L U I 1 MENSILE DELLO SPETTACOLO - ANNO LV - N. 2/3 - Febbraio-Marzo 1979 - L. 2.500 D E h # ■ V H B l a i B l M i R » a i s M G IA N C A R L O S E P E : A C C A D E M IA A C K E R M A N N T E A T R O D E L L 'IM M A G IN E s e r v iz io d i D a n te C a p p e lle tti N A T H A L I E S A R R A IT T E : I D I R I T T I D E L T E A T R O D I P A R O L A u n s a g g io d i U g o R o n fa n i IL MURO FRAGILE d u e a t ti d i C la u d ia P o g g ia n i - P e rm e tte ? S to fa ce n d o u n 'in d a g in e su2.Ce beCCezze d i T^oèdigheZa. Per informazioni : AZIENDA SO G G IO R NO E TURISMO TEL. (0184) 261580 - 262580 - BORDIGHERA MENSILE DELLO SPETTACOLO - ANNO - LV N. 2/3 Febbraio-Marzo 1979 - Lire 2.500 SO M M ARIO DIEGO FABBRI UGO RONFANI DANTE CAPPELLETTI MAURIZIO GIAMMUSSO CLAUDÌA POGGIANI M. BEATRICE BERTUCCIOLI FRANCESCO CALLARI SIMONA FASULO NICOLA FANO MARCO TESEI DINO VILLATICO ALBERTO TESTA 2 Lettere al Dramma 4 Manca un Teatro Nazionale 8 Prosa recensioni (di O. Bertani, A. Libertini, D. Cappelletti) 27 Sul palcoscenico della nostra interio rità (saggio su Nathalie Sarraute) 38 Speciale: Il teatro di Giancarlo Sepe (scritti di G. Sepe, S. Marcucci, U. Bertacca) La semplicità come limite e forza 61 63 Accademia Ackermann 71 A proposito di Claudia Poggiani (scrit ti di G. D'Agata, G. C. Castello, F. De Ceresa, E. Albani) II muro fragile 73 85 Una realtà in movimento 89 Continua l’esplorazione del pianeta Pi- randello 93 Teatro ragazzi: Intervista a Don Raf faello Lavagna 97 La prosa in TV 98 La prosa in RAI 99 Qui Parigi 101 Qui New York 104 C o n c e r t i_______________ 107 Lirica recensioni (di G. Nastasi) 110 Parigi riscopre Nureyev 112 Dischi recensioni (di N. Fuscagni e G. Nastasi) il In copertina una scena di Accade mia Ackermann, lo spettacolo di Se pe presentato prima al Festival di Spoleto, poi in molte città italiane, dove ancora sta « girando ». La foto grafia è di Marcello Norberth (come tutto il servizio che accompagna il testo sepiano). Questa messinscena di Giancarlo Sepe sembra quasi voler essere il punto di arrivo di un lavoro, compiu to attraverso teatro, suli'immagi- ne. Nel senso che tutto è volto alla dimensione iconica, tanto da poter ne assumere anche il peso della pa rola. Data l'importanza dell'operazione e considerato il successo (di pubbli co e di critica) ci è sembrato utile tratteggiare un quadro di questo fe nomeno facendo intervenire gli stessi protagonisti. Accanto al teatro, nel suo rappor to con l'immagine, abbiamo posto la dimensione della parola. Per questo abbiamo scelto l’opera di Nathalie Sarraute, che viene analizzata in un ampio saggio di Ugo Ronfani. Associato all’unione Stampa Periodica Italiana Comitato di direzione: Odoardo Bertani, Diego Fabbri, Mario Guidotti, Maurizio Li.vera- ni, Ugo Ronfani. Direttore editoriale: Carlo Fuscagni. Condirettore editoriale: Angelo Libertini. Responsabile: Diego Fabbri. Segreteria: Anna Maria Menna, Renata Fabbri. 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Casciano (Forlì) L e t t e r e a l D r a m m a mentarì si parlava di Cesare Bat tisti o di Menenio Agrippa. E allora? Perché mai non dovreb be sorgere spontanea, irrefrenabi le, possente e vasta, una lunga noia grigia, nebbiosa, ampollosa, ad avvolgere tutto il teatro dall'avan guardia al teatro stabile, dalle rap presentazioni televisive alle prime più reclamizzate? Alberto Beretta Anguissola Roma A propo sito della noia in platea Caro Direttore, non invidio chi ha scelto la pro fessione di critico teatrale per que sto o quel giornale, poiché — non per vantarmi — credo di aver anti cipato di molti mesi, se non di an ni, la scolvolgente scoperta di Al berto Abruzzese (su « Rinascita » del 10 Novembre) e quella, più re cente, di Beniamino Placido su « Re pubblica », cioè il fatto che a teatro ci si annoia. E' una noia che ha radici profon de e che sta a monte della qualità più o meno alta degli spettacoli nelle loro componenti di regia, re citazione, scenografia, ecc... La cau sa principale è, a mio avviso, la permanenza di un’aura mitica che avvolge il fenomeno teatrale, do ve ■— a differenza di quanto avve niva nei secoli scorsi o anche in decenni meno lontani — non si cerca più il divertimento o la com mozione o un certo indefinibile pia cere estetico dato da certe soluzio ni formali, ma si va invece per « fa re cultura », anzi Cultura, con la C maiuscola. Il teatro non è più tea tro, ma è diventato TEATRO; Brecht non è più Brecht ma si è trasfor mato in BRECHT; la regia è diven tata REGIA, la recitazione è RECI TAZIONE. L'atto degli spettatori che entrano nella sala teatrale è ormai un rito sociale che serve a sentirsi in una presunta realtà culturale, oppure, per i più giovani, una forma assai mediata inseriti di socializzazione. Molti entusia smi teatrali di certo pubblico ado lescente si esauriscono appena la coppia, formatasi nel brusio dei foyers o nel silenzio annoiato delle platee, diventa sufficientemente stabile. Abruzzese dice che è provincia lismo criticare il nostro teatro con frontandolo con le esperienze stra niere. Eppure devo testimoniare, in base a quel poco che so della vita teatrale francese essendo stato un anno a Parigi, che tutto avviene laggiù con maggiore spontaneità, senza maiuscole, lasciando ampio spazio al piacere teatrale. Il tea tro parigino non ti dà l'impressione mortificante di essere prima di tut to un'istituzione e poi anche un « luogo » dove passare in modo in telligente una serata. E non si ha l'impressione che il teatro sia una cosa così ufficiale da richiedere l’interessamento dei politici o dei partiti, come se si trattasse del- l’ENI o dell'IRI. Qui da noi il teatro sembra di ventato un'opera pia, una specie di Croce Rossa degli incolti, come una volta si fondavano associazioni be nefiche per combattere l’analfabe tismo. Non di solo Strehler vive lo uomo. I monumenti hanno sempre qualcosa di fastidioso, e certi re gisti nostrani sembrano ormai di ventati più dei benefattori della umanità che delle persone capaci di far trascorrere piacevolmente una serata. E sembrano gareggiare più per il premio Nobel per la Pace che per un successo di pubblico. Certe esperienze teatrali, come ad esem pio il Piccolo di Milano, vengono ormai commemorate ed esaltate co me una volta, nei libri delle ele- Le belle fo to g ra fie aiutano a capire Caro Direttore, ho molto apprezzato su « Il Dram ma » le belle fotografie di Norbert nel lungo servizio sul laboratorio di Ronconi a Prato (ma non potreste migliorare la carta?). Vorrei invi tarvi a insistere su questa strada: le foto spesso aiutano a capire lo spirito di uno spettacolo (quando sono belle come quelle di Norbert) forse più delle parole del critico, non solo perché ci dicono qualco sa sulla scenografia, sui costumi, sulle luci, che sono cose importan ti in una messa in scena, ma anche perché aprono spiragli precisi sul la regia e sulla recitazione. Mario Lovecchio Pisa Anche nella provincia c e voglia di teatro Caro Direttore, non ho ben capito la nuova linea della vostra rivista, di cui sono af fezionato e tenace lettore da anni, malgrado i vostri ritardi. Non ho capito cioè se volete diventare una rivista di «élite», basata soprattutto sui saggi di alto livello, o se volete rimanere una rivista di informazio ne e di commento sulla vita del teatro e del mondo dello spetta colo, come « Il Dramma » è stato per oltre 50 anni. Può darsi che io sbagli, ma mi pare che stiate cer cando di alzare il tono de « Il Dram ma ». Non voglio discutere questa eventuale scelta; voglio però ricor darvi che il teatro non si fa solo a Roma e a Milano, ma anche in tan te altre città italiane, grandi e pic cole. L'Italia è molto cambiata: non ci sono solo le compagnie impor tanti che girano per la penisola con l'aiuto dei soldi dello Stato. Ci so no tante altre compagnie, gruppi, associazioni, di professionisti e di dilettanti, che fanno cose bellissi me; c'è tanta voglia di teatro an che in provincia. Chi parla di queste cose? Chi racconta questo entusiasmo, queste iniziative? Non pensate che anche questo possa essere compito (e in teresse) de « Il Dramma »? Maurizio Serantoni Annona L’am ore per la scena nasce nella scuola Caro Direttore, sulla nostra scuola si rovesciano ogni giorno critiche di ogni tipo e forse sono tutte giuste; io ne vo glio fare una particolare, di cui si parla poco: la nostra scuola non educa al teatro, né alla musica. Ci sono certamente molti insegnanti intelligenti che prendono singole iniziative, ma nell'insieme sono convinto che manca un’organica impostazione di programmi educa tivi che anno dopo anno, aiutino i giovani a capire e ad amare il tea tro. Non si scopre il teatro da gran di. Leggo che il pubblico è in au mento, ma per quanto cresca il nu mero degli spettatori, ritengo che siano sempre troppo pochi, per la importanza che il teatro potrebbe avere nella nostra vita culturale e sociale. Ho visto recentemente un documentario alla televisione sugli scavi archeologici in Giordania (si intitolava « L'antica via dei re », mi pare). Si vedeva, nella vecchia Am man, un teatro costruito dai roma ni con almeno 5.000 posti per una città che, a quei tempi, non doveva superare i 50.000 abitanti. Questo voleva dire che quasi tutti gli adul ti, ricchi e poveri, andavano a tea tro dove gli attori mettevano a nu do, con la tragedia e con la farsa, vizi e virtù di regnanti e cittadini, in una salutare occasione di rifles sione e di divertimento. Sono passati millenni, si parla di progresso culturale, il teatro ha avuto nei secoli alti e bassi, nel Novecento è arrivato il cinema, poi è venuta la televisione, ma credo che per il teatro ci sia ancora un grande spazio, purché si cominci dalla scuola l'iniziazione al teatro. Mario Moscatelli Anghiari (Ar.) « Uffa, ancora ali UFO » (Mario Ferrari; la vignetta fa parte della raccolta del Salone dell'umorismo di Bordighera ’78) U n o s v ilu p p o s e n z a b a s i s o lid e M A N C A U N T E A T R O N A Z I O N A L E Le idee e i propositi nascono spesso, e spesso si rafforzano, leggendo ascoltando vedendo opere e uomini stimolanti. È come una annotazione per sonale che facciamo continuamente, se siamo vivi e svegli, e che ci induce a sovrapporre progetti di opere nuove, nostre, a quelle variamente illustri che ci passano sott’occhio. E questa non solo è un’opera continua di « associazione di idee », ma una vera e propria suscitazione di idee nuove pro vocata da idee vecchie e già compiute. Giorni fa vedendo in una saletta privata di proiezione, con tesa, tumultuosa ammirazione Pro va d’orchestra di Fellini e immaginando l ’accoglien za che avrebbe avuto in Italia e fuori, ma special- mente in Italia, m’è venuto uno spontaneo richia mo a un episodio forse leggendario attribuito a So focle. Pare che una volta Sofocle sia stato condan nato dalle autorità politiche del suo tempo a pa gare una « multa » con questa motivazione: « in dusse migliaia di spettatori alle lacrime e alla dispe razione mostrando loro la situazione del Paese ». E mi venne da pensare che nonostante il nostro tan to decantato patrimonio di libertà Fellini un giorno o l ’altro potrebbe vedersi recapitare una « multa » con la stessa motivazione di aver indotto i suoi connazionali a lacrime di deprecazione e a senti menti di disperazione. Io (mi si dirà che allora c’era il fascismo) mi vidi multare, cioè proibire la rappresentazione di una mia commedia giovanile, Paludi, perché l ’autorità la considerava pervasa da un precoce senso di pessimismo e per questo dele teria all’animo delle giovani generazioni. E procedendo ancora per balzi di fantasioso « associazionismo » m’è poi venuto da chiedermi con gratuita impertinenza quali e quanti dei no stri autori drammatici italiani militanti potrebbero essere passibili di « multa » per rappresentazione troppo icastica della situazione del Paese. Sono già alcuni anni che un po’ tutti ci dilet tiamo e ci compiacciamo per il crescente boom del teatro, e ne cerchiamo, e ne scopriamo le cause. Io ho sempre detto, e scritto, che il boom del pubblico a teatro c’è, ma è un boom quanto mai pericolante nel senso che registra un’affluenza cre scente, sì, ma nientaffatto stabilizzata in quanto a orientamento. Perché si basa non su tendenze di fondo — o come si usa dire oggidì: irreversibili — bensì su spinte piuttosto occasionali e in fin dei conti labili. P U B B LIC O N U O V O In primo luogo: la crisi della produzione cine matografica e, di conseguenza, dell’« esercizio » che, oltretutto, ha aumentato il prezzo del biglietto. Dunque, il naturale « riflusso » del pubblico, sia pure di entità marginale, ha maggiormente affol lato i teatri di una certa quota di pubblico nuovo attratto da un genere di spettacolo diverso. Per quella porzione, ripeto non cospicua, di pubblico cinematografico che, oggi, preferisce vedere dram mi e commedie presentati da attori vivi, il teatro è stato una scoperta, una vera novità. Si deve co munque rilevare che nel confronto diretto cinema- teatro il teatro ha ottenuto una vittoria, ha indotto più di uno a una nuova scelta vincente. È l’intrin seca superiorità del fatto teatrale che ha prevalso. Segno di tempi mutati, più maturi? Ci andrei pia no. Ho detto comunque: scelta vincente. Ma mi domando: per quanto? Fino al giorno in cui il ci nema uscirà dalla sua crisi produttiva generaliz zata (non solo italiana, voglio dire) proponendo at traverso nuove diavolerie tecniche o di contenuto o di fantasia uno spettacolo altrimenti allettante? O la scelta teatrale prevarrà durevolmente? Non 10 so proprio. Una cosa dovrebbe essere detta: non credo che il teatro abbia ancora legato a sé il nuo vo pubblico con vincoli sufficientemente profondi, con nuove radici. Perché non lo credo? Il perché, almeno il mio perché, lo dirò un po’ più avanti. Oltre al pubblico che ci viene di « riflusso » dal cinema in crisi deve essere poi conteggiato quello — più concreto, stabile, maturo, o comun que più « maturato » — che costituisce una delle conquiste più apprezzabili della specifica e conti nua attività svolta per almeno due buoni decenni dai « teatri a gestione pubblica » o come si usa dire correntemente dagli « stabili ». Dei miliardi goduti per sovvenzioni varie — municipali, pro vinciali, adesso anche regionali, ma innanzitutto e soprattutto statali — i meglio spesi sono stati quel li destinati al « reperimento » e alla « organizza zione » di un nuovo pubblico, e non solo di gio vani (studenti e operai), ma proveniente da tutto 11 tessuto sociale, non esclusi per esempio i pen sionati. È un merito oramai storicamente acquisi to, e non è un merito da poco. Il che non deve comunque farci tacere o sottovalutare le colpe al trettanto massicce di cui gli « stabili » si sono ca ricati nei confronti del teatro italiano. LE « C O L P E » D E G L I « S T A B IL I» Facciamone almeno un cenno perché il « pano rama » risulti più equilibrato nel conteggio com plessivo e finale di meriti e colpe. In primo luogo: la trascuranza per non dire il rigetto riserbato agli autori italiani, specialmente contemporanei. E per contro: il privilegio schiacciante attribuito ai regi sti — veri e propri « baroni » degli « stabili » — con impiego a loro favore di capitali di denaro pub blico sempre cospicui e talora scandalosi. Poi, l’o rientamento univoco, anche questo scandaloso, nel criterio delle scelte cosiddette artistiche, criterio ispirato sfacciatamente a moduli politici di parte o comunque nientaffatto « pluralistici » come oggi si ama dire. Va però detto ugualmente, a disdoro di una certa parte politica, la maggiore, che tale cri terio venne applicato e attuato tra il distratto di sinteresse e la quasi generale acquiescenza — e che, alla lunga, suonò, e fu di fatto, come una tacita approvazione — del mondo politico altrimenti de mocratico che in effetti non prese mai seriamente a cuore le sorti del teatro. E per non cadere in contraddizione con noi stessi vogliamo mettere in giusto rilievo che le medesime motivazioni di pro selitismo politico di parte che condizionarono ogni scelta artistica — repertorio, registi, attori, perso nale vario... — portarono anche, e per giungere alla stessa finalità, alla organizzazione di quel pub blico nuovo che ha alzato negli anni il livello delle « affluenze » e ha contribuito alla determinazione del boom. Che anche l ’Ente Teatrale Italiano, E.T.I., ab bia contribuito in modo determinante a questo ac crescimento di pubblico è realtà a tutti nota che non vorrei qui, troppo sottolineare trovandomi tut tora alla presidenza di questo Ente; mi limiterò in ogni caso a una notazione freddamente ma elo quentemente statistica: dieci anni fa i teatri del cosiddetto « circuito ETI » erano in Italia 32, oggi sono 75, nonostante circa una diecina degli iniziali 32 si siano staccati dall’ETI per andare a costituire il nerbo di altri circuiti regionali che possono dirsi in qualche modo filiazioni dell’ETI. Queste, a mio avviso, le cause concrete del boom del pubblico. Perché allora ne metto in forse la solidità, perché parlo di orientamento instabile e reversibile? Perché manca la vera base che ci in duca a parlare seriamente, consapevolmente di ra gioni nuove, abbastanza profonde, direi essenziali per cui la gente, il « popolo », ha scelto la via del teatro. E quale sarebbe questa base che ancora mancherebbe e che io continuo a non rivelare quasi volessi tirare la corda per un gusto inveterato di suspense o di effetto teatrale? L ’ASSENZA D I R A D IC I N A T U R A L I È che il boom manca ancora di radici dal mo mento che le sole radici vere, serie, profonde di un evento culturale sono costituite dalla cultura tea trale di un Paese, vale a dire dagli autori, nel no stro caso dagli autori italiani. E aggiungo: dagli autori italiani contemporanei, militanti, attivi. Fin ché nei « cartelloni » stagionali del teatro italiano non figureranno molte « novità » di autore italiano non si potrà mai parlare di boom del pubblico. Il pubblico deve affluire a un « teatro » in cui, in qualche modo, consapevolmente o meno, finisce per riconoscersi: o per uno scambio spontaneo di iden tificazione con i personaggi, le vicende, i temi o se volete i messaggi e le tesi che vengono proposti dal palcoscenico, vale a dire dagli autori; o per indirette motivazioni culturali di aggiornamento o di scoperta (i classici italiani); o per il rinvenimen to naturale di una continuità di humus originario, diciamo di italianità, che dà il senso concreto della nostra durata nella storia. Se questo riconoscimen to o identificazione del pubblico avviene troppo sal tuariamente o non avviene affatto o, addirittura, è contraddetto dalle proposte che ci vengono fatte •— com’è ancora il caso nostro — , non si potrà mai parlare in buona fede di un pubblico che trova e sceglie il suo teatro. Perché il pubblico inglese ha trovato il suo teatro da una ventina d’anni? Perché ha trovato i suoi autori, i suoi autori-contemporanei che lo in terpretavano:. ha visto se stesso attraverso i lavori di Osborne, Pinter, Robert Bolt, Wesker ... — e da allora ha mantenuto questa fedeltà al proprio specchio con cui ha intrecciato un dialogo che ha continuato per anni e continua ancora. Da noi po teva accadere lo stesso se non ci fosse stata la op posizione degli « stabili » i quali non avendo au tori marxisti, oltre Brecht, da proporre hanno osteg giato in ogni modo tutto il teatro nazionale di au tore per la ragione che veniva considerato « bor ghese ». Borghese Pirandello, borghese Betti, bor ghese Svevo proscritto fino a ieri nella stessa Trie ste... Questa la realtà documentabile. Un teatro ita liano non ci sarà se agli « interessi creati » dagli « stabili » non si sostituiranno altri obiettivi inte ressi culturali nazionali radicati sul nostro patri monio teatrale, classico e contemporaneo. Patri monio che esiste, ed è cospicuo. Esiste al punto che ha fatto, spesso, la fortuna, anche pratica, delle tan te compagnie private o di alcune formazioni coo perativistiche che hanno scelto gli autori italiani. Li hanno scelti molte volte scoprendoli: è il caso di Svevo, per tacere del rilancio di Pirandello do vuto, a suo tempo, a una formazione privata, quel la dei « Giovani ». Chi forse non si è ancora per suaso di questa realtà è l’Autorità che governa e in qualche modo dirige la vita pratica e culturale del nostro teatro: parlo del Ministero per lo Spetta colo e in particolare della Direzione Generale del Teatro. È lì che devono cambiare le cose, che de vono essere instaurati nuovi criteri, che occorre progettare una « politica » che abbia una vera fi nalità culturale volta a creare, anzi a stabilizzare la vita del teatro italiano. Finché i miliardi del M i nistero serviranno a erigere monumenti scenici utili soltanto ai registi che li « montano » non si rinno verà un bel niente, anzi si renderà stabile il mal costume. Va progettata una seria politica di aiuto e di sostegno per la produzione nazionale. In Inghilterra, la nazione a noi più affine come struttura teatrale, dopo la proliferazione degli au tori nazionali si pensò di costituire il Teatro Nazio nale e alcuni importanti Teatri Municipali: Man chester, Birmingham, etc. Nella nostra riforma tea trale, avvenuta più in base al caso e alla imitazione che attraverso un progetto consapevolmente ela- borato, risulta, a cose fatte, che ci si è ispirati al Paese che più degli altri ci è lontano per struttura e « natura »: la Germania. La ripetizione di quel modello, che forse andava giusto per Paolo Grassi e Giorgio Strelher quando crearono con spirito av venturoso « il Piccolo », ha prodotto nel nostro Paese molti guai e scompensi e « cosche » e ambi zioni sbagliate. Far diventare « stabile » un tea tro costituzionalmente di « girovaghi » era un vo ler attuare un’operazione contro natura, e difatti gli « stabili » hanno finito per essere tali solo di nome (dopo una lodevolissima « resistenza » del « Piccolo ») in quanto, oggi, gli « stabili » girano come, se non più, di qualsiasi altra compagnia pri vata costretta dalla nostra legislazione teatrale a trasmigrare per 60-80 città, cittadine, paesi, borghi della Penisola per ottenere la magra, sempre più magra sovvenzione ministeriale. In fondo chi crea continuamente nuovo pubblico al teatro italiano so no proprio le decine e decine di Compagnie private e Cooperative che come gli antichi comici della « commedia dell’arte » continuano ad andare da un posto all’altro alimentando un entusiasmo che troppo raramente e saltuariamente e occasionalmen te gli « stabili » si sono preoccupati di alimentare. Ma non vorrei che il discorso finisse per estendersi troppo e per perdere di mordente. Torniamo a co me si può creare un « teatro italiano » a cui af fluisca un pubblico crescente nella speranza, con creta, di ritrovare la propria immagine, l ’immagine della propria condizione interiore e sociale. L A N U O V A « LEG G E » E non si può allora non parlare della nuova Legge che pur assumendo contorni da favola è pe rò il solo strumento autorevole che può progettare in modo nuovo e prospetticamente giusto la vita del teatro italiano. I progetti di Legge proposti dai vari partiti sono tutti acefali, mancano cioè di quel centro unificatore e significativo attorno a cui far ruotare e coordinare le altre strutture. Le varie « leggi » preparate dai partiti tendono, tutte, a conservare certi vantaggi già acquisiti, a fotogra fare dunque le situazioni già esistenti e a perpe tuarle attraverso l ’autorità di una Legge. Tutti i progetti hanno dimenticato, o voluto deliberatamen te dimenticare, che una Legge che si è fatta aspet tare da almeno trent’anni non può non prevedere come obiettivo primo la creazione di un Teatro Nazionale che rappresenti tutte le forze del teatro italiano: a cominciar dagli autori, classici e contem poranei, per passare ai registi, agli attori, agli see- nografi e scenotecnici, ai tecnici di cui il teatro ita liano è ricchissimo. Che i comunisti, che tendono da sempre al « decentramento » (non costituiscono nemmeno nelle « loro » regioni un teatro « stabi le ») non lo propongano è naturale; che non lo facciano nemmeno i socialisti che detengono la schiacciante maggioranza del potere attraverso gli « stabili » è comprensibile; ma che non se ne preoc cupi il partito di maggioranza relativa è davvero incomprensibile, è il segno di una colpevole cecità senza giustificazioni. La sola proposta seria, indi spensabile e nello stesso tempo rivoluzionaria non è stata nemmeno contemplata nel suo progetto pre parato evidentemente da gente frettolosa, più ver- saia ai problemi della negoziazione che a quelli spe cifici del teatro italiano. La proposta noi la indiriz ziamo a colui che, in definitiva dovrà presentare e discutere ai due rami del Parlamento, Camera e Senato, la legge sul Teatro; vale a dire al Ministro dello Spettacolo. La creazione, come in Inghilterra, di un Teatro Nazionale metterebbe finalmente un ordine, darebbe una gerarchia ai diversi nuclei pro duttivi del nostro teatro. Oltretutto ci sarebbe già pronto, a Roma, il teato dove far agire la Compa gnia Nazionale: il Teatro Valle, già proprietà dello Stato, il teatro più bello che la prosa abbia in Italia. Occorre soltanto che le buone intenzioni diventino fatti. Diego Fabbri In b r e v e p ro s a All'attrice Wanda Capodaglìo, ormai novantenne, il Pre sidente delia RAI-TV Paolo Grassi ha offerto, per conto del Piccolo Teatro di Milano, una medaglia d'oro, riconoscimento di una lunghissima e generosa attività teatrale. Alla ceri monia erano presenti attori e attrici già allievi della grande interprete, e il sen. Pastorino, Ministro del Turismo e dello Spettacolo, oltre al Presidente dell'ETI Diego Fabbri. Dopo gli interventi di Fabbri, di Raul Radice, di Raoul Grassi11i e di Roberto Cimnaghi, il Ministro Pastorino ha consegnato a Wanda Capodaglio le insegne di Grande Ufficiale della Repubblica, conferitele motu proprio dal Presidente Pertini. Al Teatro Stabile dell’Aquila andrà in scena la prima opera teatrale dello scrittore Giuseppe D'Agata, dal titolo « La bottega di Leonardo ». L'autore stesso lo ha annun ciato affermando che il lavoro si impernia sull'Incontro av venuto in Francia tra Leonardo e il poeta francese François Villon, dal confronto verbale tra i due grandi nasce un'in quietante indagine sui problemi tra conoscenza ed arte. La conclusione è affidata ad una grande metafora: alla morte di Villon, Leonardo fruga nel suo corpo alla ricerca delle radici della poesia, non le trova, ma scopre l’anatomia urna- ma e intuisce i nessi che vi sono tra arte e scienza. A Bologna la Compagnia Sociale Teatro ha debuttato con un lavoro di Guido Ferrarmi e Gianmarco Montesano dal titolo « Un uomo al comando... Fausto Coppi ». La regìa era affidata a Guido Ferrarini, l’interpretazione a Ileana Bellini ed Ermanno Perinotto. Gli autori hanno voluto indagare sul mito di Coppi per ritrovare il dramma dell’uomo e la sua solitudine. Lo spettacolo mette in risalto, con una sottile ironia, gli stereotipi dell'epoca. Al Sodra-Theater di Stoccolma la cooperativa teatrale siciliana « Gruppo 5 » ha ottenuto un buon successo con la farsa in due atti « Franceschiello e il '48 » scritta da Marilù Terrasi per la regìa di Miguel Ouenon. L'interpreta zione era affidata a sette attori. Alla messa in scena ha col laborato il puparo Nino Canino. La musica, ì pupazzi e le maschere erano di Andreina De Cesare, le musiche di Gian carlo Parisi. La compagnia del Teatro comico di Torino ha debuttato 'L cura 'd Rocabrusa » di Dino Beimondo da una com con media di Giovanni Drovetti. La regìa è affidata a Tonino Micheluzzi, tra gli attori sono: Carlo Campanini, Franco Barbero, lo stesso Micheluzzi, Femi Benussi, Nella Colombo. Al Teatro in Trastevere, Sala A è stato presentato « Il dormitorio Universale » di Dominot, interpreti: l'autore, Da niela Basile, Glauco Bonfiglio. Marina Cortellessa, Vinicio Diamanti e Angela Simonetti. Le scene e le luci sono di Dominot, la realizzazione scenica di Mariano Ascani, le musiche e gli effetti sonori di Gianni Di Nardo: l'assisten te di regìa G. Paladino. « Ciò che Dominot vuole proporre con l'immagine del dormitorio universale », scrive Paladi no « è la condizione impotente dell'uomo nei confronti del - Commercio universale ». \ \ LA MADRE di Gorkij - Brecht Regìa: Antonio Calenda. Interpreti: Pupella Maggio, Giam piero Fortebraccio, Roberto Stur no, Maria Teresa Martini, Aldo Puglisi, Scene: Nicola Rubertelli. Costumi: Ambra Danon, Musica: Hans Eisler. ° % V \ Dopo la Madre della Passione abruzzese cinquecentesca, la Ma dre soldato della rivoluzione. Dal sacro al profano, due itinerari di versi: ma entrambi dentro l'uma no, e con sigillo di speranza, sulla base di una fede e dopo una prova che, nel caso storico e in quello letterario (ma non astratto), è con sistita nella perdita del figlio. Un aspetto di coerenza è, dunque, da ravvisare nella scelta del copione brechtiano — rimasto in volume, sinora, per quanto si riferisce alla nostra scena — compiuta dal Tea tro Stabile dell'Aquila, dopo la vi vida Sacra Rappresentazione della stagione scorsa. E dopo la Madonna di Elsa Merlini, ecco la Pelagia Vlassova di Pupella Maggio, offer tasi finalmente a un testo in lin gua. Lo spettacolo ha avuto, per il suo esordio, la ribalta del Meta- stasio di Prato. « La Madre », che Bertold Brecht trasse — fra il '30 e il '31 — dal romanzo di Gorkij — cambiato di segno — è indicato come l’ultimo dei drammi didattici; ma per altro verso è un capostipite, perché se gna la nascita di « un nuovo per sonaggio drammatico » che, dice Paolo Chiarini, si rintraccia nel Un'intensa espressione di Pupella Maggio profilo aspro ed insieme umano della Madre, con cui Brecht inau gura quella galleria di straordina rie figure femminili che giunge, at traverso Mutter Courage e Shen Te, fino alla Grusha del « Cerchio di gesso del Caucaso ». Figure, inve ro, artisticamente più riuscite, ma non così alte per travaglio interio re. Anzi, Courage vive una mater nità di egoismo, e Grusha è una replica istintuale e viscerale. Il segno diverso della Vlassova può essere, come scrive Walter Benjamin, dato dal fine brechtiano di narrare « un esperimento socio- -logico sul rivoluzionamento della madre », cioè di una creatura sfrut tata; o l'altro sempre di Benjamin che « la madre è l'incarnazione della prassi ». Ma tutto il buon sen so di cui l'autore la fornisce, tut ta la persuasività dei piccoli passi che essa compie sino alla piena trasformazione da donna di cucina a esemplare rivoluzionaria, non sciolgono completamente l’ideolo gismo di parte e il cartellonismo dottrinario che si accenna nei quin dici episodi. E’ ancora il non so spettabile Chiarini a parlarci di una fase di transizione « verso una pro gettazione più piena e coerente di un teatro « dentro » la storia ». Il movimento di « La madre » è anche quello da dramma familiare e dram ma d'esempio corale. L'opera si recupera nei suoi va lori per due vie. La prima è di la sciar perdere l'oleografia cateche tica, che tanto il marxismo casca da solo nei suoi momenti trionfa listici e soprattutto nello stridore, alla verifica storica, tra gli enun ciati e i fatti, tra le attese e la realtà, sicché la riduzione a mito archeologico dell’idea-comunismo è automatica, a parte la spinta alla solidarietà. Ma il punto d'arrivo è filosofico, di una filosofia che direi del « re lativo corretto ». « Chi è ancora vi vo, non dica: mai! » e « Poiché i vinti di oggi sono i vincitori di do mani e il mai si muta in oggi: oggi stesso »: in queste frasi si riassu me un messaggio di impegno e di ottimismo, nella consapevolezza che nulla vi è di definitivo, e che tutto si muove. La ragione aiutan do. Non la passione, non la violen za che ne può discendere. Il per sonaggio della Vlassova aderisce a questo possibilismo d’esiti indivi duali. Conoscenza e modificazione Scena d'insieme de « La madre », regia di Antonio Calenda procedono insieme, ed è dai fatti che essa ricava, via via, il nuovo modo di pensare, che essa imme diatamente trasferisce nella sfera del fare. A questo proposito, c’è la deli cata pagina dedicata a Dio. Scon tato l'ateismo di Brecht, il diverbio instaurato tra Pelagia Vlassova (che prima credeva in Dio) e le vicine si sviluppa con molte zone d’om bra. Il Dio che Pelagia si augura scompaia dai loro cervelli è il Dio in sé, o il Dio ad uso e abuso di anime piccole, il Dio invocato co me alibi delle inadempienze uma ne, e fatto responsabile di esse? D'altra parte, il Dio in cui crede la Donna Povera è, senza postille, co lui « che fa giustizia di tutto, del bene come del male » e dunque compare una specie di rispetto. Per qualcosa che proprio non esi ste, o per un avversario? Vero è, insomma, che il centri- fughismo è più apparente che rea le, ossia è esteticamente sconta to, e che anziché il contorno e la storia, ci interessano i movimenti di Pelagia, di codesto ricomposto e inedito « eroe », ripulito di qual siasi emotività e dotato di lento, ma sicuro raziocinio, nel quale la maternità si ripropone al mondo come spirituale generazione con tinua. In secondo luogo, c'è la forma: « in una lingua parca, posando net tamente le parole e scegliendo, con cura ogni gesto del mio personag- gio, come, si suol raccontare le pa role e le gesta dei grandi ». E ciò che Brecht voleva era « la cosa semplice, che è difficile fa re ». Per esempio, la cosa difficile può essere, in una messinscena, rendere « l'inesauribile buon umo re della furba Vlassova ». L'astu zia del drammaturgo si riscon tra nel tratteggio leggero della pro tagonista, che non ha mai nulla di sussiegoso, di rigido, che non si dispera, ma traffica come una for mica, con tale naturalezza, da per suadere chiunque di possedere le stesse doti e da indurre chiunque ad imitarla senza apprensività. risentire Ce- chov, che pensava al « vaudeville », illumina sui problemi e questo espressivi che Brecht si poneva, sulla sintesi che tentava tra inse gnamento e dilettazione. Tornano bene i conti, allora, con Pupella Maggio, perché mentre il suo ac cento napoletano ci reca l’eco del quotidiano in un ambiente di sotto- sviluppo e ci dà un senso di popo larità autentica, essa conserva quella piega di umorismo e di ot timismo, che sta nel fondo del suo personaggio, Pelagia Vlassova ri ceve dalla Maggio lo spessore più ricco, la nota più spontanea, la ri flessività più semplice, la tenacia più disarmante, la simpatia più complessa. L'attrice dà rilievo alle qualità che più fanno di Pelagia una creatura e non un articolo dimo strativo, raccogliendone l'umiltà di- Sembra quasi di seredata prima e poi, a mano a ma no, il suo farsi persona. La regia di Antonio Calenda, del resto, è molto rispettosa delle in dicazioni che Brecht in varie occa sioni ha dato per la messinscena di questo lavoro, col quale dovette congedarsi dalla Germania. La sce nografia di Nicola Rubertelli ci dà un accenno di interno russo 1905, e poi, con agevoli mutamenti, di spone uno spazio, che lascia a noi di definire. I fedeli costumi di Am bra Canon servono una caratteriz zazione sintetica, un movimento essenziale e pulito, una pronuncia accurata ed antieffettistica, quali li ha voluti Calenda, la cui lettura è una ricerca di moduli epici non raffreddati, ed uno scavo della ori ginalità del carattere di Pelagia, del suo vivere donna un’esperien za da cui viene segnata. E tra i molti si distingue un bravissimo Giampiero Fortebraccio, che al per sonaggio del Maestro offre accenti squisiti, arguti tratti, sottile autoi ronia, un personale accento di tor mento ed esitazione. Altri nomi: Roberto Sturno (Pavel), Maria Te resa Martini, Aldo Puglisi. La mu sica di Plans Eisler, per le otto can zoni che fanno parte del testo, è ottimamente eseguita da un com plessino e cantata dai giovani at tori. In conclusione, uno spettacolo serio, appropriato, limpido, il fuoco del quale è con intelligenza trasfe rito dai postulati della esemplifica zione ad uno studio di crescita uma na in sofferenza. LA PALLA AL PIEDE di Georges Feydeau Traduzione e regìa: Franco Parenti con la collaborazione di Andrée Ruth Shammah. Interpreti: Franco Parenti, Lucilla Morlacchi, Bob Marchese, Gianni Mantesi, Secondo Degiorgi, Gior gio Melazzi, Simona Caucia, Gio vanni Battezzato, Chicca Minini. Scene e costumi: Giammaurizio Fercioni. Trentacinque commedie, venti monologhi, eccetera. Georges Fey deau o l'adempimento del comico. Feydeau o l'altra (ipotetica) faccia della vita. Tutti, prima e dopo dì lui, hanno parlato, piangendovi su an che sotto la maschera dilatata del riso, della difficoltà di capire, di sa pere, d'amare, d'esistere: sempre di questo mondo, delle sue leggi e dei suoi costumi. Ma Feydeau salta a pié pari questi legami, e inventa un nuovo universo, dove ci si diver te, ma così implacabilmente, che al la fine ci si accascia. È un mondo Franco Parenti, Gianni Mantesi e Bob Marchese ne « La palla al piede » (foto Privitera) di un caos matematico, di cui egli è