di ventato il direttore artistico di un teatro come il Brancaccio di Roma, luogo deputato, dagli inizi di que sto secolo fino a qualche decennio fa, della teatra lità popolare, e di quella, per capirci, che annovera i nomi di Scarpetta, Eduardo, Totò, Sordi, Riccardo Billi. Proietti si propone di portare il teatro a un pub blico più vasto di quello dei tradizionali circuiti, e per questo fa una politica dei prezzi (mantenendoli bassi) e recupera una forma di romanità. Arriviamo, porta: « Il burattinaio rappresentava il potere, allora così compresso a Roma, dell'opinione pubblica: la stampa aveva la mordacchia, ma Gaetanaccio parlava, per tutti, in piazza [come il borghese Cassandrino fa ceva il giornale politico e mondano per uso dei si gnori al teatro Fiano). Non la perdonava a nessuno: né a monsignori, né a cardinali, né al papa; e ardi tamente piantava il suo casotto sotto le finestre di coloro che aveva scelto a bersaglio delle sue sa tire ». Da questo spunto la commedia di Magni- Proietti sviluppa una serie di situazioni che hanno come comun denominatore il tema della fame: è la fame di Gaetanaccio. Questi gira in una terra di nessuno, con la sua Nina, donna che, prima di tra dire il suo uomo, si prende una coltellata da un por porato piuttosto libertino e viscido. Si esibisce, nel tentativo di mangiare un boccone, davanti al papa, ma senza successo. Gaetanaccio, però, odia la vio lenza e la sopraffazione: disapprova tanto i sopru si dei potenti, quanto la violenza di Fiorillo, figlio di Pulcinella, che uccide un gendarme. In questo apologo sulla presenza perenne nella storia dello sfruttamento dell'uomo sul l'uomo, non c'è ovvia mente una conclusione. I personaggi li lasciamo al la fine di un'azione di un giorno qualunque, prima di un altro qualsiasi giorno. I riferimenti all'attuali Luisa De Santis e Gigi Proietti in « Gaetanaccio » (foto Le Pera) tà sono tanti, a volte anche troppo palesi: si potreb bero leggere una serie incredibile di episodi legati al nostro sciagurato presente. Ma Io spettacolo va Ietto soprattutto nella sua dimensione sociologica: in quel voler proporre una specie di racconto da cantastorie con pause, canzonature, sberleffi, risate, pianto, cantate a gara e sentimentali, e poi una leg gera malinconia che, al fondo, ricopre tutte le cose e i fatti, come a voler significare, secondo la « filo sofia romanesca», che tanto «sto monno 'nze pò cambià, pure se ce provamo ». Proietti è sempre quel grande attore che è. Per fettamente a suo agio nel personaggio, sembra che inventi continuamente, e che il testo sia per lui sempre un canovaccio. Accanto a lui vi sono tanti attori, tutti molto affiatati e bravi. Tra questi vanno ricordati: Luisa De Santis (Nina), Daria Nicolodi che interpreta la figura metaforica della morte sempre in agguato, Riccardo Billi (il papa), Sandro Merli, Enrico Napoleoni, Lombardo Fornara e Nino Bigna- mini. Le scene di Bruno Garofalo citano, con molta sapienza, le famose litografie di Thomas. Le musi che, eseguite dal complesso « Pandemonium », sono di Piero Pintucci e dello stesso Proietti e si com pongono in modo molto coerente con gli altri ele menti dello spettacolo. % % X , X IL MATRIMONIO di Nicola]' Gogol Elaborazione e regia: Giancarlo Sepe Interpreti: Paola Sacci, Raffaella Innocenti, Re Panlchi, Adriana nato Campese, Corrado Olmi, Remo Foglino, Aldo Miranda, Roberto Antonelll, Saverio Mo- riones Scene e costumi: Uberto Bertacca Musiche originali: Stefano Mar- cucci rimangono Le realizzazioni teatrali di Gian carlo Sepe, soprattutto da qualche tempo a questa parte — e cioè da quando questo regista ha istituzio nalizzato la collaborazione con lo scenografo e costumista Uberto Bertacca — si presentano spesso come certi sogni che nella loro nitidezza, nell'ossessiva insistenza in situazioni di una tranquilla as surdità, sono quasi al confine con l’incubo, eppure, im pressi non come qualcosa di sgra devole quanto come qualcosa di irreale, di non risolto. Difficile tro vare il punto di contatto fra una simile impostazione e il contesto assai diverso nel quale si muove l’opera teatrale e letteraria di Ni- colaj Gogol; nel caso specifico la commedia « Il matrimonio » con la quale Sepe — nella circostanza in collaborazione con la Cooperativa « Compagnia dell’Atto » — lascia per la prima volta le cantine ed i teatrini dell’avanguardia per af facciarsi nei circuiti maggiori, for V V V niti di teatri e di pubblici certa mente assai diversi. Non è invece la prima volta che Sepe non è anche l’autore — ol treché il regista — dei suoi spet tacoli: ricordiamo a questo propo sito un recente « Zio Vanja », do ve però ii testo di Cechov era sol tanto Io spunto per un allestimen to dei tutto originale. Nei caso Paola Bracci e Raffaella Panicfii ne « Il matrimonio », regia Giancarlo Sepe (foto Massimo Listri) della commedia di Gogol, vicever sa, il testo viene seguito e rispet tato con sufficiente fedeltà, ma non per questo Sepe ha rinuncia to a dare allo spettacolo un'im pronta affatto personale: la vicen da della giovane Agàfja Tìchonov- na, della mezzana Fiòkla Ivanovna che ha promesso di trovarle ma rito e dei cinque pretendenti Pod- koliossìn, Kothekinj, Anutschkin, Gevakin e Storikov è trasformata in un coloratissimo spettacolo di marionette. Ad ogni personaggio corrisponde un particolare tipo di pupazzo: così la brava Adriana In nocenti fa della mezzana Fiòkla una specie di grande bambola rus sa, del tipo «sempre in piedi », mentre Roberto Antonelll è il mi litare che si muove a scatti o ri mane irrigidito in pose ridicole; così ancora Paola Bacci è la preoc cupata Agàfja, Renato Campese l’indeciso Podkollossin, Corrado Olmi il prepotente amico Kotsch- karlof, Remo Foglino il grasso e Irascibile Kothekinj. Ognuno ha una sua andatura par ticolare, una sua precisa carat terizzazione e queste marionette potrebbero ancora rappresentare un’accettabile forzatura nella linea clella satira gogoliana; ma è nel l'atmosfera — fra le grandi pareti e il soffitto che vorrebbero sem brare di cristallo della scena rea lizzata da Bertacca — che lo spet tacolo prende Irrimediabilmente le distanze dal testo di Gogol: non c’è più quel riferimento, seppure In chiave stravolta e paradossale, ad una precisa realtà, ma si na viga in una dimensione irreale co me nel solito sogno o piuttosto come in certe favole preoccupan ti ed ambigue che nascondono, se condo gli psicanalisti, i terrori ti pici del subconscio Infantile. Pos siamo anche ammirare l’abilità del regista nel padroneggiare l’argo mento trascinandolo In una dimen sione a lui congeniale, segnando lo spettacolo di una cifra senz'al tro personalissima, ma viene ad essere tutto sommato un gioco che tende a ripiegarsi su se stes so; e non vale d'altronde la pena di utilizzare il nome di un autore come Nicolaj Gogol se poi in fon do l’unico vero autore, ancora una volta, è soltanto il regista. mine: succede cioè — ed è maga ri anche comprensibile per un’im presa che in questo momento ha anzitutto bisogno di un pieno suc cesso di pubblico -— che la regia di Puggelli e soprattutto l’imposta zione che inevitabilmente Lionello conferisce, come Indiscusso ed as soluto protagonista, a tutto lo spet tacolo, tendano ad utilizzare tutte le risorse di un raffinato mestiere in funzione di uno spettacolo pia cevole, che possa riscuotere senza troppi problemi l'interesse di una larga schiera di spettatori, piutto sto che di un reale approfondimen to del testo. Non è affatto necessario ripren dere il solito discorso del contra sto fra realtà ed apparenza, vita e forma, volto e maschera: sono sicuramente disquisizioni legittime, tanto più se a proposito di un te sto che — composto nel 1917 e si tuato tra « Il berretto a sognali » e « Il gioco delle parti » — rappre senta un momento particolarmente IL PIACERE DELL’ONESTA’ di Luigi Pirandello Regia: Lamberto Puggelli Interpreti: Alberto Lionello, Erica Blanc, Anna Maria Bottini, Um berto Ceriani, Mlco Cundari, Ro berto Pescara, Guerrino Crivello, Elisa Binachlni. Scene: Paolo Bregnl Musiche: Giovanna Busatta Umberto Ceriani, Alberto Lionello e Erika Blanc ne « Il piacere dell'onestà » significativo nello sviluppo della tematica pirandelliana; ma sono an che argomentazioni vecchie ormai di oltre clnquant'anni — e nel frat tempo ripetute in continuazione e sviscerate in tutte le possibili va riazioni sul tema ■— mentre va sot tolineato che il teatro pirandelliano propone anche problemi nuovi al pubblico d’oggi. Anzitutto un pro blema di intendendo questo termine sia in senso stretto che in senso lato: in senso stretto la trascinata quasi all'infinito nell'illustrazione e nella dimostrazione del paradosso, •Non è questa l'occasione per tornare sulle note vicissitudini del teatro Parioli; viene però sponta neo — e non solo in virtù di que gli avvenimenti — riconoscere ad Alberto Lionello ed alla sua Impre sa teatrale II giusto tributo di sim patia e di ammirazione, che sono del resto soprattutto il riconosci mento di un serio professionismo e di un autentico attaccamento al teatro. All'insegna del professioni smo anche lo spettacolo che ha ria perto il rinnovato « Parioli », il pi randelliano « Piacere dell'onestà », ma non nel senso migliore del ter linguaggio, frase pirandelliana, lontana per costruzione sintattica e per l'uso di determinate espres sioni dal parlar corrente del gior no d’oggi, è un prodotto d’epoca troppo precisamente datato. Si ri chiede che l’interprete, pur nel ri spetto della lettera del testo, sap pia proporre un simile linguaggio In forma più accessibile all’orec chio moderno: è un sapiente gioco d’impostazione, di salti di tono che spezzano una frase troppo lunga pur conservando la continuità del significato; un gioco nel quale Lio nello si conferma ancora una volta maestro. Ma per linguaggio si in tende anche, in senso lato, i termi ni attraverso i quali si intende ri proporre il testo, verificarne il si gnificato nella possibilità comples siva di espressione teatrale; or mai non può più essere rinviata per il teatro di Pirandello la pressante necessità di una prospettiva effet tivamente nuova e originale: altri menti, esaurita ormai la novità del paradosso pirandelliano, si rischia di veder emergere da quelle com medie o soltanto un gioco di pa role e di situazioni o, addirittura semplicemente delle banali storie « borghesi », sul genere di quel teatro fine-ottocento di cui l’opera pirandelliana essere proprio il superamento. D'altronde l’unica vera prospettiva dello spet tacolo di Lionello e Puggelli è di giocare tutto sulla bravura del pro tagonista che poi magari — da vanti ad una simile sollecitazione — tende anche un po' a strafare. È il vecchio problema del « mat tatore » che del resto una certa larga parte del pubblico mostra sempre di gradire: come riteniamo possa senz’altro gradire le eleganti scene di Paolo Bregni e la presen za, accanto a Lionello, di un grup po di attori tutti su un livello di sicuro mestiere come Umberto Ce- rianì, Mico Cundari, Anna Maria Bottini ed Erica Blanc. intendeva Uria foto d'insieme de « Il borghese gentiluomo » (foto Peppe Avallone) IL BORGHESE GENTILUOMO di Molière Traduzione: Cesare Garboli Regia: Carlo Cecchi Interpreti principali: Carlo Cecchi, Michele De Marchi, Antonino Bertorelli, Mara Baronti, Gìgio Morra, Maura Sandonà, Alfonso Santagata, Aldo Sassi. Scene e costumi: Sergio Tramonti Musiche: Michele De Marchi luppa in queste direzioni il suo di scorso teatrale: la sua ultima rea lizzazione — sotto il patrocinio del Teatro Regionale Toscano — ri guarda un celebre testo di Mo lière, « Il borghese gentiluomo », rivisitato in chiave di forzatura dei personaggi e delle diverse situazio ni secondo i moduli espressivi di cui si diceva: trucco accentuato — quasi clownesco —, recitazione ca ricata al massimo, ricerca dell'ef fetto comico attraverso la ripetizio ne quasi ossessiva del gesto o del la situazione paradossale, largo u- so del dialetto nella caratterizza zione di molti personaggi. Va anzi tutto sottolineato che una simile impostazione lascia ben poco spa zio alle originarie indicazioni del l'autore; a parte questo, nell’alle stimento di Cecchi soluzioni anche brillanti e divertenti si alternano a lunghe (e, tutto sommato, noio se) insistenze su taluni spunti, fi no a veri e propri momenti di pau sa: c'è un chiaro rallentamento dell'azione che alla lunga non può non generare stanchezza. Il contri buto migliore allo spettacolo resta la prova dei singoli interpreti, in particolare lo stesso Cecchi nella parte del protagonista e Michele De Marchi e Gigio Morra impegna ti ciascuno, con grande versatilità, in ruoli diversi. Figlia della Commedia dell’Arte, la farsa napoletana — da Pulcinel la a Totò — è stata considerata per lunghissimo tempo una forma di teatro minore; da qualche anno è però oggetto di una progressiva riscoperta, al punto che dall'antica disattenzione si rischia addirittura di cadere nell'eccesso opposto: so prattutto nell'ambito di un certo teatro più o meno sperimentale hanno infatti preso progressiva mente piede alcune teorie sull'u tilizzazione (magari in chiave di scomposizione) dei mezzi espressi vi tipici di quel certo tipo di farsa, teorie che •—• pur presentando mo menti d'indubbio interesse — pec cano generalmente d’eccessivo in tellettualismo e rischiano di di sperdere la genuinità e la sponta neità che sono invece le caratteri stiche prime di quel particolare ge nere di teatro. È un po’ il caso di Carlo Cecchi che con la sua cooperativa « Il Granteatro » già da alcuni anni svi certo ritratto di maniera di un e- poca di violenza e soprusi, pesti lenze e fame. Dignitosa la prova degli interpre ti, Salvatore Puntillo, nei panni di Francesco, Nando Gazzolo neila parte del re e accanto a loro, fra gli altri, Gianni Guerrieri, Lucio Ro sato, Franco Ferrarone, Giuditta De Santls e Riccardo Perucchetti. traversamento del monti della Ca labria e l’Incontro con i briganti, l'arrivo a Napoli ed i duri rimpro veri rivolti al re Ferrante, l'udienza concessa dal Papa Sisto IV, la tra versata sul mare in tempesta, fino al colloquio finale nel quale i due mondi così diversi del re di Fran cia e del frate calabrese constata no l'impossibilità d’intendersi. Una costruzione teatrale abba stanza Insolita ma che non ha e non può avere l'autentica e poetica Ingenuità di certi cantastorie popo lari, mentre le indicazioni di mag gior impegno — prima fra tutte quella sul contrasto Insanabile fra la visione sociale di Francesco e del suol poveri e l’ideologia di po tere del re e degli altri potenti del ia vicenda — non vanno oltre un Riccardo Perucchetti e Salvatore Puntillo in « Francesco e il re » FRANCESCO E IL RE di Vincenzo Ziccarelli Regia: Alessandro Giupponi Interpreti: Nando Gazzolo, Salvato re Puntillo, Gianni Guerrieri, Do menico Pantano, Giuditta De San- tis, Lucio Rosato, Jerri Mussaro, Franco Ferrarone, Gianni Greco, Daniela igliozzi, Riccardo Peruc- chetti e Franz Marcelletti Scene: Emanuele Luzzati Costumi: Giovanni Licheri Musiche: Vittorio Stagni Il Francesco del titolo è San Francesco di Paola mentre il re è Luigi XI di Francia: lo scrittore e drammaturgo calabrese Vincenzo Ziccarelli prende lo spunto da un fatto realmente accaduto nel 1482- 83 allorché re Luigi XI, gravemente malato, volle al suo capezzale l'u mile frate calabrese al quale la vo ce popolare attribuiva miracolose guarigioni. Dunque il testo teatrale di Ziccarelli — messo in scena dal regista Alessandro Giupponi sotto il patrocinio del « Teatro di Cala bria » — propone a scene alterna te due storie parallele destinate a ricongiungersi solo nel finale: men tre alla corte di Francia re Luigi sente la morte sempre più vicina nonostante lo sforzo dei medici, frate Francesco dapprima si rifiuta di lasciare i suoi « cafoni » cala bresi; poi, ubbidendo al comando del Papa, si mette finalmente in viaggio. Sul palcoscenico questo viaggio procede — su di una strut tura circolare che deve suggerire un'Idea di moto ininterrotto — at traverso una serie di « quadri » che sono (o vorrebbero essere) l'equi valente teatrale delle narrazioni in piazza dei cantastorie popolari; l'at anche di rinunciare a determinati approfondimenti a favore di schemi più facili e superficiali, magari lon tani dalle vere indicazioni del testo. Il protagonista di questa comme dia, Eugenio, intrattiene fuori del matrimonio due relazioni con al trettante ragazze e, non pago di a- ver messo in piedi un simile pa sticcio, pretende ad un certo pun to che le tre donne (che ignorano ciascuna l’esistenza delle altre) di ventino amiche, evidentemente con la speranza che possano finir con l'accettare una situazione che si rivela invece insostenibile, com'era del resto facile prevedere. Raccon tato così « Il seduttore » potrebbe sembrare addirittura una pocha de: non bisogna però mai dimen ticare che tali meccanismi sono soltanto l'occasione — o addirittu ra il pretesto — per proporre in forma accessibile a tutti argomenti serissimi; si tratta di verificare e di rappresentare, nelle tante varia zioni possibili su di un simile te ma, le ansie e le contraddizioni dell’animo umano, il grande contra sto fra bene e male che è d’altron de l’unica autentica ragion d’essere del fenomeno teatrale. Dunque la storia di Eugenio e delle sue tre interlocutrici — Norma, Wilma e Alina — conferma, quasi trent'anni dopo la sua validità come ritratto di un'inquietudine interiore, di una crisi di valori della quale oggi pos siamo anzi meglio cogliere l’am piezza: c'è nel personaggio di Eu genio, in questo suo bisogno d’a more, sia pure per vie sbagliate e nell'incapacità di veder chiaro in se stesso e nelle sue interlocutrici fra tante contraddizioni, un’incon testabile aspirazione a qualcosa di più alto; una necessità inconteni bile di spiegare e di comprendere anche a costo (è questa una battu ta che gode nel testo di una par ticolare sottolineatura) di « pagare di persona ». Non si tratta affatto di risolvere nella maniera più co moda o più semplice un complica to intreccio di relazioni sentimen tali, quanto di comprendere final mente il perché di un’inquietudine profonda che va ben oltre il gioco superficiale del seduttore. Dispiace quindi che la regia di Enriquez mo stri di prendere sul serio il lato pochade a tutto discapito del si gnificato vero della commedia. Le battute del testo sono rigorosamen te rispettate, ma basta natural mente una certa impostazione, l'in sistenza su di un punto piuttosto che su di un altro, tutta una scelta di tono (come pure talune infelici sottolineature) per capovolgere il senso dell'opera di Fabbri. Natural mente talune indicazioni emergono egualmente, magari incomplete ed inoltre fuori dal necessario conte sto: così l’Eugenio di Giuseppe Pambieri ha quei risvolti malinco nici, quel ripetersi di interrogativi mai espressi compiutamente che lo apparentano — tanto per riferirsi ad un’altra recente regia di Enri quez — al sognatore protagonista delle « Notti bianche » di Dostoev skij; ma è decisamente troppo poco rispetto a quanto il testo poteva e doveva esprimere. IL SEDUTTORE di Diego Fabbri Regia: Franco Enriquez Interpreti: Giuseppe Pambieri, Lia na Trouché, Jenny Tamburi, Lia Tanzi Scene: Jack Frankfurter Musiche: Gajo Chiocchio Riproporre un testo non nuovo e che risale anzi a quasi trent'anni fa (nel caso specifico una comme dia del 1951, «Il seduttore» di Diego Fabbri; regia di Franco En riquez, interpreti Giuseppe Pambie ri, Liana Trouché, Jenny Tamburi e Lia Tanzi) può essere un’occasione ricca di motivi d'interesse, utile per tutta una serie di importanti verifiche culturali e di costume; può rappresentare però anche una ipotesi di pigrizia mentale, la ten tazione di rifugiarsi in un’opera che ha già dimostrato di poter ottenere il consenso del pubblico, a costo X X Al Teatro dei Satiri di Roma, il 17 ottobre la « Compa gnia Cooperativa Teatro Veneto Oggi » ha presentato in prima nazionale « Giulieta e Romeo di Berto Barbarani, per la regia di Nivio Sanchini. « Giulieta e Romeo » scritta dal Barbarani in una prima stesura nel 1902, ma presen tata al pubblico in forma definitiva solo nel 1941, riper corre i sentieri deH'immortale storia d'amore in un continuo saliscendi del sorriso e dell'emozione. Le scene sono del laboratorio Teatro Veneto Oggi e le musiche di Renato Falavigna. Giuliano Vasilicò, autore e regista di importanti spetta coli teatrali («Le 120 giornate di Sodoma», «Proust») ha vinto il Premio Mondello 1978 assegnato al regista di re cente attività professionale che nel corso della stagione teatrale di prosa ’77-’78 si sia messo in luce per un'intensa attività di ricerca espressiva e stilistica. La motivazione è stata la seguente: « Per il rigore con cui ha saputo rispondere alla sollecitazione di acute con traddizioni interiori, costringendo l'espressione teatrale alla serietà e alla tensione di un rituale, ove i segni e sim boli si compongono in suggestive metafore. I suoi ultimi spettacoli, "Le 120 giornate di Sodoma” e soprattutto "Proust”, traducono in sintetiche figurazioni teatrali, con ironica aderenza interpretativa, caratteri e immagini degli originali letterari che forniscono i termini di una identifi cazione mimetica fondamentale alla sua espressione ». Dodici compagnie italiane del teatro amatoriale e quat tro estere in rappresentanza della Francia, Belgio, Princi pato di Monaco e Svizzera partecipano a Chieti al 31° fe stival nazionale dei gruppi d'arte drammatica e al primo festival Internazionale del teatro amatoriale di cultura la tina. Il festival, che si chiuderà il 10 dicembre, è stato inaugurato con la presentazione de « Il campiello » di Carlo Goldoni dal « Gad » delia « Piccola ribalta » di Ve nezia Il teatro indiano « Kathakali » con il Kerala Kala Ken- dram, diretto da Krishnan Nambudiri è stato ospite della Basilica di Massenzio a Roma il 27 e il 28 settembre, dove ha presentato « Scene dal Ramajama e dal Mahabharata ». Lo stile del teatro indiano è basato sul linguaggio dei ge sti, dei movimenti, sul costume e sul trucco scelti come regole di recitazione per gli attori. Il regista Krishnan Nam budiri discende da un'antica stirpe di maestri e iniziò a lavorare nel teatro a otto anni. Il « Kathakali » ha concluso ia sua lunga tournée in Italia (ha condotto il suo spettacolo in diverse città, tra cui Modena, Perugia, Bari, Avellino e Catania), a Pontedera con tre giorni di spettacolo, ospite del Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale. « La storia di tutte le storie » di Gianni Rodari ha inau gurato il 10 ottobre la «Tenda-Ragazzi » del Teatro di Roma- Teatro Scuola a villa Lais nel quartiere Tuscolano di Roma. Inaugurato lo stesso giorno anche il seminario Fiaba-Teatro che è durato per tutto il mese di ottobre trisettimanal- mente. Il Tenda-Ragazzi si tratterrà a villa Lais fino a Na tale. In cartellone oltre ad alcuni spettacoli allestiti dalle scuole di Roma, anche interventi su « La Fiaba educazio ne », «La Fiaba burattino», «Il fantastico nell'educazione», la « Fiaba drammaturgia ». La Compagnia stabile del Teatro di Roma « Checco Du rante », nel corso della stagione 1978-'79 ospiterà nel Tea tro Rossini una speciale sezione di Teatro per ragazzi. Fin dai primo ottobre infatti la Compagnia dei Burattini di Girasole ha portato sulle scene « Er callaro », due tempi di Nino Strizzi che ha curato anche la regia. Le scene, i costumi e i burattini sono di Piero Sterpini. Lo spettacolo è replicato ogni domenica e ogni festivo. Il sindaco di Spoleto, Laureti ha annunciato che il nuovo direttore artistico del Festival dei Due Mondi sarà il mae stro Giancarlo Menotti. Come si ricorderà, infatti, la dire zione artistica della manifestazione spoletina era stata as sunta, da ormai sette anni, da Romolo Valli, che si è però dimesso a causa degli impegni presi con il Teatro Eliseo di Roma. L’IDI (Istituto del dramma italiano) ha scelto le quattro commedie che nella prossima stagione teatrale, andranno in scena favorite dal suo contributo. Sono: « Esercizi spiri tuali » (« Concerto ») di Renzo Rosso, presentata dal Grup po della Rocca con la regia di Alvaro Piccardi; « Fantastica visione » di Giuliano Scabia, presentata dal Centro Teatrale bresciano con la regia di Massimo Castri; « Una strana quiete » di Renato Mainardi, rappresentata dalla compagnia I Filodrammatici di Milano, con la regia di Lorenzo Grechi, e « Teomedio di Siracusa » di Fabio Storelli, diretta da Giancarlo Cobelli. « La ballata dei 14 giorni di Masaniello » realizzata dal Bread and Puppet Theatre insieme alla compagnia di mu sica e teatro popolare « Pupi e Fresette », è andata in scena in prima nazionale a Pontedera. Lo spettacolo, come nella tradizione del Bread and Puppet, è stato preceduto da una sfilata lungo il corso e il centro cittadino di Pontedera. « La ballata dei 14 giorni di Masaniello », prodotto dal Teatro Regionale Toscano, nasce dal rapporto che il grup po americano del Bread and Puppet ha instaurato con la Compagnia di musica e teatro popolare Pupi e Fresette durante la sua permanenza a Firenze nel 1976. Grazie a questo rapporto una prima versione della ballata venne sperimentalmente presentata al Festival del Vermont, a Boston e New York. Si è svolto a Lampedusa il festival dei pupari di Cata nia, Lampedusa, Palermo, Siracusa e Tunisi. Nel corso della rassegna si è svolto anche un importante convegno del quale sono stati relatori il prof. Santi Correnti, stu dioso di storia della Sicilia, il prof. Enzo Lauretta, direttore del centro studi pirandelliani di Agrigento, il prof. Andrea Bisicchia, il prof. Omar Saiti, titolare di letteratura araba all'Università di Tunisi. Oltre il convegno si sono svolte le rappresentazioni delle opere dei pupi dirette dai pupari Carmelo Maggiore di Lampedusa, Ciccio Sclafani e Luigi Mancuso di Palermo, dei fratelli Napoli, Antonio Lampugnana ed altri. La cooperativa teatrale « Attori e tecnici » anche per la stagione 1978-79 prosegue nella « riscoperta » di testi clas sici dimenticati o misconosciuti. Dopo aver portato sulle scene negli anni passati « Notte con ospiti » di Peter Weiss, « Lo stordito » di Molière e » Intrichi d'amore » di Tasso, quest’anno si occuperà di Goldoni (■< Il mondo della luna », una tragicommedia con musiche di Haydn, dal libretto d’opera di Paislello, che presenta in versione ori ginale) e di Ludwig Tiec (*■ Il gatto con gli stivali », com media con musiche, riduzione di Luciano Lucignani, mu sica di Emanuele Luzzati e costumi di Giovanni Licheri). Oltre a questi due nuovi lavori, la cooperativa « Attori e tecnici » che si varrà anche quest'anno della collabora zione della Regione Umbria, prevede la ripresa dello « Stor dito » di Molière e di « Intrichi d’amore » del Tasso. « Du-Du Da-Da, il disperato vincerà» è il titolo dello spettacolo che la compagnia il Teatro del Sole ha portato in scena a novembre al Teatro Officina di Milano. La storia è imperniata su una trasmissione radiotelevisiva in cui viene premiato colui che narrerà « cercando di interessare il pubblico » la storia (vera) della propria esistenza di sperata. Si presentano tre giovani, due uomini e una don na, tutti afflitti dal male di vivere. La disoccupazione, l’e marginazione, la solitudine e la « paura di tutto » sono le ultime cause dell’angoscia e della disperazione dei tre. La vittoria spetta alla donna, la più emarginata, proprio in quanto donna, che, premiata su un podio, è poi lasciata lì sola, e scendendo tra il pubblico cerca calore umano, che, naturalmente non troverà. Dal 3 novembre al Teatro dei Satiri Carlo Croccolo porta sulla scena « Le furberie di uno sciocco (ovvero la leggenda di Esopo) », che ha scritto in collaborazione con Nivio Sanchini. La compagnia è quella del Teatro Club Rigorista formata da Giusi Martinelli, Alfredo Pasti e Loredana Marcon, la regia di Nivio Sanchini. Lo spetta colo trae spunto dalla leggenda di Esopo come l'ha tra mandata Francesco del Tuppo. Al Politecnico e al Teatro dei Satiri di Roma uno spet tacolo linguisticamente inconsueto per i palcoscenici ita liani: una commedia recitata interamente in latino: « De uxore cerdonis » ne è il titolo, 436 distici elegiaci scritti da un anonimo o forse da un certo lacobus di Benevento. La cooperativa « Politecnico teatro » porta in scena la com media guidata dal regista Giandomenico Curi, e riesce a coinvolgere il pubblico, impaurito dalla lingua morta, at traverso un ben congegnato accompagnamento musicale e una recitazione ritmata (anche grazie alla rima dei distici), che risulta simile al popolare « grammelot » tanto usato da Fo. Tra gli attori Oreste Rotundo, Elena Magoia, Federico Giulietti e Renato Cecchetti. AI teatro Centrale di Roma Silvio Spaccesi ritorna sulla scena dopo cinque anni con « Lei ci crede al diavolo in mutande? » di Guido Finn. La commedia narra la storia di un diavolo pasticcione, che, dopo aver fatto diventare santi Agostino e Francesco è mandato ancofa una volta sulla terra a rimediare allo sbaglio. Il suo compito è di far pec care una famiglia piccolo borghese, ma naturalmente non ci riuscirà. La regia è di Lino Procacci, le musiche di Franco Po tenza, le scene di Paolo Ferruzzi. Il 25 ottobre la compagnia stabile del Teatro di Roma « Checco Durante» ha inaugurato la stagione 1978-79 con la presentazione in prima assoluta di « Meo Patacca », due tempi di Enzo Liberti. Lo spettacolo, ispirato al poema eroicomico di Giusep pe Berneri, ha per interpreti, oltre ai componenti della compagnia — Anita Durante, Leila Ducei e Enzo Liberti — anche Luciana Durante, Renato Merlino, Pietro Zardini, Eli 1 sabetta Liberti, Lydia Raimondi, Fiorella Galliani, Emanuele La Torre, Paolo Spinelli, Carlo Conversi e Gustavo Nasti. Piero Sterpini ha curato le scene e i costumi, Lydia Rai mondi la musica; la regia di questo « Meo Patacca » è dello stesso autore. Per quindici giorni tra ottobre e novembre al Teatro La Piramide di Roma Memè Periini ha portato in scena, an cora una volta, « Il risveglio di primavera ». Lo spettacolo, scritto da Wedekind, Aglioti e lo stesso Periini, vanta più di ottanta repliche nella sola capitale, ed è reduce da nu merosi festival teatrali, tra cui il Bitef di Belgrado. « Il risveglio di primavera », che ha anche vinto il premio Mondello 1978 quale migliore pièce teatrale dell’anno, sarà portato in tournée da Periini a Milano, Firenze e Torino. Tra gli interpreti del lavoro figurano Bettina Best, Massi miliano Mitia, Edoardo Spada, Cristina Manni, Lidia Mon tanari e Marco Massaccesi. Al Teatro « Il Salottino » di via Capo d'Africa nella ca pitale, la Compagnia Voci e Volti di Roma prosegue le repliche della commedia-giallo « Atmosfera di omicidi » di Raffaele Stame e di Rosa D'Ancona. La storia si impernia sulla figura di un ricercatore, il prof. Orlstorof, che è in procinto di realizzare un importante ritrovato antileucemico con l'aiuto di otto assistenti sguinzagliati per il mondo alla ricerca di otto cellule vegetali indispensabili per il medicinale, ma rarissime. Al dunque però non si trova più una delle cellule. Chi l'ha presa?. Tra colpi di scena e trovate da « giallo » la commedia si snoda fino al finale risolutivo. Si è svolto per iniziativa del Comune di Firenze e del gabinetto Vieussex nei giorni 4-5-6 novembre scorsi un convegno sul tema « Teatro tra scapigliatura e verismo », al quale hanno preso parte nomi di grande fama fra cri tici, registi e studiosi. Il convegno si è concluso con una tavola rotonda sul tema « Il teatro ottocentesco e il No vecento ». Il debutto a Londra di «Aggiungi un posto a tavola» di Giovannini e Garinei (con Johnny Dorelli unico italiano e il resto della compagnia tutti inglesi) è andato bene: gran de successo di pubblico, critica buona con qualche riserva, ma con gli autorevoli ■> Times » e « Financial times » so stanzialmente positivi. L 'a u tu n n o r o m a n o a l T e a tr o C lu b L o s p l e n d o r e Quest’anno, l ’Autunno romano, promosso dal Teatro Club, in collaborazione col Teatro di Roma, il Comune e il Ministero dello Spettacolo, ha pro posto una delle più significative manifestazioni de gli ultimi tempi, per lo meno per quanto riguarda il teatro di prosa. In pochi giorni si è avuta a Roma la presenza di gruppi teatrali di primo piano, e non solo di fama internazionale. Da una parte il « Théâ tre des Quartiers d’Ivry » e il suo regista Antoine Vitez, dall’altra il « Living Theatre » e, infine, il gruppo di Peter Brook. A parte, poi, l ’intervento dello straordinario mimo Jacques Lecoq. Sul Living e il suo Prometheus riferisce, in al tra parte della rivista, il nostro Odoardo Bertani. D i passaggio, viene spontaneo sottolineare quanto era atteso questo importante gruppo americano. Se lo spettacolo presentatoci sia stato bello o brutto, questo, in fondo, ha molto meno importanza ri spetto al valore-verifica che può rappresentare oggi, tanti anni dopo (quasi il tempo di una preistoria!) Paradise Now. Infatti molti di noi associano l’azio ne del Living al periodo « epico » del Sessantotto, alle occupazioni delle università, all’irrompere del- l ’happening da e contro la scena. Eppure Julian Beck e la Malina erano partiti dallo studio di Sona ta di fantasmi di Strindberg, e quindi avevano in tuito, alla fine degli anni quaranta, una nuova ne cessità d’impostazione del modello comunicativo teatrale. Pensando soltanto a questo, non possia mo che rispettare questo grande gruppo teatrale, anche se le attuali verifiche del loro lavoro posso no essere giunte alla fase di una possibile forma tautologica. Per molti, comunque, non è mancata l ’emozione, anche se, a Roma, il Living si è esi- bito al teatro Argentina, luogo che non potrem mo considerare il più adatto per le rappresenta zioni di quel gruppo. Allora, si diceva della presenza di Antoine V i tez. Il regista è reduce dal successo (a parte qualche nota polemica di certi critici) ottenuto al recente Festival di Avignone. In quella città ha presentato, per la prima volta, la sua tetralogia molièriana e, a Roma, vi è stato il grande debutto italiano di que sta Compagnia « Des Quartiers d’Ivry ». Diciamo lo subito: questa di Vitez è una delle operazioni su Molière più interessanti di questi ultimi tempi. Per molti aspetti una vera e propria sorpresa. In una conferenza stampa, prima degli spettacoli, Vitez ave va parlato dell’impostazione data al suo lavoro in torno alle opere molièriane. « V i sono due grandi temi — aveva detto il regista francese — che a me premeva mettere in evidenza. Da una parte la mi soginia, come uno dei momenti caratterizzanti al livello tematico; dall’altra parte il rapporto di Mo lière con Dio. Rapporto che non vuol dire confronto con la religione. Questa rappresenta un