l'assoluto creatore e despota. Per realizzarlo, gli è bastato inventare preventivamente una macchina ac- celeratrice, e come la particella ele mentare viene fatta esplodere e li bera i suoi infinitesimi e celati com ponenti, così la spinta che mette in frenetica circolazione questi per sonaggi ne disintegra la rispettabi lità, ne enuclea il buco nero della loro inesistenza interiore. Ci sono le freddure, c'è il supremo gioco dell'intrigo, c’è la geometria cristal lina dei rapporti e degli incontri, c'è la precisione al quarzo delle entrate e delle uscite, ma questo assetto ottimo è un disordine costituito, è il contrapasso ad un vivere che è mera agitazione marionettistica. La prima scuola dello sguardo è quella di Feydeau, di questo autore che ha solo allontanato a distanza di iper metrope il traffico umano circostan te, e ne è saltata agli occhi l'as surdità. E i vertici dell'assurdo si toccano, di quando in quando, nel teatro di Feydeau; non dell'assurdo mecca nico, teatrale, ma proprio di quello che risulta dal dissonare umano, dai tic, dalle servitù, dalle smanie degli individui, e dalla loro inutilità di vivere. Non ci sono alibi per alcuno nel mondo di Feydeau, e il peggio è già avvenuto, gli ideali sono già sta ti sradicati; del resto, nessuno ha uno specchio in cui scrutarsi e un interrogativo in cui minimamente impegnarsi. Ciascuno è soltanto il suo biglietto da visita. E va la gio stra, da cui, alla fine, si scende un po’ intontiti e a mani vuote. Non c'era nessuna posta in palio, e nes suno ha vinto qualcosa. Il terribile - il punto etico - di questo verti ginoso movimento è, che non con duce da nessuna parte. Tanto var rebbe la immobilità assoluta. Tea tro dello scacco, dunque. L'incredi bilità di questi esseri umani così comuni sta non solo nella esage razione scenica dei connotati, ma nella impossibilità di affidare loro un minimo incarico. All’ultimo, ci si chiede: ma perché questi personag gi vivono? Naturalmente, è bene che vivano a lungo nello specchio della ribalta. Ci si trova sempre un gesto che non ci fa totalmente diversi. Ci si trova qualche avvertimento. E se proprio nient'altro, ci si offre almeno una ricognizione neH’intelligenza, la affi dabilità della cosa ben fatta, la cer- Franco Parenti e Lucilla Morlacchi (foto Privitera) tezza di un riso che canzona e li bera. Vedete questo » Un Fil à la pat te », ossia « La palla al piede » (1894) - che non ravvisiamo tra le più rappresentate in Italia (e nell’ul timo trentennio certamente no) -, proposto al Salone Pier Lombardo. È una radunata della tecnica, delle situazioni, delle figure eccentriche care all'autore; anche della sua fi nezza, se vogliamo, perché proprio usando storie povere e squalliduc- ce di personaggi senza qualità, e pervenendo al comico dell'uomo in mutande, mai ricaccia nella volga rità i vaudeville che andava ele vando a modello d'arte drammati ca; anche della grazia, con cui spar ge i suoi veleni. Feydeau si diverte coi suoi personaggi, ma non ne as solve nessuno. Non la frivola e ap- piccicaticcia Lucilla, cantante di ca- fé- concert, non Bois d’Enghien, l'a mante che la congeda (ma con quanta difficoltà, e questo è l'argo mento della commedia) per aver vantaggiose nozze, non lo spiritato generale sudamericano, non la pro messa sposa, morbosa la sua par te, non il consenziente e mendican te marito dell'artista di cui sopra; società tutta fondata sul fatuo e sul privato, nel cui sistema non ha spazio un sentimento che è uno. Bene, l’ardente opera, rocambole sca nella vicenda, strepitosa per in gegneria, i suoi tempi (solo il terzo atto cede, e appare un po' farcito di eventi gra- tuiti), popolata di vivacissime fi gure, fervida di un dialogo all'inse gna dell’equivoco, compare oggi nel le vesti di un felicissimo saggio sul teatro di sempre. Così vorrei defi nire lo spettacolo curato da Franco Parenti (anche traduttore, con appe na qualche licenza), collaboratrice Andrée Ruth Shammah, andato in scena dando luogo ad una serata, per il ridere e per le feste, proprio da Feydeau. La rappresentazione è, infatti, il provento di uno studio severo del congegno drammatico, con la volon tà di riportare fedelmente alla luce un teatro rimasto vivo, e nel quale splende la virtù del mestiere. Un mestiere, che viene però rivisitato, mediante l'uso di uno stile rappre sentativo critico, senza essere dis sacratorio, di colore e sintassi mo dernamente immaginati. Perché, si capisce, si tratta di un'altra società, non di una proiezione dell'oggi, e la caricatura non avrebbe senso. Non si è dimenticato nemmeno co me Feydeau fosse esigente con gli attori. Il primo atto di rispetto co mincia dalle scene, rievocative e funzionali quanto occorre, e soprat tutto dai magnifici costumi di Giam- maurizio Fercioni, che spiritosa mente rallegra con essi la saraban da. L'impegno intelligente degli in terpreti fa il resto, in una gara con illustri esempi francesi e italici, che restaura la categoria del bril lante, per consunto che sia l'agget tivo sostantivato. trascinante per Si comincia con Franco Parenti, che sciorina in stimolante progres sione la sua vis comica tra l'impas sibile e l'allucinato: lo scarto d'età presumibile fra lui e il personag gio sensibilizza su una visuale che raccoglie nel protagonista la stan chezza d'un tipo consumatosi in mille analoghe schermaglie, e il cui sclerotizzarsi è anche quello dei cir costanti, avvolti in una nebbia di stolidità. Si prosegue con la sma gliante Lucilla Morlacchi, assoluta- mente Lucilla e francese, senza pe rò ripetere i toni e le movenze tra dizionali, e premiandoci, invece con stringatezza incisiva d'espressioni e ponendo nel personaggio un tocco personale di sgomento, un calore di passione sia pure da romanzo rosa. Di eccellente fattura è il Bouzin di un Bob Marchese, che conquista al personaggio una sottile dispe razione, una scura condizione di emarginato, e non meno glorioso è il Generale impersonato dal bravis simo Gianni Mantesi. Molto arguta risulta l'impettita. Chicca Minini e Secondo Degiorgi è di prepotente e naturale spassosità. Quest’attore ha volto e risorse molto interes santi. Simona Caucia e Giovanni Battezzato non perdono l’occasione di amabili caratterizzazioni. Notata la Miss Betting di Silvia Dabbah. Nella parte di Viviane, l’infortunata Rolanda Benac è sostituita da Gra zia Migneco, il cui leggere è stato così pregnante, da non disturbare il concerto. \ % « L’opera de' muorte 'e famme »: coro delle sigarettaie L'OPERA DE’ MUORTE 'E FAMME di Elvio Porta Regìa: Armando Pugliese Interpreti principali: Vittorio Caprio li, Antonio Casagrande, Angela Pagano, Gigi Reder, Isa Landi. Scene e costumi: Bruno Garofalo. Musiche originali: Antonio Sinagra. Movimenti coreografici: Toni Ven tura. Ritorna al teatro un altro cinema romano, il « Giulio Cesare »: circa millecinquecento posti (uno dei più grandi di Roma) al servizio di una vasta e popolatissima zona — fra Prati, Borgo e Monte Mario — fino ra priva di una sala di adeguate di mensioni stabilmente dedicata ad un uso teatrale. Per questa inau gurazione il regista Armando -Pu gliese ha messo in scena la nuova commedia di Elvio Porta, « L'opera de' muorte 'e famme »: si rinnova così l'incontro Porta-Pugliese che ha già dato al teatro italiano il «Ma saniello», ma va subito precisato che non si ripete in questa occa sione il momento magico di quel famoso e fortunato spettacolo. Cer to si fa (o si cerca di fare) teatro « totale », cioè non solo recitato ma anche cantato e danzato (le musiche sono di Antonio Sinagra, i movimenti coreografici di Toni Ven tura), con intenzioni di denuncia sociale: protagonisti sono infatti i « pezzenti » dei vicoli di Napoli e per loro Porta immagi na come padrone del momento (l’a zione si svolge qualche anno dopo impegnative V V l'avvocato la fine della seconda guerra mon diale) don Mariano Piccione, di pro fessione capoelettore. Piccione con trolla lo smercio delle sigarette di contrabbando ed inoltre il commer cio dei voti che deve garantire la rielezione del sindaco Tagliamonte: a questo stato di cose si ribella Mi chele 'a Muletta che, trovata un’al leata ed una moglie nella figlia di don Mariano, Rosaria, si impadro nisce di un carico di sigarette che distribuisce ai « pezzenti » a con dizione che non votino per Taglia- monte. L’iniziativa conduce Michele in galera dove compare, come suo difensore, Impagliazzo, che ha intenzione di diventare sin daco al posto di Tagliamonte; in ef fetti, dopo una nuova e più compli cata serie di vicende (persino un assassinio del quale viene ingiu stamente accusato Michele e relati vo processo che invece lo vede trionfalmente assolto), Impagliazzo riesce nel suo scopo e si rivela subito peggiore del suo predecesso re: la corruzione e lo sfruttamento continuano, passando però dalla fa se artigianale a quella industriale, dal controllo del contrabbando di sigarette alla speculazione edilizia; e serve naturalmente a poco che Michele rifiuti di partecipare alla spartizione degli utili. La morale è che anche cambiando padrone, a Napoli come altrove, i « pezzenti » continuano ad essere sfruttati: con clusione un po' troppo semplice e generica, davvero sproporzionata, sia pure sul piano della semplice denuncia, all'antichità ed alla se rietà dei mali di Napoli. Converrà circoscrivere il discorso sul piano deH’immagine teatrale che in effet- ti ha in più di una occasione una sua presa spettacolare: non certo sulla linea brechtiana che sembra ispirare la regìa di Pugliese, quanto sulle naturali risorse espressive de gli interpreti. In questo senso la « napoletanità » prende la sua ri vincita e non solo negli attori di maggior nome — come Vittorio Ca prioli, Antonio Casagrande, Angela Pagano, Gigi Reder e Isa Landi — ma anche in un folto gruppo di bra vissimi comprimari (da ricordare, fra gli altri, Gerardo Scala, Vittorio De Bisogno, Pino Mariano e Italo Celoro) particolarmente provvisti di un’istintiva vocazione verso un particolare genere di teatro « tota le », fondato su antichi e collauda- tissimi modelli che vanno dalla Commedia dell'Arte all'avanspetta colo, passando attraverso l'espe rienza di personaggi come Viviani e Totò. Peccato che una buona parte del dialogo risulti praticamente in comprensibile per chi non sia napo letano o comunque approfondito co noscitore di quel dialetto: qualcosa potrebbe e dovrebbe essere fatto a favore di una più generale pos sibilità di comprensione, senza pun tare troppo sulle pur eccezionali risorse mimiche degli interpreti. BURLESK: CACCIA AL TESORO CON FANTASIA di Franco Scaglia Regìa: Lorenzo Salveti Interpreti: Nino Castelnuovo, Mi randa Martino, Gianni Nazzaro, Aldo Alori, Caterina Sylos Labini. Scene e Costumi: Gianni Quaranta. Musiche: Filippo Trecca Quattro personaggi « normali » e un fantasma: i « normali » sono un giovanotto napoletano in cerca di miglior fortuna ed intanto ridotto a vivere di espedienti, una « scian tosa » ormai avviata sul viale del tramonto, un anziano prestigiatore e fantasista praticamente in pensio ne, una giovane spogliarellista che cerca invano di uscire dal giro dei teatri di quart’ordine; tutti e quat tro si incontrano al teatro Fioren presentare l'affannarsi degli uomi ni per il possesso dei beni mate riali ed insieme l'aspirazione verso qualcosa di irraggiungibile (che ma gari si finisce per identificare ap punto nell’oro, nei beni materiali), che naturalmente non può essere mai realmente posseduto. A questo punto confessiamo fran camente di non esser capaci di te ner dietro a simili voli, né di rin tracciare indicazioni così importan ti in una rappresentazione che ha invece tutta l’aria di un insieme di sordinato di materiali eterogenei, non tutti di prima qualità; tanto che gli interpreti sembrano abbastanza a disagio nella difficile ricerca del tono giusto: ciò vale soprattutto per Nino Castelnuovo, nella parte del fantasma, per Aldo Alori e per Ca terina Sylos Labini, mentre Miran da Martino e Gianni Nazzaro posso no meglio mettere a frutto una loro maggiore esperienza nel teatro leg gero e musicale. tino di Napoli per cercarvi il tesoro di Barbarossa, un pirata morto da due o tre secoli che ha fatto per venire a questi suoi lontani eredi alcune oscure ed incomplete indi cazioni per il ritrovamento di un forziere nascosto a suo tempo in quel teatro. Il fantasma, in costumi settecenteschi, è quello del musi cista Giovan Battista Pergolesi che si aggira per lo stesso teatro per certe sue vecchie questioni amoro se. Questi gli strani protagonisti della nuova commedia di Franco Scaglia, « Burlesk; caccia al tesoro con fantasma », musiche di Filippo Trecca, regìa di 'Lorenzo Salveti. Il « burlesk » (o burlesque) è qualcosa di simile al nostro varietà, scenette comiche, canzoni, un corpo di ballo di belle ragazze e altri numeri di « arte varia », il tutto legato da un sottile o sottilissimo filo condut tore. Anche la caccia al tesoro di Sca glia è soltanto un pretesto per af facciarsi in un certo ambiente tea trale, cui appartengono in un modo o nell'altro tutti i personaggi: fra una canzone ed un passo di danza, l'allestimento di Salveti potrebbe anche considerarsi una specie di omaggio al vecchio teatro di varie tà; magari un omaggio in tono mi nore per come vengono soltanto sfiorate le tante possibilità di diver timento autentico di quel genere di spettacolo nelle sue espressioni mi gliori. Ma le intenzioni di Scaglia e di Salveti sono ben più impegnati ve: questo gioco di teatro nel tea tro con il suo riferimento alla ri cerca di un tesoro dovrebbe rap Gianni Nazzaro e Miranda Martino in « Burlesk » di Franco Scaglia Paola Quattrini ne « La parigina » terio come gioco di società, sce glie invece di essere scelta. Se l’in tenzione di Becque era polemica nei confronti della donna o di certe categorie di donne, nessuno può ormai pensare di raccogliere la pro vocazione; ma non può prendersi sul serio neppure l'intenzione di ve dere in Clotilde un'antesignana del la rivoluzione femminista, non fos- s'altro per un minimo di rispetto nei confronti dei movimenti d’eman cipazione femminile. D’altronde la regìa di Salveti propone più che al tro una specie di balletto in bianco e nero: in una scena circolare sem plificata al massimo (in bianco o in nero sono i tendaggi che circon dano la scena ed i costumi degli interpreti, con prevalenza deil’uno o dell'altro colore nelle due diver se parti in cui è diviso lo spettaco lo), i personaggi si preoccupano so prattuto di incrociarsi secondo un sapiente gioco di simmetrie, con un sottofondo di musiche di Offen- bach sulle quali la cameriera di Clo tilde, nel passaggio da una scena all’altra, accenna qualche passo di can-can. Un gioco nel quale comun que gli interpreti mostrano di tro varsi a loro agio: Paola Quattrini, che è la volitiva Clotilde, Franco Interlenghi, il distaccato marito, e Aldo Reggiani, il nervoso amante Lafont, mentre i ruoli minori sono affidati a Roberta Greganti e Fede rico Pacifici. LA PARIGINA di Henry Becque Traduzione: Maricla Boggio Regìa: Lorenzo Salveti. Interpreti: Paola Quattrini, Franco Interlenghi, Aldo Reggiani, Rober ta Greganti e Federico Pacifici. Scene e Costumi: Giorgio Panni. Sarebbe sicuramente inesatto far rientrare la produzione di un autore come Henry Becque — e in partico lare la commedia «La parigina», che ci viene ora riproposta nella tradu zione di Maricla Boggio e con la regìa di Lorenzo Salveti — in quel genere « pochade » tanto gradito, in quegli stqssi anni (la prima rappre sentazione de « La parigina » è del 1885 mentre il primo successo di Georges Feydeau, « Sarto per si gnore », è del 1887), al pubblico francese e di molti altri paesi: tan to più scarna e lineare la costru zione di Becque rispetto alle piro tecniche invenzioni appunto di un Feydeau. Eppure per un pubblico di oggi — senza entrare nelle sottili seppur esatte distinzioni degli spe cialisti — « La parigina » ormai non esce da una certa categoria di tea tro francese brillante, basato su triangoli o altre figure geometriche con maggior numero di lati; può dunque suscitare qualche meravi glia apprendere che nel 1885 questa commedia suscitò scandalo e pole miche, soprattutto per la spregiu dicatezza con cui la protagonista, Clotilde, amministra i rapporti col marito, con l'amante in carica e con l'amante di ricambio; come di re che Clotilde, esercitando l'adul QUASI IGNOTI E LONTANI di Lucio Romeo, dall’epistolario e dalla poesia di Amalia Gugliel- minetti e Guido Gozzano. Regia: Giacomo Colli Interpreti: Lucia Catullo e Walter Siparietti: Enrico Benaglia Musiche: Stefano Liberati e Elio Maestosi Maestosi La pubblicazione del carteggio fra Guido Gozzano e Amalia Gu- glielminetti, avvenuta postuma nel 1951 (Gozzano era morto nel 1916 e la Guglielminetti nel 1941), ria prì già allora il problema dei rap porti fra questi due personaggi, che possono ancora interessare il grosso pubblico non certo per le loro vicende personali, per quanto romantiche, ma per il ruolo gio cato in maggiore o minor misura letteratura nella storia della ita liana a cavallo del Novecento. Dal l'epistolario e da talune poesie di Gozzano e della Guglielminetti, Lu cio Romeo ha tratto un testo tea trale (messo in scena dal regista Giacomo Colli) che parla con le parole autentiche dei due poeti ma cerca anche di rendere la distanza che passa fra noi e due personaggi così strettamente legati all'epoca nella quale vissero: un ritratto di due personalità, del loro difficile rapporto, ma anche di un ambien te, di una dimensione letteraria in bilico fra coloriture dannunziane e sfumature crepuscolari; d'altronde per questi personaggi è assai sot tile letteratura e vita. Gli interpreti sono Lucia Catullo e Walter Maestosi, impe gnati a fondo nel ricostruire le fi gure della Guglielminetti e di Goz zano. la distinzione fra »e> V ¡L MALATO IMMAGINARIO di Molière Traduzione: Cesare Gárboli Regia: Giorgio De Lullo Interpreti: Romolo Valli, Anita Bartolucci, Monica Guerritore, Antonella Baldini, Mino Bellei, Massimo Ranieri, Adolfo Geri, Gino Pernice, Alessandro lovino, Gianni Felici, Gabriele Tozzi, Gianna Giachetti. Scena e costumi: Pier Luigi Pizzi Musiche originali: Marc-Antoine Charpentier Ci sarebbe subito da chiedersi del perché di una riproposta come questa del Malato molièrlano. Tanto legittimo è l'interrogativo se si pen sa alle numerose messinscena che, quest'anno, si è avuto modo di os servare (e altre ne dovremo ve dere). Una moda quindi. Sembre rebbe l'annotazione più scontata e, per qualche maligno e superficiale, la conclusione più logica. In realtà ci sono, invece, prove che dimo strano l'infondatezza di una simile ipotesi. Vitez, da parte sua, lavora sul drammaturgo francese recupe randone « la distanza »: compie un tipo di operazione che, per quanto discutibile, non si riallaccia a pre cedenti (Planchón è solo un mo dello che viene accolto, in qualche caso, sul piano metodologico), an che se le » citazioni » non man cano (e non è certo uno scandalo: anzi!). De Lullo-Valli, con Gárboli, hanno lavoro compieta- mente diverso: sorprendentemente nuovo nella prima edizione spole- tina del 1974, ripresa nella stagio ne '75-’76, e in questa, che è, poi, fatto un c? la stessa, con solo qualche cambia mento di interpreti. Vitez vuole « allontanare » Mo lière; De Lullo-Valli lo » avvicina no a debita distanza »: potrebbe essere quasi la stessa cosa, ma non è così. Il francese trova che la classicità del drammaturgo emer ga da una strumentale focalizzazio- ne di certi criteri formali molièria- ni; nel secondo caso, invece, la classicità si rispetta perché è un dato di naturale oggettività: il testo non viene stravolto in nessuna del le sue parti, non ci sono manipo lazioni (a parte la necessità di ac cantonare alcuni degli intermezzi musicali), si parte direttamente dai personaggi. E così siamo di fronte a due tipi di operazioni, diverse quanto si vuole, ma davvero rivolu zionarle. Il Malato immaginario, così co me viene presentato dalla Compa gnia del « Teatro Eliseo », è forse una tappa obbligata, per chi vorrà in futuro occuparsi di Molière: mo- delIizza un testo in direzioni assol te da una regia e un'interpretazio ne in termini così alti, per quanto chiare sono le ipotesi su cui tutto il lavoro si basa. Da una parte una traduzione, quella di Cesare Garboli, che ha la grazia di una soave tangibilità (parole, dialoghi che sembrano estremamente con- Glno Pernice, Romolo Valli e Adolfo Gerì (foto Le Pera) fanno mai temporanei perché intuiti, eviden temente, prima di diventare imme diati significanti su di un piano di squisita razionalità). Dall'altra par te il puntiglioso lavoro di De Lul lo, di tipo quasi balzachiano, che si ribalta, alla fine, in una possi bile ipotesi di oniricità. E poi un Romolo Valli che ammiri con stu pore nella sua interpretazione più sottile e complessa, degna di es sere assunta tra i momenti anto logici più significativi della nostra arte attoriale. Il punto di partenza dello spet tacolo deriva dall'ipotesi che il ma lato non solo non è immaginario, ma addirittura trova l’unica possi bilità di essere nella sua malattia, anzi: nelle sue malattie. Argan non si sa rassegnare all'idea che la vita, in fondo, sia una realtà mor tale. L'uomo « sano », diciamo quel lo che non sente la malattia, in generale non pensa alla sua rela tività terrena. Vive i suoi giorni, così come gli altri, su piani so ciali dove non si le domande sul perché del nostro esi stere o sul senso della nostra vita e la sua cifra epistemologica. Ma questo tipo di « uomo sano » è un uomo che Molière non aveva mai preso in seria considerazione, e nel Misantropo aveva posto su un pia no focale deciso e, in fondo, asso luto. Argan, infatti, viene dopo di lui e, ormai, non può che vivere i termini dell’assoluto: il resto non lo interessa, non ha importanza o peso. La malattia allora, come uni co modo di vivere, strumento di autoanalisi ma non — come oggi si potrebbe Credere — oggetto di beffa psicoanalitica. Il sano, insom ma, non conosce la vita perché da questa è soverchiato: guardare sul serio il mondo vuol dire saper rac coglierne la portata e « rendersi noto » che la malattia ci domina, e che è proprio un'illusione pensare di dominarla. L'unico modo per uscire da questo circolo vizioso sa rebbe quello di tornare a nascere, per lo meno all’innocenza, prima della coscienza che vuole l’uomo consapevole, appunto. La sofferen za di Argan è proprio in questo se greto che è poi quello di farsi cre dere un perenne ammalato. Ma in questo consiste la sua vittoria nei confronti della vita. Mentre è so prappensiero Argan dice: « Non ci sono più bambini », è — come af ferma Gárboli — la battuta rive latrice, quella che ci rende ragione inghiottite dalla Monica Guerritore e Romolo Valli (foto Le Pera) della scelta della malattia: per ri fiutarla insieme alla stessa realtà della morte. Ecco perché si lascia andare nelle mani dei medici che, in fondo, promettono qualcosa che vada contro la morte. « La malat tia — scrive Garboli — lo intro duce nel nulla, lo difende lo immu nizza, sottraendolo con la forza di un prestigioso vaccino a quella sen sibilità e a quella cieca, confusa percezione di vivere che è dei sa ni. Si può vivere da sani solo se si è folli, o giovani, o irragione voli e ciechi... Si vive sempre, e solo, ''prima” della coscienza ». L'accettazione da parte di Argan di una diversa strada, di una vita senza malanni e medicine (come gli suggeriscono la serva Antoniet ta o il fratello Beraldo), sarebbe la fine di un sogno, di un rito in cui è possibile dare senso al quoti diano esistere. Ma c'è di più, Argan non è più interessato al mondo se non come «ritorno» al punto zero. Nessuno lo potrà mai capire: que sto suo desiderio è per gli altri una pura follia, per questo non può vi vere fino in fondo e irrimediabil mente, la propria solitudine. L’as soluto, desiderio costante dell'uo mo, che tuttavia non varca, dopo il ragionamento, le soglie dell'ado lescenza, è l'unico modo di vivere. Ma l'assoluto, però, non può essere che malattia. Il malato immaginario è quasi il testamento artistico e umano di Molière, un doloroso impasto tra il suo credo teatrale e quello filo sofico, dove il rifiuto del mistero di qualsiasi dato irrazionale, porta l'autore a inventare una condizione di salvezza, quella appunto della malattia. Non c'è niente di esisten ziale in questo modo di vedere la vita e di valutarla. C’è, al contra rio, la necessità di rendere ragione di azioni che, ingiustamente, ven gono inesorabile fugacità del tempo, da un eterno avvicinarsi all’uomo della morte. Non basta, in questo caso, ricorda re che alla quarta replica del Ma lato il grande drammaturgo trovò, quasi immediatamente, la morte. Sa rebbe troppo facile parlare di mi sterioso presentimento, di strana mescolanza tra arte e vita ecc. Quello che è soprattutto vero è che Molière, in qualche modo, sentiva di dare una precisa conclusione al la sua parabola umana, compren dendo in essa anche quella dell'ar tista, del drammaturgo e dell'attore. Queste linee sono state ricom poste e mirabilmente intrecciate nella regìa di De Lullo. Infatti, intor no ad Argan, tutto scorre in farsa, i personaggi si muovono a ritmi di scansioni para-musicali (a volte an che musicali: ma la musica entra sempre come un dato che conclude o apre il quadro di una situazione, non è mai un commento ad essa). È evidente che, allora, ne risulta che tutta l'opera sembra quasi volersi riassumere nel monologo affidato alle sublimi corde di Valli. Tuttavia non è proprio così. De Lullo ha vo luto dare valore dialettico alle figu re di contorno, anche se per dialet tico, qui, non dobbiamo intendere semplicemente oppositivo. Si trat- ta, più esattamente, di un confron to, che ha in gran parte una sostan za tutta interiore e «ritorna», quindi, alla misura Valli-Argan, C'è, poi, una certa volontà di astrazione — seguita, del resto nel le scenografie di Pier Luigi Pizzi che, con elegantissima sapienza, ci tano ambienti alla Vermeer e co stumi «mutuati» da Liotard — che rende ragione di un misterioso mon do sospeso del «malato». Che tutto, del resto, poggi su di un piano da gli orizzonti infiniti è dimostrato ampiamente dalla regìa. Gli oggetti sono così «veri» da rasentare I a- strazione, perché scontrano con una costante volontà di occultamento di Argan, le luci seguono le unità clas siche (luogo, tempo e azione) ma, in definitiva, privilegiano il taglio netto: indice dello stesso assoluto che muove la mente del «malato». Ma — e qui c'è veramente un magi strale tocco di magia — alla fine l'uomo rimane disteso sulla poltro na, a indicare forse la sua morte, ma, molto più probabilmente, il fat to che tutto quanto non è altro che un sogno. Così quello di Argan, co me quello di De Lullo: perché era teatro, cioè necessità di rappre sentare e di illudere (oltre che di illudersi). Allora una luce gialla, come di sole all’alba, accende tut te la stanza per immergerla, per sempre, nel silenzio del buio. Ecco che sì capisce come spunti di let tura, in questa messinscena di De Lullo ve ne siano tanti e davvero stimolanti. Perché il tratteggio è sempre netto e sicuro, senza sfu mature vaghe. Così è per Argan- Valli e così per quelle figure che molto bene ne assecondano il pre ciso disegno e ne puntualizzano le situazioni. Si pensi alla straordina ria Gianna Giachetti (la serva) e al bravissimo Mino Bellei, ai quali ag giungerei il sempre più bravo Gino Pernice. Tutti gli altri interpreti — Anita Bartolucci, Monica Guerrito- re, la freschissima Antonella Bal dini, Massimo Ranieri, Adolfo Gerì, Alessandro lovino, Gianni Felici, Ga briele Tozzi — sono bravi. Ma è quasi una constatazione banale se solo si pensa al grande e puntiglio so lavoro che De Lullo compie con gli attori della sua Compagnia. Ag giungere che Romolo Valli è — ma come: sempre? Me lo chiedo per ogni spettacolo — al meglio di se stesso significa abbandonarsi a una vera e propria tautologia. Perdo nabile, comunque. Remo Remotti, Luciano Bonanni, Sandro Giovannetti, Siila Silvani, Armando Silverini, Angelo Pe- ricet. Intervengono: I Solisti, Le Soliste, I Vocalisti Scene e costumi: Giulio Coltellacci Musiche: Armando Trovaioli Coreografie: Gino Landi Sedici anni dopo, ritorna sulle scene Rugantino, una delle più riu scite commedie musicali di Gari nei e Giovannini, in questo caso coadiuvati da Festa Campanile e da Franciosa. A suo tempo il suc cesso fu enorme, l'opera fece qua si il giro del mondo e finì, in qual che modo, per rappresentare il sim bolo di una « ritrovata » romanità. Ma, al di là di tutto questo, quello RUGANTINO di Garinei e Giovannini, con Pa squale Festa Campanile e Massi mo Franciosa Regia: Garinei e Giovannini Collaborazione artistica: Luigi Ma gni Interpreti: Aldo Fabrizi, Enrico Montesano, Bice Valori, Alida Cheili, Cesare GelIi, Glauco O- norato, Marcello Stramacci, Pao lo Di Bella, Giorgio De Bortoli, Pino Di Bella, Lorenzo Spadoni, Armando Silverini, Alvaro Vitali, Olimpia Di Nardo, Aldo Donati, Aldo Fabrizi, Bice Valori, Enrico Montesano e Alida Cheili in « Rugantino » che più è interessante è il valore di grande base dei musical all’ita liana che, soprattutto qui, viene messo a fuoco. Rugantino, infatti, non è solo una delle tante storie <> de Roma », è prima di tutto un in una forma di omologazione so cio-culturale di cui Pasolini, già da tempo, aveva parlato (e, all'inizio, senza essere creduto). Il problema, allora, diventa quel lo dei perché, del come qualcosa Una scena d'insieme di « Rugantino » (foto Coluzzi) punto di arrivo — e anche di partenza — per il genere leggero (del teatro con musica) che aveva trovato, in fondo, una sua felice combinazione. Qui, infatti, tutto è calibrato con rara sapienza. Lo spettacolo innanzitutto: lasciare il più ampio spazio possibile alla go- dibilità ludica, ad un abbandono, fosse pure fatuo e fugace, alla gioia di « guardare » (di assistere), alla « facilità » di rapporto con un evento che è già nato per essere consumato, sera per sera. Aveva ragione Rita Cirio quando accusava Garinei e Giovannini di voler an dare incontro alle necessità di un gusto « piccolo-borghese », sconta to e presentato senza alcun so prassalto. Ma il discorso, si sa, non è solo In questa direzione. E, se anche così fosse, non basta a rendere ragione di un fenomeno come quello che Garinei e Giovan nini hanno creato e sviluppato nel la nostra scena. Infatti quel pub blico piccolo-borghese — forse ri- conoscibile fino agli inizi degli an ni sessanta — non ha più una sua collocazione, come non l’hanno an che altre classi sociali, varianti di quella, che, magari intenzionalmen te, in qualche parte, si imbrogliano avviene, del significato non solo sociologico ma anche estetico. La Cirio aveva fatto delle analisi acu te e molto precise, il suo lavoro di ricerca, però, si fermava ad un cer to punto. Non ebbe modo di analiz zare l'ultimo periodo, quello relati vo agli spettacoli degli ultimi anni settanta. È accaduto, infatti, che gli spettacoli di G & G., approfon dendo le precedenti direzioni, ab biano chiarito ia vera portata di un modo di fare teatro. È la scena nel suo momento ludico, il carattere di evasione come garbato divertimen to, il montare un fatto con l’im mediato gusto di smontarlo. In tut to questo non c'è — perché non avvertita mai — la coordinata ideo logica; c'è, invece —• e questo è nella logica della nostra cultura — un preciso rapporto con lo spet tacolo inteso come consumo. Oggi sappiamo benissimo che questo a- spetto non è più « lo scandalo »: tale occorreva considerarlo quando lo scialo e il lusso gratuito sele zionavano un pubblico relegandolo a bassi e volgari modelli culturali. Rugantino, quindi, come musical degli anni del boom economico, come primo grande momento di sintesi di lavoro sul gusto degli cabaret, italiani medi — per dare ragione a Rita Cirio —, come coagulo, pe rò, di molte forme di spettacolo precedenti, o che stavano ormai morendo: a- vanspettacoio. Se, per un momen to, si pensa a questo fatto, allora non desta meraviglia che, per esempio, nella prima edizione c'e rano Manfredi, Bice Valori, Aldo Fabrizi, Lea Massari e, soprattutto, Ornella Vanoni. La romanità, che poi è quella « ottocentesca » delle maschere o dei personaggi popo lari, non è mica filologica: ha solo come referente il secolo preceden te e questo perché rende più li bero un certo modo di affrontare il popolaresco romano; anzi: lo rende possibile. Il romanesco che andava studiando, per esempio, Pasolini, che raccoglieva in tutte le contaminazioni e abbrutimenti dell'ultimo secolo, e soprattutto dei nostri giorni, non era una lin infatti gua allora proponibile. E aveva potuto essere romanzo: cioè « messaggio » colto e, implicita mente, rivolto ad un pubblico se lezionato e raffinato. Garinei e Giovannini ebbero un altro merito — e oggi lo si può dire sempre con maggiore convin zione —: di rendere al grande pubblico, alle platee più vaste, pur in gran parte anonime ed eteroge nee, certi messaggi « attesi ». Ma senza scendere mai sul piano del grossolano, senza mai offendere il buon gusto, senza banalizzare una forma di comunicazione. A ben guardare Rugantino stesso ha un testo che è quasi un sottotesto. Però Roma, con la sua fame, la sua povertà, la volontà, pur gene rica che sia, di riscatto, c’è, e non devi fare tanto sforzo per leg gerla. In un primo momento si può anche dire che le accuse al pote re politico, quello pontificio nella fattispecie, sono spesso emotive e poco motivate: sanno di rancori personali e non toccano che di striscio il piano sociale. È anche vero, perché così è l'anima roma nesca: prima rabbia e vampate e poi « ruganza spregiosa dei fuman- tini ammazzaquattordici », come di ce Antonio Baldini. varietà, Belli inventò il romanesco, lo al zò a dignità poetica. Nessuno po trà fare magari altrettanto, tutta via nessuno si ostini a volerlo de terminare esattamente: è quello di ieri (di Belli, allora!) e quello di oggi, imbastardimento di gerghi ci- nematografici e della periferia del la città, quando ancora si poteva individuare, fino agli ultimi mitici vecchietti trasteverini che, ogni tanto, qualcuno dice di aver ¡neon trato. E questo mito, in fondo, ha dato l'ispirazione ai più: è l'idea di voler ricomporre, fosse anche per stereotipi, quei momenti di cultura che fino a un secolo fa c’erano e che, oggi, sono scompar si per sempre. Ecco perché tutta la romanità che ci viene presenta ta a teatro è una romanità « da memoria », che, presa sul serio, sarebbe pure falsa. La verità, co munque, è che o ti affidi proprio al vagheggiamento del ricordo, op pure non ti rimane niente. Da qui, allora, quel sapore di strano strug gimento che molte situazioni ven gono ad assumere: Rugantino è pieno di questi momenti. Ma ecco che c'è Aldo Fabrizi, con le sue scansioni teatrali perfette, il modo di porgere la battuta con una sag gezza da palcoscenico che i nostri tempi non conoscono più. Poi Bice Valori, con la sua voce chioccia e il piglio sicuro. C'era Manfredi, quel 15 dicembre del '62; oggi c'è Montesano: più vittima, già spac ciato in partenza; però, in ultima analisi, con quel po' di antieroismo che lo riscatta da un impari con fronto con il suo predecessore. Al posto della Massari prima, e della Vanoni, poi, c'è la bella Alida Chel- li, che si riscatta con le impen nate tragiche che mostra nel se condo tempo. Uno spettacolo che è, al di là della sua oggettiva eleganza, un modo per ritrovare lo scorcio di un periodo: quello in cui nacque, nel '62, una commedia musicale che si consacrava al successo e che, in seguito, non sbaglierà più un colpo. E poi niente revival: tut to tale e quale, a parte le sostitu zioni di cui si è detto. In più, per la verità, ci sono le coreografie di Gino Landi, vivaci e mai stucche voli. Le musiche sono ancora di rette da Armando Trovaioll e le scene e i costumi sono di Giulio Coltellacci. Citare tutti gli atto ri è impossibile. Si ricorderanno almeno: Cesare GelIi, nella parte del sadico aristocratico, Olimpia Di Nardo, sua moglie, Glauco Ono rato, nel ruolo del marito di Ro setta, il « Boietto » Alvaro Vitali. importanza maggiore e un’opera di sintesi che, evidentemente, non accordava a se stesso. Ed ecco, così, come i suoi « Saggi autobiografici » acqui stino oggi una inso spettata e, In qualche modo, ren dano ragione di un lavoro compiu to su versanti sociologici, ma con precise direzioni artistiche. Forse Pigmalione non è neppure la più bella commedia che abbia scritto, però ha finito per diventa re, nel corso di questo secolo, una delle sue più note e per la quale, in fondo, viene spesso Identifica to. Molti sanno che l’opera si Ispi ra al mito classico di Pigmalione, lo scultore che, innamoratosi di una statua da lui scolpita, chiede ed ottiene da Afrodite che venga trasformata In donna. Shaw non nascondeva questa mi mesi, tuttavia non riteneva neppu re necessario propagandarla in mo do quasi masochistico. Il suo oc chio, del resto, era puntato su quella società vittoriana che, per un certo periodo, osteggiò le sue PIGMALIONE di G.B. Shaw Regia: Giulio Bosetti Interpreti: Giulio Bosetti, Nada Ma- lanima, Franco Mezzera, Tino Bianchi, Marina Bonfigli, GinelIa Bertacchl, Franca Sdutto, Ornel la Ghezzi, Tony Domenici, Ros sella Lucarelli, Massimo Pedro- ni, Roberto Puddu. Scene e costumi: Santi Migneco Shaw, tra le altre cose, era so lito affermare che il suo teatro, le gato alle occasioni della storia e del costume, non sarebbe soprav vissuto. Il drammaturgo, che rice vette Il premio Nobel nel 1926, era convinto che l’attività estetica do vesse contemplare una riflessione Franca Sdutto, Giulio Bosetti, Nada in « Pigmalione » di Shaw (foto Coluzzi) commedie, sentendosi offesa e pre sa in giro dal drammaturgo con le sue idee socialisteggianti e con punte di simpatia verso il comu niSmo. Saranno i mezzi di comunicazio ne di massa, in particolare il ci nema, a rendere famosa per lo me no la commedia che, a suo dire, sembrava scritta, senza eccessivo impegno. Chi non ricorda, infatti My fair Lady? Tra versioni cinema tografiche e teatrali se ne contano perfino troppe. Tuttavia questa ri proposta del Pigmalione non torna inutile e, tutto sommato, non fos se per un certo appiattimento che, in qua e in là, si deve riscontrare nella regia, l’operazione sarebbe più moderna di quanto a prima vista non si creda. Lasciamo da parte il femminismo: si aprirebbe un pro blema ozioso e, in questo caso, inu tile. La storia vale come modello esemplare di scontro di due classi sociali, una ricca e intellettuale, una povera ed emarginata. Rapportia mo il tutto all'epoca (è stata scrit ta nel 1914] e alla realtà inglese, con i suoi contrasti mastodontici aH'indomani della prima afferma zione di una società industriale, la più importante che allora vedeva sorgere l'Europa. Allora la storia della fioraia Doo- little, che, per caso, il ricco professor Higgins, famoso glottologo che si convince, dietro richiesta delia fanciulla, di speri mentare i progressi della scienza, soprattutto « in laboratorio » (leg gi casa sua), questa storia, appun to, è tutt’altro che banale. Bosetti lo deve aver capito be nissimo. Tanto è vero che l’impo stazione generale del lavoro, sen za velleità, ha una precisa dire zione di recupero di un impossibile incontro tra ceti diversi. E, così facendo, dimostra di aver ben pe netrato l’intento dell’autore ingle se. Purtroppo non convincono i di registici quando vengono segni presentate figure come Alfred Doo- I itti e (perché non assecondare tutto il popolaresco eversivo che era insito in quella ambigua figu ra? E, in più, avendo a disposizio ne un attore come Franco Mezze- ra?), il colonnello Pickering (troppo di maniera: Tino Bianchi sa fare molto di più) e Freddy (che, in de finitiva doveva apparire, con molta più chiarezza, quale possibile sposo di Lisa). Tutto il resto va benissi mo. Compresa quella bella « tocca incontra ta » finale per cui non si sa bene se la fioraia, in fondo in fondo, di venta la sposa del professore. Credo, inoltre, che Giulio Boset ti vada lodato per la mancanza di presunzione: i suoi lavori, le sue messinscene cioè, non vogliono mai superare gli intenti. Il suo è un modo discreto per giungere al grande pubblico senza mai tradi re il buon gusto e un onesto impe gno. Come attore, poi, niente da ridire: misurato e senza sbavature, proprio come le sue regie. A lui, comunque, va il merito di aver portato Nada sulle scene, prima con II diario di Anna Frank e, ora, con questo Pigmalione. La ex (si può dire?) cantante dimostra di essere una brava attrice e, soprat tutto in questo lavoro, ha dato una prova degna di lode. Gli altri atto ri, oltre quelli citati, sono: Mari na Bonfigli, Ginella Bertacchi, Franca Sdutto, Ornella Ghezzi, To ny Domenici, Rossella Lucarelli, Massimo Pedroni, Roberto Puddu. Tutti in perfetta sincronia con la regia, senza essere mai fuori po sto. Una sola cosa: Santi Migneco mi era sembrato uno scenografo bravo: questa volta, lo dico con di spiacere, mi sembra che abbia fat to un lavoro un po' ovvio e anche con qualche banalità. Ma un errore si può sempre capire, questo è chiaro. Ginella Bertacchi e Giulio Bosetti STORIE D’IMPRESARI, PRIMEDONNE, MAMME E VIRTUOSI NEL TEATRO ALLA MODA da Antonio Simon Sografi e Gae tano Donizetti in due tempi di Dino Riduzione: Lombardo Regia: Dino Lombardo Interpreti: Alvise Battain, Severino Saltarelli, Sergio Antonica, Pie ro Avallone, Barbara Olivieri, Gilberto Colucci, Giovanna Be nedetto, Beatrice Serani, Emilio Lastrucci Scene e costumi: Santi Migneco AI clavicembalo: Sophie Le Castel Alle percussioni: Piero Avallone Adattamento e musiche originali: Sophie Le Castel Un titolo lunghissimo che cita di versi fenomeni nell’arco di una fra se che vuole come determinare un programma. Si dovrebbe dire su bito: un titolo « sociologico » (co me fa anche la Wertmuller), per ché tale è il contenuto di quanto si vuole rappresentare. Quindi, un ti tolo giusto, come si deve ad una messinscena come questa che, se non fosse anche per il tocco di ma gia e originalità possedute, darebbe ragione di un modo quanto mai cu rioso per studiare squarci della nostra storia del costume teatrale. Siamo alla fine del diciottesimo secolo quando l'avv. Antonio Si mon Sografi ■< dotato di un’indub bia abilità tecnica e di una grande facilità di im porsi nel dramma lacrimoso come nella commedia di carattere, nella commedia giacobina come nella commedia storica ». Un eclettico che sapeva scrivere di tutto, vuoi per disponibilità cortigiana, vuoi per rispondere al vuoto innegabile di quel momento della vita storico culturale, vuoi, infine, per asse condare il bisogno a quella <• male dizione teatrale » che, insieme ai invenzione seppe il Ma l’ossatura di un suoi <> compagni di ventura », si portava con sé. Lui, Sografi, pri vilegiato intellettuale, poteva an che scegliere la dannazione socio logica e non; per gli altri, gli at tori, era un dato puro e semplice della loro vita, e del loro oscuro e misterioso lavoro. tutti questi elementi, che danno un vago sospetto di albori indecisi, quasi delusione di memo rie tanto care quanto false e in consistenti, vengono allontanati dal bisogno, che il riduttore e re gista Dino Lombardo ha avuto, di ricomporre tutto quanto nell'asse della storia: un asse astratto, do ve è più facile poter mettere a fuoco le figure di un immaginario che, di fantastico, ha il naturale esito finale: di concreto, invece, tutta racconto tanto effimero quanto legato alle esigenze di un vivere sociale. Quindi lavoro di Lombardo ha avuto come obiettivo proprio que sto: la fatuità, il costume come nesso primo del vivere, il dato della vita che sembra per sempre delegata alle cifre dell'apparenza. C’è, allora, la descrizione di quel mondo che partecipa di una ritua lità subito divorata dal tempo: è ¡I mondo del teatro, lo si è già detto, ma di quello che si adatta a ogni circostanza del vivere; quel teatro che nasce al « servizio » ludicità e che non della nostra vuole proporre che quella: mo mento di abbandono al futile e, forse, delizia del riposo della co scienza critica. E si fa per dire, na turalmente. Negli spazi cosiddetti « inutili » (o ■< improduttivi ») del nostro modo di essere sociale, in quella parte di esistenza che affi di al caso del giorno che fugge, non c'è forse il segreto stesso del la vita? Di quella vita, si capisce, che in seguito si ama definire gio vinezza o, più spesso, adolescenza. Alla base della scelta compiuta da Dino Lombardo, e dal suo grup po « Scenaperta », non deve esse re mancato anche questo motivo. Certo non è stato il dato condi zionante. Ma se osservi alcuni mo menti della regia, laddove i perso naggi, citando elegantemente Fel- lini, si schierano in gruppi che il canto unisce, in apparenza, e, alla fine, è come se li schiacciasse in una entità vuota, si può riconosce re anche il dato di una scelta esi stenziale che è tutt’altro che inef ficace. Intendiamoci: non si è in- italica, Giovanna Benedetto, Alvise Battain, Barbara Olivieri e Severino Saltarelli teso proporre dei modelli analogi ci (quella realtà e la nostra). Indivi duare motivazioni e tracciare preci se scansioni, invece, è stato un pre ciso intento. Se questa ipotesi reg ge allora scompare ogni intenzio ne filologica. E questa è una scel ta più che felice. Il recupero filo logico di quel fine settecento, con le repubbliche napoleoniche, i ro manticismi non ancora chiariti in questa nostra provincia i residui di troppi accademismi, sa rebbero stati motivi che non avreb bero dato ragione di uno spazio che sfuggiva ad ogni forma di par tecipazione al sociale: lo spazio « felice » di quel dannati comme dianti. Allora basta prenderlo sul serio, scendere dagli odorosi acu mi aristocratici, chiudere le pagine di un trattato (fosse anche ■■ Dei delitti e delle pene» — che non era poi cosa dappoco!) e immergersi in quel sociale che l'intellettuale guardava da lontano, con occhio curioso magari, ma con tanta puz za sotto al naso. In questa Storia d’impresari... tut to è ribaltato: Il mondo di corte e gli intellettuali esistono (se poi davvero ci sono: potrebbero esse re anche un sogno), sullo sfondo, e lontani più della luna. In primo piano, invece, ci sono loro, gli at tori, i musici, gli Impresari. È co me se frugassimo dietro le quinte di un fine settecento. Per un momento si può anche ave re l'impressione di essere di fron te a un nugolo di fantasmi, ma, se quelli non sono il frutto della nostra coscienza, allora devono per testimoniare una presenza forza che, evidentemente, cancellare sa rebbe insulso perché impedireb be semplicemente la conoscenza. Perché, si sa, i fantasmi sono, poi, la più profonda delle nostre real tà. Basti vedere come si agita pro prio lui, l'impresario, nel compito di allestire uno spettacolo che ac cordi le ragioni di tutti, ma soprat tutto quelle legate ai capricci del la primadonna. Il piano onirico vie ne cancellato, subito dopo una breve sequenza iniziale, per dar corpo direttamente alle voci di quel sottobosco che potevamo cre dere irrimediabilmente perduto nel le memorie. E la dimensione di al lusive immagini, magari cucite da ricordi sbiaditi e approssimativi, diventa un costante tramite di rap porto con i fatti, con quei batti becchi futili quanto drammatici per chi li doveva vivere e sopportare in prima persona. Dino Lombardo ha messo insie me due opere di Antonio Simon Sografi, Le convenienze teatrali e Le inconvenienze teatrali, più un'o pera buffa di Gaetano Donizzetti, che ricalca lo stesso tema. Una compagnia — per raccontare in breve la trama — deve appronta re una rappresentazione e, a quan to pare, non ci sono tempi lunghi di preparazione. L'impresario (in terpretato da uno splendido Alvise Battain) sta cercando di mettere d'accordo tutti, dalla primadonna teatro di (la brava Barbara Olivieri) al musi co (Gilberto Colucci) e, giù giù, ti no agli altri componenti di questa compagnia di provincia. Tutto sem bra essere andato per il meglio quando arrivano i Francesi. Un at timo di sgomento e poi, in men che non si dica, ecco già pronto un programma che fa all'occasione. E se succede — come appunto suc cede — che vengano tolti i finan ziamenti per la rappresentazione, allora interviene la buona sorte: la ultima delle attrici tira fuori i suoi gioielli e lo spettacolo si farà. Condotto con molta intelligenza, sapientemente giocato su di un piano di fine e sottile sociologia dello spettacolo, questo Storie di impresari... è un felicissimo esem pio di recupero di un mondo cial trone e chiassoso che, per tanto tempo — e forse anche fino a periodi piuttosto recenti — ha ca ratterizzato il nostro teatro. Ma il tutto è risolto senza appesantimen ti mimetici (che sarebbe stato il pericolo più naturale) e, soprattut to, bandendo la filologia come uni ca e rigida coordinata di scavo nel passato. Della musica dirà, a par te, il nostro critico musicale. La regia è ben giocata su ritmi ac corti e mai risaputi. Gli attori sono tutti bravi: Severino Saltarelli, Sergio Antonica, Piero Avallone, Barbara Olivieri aiutata anche dal phisique du ròte, Gilberto Coluccl, Giovanna Benedetto, Beatrice Se- rani bravissima nel ruolo della se conda donna, Emilio Lastrucci. E, ancora, vorrei l'Alvise Battain che di bravura ne ha vera mente tanta. Al clavicembalo c’era Sophie Le Castel che, con molta sensibilità e impegno, ha suonato le musiche da lei adattate o com poste. Alle percussioni, Piero A- vallone. Scene e costumi (ma so prattutto belli i secondi) di Santi Migneco. ricordare Emilio Lastrucci, Alvise Battain e Beatrice Serani S to n a ti e d iv e r te n ti Da qualche tempo a questa parte si ha il vezzo, malcelato da un in teresse più o meno reale per il •< re vival », di resuscitare composizio ni musicali ormai cadute in disuso per cercare di ritrovare in esse qualcosa che possa già far intuire gli acerbi sprazzi di genialità del compositore famoso. L’opportunità ci è stata offerta, questa volta, dal gruppo di ricerca teatrale « Scenaperta » che ha vo luto presentarci un curioso e a vol te divertente <■ melange » di tre ope rine a cavallo tra il Settecento e il primo Ottocento italiano. Si tratta de «Le convenienze teatrali» (1794) e delle « Inconvenienze teatrali» (1800) di Antonio Simone Sografi e dell'opera buffa « Le convenienze e le inconvenienze teatrali » (1827) di Gaetano Donizetti. Le opere, sia quelle letterarie che quella musicale di Donizetti, descri vono con una bonaria presa in gi ro, quale fosse il mondo musicale dell’epoca, la sua frenetica attività, il clima salottiero, f litigi e le pre tese dei cantanti, ma raramente riescono a trovare una effettiva si stemazione satirica che possa ri velare un pizzico di genialità negli autori. Forse solo Donizetti, autore anche del libretto della sua opera buffa, riesce a trovare momenti par ticolarmente suggestivi, sostenuti da una bonaria, ma incisiva carica satirica. Simpaticissima e ben equilibrata è stata la realizzazione di quest’o pera dal punto di vista musicale. Volontariamente stonati ma assai divertenti i protagonisti che tutti ri cordiamo con piacere anche se una leggerissima preferenza per sim patia e carica teatrale va, secondo noi, a Beatrice Serani una Luigia Scannagalli spiritosa e « ingenua » quanto bastava e a Giovanna Bene detto un’Agata, ruffiana di Luigia, piena di « verve » e di eccellente presenza scenica. Un riconoscimen to doveroso, infine, a Sophie Le Castel al clavicembalo. Guido Nastasi CYRANO Commedia musicale scritta da Ric cardo Pazzaglia Tratta da Edmond Rostand Regia: Daniele Danza. Interpreti: Domenico Modugno, Ca therine Spaak, Paolo Malco, Re nato Mori, Marcello Mandò, Car la Todero, Berto Gavioli, Giorgio Del Bene, Gianfranco Bocca, Marco Bonetti, Pietro Vaisecchi, Elio Marconato, Graziella Pole- sinanti. Scene e costumi: Bruno Garofalo. Musiche originali: Domenico Mo Coreografie ideate da Gino Landi. Realizzazione coreografica: Vivien- dugno. ne Bocca. Questo Cyrano, realizzato dal Tea tro Tenda di Roma in collaborazio ne con la 2a Rete televisiva, ha più di un merito. Prima di tutto è uno spettacolo tutto da godere (gio co e divertimento puro), e poi è un grosso tentativo di costruire, aH'interno della nostra cultura tea trale, un modello di musical. Già questi due dati non possono non fare apprezzare l'operazione che, tuttavia, non manca di alcuni difetti. L'impostazione è tutta rivolta ad un pubblico il più vasto possibile e, per questa occasione, si è di fron te ad un Kolossal popolare. L'inten to è pienamente raggiunto dal mo mento che gli applausi, da quelli a scena aperta, a quelli alla fine, sono tanti e tributati con evidente entusiasmo. A questo punto questi appunti di recensione potrebbero anche essere conclusi qui. Infatti se si accetta il « fatto » per quello che è, senza troppe domande, que sto Cyrano funziona a dovere: sce ne di massa, tante musiche e can zoni, due interpreti cari al grande pubblico come Modugno e la Spaak. Le cose cambiano un po’ se si vuole andare più a fondo. Allora, rischiando di essere tacciati di ec cessivo rigore, si diranno le cose che non vanno. Lo spettacolo — che approderà sul piccolo schermo tra un anno circa — è costruito per lo spazio del tendone e, in quello, sembra Altro fatto: trovare una collocazione più che na turale. Tuttavia non tutti gli inter preti sono adatti alla Tenda: è il caso, ad esempio, proprio della Spaak, che è poco più che una dolce e gradevole presenza fisica (è facile immaginare che sul pic colo schermo l’attrice sarà molto più a suo agio, e potrà essere fi nalmente apprezzata). troppo spazio, per volontà di spettacolarità, è stato dato al momento coreografico: al lunga i tempi della rappresentazio ne e, soprattutto nella prima parte, non permette che l'avvio della vi cenda, o poco più. La giocosità va benissimo, ma va calcolata nell'e conomia generale di un spettaco lo; non deve diventare, cioè così soverchiante. E poi ancora: il testo di Rostand — ben tradotto e adattato da Paz zaglia — si ritrova appena, su uno sfondo in cui rischia di sfumare completamente. E intanto le situa zioni, i vari momenti, non sono cor roborati dalla minima ironia. La vicenda si svolge in Francia, verso la metà del Seicento. Cyrano, poeta e abile spadaccino (e poi let terato, fisico, filosofo ecc.), si è innamorato della bella cugina Ros sana. Il suo grande naso, però, lo induce a non rivelare mai i suoi sentimenti, per certezza di assolu to diniego o possibile derisione. Rossana (Catherine Spaak) ama, a sua volta, Cristiano (Paolo Mal- co), giovane bello ma privo di sen sibilità, di grande povertà spiritua le. Cyrano (Domenico Modugno) fa rà da intermediario tra i due gio vani amanti: suggerirà soavi frasi e scriverà dolci pensieri alla ra gazza, a nome del bell'innamorato. Così, grazie a Cyrano, i due si spo sano. Viene la guerra e Cristiano muore. Rossana si ritira in un con vento dove va frequentemente a trovarla il cugino. Questi, un gior no, in punto di morte, rivelerà alla ragazza il segreto del suo amore, così grande che lo aveva indotto a costruire il parlare e il pensare di Cristiano. Rossana, allora, si ren de conto di aver amato il cugino attraverso la bellezza del marito. La regia dello spettacolo è molto coerente con le intenzioni, cerca di assecondare l'esperimento-musi- cal, con cura e anche con diverse invenzioni. Le coreografie non sono del miglior Gino Landi e le scene, di Bruno Garofalo, risultano un po' scontate nel riecheggiare a profu sione un'iconicità popolareggiante. Le musiche di Domenico Modugno piacciono molto al pubblico, ma sanno molto di arie sanremesi. Co me interprete, invece, Modugno è molto bravo. La Spaak, come si di ceva prima, non viene molto « uti lizzata «: rimane, però, la sua bel lezza e grazia. Bravo, invece, Gior gio Del Bene, nel doppio ruolo di Lignière e del frate cappuccino. In significante (forse renderà in TV?) Paolo Malco che sembra non aver capito il personaggio di Cristiano. Ben accordati con la loro parte so no: Renato Mori (De Guiche), Mar cello Mandò (Ragneau), la brava Carla Todero (Lisa e poi suor Mar ta), Berto Gavioli (Le Bret), Gian franco Bocca (efficace nel doppio ruolo di Montflery e del Barbiere), Marco Bonetti (Valvert e poi II Ca pitano), Pietro Vaisecchi (Brisadle), Elio Marconato (Spettatore ingle se), Graziella Polesinanti (Una Pre ziosa). RIVOLUZIONE NELLE LINGUE STRANIERE S C I E N Z I A T I I N E Q U I P E S I R I B E L L A N O A l L I B R I E I N V E N T A N O I L N A S T R O C H E F A P A R L A R E A L L ’ I S T A N T E T R E L I N G U E M O N D I A L I Poi ve lo inviano anche g ratis e senza im pegni per una prova in Inglese, Francese e Tedesco che in libri compilando Una équipe di scienziati in- sto illustrato e di un dizio- glesi si incaponisce da anni nario complementare. Ora per risolvere un grosso prò- questa possibilità esiste an blema: eliminare lo studio Italia, dove sono delle lingue a capo chino giunti alcuni nastri e dischi frase a 45 giri di prova, da distri- sui buire gratuitamente e senza per frase, abolire i tempi lunghi e impegni perché l'interessato letteralmente co stringere a parlare immedia- si convinca da se stesso, tamente, pur conseguendo Per avere in dono il nastro una conoscenza pratica e o il disco di prova in In completa. L'équipe è riuscì- glese, Francese e Tedesco, con un opuscolo dettagliato ta a inventare un sistema sul nastro o dischi, che ga- e le istruzioni d’uso, basta rantisce ciò che ieri sem compilare e spedire il ta- brava impossibile (come l e- 'gliando qui sotto. Ripetiamo che non vi sono impegni e lettricità o la conquista del- che nastro o disco non de- la tempo, nel mondo, tre milioni di vono essere restituiti in nes- persone hanno adottato que- sun caso. Una seconda lin- sto nuovo sistema e hanno gua appresa fulmineamente appreso bene la loro secon- e bene, è un patrimonio che vale più dell’oro. Scrivere da lingua in tempi sbalor- ditivamente brevi, essenzia!- SUBITO: il materiale di pro mente con l'ascolto e con va gratuito è limitato, il semplice ausilio di un te- In breve luna). tagliare qui Via Borgospesso, 11/15 - 20121 Milano Spett. LA NUOVA FAVELLA REP. LINGUAPHONE - ld/1 Gratis e senza alcun impegno da parte mia, vogliate spedirmi il disco □, o il nastro □ dimostrativi e l'Opuscolo illustrato con tutti i dettagli sul Metodo LINGUAPHONE, per l'apprendimento delle lingue stra niere. (tracciare una crocetta nel quadratino del dono de siderato) .................................................................. Nome Cognome ............................................................. Via ...................................................... N........... .................................................................... Città Cap ........................................... Prov................. (Scrivere in stampatello, per favore) In b r e v e p ro s a E' stato restaurato e riaperto al pubblico il Teatro Nicco- lini di Firenze che vedrà in questa stagione la presenza com plessiva di 17 compagnie teatrali. Dopo una lunga stagione cinematografica, il Niccolini ha riaperto le porte al teatro. Nel 1800 fu il primo teatro di prosa di Firenze, e ora, as sieme a La Pergola, e aH'Affratellamento, il pubblico fio rentino avrà la possibilità di assistere al meglio dell'atti vità di giro. Il primo spettacolo ospitato dal Niccolini è stato ■■ Mezzacoda » di Paolo Poli. Dopo Poli, Mario Scaccia ha presentato *■ L’Avaro » di Molière. Il Teatro Stabile di Como, celebrando il decimo anni versario dalla fondazione ha inaugurato la stagione con la prima di « Riccardo III » di William Shakespeare, nel tea tro di « Villa Olmo ». Lo spettacolo è impostato in modo inconsueto con attori muniti di maschere che mettono e tolgono a seconda del vari momenti nella interpretazione dello stesso personaggio, per sottolineare il gioco della finzione nella lotta per il potere. La regìa è di Bernardo Ma- lacrida. La seconda edizione del Premio Città Perugia 1978 per un’opera drammatica teatrale scritta in italiano da un autore italiano, nel biennio precedente (1976-77) è stata assegnata a « La favola di Orfeo » di Massimo Binazzi. La giuria era composta da Stelvio Zaganelli, Roberto Rebora, Carlo Ter- ron, Ignazio Baldelli, Carlo Santini, Carlo Pacifico, Giusep pe Vicarelli. Al Palazzo delle Esposizioni di Roma è stata presentata una mostra dal titolo « Sto: una storia lunga un milione », disegni e fotografie riguardanti opere e spettacoli di Ser gio Tofano. La mostra, organizzata dal Comune di Roma in collaborazione con II Corriere della Sera e la Casa Edi trice Rizzoli vede esposti, oltre ad un'ampia raccolta di « Storie di Bonaventura » dal Corriere dei Piccoli, anche illustrazioni di libri, quadri, poesie, fotografie di Tofano. Durante la mostra sono stati proiettati alcuni filmati di spettacoli di cui Sergio Tofano fu interprete. Il Premio Pirandello (un milione di lire) per un atto uni co inedito, è andato ad Aido Sarullo, un giovane avvocato e regista teatrale palermitano per l'opera « Chiamami Ce sare ». Le motivazioni della giuria del premio, presieduta da Odoardo Bertani: >• L'opera di Sarullo rivela attraverso le citazioni e la sottile elaborazione di temi pirandelliani capacità evocativa e ansie umane; l'autore rilegge con spunti soggettivi ed autoironici il rapporto fra teatro e vita». Una segnalazione speciale è stata formulata per l'opera « Un errore di percorso » del commediografo e giornali sta Filippo Canu, vicedirettore del Gr 2. La compagnia del teatro di ricerca di Padova, a conclusione dei lavori del Premio, che è alla sua quinta edizione, ha presentato in anteprima ■■ Il latte e il sangue». La Cooperativa ATA (Attori, Tecnici, Autori) Teatro ha debuttato alla fine di dicembre a Jesi con « Pene d’amore perdute » di William Shakespeare. Interpreti: Paola Pitago ra, Andrea Giordana, Elena Cotta e Carlo Alighiero. La tra duzione dell’opera è stata curata da Franco Cuomo, già riduttore di « Romeo e Giulietta » per Carmelo Bene e di « Eduardo II » di Marlowe per Trionfo. La regìa è di Marco Parodi che ha dichiarato: ■■ La chiave di lettura da me pre scelta è fondata su una specie di codice doppio, secondo il quale Armando è un travestimento adottato dal Re per muoversi liberamente quando la sua ossessione amorosa che gli procura implacabili rimorsi e acuti sensi di colpa, lo spinge verso passioni inconfessabili come la contadina Gacometta. Mentre il suo rapporto d’amore con la Princi pessa è visto alla luce della ragion di stato generata dalla contesa del territorio d’Aquitania fra le corti d'Aragona e di Francia ». Girolamo Marzano, Lorenzo Minniti, Umberto Raho, Bruno Zanin, Bruno Brugnola, Angela Brugnola, Mirella Bor doni e Marina Giordana sono gli altri interpreti di « Pene d’amore perdute » che la cooperativa porta in tournée anche a Pescara, in Sicilia, Calabria, Pesaro, Milano, Firenze, Me stre. L'ultima tappa sarà al Teatro Giulio Cesare di Roma il 2 aprile. «Il teatrino delle meraviglie» di Miguel Cervantes di Saavedra è stato riadattato dal Gruppo di Sperimentazione Teatrale « 11" Pantano » per il Teatro in Trastevere. Per co municare il senso dell'immaginario e quello del reale con tenuti nel testo, il regista Claudio Frosi ha scelto due stili: il barocco per rendere l'Irreale, e il novecento per la rap presentazione del reale. Interpreti di questa opera minore dello scrittore spagnolo, che è illustre precedente della famosa fiaba di Andersen « I vestiti dell'imperatore » sono Raffaella Andrighetti, Lamberto Consani, Graziella Ferraris,. Grazia e Eugenio Marinelli. « Sette meditazioni sul sadomasochismo politico », lo spettacolo che II Living Theatre ha presentato a Roma dal 10 al 20 gennaio, tie ne fede alla promessa fatta ai prigionieri politici brasiliani, di raccontare al mondo le torture alle quali vengono sottoposti nel car cere di Belo Horizonte, nel quale gli stessi attori furono rinchiusi nel 1971 dopo aver rappresentato alcuni spettacoli nelle strade brasiliane. L'aocusa fu di sovversione. Nella foto: Rainy House, la Vittima e Tom Walker, il Boia é < é * / N A T H A L I E S A R R A U T E I d i r i t t i d e l t e a t r o d i p a r o l a La prossima primavera Claude Régy, uno dei re gisti francesi più intelligenti e rigorosi, allestirà a Pa rigi Elle est là, di Nathalie Sarraute. È la quinta ope ra teatrale della romanziera di Les Fruits d’or, dopo Le silence, Le mensonge, Isma e C’est beau. Il Dramma pubblicherà questo testo in uno dei prossimi numeri, nella traduzione di Ugo Ronfani autorizzata dall’autri ce. Ronfani ha già tradotto « Il silenzio » e « La men zogna », radiotrasmessi dalla RAI-TV, e per la casa editrice Einaudi, che li ha pubblicati nella sua collana di Teatro, « Isma » e « È bello ». È lecito attendersi, adesso, che la RAI-TV si deci da a mettere in onda anche questi due testi, già radio- trasmessi dalle maggiori emittenti europee ma consi derati troppo ardui, pare, dai responsabili per il Tea tro radiofonico di viale Mazzini. E auspicabile, anche, che un regista coraggioso si decida a portare in palcoscenico anche in Italia un « trittico Sarraute » (queste pi'eces hanno la brevità de gli atti unici). L’obiezione che si tratti di testi non adatti ad essere rappresentati non regge più, dopo i convincenti, applauditi allestimenti di Claude Régy. Già nel 1967, sempre a Parigi, Madeleine Renaud e Jean-Louis Barrault avevano scelto « Il silenzio » e « La menzogna » per inaugurare la sala del Petit Odèon, e si era constatato allora che la sottoconversa zione sarrautiana passava benissimo anche in palcosce nico, era straordinariamente ricca di movenze dramma tiche nonostante la povertà dell’azione scenica. Nel ’73, presentando all 'Espace Cardin, Isma, ou Ce qui Cappelle rien, Régy fornì la dimostrazione defi nitiva della « teatralità » — interna al linguaggio — di queste pièces. E la fornì interpretandole come un rituale scenico della confessione, in un calcolatissimo crescendo di effetti speculari, facendo emergere dalle crepe del « linguaggio convenzionato » le radici del « secondo linguaggio ». Così come intendeva Nathalie Sarraute scrivendo questi testi, compreso Elle est là, in cui è affrontato con grande efficacia il tema della vio lenza nel linguaggio quotidiano. Del resto, fossero rimasti dubbi sulla rappresenta bilità di questi testi, li ha fugati Tino Carraro con una coloratissima lettura — attentamente seguita, e molto applaudita — di un brano di « È bello », al seminario che sul teatro della Sarraute si è tenuto a Milano il 23 novembre scorso, nel quadro del Convegno internazio nale « Dell’arte... i bordi », promosso dall’Associazio ne Psicoanalitica Italiana. Hanno animato l’incontro milanese Nathalie Sar raute, che ha ripercorso in un colloquio col pubblico le tappe della sua ricerca drammaturgica, Claude Régy, che ha indicato la sua cifra interpretativa del teatro sarrautiano, e Ugo Ronfani, il quale ha svolto la rela zione introduttiva — che II Dramma pubblica qui di seguito — sul tema « Il tropismo come dramatis per sona ». L’interesse del seminario svoltosi intorno all’opera teatrale della Sarraute è consistito, in termini generali, nella riaffermazione dei diritti del Teatro di Parola, come espressione di un’altra avanguardia, che si rifiuta di trasferire dal linguaggio al corporale, dal testo al gesto l’essenza del discorso drammaturgico. Di questo Teatro di Parola autori come Tardieu, Pinget, Dubil- lard, la Duras e, beninteso, Beckett e Ionesco avevano già esplorato, in Francia, le nuove possibilità; ma Na thalie Sarraute ha portato e continua a portare avanti la ricerca, in modo autonomo e originale, come indica il saggio di Ronfani. Con la Sarraute, infatti, il Teatro di Parola rinasce dalla crisi della parola, si spinge innanzi nella ricerca di codici di comunicazione non fallaci. In questo senso si è parlato, al seminario di Milano, di un teatro « au- tenticamente rivoluzionario », di una drammaturgia che offre finalmente, dopo tante false proposte di sovver sione dell’avanguardia, l’indicazione giusta per uscire dalle paludi dei conformismi di linguaggio, per trovare zone di comunicazione più vera e profonda, per aprire dunque nuovi spazi di libertà. I contributi alla discussione della stessa Sarraute e di Claude Régy hanno inoltre chiarito che non di tea tro intimista si tratta, anche se il suo intervento si verifica al livello della cosiddetta coscienza individuale, ma di una drammaturgia di portata collettiva, in grado di provocare una partecipazione e un coinvolgimento generali. Un teatro che va oltre un raffinato psicologismo. E che consente, mediatore il tropismo, l’incontro con l’altro, con tutti gli altri. « Ero rimasta all’affanno lo gico di Pirandello, — ha detto una partecipante al di battito. — Adesso scopro, invece, che nel teatro dei tropismi della Sarraute possiamo riconoscerci tutti ». Il che sembra essere il miglior riconoscimento che si possa tributare a questo teatro. S u l p a l c o s c e n i c o d e l l a n o s t r a i n t e r i o r i t à di Ugo R onfani Nathalie Sarraute cominciò a scrivere Tropis mes, l’opera che già nel titolo annunciava la pe culiarità del suo lavoro, nell’ormai lontano 1932. Era l’anno, per intenderci, di Les Vases communi cants di Breton e del Voyage au bout de la nuit di Céline. Anche se la Sarraute dovette attendere il dopoguerra — più esattamente il 1948, l’anno del la famosa prefazione di Jean-Paul Sartre a Portrait d’un inconnu — per uscire dalla clandestinità let teraria, da un paio di decenni è considerata come colei che sui due piani — della creazione, con i suoi testi, diciamo, narrativi e della teoria, con i saggi raccolti in L ’Ere du soupçon — ha gettato la basi del nouveau roman. Questo mio intervento sarebbe dunque tardivo se non volesse fermare l ’attenzione su un aspetto particolare dell’opera di Nathalie Sarraute, il suo teatro. E se, una volta riscontrata la continuità esi stente fra questo teatro e il resto della sua opera, non intendesse affermare l ’originalità, ancora da scoprire, di un contributo drammaturgico che una Nathalie Sarraute: « un dialogo costruito con parole sospese » critica più avvertita avrebbe dovuto inscrivere, pen so, alla punta della ricerca teatrale, insieme e non al di sotto di quelle condotte in Flancia da Beckett e Ionesco. Voglio dire che, mentre tanta parte dell’avan guardia teatrale s’accanisce a trasferire dal linguag gio al corporale, dal testo al gesto l’essenza del discorso drammaturgico, il teatro della Sarraute ri mane « teatro di parola »: tanto da essere stato destinato in origine al mezzo radiofonico. E non importa se il movimento drammatico nasce in que sto teatro — come si vedrà — dalla tensione, anzi dalla conflittualità tra la conversazione (intesa co me assemblage dei « luoghi comuni » del parlato quotidiano) e la sottoconversazione (considerata co me il terreno di coltura ideale dei tropismi). Dal lo sfacelo del linguaggio convenzionale (poiché si è avverata la previsione di Stendhal: Le génie du soupçon est venu au monde) nasce anche nella no man’s land del silenzio (e una delle pièces del la Sarraute s’intitola appunto Le Silence) un altro linguaggio, ricco di movenze drammatiche. Ë il «se condo linguaggio» che, premendo sotto la crosta del linguaggio impersonale, obbediente alle cate gorie logiche della vita di relazione, convenzionato col luogo comune, tende ad esprimere « quei mo vimenti elementari della psiche, effimeri e fuggi tivi, appena percettibili, contraddittori, evanescen ti, che pure sono alla base del comportamento de gli individui ». Con il che la psiche, non soltanto come convenzione teatrale, diventa, per gli stimoli che irradiano da questi testi, il « palcoscenico pri vato » di ogni singolo spettatore. E il teatro di parola rinasce dalla crisi della parola, spingendosi più avanti nella ricerca di codici di comunicazione non fallaci. I personaggi beckettiani di En attendant Godot parlano « per non dire nulla », sono condannati al la pena del parlare come dannati nell’Inferno dan tesco. I personaggi della Cantatrice chauve di Io nesco parlano per esorcizzare col vaniloquio la pau ra del silenzio e della morte. Quelli delle pièces di Nathalie Sarraute parlano anch’essi, apparentemen te, per « non dire », per mettersi al riparo dalle fredde verità ultime. Ma dalle crepe del muro di protezione del « linguaggio convenzionato » affio rano le radici del « secondo linguaggio »: ed essi finiscono, loro malgrado, per « trovare altro ». Basterebbero, ripeto, questi colpi di sonda ne gli spessori inesplorati della « sottoconversazione » per caratterizzare il dialogo teatrale messo a punto da Nathalie Sarraute come un contributo di prima importanza al rinnovamento del teatro di parola. Converrà riferirci, per cominciare, al diziona rio. La parola « Tropismo» non si trova finora, coi significati che ha assunto nella psicologia, nel la linguistica e in letteratura, nel monumentale di zionario dell ’Académie Française. Si trova invece, fin dal 1899, nell ’Oxford English Dictionnary, ma limitatamente alla biologia: e sta ad indicare il mo vimento di un organismo vivente, o di una sua parte, che sia provocato da uno stimolo esterno, con particolare riferimento al comportamento del le piante che si orientano in rapporto alla luce, alla forza di gravità, a procedimenti chimici. Dal greco xpenoj, girare, ha invece origine « tro po » primo o secondo elemento costitutivo di pa role composte del linguaggio scientifico indicanti una tendenza al rivolgimento, o una variazione di stato, ma anche figura retorica che, secondo il Littré, designerebbe « le cose che non hanno un nome », « i corpi, i colori e i suoni che sfuggono al dominio dei sensi ». Con Nathalie Sarraute (la cui biografia ci in forma che proprio ad Oxford sfogliò VEnglish Dic tionnary quando nel 1920-21, fra i diciotto e i di ciannove anni, vi andò a perfezionare il suo ingle se studiato in Sorbona) il « tropismo » entra in