termine troppo vago per poter individuare un modello, più o meno conflittuale, nel drammaturgo francese. E poi religione vuol dire troppe cose, comprende tut ta una serie di momenti che non costituiscono un referente unitario e univoco. Molière, invece, questo problema del rapporto con Dio, lo sentiva in ter mini molto profondi, e serpeggia, poi in quasi tutta la sua opera ». Il regista, comunque, ha lasciato in tendere che queste direzioni si volgevano a una ca ratterizzazione generale del suo lavoro. E altro pun to nodale della sua ricerca, del resto, era rappresen tato dal discorso del metodo. « Per interpretare un classico — ha detto Vitez — non bisogna fare al tro che ’’allontanarlo” . In altri termini: non biso gna trattare l’opera classica come un modello che prendiamo a prestito per ritrovare, o trovare, le no stre misure contemporanee. Una tragedia o una commedia, in qualche modo, appartiene alla sua epoca. La storia è una condizione sostanziale per poter riconoscere qualsiasi evento estetico. Con que sto non voglio associarmi a quegli atteggiamenti sociologistici che hanno caratterizzato gran parte dei registi e uomini di spettacolo d’oggi. I l piano so ciologico può essere valido solo all’interno di una ’’referenza” di necessità, ed eventualmente in una corda essenzialmente metodologica. I l taglio di tipo strutturale dà molti più risultati; permette quella formalizzazione dei modelli, che porta a una specie di ’’restituzione” dell’oggettività dell’evento. E con questo non è necessario giungere alla distruzione di un rapporto con l’estetica, anteponendole i dati del la sua composizione come eventuali modelli di let tura ». A questo discorso Vitez ha aggiunto: « Un altro aspetto che a me sembra molto importante nel drammaturgo francese è quello relativo alla sua Nada Strancar e Jany Gastaldi in « Le misanthrope » (foto CI. Bricage) natura di ’’filosofo” . Questo non significa che si può individuare in Molière un aspetto speculativo. Esiste in lui, invece, una vena costante di riflessio ne, di rapporto critico con i temi che affronta. C’è, da un lato, il momento para-speculativo che, in qualche modo, si lega ad un’epoca (la sua); dall’al tra parte, invece, c’è lo spontaneo momento di am pia sedimentazione di tutto un quadro culturale, da cui emergono ipotesi che attraversano — e vanno oltre — il secolo stesso, spostandosi in una dimen sione che somiglia molto alla speculazione. Soltan to che si tratta di una speculazione senza un ’’pro gramma” , come invece avviene, in genere, per i grandi filosofi. Tuttavia non è mai un piano spic ciolo di morale o di pensiero su e a proposito di. È un lavoro intellettuale ben più alto e complesso, che diventa filosofico attraverso la coordinata estetica, l’ipotesi teatrale, l’aspetto creativo: da quel terreno emerge, per germinazione spontanea, una precisa visione del mondo che si potrebbe inquadrare qua si in un sistema. Magari questo sistema si dovrebbe mutuarlo da alcuni pensatori a lui contemporanei e, soprattutto, a lui successivi ». A molti, a questo conoscere delle precise categorie, delle costanti; e se quelle ci permettono un lavoro unitario, allora in quanto tale bisogna assolverlo. I l procedimento contrario, invece, sarebbe assurdo e, a mio avviso, poco interessante al livello culturale ». Non poteva mancare, nel discorso di Vitez, il riferimento al lavoro che ha compiuto, sempre su Molière, Rogér Planchon. Di questo regista francese ha ricordato la grande lezione: l ’originale storicizzazione cui ha sottoposto i testi del grande drammaturgo: il suo rimane, in ogni caso, un indirizzo che non può es sere misconosciuto. « M olti registi — ha detto V i tez — devono a Planchon il tributo di tutta una serie di importanti scavi nella tradizione, che ha re stituito a profonda dignità; soprattutto, ma non so lo, per quanto riguarda i classici ». Tuttavia Vitez non si riconosce in tutto nella linea seguita dall’ani matore del Théâtre de la Cité. L ’apporto di Plan chon è da considerare fondamentale, ma se « a que sti interessava — ha proseguito Vitez — il rapporto di Molière con la religione, ora il discorso si è fatto più circoscritto. Sopra tutto quanto c’è il momento di una dinamica tra l’Uomo e l ’Assoluto: è un fatto che cirscoscrive una condizione esistenziale, oltre quella più vasta che si integra nel quadro della sto ria e di tutto un mondo, quello del diciassettesimo secolo ». A questo punto, però, conviene vedere da vi cino questa tetralogia molièriana. Dunque: L ’école des femmes (1662), Le Tartuffe (1664), Don ]uan (1665), Le Misanthrope (1666). Dodici attori, com preso lo stesso regista: Marc Delsaert, Jean-Claude Durand, Richard Fontana, Jany Gastaldi, Héloïse Maffre, Daniel Martin, Didier Sandre, Daniel Sou lier, Nada Strancar, Dominique Valadié, Gilbert Vilhon e Antoine Vitez. Le quattro opere di Mo lière vengono dichiaratamente concepite come una unica grande « Pièce ». La scenografia è sempre la medesima e sempre gli stessi sono gli attori, tutti giovanissimi, che si mettono, di volta in volta, come in un gioco di travestimento, nei panni dei diversi personaggi. In questo disegno unico, evidentemen te, sono racchiuse le chiavi di lettura scelte da V i tez. Due quinte a guisa di architettura: un dato il lusorio che avvolge lo sfondo, inganna la prospet tiva e, al tempo stesso, ricostruisce, in un disegno usurato dal tempo (un tempo metafisico, questo è chiaro), che vuole rimandarci al « caso » storico (forse quel Seicento coi suoi fasti libertini e una insinuante usura di modelli culturali al massimo del loro splendore). Ma le tre pareti, però, fingono un grande salone rosso, decorato con un trompe l ’oeil di prospettive classiche, su cui si apriranno porte o finestre, e anche grandi fessure oscure che sugge- Richard Fontana e Jany Gastaldi in « Le Tartuffe » (foto P.Y. Granet) punto, è venuto in mente che ncfn è poi tanto az zardato imparentare Molière a Voltaire. Certo, si tratta di tener conto di una oggettiva distanza sto rica che, però, non elimina un apparentamento di atteggiamenti. Un altro punto doveva essere chia rito: la scelta di rappresentare, in fondo come se si trattasse di un affresco unitario, proprio quelle quat tro opere: La scuola delle mogli, I l Tartufo, Don Giovanni, I l Misantropo. Su questo punto Vitez ha detto: « Queste quattro opere, a mio avviso, sono tutte comprese all’interno di due motivi dominanti: il misoginismo e il tema di Dio. Infatti potrebbero essere intitolate, tutte insieme, così: La tortura da parte delle donne e il trionfo dell’ateismo. Ovvia mente questi due aspetti non devono essere intesi come momenti di riscontro del dato biografico nel contesto drammaturgico. E anche se così fosse, non lo riterrei di alcuna importanza. La verità è che i modelli di unificazione emergono indipendentemen te dai piani intenzionali, si caratterizzano spesso come facce di una realtà che è, per sua natura, tutta oggettiva. I l piano soggettivo lasciamolo alla no stra individualità, sempre e in qualsiasi epoca. Le distinzioni, al contrario, vanno operate su un ter reno che è definito in sé, e che si presenta compiuto in un suo quadro e nelle sue forme. E queste van no, appunto, individuate, perché ci permettono dt addivenire ad una lettura non-casuale dell’oggetto di analisi. Quindi, in questo senso, si possono ri- L'école des ferames ». Nella foto: Richard Fontana e Didier Sandre riscono inquietanti misteri, oltre i dati visibili di un’apparenza. Metafora della storia e di un mondo? Senza dubbio. Ma non basta. A voler guardare at tentamente, si possono arguire incredibili misure metaforiche, ammiccamenti e simbologie che, per un momento fugato lo sgomento, possono impegna re in un’incessante ricerca di soluzioni al mistero. Perché è evidente che questo dato è cosi presente da perseguitare lo spettatore, per lo meno nel mo mento in cui si pone sul serio il motivo di quella necessaria e perenne « prigione » (il luogo, sempre lo stesso, in cui avvengono o devono accadere i singoli eventi). Una prigione, del resto, potrebbe essere anche la regola •— o meglio « Le Regole » — cui si è assoggettato Vitez, così come già aveva fat to l’autore. Era successo, comunque, che quelle « strettoie » delle unità aristoteliche non avevano mai dato fastidio a Molière che, tra l’altro, le con siderava del tutto naturali, per non dire « necessa rie ». Evidentemente se questo era un dato che ave va congiunto un’idea scenica con la sua realizzazio ne, doveva pur esistere il modo di ricollegarsi, sen za per questo « contaminare » o « contaminarsi », ai postulati di una « naturalezza » rappresentativa. A prima vista può sembrare una scoperta di poco conto, un’idea semplice, al limite del semplicismo. Invece basta poco per rendersi conto che non si è più sul piano di schemi analogici o di tentativi di vacue (o meno) omologie (si legga pure filologismo, se lo si trova più convincente). Il problema, dun que, è un problema di metodo, quindi per niente banale. Allora ci si dovrà chiedere in cosa consista questo metodo, e perché, in definitiva, colpisca poi così tanto. Vitez, in parte, aveva premesso questo dato, durante la conferenza stampa; aveva detto: « A me interessa non tanto avvicinare Molière, quanto, invece, allontanarlo, guardarlo nella sua epoca, anzi nel suo mondo. È solo così che trovo possibile una forma di contatto con le sue idee, i suoi personaggi, il suo modo di intendere e realiz zare il teatro ». Se si riflette bene su questo si ca pisce, per lo meno in parte, il programma del re gista francese; quanto meno si possono arguire al cune delle sue ipotesi. Esistono dei piani che van no rispettati. Uno di questi è l ’appartenenza di un modello creativo, di un fenomeno, dell’uomo, alla sua storia. I dati di questa appartenenza possono essere molteplici, o meglio: si possono individuare in misure diverse, le più varie. Si tratta, però, di organizzare la scelta di quelle stesse « misure di ap partenenza ». Riguardano, cioè, semplicemente al cuni piani, come quelli dell’« astrazione » (si po trebbe dire i piani sovrastrutturali); oppure vi sono altri processi, forse più « utili » per una forma or ganica di identificazione? In generale si sostiene che noi « apparteniamo » ad un’epoca perché ne con dividiamo la mentalità, il gusto, la cultura. E’ vero, non c’è dubbio. Ma è anche vero che questo mo dello di identificazione è tipico della riflessione cri tica, e quindi di una mente riflettente i dati della realtà su di un piano, in qualche modo, speculativo. È, insomma, il modo di giudicare che, molto gene ricamente, definiremmo « intellettuale » (anche se, oggi, un aggettivo del genere non ha più un signi ficato connotativo preciso). C’è, comunque, un mo dello acritico, che è dei più, che è sempre stato quello della stragrande maggioranza, della « rego la », che ritrova i propri modelli di identificazione in quelli che si definiscono come « dati apparenti della realtà e del vivere ». Ma in quei dati appa renti ci sono tutti i segni di un possibile ricono scimento, si ritrovano tutte le possibilità del con fronto immediato, quello che « serve », cioè, nella realtà del quotidiano. Questo tipo di discorso se, oggi, può essere opinabile (all’interno del mondo capitalistico occidentale, dove i « segni » sociali si sono, in molti casi, confusi), vale, tuttavia, per tut ta la passata storia, fino quasi ai giorni nostri. Una scena de « Le Tartuffe » Vitez ha ricostruito con puntigliosa minuziosità i dettagli di alcuni segni, che, a suo avviso, restano inequivocabili: le parrucche piene di boccoli, le ve sti increspate di trine, le calze bianche e le scarpine in tinta (vedi la scena de L ’école des femmes in cui Arnolphe porge ad Agnès gli abiti per la vestizio ne). A quel punto non c’è più dubbio: quello è il Seicento, un mondo con i suoi codici, e con i ri- Daniel Martin e Daniel Soulier (foto C.L. Bricage) tuali precisi di un vivere sociale lontano dal no stro. Accanto a questo si pongono gli alessandrini, così perfettamente recitati dagli attori, senza una piega ironica che non fosse quella inerente il con tenuto dei dialoghi. La parola, quindi, torna ad es sere quella: l ’espressione di una composizione geo metrica che, poi, si dovrà rispecchiare nelle forme della rappresentazione. Ecco: una rivoluzione, così, si è compiuta. Ed è quella che consiste nel dare ai segni essenziali di una costruzione teatrale e lette raria la necessità di una forma, ancor prima del suo diventare modello significante. Perché sul signifi cante il lavoro è un altro. Vitez, infatti, ha rico struito, su questo piano, i fili di una sua precisa interpretazione che, per renderla plausibile, ha voluto astrattizzare. Tanto questo è vero che gli elementi su cui gioca il piano interpretativo della scenografia sono ridotti all’essenziale, e bastano per tutte e quattro le opere di Molière: un tavolo, due sedie, due candelabri, una borsa, un bastone. A l lora, una volta stabilita e risolta l ’ipotesi metodo- logica, Molière può tornare ad essere rappresentato con tutte quelle regole che l ’autore aveva immagi- Una scena d’insieme di « Ubu » di Alfred Jarry con la regia di Peter Brook nato, con i rituali che quel teatro pretendeva e che non offuscavano minimamente l ’invenzione fanta stica, il momento creativo. Rimane perfino la scan sione, atto per atto, stabilita dal chiudersi e aprirsi del sipario; e rimangono le unità di tempo, le ven tiquattrore in cui tutti i « fatti » si sviluppano fino a totale compimento. DaH’assunzione di questa « lontananza », Vitez ha ricavato la vicinanza del l ’opera molièriana, l ’ha restituita a dei valori che credevamo ormai legati al tempo e alla storia della cultura (non per questo, ovviamente, prigionieri del passato). L ’opera di Molière è oggettiva e impersonale. Contrariamente a quanti hanno voluto riconoscervi il dato privato, il drammaturgo non ha, in realtà, portato direttamente niente della sua vita nelle commedie. Questa categoria dell’impersonale è sta ta raccolta da Vitez, che ne ha fatto lo strumento portante della lettura di questa « commedia in ven ti atti ». Eppure fu uno scandalo quello di far par lare i personaggi secondo la lingua che si riferiva alla loro condizione sociale. Quella che non si può definire che una verità di stile, venne condannata come grossolanità. Quel linguaggio, che non era quello dei gentiluomini, non piaceva a La Bruyère e a Vauvenargues che, tra l ’altro, non avevano ca pito che la prosa molièriana non poteva essere giu dicata senza il referente della scena. I suoi versi, infatti, erano fatti per essere recitati, e non per es sere letti. « Io, quel che mi garba, lo prendo dove lo trovo », aveva detto una volta" Molière, e così ribatteva all’accusa di grossolanità che l ’Accademia con il suo Vaugelas era solito rivolgergli. Ma il Re Sole, a dispetto di tutti, aveva in simpatia questo strano « inventore di corte », questo maledetto e scandaloso funambolo dalla fantasia senza freno. Eppure non voleva inventare poi gran che. Ritene va che i classici, altri grandi, prima di lui avessero già compiuto dei sorprendenti capolavori. Non c’è, forse, in questo atteggiamento, un’indicazione di metodo, quella che senz’altro ha seguito Vitez nel la sua messinscena? Quello che era importante per l ’autore, era di andare alla radice del comporta mento umano, per vederne le motivazioni e ana lizzarne i movimenti; quelli interiori che, solita mente, sembrano sfuggire se non si vuole vedere Alan Maratrat, Jean Claude Perrin, Andréas Katsulas in « Ubu » sotto la veste che ci ricopre. Ma sotto, però, viene a galla l’uomo con i suoi conflitti, le sue verità che poggiano sul dolore e, infine, la solitudine e il vuoto. Arnolphe (vedi L ’école des femmes) vorreb be compiere l ’ingiustiza di sposare la giovane Agnèss, ma la « vittoria » di Horace ripristina un ordine che prescinde dal desiderio dell’individuo. C’è una legge di « natura » — come poi teorizzerà Rous seau — che non è lecito scavalcare, ed una legge morale. Allora, alla solitudine non c’è scampo, come non è possibile evitare la legge della vita che ti porta, inesorabilmente, alla vecchiaia. Orgon (ve di Le Tartuffe) ha voluto scegliere la cecità, fino al punto di esporre Élmire alle attenzioni di Tar- tuffe. Non ci sarebbe scampo se non intervenisse una specie di « provvidenza » — tra l ’altro quasi ingiustificata — che rimetta a posto una realtà scomposta. Se la legge prevarrà è solo perché un principio esterno interviene prima della catastrofe. Questa, invece, è vissuta, per intero, da Don Juan, che finirà per subire la vendetta celeste. Intanto, però, Célimène (vedi Le misanthrope) continuerà ad essere civetta, a consacrarsi al regno dei salotti, dove non sai bene quale destino la possa attendere. E non sai bene, del resto, perché Alceste debba su bire la condanna della solitudine. Ecco: è una sto ria unica e senza una fine. Vitez ce l’ha mostrato molto bene. Queste quattro opere molièriane si potrebbero raccontare una di seguito all’altra, co me se fosse un solo racconto, scandito dal passa re quasi fortuito di quattro giornate: un tempo che rivela il tratteggio interiore della nostra esistenza. In fondo a tutto, se andiamo oltre i singoli acca dimenti, finiamo per trovare un profondo buio. Ma anche questa coscienza esiste perché così è il no stro modo di vivere. Il