letteratura. Definisce i 19 brevi testi scritti fra il 1932 e il 1933, pubblicati nel 1939 da Denoël dopo essere stati rifiutati da Gallimard e Grasset, diventati 24 in una riedizione del 1957: racconti — o, meglio, anti-racconti — di tre o quattro pa gine in cui l’immagine si fa parola, la parola sen sazione, la sensazione osservazione, e così via. La passeggiata di un vecchio e di un bambino, l’esi stenza quotidiana degli abitanti delle piccole stra de dietro il Panthéon di Parigi, il ritratto di una donna senza età davanti al suo cottage a Londra, il bosco del pic-nic della domenica: niente di de terminato, di narrativamente concluso. Ma la regi strazione — con sensi attenti, con intelligenza acu ta — delle tensioni segrete, delle pulsioni istintive che sono all’origine della parola e del gesto, una tecnica della percezione che, nel suo esatto rigore, si fa poetica. « I tropismi — ha scritto nella pre fazione all’edizione inglese del libro — sono mo vimenti indefinibili che scivolano rapidissimamen te fino alle soglie della nostra coscienza; essi sono all’origine delle nostre parole, dei nostri gesti e dei sentimenti che manifestiamo, che siamo con vinti di provare e che riusciamo a definire... ». L ’immagine di una realtà minima, nascosta, or dinariamente inafferrabile, che si rivela soltanto a un’esplorazione attenta, come si fa in un laborato rio con il microscopio, torna più volte nelle defi nizioni della Sarraute. Da una conversazione in te desco del 1964 con François Bondy: « Si, sono movimenti impercettibili, vortici minuscoli che si producono in superficie... Questi movimenti non si manifestano mai direttamente, avvengono sem pre all’interno, e in superficie possono essere tut- t’al più indovinati sul filo delle nostre conversa zioni, o dei nostri atti, atti assolutamente usuali. A me interessava mostrare ciò che era nascosto die tro queste parole e queste azioni banali, rivelare l’esistenza di drammi microscopici ». Converrà ritenere quest’ultima espressione: « drammi microscopici ». Già quando tratta anco ra la sua materia in forma narrativa, prima ancora di scrivere per il teatro (Le Silence, prima pièce radiofonica viene dopo Les Fruits d’or, nel 1964) Nathalie Sarraute scopre che i tropismi presenta no, nell’impatto con la « vita di superficie », una conflittualità, eminentemente drammaturgica, movi mentano azioni drammatiche apparentemente inso spettabili. Da questo momento il passaggio dal ro-' manzo al teatro diventa in un certo senso logico, inevitabile. In Portrait d’un inconnu, pag. 92, le parole assumono ruoli drammaturgici, diventano perso naggi: « Ma le parole ci penetrano a nostra insapu ta, si conficcano dentro di noi e poi, talvolta a di stanza di tempo, bruscamente si drizzano in noi e ci obbligano a fermarci di colpo in mezzo a una strada, ci svegliano di soprassalto nella notte e ci costringono a sederci, inquieti, nel letto... ». In L’Ere du soupçon, pag. 103, lo stesso concetto, cristallizzato ■ in un’immagine ancora più scoperta- mente « teatrale »: « Quando le parole si presen tino sotto apparenze innocue, banali, possono esse re e, in effetti, sono sovente — senza che alcuno trovi a ridire alcunché, senza che la stessa vittima osi confessarlo a se stessa — l ’arma quotidiana, in sidiosa ed efficacissima, di innumerevoli piccoli crimini ». Nella conversazione citata con Bondy la Sar raute forniva altre precisazioni sulla sua ricerca: « Io mi interesso a questa sostanza umana nasco sta, e comune, e non a ciò che risulta al di fuori, in superficie, e che io chiamo l'inautentico... Penso che noi si viva in un’epoca in cui anche la scienza ci ha mostrato al microscopio ciò che è anonimo, infimo, simile... Le differenze esterne non hanno più lo stesso significato assoluto che avevano ai tempi di Balzac. Oggi noi preferiamo interessarci a fenomeni più profondi, meno grossolani... Dopo Freud, dopo Proust, diciamo pure dopo Dostoievski, noi non possiamo più credere ad esempio a quei ca ratteri nei quali Balzac credeva fermamente. Tutto ciò che noi sappiamo dell’uomo tende, oggi, verso l’anonimato. Noi sappiamo adesso che tutti gli uo mini, osservati a un certo livello, presentano i medesimi impulsi, sono esattamente gli stessi ». Così impostato, il discorso procede direttamen te da Dostoievski (il quale « ha scoperto che tutta una quantità di sentimenti e di azioni sconcertan ti, apparentemente anormali, si ritrovano allo sta to naturale in ogni individuo ») e si collega alla « rivoluzione letteraria » di Joyce e di Proust. L ’u no il « monologo interiore », l’altro l ’analisi raffi nata dei sentimenti; e in Nathalie Sarraute l’esplo razione, al di là dell’inautentico, della « sottocon versazione », alla ricerca dei tropismi. La carica innovatrice di questa demarche era già indicata nella prefazione di Sartre a Portrait d’un inconnu. Erano pagine che non soltanto da vano la prima interpretazione fondamentalmente esatta dell’universo letterario di Nathalie Sarraute (nozioni dell’inautenticità e del luogo comune, vi sione protoplasmatica del subcosciente umano, mi crorealismo dell’analisi, e così via) ma fornivano gli strumenti di indagine per un approccio, attraverso l’opera della scrittrice, al nouveau román. « Si trat ta — scriveva Sartre — di contestare il romanzo con i suoi stessi mezzi, di distruggerlo sotto i no stri occhi mentre si dà l’impressione di edificarlo, di comporre il romanzo di un romanzo che non si costruisce, che non si può costruire. Di realizzare una finzione che stia alle grandi opere composte da Dostoievski e da Meredith come la tela di Miro intitolata ‘Assassinio della pittura' sta ai quadri di Rembrandt e di Rubens... ». Certi aspetti della lettura sartriana della Sar raute — sia detto per inciso — non hanno resi stito ad una più attenta analisi. Per esempio, la natura antinómica della sua opera rispetto al ro manzo tradizionale è stata rimessa in discussione dalla stessa Sarraute (« Non mi pare di scrivere degli anti-romanzi. E questo perché non esiste una forma predeterminata del romanzo. Non esistono degli anti-romanzi, esistono soltanto dei romanzi. La definizione attribuita da Sartre ai miei lavori dipende dall’idea particolare che Sartre si era fatta di ciò che dev’essere un romanzo »). La Sarraute era invece d’accordo con Sartre nel ritenere che la propria opera fosse fondamen talmente realista (« Per me ciò che descrivo è la realtà, quella che esiste al di là delle apparenze »). Ma la critica sarrautiana più avvertita ha messo in discussione, più recentemente, il carattere realisti co di quest’opera, muovendo da alcune osservazio ni che formulava già nel 1962 (in Le Mercure de France) Gerda Zeltner: « Con le sue digressioni psico-antropologiche la prefazione di Sartre ha trop po insistito, fin dal principio, sull’aspetto esclusi vamente realistico, scientifico del libro. Da allora... non si è esitato a classificare l ’opera nella catego ria del romanzo sperimentale, sottolineando non so bene quali suoi lati scientifici e razionali; e la si è allontanata grado a grado dalle regioni della poesia per confinarla nei territori della prosa rea lista e psicologica ». Mentre, se è vero che nel mo strarci l ’individuo nella sua disarmata, demistificata banalità quotidiana la Sarraute, senza dubbio, « fa del realismo, in certi casi addirittura atroce », è altrettanto vero che nella sua pagina, in contrap punto talvolta ironico con questa realtà, la sua immaginazione tesse la trama di « una irrealtà più vera del mondo positivo, quell’irrealtà che si usa anche chiamare poesia ». Con queste avvertenze, e tenuto conto che sono andati precisandosi, posteriormente, gli elementi che distinguono la Sarraute dagli altri rappresen tanti del nouveau román come Robbe-Grillet, Bu- tor o Simon (in comune hanno fondamentalmente il rifiuto del « carattere », del « personaggio » e della « trama » del romanzo tradizionale, ma nella Sarraute i movimenti interni dei tropismi sono vi- Nathalie Sarraute con il padre a Ivanovo-Voznessensk sti « obiettivamente », mentre negli altri prevale la « soggettività » del mondo esteriore), la prefa zione di Sartre a Portrait d’un Inconnu resta un testo fondamentale per la comprensione dell’uni verso sarrautiano. « Nathalie Sarraute, — notava Sartre già nel ’48 -— ha una visione protoplasmatica del nostro mondo interiore: spostate la pietra del luogo co mune e vi troverete delle colate, delle bave, delle secrezioni mucose, dei movimenti esitanti, ameboi di. Il suo vocabolario è di una ricchezza incompa rabile nel suggerire le lente reptazioni centrifughe di questi liquidi vischiosi, e animati... Un uomo, per lei, non è un carattere, né una storia, e nep pure una trama di abitudini: è l ’andirivieni inces sante, e flaccido, fra il particolare e il generale... Il meglio di Nathalie Sarraute è il suo stile ince spicante, esitante, limpido nelle sue esitazioni, che s’avvicina all’oggetto con fervore e precauzione, o se ne allontana per una sorta di pudore o di timi dezza davanti alla complessità delle cose; e che alla fine ci consegna il mostro con le sue bave, ma senza averne l ’aria, per magica virtù di un’im magine. Significa fare, in tal modo, della psicolo gia? Ammiratrice di Dostoievski, forse Nathalie Sarraute vorrebbe farcelo credere. Per mio conto, penso che lasciando intravedere una autenticità inaf ferrabile delle cose, indicando questo incessante an dirivieni dal particolare al generale, impegnandosi a dipingere il mondo rassicurante e desolato del l ’inautentico, è riuscita a mettere a punto una tec nica che consente di approdare, al di là del dato psicologico, alla realtà umana nel suo stesso esi stere ». Si noterà, ai fini del discorso specifico che ci in teressa, come anche Sartre, prima degli altri ese geti, assegnava al tropismo — questo corpuscolo della realtà psicologica osservato al microscopio — un ruolo che definirei di dramatis persona. L ’ana lisi diventa spettacolo: un concetto sul quale avreb be insistito dieci anni dopo, in un’analisi sulla Nou velle Revue Française, Yvon Bélaval: « I Tro pismes sono altrettante proposte di spettacolo... Spettacolo, a prima vista, di nessun interesse: tut ti questi animali-robots si spostano impercettibil mente, schiamazzano con monotonia, mimano l’u sura del quotidiano... L ’interesse dello spettacolo, appunto, è che non presenta alcun interesse: ma la coscienza, che vorrebbe allontanarsene, nel ten tativo di ignorarlo resta presa al laccio. Il mondo di Nathalie Sarraute è un mondo che disturba, do ve attendi di continuo che ‘la cosa' passi: una vi sita, una conversazione, il giorno, la notte, il ma- lessere. Se gli uomini, in tal modo, appaiono co me robots è perché, l ’occhio e il sorriso irrigiditi da una cortese indifferenza, li si osserva soltanto nel loro indietreggiare, nel loro dissolversi. La molla del loro meccanismo interno è nell’enorme tensione di chi, come suol dirsi, vorrebbe ucciderli, perché lo disturbano. Essi esprimono con gesti privi di vita, con discorsi inerti questo impedi mento a creare delle parole viventi, che la loro pre senza sembrerebbe stimolare. Creare! Un altro tro pismo, un andare cieco, ostinato verso non sai qua le chiarore dal quale non ci si vuole staccare; que ste sottoconversazioni che impediscono di sentire i discorsi di superficie, questo interesse spasmodico per un qualcosa che deve accadere e che rende ininteressante tutto il resto... Nathalie Sarraute •— concludeva Yvon Belava! — ha scelto come tema del suo lavoro la creazione allo stato nascente »: e con questa analisi del suo procedere come un’in chiesta (come un’inchiesta poliziesca di palcosceni co, verrebbe voglia di dire semplificando; salvo che l ’autore-detective — anche questo l ’aveva già osservato Sartre — dopo aver proceduto come Agatha Christie, sul punto di smascherare il colpe vole, si confondeva con il colpevole...), Abbozzava una metafora drammatica, dava conto a sua volta della « teatralità » dell’investigazione sarrautiana. La tecnica — anzi, la poetica, di Nathalie Sar raute è stata elaborata in quarant’anni di personali, tenaci e solitarie ricerche, nell’arco di tempo che va dalla stesura dei primi Tropismes (1932, si è det to; anche se la stampa sarà ritardata al ’39) alla pubblicazione di Vous les entendez? (1973). Nel l’insieme, un’opera straordinariamente coerente, ma non folta: sei romanzi; una raccolta di saggi (L ’Ere du soupçon, 1956: quattro studi su Dostoievski e Kafka, il romanzo del XIX secolo, l’analisi inte riore avviata da Proust, l ’opposizione fra « reali sti » e « formalisti »; nell’insieme le « Tavole del la Legge » del Nuovo Romanzo); cinque testi tea trali (dell’ultimo, appena presentato al Plateau Beaubourg di Parigi con la regia di Claude Régy, non abbiamo ancora notizie dirette in Italia) ed alcuni scritti critici pubblicati su Temps Modernes, la N.R.F., Tel Quel, Esprit o riviste straniere. Siccome il nostro discorso verte principalmen te sul teatro della Sarraute, basteranno pochi, es senziali riferimenti alla sua produzione narrativa madre, padre e nonni in Francia, in Russia, in Sviz zera e in Inghilterra; studentessa in lettere, lingue, storia, sociologia e diritto a Parigi, Oxford e Ber lino, Nathalie Sarraute diventa francese, e si fissa a Parigi, nel 1925, dopo il matrimonio con l ’av vocato Raymond Sarraute, suo compagno di studi alla Facoltà di Legge; esercita la professione foren se per una dozzina di anni, fra il 1927 e il 1933 è madre di tre figlie, comincia a scrivere nel ’32, al terna soggiorni in campagna alla vita parigina, viag gia all’estero, si tiene lontana dagli ambienti lette rari. E non c’è altro. Da questa biografia « in grigio » si è tentati di isolare la parte di un’infanzia e di una giovinezza sradicate, nel giro di affetti spezzati, vicende poli tiche che hanno interferito nella sua storia fami liare, intense avventure interiori. Quando la Sar raute s’interroga sull’ambiguità dei rapporti fra gli uomini (Ou’ont-ils tous à tricher?), quando con stata che « l’occhiata più fuggevole illumina più di tutti i libri della terra su ciò che è nascosto dietro le maschere », attinge probabilmente ai ri cordi della sua estraneità infantile. Come se si ri trovasse oltre gli specchi (non sempre limpidi) di Alice nel Paese delle Meraviglie. Precoce viaggiatrice adolescente fra i paesi e gli affetti, Nathalie Sarraute osservava già, ascoltava già. Voleva andare « oltre gli specchi ». Ha con tinuato ad osservare e ad ascoltare finché ha po tuto rispondere (inquisitrice, ma colpevole e vit tima ad un tempo, come tutti) a quella lontana domanda conficcata nella memoria: « Perché, per ché questo imbroglio generale? ». Tropismes è stato il suo Discorso del Metodo. Pagine di solfeggio per impadronirsi di un linguag gio adeguato ad esprimere ciò che aveva intuito. Nove anni dopo (1948) esce Portrait d’un Inconnu, da Sartre definito — l’abbiamo visto — anti-ro- manzo: è l’investigazione tatonnante, a zig-zag, che il narratore conduce sui rapporti fra un vecchio padre avaro, apparentemente ricalcato sulle stesse convenzioni dei personaggi balzachiani, e sua figlia, combattuta fra sottomissione e rivolta; finché, col fidanzamento della ragazza con un Monsieur Tout- le-monde, tutto « rientra nell’ordine ». Il mondo rassicurante delle convenzioni riprende il soprav vento sui drammi minuscoli captati fra le crepe di quelle esistenze banali. Martereau (1953) approfondisce il tema del l’intrusione dei tropismi, delle piccole verità na scoste dietro le apparenze, nell’esistenza di un « per sonaggio » che, visto dall’esterno, aderisce agli schemi psicologici convenzionali. Ma è sufficiente che Martereau, questo « personaggio », sia coin- e saggistica. Neppure sarà il caso di soffermarci sui dati biografici, non foss’altro per corrispondere al l’invito della scrittrice, di considerare l’individuo in questo caso l’autore — non attraverso le vicen de esteriori della sua « storia », non privilegiando gli aspetti del suo comportamento sociale (maschere che lo atteggiano a personaggio, queste) ma badan do a quella sostanza anonima e segreta, come una linfa del suo vero essere, che i tropismi esprimono. Nata in Russia, a Ivanovo, nel 1902; figlia di una coppia di intellettuali benestanti, che divor ziano quando lei aveva pochi anni; sballottata fra volto in una vicenda apparentemente banale — l ’acquisto di una proprietà, che lo mette in opposi zione con la famiglia cui appartiene il narratore — perché la sua sostanza « compatta e stabile » s’in crini, e tutto di lui venga messo in discussione, fino alla disintegrazione, nell’incalzare dei tropismi che l ’hanno stretto d’assedio, come una muta di cani. Le Planétarium (1959; e intanto c’era stato L ’Ere du soupçon) riduce ancora lo spazio dell’a neddoto, costituito dal tenace tentativo di una cop pia usa alle buone maniere borghesi, Alain e G i sèle, di occupare l ’appartamento della vecchia zia Berthe. Si amplifica, viceversa, il movimento di ricerca delle motivazioni — dei tropismi — che per vie sotterranee, come in un perpetuo accaval larsi di correnti, determinano i comportamenti del la vecchia e della giovane coppia. Senza tempi fer mi nell’analisi, tanto che di Le Planétarium si è parlato come di «una creazione allo stato nascente». Les Fruits d’Or (1963, Premio Internazionale di Letteratura Formentor) innova per l ’abolizione del benché minimo intreccio e per l’assenza asso luta di personaggi, e procede in uno stile più asciut to, scattante, dialogato dei precedenti « romanzi ». Il soggetto è un romanzo, Les Fruits d’Or, intorno al quale si coagulano le reazioni di quanti l’apprez zano o lo detestano. Una parlerie fra intellettuali che non scade, però, nell’indagine bozzettistica sui costumi della società letteraria, ma smonta col con sueto rigore i meccanismi della comunicazione, «fru gando nelle zone d’ombra della Parola », sondan do le regioni astratte del linguaggio. F.ntre la vie et la mort (1968) riprende il tema della creazione letteraria, non più intorno al libro- oggetto come in Les Fruits d’Or ma nella coscienza stessa dello scrittore, con movenze apparentemente autobiografiche, in realtà in un intreccio folto, ine stricabile di vissuto, di virtuale, di possibile. Il « combattimento » con la pagina bianca si identi- fica, in un giuoco fitto di rimandi, con la batta glia stessa per la vita, nell’ora in cui già s’allunga no le ombre del crepuscolo dell’esistenza: donde il carattere teso, sofferto di questo lungo « mono logo interiore ». Ultimo dei romanzi, Vous les entendez? (1972) è costruito anch’esso intorno ad un episodio insi gnificante. In una casa di campagna, sul ripiano del camino troneggia una scultura in pietra, raffigu rante rozzamente un animale mitologico. Un og getto privo di valore, come sostiene il padrone di casa, oppure un « pezzo da museo », come affer ma un amico di famiglia « che se ne intende »? La discussione sul valore della scultura si fa ser rata, diventa disputa, finisce per provocare - - se condo un « crescendo » dialogico che la Sarraute sa orchestrare alla perfezione — un malessere qua si insopportabile quando uno dei bambini che assi stono allo scontro verbale degli adulti, forse per mettere in mostra le sue cognizioni scolastiche, af ferma che « la si direbbe una scultura cretese ». Poi i bambini vanno a dormire nella loro camera al piano di sopra, e gli adulti li sentono ridere, e ancora frastornati per la discussione s’interrogano su quelle risate, non si sa se innocenti o sfrontate, se di scherno o di eccitazione infantile. Eccoli presi in trappola, come insetti, nella ragnatela di quelle risate, improvvisamente indifesi, nudi, derubati del le loro certezze, dei loro « valori », superstiti di un mondo che sta per crollare intorno a loro. An che qui, dalla parlerie al dramma. L ’infinitamente piccolo che può produrre (dopo, l’ordine ristabi lito sarà precario) una catastrofe incalcolabile. Analizzando la struttura di Vous les entendez? Maurice Nadeau sottolineava, a sua volta, la « tea tralità » degli effetti che sa ricavare la Sarraute. « Il modo di procedere dell’autrice — scriveva in La Quinzaine littéraire — è evidente: seguire fino in fondo uno stimolo dell’immaginazione e mate rializzarlo, per così dire, sotto i nostri occhi fino a farne uno spettacolo completo, con una sua trama, dei personaggi, un epilogo e infiniti prolungamen ti. Senonché questo stimolo, ordinariamente, at traversa come un lampo lo spirito senza che gli si presti attenzione, senza andare oltre lo steccato del la parola; e tanto più drammatico appare, fertile di colpi di scena, deprimente o esaltante (fino alla mania, all’idea fissa) quanto più è spinta la facoltà di trattare la realtà come un’illusione ». immaginare, di drammatizzare, di La Sarraute con Alain Robbe-Grillet, Michel Butor e Claude Simon (foto Editions de minuit) Con questi rudimenti di analisi eccoci arrivati alle soglie del teatro di Nathalie Sarraute. Come nei romanzi, in questo teatro non c’è intreccio, al più è definita una situazione usuale, un aneddoto di partenza al limite della banalità. La tensione drammatica che si sviluppa fra i poli della realtà convenzionata e dei tropismi in movimento trova l’elemento conduttore in una « ritmica » della con versazione (della sottoconversazione) così precisa che sembra regolata dal metronomo, e complessa nel suo andamento apparentemente lineare. La parola svalutata, la frase tronca del parlato quotidiano sono, più che nei romanzi, i materiali prescelti per costruire psicodrammi minimi, che vengono però ingigantiti o amplificati al limite del sopportabile, a seconda che lo strumento della rap presentazione sia la scena o, più spesso, il mezzo radiofonico. Mentre in Pirandello il parlato quotidiano s’in quadrava, con rigore logico incalzante, nell’affan nosa dialettica di una filosofia esistenziale, mentre in Beckett sbocca nell’inquieta e inquietante inter rogazione metafisica e in Ionesco si dissolve, in echi distorti, nei labirinti dell’assurdo, nella Sar raute esso trova, ben oltre gli scontri verbali dei « Personaggi » (che sono, più propriamente, Intel ligenze o Coscienze in azione) un riscontro e una risonanza insospettati nell’«universalità» degli istin ti, dei sentimenti e delle passioni che finiscono sempre per salire in superficie, come bolle d’aria, a comporre un tessuto di relazioni psichiche, intel lettuali, affettive ben più solido della crosta delle convenzioni sociali. « Quando scrivo per il teatro — mi diceva Na thalie Sarraute, durante una nostra conversazione per mettere a punto la traduzione in italiano delle sue pièces, che mi accingevo a fare nel ’71 — devo tener conto di alcuni accorgimenti particolari. In un romanzo dispongo di tutta una serie di mezzi per preparare il lettore ad ‘ascoltare' i dialoghi. Nel teatro è diverso; esiste soltanto il dialogo, con scarse sottolineature di interpretazione, senza l ’ap poggio delle immagini. Esiste soltanto il dialogo che, in bocca agli attori, fatalmente si amplifica, di venta corposo, assoluto. Per esprimere nel teatro ciò che mi preme devo dunque mettere a punto un tipo di conversazione che non sommerga, con la sua invadenza, le zone della sottoconversazione, che lasci degli spazi perché questa possa emergere: dunque un dialogo costruito con parole sospese, frasi non concluse. Se le parole avessero tutte un significato ’definitivo’, se le frasi fossero ’conclu se’ come sentenze, mi ritroverei nel vecchio tea tro di convenzione, ideologico, o didattico, o di costume, o di evasione. Il lavoro che il regista de ve compiere partendo dai miei testi consiste invece nello sforzo di prolungare nello spettatore il sen timento di partecipare alla ricerca di verità nascoste dietro l ’inautenticità del rapporto quotidiano, ve rità minime ma fondamentali che si trovano sotto i luoghi comuni delle conversazioni correnti; e per gli attori si tratta di dare alla parola sospesa, alla frase non conclusa la giusta coloritura che faccia sentire, starei per dire che renda 'visibile’, la sen sazione allo stato nascente. Gradualmente, lo spet tatore dev’essere indotto a identificarsi con l’attore, a sostituirsi a colui che parla sulla scena, perché in fondo questi non fa che esprimere quel che può sentire ogni uomo, senza distinzione di classe so ciale o di livello di cultura. Queste indicazioni di interpretazione e di regia continuano ad essere preziose, mi pare, anche per una definizione basica di questo teatro, che è in telligenza analitica in azione, sensibilità applicata all’esplorazione dei movimenti più segreti della psi che. Attraverso i diversi movimenti drammatici dai quali prende l’avvio la pièce, lo scopo è unico. Si tratta di convincere lo spettatore, o l’ascoltatore, che ciò che dicono gli attori non è il vero soggetto della conversazione, che il terreno dove si svolgono gli incontri e gli scontri delle coscienze è situato ad altro livello. Claude Régy, che è senza dubbio l’interprete più rigoroso e fedele del teatro della Sarraute, è riuscito ad ottenere questo risultato graduando nel lo spazio-tempo della pièce il tono della conversa zione, introducendola come una banale parlerie, con svolazzi di futilità, per poi costringerla nello schema di un’inchiesta spietata, di uno scontro ver bale via via sempre più intransigente, anzi crudele, fino alla caduta di tensione finale. Dopo di che il dramma sopravvive nello spettatore — nell’ascol tatore — come sottile dérangement interiore, come vago malessere. L ’odore acre del fumo quando l’in cendio è spento. L ’autrice stessa ci avvertiva, nello stralcio di quel colloquio del 1971, che il passaggio dal testo scritto per essere letto al testo destinato all’ascolto non è stato semplice. E ciò nonostante l’« udibi lità » dei dialoghi dei suoi romanzi, e le analogie strutturali fra la sua opera narrativa e le sue piè- ces di teatro. Nel teatro le due trame, della con versazione e della sottoconversazione, sono neces sariamente più grosse; i conflitti fra luoghi comu ni e tropismi sono più lenti, come proiettati al ral lentatore su uno schermo che li ingigantisce. Come ha scritto René Micha, nel suo studio sulla Sarraute, « il corpo di Gulliver copre la scena; mille, dieci mila tropismi lo pungono e l’attaccano, ma l ’assalto è condotto da una moltitudine che ha un’idea sola, un solo obiettivo ». Dove Gulliver è lo stesso spet tatore-ascoltatore, giusto quanto Cesare Pavese (che la Sarraute mi citava in quel colloquio) scriveva nel Mestiere di vivere-, « L ’arte moderna, che sembra ignorare la trama, sostituisce semplicemente alla tra ma ingenua delle piccole vicende una sottile miria de di eventi interiori dove ai personaggi si sosti tuisce un solo personaggio che può essere ognuno di noi... ». Nathalie Sarraute ha destinato inizialmente il suo teatro al mezzo radiofonico. Teatro di ascolto, che non ha bisogno di immagini; un genere colti vato poco in Francia ma che ha avuto momenti di splendore in Germania, in Gran Bretagna, in certi Paesi dell’Est, in Scandinavia. In Francia il dram maturgo che ha dedicato maggiore attenzione alla radio è stato Jean Tardieu, con i brevi testi poe tici del suo Théâtre de Chambre e dei suoi Poè mes à jouer : essenzialmente, esercitazioni di lin guaggio per. cercare nuovi « rapporti armonici » fra le parole, come nelle partizioni orchestrali, e cosi riscattarle dalla sclerosi del discorso quotidia no. Tardieu — il cui teatro è stato scoperto sol tanto in questi ultimi anni in Italia grazie al la voro di traduttore di Morteo — ha fondato un Centro studi sul linguaggio radiofonico e, cronolo gicamente, ha anticipato le ricerche di qualche au tore che non ha disdegnato di scrivere per la ra dio, come Samuel Beckett, Marguerite Duras, Ro bert Pinget. Il lavoro di Nathalie Sarraute si ricollega, in questo campo, a quello di Tardieu e degli altri au tori citati: ma mentre essi affidavano alla Parola, sul palcoscenico ideale dell’etere, il ruolo di prota gonista assoluta, l ’autrice di Les Fruits d’or asse gna la funzione privilegiata di dramatis persona al Tropismo, e alla Parola attribuisce la parte deter minante sì, ma non principale, di annunciatrice del la presenza nascosta di quello. Il suo primo testo teatrale, Le Silence, è sta to radiodiffuso in Francia dopo essere stato pubbli cato sul Mercure de France, nel febbraio del 1964, ed essere stato trasmesso per la prima volta dalla Sud-deutscher Pundfunk. L ’idea era di provare l’elo quenza del silenzio. Meglio, di provocare una ten sione drammatica propizia al manifestarsi dei tro pismi opponendo qualcuno che parla troppo a qualcuno che è muto. Intorno, l ’heideggeriana par lerie, un coro di voci che stimola l ’eloquenza del l’uno e il mutismo dell’altro. Siamo in un salotto mondano, luogo di elezione dei microdrammi sarrautiani. Tre uomini (fra cui Jean-Pierre, colui che tace) e quattro donne (una, più giovane, sarà colei che « denuncia » l’insop portabilità del silenzio di Jean-Pierre) futilmente discutono. Sono persone di estrazione borghese, più sofisticate che intelligenti. Un uomo, allineando dei cliches, racconta un suo viaggio in un paese non definito. Gli altri partecipano con domande di pu ra cortesia, commenti, qualche esclamazione. Sol tanto Jean-Pierre resta silenzioso, con un’ostinazio ne che diventa via via più evidente, che incurio sisce, poi inquieta e alla fine sembra inopportuna, anzi offensiva. L ’impressione generale, insosteni bile, è che Jean-Pierre manipoli il suo silenzio ■— di cui non si sa se esprime indifferenza, disaccordo, arroganza, disprezzo — come un terrorista maneg- gerebbe un ordigno esplosivo. « Questo silenzio è come una rete, una verti gine..., — commenta uno degli invitati. — Mi sento svuotato, come se questo silenzio mi privas se di ogni forza... ». Il mutismo di Jean-Pierre fa sbandare la conversazione, demolisce la cordialità di facciata dei convitati. È un varco, una voragine che bisogna colmare a tutti i costi. Mentre il di scorso « di primo grado » va in frantumi, la sot toconversazione — l’insieme delle cose percepite, ma non dette — emerge strisciante da quel silen zio, se ne nutre interpretandolo con ipotesi varie, inquietanti. Finché Jean-Pierre si decide a parlare, su un argomento preciso, cioè banale; il silenzio si dissolve come un incubo ai chiarori dell’alba (si pensi alle ultime sequenze àe\Y Angelo stermina tore di Buñuel) e tutto, apparentemente, rientra nell’ordine. Resta nell’aria (per il resto della se rata? più a lungo?) il sentimento di una tragedia evitata per miracolo. La situazione di partenza è identica nel secon do testo teatrale, Le Mensogne, scritto nel 1965. Anche qui un salotto, una conversazione fra gente di mondo. Il ruolo di detonatore che nel Silenzio aveva l’enigmatico Jean-Pierre tocca, ne La Men zogna, all’estroverso Pierre, un giovanotto che ha la smania della verità, che si picca di non poter soffrire omissioni, inesattezze, ipocrisie. Nel corso di un’altra serata mondana, racconta Pierre, ha smascherato una ricca signora che, futile e ingioiel lata, s’era lamentata degli aumenti delle tariffe dei trasporti urbani, per dare a credere che fosse sul l’orlo della miseria e mendicare un po’ di commi serazione. Gli altri ammirano Pierre per la sua fran chezza, o ‘"osi dicono. In realtà lo temono Tanto più che questo « gioco della verità », se soddisfa l’orgoglio del giovanotto, presenta i suoi inconve nienti; e lo si vede quando i convitati scoprono che anche Simone, una delle donne del gruppo, manifestamente mente. Una bugia insignificante, intendiamoci; più che altro una inesattezza. Simo ne si riferisce a un ricordo che è un falso ricordo, inventato non si sa bene perché, per vanità, per gioco. Ma siccome Pierre, per coerenza col rigore proclamato prima, esige dalla donna la confessio ne del piccolo inganno, la rettifica della minuscola bugia, e quasi è disposto alla violenza pur di co stringere la recalcitrante Simone a fare ammenda, la tranquilla serata mondana si trasforma in una sorta di tribunale dellTnquisizione. Quando final- A Chérence nel 1950 mente, al limite del sopportabile, il « gioco della verità », per motivi di decenza sociale, si con clude, Pierre si trova ad annaspare sulle onde di un malessere che continuerà a percepire anche quan do gli altri avranno ripreso i loro futili discorsi. E si riaccosterà, ironico, alla sua vittima, a Simone, che nel frattempo ha ammesso di « aver voluto scherzare ». Pierre: « Visto? Ha voluto scherzare. Contenti? Erano divertenti e, Simone, quando si sono buttati sulla sua frase... I loro sospiri di sol lievo... Le loro piccole risate, i loro grugniti di piacere... ». Nel 1967, poco prima della grande fiammata del Maggio 1968, Madeleine Renaud e Jean-Louis 1962: con lo scrittore Victor Nekrassov Barrault hanno prescelto Le Silence e Le Menzogne per l ’inaugurazione del Petit Odèon, a Parigi. Di mostrando che la sottoconversazione sarrautiana « passava » benissimo anche sul palcoscenico per ché, priva di movimenti esteriori, era straordina riamente ricca di spunti drammatici, assumeva la plastica solennità del rituale scenico della confes sione. Successivamente Nathalie Sarraute ha scritto an cora Isma, ou Ce qui s’appelle rien e C’est beau. Il primo, radiodiffuso in Germania nel 1970, è sta to portato sulla scena delì’Espace Cardin di Parigi nel 1973 con la regia di Claude Régy. Il secondo è stato pubblicato nel 1973 sui Cahiers Renaud- Barrault ed è stato poi radiodiffuso in diversi Pae si europei. Il tema di Isma è crudele: la conversazione co me linciaggio. Una volta di più abbiamo la parlerie-, otto persone, quattro uomini e quattro donne, tra scorrono il dopo-cena parlando del più e del meno, in attesa di rientrare a casa. Come succede spesso in questi casi si scorticano gli assenti: i Dubuit. L ’impressione generale è che i Dubuit provochino con la loro presenza una sensazione di disagio. Perché? Di frase in frase, di supposizione in sup posizione, si arriva al limite della diffamazione. Co sì sembra, per lo meno, a uno degli invitati, il quale si sottrae al gioco. Imbarazzati, i convitati tornano allora al ping-pong dei luoghi comuni, s’ag grappano a una discussione di argomento lettera rio. Ma ormai i Dubuit sono nel pensiero di tutti, con la loro « colpa oscura ». Impossibile ignorarli, e i padroni di casa rilanciano il discorso. Perché, chiedono, questo bispgno di infierire contro di lo ro, di rifiutarli, di estrometterli? L ’antipatia? Trop po semplice. Il rancore? Qualcosa di più profondo. Certe squallide storie, forse, che circolano sulla lo ro avarizia? L ’ambigua condiscendenza con cui a- scoltano gli altri? Il servilismo di Monsieur Dubuit, lo sguardo ipocrita della moglie? Il sospetto che abbiano sulla coscienza un delitto? fonetica » I convitati scavano come talpe alla ricerca del l’introvabile causa della loro repulsione per i Du buit. E finalmente, finalmente i padroni di casa trovano. Tutto viene dal modo con cui il Dubuit pronuncia certe parole, quelle con la desinenza in ismo. Le storpia; dice strutturai isma, esistenzia- \isma, capitai isma. Intollerabile. Apparentemente, « quel che si dice niente ». Invece i meccanismi della repulsione si mettono in moto proprio per quest’« aggressione infinitesimale, che condanna Dubuit, e con lui la moglie, ad essere messo al bando, come uno straniero. È l ’eterna cac cia agli ebrei che ricomincia. Le otto eccellenti per sone riunite in salotto non sono lontane dal rite nere che Dubuit potrebb’essere giustamente con dannato alla prigione, giustiziato. Come quei minu tissimi pesci che a migliaia, in voraci colonie, s’ac caniscono contro una carogna, e la spolpano aspor tando ogni volta particelle di carne, alla fine del loro gioco apparentemente innocente i convitati abbandonano i Dubuit — le carcasse dei Dubuit — al loro destino. Dramma, farsa? L ’uno e l’altra, in un clima inquietante cui impennate di humour di taglio anglosassone, alla Pinter, aggiungono venatu re satiriche. Nella sua brevità essenziale C’est beau è un cesto riassuntivo delle caratteristiche e delle quali tà del teatro della Sarraute. Per il tema — quasi sottinteso, ma centrale — che affronta (il conflit to fra le generazioni, i tropismi che filtrano attra verso le griglie delle età) può essere accostato a Vous les intendez?, nel quale la Sarraute metteva a confronto adulti e bambini. Stavolta si fronteggiano una coppia di intellet tuali, marito e moglie, e il loro figlio, studente. Lui è appena rientrato con un’incisione, opera di un noto artista, e sollecita il giudizio della moglie. « Bello, no? ». L ’adesione della moglie è tiepida e il figlio, presente alla scena, sa perché. Sua ma dre, proclama, ha paura di pronunciare quella pa rola, « bello », in sua presenza. Non è questo il linguaggio che piace al ragazzo, e lei lo sa; inoltre un innocente confronto estetico come questo tor menterebbe il padre, sempre pronto a chiedersi se quel suo figlio appassionato di fumetti, attaccato al juke-box, avrà mai il senso del bello. Quando però il figlio ha spiegato, aggressivo e innocente, la ragione dell’esitazione della madre, è troppo tardi per fare macchina indietro. Il padre, infuriato, spedisce il ragazzo nella sua camera, la madre prende le sue difese e fra marito e moglie comincia un’astiosa discussione nel corso della qua le — tropismi in libertà — affiorano accuse, dub bi, paure. L ’amore possessivo per il figlio, l’ambi zione di educarlo « meglio degli altri », il timore che diventi un mediocre li spingono a imbastire un vero e proprio processo, con testi a difesa e testi a carico, lui in veste di pubblico ministero, lei in quella di avvocato difensore. In realtà, il rifiuto del ragazzo di sottostare al loro linguaggio esteti co, quando si era trattato di giudicare l’incisione portata a casa dal padre, aveva scardinato il prin cipio di autorità, aperto l’eterno conflitto fra adul ti e giovani: ed è la restaurazione di questi valori « sacrosanti » che il padre vorrebbe realizzare ad ogni costo, sotto pretesto di giudicare l’intelligen za e la sensibilità del figlio. Per cui, anche quando alla fine l’equivoco e i timori cadranno, perché il ragazzo — a modo suo, nel gergo della sua ge nerazione, dicendo « mica male » anziché « bello » — saprà dimostrare che non manca di senso este tico, resterà come il senso di una lacerazione: il padre diminuito nella sua autorità, la madre smar rita in una sua solitudine e il figlio chiuso in se stesso, autonomo, fatalmente indipendente. Una fes sura o una « muraglia cinese » fra le generazioni? La piccola pièce esplosiva della Sarraute sottinten de questo interrogativo. le L’esposizione, sia pure sommaria, dei temi del le pièces della Sarraute ha messo in luce, penso, la « circolarità » della struttura drammaturgica pre scelta. Dopo l ’azione drammatica — che è, l’ab biamo visto, tutta sotterranea, rivelata a sprazzi at traverso lacerazioni praticate nell’inautentico dell’esistenza quotidiana — la situazione ritrova lo stato di immobilità iniziale. Per dirla con Sartre: « il n’arrive jamais rien. D ’un commuti accord, les ìnterlocuteurs tirent sur cette défaillance passagèrt le rideau de la généralité ». Cala la tela, finita la commedia. Eppure, dopo, nulla sarà come prima. Lo spettatore ha il sospetto — e tanto basta — che, calato il sipario, dall’altra parte « lo spettaco lo continua ». Spettacolo d’ombre, di larve. L ’invenzione drammaturgica della Sarraute è nell’avere immagi nato la lotta continua, che non avrà mai fine, fra la Parola e il suo doppio. Impresa difficile, teme raria: chi sa se il linguaggio convenzionale, la pa rola usuale non siano stati concepiti per nasconde re l ’altro linguaggio, l’altra parola? E se l’inauten ticità del linguaggio di comunicazione fosse lo scher mo inventato per proteggerci dalle meduse che si muovono nelle regioni del subcosciente? Portati alla luce del discorso diretto, forse dei tropismi non resterebbe nulla. Di qui la prudenza della Sarraute, la sua accortezza nel non esporli mai, dopo averli faticosamente reperiti, al rischio del dissolvimento. La frase cauta, reticente, frasta gliata di zone d’ombra vuole proteggere la fragile sostanza attinta nel pozzo oscuro dove fermenta l’inespresso. L ’epopea del tropismo, la sua batta glia contro l’inautentico ha bisogno, per essere vit toriosa, di precauzioni infinite. La drammaturgia di Nathalie Sarraute è un disegno su carta millime trata. Ma siccome è una drammaturgia nutrita di attenzione, sensibilità, passione per la verità e sim patia umana, non si limita a distillare fredde alchi mie. Essa arriva, come diceva Paul Klee della vera opera d’arte, « non a riprodurre il visibile, ma a rendere visibile ». Da una materia antipoetica co me l’inautentico quotidiano ricava poesia, sulle ro vine dell’antiteatro costruisce un nuovo teatro che s’accampa sul più grande palcoscenico del mondo, quello della nostra interiorità. Il te a t r o d i G ia n c a r lo S e p e L a s c e n a c o m e d i s p o s i z i o n e a l P i m m a g i n e A voler essere veramente seri non sarebbe pos sibile fare una distinzione tra un teatro dell’imma gine (meglio « teatro-immagine », come qualcuno l’ha voluto definire) e teatro della parola (anche in questo caso si dovrebbe dire, più esattamente, «tea tro di parola »). Il teatro possiede, per sua defini zione, il modello espressivo verbale e quello iconi co. Il primo è quello che la storia ha codificato meglio: il testo scritto diventa, immediatamente, una delega al futuro, corroborata da maggiori cer tezze. Il secondo modello, quello appunto dell’im magine, ha una sua oggettiva difficoltà nei confron ti della documentazione. A meno che, in senso lato, non si consideri immagine teatrale la stessa strut tura dei teatri, riflesso, senza dubbio, di un modo di concepire la rappresentazione, ma soprattutto del modo di fruirla. Allora si capisce immediatamente che con il dato squisitamente scenico l’iconicità teatrale fisica non ha niente à che vedere, o quasi. Il discorso, infatti, è quello specifico del mo dello drammaturgico e della sua struttura. Ridotto a linee molto generali e semplici, si tratta sempre di una costante di confronti tra aspetto verbale — valore di significanza-base, ma di per sé neutro — e quello iconico, che poi non è definibile tout- court come altro-significante: i significanti, per dir la in breve e senza grossolanità, sono ambedue, e la parola e l’immagine. Tanto questo è vero che a voler applicare un rigoroso studio linguistico alla comunicazione scenica, soprattutto quando si pre tende di approdare al piano semiologico, si com piono errori e incredibili forzature. II teatro, in fatti, non è esattamente un linguaggio, ma un in sieme di linguaggi: da quello verbale, a quello •^iconico, a quello cinesico e così via. Ed è ovvio ^che ogni momento linguistico sia legato ad una ne- cessità di significato e di significante. Il problema ha interessato per molto tempo, negli ultimi dieci anni in particolare, anche la cultura linguistica ita liana, perché si era tentata, più volte, una forma lizzazione dei linguaggi iconici, e del cinema in par ticolare. Anche in questo caso (Cfr. Empirismo ere tico di P.P. Pasolini, Milano, Garzanti, 1974, op pure Semiologia del cinema di C. Metz, Milano, Garzanti, 1972), si era giunti ad una modellizza- zione formale non soddisfacente: nello stabilire i codici linguistici si finiva per considerare dati si gnificanti quelli che, in realtà, non avevano, o non potevano avere, secondo i canoni dello studio rigo rosamente linguistico, che una struttura di signifi cato, cioè erano, a loro volta, un insieme di signi ficanti) vedi, per fare un esempio eclatante, la de finizione di cinema, data da Pasolini, per voler indicare l ’analogo del fonèma nel linguaggio ver bale). La conclusione che si poteva trarre, al di là di tutto, era quella di voler mettere a fuoco la possibilità formalizzatrice dei linguaggi iconici, nel momento in cui si erano definitivamente affermati all’interno della nostra civiltà, giustamente definita civiltà dell’immagine. Del resto, dei mass media, la radio era stata solo il primo passo, e quasi di menticato, dal momento che il processo iconico rendeva incredibilmente vasta la possibilità comu nicativa. Di questo tipo di atteggiamento storico-cultu rale, attuatosi con caratteristiche non tutte prevedi bili in anticipo, la Scuola di Francoforte era stata quella che aveva già dato le prime indicazioni e, in fondo, aveva prodotto le prime importanti ri flessioni. Si pensi, in particolare a Benjamin (L'ope ra d ’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966; oppure all’altra analisi, più anche clamorose (vedi la stagione ’73-’74). Effetto della politicizzazione dei giovani? Di una ideolo- gizzazione che « ha ubriacato » i licei? Di una ef fettiva azione di intervento, metti «sul territorio»? Dirlo con precisione è impossibile. E le inchieste sociologiche non possono dare, al massimo, che i termini di alcuni atteggiamenti di superficie. Il fatto importante, comunque, è dato dal mu tamento che, vuoi o non vuoi, è inevitabilmente av venuto: un metodo progressivo di porsi di fronte alla realtà non può portare ad « atteggiamenti di ritorno » — almeno, cosi, la storia insegna. Vorrà dire che si dovranno pagare gli effetti di un avanza mento avvenuto senza convinzione, per semplice conformismo, per moda dunque. È il prezzo, in ogni caso, di un cambiamento, e vale sempre la pena. Allora, per non perdere di vista il discorso, occorre ricapitolare un momento ciò che si è detto. Da una considerazione di tipo estetico, si è pas sati ad una di tipo sociologico. Forse è inevitabile, ideologica, sempre benjaminiana: Programma per un teatro proletario per bambini, « Quaderni Pia centini », n. 59, 1969) e alle sue magnifiche anno tazioni sulla fotografia. Ma non si possono dimenti care nemmeno Adorno e Horkheimer (Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi, 1968) quando parlano, in particolare, dell’industria culturale. È un discorso complesso, ma oggi, forse, si potrebbe tratteggiare con maggiori possibilità analitiche: esi stono tante verifiche che attendono una loro prima sistemazione, dopo, appunto, le teorie e le ipotesi di quei « profeti » che furono i francofortisti. Da un certo punto di vista, poi, si è anche smitizzato il processo di un « avanzamento socia le » dominato dalla totale sudditanza ai mass me dia, in particolare allo strumento più efficace che era a disposizione: l’immagine (e la sua infini ta riproducibilità). Da questo punto di vista non appare proprio così casuale il « reclutamento » di pubblico che il teatro ha operato nel corso di questi ultimi cinque sei anni, in qualche caso in forme « Accademia Ackermann » (foto De Furia) anche perché la maggior parte dei fenomeni che prendiamo in esame, nella nostra storia della cul tura, non possono ormai non fare i conti con questi due piani. La stessa storia delle avanguardie, in particolare quella delle neoavanguardie degli anni sessanta-settanta, non si potrebbe spiegare altrimen ti. La considerazione di partenza era l’impossibilità di una divisione tra teatro, da una parte « di pa rola », e un teatro, dall’altra parte, « di immagi ne ». Era necessario cercare di sfatare questa falsa suddivisione per giungere a delle considerazioni più serene su quella fetta di scena che ha privilegiato l ’immagine. Del resto questa contrapposizione ma nichea non ha fatto che confondere la fruizione tea trale. La gente, spesso, si è convinta di aver assi stito a spettacoli-immagine solo perché l’imposta zione data da un certo regista dava più peso al re spiro iconico, magari tanto da rendere secondaria la parola. Così come, del resto, si è definita la neoavanguardia come l’unica che portasse avanti un teatro di rottura o di ricerca che dir si voglia, e non ci si è resi conto che la ricerca la facevano tutti, tutti quelli cioè che credevano nel lavoro scenico. Ovviamente si trattava — e tutt’ora si tratta — di capire in che direzione si muove una ricerca: questo è il punto. Per buttarla sul piano aneddotico, devo con fessare di aver incontrato più di una volta registi che, con imbarazzo, confessavano di non sapere perché venivano ascritti al piano delle « avanguar die » (o neoavanguardie). Con questo non si vuol negare tutta quella militanza, onesta e sincera, che si è mossa sul piano della ricerca teatrale. Si tratta di quei gruppi, però, che hanno capito profonda mente la caratteristica di unicità — per dirla in ter mini spiccioli — del teatro, e che all’interno di questa convinzione hanno scelto un piano di speri mentazioni che, guarda caso, molto spesso rifugge dai clamori, perché la maggior parte del loro lavoro viene ricondotto a costanti verifiche. Avanguardie che non sentono più la gloria di questa etichetta, mettendo, dunque, in primo piano l ’episodio sce nico come costante possibilità di rinnovamento. Un punto interessante è quello del rapporto tra teatro d’avanguardia — chiamiamolo così perché vi si comprenda anche quella dei primi decenni del secolo — e storia della cultura, in particolare còlta nel genere letterario e figurativo. Il futurismo, il surrealismo, l’espressionismo, che nei primi ven- t’anni del nostro secolo sconvolgevano tutto l’im pianto tradizionale del teatro naturalistico-ottocen- tesco « non hanno avuto — afferma Giorgio Pul- lini (Cfr. « Comunità », ottobre 1978, n. 180) — origini prettamente teatrali. E, se hanno messo il teatro in un aperto e proficuo rapporto di scambio con aree più vaste della cultura e dell’arte d’avan guardia, non hanno sempre trovato in lui un terre no fertile e duraturo di creatività al di fuori degli sperimentalismi sul piano tecnico-spettacolare (fon damentali, questi sì, per tutta la scena del Nove cento) ». È evidente che non si tratta di stabilire una priorità di sperimentazioni: nel teatro la ven tata rivoluzionaria arriva più tardi, per naturale conseguenza, se si vuole, ma soprattutto per una oggettiva impossibilità di promozione dei nuovi principi estetici che la scena, così legata alla dia lettica col pubblico, in fondo, non può determi nare. Allora non è neppure casuale che la crono logia dei « manifesti » veda in testa la letteratura, la pittura, la scultura e la musica: questi appaiono tra il 1909 e il 1912; quelli teatrali, invece, ven gono pubblicati nel ’13, ’15 e ’21. Se i movimenti dell’avanguardia erano, quasi per loro natura, « tea trali », tuttavia le ipotesi che proponevano abbiso gnavano di un programma teorico quantomeno pre cisato: la scena arriverà come a stabilire la « natu rale verifica » di quanto era nei programmi. Una certa analogia a tutto questo l ’abbiamo an che per i fenomeni delle neoavanguardie, quelle tra gli anni sessanta e settanta. L ’esplosione dell’un derground è la conseguenza soprattutto di un mu tato rapporto con la cultura. Negli Stati Uniti, co me si sa, avviene prima, da noi un po’ dopo. Ma quello che conta è la necessità espressa di un nuovo modo di confrontarsi con il sociale, soprattutto in quegli aspetti che si è soliti definire, secondo un termine mutuato dal marxismo, « sovrastruttura- li ». È vero che, per esempio, nelle arti figurative molte rivoluzioni erano già avvenute (vedi gli e- sperimenti di Manzoni, tra il ’50 e il ’60), ma è anche vero che si trattava di fenomeni di cambia mento estetico che non entravano nel « gioco » di un sociale più vasto e inesorabilmente eterogeneo. Il sessantotto, con le sue « sbornie ideologiche » ha comunque il merito di mettere davanti agli oc chi di tutti il bisogno di un rinnovamento che, in qualche modo, deve privilegiare l’aspetto « quantitativo »: si suppone, infatti, che l ’industria culturale abbia portato ad una partecipazione mol to ampia del sociale e del suo mutato aspetto. Errori e travisamenti a parte, il cambiamento si impone e, nel teatro, dopo un paio d’anni si ve rifica in pieno. Roma, per esempio, allarga a di smisura gli spazi teatrali, nascono le cantine che alcuni considerano le naturali conseguenze di que gli esperimenti che erano già in corso da anni, in misura più o meno clandestina. Nessuno può ne gare un volersi riagganciare alle rivoluzioni dell’a vanguardia storica: basti vedere il repertorio che viene scelto, da Wedekind a Biichner, o Artaud. Non è qui il caso di valutare a fondo la reale por tata estetica del fenomeno, tanto meno darne un giudizio più o meno moralistico. A livello generale, comunque, si può notare un certo clima « da mo vimento » (ché di movimento non si trattò mai, e un programma non fu mai messo a punto), un con fronto più libero con la possibilità di fare teatro, come se si avvertisse la possibilità di trovare uno spazio per troppo tempo negato, C’è, allora, chi ci prova, magari per assecondare un’aspirazione in fantile o, meglio, adolescenziale. Ed è, per esempio, il caso di Giancarlo Sepe. Ora si capisce, a conti fatti, che valeva la pena assecondare anche un ca priccio, contestativo o meno. Si capisce che l ’aper tura di quegli anni nei confronti del teatro cosid detto off ha avuto il merito di permettere esperi menti che, altrimenti, non avrebbero mai visto la luce, per una oggettiva impossibilità di trovare un luogo di confronto o di « prova ». Sepe è una figura abbastanza isolata. Qualcu no dice che sarebbe emersa comunque. Può darsi. In ogni caso non è lecito cancellare il clima in cui la possibilità teatrale era maggiore. La posizione di « appartato », per Sepe, la si deve anche ad una scelta particolare dei contenuti (fuori dalle militan ze politiche; qualcuno, allora, poteva anche defi nirli qualunquisti), al volersi provare in un reper torio, in fondo abbastanza classico — a parte due o tre spettacoli « à la pages » — in un primo mo mento, aver sviluppato, poi, una sua precisa linea scenica, in un secondo momento. Il suo bisogno quasi nevrotico deH’immagine, succedanea della pa rola, o che, comunque, riduca la portata verbale nella rappresentazione, lo caratterizza ulteriormen te. E allora qualcuno ha definito il suo un teatro- immagine. Vero o non vero che sia, l ’iconicità era un dato di ricerca di molti altri gruppi sperimentali. In Sepe, però, l ’immagine vuole, se possibile, en trare classicamente nel dato drammaturgico, diven tarne un momento strutturale, forse' prevaricatore della parola stessa. In questo senso, tornando alle considerazioni fatte all’inizio, una etichetta alla scel ta di Sepe è non solo imprecisa, ma anche poco appropriata. Se la parola è, per definizione, un si gnificante, altrettanto accade per l ’immagine. Sepe ha capito benissimo — basta osservare attentamen te i suoi spettacoli — che il suo lavoro è sempre sul significante, e che questo è « unico »: nel sen so che può partire dalla parola, contenitrice di im magine, o dall’immagine, contenitrice della parola. Tanto questo è vero che gli spettacoli sepiani, so prattutto negli ultimi anni, fanno un uso costante e strutturale della musica. Questa, per sua funzione classica (vedi quanto dice, per esempio, Thomas Mann: « l’arte ambigua per eccellenza ») si dispo ne, per sua stessa natura, a contenere immagini e parole. In un brano musicale puoi ritrovare i dia loghi della memoria e, al tempo stesso, puoi col locarli in uno spazio infinito, dove le immagini pos sano comporsi o scomporsi con il mistero di una libertà inesplorata. Sepe, poi, sostiene che gran parte di questa scelta gli viene dal cinema. Può anche darsi. Ma il cinema può suggerire la dilata zione dei tempi, dello spazio, del movimento. Il teatro tutti questi dati li raggela, perché li pone di fronte allo spettatore in una obiettiva situazione di irripetibilità. Il cinema, per Sepe, può aver rap presentato una scelta metodologica allorché ha cer cato di stabilire un suo codice di comunicazione scenica. Quindi, cinema come « strumento » e non come mimesi. Questo è il punto. E da qui, allora, la definizione del teatro sepiano come teatro-im magine, o meglio ancora « teatro dell’immagine », « In Albis » (foto De Furia) risulta più giusta e giustificata. Come pare abba stanza ovvio che una scelta come la sua è esatta mente in sincronia con la cultura che stiamo vi vendo in pieno. E sarebbe meglio dire che il sue teatro è la più originale interpretazione, in senso estetico, di un rapporto, forse necessario, con i più diversi modelli iconici che hanno caratterizzato il nostro secolo (dal cinema fino alla TV), insieme a quella infantile disposizione al sogno-gioco che, come Sepe stesso afferma, ha caratterizzato e ca ratterizza la sua stessa vita, quasi in una perenne fame di oniricità. Dante Cappelletti >&> / I I m i o m o d o d i f a r e t e a t r o : q u a s i u n l a b o r a t o r i o di G ianca rlo Sepe Teatro, ovvero sintesi tra immagine e musica, giu sto equilibrio tra suoni e colori, atmosfere rarefatte in cui si mescolano incubo e sogno, incontro tra realtà odierna e storia — storia come unico filtro contro il rischio della banalità — . Teatro come asservimento della parola ai canoni della suggestione. E poi la Pa- Giancarlo Sepe (foto Le Pera) rola: mai esornativa e mai semplice significante ; mai poetica e soprattutto mai solo parola: insomma non serve e non servirà mai a un « teatro pour parler ». Al di là della facile schematizzazione del mio fare tea tro — leggi: spettacolarizzazione di un’idea — c’è, al la base, una ricerca di moduli espressivi mai ovvia e scontata, e, se lo è, sempre passata attraverso il filtro dell’ironia, la sola che riscatti e demitizzi il mestiere del regista e dell’attore. Cercherò di riassumere brevemente il mio modo di lavorare e l'ipotesi da cui parto. Sempre, o quasi sempre, il momento drammaturgico (o addirittura lin guistico) mi viene da una sollecitazione musicale — musica còlta quasi acriticamente, per semplice caso di suggestione, quindi addirittura fuori dal contesto storico o sociale (questo lo affronterò in un secondo momento). Per esempio, mi è capitato di ascoltare dei fox- trot per decidermi a mettere in scena /'Ubu roi, op pure musica americana moderna per I misteri dell’a more di R. Vi trac, o anche musica elettronica, come per Zio Vanja. È successo che nello spazio di un po meriggio, ascoltando cento volte un disco, abbia ideato un intero spettacolo (In Albis, Zio Vanja, Hermann, Lumière cinématographique ed altri). C’è poi un se condo momento, quello dell’approfondimento del te ma. Si tratta, a quel punto, di vedere dove sono col locate (o collocabili) le immagini, di chiarirle, quindi, in una situazione storico-sociale. Allora, quindi, i per sonaggi camminano in un certo luogo, hanno di fronte il loro orizzonte, sono davanti a situazioni precise. È un primo risultato. Ora si tratta di comunicarlo agli altri: agli attori, al musicista, allo scenografo. Se Videa piace, si passa al « laboratorio ». È il momento in cui si sperimentano i diversi aspetti di una o più situa zioni; si provano diverse formalizzazioni; infine si dà un corpo a tutto quanto non poteva essere che dato astratto. Ovviamente ciò avviene in funzione dello spettacolo: perché questo, insomma, è già nato. Non si fa mai nessun esercizio sterile di concentrazione o ginnico: si lavora sempre su quei materiali, che sono stati il punto di partenza di tutto quanto, per arric chire e dare sempre maggiore articolazione ad ogni ipotesi. Mi piace giungere a un punto in cui tutto sia chiaro. È allora che sento come un naturale bisogno di comunicare con lo scenografo: non e solo una for ma di catarsi quanto un modo di dare ragione di un particolare e di un insieme giunti ad una loro naturale e compiuta conseguenza. Con lo scenografo non si discute mai molto: basta un dettaglio, una sensazione, un colore, un’esigenza, un'allusione, infine l’eccitante consapevolezza di essersi capiti su delle unità che non sono mai vaghe, ma pre cise e concrete. E se l’idea non viene fuori subito? È solo questione di ore: senza presunzione: è vera mente l’attesa di un tempo molto breve (può giungere, al massimo, a due o tre giorni). Così uno dei colla boratori più importanti prende il via, mentre le prove con gli attori continuano a ritmo serrato, ogni giorno. Il musicista è sempre presente: con lui ho un con fronto costante, dì idee, sollecitazioni, varianti, che servano a far immergere sempre più gli attori nel con testo voluto. Gli attori sono la mia penna, il mezzo espressivo più diretto della mia immaginazione. Parlo dì penna ■ perché, prima che comincino le prove, non c’è mai il testo o l’idea generale scritta che permetta di indicare delle linee su cui potersi, muovere. Si parla, sì discute, si verifica. Senza polemiche (le odio) e senza prevaricazioni (le detesto), ognuno acquista e si impossessa del ruolo che gli compete, che gli è più congeniale. Molti di loro, pur avendo avuto precedenti esperienze, si sono costruiti lavorando con me per anni e anni (è il caso di Sofia Amendolea), o addirittura sono nati, con me (Pino Tufillaro), o invece più propriamente si sono realizzali (Franco Cor tese, Nicola D’Eramo, Robert a Rem, Valeria Sabel, Massimo Milazzo). Nel nostro lavoro sì va avanti tena cemente e senza interruzioni. Con l’aiuto della musi ca, vera e propria colonna portante dello spettacolo (lo segue per tutto l’arco della durata), gli attori can tano, recitano, ballano, e mimano come pochi, forse, sanno fare. Quindi un teatro fatto da attori con regista, musi cista, scenografo e tecnici: ognuno con il suo compilo. Nessuna improvvisazione, nessuna demagogia, nessuna retorica, e invece una ricerca costante (o sperimenta zione che dir si voglia) che si avvale di tutti i mecca nismi affinché la messinscena giunga in porto con il massimo rigore. Detesto l’approssimazione. Tutto il resto ha poca importanza. Lascio ai critici la volontà di occuparsi o meno di noi, al pubblico di venirci a vedere se vuole. Comunque, per il particolare momento che attra versiamo, la nostra simpatia, mia e dei miei collabo ratori, va a chi ci ha seguiti disinteressatamente, con tribuendo al successo di oggi. E, anche se un critico ci snobba dal giorno in cui ho rifiutato un suo testo (!), il riconoscimento ricevuto e un certo apprezza mento, forse, devono anche avere una ragione. Claudio Carafoli, Carmen Onorati, Tonino Pulci, in « Ubù roi » di Alfred Jarry messo in scena da Sepe al Teatro « La Comunità » nel 107? della parola (>■ significante secondo, dopo l'immagine », di ce) il suo lavoro si caratterizza in un rapporto di sugge stioni create dalla musica, dal gesto, e dall'idea infantile di gioco. Dal 1972 a tutt'oggi Sepe lavora, con un suo gruppo, al « Teatro La Comunità » di Roma e, anche se la scena ufficiale gli ha già affidato più di una regia (Il matrimonio di Gogol, al Valle, e così via), « La Comunità » rimane il punto fisso di lavoro, una specie di luogo-labo ratorio dove i vari componenti della compagnia si possono confrontare costantemente. REGIE TEATRALI 1963 1965 Rassegna del teatro comico russo * - AA.VV.: Fon I giorni dell'insieme * - di G. Sepe vizin, Gibojedov, Gogol 1967 Male nel buio * - da « Colpi di coltello » di Mauriac Zoo di vetro ” - di T. Williams 1968 Una serata con Anton Cechov" - di G. Sepe da A. Cechov Ricordo di Samsa Gregor * - dalla «Metamorfosi» di Kafka Gi e Ti - di G. Sepe 1969 Donna Rosita nubile’1 - di F.G. Lorca Morti senza tomba - di Sartre 1970 Ballata al cospetto di un simbolo - di Bruno Cagli 1970 Onan e l’obbedienza - di Vanni Ronsisvalle Da una premessa del signor Pirandello - di Vanni Ronsisvalle Finale di partita " - di S. Beckett I misteri dell’amore 11 - di R. Vitrac II pechinese - di B. Cagli La vera storia di Bonnie e Clyde ” - di G. Sepe, da Nelson Algren 1971 1972 Ubù re (ovvero la canzone dello scervellamento) * - da Jarry (inaugurazione del « Teatro La Comunità » 1973 Colloquio dei tre viandanti * - da Peter Weìss Fando e Lis - di Arrabai 1974 Scarrafonata 11 - di G. Sepe Allegro cantabile * - dall'« Agente segreto » di J. Conrad. Mascheropoli - di G. Sepe 1975 Hermann (ovvero anni '30 a Berlino) - di G. Sepe Lumière Cinématographique - di G. Sepe 1976 Woyzèc che ce azzecch - dal « Woyzech » di Buch- In Albis - di G. Sepe, ripreso a Spoleto, al Festi ner 1976-'77 val del 1978 1977 Zio Vanja - da Anton Cechov. 1978 Accademia Ackermann - di G. Sepe, Spoleto II matrimonio - di Gogol, Teatro Valle, Roma REGIE LIRICHE 1979 Lucrezia Borgia - di G. Donizetti, Comunale di Fi renze N.B. - Gli asterischi accanto al titolo stanno a indicare il lavoro di attore di Giancarlo Sepe negli spettacoli da lui messi in scena. GIANCARLO SEPE Giancarlo Sepe nasce a Caserta il 23 marzo del 1946. La sua famiglia, tipicamente borghese, era costretta, a causa del lavoro del padre (faceva il commercialista) a spostarsi in diverse città. Così Giancarlo si trova per due anni a Napoli, uno a Benevento, due a Cosenza e, infine, nel 1956, a Roma, dove è rimasto stabilmente a tutt'oggi. La sua « vocazione » teatrale si manifesta molto presto: già a dieci anni organizza spettacoli di burattini per i com pagni di giochi e di scuola. Ricordando la sua infanzia, ama precisare: « gran parte del mio tempo, quasi tutto, lo passavo per strada. È da lì che ho imparato molte cose: forse quelle che so fare veramente e in cui mi realizzo. Come dire, cioè, che la strada è stata la mia vera maestra. Ricordo ore ed ore trascorse ad osservare la gente e tan te piccole e inutili cose ». Intanto a scuola compie, con un certo peso costrittivo, gli studi classici presso il liceo Orazio di Roma. A dicias sette anni riesce a realizzare il suo primo spettacolo: gli prestano le sale dell Oratorio S. Ponziano, e lì mette in scena I giorni dell’insieme. Per Sepe si trattava, più o me no di un esperimento; tuttavia realizzava, in questo modo, un sogno perseguito da tempo. Era il 1963. L'episodio dap prima sembrava dovesse essere presto dimenticato. E poteva restare una specie di manifestazione scoutistica, consumata nel gruppo degli amici, compagni di scuola, pa renti e conoscenti. Invece, nel '65, il « Centro di Cultura russa », di Roma, chiamò quell’enfant prodige — notato proprio in quello spettacolino per poche persone — a di rigere una serie di commedie del teatro russo dell’Otto cento. Si trattava di: Il minorenne di Fonvizin, L'ingegno che guaio! di Gribojedov, L'ispettore generale di Gogol e alcuni atti unici di Cechov, rappresentati soprattutto in chiave didattica e di studio del grande drammaturgo russo. Anche questa esperienza fu non poco importante, perché portò il giovane regista (allora anche attore) all'esigenza di dover approfondire lo studio teatrale, e nelle sue compo nenti storiche, e in quelle strutturali. Finito il liceo, si iscrive all’Università (Facoltà di Let tere), ma i primi due anni furono tutti volti ad un perso nale approfondimento di temi e problemi teatrali. Era inte ressato non solo ad un discorso di chiarificazione rigorosa dell'evento scenico, ma sentiva l’esigenza di conoscere a fondo i classici per giungere, gradatamente, ai grandi del teatro contemporaneo. E su questo terreno capì che lo studio poteva continuare quasi all'infinito. Una delle co stanti dei suoi interessi, però, era la spettacolarità. Gli pia ceva individuarla in qualsiasi forma di teatro. Il cinema, però sotto questo profilo, esercitava su di lui un fascino enorme, tanto che era giunto a rappresentare quasi un valore-simbolo nella sua ipotesi di lavoro. Nel 1967 comincia la sua vera attività di regista e tea trante. Riesce ad allestire un piccolo teatrino a via Stami- ra e lì rappresenta molte opere di repertorio: da Mauriac a Cechov, da Lorca a Kafka, da Sartre a Beckett. Lenta mente, dopo le messinscene di Beckett, Vitrac e Jarry, comincia un lavoro di ricerca suH'immagine, giocando la parola come elemento rappresentativo di secondo piano o « senza peso ». Pur senza determinare una negazione > 4 G i a n c a r l o S e p e : “ R i p a r t i r e s e m p r e d a z e r o , , Come definiresti il tuo teatro? È difficile. Cerco sempre di sfuggire alle defini zioni. Posso dire che, ogni volta, cerco di perseguire e realizzare la categoria spettacolo: insieme di sugge stioni, musiche, piacevolezze, raccolte all’interno di un quadro alchemico rigoroso. Ma in questa « alchimia » — come tu dici — mi pare tu stia cercando soprattutto o quasi esclusivamen te l’immagine. Allora la parola che ruolo ha? Tutti dicono che io « ho scacciato » la parola. In gran parte è vero. Però io sono convinto che l’imma gine e il testo devono essere contemplati nello stesso momento. Oggi, meglio fino ad oggi, ho dato più pe so all’iconicità; in futuro spero di raggiungere un di verso equilibrio tra i due elementi. Zio Vanja, da que sto punto di vista, è stato, per me, un lavoro impor tantissimo. Il testo, pur in una particolare riduzione, c’era, e non era mica un dato secondario. Era presente, però, anche tutta una particolare ricerca sulle imma gini. E evidente che questo momento è stato determi nato dal modo con cui ho voluto affrontare Cechov; tuttavia è stata, per me, la prima conferma della pos sibilità di poter accoppiare, in modo efficace, uno scavo sul testo ad uno sull’immagine. La parola non era mai prevaricatrice del modello iconico e questo, anzi, do veva comporsi proprio di « necessità verbali ». Insom- ma queste erano le mie intenzioni. La critica, in gene rale, le ha còlte, e questo mi ha molto confortato. Tuttavia sentivo che dovevo compiere ancora un la voro di approfondimento, a carattere quasi conclu sivo. Per ciò ho voluto mettere in scena Accademia Ackermann. Ancora, a parte due parentesi fII matrimonio di Co gol e la Lucrezia Borgia di Donizetti), sei un regi sta « delle cantine romane ». Già sei annunciato — e stai per debuttare — anche al Piccolo Eliseo. Che fi ne ha fatto il tuo periodo, diciamo « glorioso », al l’interno delle neoavanguardie degli anni settanta? Intanto vanno chiarite alcune cose. Molto spesso, per classificare meglio alcuni fenomeni, si creano delle etichette. A un certo punto, per esempio, è nata la « Scuola Romana ». Forse sarà anche esistita sul serio, nel senso che a Roma, come molti sanno, c’è stato, agli inizi degli anni settanta, un grande fermento tea trale. Però se ad un teatrante qualsiasi si fosse andato a chiedere se apparteneva a quel « movimento », cre do che non avrebbe saputo dare delle risposte esau rienti. Io stesso non avrei saputo cosa dire. Il mio caso lo ritengo, del resto, anche un po’ fuori da al cuni canoni di riconoscimento del teatro « delle can tine » di quel periodo. Eppure anch’io lavoravo nelle « cantine », e ancora ci lavoro. Se si va a guardare più in profondità, si scoprono tanti indirizzi diversi; modi di fare teatro assolutamente peculiari. Tutti quan ti siamo stati « riuniti » in uno stesso quadro, forse per essere meglio riconosciuti. Così, anch’io mi sono sentito dire che facevo parte della « Scuola Romana » e che agivo all’interno delle neoavanguardie. In realtà provenivo dal teatro cosiddetto « ufficiale ». Le mie prime esperienze sono state legate a testi di repertorio e, negli anni settanta, a quelli dell’avanguardia stori ca. Il mio rapporto con le neoavanguardie, comunque, è del tutto casuale. Non avendo altri spazi a disposi zione ho preso quelli che c’erano, le « cantine » appun to. Poi è anche vero che uno finisce per costruire i propri spettacoli secondo le misure spaziali incontrate. Così, per esempio, mi piace un teatro che non cono sca un esatto confine tra palcoscenico e platea. Que sto, però, non vuol dire che il lavoro in spazi diversi non mi stimoli. Ormai credo di essere giunto ad un punto in cui « cantina » o « teatro ufficiale » non rappresentino più degli ostacoli. Forse anche perché non ho mai vissuto il mito di un lavoro « catacomba le », quasi in attesa di una resurrezione. Allora come mai, affrontando un testo come quel lo di Gogol — 11 matrimonio — al Teatro Valle, luo go « ufficialissimo », non sei riuscito, a mio avviso, a raggiungere quei risultati, positivi, che ti avevano ca ratterizzato proprio nelle « cantine »? Perché un salto c’è stato comunque, e non sempre uno sa calcolare « le distanze ». Lo spazio di un tea tro grande, in qualche modo, ha rappresentato, per me, una novità. Non subito si riesce a capire quanto una struttura fisica possa influenzare il dato espressivo. Ogni cambiamento porta sempre a un minimo di sban damento. Riconosco che c’è stata, in quel caso, una specie di contrazione del momento espressivo. Ma cre do che era inevitabile. È come dover superare un esa me. Prima occorre una certa preparazione. Io credevo di essere’ già molto maturo, ma i fatti non mi hanno dato pienamente ragione. Con questo non credo di aver offerto al pubblico una prova fallimentare. Cre do, semplicemente, che si sia potuta notare una certa sfasatura dovuta alla novità del contesto. Ma, secondo te, questi non sono errori perdonabili? Ti dirò di più: dopo questa messinscena, diciamo « ufficiale », mi sen to più sicuro del mio lavoro di regista. In qualche mo do ho rotto quel velo di soggezione che, sotto sotto, mi metteva la grande platea e, così, ho raggiunto la coscienza di una oggettiva unità di misura scenica. So, più di prima, come un luogo influenzi uno spettacolo e quanto uno spettacolo deve essere costruito in fun zione di « quel » luogo. Il matrimonio, in conclusio ne, ha rappresentato un autentico momento di rifles sione, non senza crisi, all’interno della mia vita pro fessionale. (foto Le Pera) Hai cominciato a fare il regista a diciassette anni, nel ’63. li Tanno de I giorni dell’insieme. Ma il tuo riconoscimento, sia a livello di autocoscienza che pub blico, quando è avvenuto veramente? È difficile rispondere a questa domanda. Diciamo che i critici si sono accorti di me nel 70, quando misi in scena, al teatrino di Via Stamira, I misteri dell’amo re di Vitrac. Io non so quando realmente sono dive nuto, diciamo, « conosciuto ». Nella mia breve storia di teatrante riesco a individuare molto bene tre mo menti: il primo, quello