dramma è quasi un dato dell’apparenza. Quando il dolore si fa scoperto e ammicca a realtà troppo tangibili, interviene l ’artifi cio del riso, dell’ironia, per stemperare magari una emozione tenera e dolorosa. Dice Lanson: « Quanto più la realtà è piacevole tanto più Molière la trat ta da farsa: soltanto a forza di buffonate la com media può far suoi certi argomenti, nei quali tra bocca la tristezza ». I l resto è tutto compreso in un ordine morale, lontano da qualsiasi riferimento con la religione, intesa come religione cristiana. Mo- lière, infatti, è convinto che ogni forma di religione vada vissuta nel distacco dalla fede; il cristiano o è un ipocrita (Tartuffe) o è un imbecille (Orgon). Il Bene e il Vero consistono nell’assecondare la na tura: come Montaigne e Rabelais quella di Molière è una morale sociale che, sullo sfondo, disegna un nuovo tipo di ideale, quello borghese. Un mondo lontano, quel mondo che, comunque, pur non af frontando direttamente, quasi per una strana vo luttà di omissione, è recuperabile soltanto, come ci suggerisce Vitez, allontanandolo dalle nostre emo zioni, dalla nostra sensibilità, dalla nostra realtà prossima. L ’altro grande avvenimento della « Rassegna Internazionale dello Spettacolo » è stato UBU di Alfred Jarry, presentato da « Le Centre Interna tional des Creations Theatrales » diretto da Peter Brook e Micheline Rozan; regia di Peter Brook. I l grande regista inglese ha proposto sia il famoso Ubu Roi che YUbu Incatenato. Dell’opera di Jarry, cavallo di battaglia di tanti gruppi sperimentali di questo secolo, sembra di sapere ormai tutto. I l mo vimento surrealista aveva fatto di questa pièce qua si un proprio manifesto, accentuandone il dato del nonsenso e della stravaganza. Brook ha compiuto quasi un’azione a ritroso. Ha preso in mano questi personaggi per ridiscuterli fuori da ogni senso del la metafora. Ubu che vuole diventare il re di Po lonia e vi riesce, è visto nella corda di una assoluta lucidità. Il testo di Jarry, allora, diventa quasi un sottotesto, un pretesto di spettacolo. E questo ac cade anche per Ubu incatenato che preferisce le catene alla libertà. Il gioco riesce in pieno perché il regista, con il suo straordinario gruppo di attori, utilizza la categoria spettacolo come principio e so stanza stessa della rappresentazione. Chi ha letto lì teatro e il suo spazio di Brook ha certo capito che il concetto della scena di questo regista volgeva a superare le strettoie del rapporto tradizionale — in qualche modo consumato — attori-pubblico, all’interno della coordinata « prevedibile » del te sto. In questo caso il teatro veniva definito mortale e si ipotizzava un nuovo modo di realizzare l ’even to scenico come forma diretta (teatro immediato). Forse per capire a fondo la tesi brookiana questo Ubu è fondamentale. Tuttavia qui c’è anche molto di più. Il lavoro non è soltanto volto a dare ra gione dello spettacolo in sé e per sé; in qualche modo la coordinata dell’immediatezza finisce per diventare uno dei possibili modelli di « costruzio ne », forse semplicemente il più visibile. E infatti questo è quello che colpisce di più, che lascia quel l ’impronta di palpabilità ludica come esperienza dav vero inusitata. Tuttavia Ubu è costruito secondo una logica molto rigida, con una griglia dai conno tati geometrici perfetti. Il rapporto tra l’attore e l ’oggetto, per esempio, è chiaramente il punto di partenza di una costruzione linguistica che, nelle sue articolazioni, segue una sintassi rigorosa. Alla fine sembra di assistere ad uno spettacolo di equi librismo, dove non avviene mai una caduta e dove tutto si incastra in modo naturale e semplice. Ecco: questa apparenza di semplicità è forse il risultato più alto che Brook ha raggiunto nel suo lavoro. L ’evento vive per sé, come motivo necessario, dal l ’apparenza casuale e, per questo, si scompone con la stessa leggerezza con cui si era composto. Ma questi due poli non sono mai visibili: sono come delle trame sottili che vengono consumate con acrobatica abilità, tanto che al pubblico non rimane, alla fine, che la gioia di un’occasione unica, vissuta nella corda di una totale unitarietà. Lo spettacolo avviene a luci accese, quasi a stabilire che il mo mento del gioco non si nasconde in alcun modo nel le trame di una complicità col buio. E se le trasfor mazioni, i travestimenti, i cambiamenti di prospet tiva avvengono sotto i nostri occhi, senza che sia no nascosti, alla fine non si può far altro che notare il tempo lungo del miracolo. Perché il miracolo finisce quando è finita la rappresentazione. Che dire di più? Probabilmente cercare di operare una scomposizione degli elementi dello spettacolo per poterne fare un’analisi dettagliata. Ma allora oc correrebbero a noi tempi lunghi, spazi per uno stu dio che, senza dubbio, darebbe ragione di nuove e importanti ipotesi sceniche. Dante C a ppelletti U n f ilm d i A r ia n e M n o u c h k in e M o l i è r e , l o s c o n o s c i m i © Una coproduzione a quattro per il film di Aria ne Mnouchkine, « Molière »: per la Francia «Les films du soleil e de la nuit », « Les films 13 » e Antenne 2, mentre l ’Italia è rappresentata invece dalla RAI (rete 2): un apporto che deve essere considerato importante se è vero quanto ha dichia rato la Mnouchkine e cioè che il film era fermo allorché è intervenuta appunto la RAI che con il suo contributo ha consentito che l ’iniziativa fosse portata a compimento. Quanto poi ai progetti di utilizzazione dell’opera, la televisione italiana la proporrà al suo pubblico in cinque puntate, ciascu na di un’ora circa di durata: in precedenza però la stessa RAI — in collaborazione con l ’Italnoleg- gio — presenterà nei normali circuiti cinematogra fici una versione un po’ ridotta, per tre ore com plessive di proiezione. Intanto, secondo il rituale riservato ai films di particolare importanza, la rea lizzazione della Mnouchkine è stata presentata in anteprima a Roma ed a Milano nell’edizione ori ginale francese, già proiettata al Festival di Cannes. Nessun dubbio, in effetti, che questo « Mo lière » rappresenti un’occasione importante anche se si tratta di un’opera per molti versi deludente e non riuscita, pur fra molti indiscutibili pregi formali: importante per come permette di verifi care dal vivo il problema del rapporto fra linguag gio teatrale, televisivo e cinematografico, oltretut to sulla falsariga di un fenomeno — la formula espressiva sperimentata già da alcuni anni da Aria ne Mnouchkine con il « Théâtre du Soleil » — che pure merita di essere riconsiderato. La Mnouchki ne e il « Théâtre du Soleil » si sono infatti imposti all’attenzione del pubblico internazionale (ricor diamo, tra gli spettacoli teatrali di questa regista e del suo gruppo, « L ’âge d’or », che fu presenta to alla Biennale di Venezia nel 1975, e « 1789 » che il pubblico italiano ha potuto conoscere dal vivo — in un giro peraltro limitato — o attra verso la documentazione cinematografica) per un tentativo di rivisitazione in chiave moderna delle tecniche della « commedia dell’arte »: quindi un teatro che lascia margine all’improvvisazione de gli attori, che recupera l ’uso delle maschere, che utilizza con particolare e raffinata abilità la mimi ca, la gestualità e persino certe acrobazie nella migliore tradizione dei clowns; un’immagine tutta colore e movimento (con qualche sospetto di com piacimento per la piacevolezza dell’immagine in sé stessa) che ha un suo spazio ed un suo signi ficato soltanto nell’ambito specificamente teatra le. Abbiamo già ricordato come da « 1789 » la Mnouchkine abbia a suo tempo tratto un film: si trattava però della semplice ripresa cinematogra fica dello spettacolo messo in scena dal « Théâtre du Soleil », mentre questo « Molière » è stato espressamente concepito e realizzato in funzione dello schermo (piccolo o grande è difficile dire: in generale la regista sembra ispirarsi alle dimen sioni più raccolte del mezzo televisivo ma non mancano aperture più tipicamente cinematogra fiche). Dunque diverse possibilità narrative, differen te occasione di stabilire una comunicazione col pubblico per tracciare un profilo interiore (non si pretendeva, ovviamente, una biografia comple ta e minuziosa) del personaggio Molière come pu re —- secondo le parole della stessa Mnouchkine — « un ritratto della Francia dell’epoca », nella riflessione « sui rapporti tra l ’artista creatore ed il potere, in questo caso rappresentato da Lui gi X IV ». È proprio in riferimento a questi propositi che il film della Mnouchkine appare opera in gran parte mancata; così il « ritratto della Francia del l ’epoca » si traduce in una lunga galleria di im magini in libertà, divagazioni che spesso finisco no per perdere di vista quel tanto della vicenda personale di Jean Baptiste Poquelin da cui aveva no in qualche modo preso le mosse. Si insiste so prattutto — con un compiacimento ed una mi nuzia spesso francamente fastidiosi — sulla spor cizia, sull’ignoranza delle più elementari prescri zioni sanitarie ed igieniche, sui particolari più sto machevoli e raccapriccianti: in palese contrasto con le veloci e splendide apparizioni del re e della sua corte. Eppure le immagini di fango e di sangue, sgradevoli per quanto rappresentano nella comune esperienza, hanno la stessa compiaciuta eleganza formale delle gondole d’oro che vediamo traspor tate sulla neve delle Alpi per raggiungere le feste di Versailles: con la stessa credibilità, insomma, delle vibrate denuncie sociali di certe riviste in car ta patinata. Peggio ancora per quanto riguarda la riflessio ne « sui rapporti fra l’artista-creatore e il potere », fra Molière e Luigi X IV : oltretutto su tale proble ma già altri si erano cimentati (basterà ricordare Bulgakov), senza esaurire l ’argomento ma fornen do indicazioni che meritavano di essere riutilizzate e approfondite. La Mnouchkine procede invece per allusioni, per accenni veloci che introducono la questione senza mai realmente sviscerarla: anche quando Fazione si concentra sul punto essenziale ed inevitabile — la famosa polemica sul « Tartu fo » — e finalmente il re diviene, da protagonista di rapide apparizioni, l ’antagonista vero del perso naggio Molière, anche quando sembra sopraggiun gere il chiarimento delle rispettive posizioni, ecco invece che la narrazione scivola subito oltre senza concedere nulla di più di una semplice enuncia zione dei termini essenziali della controversia. D ’altronde la vicenda narrata dalla Mnouchkine, mentre si dilunga in particolari secondari ed in divagazioni di pura fantasia, manca di riportare avvenimenti sicuramente indispensabili per com prendere la vicenda interiore di Molière uomo ed artista: per limitarsi alla questione del « Tartufo », il famoso discorso del rapporto con il potere ri sulta praticamente incomprensibile ove non si chiarisca anche un certo seguito, la successiva com posizione del « Don Giovanni », l ’intervento del re nel consentire, cinque anni dopo, la rappresen tazione del « Tartufo » stesso. C’è tutta una sotti le gamma di valori, il paternalismo illuminato, una comprensione di sensibilità ed intelligenza che è quasi complicità fra il re e l’artista, il ricorso alla durezza appena la libertà dell’artista tenti di usci re dai lim iti rigorosamente fissati, il ritorno alla benevolenza allorché è completata la sottomissio ne: tutte indicazioni essenziali che mancano nel l ’opera della Mnouchkine, a meno di volerle co gliere in certe fuggevolissime sensazioni suggerite magari dall’espressione di un volto. Ma è soprattutto il personaggio Molière che viene a mancare: uno sconosciuto che sembra vo lerci comunicare qualcosa (l’ottimo interprete, una faccia intensamente espressiva, è l’attore francese Philippe Caubere) ma non riesce né a raccontarci veramente la sua storia di uomo, né a trasmetterci il suo messaggio d’artista. In più di quattro ore di proiezione (tanto dura l ’edizione originale fran cese del film) la Mnouchkine propone un torren te d’immagini tutte d’ineccepibile qualità sul piano formale, spesso con palese ricerca del pezzo di bravura: ma non entra mai nel cuore dell’argo mento, non affronta mai sul serio quei temi di fondo che dovevano invece essere, per sua stessa dichiarazione, l ’asse portante del film. Probabil mente nell’intenzione della regista un continuo as salto di sensazioni diverse ed anche contrastanti doveva finire per comporre un quadro complessi vo in cui lo spettatore potesse cogliere — in una comunicazione quasi a livello subconscio — tutto ciò che la narrazione cinematografica non si era preoccupata di chiarire: una tecnica che in teatro dà spesso frutti ma che in ogni caso non può es sere trasportata in campo cinematografico senza quella chiave di traduzione che Ariane Mnouchkine non ha saputo trovare. A ngelo L ib e rtin i Foto RAI-Radiotelévisione Italiana ? v * A s c o l t a r e t e a t r o La prossima stagione teatrale in radio si presenta ricca di novità interessanti. Emerge soprattutto il tentativo di pro porre all’attenzione degli ascoltatori testi inediti che conten gano, per la loro intrinseca fattura, problematiche di viva attualità o riferimenti storici attuali. Vorremmo segnalare, in modo particolare, le quattro novità che Radio due ha programmato per il mese di dicembre. Ad eccezione dell’Enrico IV di Luigi Pirandello con Romolo Valli per la regia di Giorgio De Lullo in onda il ventotto (si tratta della stessa edizione rappresentata di recente in teatro), gli altri tre sono drammi inediti che han no vinto o partecipato ad alcune tra le più importanti sele zioni indette per i migliori nuovi testi teatrali. Il sette andrà in onda Vaudeville d’antan di Gerardo Guccini con Attilio Corsini, Patrizia Masi, Giampaolo Sac- carola, regia di Gilberto Visintin (secondo classificato al Premio Riccione 1977). È una divagazione fantastica ambientata in uno scenario « belle epoque » dove la storia d’amore dei due protagonisti vive e si alimenta fino al tragico epilogo. Potremmo defi nirla una « metafora » matrimoniale inserita, però, in un contesto storico ben individuabile. Il quattordici ascolteremo, invece, il vincitore del Premio Riccione 1977. Si tratta del dramma Dio salvi il triangolo di Alessandro Bandetti con Renzo Giovampietro, Massimo De Francovich, Ugo Maria Morosi, Patrizia Masi, regia di Giancarlo Sammartano. La storia si svolge nella Londra del 1849 e vuole essere un preciso attacco alla monarchia di quel tempo e più in generale al Potere inteso come prevaricazione e repressione. Lo spunto per affrontare questo tema è dato dal suicidio mancato del protagonista che, proprio per il suo gesto con siderato un grave reato dalle leggi dell’epoca, finisce davanti ad un tribunale per difendersi dall’accusa di aver tentato di « sovvertire le istituzioni ». Il ventuno infine andrà in onda Dietrich di Carlo Mon terosso con Roberto Herlitska, Carlo Uintermann, Fabrizia Castagnoli, regia di Vittorio Melloni che ha partecipato alla selezione del Premio Pirandello 1977. Il lavoro di Monterosso racconta degli ultimi giorni di vita del pastore luterano Dietrich, il teorico della morte di In d ic e m b r e q u a tt r o n o v ità Dio condannato dai nazisti. Il dramma vive, in massima par te, delle riflessioni del protagonista fatte in forma di mono logo, una sorta di ultima confessione tra le mura di un ter ribile carcere. Ritorneremo presto su queste novità per esprimere un giudizio critico più approfondito ripromettendoci di segna lare, in modo il più possibile sistematico, tutto ciò che sia degno di rilievo nel panorama così vasto della prosa radio fonica. Nel 1932 Brecht scriveva un breve saggio, conte nuto negli scritti stalla letteratura e sull’arte, riguar dante la funzione della radio dal titolo: « La radio come strumento di comunicazione ». « D’improvviso — diceva Brecht — si è avuta la possibilità di dire tutto a tutti ma, a pensarci bene, non si ha nulla da dire » a meno che, e qui è il punto centrale del discorso brechtiano, « non si sia in grado non solo di trasmettere ma anche di ricevere, non solo di far sentire qualcosa all’ascoltatore ma anche di farlo parlare, non di isolarlo ma di metterlo in contatto con gli altri ». È singolare e allo stesso tempo significativo che proprio Brecht, vale a dire un autore di teatro, abbia dato della radio un simile giudizio. Colpisce soprattutto l’ultima parte della frase, quel « mettere lo spettatore a contatto con gli altri » che sottolinea l’esigenza di un vero approccio tra chi parla e chi ascolta non spic ciolo né unidirezionale. Certamente Brecht, il cui saggio sull’opera « Ascesa e rovina della città di Mahagonny » del 1931 già con- teneva le differenze fondamentali tra teatro drammatico e teatro epico, aveva ben inteso quali potessero essere le caratteristiche del mezzo. Ci si chiede se l’idea di una drammatizzazione in radio l’avesse già interessato (pen siamo, ad esempio, alle difficoltà che presenta la rea lizzazione radiofonica di pièces come L’opera da tre soldi, Madre Courage, L'eccezione e la regola, L’anima buona di Sezuan). Nel trasferire i drammi di Brecht in radio è necessario mantenere lo stesso rapporto con il pubblico stabilito in teatro; un pubblico non più merarñente passivo ma osservatore critico sufficiente- mente distaccato. Il testo, eliminato il contatto fisico tra attore e spettatori, e non essendo disponibili i « dispositivi stra niami adoperati in palcoscenico, deve diventare « au- tostraniante », affermarsi cioè nell’atto di autodiversi ficazione che ne impedisce una qualunque omologa zione come testo « classico » tout court. La realizza zione è, quindi, più complessa. In effetti il problema della prosa alla radio si pre senta prioritariamente nei termini indicati da Brecht a proposito di un possibile uso del mezzo: disponibilità del testo ad essere « ricevuto » senza interpretazioni aprioristiche e capacità del fruitore di essere, a sua volta, rielaboratore e ridistributore di messaggi. È questo il punto su cui discutere per analizzare il significato e il valore della prosa in radio. Il teatro rappresenta anche oggi, nella sua etimo logia di fondo, un archetipo ben preciso. Quando il rito dionisiaco perde le sue caratteristiche evocative e « transustanziali » diventa presenza surreale, « fic- tio » drammatica. La radio, strumento specificamente tecnico, si ri collega così a quella mitologia e alla sua successiva « se colarizzazione » divenendone un tramite, un medium espressivo dalle tipicità peculiari e inimitabili. Secondo McLuhan, nella sua ormai conosciutissima distinzione tra media freddi (dove gli « stimoli » so no poco informativi e richiedono molto all’immagina zione di chi ascolta) e inedia caldi (con pochi interventi dell’immaginazione), la radio va collocata tra que- st’ultimi. La divisione operata da McLuhan è molto discuti bile tanto più che la radio non sempre limita l’imma ginazione. Ma allora qual è il punto focale verso il quale con vergono il teatro e il mezzo radiofonico che lo incarna e lo « diffonde »? Il rapporto tra teatro e radio si stabilisce proprio attraverso la particolare connotazione del mezzo: se da un lato quest’ultimo sottrae ad una pièce pulsività dialogiche, estetiche, ambientali in sen so strettamente visivo; dall’altro ne accresce stigma tizzazioni interiori, capacità descrittive, sfumature psi cologiche. La prosa in radio costituisce, perciò, una riscoperta del testo teatrale presentato. L’utilizzazione del mezzo acustico annulla la spazialità intrinseca e preesistente al testo ma scopre un elemento nuovo, specifico, ca ratterizzante del mezzo radiofonico: la il Tempo, Renzo Giovampietro « durata » come diceva Bergson, l’enunciato cronolo gico che acquista rilevanza e significato affatto diversi da quelli del cinema, della televisione e del teatro stesso. Quindi l’ascoltatore che sentirà alla radio Verso Damasco o Casa di bambola o qualsiasi altro dramma non subirà le medesime « scariche » emozionali pro vate durante la rappresentazione in un teatro. Se si vuole fare poi un confronto tra radio e tele visione c’è da dire come la prosa sia, a volte, molto più efficace nella prima che nella seconda, proprio per quella sua confidenzialità accattivante verso una realtà fatta di voci, di suoni, persino di tonalità. E questo riveste un’importanza che va oltre il merito della dif fusione popolare. Ascoltando la « Parata di commedie italiane della Discoregistroteca della Rai » proposta da « Radio uno » nel periodo estivo (ricordiamo tra le altre Emma e Irma Gramática in « Tra vestiti che ballano » di Rosso di San Secondo; una eccezionale Titina in « Filumena Marturano » di Eduardo; Monica Vitti ne « La bu giarda » di Diego Fabbri) abbiamo spinto la nostra immaginazione oltre i limiti di una valutazione critico razionale. Al di là delle imperfezioni tecniche dovute all’usura e al tempo (alcune registrazioni risalivano al 1946) il richiamo limpido e inconfondibile è stato surreale, quasi metafisico: la radio ha restituito (e di fatto restituisce con la messa in onda di pièces teatrali anche recenti) tutta la carica emozionale, semantica, originaria di un testo; anzi, del linguaggio di un testo attraverso la fissazione inevitabile dell’unico grande mo mento di comunicazione che è il parlato. In un libretto poco conosciuto di Carlo Emilio Gadda scritto quando era « programmatore », dal ti tolo « Norme per la redazione di un testo radiofonico » Viene ripreso, per tutta la stagione teatrale in corso, La vita che ti diedi di Pirandello nell'allestimento di Massimo Castri. Tra gli interpreti, insieme a Valeria Moriconi, ha dato una prova molto incisiva Barbara Simon (nella foto insieme a Fernando Rey in un film di Frezza per la Tv). L’attrice, conosciuta soprat tutto per il suo lavoro cinematografico, ha mostrato una grande duttilità e presenza scenica. sono contenute molte regole che, sia pure elencate genericamente, valgono, a nostro giudizio, anche per la riduzione di un dramma e soprattutto per capire il significato di una simile operazione tecnica e fonico verbale. Infatti sottolineare la necessità della limpi dezza del dettato e di un ritmo gradevole « evitando le parentisi, gli incisi, gli infarcimenti e le sospensioni sintattiche », è estensibile alla « ristrutturazione » di qualsiasi pièce. Ma il problema non è soltanto tecnico. La prosa in radio deve essere un’occasione per solle citare temi e discussioni di ordine sociale, morale e religioso. Questo non significa nascondere e/o privi legiare. Significa soltanto proporre. Ci si ricollega, così, alla seconda frase di Brecht citata all’inizio. Adorno, a proposito della televisione ha detto: « Ciò che importa, nella televisione, è di opporsi alla ideologizzazione della vita ». Crediamo che la stessa affermazione si attagli per fettamente all’immagine di un teatro che si serva del mezzo radiofonico, sia pure sotto mentite spoglie, per farsi conoscere ed apprezzare meglio da tutti. Marco Tesei L a p r o s a in tv A l l a r i c e r c a d i u n p u b b l i c o s e m p r e p i ù v a s t o Il problema della rappresentazione di testi teatrali attraverso la televisione è abbastanza antico. Le ricer che, teoriche e pratiche, in questo senso possono ormai vantare una buona esperienza che permette ai responsa bili della RAI di orientare in modo sempre più preci so e deciso i nuovi impegni. Da quando si faceva teatro televisivo cercando di ricostruire le caratteristiche del lavoro di prosa negli studi, con le implicazioni negative e limitanti che deri vano da ciò, è passato molto tempo. Soprattutto molte importanti idee e riscontri pratici sono ora alle spalle dei nuovi studi. Ci sono state varie esperienze impor tanti in questi anni, che vanno dai lavori di Carmelo Bene a quelli di Ferreri, da quelli di Bellocchio a quelli di Ronconi. Dopo la ristrutturazione della RAI le nuove ricer che si sono diversificate nelle due reti televisive; ognu na ha « messo in scena » i propri propositi, cercando di arrivare a una meta unica, anche se partendo da due basi diverse. Per la prima rete — ha detto Paolo Valmarana, coordinatore del settore della prosa per la prima rete appunto — il più grosso problema che si è posto dopo la riforma della RAI è stato quello degli spazi ristretti. Da una commedia settimanale, si è passati a circa tren ta appuntamenti annuali. Questo per vari motivi. Il pri mo è sicuramente da ricercare nella nuova impostazio ne che gli studi « a monte » avevano e hanno tuttora. I nuovi lavori hanno assunto un carattere di « proto tipo », non più quindi di esperienze già sperimentate. Lo studio precedente la preparazione e la registrazione è più lungo, richiede maggior applicazione teorica e pratica, per cui in uno stesso spazio di tempo si produ cono meno lavori. Lavori che però, non foss’altro che per la maggiore preparazione che hanno alle spalle, ven gono ad essere più validi sotto il profilo tecnico. Ne risulta insomma che il problema nuovo, o che comunque si cerca di affrontare con rinnovata atten- zione, consiste nel trovare un linguaggio diverso da quello cui hanno attinto i lavori di prosa televisiva pri ma della riforma. Un linguaggio che sia più specifica- mente televisivo e che trovi la sua applicazione otti male proprio attraverso il video e anzi solo in esso. Alla luce di ciò che è stato fatto fino ad ora dalla prima rete si può dire che questa ricerca di una carat terizzazione del fatto teatrale in televisione, muove dal l’uso particolareggiato delle immagini. I lavori, che sono andati in onda nella stagione passata — dice an cora Valmarana — diretti da Ferreri e Bellocchio, cioè rispettivamente « Yerma » di Garcia Lorca e « Il gab biano » di Anton Cechov, rappresentano dei punti fer mi; quindi dei validi esempi di lavori teatrali « ristrut turati » in chiave televisiva, attraverso tecniche, in qualche modo, cinematografiche, sebbene l’uso dei cam pi lunghi o comunque particolarmente allargati, sia mi nimo. E anzi proprio questo testimonia che l’intento linguistico di questi lavori è tutto televisivo. L’esperienza di Elio Retri, che ha messo in scena « Le mani sporche » di Sartre, è poi ancora più specifi ca, in quanto non ci sono riprese esterne. Si è voluto cioè costruire uno spazio teatrale particolare, che indi rizza questa particolarità in un assetto più distinta- mente televisivo. Ecco che abbiamo già messo in luce i « preceden ti », i « primi esperimenti » di questo nuovo ciclo di ricerche della prima rete. Bellocchio e Ferreri sono due registi cinematografici che naturalmente conden sano fatti filmici in questi lavori. La conseguenzialità delle immagini e la loro struttura interna ed esterna co stituisce la struttura portante, nelle maglie della quale il testo, rigorosamente seguito, di volta in volta viene intessuto. Tali maglie nello specifico risultano sufficien temente larghe da permettere un buon livello di fusio ne, che non è più cinematografico né teatrale, ma solo televisivo. La rete uno — ha continuato Valmarana — non vuole presentare un cartellone che elabori un insieme organico di testi, ma una serie di proposte, ognuna conclusa in sé, e soprattutto con caratteristiche tecni che e di contenuto particolari e ogni volta originalmen te elaborate dai vari registi. Tornando al nuovo assetto della prosa in televisio ne, che usufruisce di uno spazio minore nei confronti della strutturazione precedente la riforma, si deve ancora prendere in considerazione un altro motivo che ha determinato tale fenomeno. Il teatro in tele visione — spiega Valmarana — purtroppo ancora non chiama molto pubblico, rispetto ad altre trasmis sioni. Questo problema anzi si è acuito dopo la riforma anche per motivi che potremmo definire di concorren za con le varie reti straniere e comunque private che trasmettono sui canali nazionali. Anche il richiamo di pubblico — in qualche modo ristretto — di fronte agli impegni di prosa in televisio ne, non è un fatto nuovo. E le ricerche dei dirigenti della RAI partono anche da questa considerazione. Ri costruire l’ambiente teatrale attraverso il video è una pretesa abbastanza irreale; l’intento dunque è ancora quello di stabilire e di « costruire » un nuovo genere di spettacolo di prosa che trovi il suo ambiente na turale proprio nel video, cosicché l’interesse verso que sto sia ancora una volta specificatamente da convoglia re nel fatto televisivo. L’ultimo aspetto degli impegni di prosa della rete uno riguarda le riprese di lavori prodotti da compagnie stabili o di giro. E in questo modo si cerca di favorire delle messe in scena che hanno già conosciuto un largo interesse di pubblico e critica nelle varie piazze teatrali, che, attraverso la televisione, possono allargare i propri intenti e le proprie risonanze ad una massa di spettato ri ancora più vasta, sia nel numero che nell’estrazione sociale. Per quello che riguarda la seconda rete, il problema di fondo è grosso modo lo stesso, ma è comunque affrontato partendo da basi diverse. Si vuole sempre cercare il modo più « televisivo » per tradurre espe rienze teatrali, stavolta però l’apparato portante delle varie ricerche sta nella dialettica propria dei lavori di prosa. Ciò non vuol dire comunque che tale ricerca vada a discapito dei ritmi e della decorrenza delle immagini, cosi come per la prima rete, il fatto che ho definito filmico non toglie spazio all’importanza delle parole in un testo. Le esperienze più significative che abbiamo alle spalle — ha iniziato Carlo Canepari, responsabile della prosa per la seconda rete — sono quelle di Carmelo Bene con Amleto e Riccardo I I I e la Torre di Hof mannsthal realizzata da Luca Ronconi. Questi esperi menti, pur conservando intatte le caratteristiche pro prie del testo teatrale, erano costruiti con tecniche espressamente televisive. L’intento era di fare uno spet tacolo che doveva e poteva aver vita solo nel video, sia per l’assetto delle scene che per le riprese par ticolari. Questa volta i portavoce di questa tensione allo specifico televisivo sono due registi teatrali. La media zione linguistica, fra teatralità e esperimento per la televisione, avviene attraverso l’espansione della base verbale, intorno alla quale vengono organizzate le im magini, nella ricerca di rendere il risultato ultimo, come una particolare fusione di linguaggio che vive sull’equi librio dei due elementi di comunicazione, parole e im magini, propri sia del teatro che della televisione, an che se con strutture interne diverse. Il punto di partenza in questo caso rimane co munque nel video. Si vuole dilatare lo spazio verbale, fino ad uniformarlo all’elemento dialettico di cui vive il teatro. Ter tornare a Carmelo Bene e Luca Ronconi — puntualizza Canepari — c’è ancora da dire che le loro ricerche, sebbene fossero favorite da noi, erano tutte personali, quindi sarebbe troppo generoso per noi della RAI prendere tutto il merito dei risultati che loro hanno raggiunto. Quegli esperimenti sono particolari, quindi diversi tra loro e si basano preminentemente sugli studi dei diversi registi. D'altra parte il nostro in tento è di costruire un particolare linguaggio di prosa televisiva, proprio tramite i vari registi che con le loro ricerche e i loro esperimenti contribuiscono a rendere più feconda e viva, quindi a definire meglio, la prassi dei nostri propositi. Andando avanti però non si deve dimenticare che lo spettatore che assiste a uno spettacolo di prosa tele visiva si trova in casa propria, nel momento della frui zione. L’ambiente quindi è privato e non pubblico co me nei teatri e il discorso proposto attraverso il video deve tener conto di questa differenza e anche in virtù di ciò deve essere ristrutturato in chiave televisiva. E c’è da dire comunque che questa volontà di determi nare un nuovo linguaggio da parte della seconda rete, muove anche da queste premesse. Si è capito insom ma che in qualche modo il teatro per sopravvivere, an zi per avere una « vita televisiva » deve essere unifor mato a tutta questa serie di problemi, facendo in modo che il risultato finale possa essere proposto a un certo pubblico, che non coincide totalmente con quello delle sale teatrali, e attraverso un elemento comunicativo che non è solamente definito dal palcoscenico e dal sipario, ma anche dallo schermo. Al di fuori da queste teorie messe in pratica da ben determinati lavori televisivi, c’è un altro aspetto che caratterizza la programmazione della prosa nella seconda rete. La volontà di documentazione — ha det to Canepari — è un problema fondamentale per noi. Ogni anno, attraverso la ripresa di lavori messi in scena da compagnie private o da teatri stabili, voghiamo farci portavoce di un intento informativo che faccia conoscere gli spettacoli che hanno suscitato maggior interesse nella stagione appena conclusa. Si tratta pro prio di documentazione come diceva Strehler. E da qui sono nate importanti collaborazioni come quella appunto con il Piccolo di Milano. Il fine è di rendere sempre più valido questo intento informativo teatra- Rete 1 24 dicembre - « Quei figuri di tanti anni fa » di Eduardo De Filippo. 