del teatro di repertorio, che finisce nel 70; il secondo, quello legato ai testi del l’avanguardia storica; il terzo, che comincia col 73, caratterizzato dalla ricerca in direzione dell’immagine. Questo ultimo momento credo che abbia raggiunto il suo apice con Accademia Ackermann. E in questa fase penso di aver sintetizzato tutti quelli che erano stati i dati caratterizzanti del mio precedente lavoro. Forse immodestamente, mi sembra di aver raggiunto un mio stile, un linguaggio in cui mi possa riconoscere. Se questo è vero, allora come si caratterizza il tuo teatro? E un teatro in cui l’immagine ha il predominio, e in cui la parola cerca di farsi spazio. Un teatro in cui la musica è fondamentale e rappresenta una vera e propria misura strutturale. Un teatro in cui l’attore è prima di tutto « movimento coreografico » per poi diventare molte altre cose, quasi tutto. È un teatro che nasce mentre si costruisce, momento per momen to, tutti insieme, dall’attore al musicista, al regista. Quando ci mettiamo a lavorare non c’è mai un testo preesistente. Questo si crea durante le prove. Può es sere suggerito dalla musica di Stefano Marcucci — che è sempre presente — oppure dal movimento o l’atteggiamento di un attore. È difficile stabilire esat tamente da dove nasca un’idea. So soltanto che nasce, e che è una naturale derivazione del fare teatro. « La Comunità » è una specie di laboratorio in cui si lavora molto. Quando si è arrivati ad un punto in cui le idee sono chiare a tutti, allora comincia la fase vera e propria delle prove dello spettacolo. E questo può essere di due ore, tre: non importa. Alla fine sarà, al massimo, di un’ora, un’ora e un quarto: si opera una ripulitura, fino a raggiungere un punto di limatu ra ideale. Non so quanto potrà durare, nel tempo, il mio gruppo. Io spero molto a lungo, perché credo in un teatro che tragga la sua forza anche da un vi vere in comune molte esperienze, comprese quelle pri vate. Per questo motivo, quasi tutti ci incontriamo an che fuori da « La Comunità ». Intendiamoci: la no stra non è una comune. È semplicemente una compa gnia che intende il lavoro teatrale in una realtà anche quotidiana. Perché, da un certo momento in poi, hai fatto de gli spettacoli strettamente legati alla musica? E per- che hai scelto Stefano Marciteci come tuo costante col laboratore? Il fatto di aver concepito, ad un certo punto, la musica come dato strutturale del mio teatro, credo che abbia origine dal cinema. Mi ha sempre colpito — fin dall’età di cinque anni sono stato un assiduo frequentatore di cinematografi — il fatto che l’imma gine, il più delle volte, riuscisse ad essere completa proprio attraverso l’elemento musicale. E questa, del resto, era un’altra « informazione » che si aggiungeva a quella squisitamente iconica. In altri termini: mi so no reso conto, con il passare del tempo, che la musica aveva un potere di descrizione di un fenomeno estre mamente efficace. Se, nel cinema, questo accadeva, perché non poteva accadere anche in teatro? Mi ero reso conto che, il più delle volte, la musica, sulla sce na (ma questo vale anche per molto cinema), aveva un valore puramente esornativo, per non dire tauto logico e, peggio ancora, « riempitivo ». Mi sembrava veramente affascinante fare della musica il dato por tante, la struttura, la base insomma, di uno spetta colo, proprio come se fosse un testo. Dapprima ho provato scegliendo dei brani mutuati dalle colonne so nore cinematografiche (vedi I misteri dell’amore), in seguito, ho voluto approfondire sempre di più questa direzione di ricerca. Così sono giunto alla conclusione che dovevo avere un rapporto diretto con la musica, nel senso di costruirci, man mano, lo spettacolo. È avvenuto, allora, il felice incontro con Stefano Mar- cucci, con cui lavoro ormai dal ’71. Con lui ho un legame creativo veramente eccezionale: è come se gli spettacoli li scrivessimo insieme; abbiamo raggiunto un punto di intesa che, credo, sia molto raro nel tea tro italiano. Altrove non so. Inoltre Stefano- è un gio vane della mia generazione: abbiamo facilità di incon tro sul piano del gusto, degli atteggiamenti culturali ecc. Anche questo conta moltissimo. In conclusione quello che qualcuno ha definito « teatro-immagine » è nato attraverso il rapporto con Marcucci, naturalmen-' te con tutto l’enorme lavoro compiuto insieme al grup po degli attori. Qualcuno ha detto che tu, in realtà, non formi dei veri attori. E vero? Se per formazione di un attore si intende l’Acca demia, con tutto quello che di ufficiale e istituzionaliz zato ha, allora l’accusa è fondata. Se, però, si vuole che un attore impari a muoversi, ballare, cantare, reci tare, mimare e così via, credo che quello che riferisci è una vera calunnia. Noi, al Teatro « La Comunità », lavoriamo molto e in tante direzioni, come appunto dicevo anche prima. In pratica, viviamo insieme. Se entra un attore « professionista » nel nostro gruppo, o cerca di adattarsi o si autoelimina. Non perché qualcuno lo voglia cacciare, ma semplicemente perché vi sono dei ritmi di lavoro diversi da quelli esistenti nel teatro « ufficiale ». Magari non si richiede subito la bella dizione o l’intonazione della voce perfetta, però si pretende che si metta, che so, a cantare. Io non voglio dire che il mio sia il modo migliore di la vorare; dico semplicemente che questo è il mio modo, e quello in cui si trova a lavorare il gruppo. Per quanto riguarda il discorso della formazione interpretativa, devo chiarire che non è affatto vero che da « La Comunità » non siano usciti dei bravi at tori. Ve ne sono molti, invece, che proprio qui hanno imparato la base del loro mestiere, e non l’hanno im parato male se altrove, poi, si sono rivelati bravissimi. Non credi di essere stato, tra i giovani registi del l’area delle « cantine » romane, uno che ha avuto mol ta fortuna? Sì. Infatti prima, per un puro caso, mi è stato dato spazio a Via Stamira: si trattava di un angolo di un circolo ricreativo, comunque era sempre un luo go che mi era stato concesso per mettere in scena i miei lavori. Era il 1967. Per cinque anni quel teatrino fu uno spazio a mia totale disposizione. Poi, nel ’71, quando il circolo di Via Stamira venne sfrattato, pas sai un anno tra il « Beat ’72 » e il « Tordinona », dove portai in scena l’Ubu con un certo successo. Nel no vembre del ’72, sempre con l’Ubu, si inaugurò il tea tro « La Comunità ». Si trattava di uno spazio, sco perto per caso — un vecchio magazzino di carta — attraverso un cartello « Affittasi ». Da allora è come se avessi avuto, insieme al mio gruppo, una casa, un luogo sicuro dove incontrarsi e lavorare. E questo, forse, è successo a pochi. Quindi sono stato fortunato, è vero. Ma non credi di. godere anche di un fortunato apprezzamento da parte di uomini di spettacolo che, dalle « cantine », ti hanno fatto conoscere ad un pub blico molto più vasto? Questo lo so. Io credo che se Valli mi ha chiamato a Spoleto, lo scorso anno, non l’ha fatto senza rifletterci sopra. La stessa cosa vale per Patroni Griffi che mi ha affidato la regia, al Piccolo Eliseo, di Gli esseri ir ragionevoli stanno scomparendo, di Peter Handke. Al lora credo che una certa fortuna in tal senso derivi anche da possibili capacità che, magari, alcuni hanno notato nel mio lavoro. Per dare ragione, comunque, a tutti coloro che vogliono sostenere a tutti i costi che sono uno fortunato, dirò che, in effetti, « La Comu nità » mi ha messo nella condizione di non pretendere niente da nessuno. Quindi non ho avuto bisogno di diventare arrogante o prendermela contro questo o quello. E poi Franco Quadri — non l’hai letto? — mi ha definito « il regista perbene dell’avanguardia »!... Come è andato il tuo impatto con la lirica e, in particolare, con la Lucrezia Borgia di Donizetti? Per quanto mi riguarda, bene. Il Direttore artistico del « Comunale » di Firenze mi ha chiamato dopo gli spettacoli che presentai a Spoleto. Mi disse che in me aveva trovato un nuovo modo di fare teatro in musica. L’incontro con la lirica, in fondo, non mi ha creato particolari apprensioni, come se fosse avvenuto per conseguenza naturale. Quali sono i fatti più importanti avvenuti nella tua carriera? L’incontro con Marciteci, quello con Bertacca e poi, spero, quello con il cinema e la televisione. Il cinema è la mia più antica passione, e quando lo po trò fare avrò realizzato un vecchio sogno. Per la TV sto preparando dei lavori. Ma, per scaramanzia, non vorrei ancora parlarne. Com’è avvenuto l’incontro con Bertacca? Nel momento in cui ambedue volevamo mettere a fuoco un lavoro compiuto con grande rigore. Era un incontro che, prima o poi, doveva avvenire, una specie di « legge del destino ». Cosa pensi di fare dopo Accademia Ackermann? Ripartire da zero, come ho sempre fatto. Il mio sogno sarebbe di arrivare a creare un laboratorio per manente, finalizzato, però, alla produzione di spet tacoli. È un’idea ronconiana, non ti pare? Sì. Ma la trovi sbagliata? a cura di Dante Cappelletti « Accademia Ackermann » (foto De Furia) \ & N \C>* V ® L a m u s i c a i n a i u t o d e l l o s p e t t a t o r e di S tefano M a rcu cci Quando, durante le prove dello spettacolo La ve ra storia di Bonnie e Clyde, il primo a cui collaborai, ho vissuto quel primo timido approccio tra un mio brano musicale e un’immagine, creata con gli attori da Giancarlo Sepe, mi resi conto che fra la musica e il teatro esisteva una profonda attrazione « fisica ». Oggi, dopo « un matrimonio » di circa dieci anni, pos so dire che il mio lavoro è innamorato del teatro irrimediabilmente, come il primo giorno. Sono convinto che non esista per la musica audi torio più coinvolgente del teatro, e per il teatro co stume più bello della musica. Certo, ancora sento dire che il vero teatro si fa senza musica. Sarà anche vero. A volte, però, mi è ca pitato di osservare, tra le ombre, i volti degli spetta tori: nei loro occhi mi è sembrato di leggere una stan chezza che forse la magia della musica poteva fugare, allontanando le « durezze » di un rapporto che magari poteva (in alcuni casi doveva) essere « mediato ». Per ché l’unica « musica » in teatro, non può essere quella delle corone, pause e sincopati dell’attore. Teatro e musica, musica e teatro: direi, insomma, musica come scansione dell’azione teatrale, come even to scenico, come parte e fusione di ritmi. Talvolta, poi, origine e punto di fuga del movimento, incontro di finito e infinito (com’è, del resto, nella sua stessa natura), infine anche testo teatrale. Da queste premesse nasce il mio discorso all’inter no del teatro, soprattutto in quello che molti, gene ricamente e in maniera sbrigativa, continuano a de finire « d’avanguardia »: se non si potesse — o vo lesse, finalmente — etichettarlo, io lo chiamerei sem plicemente « nuovo teatro », che persegue, con onestà e tenacia, una ricerca, senza pretendere di pensare, con arroganza, che sia l’unica possibile. È un teatro che non ha mai pensato di negare la tradizione, la parola, la scenografia ecc. Soltanto che, a volte, preferisce il movimento ad un tavolo o ad un salotto; ama il di namismo di contro a statici orpelli, ratificati da una certa tradizione e, soprattutto, dal costume. Per que sto è un teatro che vuole la musica, ma come anima Stefano Marcucci (foto Le Pera) e struttura di una necessità rappresentativa più ricca. Rapporto musica-teatro come recupero alla scena di una sua antica vocazione: lo spettacolo. Questo vuol dire rispettare forse una remota legge di ludicità, che poteva esserci anche prima della parola. Ora che, dopo le « cantine », lavoro anche nel tea tro « tradizionale » — dicono che sarebbe meglio chia marlo 'ufficiale' —, mi accorgo che le mie ipotesi non sono poi così sbagliate. Giorno per giorno cadono an tiche inibizioni, e la musica non è soltanto quella che scandiva le aperture e chiusure del sipario; acquista, invece un ruolo sempre più significativo e sempre me no esornativo. E chissà che anche quel « tanto ufficiale teatro » non si innamori proprio della musica e stringa con essa un nuovo e più ricco legame? STEFANO MARCUCC1 Stefano Marcucci è nato a Roma il 10 giugno dei 1947. La sua famiglia, della media borghesia, spera che il gio vane, compiuti i regolari studi superiori, si inserisca nei campo giuridico (il padre era avvocato) e, per questo mo tivo, è logica e «naturale» la sua iscrizione a Giurispru denza. La passione per la musica, Marcucci l’aveva manifesta ta fin da piccolissimo, ed esplose in pieno a tredici anni, dopo il regalo di una chitarra ricevuta dal padre per le feste natalizie. Poco tempo dopo — faceva la quinta gin nasio — si fa promotore di un gruppo di ragazzi che suo nano, imitando i grandi complessi musicali di quel perio do, un po' dappertutto. Erano gli anni sessanta: il boom economico e tante, tante canzonette. In quel periodo molte località di vacanza richiedevano complessini per un pub blico avido di svago canoro e musicale. Stefano Marcucci e il suo gruppo fecero appunto questa esperienza tipica mente estiva. Era, più che altro, un fatto di gioco, un fe nomeno un po' scapigliato e alla moda. Però quelle esibi zioni, d'estate, non passarono senza seguito. Poco tempo dopo, infatti, alcuni locali romani si interessarono al com plesso formato da quei giovanissimi e, tra una serata e l'altra, giungono a suonare anche al « Piper » — luogo al lora di gran moda e prestigio nella musica leggera — dove ottengono molto successo. Subito dopo, insieme a Bruno Biriaco, Manuel De Sica e Federico D'Andrea, Marcucci fa parte di un gruppo mu sicale che si chiamò « Gli Ancients ». Era il 1968. Fu un'e sperienza molto felice, che portò i quattro giovanissimi in televisione, nella trasmissione del sabato sera « Studio Uno ». Due anni dopo vi sarà un nuovo successo — anche in questo caso suffragato dalla televisione — con il com plesso « Myosotis », che Stefano aveva formato insieme a Federico D'Andrea. Segue un periodo scapigliato. I due suonano un po' dappertutto e, tra l'altro, vanno a finire, per un anno, ad esibirsi su una nave da crociera. Come avviene quasi sem pre, ai periodi « avventurosi » seguono quelli di ripensa menti e attenti esami. Marcucci sente l'esigenza di appro fondire sempre di più il lavoro musicale e, per questo, sa crifica anche il suo impegno universitario. Nell'autunno del 1971, c'è l'incontro con Giancarlo Sepe: è un episodio fondamentale nella vita di tutti e due. Da allora, infatti, il loro lavoro è andato avanti quasi costantemente su ci fre omologhe, comunque in sincronia, in un rapporto di creazione estremamente dialettico. Marcucci, anche se non ha scritto tutte le musiche degli spettacoli di Sepe, ne ha sempre seguito il lavoro, fino a trovare un curioso e singolare criterio di procedimento comune con lui: testo, musica e regia si sviluppano parallelamente, così come nascono insieme. « Non c'è dato che abbia priorità — dice Marcucci — perché la parola può nascere dalla musica o viceversa, fino a tutto il piano registico, parte o insieme del lavoro, a secondo del modo con cui si guarda ». Marcucci è stato chiamato anche da registi del cosid detto « teatro ufficiale », come nel caso di Squarzina (ha composto le musiche per Terrore e miseria del ferzo Reich). Moltissime sono le musiche che ha scritto per il cinema e per la televisione. « I problemi di Don Isidro »>. Nella foto: Stefano Marcucci, autore delle musiche e Fernando Rey MUSICHE PER IL TEATRO 1971 La vera storia di Bonnie e Clyde - (da Nelson Al- gren), regia G. Sepe 1972 Ubù re - (da Jarry), regia: G. Sepe 1973 II colloquio dei tre viandanti - (da Peter Weiss), regia: G. Sepe Tutte le candele non sono molte per Mary Orik - di J.D. Suddon, regia: Dino Lombardo Fando e Lis - di Arrabai, regia: G. Sepe 1974 Venere - di Riccardo Reim, regia: D. Maraini Scarrafonata - di G. Sepe, regia: G. Sepe 1975 Hermann (ovvero anni '30 a Berlino) - di G. Sepe, regia: G. Sepe Lumière Cinématographique - di G. Sepe, regia: G. Sepe Tempo di demoni... - di L. Tani, regia: L. Tani La guerra spiegata ai poveri - di E. Flaiano, regia: di C. Frosi 1976 La doppia incostanza - di Marivaux, regia: A. Zucchi Woyzèch che ce azzecch (dal Woyzèch di Bùchner), regia: G. Sepe La monaca fauza - di S. Trincherà, regia: M. Santella 1977 La scuola dei mariti - di Molière, regia L. Tani Frasi d’amore - di B. Margiotta, regia: T. Pulci Amleto - di Shakespeare, regia: C. Frosi Cimbelino - di Shakespeare, regia: G. Nanni 1978 La fanciulla del West - (dall'opera di Puccini), regia e adatt.: G. Lombardo Radice Capitano Ulisse - di Savinio, regia di A. Picchi Accademia Ackermann - di G. Sepe, regia: G. Sepe Il matrimonio - di Gogol, regia: G. Sepe Terrore e Miseria del Terzo Reich - di B. Brecht, regia: L. Squarzina MUSICHE PER LA TV 1972 Dentro e fuori - Telefilm sperimentale di Alberto Farassino e Nereo Rabetti (dal racconto di Beppe Fenoglio), - regia di Nereo Rabetti I problemi di Don Isidro - (dai racconti di Borges e Casares), regia: A. Frezza La scuola dei mariti - di Molière, regia: L. Tani 1978 MUSICHE PER LA RADIO 1976 I congiurati del sud - radiodramma di F. Doplicher, regia: R. Guicciardini 1977 Gialli di mezzanotte - Autori vari, regia di Augusto Zucchi S t e f a n o M a r c u c c i “ L a m u s i c a i m p e d i s c e q u a l s i a s i d i s p e r s i o n e , , Com’è nata in te l'idea di comporre musica per il teatro? Per caso. Già da ragazzo suonavo in complessini di musica leggera. Ho avuto una storia abbastanza curiosa, piena di avventure: mi esibivo in locali alla moda o sulle navi, dove capitava insomma. Non è che in me ci fossero state delle scelte prioritarie riguardo al fenomeno musicale. Seguivo il mio istinto e il co stume della mia generazione. Tutto qui. Soltanto che, con il passare del tempo, vuoi per un certo successo ottenuto, vuoi perché maturi anche una tua posizione, diciamo « professionale », sono entrato in crisi. È ac caduto quando mi sono reso conto che, andando avan ti come facevo, in un mondo di « canzonettari », di boss eletti a ungere gli ingranaggi del consumo cano ro, sarei diventato una semplice pedina da mercifica re. Allora ho avuto un profondo rifiuto, e mi sono allontanato dal mondo delle discoteche, dei night e così via. Ma sei entrato in crisi senza pensare a nessuna alternativa? Da un certo punto di vista si. Per caso, infatti, un’estate, una ragazza, attrice, Luisella Mattei, mi chiese di andarla ad accompagnare, una sera, in un teatrino, dove un gruppo di attori, guidati da Gian carlo Sepe, stava provando La vera storia di Bonnie e Clyde. Incuriosito dal loro modo di lavorare, in seguito frequentai anch’io quel gruppo di teatranti. Un giorno, però, Sepe mi chiese di comporre le mu siche per quello spettacolo. Accettai subito e cominciai a lavorare con molto entusiasmo. La prima scoperta che feci fu quella relativa alla libertà creativa in cui mi trovavo per la prima volta. Forse, allora, capii che avevo scoperto un’alternativa al mio precedente lavo ro musicale. Nicola D'Eramo e Sofia Amendolea in « Accademia Ackermann (foto Le Pera) Il tuo gusto musicale, intanto, era mutato? Non si tratta tanto di questo. Il gusto cambia all’interno di un ampio processo di ricerca e appro- fondimento. Mutando il referente, il destinatario cioè, cambiava il mio stesso modo di pormi di fronte alla pagina musicale. E questa fu un’altra scoperta, per esempio. Non guadagnavo più quasi niente. Prima, con poco, riuscivo ad avere anche compensi molto alti. Alcuni amici, che erano rimasti legati all’ambien te della canzone di consumo, accettandone la logica, cercarono di dissuadermi. Mi invitarono a fare i con ti con la realtà, a stare con i piedi per terra, a non buttarmi in una strada in definitiva troppo rischiosa. Invece, l’idea di ricominciare tutto daccapo mi affa scinava moltissimo, mi metteva come in una condi zione di verginità di fronte al fatto musicale. Quindi la scelta era compiuta, ormai, senza mezzi termini. In che cosa consisteva il tuo nuovo rapporto con la musica? Intanto nella straordinaria libertà in cui mi veni vo a trovare. Non avevo più l’obbligo di fare la can zonetta che durasse tre minuti, con l’inciso che do vesse catturare il gusto del grande pubblico. Poi, la necessità di cambiare il mio possibile intervento nei- l’ambito musicale mi dava molti più stimoli creativi. Non pensai neppure di cercare la grossa compagnia di teatro. Cominciai subito a lavorare con giovani della mia generazione, con cui sentivo di poter meglio condividere gusti e stabilire un’intesa di lavoro pro ficua e di progressiva maturazione. Con Sepe mi tro vai subito a mio agio. Mi fece capire che il mio lavoro non aveva un carattere esornativo, che era parte inte grante dello spettacolo, che, in qualche modo, si do veva accrescere di esperienze da compiere insieme. Era, quindi, una dimensione di lavoro dove non esiste va subalternità, dove tutto rientrava in un disegno preciso, magari tratteggiato giorno per giorno, ma fuo ri da ogni forma di banalità. Non ci sono state, parallelamente, delle parentesi di musica commerciale? No. Anche perché provavo un senso di autentica liberazione. Non voglio dipingermi come un artista. Non so, del resto, nemmeno cosa voglia dire questo termine e, in fondo, non mi interessa. Godevo, inve ce, di questa nuova situazione di creatività che mi allontanava dalle esibizioni pubbliche, fatte in prima persona, con abbigliamenti tipici del consumismo ca noro ecc. Ora lavoravo, serenamente, dietro le quin te, non dovevo esporre alcuna immagine di me, sem plicemente seguire una logica di composizione che si adattasse ad un preciso modello, discusso con passio ne, approfondito con sincerità. In questo modo pensi che il tuo lavoro abbia ac quistato una portata più oggettiva, più rigorosa e ap pagante? Senza dubbio. Tanto è vero che cercai di dimen ticare il passato anche per ciò che concerneva la for mazione del mio gusto musicale. Cosa non del tutto giusta. Tanto è vero che Sepe, per Fando e Lis, mi chiese proprio un lavoro sulla musica commerciale, che si rifacesse, in maniera discretamente mimetica aJ « country » e altri generi affini. Però era ormai cam biato il modo con cui mi avvicinavo anche ai toni più gastronomici della musica. Tanto mi sembrò giusta la scelta che avevo compiuta che, nel ’74, ho provato ad allestire io stesso un music-hall. Tre mesi intensi di pro ve, un gran lavoro; tutto pronto per il debutto. La cosa, però, non andò in porto. La paura, da una parte, forse la mia poca convenzione alla regia dall’altra e altri mo tivi mi indussero a lasciar perdere ogni cosa proprio alla vigilia del debutto. Oggi, a distanza, credo che giocas se, in fondo, la coscienza di affrontare una impresa più grande delle mie forze, in un paese, come il no stro, dove proprio nel music-hall non esiste una tra dizione alle spalle. Credi che vi siano, in Italia, molti musicisti che, ve nuti dalla musica leg/.c/j-,-, abbiano affrontato senza paura il lavoro nel teatro . i prosa? Non credo di essere l’unico caso. Ognuno, poi, porta con sé il peso delle proprie scelte. So benissi mo che, in qualche modo, avrei dovuto percorrere una strada di recupero musicale, che avrei dovuto non rimanere legato al gusto degli anni sessanta e primi settanta. Ma questo è un fatto che ognuno vive in modo del tutto personale. Io, per esempio, non ho potuto fare a meno di studiarmi tutta la musica della tradizione classica. E non per una specie di complesso di inferiorità, ma per un semplice e naturale bisogno. Per altri, magari, sarà diverso, e otterranno anche risultati migliori. Tutto dipende da come si fanno certe scelte e come si vuole che siano portate avanti, all’interno della propria crescita umana e culturale. Come hai lavorato, nel corso di questi otto anni, con Giancarlo Sepe? Sempre con molto entusiasmo. Con Giancarlo lo spettacolo si costruisce man mano. Il musicista per lui è come lo scrittore: deve comporre in modo che la musica sia un vero e proprio testo. Infatti, anche quando prende autori più o' meno classici, elimina, nei casi opportuni, la parola o il giro di frase che ap pesantirebbero la comunicazione scenica. In quel pre ciso momento intervengono il musicista e l’attore che, con movimenti e brani musicali, devono risolvere in immediatezza quello che era espresso nel testo. Sepe non ama la parola quando gli appare ug giosa o ripetitiva; vuole andare direttamente al « fat to ». La musica, in questo senso, permette una rapi dità di racconto altrimenti irraggiungibile. La parola può « disperdere » il valore primo di una situazione, può distrarre, può stancare. La musica elimina tutti questi pericoli. Non so per quanto tempo ancora du- rerà il mio sodalizio con Sepe. Certamente, fino ad oggi, per me ha rappresentato un modo unico di lavo rare, dove la creazione è costante e il risultato sog getto a continue verifiche. Una combinazione dove non esistono, nel lavoro, protagonisti, ma solo le ne cessità di raggiungere dei risultati con il massimo ri gore. Sono state molto diverse le esperienze avute con altri registi? Con Sepe il musicista è anche un autore dramma tico, quindi è in una condizione assolutamente partico lare. Ho lavorato insieme a Giancarlo Nanni, nel Cim belino, e con Squarzina in Terrore e miseria del Terzo Reich. TI mio rapporto con loro è stato diverso, ma altrettanto stimolante. Con ognuno di questi registi ho trovato un codice di lavoro ricco di suggerimenti. Quin di si tratta di esperienze valide e positive. Credi di essere un musicista fortunato, visto che hai già successo? Non lo so. Il mio successo, in fondo, lo devo al lavoro compiuto insieme a Sepe. La popolarità mag giore, però, mi può essere venuta dalla partecipazio ne a spettacoli da grande platea, come quelli che ho citato sopra. Allora in che senso dovrei sentirmi for tunato? Forse nell’unico modo che mi è concesso, in quanto « scrittore » di musica: quello di poter essere anch’io « artefice » di uno spettacolo Ti senti ad un punto di arrivo o di partenza, nel l’ambito della tua carriera? Come musicista mi sento ancora in una situazione di nascita. Come lavoro nel teatro, non lo so. Bi sogna vedere se la musica tornerà ad avere un ruolo importante sulla scena o, se, invece, avrà il destino di restare una specie di « figurante speciale ». a cura di Dante Cappelletti 1975: « Hermann (ovvero anni ’30 a Berlino) », regia di Giancarlo Sepe & / J 2 / S c e n o g r a f i a c o m e c o n q u i s t a d e l l o s p a z i o C’è un’immagine precisa, spesso, nella mente. Vuoi coglierla fino in fondo, tanto più se la senti carica di magia. In quel momento, tutto ciò che era chiaro, net to, distinto, ammicca a diventare nebbia, come a vo lersi sottrarre al dato creativo, alla realtà fisica. Allo ra dovresti rassegnarti al mistero, delegare tutto ad una visione fugace e fatua, consumata nell’infinita congerie del vivere. Ecco: prima di tutto io comincio proprio da qui. Stabilisco con la mia fantasia una specie di lotta che, ormai, credo sia diventata un po’ la mia dannazione. Perché devo trovare assolutamen te gli strumenti necessari per fermare e rendere pal pabile l’immagine, non fosse altro perché il suo splen dore, se mi sembra raro, non mi rassegnerei a per derlo senza «consegnarlo » agli altri. Putti, infatti, hanno diritto, come me, di godere di un sogno, tan- Uberto Bertacca di U berto B ertacca to più se è bello. Chi non ha mai provato la gioia di raccontare proprio un sogno meraviglioso? Per me la scenografia è un po’ questo, e non mi vergogno a dire pubblicamente che parte dalla mia in timità. Per questo, a volte, provo quasi un senso di disagio, riscattato, però, dalla liberazione che, intanto, è avvenuta in me. Vorrei chiarire, però, che non mi abbandono mai al sogno: l’aspetto onirico, infatti, lo vorrei comunicare agli altri, o meglio fare in modo che gli altri lo scoprano a loro piacimento. In me, quello che avviene, è un bisogno costante di immagi nazione: con questo bisogno credo di esserci nato, perché, quando ricordo la mia infanzia, non scopro altro che una quantità infinita di immagini. Ma so anche che una tendenza all’iconicità può diventare su bito cenere, se non viene raccolta immediatamente su di un piano di rigorose geometrie, nel raggio di una disciplina di forme compiute e dai contorni esatti. E’ come un costante tentativo di creare una prigione alla fantasia, perché non debordi in assoluti insondabili, dove il tutto e il nulla finiscono per coincidere. Mi viene subito davanti — e forse è quasi una figura modello che guida il mio lavoro — l’artigiano, l’in dividuo, cioè, che non aspetta di sognare per creare i propri oggetti: è mentre li fabbrica che trova appa gamento, almeno io credo così. Nel fare, nel rapporto immediato con la materia, nella disposizione diretta a rendere un pensiero oggetto fisico, si sintetizza il mio modo di lavorare. Ma, in quel preciso momento, succede di assaporare la gioia di aver catturato, anche inconsciamente, un infinito che solo la mente poteva contenere, e che era nato, per sua logica necessità, come valore astratto. Il legame misterioso che esiste tra il relativo e l’assoluto mi affascina e, a volte, mi viene di paragonarlo all’andamento del gioco infan tile. Un bambino non si accorge di quello che fa, ep pure lo fa; gioca e riproduce nella materia gli oriz zonti inesauribili delle sue fantasie. Alla fine, quando osserva quello che ha fatto, può provare anche un attimo di gioia: ma è un momento, perché il suo bisogno di creare non vuole avere limiti. Anche per me vale questo tipo di prassi. C’è una differenza però: non posso più vivere la dolce men zogna della realtà infantile e, richiamandomi al tarlo di una coscienza razionale adulta, cerco di trattenere, con le mie mani, quella soave imponderabilità dei mo menti dell’immaginazione. Per questo, forse, mi viene spontaneo creare come delle grandi scatole nero-luci de: contenitori che, in qualche modo, riescano a fer mare, negli oggetti, una magia che vorrei possedere — e far possedere agli altri ■—- senza, però, tradire il mistero, che ci appartiene a metà, perché altrimenti diverrebbe, fatalmente, vuoto assoluto. Il nero-lucido chiude lo spazio, ma, al tempo stesso, riflette le im magini. Queste le puoi sognare oltre le definizioni di una scatola, e in quella, però, le puoi racchiudere. L’importante è sapere che oltre i piani definiti, di una indiscussa geometria, si apre un’altra immensità, mi steriosa come quella che abbiamo dentro di noi. Al- lora nel gioco calcolato di queste assi e piani si incon trano due livelli metafisici: quello soggettivo e quello oggettivo. Si può dire, a questo punto, di essere riu sciti a imprigionare un po’ di mistero? Non lo so. Io ci provo. Non per calcolo teoretico, e neppure per volontà di stupire: semplicemente per un bisogno na turale, per una necessità ineliminabile, e forse, infi ne, per semplice infantile ossessione. Ricordo che, bambino, costruendo un grande pre sepe all’interno di una chiesa insieme ad altri com pagni, provai una gioia immensa quando riuscii a co struire una grotta, quella del bambin Gesù, che era una culla, una grande stanza e, con grande mio stu pore, una tana per lupi in cerca di rifugio. Giocalo, semplicemente, come non mi capita più. L’idea dello spazio è, ormai, legata alla costante conquista di una immagine: da catturare e, in qualche modo, rinchiu dere in una gabbia, una misteriosa scatola nero-lucida. UBERTO BERTACCA Uberto Bertacca è nato ad Ajaccio (Corsica), il 28 no vembre del 1938. La famiglia (il padre era marinaio) si trasferì, quando Bertacca aveva pochi giorni, a Viareggio. In questa città compie regolari studi. Più tardi, convinse i genitori a farlo iscrivere all'Accademia di Belle Arti, a Carrara. Successivamente frequenta un corso di sceno grafia a Firenze: per poco tempo, perché, intanto, aveva cominciato a lavorare, come assistente, nello studio di Mischa Scandella. Del lavoro nell’ambito delle arti figu rative era stato sempre l'aspetto scenografico che lo ave va interessato. Non aveva mai pensato, per esempio, di poter diventare pittore, anche se si era sempre interessato di storia dell'arte. Dello spettacolo aveva soprattutto l'espe rienza infantile di spettatore (amava la lirica), saltuaria come può essere quella della provincia. Bertacca sostiene che la passione per la scenografia è, in lui, un dato in nato, infatti, fin da bambino, si divertiva a mostrare ai coetaneei bizzarre costruzioni, ottenute con i più diversi materiali. Deciso a diventare un vero professionista, si adatta a fare qualsiasi mestiere, pur di rimanere legato alla possibilità di realizzare questa sua « vocazione ». At traversa un periodo molto difficile, nella seconda metà degli anni cinquanta e la prima degli anni sessanta. Dallo studio di Scandella, intanto, era passato a quello di Gu- glielminetti e poi a quello di Luzzati. Tra il 1960 e il 1963 è assistente scenografo per 15 spettacoli: classici, moderni e lirici. Intanto, nel '62, è assistente al reparto di sceno grafia al Festival di Spoleto e, l'anno successivo, allo Staatstheater di Stoccarda. Dal '64 in poi è scenografo, per il teatro, di numerosis simi spettacoli. Il suo primo importante lavoro è quello che fa per Ronconi, nel 1969: si tratta del famoso Orlando Furioso. Ma la gloria, per questa fatica, non venne stra namente a Bertacca che, ironia della sorte, rimase ancora in ombra per alcuni anni. I riconoscimenti, invece, gli ven gono dall’estero, dalla Germania e dall'Olanda, dove è uno dei più noti scenografi fin dal '62. In Italia, dopo il lavoro con Giancarlo Sepe, è stato « scoperto » come uno dei più sottili interpreti dello spazio scenico, e uno dei più fantasiosi « costruttori di immagini ». Da qualche tem po, comunque, il lavoro di Bertacca, si alterna tra il cine ma, il teatro e la televisione. Bozzetto di liberto Bertacca per « Orlando Furioso » Un uomo per tutte le stagioni - di Robert Bolt, regia: José Quaglio, S. Miniato 1974 La mandragola - di N. Machiavelli, regia: Melloni, Teatro Belli, Roma 1975 Sogno di una notte d'estate - di W. Shakespeare, regia: Mauro Bolognini, Fiesole Elogio della pazzia - di E. da Rotterdam, regia: José Quaglio, T. Belli, Roma Lorenzaccio - di A. De Musset, regia: S. Fantoni, Pistoia. Gli emigrati - di Mròzek, regia di José Quaglio, Orvieto 1976 Barabba - di De Ghelderode, regia: José Quaglio, S. Miniato In Albis - di G. Sepe, regia: G. Sepe, Teatro « La Comunità », Roma 1977 Zio Vanja - da A. Cechov, regia: G. Sepe, Teatro « La Comunità », Roma Félicitas - di M. Prosperi, regia: A. Zucchi, Teatro in Trastevere, Roma La classe di ferro - di A. Nicolaj, regia: T. Pierfede- rici, T. Flaiano, Roma 1978 Accademia Ackermann - di G. Sepe, regia: G. Sepe, Festival di Spoleto In Albis - (nuova edizione) - di G. Sepe, regia: G. Sepe, Festival di Spoleto Orfeo ed Euridice - Adattamento, scene, regia: U. Bertacca, Amsterdam, estate Il matrimonio - di Gogol, regia: G. Sepe, Teatro Valle, Roma Terrore e miseria del Terzo Reich - di B. Brecht, re gia: L. Squarzina, Teatro Argentina (Prod. Teatro di Roma), Roma Elektra - di H. Hofmannsthal, regia: A agiioni, Tea tro Stabile, Bolzano 1979 Tutto per bene - di L. Pirandello, 'egia: S. Giupponi, Siena Lontano dalla città - di P. Wenzel, regia: G. Patroni Griffi, Piccolo Eliseo, Roma Le persone irragionevoli vanno scomparendo - di P. Plandke, regia: G. Sepe, Piccolo Eliseo, Roma LIRICA 1972 Madama Butterfly - di G. Puccini, Torre del Lago La fanciulla del West - di G. Puccini, Torre del Lago 1974 La Contessa Maritza - di Kalman, regia: Paolo Poli, Trieste, Teatro Verdi CINEMA 1973 Ci risiamo, vero, Provvidenza? - di Alberto De Mar tino 1974 Roma rivuole Cesare - di Miklos Jancso 1975 L'Anticristo - di Alberto De Martino 1976 Sturmtruppen - di S. Samperi 1977 Holocaust 2000 - di Alberto De Martino 1979 I viaggiatori della sera - di Ugo Tognazzi TELEV3SIONE 1978 Questo incerto sentimento - di Preetsley, regia: C. Tuzii TEATRO 1964 L’infedele - di Roberto Bracco, regia: Maner Lualdi, Milano e tournée Il vero della Rovere - di Indro Montanelli, regia: Maner Lualdi, neH'America Latina I sogni muoiono all'alba - di Indro Montanelli, regia: Maner Lualdi, nell’America Latina La prova decisiva - di Mario Soldati, regia: Maner Lualdi, nell’America Latina La donna nell’armadio - di Ennio Flaiano, regia: Ser gio Velitti, neH'America Latina 1966 1965 W la Muerte - di S. de Mariaga, regia: Maner Lualdi, Piccola Scala di Milano Tutto per bene - di L. Pirandello, regia Maner Lualdi, Tournéee in Italia e Festival di Barcellona Edipo Re - Edipo a Colono - di Sofocle, regia: Maner Lualdi, Rai-TV Nero come un canarino - di Aldo Nicolaj, regia: Pie tro Privitera, Ensemble di Amsterdam II pendolo - di A. Nicolaj, regia: Maner Lualdi, Teatro S, Erasmo, Milano II caso Oppenheimer - regia Karl Guttman, Ensemble, Amsterdam Farfalla, farfalla - di A. Nicolaj, regia: Maner Lualdi, Teatro S. Erasmo, Milano e regia: P. Privitera, En semble, Amsterdam II Mercante di Venezia - di W. Shakespeare, regia: K. Guttman, Ensemble, Amsterdam La piuma - di Carlo Terron, regia: Mario Scaccia I frigoriferi - di Mario Fratti, regia: A. Brissoni 1967 1968 Ritorno a Matusalemme - di G B. Shaw, regia: P. Pri vitera, T. S. Bolzano. La barricata filosofale - di Buridan, regia: Carlo ' di Stefano, T. S. Bolzano Non tutti i ladri vengono per nuocere - di Dario Fo, regia: Dario Fo, T.S. Bolzano I fidanzati impossibili - di G. Feydeau, regia: Fanta- sio Piccoli, Teatro S. Babila, Milano 1969 Orlando Furioso - di L. Ariosto - F. Sanguineti, regia: Luca Ronconi, Festival di Spoleto, Festival Belgrado e Berlino, Parigi, Svezia, Danimarca, Germania, Am sterdam, Edimburgo, New York La Tragedia del Vendicatore - di C. Tourneur, regia: Luca Ronconi La legion d’onore di G. B. Shaw, regia: Fantasio Piccoli, Teatro S. Babila, Milano 1970 Coriolano - di W. Shakespeare, regia: Cristiano Cen si, ARCI Emilia-Romagna In nome di Re Giovanni - di Roberto Mazzucco da W. Shakespeare, regia: Lino Mangano, Teatro delle Arti, Roma II mutilato - di Tòller, regia: Bruno Cirino, Teatro Centocelle W l’Italia - di Dacia Maraini, regia: Bruno Cirino, Teatro delle Arti, Roma 1972 1973 Cagliostro - di Mario Moretti, regia: Bruno Cirino U b e r t o B e r t a c c a “ I l s e n s o d e l l ’ u o m o a t t r a v e r s o l e i m m a g i n i , , Capisco quanto sia difficile dare una definizione del proprio lavoro. Ma, per te, cose la scenografia? Non saprei definirla, se non rifacendomi a quanto dicono i manuali. Io sono uno che fa direttamente quello che pensa, non ho una mente speculativa. Pos so rispondere, allora, che per me la scenografia si identifica nel rapporto pressoché totale con la mia vita, col mio modo di vivere, con il lavoro che faccio giorno per giorno. Allora non esiste, secondo te, uno specifico sce nografico? Certamente esiste, non penso mai a individuarlo, forse anche per pigrizia mentale. Potrei dire che il lavoro scenografico accompagna un’ambientazione sce nica, è parte integrante dell’azione drammatica, è in dicazione di una chiave di lettura di uno spettacolo. Non mi sono mai posto, comunque, il problema se sia, nel teatro, o in altri modelli di comunicazione iconica, un elemento « secondario ». Trovo, infatti, questo, po co interessante. Quello che conta è assicurare un’unità espressiva ad una rappresentazione. La scenografia, quindi, non è un « involucro » di uno spettacolo. È, per quanto mi pare di capire, un dato di sintesi che, tuttavia, deve assecondare i vari momenti di sviluppo di un'azione drammatica. Certamente. Può accadere che il dato scenografico appaia come preminente: è un errore. Il punto giusto sta nel suo non « farsi vedere » ed essere costantemen te presente. Vi sono due momenti che vanno tenuti in seria considerazione: il testo da rappresentare e l’impostazione registica che viene data. All’interno di questi due poli lo scenografo si muove, chiarisce il suo rapporto con l’immagine, definisce l’entità di un peso che non deve mai essere debordante, infine gioca tutto il suo lavoro con quelle intuizioni che, in qualche modo, rimangono la guida all’interno della quale muo vere ogni soluzione. Dovendo, comunque definire un mio particolare atteggiamento, devo confessare che sen to sempre il bisogno di sviluppare tutto ciò che ri guarda il piano « invisibile » e rendere ragione di tutta quella serie di momenti che stanno dietro, che devono essere fatti intuire con precise allusioni. Il dato « na scosto » e quello « espresso » hanno però lo stesso peso; soprattutto nel primo, tuttavia, si possono co gliere quei segreti che conferiscono quell’ambiguità estetica necessaria ad una compiuta messinscena. In al tri termini: la lettura di un testo mi propone delle si tuazioni che, bene o male, devo assecondare. Quello che a me interessa è di trovare quella linea, diciamo segreta, che unisce e racchiude i vari momenti e che, in fondo, è il piano di interpretazione di un’opera. Questo tipo di operazione si attua attraverso il collo quio con il regista e, se è vivente, anche con l’autore, a parte una puntigliosa lettura del testo. Ma il piano di svolgimento, la strada di « materializzazione » di un’idea ecc. deve essere compiuta in maniera del tutto autonoma, seguendo i disegni delle proprie scelte ico niche e così via. In ogni caso non deve essere proprio il testo a da re le maggiori indicazioni? Esattamente. Si tratta, tuttavia, di saperlo leggere in modo tale che ne emerga una dimensione che sia unitaria e abbia la stessa necessità di coerenza del pia no registico. Faccio un esempio: potrei decidere che si possa (o debba) interpretare Amleto secondo il te ma dell’identità: rapporto tra modo di essere e modo di apparire. In questo caso tutta la scenografia non può non tener conto di questa scelta. Scelta che, ripe- to, deve essere invisibile, non prevaricatrice nell’opera da rappresentare. E nemmeno deve soverchiare l’im postazione registica, cui, invece, si deve accompagnare o, eventualmente, entrare in efficace rapporto dia lettico. In generale quale tipo di posizione assumi, a livello metodologico, nel tuo lavoro? Non so se si tratta proprio di « un metodo ». Comunque quello che mi interessa è riuscire, ogni volta, a raggiungere un punto di sintesi in cui trovi no il loro coagulo i diversi elementi di una rappre sentazione drammatica. Quindi: scenografia come ri sultato sintetico, e modello sintetico come metodo di confronto con la realtà drammaturgica nelle sue di verse sfaccettature. Cosa pensi di coloro che si mettono, di fronte ad un testo, in una posizione di tipo filologico? Ognuno è libero di fare le sue scelte. L’atteggia mento filologico, comunque, deve essere un momento intrinseco all’elaborazione dell’immagine, oppure un fine da raggiungere intenzionalmente, magari per met tere meglio a fuoco una realtà. Ma è un problema che sento poco nel mio lavoro. Eventualmente mi può interessare nella fase iniziale di una ricerca, quan do si ha bisogno della più profonda chiarezza pos sibile. Cosa ti affascina di più nel lavoro che fai? La possibilità, attraverso le immagini, di scoprire, poco a poco, la realtà dell’uomo. Ovviamente, non essendo un filosofo ma uno scenografo, uso un meto do che si riferisce ai « modelli dell’apparenza ». Ma questo non mi crea problemi. So che, così lavorando, non arriverò mai a scoprire il dato definitivo, asso luto. E’ un segreto struggimento che mi consente di proporre, costantemente, l’infinito alla mia coscien za. Ne posso avere anche paura. Ma è solo un momen to, perché sono convinto che solo così non morrò mai (al mio lavoro, è chiaro). Cerco soltanto di fare si che un dato relativo, palpabile e finito, ammicchi sempre a realtà « lontane », infinite: perché è proprio nel dettaglio che meglio si può cogliere il peso del macrocosmo, come in una foglia riconosci, magari con stupore, la bellezza di una pianta. Allora, in una scenografia tendi a « restringere » la realtà. Non è una forma di esagerata soggettivizza- zione? Può essere. Ma io so che non posso partire se non dal mio mondo interiore. È lì che trovo tutta la materia del mio lavoro. È vero che uno scenografo deve « assecondare » l’ipotesi dell’autore e del regi sta. Ma è anche vero che non può fare a meno di ri nunciare ad un suo tracciato creativo, ad un suo bisogno di espressione che, forse, è anche la sua ci fra stilistica, il mondo delle sue immagini, cui, in fon do, sente di non poter rinunciare. Nel Seicento usava, per esempio, la prospettiva trompe-l’oeil; c’era biso gno di rendere « visibile » il dato della lontananza, della fuga di piani e così via. A me, invece, piace il contrario: chiudo lo spazio, cerco di delimitarlo al massimo, in qualche modo lo circoscrivo. Ma se guar di attentamente, in quelle giustezze finite scopri, ine vitabilmente, una possibilità di fuga, un appagante allontanamento dal reale, un’illusione che, però, hai creato nella tua mente. Finito lo spettacolo, infatti, ti accorgerai che tutto era ingabbiato su piani geometrici e, se rimarrai deluso, è perché non riesci ad accetta re che la fantasia possa aver dato anche dei mondi fit tizi, l’abbandono alla soavità di un sogno, la menzo gna di un inganno già consumato. Perché ti interessa, nella scenografia, una misura in qualche modo chiusa? Perché è un po’ come beffare la realtà. Ho già detto che nel piano delimitato trovo sempre l’illimi tato. In ogni caso, forse, ho bisogno, vista la mia ten denza all’assoluto, di crearmi subito un contrappeso, uno schema che non lasci perdere nel caso -quello che ritengo debba essere espresso con chiarezza, senza i grigiori confusi dell’indeterminatezza. Secondo te, lo scenografo è un artista o un ar tigiano? Mi verrebbe di rispondere subito che è un arti giano. Ma tu riesci a sapere veramente qual è la dif ferenza tra i due? E non siamo, forse, ancora vittime di un concetto assolutistico della creazione, per cui bisogna ad ogni costo andare a cercare i dati dell’in dividuale anche in fenomeni estetici che presuppongo no un’idea di creazione collettiva? Io credo che la co sa ideale sarebbe sempre quella di poter lavorare in una équipe, dove tutti siano molto bravi e tutti ca piscano che la loro bravura si debba coordinare con quella altrui. Non si andrebbe perdendo così il cri terio della riconoscibilità di ognuno; al contrario: la si potrebbe notare di più, come avviene per i monu menti di una bella città, fatti da tante mani d’arti sta, ognuno riconoscibile nella sua diversità e origina lità, pur nel rapporto di grande armonia con tutto l’insieme, con l’ambiente e così via. Cosa resterà del lavoro di uno scenografo? Forse nulla. Forse, se è bravo, la traccia della sua sintesi figurativa rimarrà per sempre legata alla storia del costume e del gusto. E questo non è poco per un lavoro destinato a consumarsi per sua stessa natura. Non abbiamo molti dei disegni scenografici di Raffaello, perché non documentati o quasi; abbiamo, invece quelli di Sanquirico e molti altri. Ma di tutti costoro, che erano dei grandi, non si è perduto né il ricordo né la portata del loro lavoro. Trovi che uno scenografo possa adattarsi tanto facilmente a diverse forme di comunicazione? Il cine ma da un lato, il teatro dall’altro, la televisione... Uno che vive nell’oggi deve sapere con quale real tà storico-culturale deve aver a che fare. A parte que sto, comunque, io non trovo delle particolari diffe renze, per quanto riguarda il mio lavoro, tra teatro, cinema e tv. Basta essere consapevoli del mezzo in cui si opera. Torno comunque a dire che con un buon regista, una buona équipe, in qualsiasi contesto si può svolgere un buon lavoro. Se, in uno dei canali di cui sopra emerge il momento della scenografia come il più bello, torno a dire che, in quel caso, si tratta co munque di uno sbaglio, si trattasse anche di aver creato un’opera d’arte come « La Gioconda ». Perciiv — scusa se mi ripeto — la scenografia, per defini zione, fa parte, da almeno due secoli, di un più va=rn disegno: quello dello spettacolo con le sue diverse componenti. Credi di essere uno scenografo affermato? No. Soltanto ora si comincia a conoscermi, e dopo l’esperienza di lavoro con Sepe. Quanti sanno che io ho firmato le scene e i costumi àe\YOrlando Furioso di Ronconi? O della Tragedia del vendicatore, spet tacolo elisabettiano sempre diretto da Ronconi? Per tanto tempo, intorno a me, c’è stato il silenzio. Que sto non posso non dirlo, perché è stato motivo di tan ta sofferenza. Uno può credere nella fortuna o nella sfortuna quanto vuole, ma esiste una logica che, spes so, ti soverchia e, allora, è difficile accettarne le con seguenze. Sarò anche maturato rispetto a dieci anni fa — il periodo del Furioso — ; però perché, allora, qualcuno non mi fece capire che avevo sbagliato tut to e che dovevo fare ancora molta strada prima di farmi conoscere sul serio? Oppure nessuno aveva no tato l’invenzione di quelle « macchine teatrali » che, a quanto mi risulta, crearono non poco stupore... Si, devo confessarlo: dentro di me, cova ancora un po’ di amarezza. E avrò bisogno ancora di un po’ di tempo per scrollarmela definitivamente di dosso, an che se, magari, me ne libererò prima del previsto. Il successo ti è arrivato, allora, grazie a Sepe? Credo che sia arrivato contemporaneamente, questo caso, a tutti e due. in Ferché hai scelto di lavorare con Sepe? Perché lui ha un concetto di teatro in cui dà mol to peso all’immagine. Io avevo bisogno di questo, quasi per riscattarmi da un forzoso « accantonamen to » cui ero stato posto dal teatro. E poi è un regista che io avevo seguito nei suoi precedenti lavori: lo trovavo e lo trovo serio e, nel mio caso, particolar mente stimolante. Dà a uno scenografo una libertà di invenzione che è estremamente appagante. E forse an che questo conta. Come si realizza il tuo lavoro con Se'pe? Capisco quanta curiosità vi sia in questa doman da, perché Sepe è veramente un regista particolare. Intanto non ti dà mai, prima, un testo. Quindi si è costretti a lavorare soprattutto sulle sue intenzioni e intuizioni. Il primo lavoro che abbiamo affrontato in sieme è stato In Albis. Le parole non c’erano. Solo brusii. Un giovane che muore e un gioco di situazio ni all’interno di una festa elegante e conformista. Sepe mi ha detto: « mi serve una vetrata che si chiuda all’inizio e un disco volante che arrivi alla fi ne. Per il resto fai pure quello che ti pare ». Forse, in qualche modo, finivo per essere di fronte ad una condizione ideale, al livello creativo s intende. Mi mi- si subito a lavorare. Mi venne in mente un periodo, un po’ indecifrato, tra il venti e il trenta: serviva ad assecondare l’atmosfera di mistero che doveva essere rappresentata sulla scena. Per la vetrata, in fondo, nessun problema. Quello che mi preoccupava, invece, era ¡’arrivo del disco volante alla fine. Trovavo que sta ipotesi troppo concreta, priva di ambiguità, di un « irreale » 'troppo corposo, che avrebbe stonato con tutto il resto. L’idea di Sepe, in sé, non era male; sentivo, però, che andava modificata proprio in quella ipotesi del disco volante. Allora convinsi Giancarlo che io non avrei snaturato affatto la sua intuizione con l’uso di un altro espediente: una grande palla di vetro che, sullo sfondo di un blu intensissimo e lu minoso, arrivava lentamente, luminosissima, nella sa la della festa, per poggiarsi, alla fine, sul tavolo. Tra l’altro questo finale, che convinse tutti e due, me e Sepe, permise di concludere la rappresentazione in un’asse interpretativo dalle molteplici indicazioni. Non era solo uno stimolo dell’occhio, ma una sollecitazio ne inquietante al livello emotivo, che giocava, senza sbavature, anche le corde del sentimento, per lasciarti in una incertezza dove, smarrito, sentivo il bisogno di cominciare daccapo qualcosa. Come vedi, parlo di In Albis con entusiasmo: lo considero lo spettacolo della mia rinascita e questo fatto, in qualche modo, mi è sembrato di averlo comunicato al pubblico che l’ha visto. Mi hai parlato di In Albis. Ma come arrivi, poi, a Zio Vanja, sempre con Sepe, che, però, questa vol ta, utilizza un testo, per di più un classico? Zio Vanja è nato in modo strano. Durante le rap presentazioni di In Albis, stavo spesso con Sepe in cabina di regia. Lui mi parlava di diversi progetti: aveva in mente di portare in scena un’opera di Mo zart, poi mi parlava di un testo di Rosso di San Secondo, poi ancora di un Mercante di Venezia di Shakespeare. Io lo ascoltavo attentamente e, ogni volta, correvo a casa e lavoravo su ognuno di quei progetti. Tornavo la sera dopo e mostravo dei boz zetti, dei disegni e così via. Alla fine, vista la sua indecisione, mi ero rassegnato a non fare più niente, anche per mancanza di tempo. Fu a questo punto che, improvvisamente, Giancarlo propose Zio Vanja. Lì per lì ero un po’ seccato. Poi, per ripicca, mi sono messo al lavoro. C’era il problema dello spazio. L’ave vo già affrontato con In Albis, ma lì le cose erano più semplici. Qui la vicenda presupponeva uno spazio grandissimo, non fosse altro per la quantità delle situazioni e la particolare contestualizzazione dei per sonaggi. Sepe, per Mozart, aveva avuto l’idea di usa re degli specchi per « dilatare » lo spazio, e mi fece la stessa proposta per Zio Venja. Non accettai l’idea di mettere degli specchi anche sul soffitto, però mi sot tomisi al resto. Lavorai alacremente e, pur con im mensa paura, si arrivò, finalmente, a dei risultati che, ancora oggi, ci confortano di un lavoro di comune intesa e di grande complementarità. Vorrei che tu mi parlassi di Accademia Acker- mann. Questo spettacolo, ideato per uno spazio piccolo, ma più profondo di quello del teatro « La Comunità » — il debutto è stato a Spoleto, la scorsa estate — è nato molto lentamente. Giancarlo lo costruiva strada facendo ed io, ad un certo punto, mi sono sentito un po’ confuso. Per un po’ ho lasciato che andassero avanti le prove, poi, giunte a un punto quasi conclu sivo, ho parlato e discusso a lungo con Sepe. All’ini zio avevo avuta l’idea dei siparietti, ma dopo, al punto in cui stavano le cose, mi sembrava assurda. Data la natura dello spettacolo mi pareva necessaria una grande prova di sintesi scenografica. E così, in fondo, è stato. Una grande scatola nero-lucido, una apertura improvvisa di porte per un valzer, una sala un po’ astratta (l’unico richiamo di tipo storico è il pavimento a scacchi), il modellino di Metropolis (idea tutta di Giancarlo e che ho condivisa) e un teatrino. Ecco: tutto lo spettacolo si può ridurre a questi pochi elementi scenici: sintesi, spero efficace, di una con dizione che era in bilico tra il sogno e un astratto « rimando * alla storia. Il resto doveva essere, come poi è stato, movimento e musica (qui un vero e pro prio testo). Elementi, questi, che spero di aver as secondato e, se possibile, valorizzato, con la mia sce nografia. Perché usi sempre il nero-lucido e la scatola? Ne II matrimonio, realizzato negli spazi del teatro ufficiale, sempre con Sepe, ho usato, però, il bianco. In ogni caso è vero il fatto della « scatola »: è una mia costante. C’era anche in Terrore e miseria del Terzo Reich, spettacolo in cui la mia scenografia, pur omologa a quella di Accademia Ackermann, aveva un senso completamente diverso. Il nero-lucido mi ha sempre dato la sensazione che vi possa essere qualco sa dietro, oltre la rifrazione che viene a me, come un filo magico di un mistero che forse mi porto dietro senza riuscire a chiarirne mai il perché e le dimensio ni. Mi piace semplicemente che da un dato finito, — la scatola con il suo spazio circoscritto, e il nero lucido, con le sue ambigue rifrazioni — si possa pas sare, di colpo, con un veloce salto di fantasia, ad un piano dove puoi spaziare liberamente, dove, proprio perché finito e infinito si incontrano in fondo, puoi quasi racchiudere l’illusione di un’eternità. a cura di Dante Cappelletti L A S E M P L I C I T À 1 C O M E L I M I T E E F O R Z A di M aurizio G iam m usso mento tragico della vita (Scarrafonata, Mascheropoli, Zio Varila). Altrimenti vi è sempre stata quella « giu stissima fanciullagine » che Nicola Chiaromonte aveva ravvisato dieci anni fa ne I misteri dell’amore. Una « giustissima fanciullagine » che forse è la stessa di quando il regista da bambino giocava coi burattini, la stessa di molti musical americani, primo amore di Se pe « cinefilo », la stessa clownerie che egli seppe sco prire fin in Finale di Partita di Samuel Beckett (1969), poi appunto ne I Misteri di Vitrac e poi ancora in Ubu re di Jarry. Da questa scoperta dell’avanguardia francese Sepe sarebbe forse partito per altre mete, alla ricerca di altri testi « da giocare ». Ma fu allora (con La vera storia di Bonnie e Clyde) che incontrò il musicista Stefano Marcucci e scoprì di non aver più bisogno di un testo: d’ora in avanti gli sarebbe bastata la musica, un abbozzo di trama e tante prove in pal coscenico. Sono venuti così Hermann-Germania anni '30, Lumière Cinématografie, Allegro cantabile e tan ti altri spettacoli, tutti diversi e tutti simili nella loro cifra stilistica, nella imitazione dell’amatissimo cinema e nei tempi musicali esattissimi. « Sei il più cinemato grafico dei registi teatrali » ha detto una volta a Sepe Federico Fellini. Il biografo non ha potuto registrare il giudizio di Garinei e Giovannini, ma è sicuro che avrebbe tradito un po’ d’invidia. C’è in Accademia Ackermann una scena, un foto gramma vorremmo dire, che sintetizza il senso dello spettacolo e di gran parte del lavoro di Giancarlo Sepe fino ad oggi. È nella prima parte, quando il mi nistro della cultura nazista passa in rassegna gli al lievi della Accademia disposti in fila, rigidi e impet titi come un plotone di SS. Terminata questa azione, tutti si voltano verso il fondo, dove campeggia il gran de ritratto del Fuhrer, come nel rito militare dell’alza bandiera. Il quadro si illumina, mentre sicuramente spi ra fra i presenti il più commosso Amor di Patria Nazi sta. Tutto è assolutamente realistico, tutto « sembra ve ro », quasi un cinegiornale d’epoca. Ma, clic, le lam padine s’accendono e si scopre il trucco: sono piccole luci azzurre attorno alla cornice del quadro, colorate e festose, un po’ pacchiane, come la coroncina lumi nosa di una Madonna di Piedigrotta. Lo spettacolo è in gran parte in sfumature come questa. Sepe ricostruisce una iconografia pressocché perfetta dalla scena, ai costumi, ai movimenti, alle poche battute del testo: « Sembra ha caduta degli dei », dice qualcuno in platea. Ma ecco che Visconti cede il passo a Mauro Bolognini: nella stessa perfetta iconografia si inserisce la burla, lo sberleffo; con l’iro nia il regista prende le distanze dal suo spettacolo. Questo sembra il nodo poetico, o se si preferisce il Grande Espediente, del teatro di Sepe: il gioco. Il teatro per lui è l’esercizio di inventare una storia, comporne e scomporne gli elementi, rappresentarla, farne partecipi, cioè « far giocare » anche gli altri. Da qui la diffidenza e l’imbarazzo di una parte della cri tica nei suoi confronti, quella abituata a vivisezionare le pretese iperculturali di alcuni gruppi dell’Avan guardia, quella che tenta di far luce arbitrariamente nelle fumisterie più oscure della Postavanguardia. In Sepe, nel bene e nel male, tutto è chiaro; la sua semplicità è il suo limite e la sua forza. Questo è avvenuto sempre, con poche eccezioni che sono poi gli spettacoli ove il comico cedeva il passo al senti « Accademia Ackermann » (foto Le Pera) A C C A D E M I A A C K E R M A N N (Per una esatta lettura del testo si avvisa che il sag gio dell'Accademia Ackermann si ambienta in Germa nia nel 1938, all'indomani dell'editto hitleriano sulla cultura pericolosa. Tutto ciò che si dice nello spettacolo era convinzione comune del buon nazista-ariano. Favoleg giando la triste storia di quel momento si è voluto vedere la realtà di quegli anni attraverso l’ottica di chi allora era convinto assertore della politica hitleriana). prende il suo nome PERSONAGGI: LILY ACKERMANN: direttrice della scuola di teatro che OSCAR VON SCHAB: suo braccio destro e amante IL MINISTRO: nazista della cultura HERMANN: Allievo SONIA: Allieva INGRID: Allieva GERTRUD: Allieva HANS: Allievo KURT: Allievo HELMUTH: Allievo KARL: Allievo KRISTINE: Allieva La scena rappresenta l’interno dell’accademia il gior no prima del saggio finale degli attori. Le pareti sono nere e lucide. Il pavimento è a quadri, in legno. La sala appare molto vasta, sui lati ha dieci porte. Non c’è sipario. All’inizio è tutto buio. Si accen dono cinque fasci di luce di taglio. Una musica accom pagna la Ackermann, che avanza sulla sua carrozzella da paralitica. È bionda, con utt vestito nero e scarpon- cini ortopedici dello stesso colore. La musica si fa incalzante. La Ackermann con no tevoli sforzi tenta di raddrizzare le gambe paralizzate. Ha il volto contratto in uno sforzo disperato. Non ce la fa e ricade sulla sua carrozzella, estenuata. Si ad dormenta e sogna. IL SOGNO DI LILY ACKERMANN Seguendo la musica, con un ritmo calcolato al cen tesimo, le teste degli allievi spuntano dalle porte ai due lati della scena. Gli uomini hanno tutti i baf- fetti neri e i capelli lucidi di brillantina. Dopo que sto « balletto di teste », la luce si concentra sulla Ackermann. Le sue gambe cominciano a muoversi. Lei si alza e balla, sorridendo, attorno alla carroz zella. Dal fondo compare Hitler, che balla con lei un valzer travolgente. Entrano in scena tanti altri Hitler, che fanno coppia con le allieve dell’accade mia vestite di bianco. Tutti ballano il valzer. Ma ba sta uno sternuto perché la Ackermann si svegli. Le gambe sono tornate rigide. È in piedi di nuovo sola lontano dalla sua carrozzella, che non riesce a raggiungere. In preda al panico chiama: Oscar! Oscar! Von Schab le si avvicina. La prende in braccio e la adagia nella carrozzella. Le dice parole, che non si sentono, Lily non lo sta ad ascoltare e con un gesto lo manda via. Sola per il corridoi dell’accademia, la Ackermann passando davanti alle porte si assicura che gli allievi dormano. Tornata al centro del corridoio, si riad dormenta col pensiero fisso al saggio dell’indomani. LA PREPARAZIONE AL SAGGIO È giorno. Von Schab suona il campanello della sve glia. Spinge la carrozzella della Ackermann in fondo alla sala, per farla assistere alla preparazione del saggio. Entrano gli allievi, tutti in camice da lavoro, co minciano le pulizie della sala con gesti meccanici. Von Schab sistema un grande ritratto di Hitler sul fondo mentre gli allievi escono di scena, si avvici na al microfono e dice con voce incolore: Gli allievi dell’Accademia sono pregati di presentarsi nella sala delle esercitazioni per le prove della ceri monia. Disposizione per l’inno dell’accademia. Al posto. Omaggio floreale. Al posto. Prova microfono. g li a llie v i (che ad ogni comando hanno eseguito prontamente, rispondono in coro): Eccellente! von schab (riprende): Disposizione per il passaggio in rivista di sua eccellenza... perfetto. Accensione del quadro del Fiihrer... mirabile! Breve pausa in attesa dell’arrivo di sua eccellenza. Gli allievi rompono le righe. Si raccolgono in pic coli capannelli, parlottando fra di loro. Alla spiccio lata si muniscono di gagliardetti e bandiere naziste. Una musica trionfale annuncia l’arrivo del ministro della cultura. Lo accolgono con un ossequioso sor riso la Ackermann e Von Schab. Ad un cenno di quest’ultimo, un’allieva porge al ministro un mazzo di gladioli bianchi. Il ministro ringrazia l’allieva e li porge alla Ackermann. Questa ringrazia e porge il mazzo a Von Schab. Quest’ultimo, sorpreso e im pacciato, li restituisce velocemente all’allieva. Rigida sull’attenti la ragazza prende i fiori e li butta fuori dalla scena. Il tutto avviene rapidamente, in poche battute musicali. Gli allievi ora si dispongono per l’inno della scuola. t u t t i (cantano l’Inno dell’Accademia Ackermann): Siamo grati al Fiihrer, al popolo e alla nazione, alla nazione che al nome di fratelli chiama tutti Germania, Germania, terra di libertà! Germania, Germania, terra di libertà! Laddove il popolo esulta fiero: Germania, Germania, terra di libertà! Con la nostra arte di attori celebriamo la tua poesia, la tua melodia, la supremazia; solo un favore ti chiediamo: essere sempre meritori di appartenere al tuo nome; Germania, Germania, terra di libertà! Germania, Germania, terra di libertà! Germania! Alla fine dell’inno gli allievi si dispongono in fila su un lato della scena per il passaggio in rivista. Il ministro sfila, come ad una parata militare. Arrivato sul proscenio, si volta. Sul fondo si accende il qua dro del Fiihrer illuminato da lampadine azzurre co me una Madonna di Piedigrotta. Tutta la scena è sottolineata dalla musica. Il ministro si avvicina alla maestosa poltrona che gli è stata preparata, simile ad un trono. Von Schab gli porge il microfono. i l discorso del m inistro (il testo è tratto da un discorso di Hitler ndr): È compito dello Stato im pedire che un popolo venga spinto nelle braccia del la pazzia spirituale. Guai ai popoli che non sapranno più dominare questa malattia. Cosa avrebbero detto i grandi drammaturghi di qualsiasi epoca delle cir- costanze che ne erano le cause? Come si sarebbero accesi di sdegno Schiller e Goethe! Ma sì, chi sono Schiller, Goethe e Shakespeare, in confronto al greg ge della più recente poesia tedesca? Delle figure an tiquate sfruttate, sorpassate, anzi superate! Perché la caratteristica di tale epoca era questa: che essa non solo non produceva altro che porcherie, ma in più insudiciava tutto ciò che del passato era vera mente grande. Ogni vera innovazione non tema di essere offuscata dal passato. Per se stessa ella dà un così prezioso contributo al patrimonio della Cul tura umana da tenere in vita il ricordo delle opere del passato, per assicurare maggiormente alla nuova conquista la piena comprensione della generazione presente. Solo chi non è in grado di dare di se stes so qualcosa di prezioso al mondo odierà, negherà e distruggerà tutto ciò che esiste e persiste. Heil Hitler! g li a llie v i (in coro rispondono)-. Heil! Oscar von schab (risponde al ministro)-. L’Accade mia, che con la vostra presenza avete onorato in questo giorno così importante per gli allievi che ne fanno parte, attraverso il saggio di fine anno vuole dimostrare la gratitudine che tutti noi abbiamo per la nostra grande Patria e per l’uomo che la guida e guiderà per sentieri mai battuti in passato. L’Ac cademia Ackermann vuole dimostrare come il tea tro, ed in particolare il lavoro dell’attore, può ren dersi utile ai fini della causa che il Nazional Socia lismo si prefigge per imporre la Grande Germania al comando del mondo intero, in questo periodo continuamente minacciato dall’arroganza bolscevica. Bene ha fatto il nostro amato Fùhrer a bandire dal le nostre letture, dalle nostre scuole, dagli insegna- menti, dai palcoscenici, quella cultura trivia e cor ruttrice, che già in passato innumerevoli popoli ha portato allo sfacelo. Alla sensibilità e alla benevolen za del nostro illustre ospite, ex allievo di questa Accademia, rimettiamo il giudizio sul nostro ope rato, pregandolo di partecipare al saggio, oltre che con la sua attenzione, anche con i suoi interventi, qualora lo ritenesse necessario. La prova degli al lievi, tutti egualmente meritori, si articolerà in tre parti... {Due allievi fanno scivolare il trono su cui è seduto il ministro fino al proscenio. Tutti gli allievi escono, mentre Von Schab prosegue)-. Prima parte: le norme che regolano l’ammissione dei giovani al l’Accademia, presentazione, vita e studio. Esercizi ginnici vocali. comincia i l saggio... [La musica è incalzante. Gli allievi entrano disordi natamente urlando ciascuno il proprio nome. Mostra no quanto fossero indisciplinati all’arrivo in Accade mia. Ballano, ridono, si agitano fino a quando Von Schab grida)-. No!... Disciplina! {Gli allievi si dispongono velocemente in fila per la visita medica. Von Schab li esamina rapidamente. g li a llie v i (cantano, assecondando coi movimenti le parole della canzone, a tempo di valzer): Se lo spirito dimora in un antro tenebroso, dai più cura al tuo corpo, solleva il braccio destro, l’altro ben piegato dietro, ginocchio sinistro a terra, la testa girata a manca, e così di seguito vai, alterna i movimenti. (ritornello in coro con controcanto). Ein, Zwei, Drei Sein schnell irei Divarica le tue gambe, alza le braccia sul capo, fai roteare i polsi, distendi le tue dita, e come- per salutare, apri e chiudi la tua mano, gagliardo saluta l’uomo, che ora qui ci onora e digli di ricordarci al nostro immenso Fùhrer... (ritornello in coro con controcanto). Ein, Zwei, Drei Sein schnell irei. Ad alcuni controlla i denti, ad altri i riflessi. Ad altri ancora saggia con un dito l’elasticità anale. Con trolla i loro certificati di razza ariana. Dà dei co mandi): Un salto in avanti! Al posto! (Gli allievi, ancora mente). impreparati, eseguono goffa VON schab (rivolto al ministro spiega): Prima lezione: il corpo. von schab (appena terminato il ritornello, annuncia): Secondo esercizio: la parola. (Un « occhio di bue » illumina la Ackermann, che inizia a cantare da sola, con una musica di sapore hollywoodiano): La parola nasconde più insidie di quanto voi potete immaginare. Ti aggredisce con violenza e ti fa sbagliare. , Come debellare questa insidia? Non c’è altro che preparazione, una giusta articolazione, e non puoi sbagliare. GLI a llie v i [la seguono in coro): A come Ackermann Accademia, B come beltà che visse un dì, C come credi in ciò che vale, D come dai tutto a chi ti guida, E come estromettere ebreo, F fai tu mio grande Fùhrer, G come Germania io credo in te, H come heil heil HITLER!!! La parola nasconde più insidie, di quanto voi potete immaginare, ma non quella del vero nazista, non ti fa sbagliare. Alla fine della canzone gli allievi rientrano nelle loro stanze. Il ministro si compiace, con la Acker mann e Von Schab, per il grado di addestramento degli allievi. Parlottando i tre raggiungono il fondo della scena. VON schab [annuncia): Seconda parte: Weimar: ovvero come la Nuova Germania ha distrutto i pericoli di una cultura corruttrice. Von Schab indossa un giaccone di pelle nero e un paio di occhiali neri. Il volto gli si contrae in un ghigno satanico. È il Grande Corruttore Gli al lievi montano il modellino della « fabbrica » di « Me- tropolis », di Fritz Lang, esempio della Babele della « cultura permissiva e corruttrice ». Si sente un can to di gallo imitato dalla voce di un uomo, come nel film « l ’Angelo azzurro ». Si aprono le finestrine della città di Weimar, lasciando intravedere due prostitute che si stanno rivestendo. Due allievi, vestiti da ma- rinaretti, appaiono sulla scena, restando ai lati. i l grande corru ttore (canta loro una canzone): Innanzitutto dobbiamo imparare ad essere d’accordo. Tanti dicono sì: cionondimeno non c’è l’accordo. A molti non si domanda nulla, e molti son d’accordo nell’errore, Quindi innanzitutto dobbiamo imparare ad essere D’accordo. I due m arinaretti (cantano a loro volta): Innanzitutto dobbiamo imparare ad essere d’accordo. Tanti dicono sì: Cionondimeno non c’è l’accordo. A molti non si domanda nulla, e molti son d’accordo nell’errore, Quindi innanzitutto dobbiamo imparare ad essere D’accordo. Terminata la canzone, il Grande Corruttore prende per mano i marinaretti. Li conduce alle finestre, do ve sono riapparse le prostitute che li baciano e li accarezzano. La canzone viene ricantata da tutti, mentre con evidente sadismo il Grande Corruttore fa il gesto di frustare i marinaretti. Le finestre si chiudono di scatto: i marinaretti sono entrati in città. i l grande corru ttore (annuncia): Una favola, a Weimar... Entra in scena la bambina di « Ai », il film di Lang. È allegra, gioca con la bambola che ha in mano. Re sta stupita e affascinata davanti alla immagine della grande città. Due loschi figuri sbucano dai lati di Metropolis. Uno addenta ritmicamente una mela con voracità, come Peter Lorre in « M ». Si rivolge verso la bambina, la insegue, l’afferra. Attraverso una fi nestra si vede l’atroce scena dell’assassinio della pic cola. La finestra si chiude. Escono le due puttane con mosse provocanti, restando ai lati della sagoma. Arriva la madre della bambina, Elsie, disperata. Cer ca la figlia, si inginocchia davanti alle prostitute. Da una finestra la città di Weimar sputa la bambola. La madre grida ancora più forte. I due marinai tor nano fuori e a tempo di musica vengono presi per mano dalle puttane. Inizia un frenetico girotondo attorno alla città, come nelle ultime immagini di Metropolis. Vi partecipano via via tutti i corrotti abitanti di Weimar. Il girotondo termina all’improv viso. Cambia la musica, colorandosi di trionfalismo. Sul proscenio avanza l’Ariano Puro: è un giovane alto, biondo, dai lineamenti duri, con lo sguardo pro teso verso « un radioso futuro » osserva la città di Weimar. Si china a sollevare la madre, che ancora piange la sua bambina. La consola. Insieme verso una felicità che verrà grazie al Nazionalsocialismo. Il giovane ariano soffia in un fischietto. Al suono forte e prolungato accorrono Lily Ackermann, Von Schab e il ministro, anche lui coinvolto nel saggio. I tre alzano su Metropolis una bandiera nazista. L’as sassino viene trascinato fuori. L’ariano e Von Schab fischiano. Il crescendo dei sibili alimenta la furia dei colpi sempre più intensi della madre, che colpisce l’omicida. L’uomo si svegne. von schab (dice): Weimar: vita e morte di una so cietà permissiva. Breve pausa in attesa della realiz zazione della terza parte. (Gli allievi smontano rapidamente il modellino di Metropolis. Sgomberata la scena parlottano fra loro e domandano a Von Schab l’esito delle prime due parti, del saggio. Nel frattempo, sul proscenio, il mi nistro si mostra sensibile alla bellezza della Acker mann. L’aiuta ad alzarsi e la sorregge, incoraggian dola a muovere dei passi. La donna divertita mostra di gradire