30-31 dicembre - « Le voci di dentro » sempre di Eduardo De Filippo. Gennaio 1979 - « La casta fanciulla di Cheapside » di Middleton per la regia di Ugo Gregoretti. Marzo 1979 - Breve ciclo che comprenderà «Diario di un pazzo » interpretato da Flavio Bucci; « Giorni felici » di Samuel Beckett diretto da Nino Mangano; « Festa di compleanno » di Harold Pinter nell’edizione della televisione inglese. le, che proprio tramite la televisione assume propor zioni più vaste. Per concludere dunque torno a dire che da questi colloqui con i coordinatori della prosa in televisione per le due reti della RAI è emersa la completa presa di coscienza della strada compiuta negli anni passati, in tutti i suoi risvolti positivi e negativi; ma allo stesso tempo traspare la volontà decisa di rendere sempre più specifico e autonomo questo settore, anche per delimitare sempre meglio la portata e la finalità del fenomeno « prosa in televisione ». Nicola Fano Ecco il « cartellone », ancora un poco approssimativo, degli impegni di prosa alla televisione. Si precisa comun que che saremo di volta in volta più precisi nell’elencare i vari appuntamenti. PIU’ TEATRO IN TV « I! teatro, grazie anche alla te levisione, sta diventando un feno meno culturale di massa *>: la di chiarazione è stata fatta dal presi dente della Ral-TV dott. Paolo Gras si intervenuto, a Parigi, al terzo in contro Internazionale degli audiovi sivi. A parere di Grassi « la diffusio ne capillare attraverso i telescher mi di opere drammatiche di ogni genere ha seriamente contribuito a creare nel nostro pubblico una co scienza teatrale ». Ma non basta. Sempre secondo Paolo Grassi la TV non deve solo limitarsi a tra smettere un certo numero di spet tacoli, ma deve anche far opera di costante e puntuale informazio ne critica, e in più produrre, in ac cordo con le grandi istituzioni tea trali, proprie autonome iniziative. Una scena d'insieme de « La casta fanciulla di Cheapside » 1 « I due gemelli veneziani » (foto RAI) 2 « Giorni felici » (foto Cristiano Rossi) 3 Claudia Giannotti ne « La Bettina » (foto RAI) Rete 2 Da novembre 1978 a marzo 1979 avremo un nuovo appun tamento con il balletto, la lirica e la prosa, che con il nome di Pomeridiana andrà in onda ogni domenica. Per al prosa sono compresi tra gli altri « Cecè » di Pirandello, la « Bettina » realizzata da Luca Ronconi e « I gemelli veneziani » di Goldoni messo in scena da Luigi Squarzina. Nella prossima primavera avremo le registrazioni di spetta coli realizzati dalle compagnie di giro nella passata sta gione. Tra queste « Re Lear » di Shakespeare diretto da Giorgio Strehler e « La torre » di Hofmannsthal messa in scena da Luca Ronconi. « L e m a n i s p o r c h e » in te le v is io n e S a r t r e : d o p o t r e n t a n n i a n c o r a p o l e m i c h e Le mani sporche è un dramma che esemplifica in modo chiaro e inequivocabile le interrelazioni sociali che legano un fatto storico o più particolarmente poli tico, alla « disquisizione filosofica » intorno al carat tere umano. Sartre fa di tale suo lavoro una equi librata miscelazione di questi due elementi della storia umana, uno simbolo della prassi, l’altro della teoria e della meditazione. Il teatro di Sartre è stato più volte definito teatro sociale, e la sua socialità è colta proprio nell’acme dialettico di questi due elementi, senza che il primo prevalga sul secondo e viceversa. Insomma la politica nelle Mani sporche ha un’importanza non trascurabile; principalmente questa serve all’autore — che nel no stro caso è prima un filosofo che altro — come prete sto reale da cui far partire una precisa discussione sul carattere umano nel suo farsi, come diceva Sartre stesso. vimento, che proprio in questo modo raggiunge i livelli più alti. Ma così come accadde trent’anni fa alla prima pari gina di Les mains sales al teatro Antoine, anche oggi la messa in scena di Petti ha suscitato una vasta eco di polemiche. C’è ancora chi si affanna a vedere l’anti comunismo, o peggio un malvelato plauso al terrorismo nel testo sartriano. Quasi che Sartre abbia sempre fat to il politico di professione e ogni tanto — a tempo perso s’intende — si sia dilettato a scrivere comme die pregne delle sue idee che sono solo politiche e non altro. Non è così. La realtà dei fatti, anzi, ci si pre senta opposta. Se proprio non lo si vuole definire un filosofo, almeno bisogna appellare Sartre uomo di cul tura, il cui pensiero intorno alla cultura stessa ha con tribuito in maniera determinante a modificare le coor dinate generatrici e portanti di tutta l’esperienza lette- L’interesse dell’autore investe principalmente i li velli filosofici che caratterizzano questa particolare so cialità, e si traduce, nelle Mani sporche, in un equili brato approfondimento dei due termini dialettici che generano appunto tale interpretazione sociale. Elio Pe tti, che ha messo in scena Le mani sporche per la RAI, ha riportato quasi alla perfezione questa bivalenza sce nica del fatto politico e del fatto filosofico o pseudo tale. Nel suo lavoro poi questo equilibrio è reso an cora più dinamico poiché lo scontro sociale dei due elementi determina una meditazione in continuo mo- raria del secondo dopoguerra. Non fu per caso che un suo imporantissimo « fondo » su Che cos’è la lettera tura aprì uno dei primi numeri del Politecnico di Vittorini. Le mani sporche quindi è frutto di una meditazione filosofica sull’uomo e non di un’ira politica contro i crimini del comunismo. Oggi anzi, tutto ciò è ancora più vero, oggi che la prassi comunista tende ad allon tanare da sé l’esperienza stalinista. Tanto è vero che nel dramma il personaggio-fulcro, che rappresenta l’a pice umano e sociale dell’intreccio — come dell’intera meditazione — è il complesso e riformista Hoederer e non l’intellettuale astorico e terrorista Hugo, seb bene il giudizio umano di Sartre su quest’ultimo sia più elaborato e meno circoscrivibile. L’atto terroristico che egli compie diventa una chiara punizione appunto verso quella sua essenza di intellettuale astorico e an tisociale. Tornando quindi alla definizione iniziale della so cialità di Sartre si dovrebbe vedere qui che l ’opera non vuole essere una dissertazione politica anticomunista, ma una netta rappresentazione del « medio proporzio nale filosofico » che lega la teoria e la prassi umana e politica di Hoederer e Hugo. Inoltre l’autore mette in evidenza il fatto che nel primo questo processo è « facilitato » nella sua evoluzione, perché il personag gio che la vive ha già alle sue spalle — non per que stioni di età, ma per coscienza sociale — un più chiaro equilibrio tra meditazione umana e meditazione politica. La struttura interna del lavoro di Petri comunque è tutta televisiva. Non si tratta di un film trasportato nello schermo e neanche di una rappresentazione tea trale adagiata nel video. È un lavoro specificamente televisivo, sia nel linguaggio delle immagini che in quello delle parole. Ma non si ferma alla ricerca di base, inventa anche tecniche sceniche e visive ben distinte da quelle filmiche e da quelle teatrali, come l’uso par ticolarmente originale degli specchi. Dove la macchina da presa non può inquadrare tutta la scena, per soffer marsi sull’espressione di un solo personaggio, il com pito di riportare tutti gli attori nell’inquadratura è dato a uno specchio che permette una dilatazione degli spazi di volta in volta in orizzontale o in verticale. Per quello che riguarda gli attori c’è innanzi tutto da annotare l’alto tono di interpretazione che ognuno raggiunge; su tutti va notato però Giovanni Visentin, un Hugo che fa trasparire un travaglio personale in terno e esterno fatto di pregevoli alti e bassi di pas sionalità. Marcello Mastroianni, come sempre, anche nell’interpretare Hoederer tocca buoni livelli di profes sionalità e di immissione nel personaggio. Un’interpre tazione particolarmente frizzante poi è quella di Giu liana De Sio che fa una Jessica arguta e vitale, forse più di quanto Sartre non l’avesse pensata. Insomma, come dicevo, tutto il livello del lavoro è alto, e d’altra parte un testo così vivo e così teatrale come Le mani sporche si presta alla completa coralità, sia nell’ambito « filosofico » della carica sociale che nell’esplicazione tecnica e scenica della vicenda. E Petri con molta luci dità ha tenuto ben conto di entrambe queste bivalenze, per intesserne un’altra al livello superiore tra significati e significanti. Nicola Fano IL DRAMMA - 67 S T O R I A D E L L ’ O P E R A id e a ta d a G U G L IE L M O B A R B L A N d ir e tta d a A L B E R T O B A S S O Realizzata con la collaborazio ne di trenta noti studiosi di no ve diverse nazioni, questa Sto ria, di gran lunga la più ampia finora mai pubblicata, prende in esame il fenomeno “opera” nel suo complesso considerandone lo sviluppo in tutti i paesi euro pei e americani. Oltreché agli studiosi essa è destinata al grande pubblico dei frequenta tori dei teatri e degli amatori di dischi. Volume I: L’opera in Italia. Tomo I: Le origini del melodramma-La grande epoca barocca-L'opera napoletana e venezia na tra Seicento e Settecento - Il melodramma negli altri centri nei secoli XVII e XVIII. Tomo II: Il melodramma italiano all'estero - Il grande Ottocento - L’Ottocento minore - Il No vecento. Volume II: L’opera in Europa e nelle Americhe. Tomo I: L'opera in Francia - L’opera in Germa nia e in Austria - L'opera in Inghilterra - L'opera in Spagna. Tomo II: L'opera negli altri paesi dell'Europa Occidentale - L'opera ceca - L'opera russa - L'opera negli altri paesi dell'Europa Orientale - L'opera nelle Americhe. Volume III: Aspetti e problemi dell’opera. Tomo I: La vocalità -1 cantanti - L'opera come fatto di costume. Tomo II: La librettistica. Tre volumi in sei tomi di complessive pagine LXXX-3368 con 92 tavole fuori testo. Hanno coliaborato: Guglielmo8Barblan, France- Yvonne Bril, Massimo Bruni, Francesco Bussi, Giovanni Carli-Ballola, Claudio Casini, Franca Cella, Rodolfo Celletti, Jacques Chailley, Fran cesco Dégrada, Piero Derossi, Elena Ferrari- Barassi, Paul-André Gaillard, Carolyn M. Gian- turco, Léon Guichard, Gunter Hausswald, Wil liam C. Holmes, Ariella Lanfranchi, José Lôpez- Calo, Gustavo Marchesi, Carlo Marinelli, Mariu9 Monnikendam, Anna Maria Monterosso-Vac- chelli, Carlo Mosso, Edward D.R. Neill, Carlo Parmentola, Giorgio Pestelli, Guido Salvetti, Jo sé Subirâ, Hellmuth Christian Woiff. FACILITAZIONI di PAGAMENTO UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE Corso Raffaello 28 -10125 TORINO - Tel. 688.666 P a l u d i d ' a l t r i t e m p i Cominciai a scrivere commedie nel 1930, a 19 anni, destinandole alle filodrammatiche di ora torio composte di soli uomini. Era uso sottoporsi prima al vaglio della pubblicazione e poi, se si tro vavano amatori, alla prova della rappresentazione. Le riviste specializzate erano in quegli anni almeno tre e le case editrici che gestivano collane teatrali di quel tipo almeno una diecina. Scrissi, e rappre sentai, in meno di un decennio sei commedie tra cui II Nodo. Questo è l ’antefatto, e veniamo alla vicenda. Che comincia con un incidente politico teatrale. « Un’altra volta fui costretto a molestare quel nobile scrittore che è Diego Fabbri », scrive Leo poldo Zurlo, « censore » teatrale degli anni del « regime », nelle sue gustose Memorie inutili, a pagina 285. M i molestò infatti nell’aprile del 1937 quando ancora stavo a Forlì ed ero appena quel l ’autore dilettante di cui ho già detto: mi mole stò vietando le recite (...« sicché il Ministero non crede di autorizzare la recita » mi avvertiva la Prefettura di Forlì) di quella mia opera giovanile, I l Nodo, versione originaria delle attuali Paludi, che avevo scritto nel ’34 « a personaggi soltanto maschili destinata a filodrammatiche » precisa Zur lo. L ’avevo stampata l’anno dopo sulla rivista Controcorrente, e la pubblicazione diede l ’avvio ai miei primi crucci e sospiri. « L ’azione — così riassume il ’’censore” me morialista — si svolge in Cirenaica in una impre cisata azienda di bonifica dove si attende l’arrivo di un ispettore... ». Quell’ambientazione in Cire naica, mentre era ancora in corso la guerra etio pica, non dovette piacere affatto se è vero che « nel giugno 1936 il Ministero della Stampa, in seguito a lagnanze pervenute, esaminò il dramma della S.V. e rilevò che dava un’idea errata della vita coloniale in Cirenaica e ispirava ai giovani cui era destinato un anticipato pessimismo della vita ». Non avrei mai pensato che a Roma tra tanto daf fare ci si occupasse anche di un drammetto per soli uomini; ero certo di essere il proverbiale ago sperduto nel pagliaio: e invece ero stato trovato e isolato, e castigato. Devo anche dire che fui in qualche modo lu singato dal divieto, e credetti di rimediare ricor rendo solo alla geografia: non piace l ’ambienta- zione in Cirenaica, beh, spostiamola più a ovest, in Algeria, cambiamo nome ai luoghi e ai perso naggi che non saranno più italiani bensì francesi: Morand, Hervé, Larousselle... Fidavo sulla distra zione e la confusione dell’amministrazione fasci sta, credevo di farla franca, e invece: « La S.V. ha riprodotto il dramma cambiando la nazionalità dei personaggi e trasportandone l ’azione in Alge ria. Ella però non ha mutato le conclusioni amare e descrive sempre il trionfo completo del male sul bene determinando nello spettatore l ’idea che al mondo non esista giustizia. Per questo motivo il lavoro resta sempre poco adatto per la gioventù, sicché il Ministero non crede di autorizzare la re cita ». E poiché il divieto doveva essere ufficial mente portato a conoscenza dell’interessato fui chiamato dal Prefetto con viva apprensione di mia madre, che pure era una donna forte, che mi seguì incamminarmi verso la prefettura come se fossi già avviato alla prigione. Si pensi al clima politico di quegli anni in certa provincia italiana: Forlì rimaneva un centro di fascismo attivo, un po’ manesco; io non avevo mai aderito a nessuna organizzazione del partito; mi ero laureato l ’anno prima a Bologna in « cami cia bianca »; la nostra era una modesta famiglia di operai: mio padre, repubblicano, era occupato in una bottega di pompe idrauliche e di ferramen ta, mia madre si era definita una volta « cucitrice in bianco ». Laico, ma non mangiapreti, mio pa dre, fervida e pugnace cattolica, mia madre. Il colloquio col Prefetto si svolse invece in un clima di piena distensione. M i accolse con una certa curiosità non esente da stupore: Forlì non era città di lettere bensì di passioni politiche, e il trovarsi di fronte quel giovane allampanato e va gamente tenebroso come dovevo apparire io allo ra (vestivo di scuro e portavo la cravatta svolaz zante alla « lavallière ») doveva meravigliarlo un po’. M i restituì il copione del Nodo con un sospi ro di rincrescimento (l’ordinanza precisava: « si restituisce un esemplare del lavoro stesso »), e mi fece, forse per dovere d’ufficio, un fervorino in Diego Fabbri vitandomi ad essere d’ora in poi meno pessimista e a credere nella gioventù, anzi nella giovinezza, che dovrebbe nutrirsi di speranza. E mi congedò. Scendendo l ’ampio scalone della prefettura ero pervaso dal sentimento che quel giorno poteva essere importante come quello di una « prima »: se a Roma quelli della « censura » si scomodavano tanto per II Nodo, dramma di soli uomini, voleva forse dire che c’era dentro qualcosa di buono, qual cosa che li disturbava. E pensai subito a una rie laborazione del lavoro: farne una vera commedia per il teatro vero, vale a dire, per scendere al pratico, introdurre quel personaggio femminile di cui nel Nodo si parlava soltanto senza mai poterlo vedere. Così II Nodo diventò Paludi. Lavorai con fervore, e quando a metà del 1939 feci le valige per venire a Roma con la segreta volontà di fare del teatro vi infilai il copione di Paludi insieme a quelli di Orbite e della Libreria del Sole (che poi rappresentai tra il ’41 e il ’43). Ma restiamo a Paludi che viaggiava con me verso Roma. Certo Roma non era Forlì: nonostante le mie timidezze di provinciale conoscevo ormai bene Ugo Betti e Cesare Vico Ludovici, Silvio D ’Amico e Giorgio Prosperi, Orazio Costa e Siro Angeli e Ge rardo Guerrieri... ma la mia posizione politica in camicia assolutamente bianca non mi propiziava la attenzione dei capocomici del tempo. Largo ai gio vani, d’accordo, ma io sapevo di non essere di « quei giovani » cui si doveva far largo. Avrei do vuto essere notato pur passando inosservato. E così mi lasciai attrarre da uno specchietto da allo dole costituito da un vistoso e capace « bussolot to » —• una cassetta postale di dimensioni più che raddoppiate — che spiccava all’ingresso del Teatro delle A rti in via Sicilia di Anton Giulio Bragaglia — il « corago sublime » — entro il quale poteva essere « impostato » qualunque copione originale di un qualsiasi autore italiano: sarebbe stato poi letto e, se meritevole, rappresentato. Non esclu do che l ’accorto Anton Giulio avesse mutuato la iniziativa dal Théâtre Libre di Antoine che rivelò, anni prima, attraverso questo stesso espediente, molti autori di valore. Fatto sta che ne approfit tai, e una sera infilai nel « bussolotto » delle A rti un copione di Paludi allontanandomi subito fur tivamente nelle prime ombre della sera come se avessi compiuto un’azione poco onorevole. E aspet tai. Forse mesi. E una sera, era domenica, uscendo dalla casa di Ugo Betti insieme a Siro Angeli — l ’autore di maggior spicco, tra i giovani — mi sento dire quasi a bruciapelo: — Hai vinto il Concorso del Sindacato Autori con Paludi, lo sai! — No, non lo sapevo, e non potevo nemmeno crederlo poi ché non avevo partecipato a nessun concorso dram matico e tanto meno a quello del Sindacato Au tori a cui non ero iscritto. Lo dissi a Siro Angeli con il quale ero legato da viva amicizia: mi rispose che tutti gli autori erano iscritti « di fatto » al Sindacato senza alcun bisogno di tessere personali. Ero stupito per quella appartenenza « di fatto » e ancor più per aver vinto un concorso a cui non avevo partecipato! Ma era proprio così, i giornali di qualche giorno dopo riportarono il verdetto della giuria. Era così, ma non ero, come dire?, rassegnato: e c’era una ragione specifica. Qualche mese prima ero stato coinvolto in un’altra avventura a dir poco spiacevole a sfondo politico e non volevo che qual cosa del genere si ripetesse. Il Teatro dell’Univer sità dove agiva la « Compagnia stabile del GUF di Roma » aveva incluso la mia commedia Orbite nel suo repertorio. Le prove avevano già avuto ini zio, anzi erano quasi alla fine; e in vista, appunto, della prima rappresentazione fui chiamato dal di rettore della compagnia Gagliardelli per concorda re il comportamento da seguire la sera della « pri ma ». Alla fine dello spettacolo, dopo i primi ap plausi, avrei dovuto uscire alla ribalta in camicia nera e salutare romanamente le autorità e gli spet tatori. M i senti gelare anche se Gagliardelli non mi sembrava un prepotente aggressivo. Non c’è dubbio però che ignorava del tutto la mia condi zione politica altrimenti non mi avrebbe proposto quel tipo di liturgia. Lasciai che concludesse il suo progetto di applausi e di saluti romani, poi gli dissi che non avrei assolutamente potuto essere quella sera in camicia nera poiché non avevo alcuna tesse ra che lo giustificasse. Devo dire che Gagliardelli, il quale aveva parentele a Ravenna, capì ogni cosa in un baleno; mi disse soltanto: « Lo so che dalle vostre parti ce n’è più d’uno come te ». La recita naturalmente fu immediatamente sospesa, e pensai che, oramai, per me le porte del teatro dovevano considerarsi chiuse. Invece le mie fortune volsero al meglio: trovai gran comprensione e amicizia in Nicola De Pirro, Direttore Generale del Teatro, e in Cesare Vico Lodovici, consulente artistico della direzione, che inserirono le mie Orbite nel repertorio della Compagnia Pavese-Magni di scena al Teatro Quirino dove debuttai nel novembre del 1941. Questo precedente, anche se finito bene, mi rendeva perplesso sulla mia vittoria a un concorso cui non avevo partecipato. Invece anche stavolta la conclusione fu felice. Andai in scena con Paludi al Teatro delle A rti ai primi di Febbraio del ’42 con la regìa di Turi Vasile. Chi non volle tenere a battesimo il giovane autore furono i due primi at tori della Compagnia, Dino De Luca e Diana Tor- rieri, che si ritirarono non ricordo con quali scuse. Si recitò con i comprimari, ma l ’esito fu eccellente. Ebbi la simpatia della « fronda » intellettuale di quegli anni, e mi guadagnai un paio di collabora zioni cinematografiche, una per un film di Mario Camerini e un’altra con Roberto Rossellini. A set tembre le mie Paludi furono riprese dalla Compa gnia di Giorgio Venturini con la interpretazione di Salvo Randone, Gianni Santuccio e Lina Volonghi. Siamo alla stagione 1942-43, siamo in piena guerra con sentori di frana militare e politica, e siamo un po’ tutti portati a fare esami di coscienza. Forse lo fece anche il « censore » Leopoldo Zurlo che non si fece più vivo e concesse i nulla osta neces sari: Paludi non gli appariva forse più come per vasa da un precoce senso di pessimismo. E ho fi nito questo curriculum che copre quasi un decen nio, il decennio in cui i destini d’Italia mutarono, e Paludi testimoniò, a modo suo, i tempi di questo mutamento. Da allora — e sono la bellezza di 35 anni — la commedia è stata rappresentata' solamente in Francia, alla Première Chine della televisione fran cese, con la bella interpretazione di José Quagliò e con una eco che non mi aspettavo. Per questa edizione, non ho apportato che po chissimi adattamenti strutturali e qualche ritocco qua e là nel dialogo, lavoro di mestiere non di in venzione. Se è vero che siamo in momenti propizi per altri esami di coscienza, queste vecchie Paludi non dovrebbero del tutto dispiacere. Roma, 10 ottobre 1978 Diego Fabbri PALUDI Due Tempi di Diego Fabbri (Nuova edizione 1978) PERSONAGGI CARLO IL DIRETTORE DEI LAVORI GINEVRA, figlia del Direttore WALTER, ingegnere L’ISPETTORE GENERALE ALF, ragioniere RUSPA, caposquadra operaio 1° OPERAIO ALTRI OPERAI Oggi. In una palude del Sud. Questa edizione sarà portata quest'anno sulle scene dalla Cooperativa di Luigi Sportelli per la regia di Andrea Ca- milleri al Teatro Parioli di Roma. PRIMO TEMPO Un terrazzo di legno rialzato di poco sul piano di terra. A destra comunica con gli Uffici contabili; a sinistra una scaletta porta a basso. Nello sfondo, a perdita d’occhio, la pianura color verde alga. Il cielo è più grigio che celeste. Carlo (È steso su una sedia a sdraio). ruspa (Ha una « tuta » gialla e stivaloni alti fin sopra il ginocchio. E appoggiato alla ringhiera„ vicino alla scaletta.) Dovreste parlare di me con l’ingegnere. Carlo (Rivoltandosi sulla sedia): Che vuoi? Fammi capire. Questo sonno... In due parole: che vuoi? RUSPA: Uscir fuori dalla palude. Ci lavoro da oltre due anni, da quando sono venuto. Non ci resisto più. L’umido, capite, l’acqua ammazza. Vedete come mi son conciato: storto così mi tocca camminare. E l’ingegnere dice che sono indispensabile. Carlo: E tu salta l’ingegnere? ruspa: E adesso con chi parlo? CARLO: Ho capito. Ma io conto poco. (Pausa) Domani però arriva un ispettore. Parla con lui. ruspa: Un ispettore? Allora l’aspetto al ponte e gli parlo. Carlo (Continuando a rivoltarsi): Ponte? Che ponte? ruspa: Sì, insomma: alla passerella che porta sulla Eh? strada. Noi diciamo il ponte. CARLO: L’avete messa su in questi giorni? ruspa: Ma no! È sempre quella di sette, otto mesi fa. Per andare al porto si deve passare di lì per forza. Carlo: 'È tanto che non vado al porto. Non l’ho vista. (Si solleva un po’) L’ultima volta che sono andato si doveva ancora attraversare la palude con l’acqua fin qua. rella s’è costruita apposta. ruspa: Anche adesso l’acqua arriva fin qua. La passe Carlo: Sicché in un anno di lavori s’è zappato 1 ac- qua? ruspa: Mah! L’ingegnere dice che il livello calerà di colpo appena avranno attivato le nuove tubazioni. Ma chi lo sa! Carlo (Tornando a stendersi): A voi che importa? Adesso poi che c’è anche il ponte potete andarvi a divertire al porto quando volete. Dev’essere un mo mento . ruspa: Oh, divertirci... Sì, è un momento, ma il più delle volte ci fermiamo sul molo a guardare, sempli cemente. Non vogliamo mica spendere. C’è sempre qualche bastimento ancorato: caricano, scaricano. Lì s’imparano le notizie. Può essere che arrivi qualcuno dei nuovi, allora lo si fa pagare. Carlo: Sì, sì, la solita baldoria. ruspa: Alle volte ci sono gli ammalati che ripartono. I nostri, dico. Li accompagnamo, capite... Carlo: Sì, sì, i nostri ammalati che ripartono. Lo dite a me ? Devo tenerne nota per via delle assicurazio ni. Una noia. Perché poi vengon le grane... Io però non li vedo. Mi passano i nomi, i dati, semplicemen te, per le pratiche. Come sono ridotti questi amma lati? ruspa: Eh... Quando s’imbarcano npn si lamentano più: spesso anzi sorridono. Ma fanno pena lo stesso. Sembra che vadano a morire... di là; è un’impressio ne. (Vivo) Io non vorrei partire a quel modo. Vorrei imbarcarmi il mio giorno, a contratto finito, e dirit to, sano, capite? Questo non posso dirlo all’Ispetto re. Non mi starà a sentire. E poi... si ferma due, tre giorni poi via, e io avrò a che fare con l’ingegnere. È lui che conta. Mi dovete aiutare... Carlo: Una buona parola gliela metto. Facci conto. Ma c’è anche il Direttore, dillo anche a lui. ruspa: Quello poi non conta niente. Si sa, si sa. Che conta il Direttore? Voi, sì, invece, se volete. Siete anche amico dell’ingegnere. Carlo: Però che strana gente siete! Lo sapevate prima che vita era, vi siete fatti raccomandare per venirci, ci siete venuti, e poi cominciate col piagnisteo... ruspa: No, non si sapeva prima! Prima s’immagina, ma non si sa. Non faccio la commedia. Il mio male si vede. Basta guardarmi camminare. Carlo: Non dicevo di te. Basta. Ho capito. ruspa (S’avvia): Allora... ci posso contare... Carlo: Sì. Ma parla anche con l’Ispettore. E adesso va. Sta sano. ruspa (Scende la scaletta, incrocia Alf che appare con un grosso registro). Carlo (Quasi investendolo dopo un lungo silenzio): Vorrei proprio sapere chi se li prende, adesso, i miei giornali? a lf: Non arrivano dottore, da quando sono qui. Carlo: Arrivavano, prima. E a mio nome. Regolar a lf: I giornali non arrivano più da almeno due mesi. mente! Com’è? Ve ne accorgete adesso? CARLO: Dite... già da due mesi?... Mah! Avrò dimenti cato di pagarli...? Può darsi. Mah! Che ne facevo poi dei giornali? Solo perché venivano di là... Che vuoi adesso? a lf (Sulla porta degli Uffici. Meno di trenta anni. Un volto opaco, timido. Ha in mano un registro): La firma. Il solito... visto. CARLO: È un’ora che aspetto per questa firma! a lf: Scusate. Carlo: Scuso niente. Date qua. (Alf gli porge il regi stro. Carlo firma). Abituatevi a non chiedere mai scusa ad alcuno quaggiù. (Gli ridà il registro). Avete lavorato tutt’oggi. Ho visto. a lf: Cerco di rendermi conto della situazione. Ho riscontrato — permettete — un certo disordine. Molta roba in arretrato. Forse il mio predecessore... E io cerco, appunto... Carlo: Sì, sì, abbiamo capito: di rendervi conto. Un impulso lodevole. Mi pare però che voi siate di quelli che prendon le cose troppo di petto — no? a lf (Con un sorriso che vuol essere furbo): Almeno nei primi tempi... a lf: Carlo: L ’avevo già capito! Invece qui è questione... di ritmo. Come in musica. Prendere un ritmo e mante nerlo, essere costanti. Altrimenti si rischia di esser rimandati a casa. (Confuso) Come sarebbe? Io... io cerco... ve l’assicuro... e spero di essere... di essere costante. CARLO: Costante? Lavorare ore e ore, come oggi, sui registri? Sperate delle cose impossibili, delle cose che non farete! È un brutto male sperare delle cose impossibili! (Alf vorrebbe spiegare). Ma no... state zitto... lo so... vi dico che lo so! Ve lo dico io che cos’è: è la prima ventata di zelo. Si crede che durerà.. a lf (Borbotta): La prima ventata... CARLO (Guarda sotto): Sì... la prima... ventata... (ad Alf senza volgersi). Venite a vedere una donna! Guardate? Una... rarità! (Si alza, va alla ringhiera, saluta con la mano). Chi cerchi? Ginevra (Da sotto, salendo la scaletta): Vedo una faccia nuova. CARLO: Nuova? È qui da due mesi. Ginevra: Per me è nuova e vengo a far conoscenza. Carlo: Incredibile! Rispetti ancora le buone usanze, tu! (Ad Alf) Viene per voi. Ginevra: (Entrando) Sì, sono venuta a vedervi. a lf (Impacciato): Grazie, grazie. Ginnevra: Una semplice curiosità, sapete. Tanto per Carlo: Il ragioniere aggiunto. La figlia del Direttore essere subito sinceri. (A Carlo). Chi è? Generale. Ginevra (Dandogli la mano): Ginevra. Carlo (Ad Alf): Vi avverto. Nei primi mesi tutti s’innamorano di lei. È l’abitudine. Lei stessa, credo, dev’esserne annoiata. GINEVRA: Piantala, Carlo! oarlo: Per premunirlo. E gli posso anche dire che momentaneamente sei fidanzata all’ingegnere Wal ter. Si dice che si sposeranno. Così almeno si crede. Ginevra (Ad Alf): Lo sentite? Si diverte. Carlo: No, per precisione. E ora... che ho finito... (ritorna a stendersi sulla sedia a sdraio). camente. Ginevra (Ad Alf): Non vi s’era ancora visto... pubbli a lf: Sono qua da appena due mesi. C-inevra: Me l’ha detto Walter. Carlo (A bruciapelo): A Walter piace il ragioniere Ginevra (Ad Alf): Per il momento dice che siete aggiunto? servizievole. Carlo: Ho capito. A Walter difatti piacciono le per signorina. sone servizievoli. Ginevra: Io trovo che siete ancora vestito molto be ne: roba nuova, elegante. Si sente l ’aria di lassù. Carlo: Lascialo stare, Ginevra. Ginevra: Avrete portato libri. a lf: Veramente... CARLO: Non è uomo da libri. Si vede. Ginevra: Peccato! E nemmeno canzoni, dischi nuovi? a lf: La mia roba stava tutta in una piccola valigia, Voi sapete ballare? Carlo: Cerchi le canzoni? Si balla ancora a casa tua? GINEVRA: Qualche volta — più di rado, però, (ad Alf). a lf: Mi muovo. CARLO (Comincia a sorridere): Ah! Continuate a balla re! Anche Walter? Ginevra: Si capisce. Carlo: Con te? Io l’ho visto ballare con te. Una volta GINEVRA: Che hai? Carlo: Niente, niente. (Ride). Un uomo come lui non (Ride). A che mi fai pensare... dovrebbe mai ballare... Ginevra (Ride anche lei): È un po’ goffo, vero? Carlo: Un uomo così forte... che vorrebbe far tremare la gente... diventa ridicolo... un enorme pagliaccio... anche lui un animale domestico... come noi... più buffo, anzi... (Non ride più. Altro tono). Tutti era vamo buffi, allora. Anch’io. Dillo tu, Ginevra. mai. Ginevra: Non si poteva dire di te. Non t’esponevi Carlo (Ad Alf): Allora andavo anch’io a casa sua. Erano quei famosi primi mesi — v’ho detto •— in cui si perde un po’ la testa. (A Ginevra). Facemmo arrivare un pacco di dischi — ricordi? Tutti ballabi li. (Ad Alf). Per far piacere a lei, unicamente. Io non potevo nemmeno sentirli. Ero avvezzo alla mu sica seria. Quelli che avevo portato con me erano roba classica. M’ero detto: li suono per consolarmi un poco. (A Ginevra). Invece sono ancora di là, sai così come li ho portati. Ginevra: Mai suonati? Carlo: Quaggiù, mai. Non ci ho più pensato. E poi anche se l’avessi voluto il grammofono era rimasto a casa tua. Ginevra: Questa è una storiella che non sapevo. (Ad Alf). Nessuno lo conosce mai, fino in fondo. Atten to! Potresti però venire a suonarla stasera la tua musica classica. È arrivato un amico del babbo dalla Direzione Generale. Un uomo serio. Bisognerà portargli un po’ di gente. Verrà anche Alf. a lf (Un gesto di assenso). Carlo (Lievemente interessato): Quando è arrivato? GINEVRA: Oggi. Oggi. CARLO: Ho capito: è la staffetta. GINEVRA: Che cosa? Carlo: La staffetta. A giorni avremo una ispezione. Ginevra: No. Ma può essere. Allora a stasera. Carlo: Non scappare. (Stacco) Io non ci vengo a casa tua. Verrà Alf... in rappre sentanza. (Intanto s’è avvicinato a Ginevra e le ha circondato confidenzialmente le spalle con un brac cio. La porta in disparte). Dovresti informarti di quest’ispezione... Occorre saper qualcosa. mi...? Ginevra (Un’ombra appena di preoccupazione): Te Lo sai? Carlo: No, niente. Soltanto mi farebbe piacere non esser preso alla sprovvista nel caso che..'. Sai: la mia insonnia (mormora). Talvolta a me par di vederlo il sonno: mostro enorme, impalpabile, starmi sopra, già pronto ad inghiottirmi... Ginevra: Sarà una poesia, scommetto! Carlo (ironico) Scommetti? Hai vinto. Sì, una poesia: di Cardarelli. Ginevra: Come finisce? CARLO: Finisce... finisce... (fa quella sorta di cantilena di chi ripassa mentalmente a bocca chiusa, una poe sia)... ah, ecco:... « E delirando fuggo l ’ore che gli appartengono. Larva inqueta, dormente che cammina e va sognando e stima d’esser desta. Ginevra: Già... la tua insonnia... (si avvia sorridendo). Ma come fai a sognare... se fuggi il sonno? (E s’allontana ridendo sonoramente). Carlo: No! Non ridere. Ginevra (Si ferma bruscamente). Carlo: Dico sul serio. Va... dall’amico che è arrivato. E stasera vi manderò Alf. Ginevra (Ad Alf): Lo sentite che modi!? Carlo (Impaziente): Va, va. Ginevra (Esce dopo aver salutato con la mano Alf che la segue alla ringhiera e l’accompagna con gli occhi). a lf (Senza volgersi, a Carlo che s’è nuovamente sdraiato): Bella donna. Carlo (^Distratto): Già... e anche più bella... prima... E poi non c’è che lei di donne. Non si può scegliere. a lf (È sempre alla ringhiera). Carlo: Avete sentito la notizia: avtemo un’ispezione. a lf (Si volge, ma non risponde). Carlo: Dico a voi. a lf: Sì, un’ispezione. CARLO: Potrebbe venire anche l’ispettore generale. a lf: E il motivo? Non sono pratico... Carlo:. Mah! Indovinelli! Una noiosa novità in mezzo a tanta noia. Arrivano come le piogge, gli ispettori. Pazienza... a lf (Preoccupato): I registri, ragioniere, non sono ancora aggiornati. Ve l’ho detto. Carlo: Lo so. Non importa. a lf: Non vorrei che... CARLO: Non pensateci. Rispondo io. Volevo farvi sol tanto alcune raccomandazioni. Ispettori, voi, non ne avete mai visti. a lf: Mai. Carlo: Ottimamente. Sono quasi sempre presuntuosi. O stupidi o presuntuosi. Vengono per annusare, per frugare. Si fermano due giorni e pretendono di capi re. Qua invece bisogna consumarci gli anni per capi re. Meglio così! Si tratta di diventare abili per l’occasione, di farsi credere pratici, intelligenti, navi gati... E si finisce per metterli in soggezione. a lf: Gli ispettori? Carlo: Gli ispettori. Bisogna far vedere che ormai si possiede lo spirito dell’azienda. Capito? Ricordate bene: spirito dell’azienda. Loro dicono così. E ci tengono. Hanno le loro esigenze, questi ispettori, in fatto di terminologia! a lf: Lo ricorderò. carlo: Bravo! E poi... non sarà male andare al limite della palude ad incontrarlo. Siete una faccia nuova. Vi domanderà chi siete. Siate disinvolto, mi racco mando. E alleggeritelo d’un po’ di peso: il giubbo ne, la coperta da viaggio... Il viaggio inclina al malumore. Vi sarà grato. Quanto giungerete qui, dopo quella passeggiata al suo fianco, voi sarete un altro. a lf: Non scherzate? Carlo (Continuando): C’è un solo pericolo: che vi lasciate prendere dalle nostalgie. Per esempio quan do vi domanderà notizie del vostro paese: attento, è un tranello. Raccontate con molta indifferenza, con cinismo, quasi, come d’uno... cercate di capirmi — che non lascia né ricordi, né affetti... capite? Non ci sia ombra di rimpianto,' di nostalgia nelle vostre parole. Diversamente vi giudicherà inadatto a vivere quaggiù, e non vi potrà stimare. Ci riuscirete? a lf: Vi ringrazio. Terrò questa linea. Non mi sarà Carlo: Non vi sarà difficile? Forse perché non lasciate difficile, credo. nessuno? a lf: Sì, lascio i genitori. Carlo: Nessuna donna... a lf: Forse... Carlo: Allora ci si può tradire. Badate! a lf: No. Quando s’è tagliato. CARLO: Ah, perché voi avete tagliato. a lf: Sì. Ho tagliato. E adesso è come non abbia più niente dietro le spalle. Come se fossi solo. CARLO: E non c’è pericolo che si saldi quel che credete d’aver spezzato? a lf: No, se non voglio. carlo (Quasi esplodendo): Ah! Ma voi giovanotto farete fortuna, quaggiù! Una magnifica fortuna! Perché quaggiù bisogna essere duri come siete voi! Tac! Tagliare! Senza più nostalgie, senza più rim pianti! Allora si può anche lavorare in questo infer no. Lavorare come ho visto lavorare voi in questi giorni. (Fissa Alf). Io vi guardo e mi domando come si possa perdere la memoria a quel modo. Quasi vi invidio. Voi, scommetto, non ricordate già più come suonano... le campane... a lf: Le campane? carlo: Le campane, sì: delle chiese, delle torri — a stormo — a morto... Questa pelle qui — vedete — mi s’è fatta dura per questo sole, per queste piogge, eppure mi è rimasto il desiderio di sentir suonar le campane... Quel rimbombo... Ah! Allora bisogna dormire. Non c’è altro scampo. Il sonno, per dimen ticare... invece sei vittima dell’insonnia... a lf (Guarda Carlo come si guarda una cosa strana. Dalla pianura viene un mormorio che diventa a mano a mano sempre più distinto): Arriva gente... Carlo (Va alla balaustra, il clamore cresce. Allora si ritrae un po’ intimorito): Che succede? (Ruspa e due Operai salgono la scaletta). Che volete? 1° operaio: Abbiamo saputo dell’ispezione. ruspa: Gliel’ho detto io. Vogliono che parliate all’i- no la paga. Carlo (Come ricordandosi): Ah, la paga... Si può provare... ma non vi prometto niente. Ci sono gli accordi sindacali. ruspa: L’ispettore può migliorare gli accordi. CARLO {Da un po’ guarda sotto): Perché non lo chie dete al vostro ingegnere. È qui che arriva guardate. Avete ancora tempo. ruspa: No, no. 1° operaio: È mutile con lui... Per lui, se l’acqua non cala è colpa nostra! Andiamo... Meglio non incon trarci... ruspa (A Carlo): Quello che è con l’ingegnere — vedete — è un venduto. Sei mesi fa era come noi e si lamentava. Adesso sta bene... Guardatevi da lui... 1° operaio: Andiamo... andiamo... ruspa {Intenso): Siamo venuti a nome di tutti! Ri cordatevi. spettore delle nostre condizioni. Carlo: Non seccate. Io so che avete firmato i contrat ti — tutti — liberamente. Non c’è niente da fare. 1° operaio: Bisogna provare, prima e poi fare i con Carlo: Che può farvi l’ispettore? Mettervi tutti fuori dell’acqua non si può, dovete capirlo. 1° operaio: Lo sappiamo questo. Ma aumentino alme tratti. Carlo {Con la solita espressione stranita): Si vedrà, dico che si vedrà! {Gli operai e Ruspa scendono la scaletta. S’incontrano con Walter che ha dietro un altro operaio. Gli operai salutano appena l’ingegne re e guardano di sbieco il compagno brontolando gli dietro qualcosa). w a lter: Hanno cambiato strada, stasera? Carlo: Già, hanno cambiato strada. w a lte r {Alludendo ad Alf): Ti serve? Carlo: No. w a lter: Allora lo mando alla terza zona col mio uomo a ritirare i dati degli sterri. Carlo: {Annuisce). a lf: Eccomi. w a lte r {Ad Alf): Vi aspetto qui. {All’operaio). Tu un a ltro operaio: Va bene ingegnere. {Esce insieme Carlo {Col piede avvicina una sedia di vimini a. Wal vieni domani a svegliarmi. ad Alf). ter). gli operai? w a lte r {Dopo essersi buttato a sedere): Che volevano Carlo: Salutare anche me. w a lter: Non 'hai voglia, stasera... Carlo: Hanno saputo che arriva l’Ispettore. w a lter: E allora? CARLO: Puoi immaginare: un aumento di paga. w a lte r {Una scrollata di spalle). CARLO: Lo sai anche perché viene l’Ispettore? w a lter: L’ispettore non ci disturberà. Sta’ tranquillo. CARLO: L’immagino. Non ci può disturbare, io e te w alter: Ci tieni all’esattezza! insieme. Ti chiedo se mi disturberà. Carlo {Seccato): A vivere in pace, ci tengo. Per il resto, lo sai meglio di me che all’esattezza non ci tengo proprio. w a lter: Beh, finiamola! Carlo: E finiamola. Ma che non mi secchi, l’Ispettore. w a lter: Sta’ sicuro. Carlo: Non sono uomo da mettere sotto inchiesta, io. Intesi. Lo sai! In questo momento poi... w a lte r (Secco): L’ispettore non viene per te. Non guarderà né l’amministrazione generale, né le conta bilità speciali e nemmeno il magazzino. Di questo sono certo. Assolutamente. Carlo: Assolutamente? w a lte r {Rabbioso): Assolutamente — dico! Preme anche a me essere certo! esatto, e mi piaci. Va bene. Carlo: Ecco. Ragioni. Adesso ci tieni tu ad essere w a lter: Come? Carlo: Sì, perché rimanere a galla preme soprattutto a te — o almeno più a te che a me — ne convieni — perché a me preme d’essere lasciato in pace, e basta — poiché preme soprattutto a te, è giusto sia tu ad accertarti assolutamente e a salvaguardare così anche me, la mia... tranquillità. Torna? w a lter: Logico! Non fa una grinza... Se tu fossi tanto forte per quanto sei perspicace, saresti un... un... Carlo: Lascia stare, visto che forte non sono. Del resto credi pure: se fossi così forte non sarei così perspicace. (Divagando). Io sono persuaso che i co siddetti forti sono così forti proprio perché sono così poco perspicaci; perché degli uomini, delle cose non vedono — o non sanno vedere — o non vogliono vedere — scegli tu — che un aspetto, un colore — uno solo. E su questo impegnano interamente la loro... forza. La concentrano lì, unicamente. E sem bra gigantesca; e non lo è. Ma riesce a concretare. Forse se avessero la possibilità — quegli uomini — di vedere le cose nella loro essenziale complessità, e dovessero scegliere, non potrebbero essere forti, o almeno così forti. Entrerebbe in loro un dubbio, una titubanza; comincerebbero a smarrirsi... prendevo gusto... w a lter: Lascia andare, Carlo. Non ti seguo. Carlo: È vero. Non ci pensavo che non mi segui. Ci w a lter: A parlare. Lo so. Carlo (Cambiando completamente): Allora io non mi w a lter: Dormire, puoi. Dimenticando che hai l’in muovo. Sto tranquillo. Eh? Posso... sbadigliare. sonnia. viene? tecniche. Carlo (Con una punta di curiosità). Ma allora per chi w a lter: Per i lavori: gli ultimi lavori della palude. CARLO: Ah! Un’improvvisata per voi, allora! Ragioni sfano. w a lte r (Secco): Sì, le tubazioni di scolo non soddi CARLO: Viene perché non soddisfano? E lo dici così? w a lte r (S’allontana): E come dovrei dirlo? Agitato? Apprensivo? Figurati! In qualche modo rimediere mo. Rimedierà, lui. Il Direttore, dico! Carlo: Chi? L’Ispettore che arriva? w a lter: CARLO: E... tu?... w a lter: Anch’io — certo. Anch’io. Come coadiutore però, responsabilità dirette, io, non ne ho. Ti pare? tu non ne hai. Allora: Carlo (Lo osserva): Già: w a lter: Auguri di che? Carlo: Che ve la caviate con disinvoltura. Starò a vedere. Divento curioso. w a lter: Vogliamo cambiare discorso?! CARLO: Come vuoi. — Senti: dovresti mettere al co perto Ruspa. È caposquadra alla prima zona. Sta male. w a lter: Non dar retta. E poi non ci sono posti al auguri! coperto. CARLO (Senza alterarsi. Fermo): Lo trovi, il posto, se non c’è. Gliel’ho promesso. w a lte r (I due uomini si misurano per un momento): E va bene. Purché noi due la finiamo qui. Non andiamo d’accordo, stasera — mi pare. Carlo: Perché? Ci divertiamo un poco. Non succede mai niente quaggiù. Le novità mi rendono frizzante. Quante novità, eh? L’ispettore che arriva, gli operai che protestano, il ragioniere aggiunto poi.. w a lter: Alf, eh? Carlo: Sì, Alf. Ho scoperto che è un ragioniere che farà fortuna, quello. w a lter: Dici? Allora ti aiuterà. Carlo (Quasi cinico): Spero che faccia tutto lui. C’è tagliato. Incredibile, ma c’è tagliato. w a lte r (Brusco): Non temi che ti soppianti? Carlo: No, non ci ho ancora pensato. Ma è un’idea! Al momento buono mi dà una spinta — tu dici, — mi costringe ad alzarmi, a far le valigie... e lui si mette qui, col culo al posto mio, così, eh? (Quasi giocando). Tu pensi che potrebbe anche accadere? w alter: Non lo so. Penso che bisogna difendersi Carlo: No, non occorre. Quegli uomini, lì, poi, quelli che ti possono dare una spinta, io, vedi, li ringrazie rei... w a lte r (Che guarda sotto): È già qui. Carlo: Alf? (E va alla ringhiera a guardarlo con una sempre. nuova curiosità). a lf (Dal di sotto): Ecco ingegnere. w a lte r (Ad Alf): Vengo. Andremo a trascrivere i dati. (A Carlo): E noi ci vediamo ancora prima di doma ni? Carlo: No, non ci vediamo affatto. Buonanotte. w a lte r (Esce scrollando le spalle). a lf (Saluta Carlo dal basso). Carlo (Li guarda allontanarsi. Staccandosi dalla ba laustra): Quelli sarebbero gli uomini che possono darti una spinta alla schiena e farti ruzzolare. Chi ha voglia di prenderli sul serio... (Torna a sdraiarsi). Dovrebbe esserci qualcosa di più importante da fare. Però non si sa cosa sia. Quaggiù, più niente sembra cia? importante, più niente. Rimane appena la memoria di certe cose... mah! Che strana sera... un cielo da... fantascienza... da apparizioni strane... Una volta, di cono, si vedevano perfino degli angeli con le 'spade fiammeggianti scendere dal cielo. Ci vorrebbe un miracolo, un miracolo spaventoso che ci facesse tre mare. Allora forse ci risveglieremmo. (Stacco). Mi pesano sempre gli occhi a quest’ora... Ecco, dor mirò... mi dico, e poi non chiudo occhio (Appoggia la testa sullo schienale della sedia a sdraio). direttore (Dagli uffici chiama): Walter! Walter! CARLO (Scuotendosi, irritato): Eh? Chi lo vuole? Non direttore (Entra. È agitato): Dov’è l’ingegnere? L’ho c’è. E non urlate così... cercato anche alla palude. Carlo (Senza alzarsi): Ah, siete voi. Direttore. Buona sera. Non v’avevo riconosciuto alla voce. Mettetevi a sedere. direttore: No. Ho bisogno dell’altro. Subito. Dov’è? (Quasi minaccioso). Tornerò poi anche da te, ma più tardi. Carlo: Che succede? V’è montato il sangue alla fac d ire tto ri (Allusivo): Tu sei il più furbo qua dentro, 10 so bene: non fingere però fino a questo punto! Non sai niente? Carlo (Arretra istintivamente): È... per l’ispezione? direttore: Vedi che ci siamo intesi subito! Carlo (Reagendo violentemente, ma a freddo): E che c’entro io con l’ispezione? Riguarda voi, voi due, l’ispezione... (Rimettendosi a sedete.). Andatelo a cercare da un’altra parte l’ingegnere. per la scaletta). Ginevra (Da basso): Papà? Sei lì? (La si vede salire direttore: Torna indietro. Di che t’immischi tu? Ginevra: Perdi la testa? Pensa a quel che fai: puoi compromettere tutto (Guarda i due uomini). Che vi siete detti? un po’ la voce. Ma ci vuol altro! Carlo: Assolutamente nulla. Abbiamo soltanto alzato direttore: Cercavo Walter. Ginevra: Come un bambino, sei! Non devi vederlo. Hai una piccola arma in mano e vuoi subito correre a consegnargliela. fate? Carlo (Abbuiandosi): Che piccola arma? Che discorsi E stato Walter a chiedere l’ispezione. Ginevra (Accennando al padre): Ha saputo in tempo, Carlo: No che non capisco. Ginevra: Hai fatto bene a mandarmi a casa. (Ferma). Carlo (Guarda il Direttore). direttore: Sì, sono venuti apposta per avvertirmi. Carlo: Ma... l’ispezione riguarda i lavori, gli ultimi lavori. Me l’ha detto Walter un momento fa. E chi 11 ha fatti i lavori? Lui. Diciamo: lui... e voi. direttore: Per la Direzione io, io solo li ho fatti. Carlo (Con una specie di sorriso): Già, lui semplice capisci? esecutore. Ma il Direttore responsabile... fatta apposta?... No, è Io. Vedi in che rete vuol prendermi! direttore: Carlo (Smarrendosi un po’): Voi dite: quella tela di ragno... impossibile! È ... mostruoso! Per mesi e mesi •— i lavori sbagliati — tutto per poter poi colpire in questo modo? (Una sospensione. Guarda Ginevra). E tu, Ginevra? {Si guardano). Anche tu allora?... Ginevra: Un filo della tela, un filo importante. Gli sono servita per acquistare la fiducia di mio padre. Carlo: Già... perché poi vi sareste sposati... direttore: Per questo l’ho lasciato fare da padrone, mi sono messo in ombra. Non guardavo nemmeno i progetti. Approvavo, firmavo, e basta. Le prime volte voleva spiegarmi. Io dicevo: sì, va bene, va tutto bene. Pensavo: questo giovanotto è arrivato al momento buono. Sono stanco: mi riposo. Per me è una liberazione, per loro è l ’avvenire. Al loro avve nire pensavo. Parlavo anche come padre, col cuore, non solo come un uomo che non ne poteva più di questa vita! Non ho creduto di aver qualcosa da difendere contro di lui... Non si difende dal figlio l’eredità che gli dovremo lasciare... Carlo: Beh: si difende anche dal figlio se si è sudata. Non si difende quel che s’è preso senza fatica. direttore: Ma era roba mia! Prestigio mio! Carlo: Lo so, ma trovato per caso. Allora è più facile abbandonarlo che difenderlo. Ma vi capisco, non crediate che non vi capisca. L’avete pur detto: una liberazione, in fondo. Dormire in pace. Si desidera questo, quaggiù... direttore: E lui invece mi colpisce. Non è mostruo Carlo {Pacato): È mostruoso. Da inorridire. Ma bi sogna pensarci per inorridire. Perché, così, sul mo mento, sembra che non valga nemmeno la pena ribellarsi. Pare una sciocchezza, un gioco. Che debbo dirvi; è una impressione che provo. Non ci si scalda. Bisogna pensarci... montarsi un po’... Allora sì! Si vede che è una cosa... mostruosa. {Silenzio, poi im provvisamente angosciato). Come mai tu, Ginevra? Non aver capito, tu? Come mai? Ginevra {Cupa, rodendosi): È da un po’ che io sento di odiare lui e di odiare me stessa fino a morire. Carlo {Acre, al Direttore). Anche la figlia vi siete fatto... sporcare... Ginevra {Cupa): Vendichiamoci, babbo! Lo devi fare! direttore: Sì, l’ammazzo. Mi apposto e l’ammazzo! Carlo {Eccitandosi): Che discorsi fate! Ammazzarlo... {Con orgasmo). No. Tutto poi diventa irreparabile. Se c’è un morto... È troppo. {Pausa). Bisogna sola mente tagliargli rostro e artigli, svettargli le ali. Farne un animale domestico, innocuo... È più giusto, mi pare. GINEVRA: Ma è possibile? Carlo: Chissà... (Vivace). Ma dovete muovervi, Diret tore. Conoscere subito qual è il vero stato dei lavori. È necessario che li verifichiate personalmente. Io so per esempio che le tubazioni non soddisferanno l’I spettore; fino a che punto non lo soddisferanno non so? 10 so. E bisogna saperlo, invece. Presto. Subito! E tocca a voi, che siete il solo responsabile. Bisogna sapere fino a che punto questa responsabilità è stata tradita. Dopo si potrà preparare la difesa. Direttore: correte alla palude. direttore: Sì, sì, vado... {S’avvia). CARLO {Rimane per un po’ appoggiato alla ringhiera. Sembra essersi dimenticato di Ginevra. Poi con un tono crudele). V’eravate attaccati proprio senza om bra d’amore... Ginevra {Rauca): Si ha bisogno di qualcuno... Non si può sempre aspettare da soli. Qui, i giorni sono lunghi come una eternità! Carlo: Per tutti, i giorni sono lunghi, eterni. Ginevra: E non diventiamo tutti un po’... vermi? Chi in un modo chi in un altro. {Allusiva). Anche chi non si muove e aspetta. Carlo {Polemico): Chi non si muove e aspetta diventa 11 padrone. Come il Signore dal cielo, seduto, che guarda. Ginevra: Ti sbagli. Carlo: Vedremo. Ginevra {Stacco): Senti Carlo: se lo stato dei lavori non lasciasse più una speranza, che faremo? {Silen zio). Non vuoi rispondere? vostri intrighi, e con i tuoi? Carlo: Se mi lasciaste in pace! Che c’entro io con i GINEVRA: Ah, così! Carlo: Mi ci volete buttar dentro a forza nelle vostre faccende. ri, a guardare? Ginevra: Avresti davvero il coraggio di rimanere fuo sempre. Ti fa piacere sentirmelo dire? Io sì. Spettatore. Mi piace. Te l’ho detto. Carlo: Ginevra: Ma che uomo sei?! Un niente! Carlo: Un niente. Me lo dicesti un’altra volta. Ginevra: Ti brucia ancora tanto? Carlo: Mi brucia, {scuote la testa) Forse mi brucerà Ginevra: Ti dovrei ringraziare, anzi. CARLO: Perché ringraziare? Non è questione di... Ginevra: Eh! Fedeltà del sentimento — è così raro! Carlo: Non ringraziarmi. Sono fatto così: non ho né merito né colpa. Ubbidisco a me stesso. Non potrei fare altrimenti, Ginevra. Ginevra: Ti muoverai allora in nostro aiuto. Carlo: Vostro, vuoi dire. Ginevra: Mio, e di papà. Carlo: Ma ho capito! {si allontana). E se avessi paura, ci hai pensato? plicemente. Ginevra: Paura di che? Carlo: Paura. Un uomo può avere anche paura, sem Ginevra: Anche se tu sei fuori dei pasticci? Pulito? Carlo: Finché sto fuori, certo. Finché non parlo. GINEVRA: E allora? Carlo: Allora... — Ma non credi che per aiutare davvero dovrò invece buttarmi anch’io dentro il tor chio? Ginevra {lo fissa): Lasceresti che io venga mescolata... imbrattata {gesto di Carlo)... ma sì, chiamalo come vuoi, sì, insultata, va bene?, senza nemmeno tentare di difendermi? CARLO: Non lo so quel che farei. Ginevra: Come non lo sai? — non lo sai? CARLO: Se ti dico che non lo so, non lo so. Non riesco a prevedere i miei sdegni, le mie ribellioni future. Devo trovarmici in mezzo, e allora... •— Sono fatto così. Ginevra: Ma tutti lo farebbero: credo che quel nuovo arrivato... come si chiama? Alf, si chiama Alf, no? Carlo: Sì, si chiama Alf. Ginevra: Lo farebbe, scommetto. Carlo: Può darsi, ma non lo so, e non mi interessa. •— Il tuo errore, Ginevra, è stato sempre di conside rarmi come uno degli altri. Fanno questo, fanno quello... E ti viene spontaneo adoperare le stesse armi: che con me invece non servono, anzi mi of fendono. E tu non lo capisci. Ginevra [abile)-. Ci si potrà ricredere, no? Dico: io verso di te. Si potrà capire, sentire... dopo — o no? Tutto immutabile, per te ■— o no? Carlo: Beh, io tendo a credere che non si cambi, in quel che siamo, al fondo. Immutabili? Anche nei sentimenti? Ginevra: CARLO: Anche. Sbaglio? Ginevra: Sbagli. Carlo: Sbaglierò. Però: di dove nascono i sentimenti? Non nascono forse da quel che siamo, al fondo, così come siamo? E allora! Ginevra (gli si avvicina a braccia un po' protese): Come- ti ho sempre capito poco, Carlo. Ti abbracce- rei, adesso! E sinceramente, credimi. Carlo: Ti credo, ma ti pregherei di non farlo, adesso. Non vorrei fraintendere... e sarebbe peggio per tutti. (

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Il dramma : rivista mensile di commedie di grande successo. - Torino : Grandi firme, 1925-1992.

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