le sue attenzioni. Von Schab ingelosito, lascia gli studenti e si avvicina ai due. Dal gruppo si stacca un’allieva. Si. inchina davanti al ministro e annuncia una « sorpresa » preparata in suo onore dai giovani)-. Due esempi di fedeltà alla patria. Primo esempio: l’omosessuale scoperto. La pantomima segue il testo della canzone cantata in coro. Ad un certo punto il ministro interrompe la canzone, urtato dall’eccessivo realismo delle pa role. Ma poi si lascia trascinare dalla vicenda nar rata e si riunisce al coro: l ’omosessuale scoperto La salvezza viene dal regime che per tutelare tutti noi ha provveduto a legiferare contro le insidie dei pervertiti: Ancora non è un anno che anche qui la presenza rosa dell’uomo donna con le sue sottili trame d’amore cercava di concupire i giovani era una sera di grande pioggia dovendo soddisfare un mio bisogno sentii parlare lungo i corridoi là, dietro un separé un uomo-donna Anche se la lingua si rifiuta vai dobbiamo dire come l’Accademia ha reagito all’orribile mostro nemico della famiglia Ariana. L’omosessuale con fare lezioso vestito da donna lo corrompeva facendosi passar per chi non era non aprivo la bocca ma l’odiavo Anche se la lingua si rifiuta vai dobbiamo dire come l’Accademia ha reagito all’orribile mostro nemico della famiglia Ariana All’improvviso gettai un urlo quella cagna cercò di ricomporsi gli allievi spaventati accorsero e con loro la nostra Ackermann Non poteva sottrarsi al giudizio tutto era inequivocabile ma lo stesso lo facemmo parlare l’evidenza non si poteva celar In me non c’è la volontà di corrompere nessuno e poi si sa solo chi vuol non si sottrae al piacer Tu dici il falso e lo sai il tuo mal è contagioso e poi, e poi andiamo che piacer si può trovare Ti posso mai condannare se a te piace il nero e non il rosso della passion e poi e poi son fatti miei Tranquillizzatevi Eccellenza poi non disse altra parola legammo l’invertito fuori aspettando la polizia Ecco un altro esempio di come l’Accademia è ligia ai doveri del fedele cittadino ariano non ti preoccupar, noi siam tutti sani L’omosessuale è come l’ebreo lo disprezziamo lo dileggiamo lo denunciamo lo eliminiamo anche se la lingua si rifiuta abbiamo detto come l’Accademia ha reagito all’orribile mostro nemico della famiglia Ariana. (La canzone termina col pubblico suicidio imposto dalla folla all’omosessuale). l ’allieva (annuncia)-. Secondo esempio di fedeltà alla LA CANZONE DEL SEI Patria: la canzone « del numero sei ». Due pannelli neri posti orizzontalmente formano una sorta di teatro di burattini. Le teste degli allievi vi sorgono all’improvviso. E all’improvviso, termi nata la battuta musicale, vengono inghiottite nuova mente dal buio. Le luci sono di taglio. I bltrattini (cantano)-. Per meglio identificar l’ebreo, abbiam studiato la sua conformazione. Quelli posson essere anche biondi, azzurri i loro occhi criminali, bianchi i loro denti famelici, ma a nessuno può sfuggire il loro naso, esso come un sinistro baglior spicca: lor hanno il naso a forma di sei, scomponi il numero equivoco e hai: SCACCIAR EBREO IMMEDIATAMENTE SEI Se solo la voce circola tra noi, vuoi vedere la triste conseguenza? Ce un Ebreo nell’Accademia. Non pensavo che tra i mille e mille numeri si nascondesse un traditore: SEI SCACCIAR EBREO IMMEDIATAMENTE SEI Scacciar Ebreo Immediatamente In guardia devi stare non puoi seder ovunque « Riservato agli ebrei » SEI SCACCIAR EBREO IMMEDIATAMENTE Ovunque te li trovi: È strano quel dottore: È un corruttore ebreo: SEI SCACCIAR EBREO IMMEDIATAMENTE Non sai dove andare: « dà i dolcetti l’omino » È uno sporco EBREO!!! SEI SCACCIAR EBREO IMMEDIATAMENTE Ho sempre pensato all’ebreo, come ad un fungo avvelenato: « Piccolo com’è può intossicare mille di noi! » NO! EBREI Kaputt!!.! Terminata la canzone, sparisce il teatro dei burat tini. Il ministro si complimenta con gli allievi. Stringe loro le mani e distribuisce bracciali di stoffa rossa con la svastica nera. Gli allievi orgogliosi se li fis sano al braccio. In questa atmosfera eccitata di caldi sentimenti nazionalsocialisti accade uno spiacevole incidente: la luce va via. E proprio in quel mo mento uno dei cordoni che reggono il quadro illu minato del Fiihrer cede. Era il panico generale la figura di Hitler si inclina. Ma subito torna la luce. Il quadro viene sistemato. von schab (può annunciare)-. Terza parte: la storia della nuova Germania attraverso l’esemplificazione scenica del repertorio scespiriano. Alla morte di Hin- denburg, la figlia, Germania, va in sposa all’uomo prescelto dalla sorte. Ascesa e regno del Nazional socialismo. SHAKESPEARE SECONDO IL NAZISMO In questa ultima parte dello spettacolo il ruolo del la musica diventa ancor più importante. I suoi toni si fanno cupi, si crea un’atmosfera sonora da me dioevo barbarico, così come lo vedeva il tardo ro manticismo tedesco: molto tamburo e cornamuse. Scompare il quadro illuminato del Fiihrer e dal fon do avanza quello che sembra un cubo nero. È un piccolo palcoscenico, che si apre come un armadio. Vi si svolgerà tutta la rappresentazione scespiriana. I personaggi appaiono e scompaiono inghiottiti dal buio attraverso un gioco di drappi. Volutamente si intravvedono qua e là le divise accademiche degli al lievi attori e i bracciali rossi con la svastica donati dal ministro. La sequenza mostra una serie di analogie storico poetiche. Nella prima l’ultimo cancelliere della Ger mania prenazista, Hindemburg, appare sotto le spo glie del padre di Porzia, il personaggio dello scespi riano « Mercante di Venezia ». Porzia assume così il ruolo della giovane Germania in cerca di un ma rito. Subito si intreccia alla prima una seconda ana logia: lo sposo di Porzia è Macbeth. Dall’incontro con le tre streghe all’incoronazione, si assiste in ra pida sintesi a tutta la sua inarrestabile corsa verso Lily Ackermann si agita sconvolta sulla sedia a rotelle. Il palcoscenico scespiriano arretra lentamen te, inghiottito dal buio. Siamo di nuovo nel salone dell’Accademia. La Ackermann ora dorme un sonno agitato. È mattina. Von Schab le si avvicina e la scuote. La donna si sveglia di soprassalto. All’im provviso capisce: tutto è stato un incubo. Il saggio deve ancora cominciare. tra poco. Il ministro arriverà von schab (spinge la carrozzella fino al fondo della sce na. Si avvicina al microfono): Gli allievi dell’Acca demia sono pregati di presentarsi nella sala delle eser citazioni per la cerimonia. Tutto avviene come nella scena iniziale. Gli allievi entrano. Si fermano davanti alle loro porte. Musica trionfalistica: entra il ministro. Scambio di conve nevoli. Un’allieva porge i fiori al ministro. Il mini stro ringrazia Tallieva e li porge alla Ackermann. Questa volta sono gladioli neri. Sul volto della Ackermann si disegna un sorriso. L’immagine si blocca. Si sente in lontananza l’inno dell’Accademia come distorto da una radio. I dieci fasci di luce che entrano di taglio dalle porte, si spengono a coppie, dal proscenio al fondo della scena. Il ministro, Von Schab e la Ackermann restano illuminati ancora per un attimo. Poi la luce si concentra sul volto del Fiihrer. Il cono di luce si restringe lentamente. La musica cresce. Buio. Anche i ringraziamenti degli attori avvengono se condo il rituale dell’Accademia Ackermann. Prima entrano gli allievi, disponendosi a semicerchio. Al centro sono Von Schab e la Ackermann, che lasciano fra di loro un vuoto per il ministro. Questi arriva dal fondo. Batte i tacchi. Tutti si inchinano compo stamente per tre volte. Il ministro batte ancora i tacchi. Tutti escono. FINE Il testo è tratto dal volume « Sepe, un palcoscenico per giocare » di M. Giammusso. Per gentile concessione della Nuova Rebellato Editrice, Venezia. Servizio fotografico di Marcello Morberth il potere. Ma quando sta per ricevere la corona, si scorgono sul suo volto due sottili, inconfondibili baffetti: Macbeth è Hitler. Nella prima scena della sequenza appena descritta Hindemburg, padre di Porzia, è agonizzante su un letto. Lo circondano cinque teste mascherate, che si muovono a scatti ritmicamente, seguendo la musica e allo stesso tempo l’ansimare del morente. Il vec chio cancelliere muore e scompare, inghiottito dal letto. Porzia-Germania, che ha assistito a tutta l’ago nia, esce di scena. Dal suo strascico compaiono i tre famosi scrigni del « Mercante di Venezia ». La scena ora è vuota. Macbeth entra cavalcando con elmo e mantello. Circondato dalle tre streghe, scompare e ricompare subito sul fondo della scena con un elmo diverso, che già mostra la sua cresciuta potenza. Scompaiono le streghe e Macbeth. Porzia avanza da un lato. Il suo mantello si ab bassa e lascia intravedere le sagome dei tre preten denti, visti di spalle. Sventola una bandiera na zista. Macbeth l’afferra. E usandola come lancia in filza le tre sagome, che scompaiono di scena. Ap paiono i tre scrigni. Una mano sceglie fra i tre. Apre il coperchio. Ne trae un plico e scompare. Riappare Macbeth col plico in mano. Prende sottobraccio Por- zia ed esce. Dai lati del palcoscenico entrano otto maschere, che sbucano da due drappi che avvolgono tutta la scena. Sono la folla che assisterà all’inco ronazione. Dal centro entra Porzia. Inginocchiandosi di spalle, scopre Macbeth con la corona sulla testa chinata in avanti. Il capo si alza lentamente. Sul volto vi sono gli inconfondibili baffetti. Assetato di potere Macbeth scuote i due drappi, che ricadono vuoti per terra: la folla è svanita, le maschere scom parse. Macbeth-Hitler si avventa su Porzia-Germania e la strangola. Si avvia sul trono, mentre il ministro sconvolto si dirige verso il proscenio. Macbeth si siede sul trono. Il ministro si china su Germania. Disperato si copre il volto con le mani. Poi alza le braccia al cielo. Quattro pugnali lo trafiggono. Su questa immagine la scena si blocca: il ministro è trafitto, sul suo volto una smorfia di dolore e sor presa, a terra Porzia esanime. A p r o p o s i t o d i C l a u d i o P o g g i a m i Parto dal dato che più mi colpisce. La capacità di disegnare e far vivere i personaggi femminili. Posso dirlo perché conosco anche altri lavori, altre pièces dell’autrice de II muro fragile. Niente femminismo militante-teatrante, per inten derci, niente provocazioni smaccate, niente figure di donne che troppo spesso sono figure retoriche oppure simboli ideologizzanti senza sangue. I personaggi fem minili di Claudia Poggiani — donne borghesi e con temporanee — vivono fino in fondo, in maniera at tiva, aggressiva, la difficoltà dei rapporti di coppia, rapporti fatti di sconfitte più che di vittorie, o di vit torie pagate comunque troppo care. Sono donne che si difendono e offendono usando la specifica arma del l’intelligenza, cioè la parola; un’arma duttile e sottile, capace di accarezzare, di scalfire, di ferire, di uccidere; un’arma che diventa sempre micidiale quando il filo è affilato dall’ironia. Il muro fragile è costruito su uno di questi per sonaggi. Un personaggio di donna coinvolto e coinvol gente, attraverso il quale viene alla luce un frammento della crisi — oramai senza fine — della società bor ghese. E si tratta di un frammento che si fa notare perché è illuminato dalla luce livida dell’autoironia. Ecco, questa vocazione all’ironia, che la Poggiani rivela in modo spiccato, un gusto per la battuta pun gente che sbocca nell’umorismo più sulfureo, è un al tro dato che mi preme mettere in luce. Le sue radici sono probabilmente, di natura, come dire, biografica. Perché Claudia Poggiani è anche un’attrice: è quel che si dice un « animale da palcoscenico », che possiede in sommo grado le corde del comico e del brillante, o meglio del satirico, se vogliamo riferirci ai tradi zionali « generi ». È una Carole Lombard o una Jean Harlow di questi nostri giorni. Una « divina » che è maldestramente — e volutamente — incapace di na scondere sotto il belletto e la cipria l’amaro sberleffo del clown. Giuseppe D’Agata Claudia Foggiani è una ragazza giovane, bella, in telligente, spiritosa, insomma meritevole di molti ag gettivi lusinghieri e solo in apparenza convenzionali. Come attrice, per quel poco che ho avuto occasione di ascoltarla, mi pare che lasci intravedere un avvenire, dove il senso dello humour avrà certamente la sua parte. Peccato (ognuno ha i suoi vizi, le sue droghe da consumare) che la nostra eroina si ostini a non per dere una ‘prima’ del cinema. Con i film che corrono, c'è il caso che finisca col guastarsi. Il teatro sicura mente ne soffrirebbe. Lo dimostra, dopo altre prove. questo II muro fragile, commedia che ha il coraggio di essere fatta di parole. Le parole paiono in genere svagate, però alla fine ci si accorge che lasciano il segno. Alla prima lettura lo avevo solo sospettato, alla seconda ne ho avuto la certezza. Lasciano il segno perché dietro la schermaglia verbale si avverte il sapore dolciastro di una rifles sione sulla vita, sui rapporti umani, sull’amore. Il muro fragile è infatti, a suo modo, una com media d’amore. Il «giuoco » (tale sembra) finisce con uno scoppio di risa e con un’esplosione. Vera. Perché questa storia (se così vogliamo chiamarla) di un reclu so volontario e della sua compagna si alimenta di un’a marezza di fondo. L’amarezza di chi « ama... le notti, i complimenti, le atmosfere che si disfano nei cicalecci di commento, le sonorità, il ristorante, il cinema, il ‘traffico’, i saluti », ma al tempo stesso sa di trascor rere la propria ‘giornata terrena’ in un universo che diviene, ogni giorno di più, invisibile. Dove la salvezza può essere cercata solo nei sentimenti. A costo di sal tare in aria insieme col mondo, odiato ed amato. Giulio Cesare Castello Claudia Poggiarli è alta e bella. Ha lunghi capelli biondi e un sorriso accattivante che è difficile scuo tersi di dosso. La sua vitalità, la sua presenza danno una sorta di gioia comunicativa che ti fa provare della gratitudine, quella vera che si sente nel cuore. Claudia Poggiani è un’attrice brava e capace, curiosamente personale e, cosa non comune, spiritosa, io credo da sempre, nel senso che dello spirito, dell’humour ne è impastata biologicamente. E te lo senti addosso, appena apre bocca. Ora, quando ascolto Claudia come attrice e quan do la leggo come scrittrice, non posso non rendermi conto che è lo stesso sentimento quello che io provo, come le stesse sono le sensazioni, le reazioni che na scono in me. È ammirazione, insieme a una sorta di stupore, di partecipazione e ancora più di simpatia, di quella simpatia accattivante che dicevo prima. Per ché la sento lei, quando « fa teatro » e quando k leggo. La sento autentica e coerente e anche questo suscita gratitudine. In questo II muro fragile ho av vertito Claudia come riflessa in tanti specchi. Con una punta in meno di comico, ma con un amaro senso in più di consapevolezza diffusa, dolente irrimediabilità. Elsa Albani Francamente ho sempre diffidato del collega che, in una incauta sospensione del discorrere, mi butta lì, con un sorriso di intenzionale complicità ... « Ho qui, per caso,... un copione. Poi mi dici... quando puoi... ». Ancora più francamente bisogna riconoscere — a giustificazione di questo mio disagio — che a tutt’og- gi non sono, per vero, numerosi i colleghi (attori, pardon), che si siano distinti per una valida creatività teatrale — fatta eccezione — beninteso — qualche tempo fa, per il Signor di Poquelin e per pochi altri. Ho detto colleghi. Figuriamoci le colleghe. E quelle brave e belle. Claudia Foggiani è una collega. È brava. Ed è an che bella. Ha un suo modo curioso di dire, di fare, di porgere, personalissimo, incisivo. Direi senza com promessi. Indubbiamente partecipa dell’intelligenza. Forse è per questo che, se si mette a scrivere, il suo segno lo lascia. Non decolla nel limbo della banalità. Anzi sconcerta. Per una sua inspiegabile « sapienza » di tratto, per una sottintesa articolata cultura, per una ammirevole fusione di un « istintivo » e di un « me ditato ». Nelle precedenti sue operine teatrali si avver tiva la tendenza a una predominante comica, al limite della satira. Qui ne II muro fragile non ha avuto la determinazione, la freddezza di prendere i personaggi da fuori e ironizzarci su. Li ha accettati, subiti, seguiti da dentro fino a un ineluttabile epilogo. Ci si è come ritrovata. In una situazione di personaggi ben precisa, quasi generica, di stallo, Claudia ha avuto il grande pregio di reinventare dei rapporti umani. Con una no vità di linguaggio né bisbetico né scandalistico — la sciando al lettore — e mi auguro allo spettatore — di indovinare minacce e angosce che vi si nascondono. Ferruccio De Ceresa CLAUDiA POGGIANI Si è laureata in Lettere Moderne all'Istituto di Storia del Teatro e dello Spettacolo con una tesi su Alessandro Mois- si. Nel dicembre 1976, a 23 anni, ha vinto il premio Hunter Playhouse di New York con l'atto unico « Quarta parete ». Nel 1977 è stata segnalata al Premio Vallecorsi per la commedia in due atti •> Entrata di servizio ». Nello stesso anno vince il concorso Vito Pandolfi per giovani autori, e Theatron pubblica il suo « Assolo di jazz ». La Radio tra smette all’inizio del 1978 un suo radiodramma ■■ La Spyder rossa », interpretato da Marisa Fabbri. Con « Il muro fra gile » vince il Premio Fondi-La Pastora. Ma la sua attività di autrice non può essere ormai disgiunta da quella di at trice in quanto, soprattutto in questi ultimi anni, scrive e interpreta monologhi e sketches brillanti. Ancora universitaria debutta nel « Mercator » di Plauto con Vittorio Sanipoli, in un'estiva in Sicilia e a Roma. Nel 1974, sempre d'estate, per motivi universitari, è con Paola Borboni nella « Sacra Rappresentazione » al Festival di Ca- sertavecchia. Nel 1975 è Lucrezia nella Mandragola di Ma chiavelli, regìa di V. Melloni, con Valgoi e Giangrande, e Isabel in « Amerikamara » con la regìa dello stesso Melloni e neM’ambito della stessa Cooperativa. Nella stagione 1975-76 è con Rossella Falk nella Signo ra dalle camelie », regìa di Giorgio De Lullo. Partecipa al Festival di Spoleto del 1976, al Caio Melisso, con « Paolino, la giusta causa e la buona ragione » (nella parte della « buo na ragione ») accanto a Ferruccio De Ceresa, per la regìa di G. Chazalettes. Nel 1976-77 è con Romolo Valli nel «Giuo co delle parti » di Pirandello, regìa di Giorgio De Lullo. Tra l’estate e l’autunno del 1977 e parte del 1978 è in « Frasi d'amore » per più di cento repliche romane: un piccolo spettacolo a cavallo tra il teatro, il cabaret e la commedia musicale « da camera », con solo tre personaggi, e inizia a mettere in scena anche qualche monologo co mico. Nell'autunno del 1978, per la regìa di Giancarlo Nanni, in^ terpreta la novità italiana di Fabio Doplicher « L’isola dei morti ». Per la Televisione è protagonista di un telefilm a sketches « Del resto fu un’estate meravigliosa », con Benigni, C. Ver done, regista L. Michetti Ricci; per la TV svizzera ha inter pretato un episodio del « Boccaccio », regista Mascioni. E' apparsa in sketches e scenette — di cui è anche autrice — in varie trasmissioni. Alla Radio è stata tra l’altro conduttrice, con Giancarlo Muratori, per quattro mesi del programma « Un'invenzione chiamata disco ». I L M U R O F R A G I L E due a tti di Claudia Poggiarli (PREMIO FONDI LA PASTORA 1978) PERSONAGGI: LEI (CHIARA) LUI (ANDREA) ANNA MARIA SANDRO LUCA Claudia Poggiarli (foto Pepito) La scena dovrà essere divisa in due sezioni, il den tro e il fuori, il covo degli psicologismi e il mondo dell’azione, la casa cioè, e la strada. Per evidente contrasto la sezione interna sarà arredata e naturali stica, oggetti delineati, luci realistiche. Il « fuori », la strada,. potrà essere invece solo suggerita da uno spazio diverso, senza panchine, alberi e semafori. Por se un fondale, con l’idea di incroci, forse solo lumi nosità 'piatta e rarefatta. Non importa il livello dei piani. Quando la scena coinvolgerà l’interno, la zona « fuori » sarà al buio, e viceversa. L’interno è costituito da una grande stanza, bene arredata, ma disordinatissima. C’è un pianoforte im ponente a coda, spinto verso una parete e sommerso di libri, divano e poltrone disposti in modo consueto, ma su cui niente è preciso; un tavolino basso è in gombro di portacenere e altri libri; il tappeto è sol levato in un angolo. All’apertura del sipario una sola delle tante lampade è accesa; è una lampada da tavolo moderna, poggiata sul piccolo tavolo. Sembra non ci sia nessuno in scena, ma lui c’è, sprofondato nella pol trona, di spalle al palcoscenico. Delle due porte di comunicazione con il resto della casa, che si deve im maginare spaziosa, ovunque con lo stesso gusto e al tempo stesso con identica trascuratezza, una è appena socchiusa. Da questa entrerà lei, carica di pacchi, e immediatamente accenderà la luce, impietosa ma pie na. Rovescerà pacchi e cappotto sul divano e dopo uno sguardo desolato all’insieme, guarderà lui, ancora na scosto al pubblico. le i: E se una volta tanto entrassi in questa stanza e non ti trovassi sprofondato nella solita poltrona? Posso rifare l’ingresso e offrirti l’opportunità di dar mi questa emozione? Per una volta vai di là, e se non ci muoio, vuol dire che è sano affrontare le novità... lu i: Calma. le i: Di che? lu i: Calma così. Mi trovi qui. Sono un cane fedele. Tuo. Delle poltrone. Di questa stanza. Non ne sei fiera? le i (tristissima): Tanto. Non reggo. lu i (alzandosi): Freddo, fuori? Hai il naso rosso. le i: Non saremmo carini tutti e due col naso rosso, « fuori », io e te, con il vento sferzante nel traffico natalizio? lu i: C’è traffico? LEI: C’è. lu i: C’è anche il vento? le i: Ci sono tutti e due. lu i: E allora rinuncio alla gaudente e calligrafica im magine dei nostri nasi rossi... lei: Era un’idea così... estemporanea e folle... di un’in guaribile sognatrice. LUI: Hai sognato, lavorando? lei: Ho scritto troppo, ho preso tre caffè e sono stata tre quarti d’ora in macchina... Troppo per sognare. lu i: Lo vedi? Non sogni più. sognare! le i: Dovrei? Tu sogni? lu i: La mia tigrotta non sogna, non ce la fa più a le i: Ho detto questo? lu i: No, per carità, ma i tuoi laghi alpini azzurri so no diventati acquitrini grigiastri e il tuo mento ari stocratico ha sfoggiato tre pieghe di odio... le i: Solo tre? lu i: Cento. le i: Centodiciannove, e finiamola lì! Perché le dician nove non le vedi. Premono dentro, dai denti. lu i: Io le vedo. le i: Già, tu vedi tutto, tu sai tutto. È il genio che ti aiuta? O le pratiche magiche? Non è che quan do non ci sono, bruci strane erbe qua dentro e mi affatturi, legandomi a te, qui, per l’eternità? Sento un odore curioso. Può essere. lu i: Anch’io ho fumato qualche sigaretta. le i: Da quando fumi, il pomeriggio? lu i: Da quando non esiste più la sera. È tutto « se ra », senza il fascino di quella vera. Comincia alle dieci di mattina, la sera! le i: Te lo vuoi tu. Io non l’ho mai voluto. Io conti nuo a conoscerla la sera. Fumo il mattino, il po meriggio e la sera; ma io la sera so cos’è, quando comincia, quando finisce, quanto dura. Ecco, tra poco sarà sera. lu i: Che bella prospettiva! le i (sistemandosi un po’ più comodamente, dopo aver preso da un mobiletto laterale, sovraccarico di bic chieri e di bottiglie, un po’ di whisky)-. Scusa, ma non fregarmi le battute. Questa spetta a me. lu i: E con che diritto? lei: Perché la parte lesa sono io. lu i: La parte « tesa »? le i: Lesa. Lesa. La parte lesa! lu i: Tu, pimpante creatura della notte, sei lesa? E da che cosa? le i: Non fosse altro che per le notti che mi sono ne gate, come le vorrei e come non sono. Lesa è il ter mine esatto! lu i: Voglio bere anch’io. Whisky come te, compagna di tutta una vita. le i (alzandosi, sorridendo compie l’identico movimen to di prima e serve lui)-. Non è mai detto. Chissà che a fine d’anno, sotto il vischio, non esprima dav vero un desiderio rivoluzionario e che lo realizzi... alla Befana. lu i: Sono il primo ad augurartelo. le i: Se lo dicessi per davvero! lu i: Non saresti qui a curarmi! le i: Non ti curo io. Non lo permetti. Non permetti mai niente. lu i (come se parlasse lei): « Sei talmente chiuso nel tuo nevrotico egoismo, che non ti accorgi a quale ’vita’ costringi gli altri... ». le i: Esatto. lu i: Ma tu, mia cara « altra », non sei al guinzaglio, esci, rientri, torni... E se non tornassi un giorno... dirmelo. Ecco, basterebbe che tu non tornassi più un giorno... lei: Non usciresti per venirmi a cercare. Lo so. Non lu i: Forse con una simile terapia d’urto... le i: Neanche con l’elettroshock. Ti piace. La tua qua si paralisi motoria solletica il tuo egoismo e stai benissimo così, raggomitolato nella lana dei tuoi cerebralismi. Bravo, e brava la tua ossuta diagnosi della nostra frenesia. Stai peggio di me. lu i (alzandosi di scatto e sbirciando il whisky del suo bicchiere, si avvicina al pianoforte e tocca le prime note della scala musicale)-. Do, re, mi, fa... Do, do... le i (anche lei torna in piedi. E’ presa da una smania improvvisa. Sposta il cappotto, strofina il tavolinetto per togliere l’ombra dell’alone lasciato dal bicchiere, corregge la posizione di una cornice al muro)-. ... è la paura che la gente cominci a trovarti noioso, de primente, che non ti cerchi più... lu i: Hai paura che non ci cerchi più, che non ti cer chi più, e che ti lasci affondare sola con me in que sta nostra accogliente isola sul tetto del mondo... Non ti preoccupare. Suonerei Gershwin per te, Cole Porter per te, Berlin per te... E dopo un po’, sare sti tu a chiamare gli altri e almeno da te tornereb bero e ti porterebbero via... Non sei quella che la scia accadere le cose. Anche le tue unghie sono diventate lunghe, affilate... Ti ho conosciuto che passavi metà della giornata a rosicchiarle... lei: E nai hai subito detto: « No, le tue mani non sono da pianista... Sono mani buffe, espressive ». lu i: E adesso anche le unghie danno ombra... lei: E secondo te è una conferma di volontà, di ener gia, questa? lu i: Tanto ti scarichi distruggendo il palmo delle ma ni con le unghie. Hai una ferita lì, sopra il polso... le i: Ed io così, con le unghie, mi smantellerei le ma ni? Forse le ho fatte crescere proprio per ferirmi? Ma va’. Se pensi questo me le taglio. lu i: Non sei più una ragazzina. Le donne, le signore hanno le mani curate. le i: Ma non si producono stigmate individuali... lu i: E chi lo sa? Forse voi di « fuori », fate questo? lei: E voi di « dentro », che fate? Che fai tutto il giorno? È lungo il giorno, sai, e quando finisce c’è anche la rabbia che se ne sia andato per tutta la fatica che ci hai messo a portarlo avanti... LUI: E appunto la sera è per te: « sfavillìo di pail- lettes ». le i: Ora? Oggi? Con questi momenti? lu i: E perché no! Tu una ragione ce l’hai. Con i rac conti dai luce ad un cieco. Resusciti un morto... Mi diverti. LEI: Che brutti vocaboli. Che guitteria. Sei un cial lu i: E sia. Hai acceso tutto. le i (guardandosi intorno)-. Se ci fossero altre luci, le trone. accenderei. lu i: Odi il buio. Paghi la luce. A proposito, è arri vata la bolletta. Credo di averla lasciata all’ingresso. le i: Sono venuti a portarla? Gli hai aperto tu! lu i: Chi volevi che fosse, Tutankamen? le i: Poteva essere Gigliola. lu i: Gigliola se ne era andata via da un pezzo. Gli ho aperto io. le i: E allora tu, così, per una bolletta della luce, hai ricevuto in faccia lo sputo deteriore di fuori e del l’esterno. Che effetto ti ha fatto? Ti sei ripreso? Tutto a posto, ora? lu i: Stiamo attraversando il momento « acredine e sarcasmo »? le i: No, così, dicevo. È che anche dopo otto anni, non sono una che ci fa l’abitudine, io. Neanche il callo. Ho i piedi levigatissimi. lu i (categorico): Faccelo. Non cambierò. le i (cambiando voce, riprendendo a muoversi, accen dendosi una sigaretta)-. Vengono Sandro e Anna Maria. Anche Luca verrà, forse. Più tardi. Insieme cuciremo qualche racconto per te. Contento? lu i: Vuoi insinuare che vengono per pietà? le i: Pietà? lu i: Hai capito benissimo. le i: Non è una prigione questa. Puoi ricevere quando vuoi. O forse è peggio di una prigione. Rifiuti an che la mezz’ora d’aria. lu i: Sai che ci vuole adesso, per renderti un po’ meno « letale »? La musica. Solo la musica... E i concetti puri della matematica... (Lui si mette al pia noforte. Lei lo guarda. Non c’è astio, non c’è tri stezza. È solo un momento come tanti che non cam bia la storia. Lui comincia a suonare e intanto par lerà alternando attimi di sola musica. È un pezzo di jazz carico di vita, e lui è bravissimo. Lei entrerà, uscirà dalla seconda porta finora chiusa e cercherà alla meglio di togliere gli oggetti che ingombrano il divano, i due bicchieri appena usati, il cappotto, i pacchi con cui era entrata poco prima; intanto lui suonerà seguendola con lo sguardo e rivolgendole con ironia ciò che non aspetta risposta. ) Non è vero che le rette parallele si incontrano. Due rette paral lele appartenenti a piani diversi non si incontrano mai... Li puoi scomporre: restano sempre due pia ni. Così le rette non si congiungono. C’è bisogno di un nuovo Einstein... Un’altra teoria può rivolu zionare tutto... Ma poi bisogna fermarsi... Si è fer mato... La paura non diminuisce con l’infinito di mezzo... Si allarga... Newton... Einstein... le i (rientrata nella stanza lo guarda divertita): Vuoi essere tu l’uomo nuovo? Allora datti da fare. Non abbiamo l’eternità davanti. lu i (concentrandosi solo sul pianoforte, suona muto per qualche secondo, mentre il campanello della por ta d’ingresso suona ripetutamente. Lei corre, abban donando di nuovo il cappotto, tuttora nelle sue ma ni, sul divano... e tutto è all’incirca nel disordine di prima): Se fosse una casa per bene, questa, e se fosse una commedia seria, questa, ci sarebbe la ca meriera per annunciarci le visite... le i (correndo): Non è una casa come hai detto tu... e una commedia, figuriamoci! Fossi io l’autrice, la parte della cameriera non la scriverei nemmeno. Co stringere una poveretta a due battute! Perché? Solo protagonisti! (.Nell’attimo in cui lei è fuori scena, lui si alza dal pianoforte, lo chiude, tira giù l’angolo alzato del tap peto, e passa distrattamente la mano sulla superficie del divano, continuando a mimare il suono di poco prima). le i (rientrando per prima, seguita da Sandro e da Anna Maria)-. Ci sono Sandro e Anna Maria, che vogliono dirti « ben trovato »! lu i [ride, consapevole che lei non demorderà dalla sua guerra. La lotta, comunque, è come un gioco)-. Non è meglio che sia io a dire « benvenuti »? ANNA maria (baciandolo): Sono gelata. È un freddo cane, fuori. lu i: Ti sento. sandro: Non vi bacio. Sono freddo anch’io, raffred dato. Anna Maria mi ha detto che so di grappa. le i: Allora splendido. Un sapore nuovo. Qui non si beve mai grappa. lu i: Su, dì cosa si beve. Disimpegnati. Con stile! SANDRO: Non l’ho mai messo in dubbio lo stile di Chiara... le i: C’è? SANDRO: Da vendere. ANNA maria (sedendosi di botto sul divano e aggiu standosi di continuo i capelli)-. Andrea, guarda un po’ cosa ti ha portato Sandro. lu i: Un disco? sandro: Il tuo disco. È uscito. Anzi no, uscirà. L’ho portato per fartelo sentire. È bello. Considerando poi in che condizioni l’abbiamo registrato... ANNA maria: E vero, Chiara, che qui era un casino di fili, altoparlanti e microfoni? lei: Per la circostanza, infatti, avevo inventato un’u scita (poi, rivolgendosi ad Andrea) Sei contento? lu i: Sono contento. Ma i pochi che lo ascolteranno, ANNA maria: E sente la mia rubrica! Che te ne pare? lu i: Sei incredibile. Dici assurdità stratosferiche fa cendole passare per vere. anna maria: Mica le invento io! le i: Te le scrivono? anna maria: Io sono pagata per condurre la rubrica. LEI: Anche quella dell’angolo della posta! sandro: Ma sono tutte vere le lettere? lu i: A proposito di lettere... È come se ti avessi regi strato. Ti ricordo benissimo. Rispondevi ad una ’mamma’ preoccupata della precocità sessuale del fi glio di otto anni... lei: Anna Maria alle prese con la psicologia infantile? anna maria (come se riprendesse le parole della sua trasmissione)-. Gentile signora, che mi chiede se de ve preoccuparsi constatando che il suo bambino ha cominciato a toccarsi frequentemente i genitali... No! Non c’è bisogno di campanelli d’allarme! Se tuo figlio ti chiede, non angosciarti. Il proibito lo in ventiamo noi, con le nostre reticenze... larme ci mette dentro! le i: Che deve dire di più? Anche i campanelli d’al lu i: Fai la voce da suora per dire cose laiche! Cara signora, gentile ascoltatrice, tu hai un figlio che si tocca? Fa bene a toccarsi. Amen. anna maria: Rispondo con il redattore. A lui va bene così. La gente è contenta. lu i: Lo credete voi che sia contenta! Ma sì, scusa, io sono molto esigente... Quel « tu » che dai alle tue massaie emancipate, mi fa rabbia. (Anna Maria un po’ risentita, accende una sigaretta con un bocchino interminabile). le i: Dimentichi il bocchino? anna maria: Meno nicotina nei polmoni. sandro (ride)-. L’idea che Andrea ascolti la radio, mi diverte. Non ce lo vedo con quelle manopole, a sintonizzarsi sui canali... poi sedersi al pianoforte e suonare i pezzi di Erroll Gardner... o i suoi... lu i: Mah! Forse l’ispirazione la prendo da lì. anna maria: Non può mica suonare tutto il giorno! sandro: Non amavi tanto il cinema? (Lui sta per ri spondere, ma lei incalza). saranno contenti? brica alla radio. anna maria: Io comincerò ad infilarlo nella mia ru le i: Il guaio è che gli piaceva... Glieli racconto io i film, ora. lei: E che diranno le ascoltatrici che hanno una ri cetta del tipo « come mangiar bene spendendo po co » quando sentiranno propinare la versione Italy di Oscar Peterson? sandro: Ma fa parte del cliché della sua rubrica! La donna moderna deve essere aggiornata su tutto. De ve sapere tutto. lu i: Anche il jazz? anna maria: Certo! L’altro giorno ho fatto leggere persino tre sonetti del Petrarca. lu i: Li hanno letti male. anna maria: Ma no! Non mi dire che anche tu mi ascolti! lei: Trovane uno più casalingo di lui... sandro: Già, non si può dire di no. sandro: Già, tu sei sempre patita! lei: Sempre di più. Ne ingoio una quantità sufficiente a digerire le angustie domestiche... parlo di piccole, minime beghe domestiche che accidenti, non fanno per me. ANNA maria: Ah no, tu sei eccezionale. Lavori non so quante ore al giorno, torni a casa, pensi ad Andrea... lu i: A me in che senso? anna maria: Non credi che tu sia un pensiero abba stanza oneroso? lu i: Ma se non alza un bicchiere in casa! sandro: Vorresti che facesse anche questo? ANNA maria: Da quando sei diventato così negriero e così ottuso? lei: Da poco. Ma il personaggio c’è già, medievale, torvo, velenoso. Lui retrocede in fretta. sandro: Mi pare logico che se tu, Andrea, ti scarichi col jazz o con le trasmissioni per le casalinghe, Chia ra esca, vada al cinema, incontri gente... ANNA maria: Insomma faccia tutto quanto tu non vuoi più fare... drea. lu i: No, lei ama davvero le notti, i complimenti, le atmosfere che si disfano nei cicalecci di commento, le sonorità, il ristorante, il cinema, il traffico, i saluti... lei: Queste cose ti rivoltano, vero? Lo sapete voi che ormai l’umanità lo rivolta? sandro: Sei troppo giovane per l’arteriosclerosi, An lei: È così. Ormai è così. Non lo recuperiamo più. lu i: E allora va dalle tue checche o da Luca... Per stasera consiglio un cine d’essai e un ristorantino in cui somministrano fonduta bourguignonne per due... Non doveva venire Luca? lei: Mi fai pena. Verrà. Non devo neanche chiedervi scusa. Salta agli occhi tutto: come tutto crolla e come non si ricompone. Meno male allora che ho degli amici checche e Luca, Giorgio, Filippo... lu i: Ah, per questo ne conosci tanti! le i (guardando Andrea)'. Li conosce anche lui. lu i: Vedete, parla, come se non ci fossi! lei: Se è per questo, tu ci sei sempre, più che un pezzo di arredamento, più di questo divano, più del tuo stesso pianoforte. Tu ci sei sempre e ti de teriori sempre. (Il campanello dell’ingresso suona. Lei si alza len tamente in un attimo di silenzio generale. Lui ride, la indica mentre apre la porta e solo quando non è più in vista, si rivolge agli altri). lu i: Luca? Un cicisbeo vestito da intellettuale. Verrà con il giornale sotto il braccio. Ridono con Chiara. Vanno al cinema. La viene a prendere. La riaccom pagna. Sale su. Mi chiede continuamente quali nuove parti musicali mi detti questa degenza. Lui non è una checca. È innamorato di Chiara nel modo più stucchevole. Più consueto. Vedi? Si saranno fermati un attimo alla porta e lei gli avrà detto che l’aria qui è irrespirabile e che magari una volta o l’altra scoperà con lui, per riaversi... da me. O forse gli dirà: « che bella scopata l’ultima volta! A quando la prossima? ». sandro: Secondo me non stai bene. Fatti vedere da qualcuno (Anna Maria lo guarda perplessa) Va bene, chiama un dottore qui! ANNA maria: Da quant’è che non esci? lu i (trionfante)-. Quasi due anni. (Chiara entra con Luca, un bell’uomo, esattamente con un libro sotto il braccio, affascinante, ma alla fine prevedibile dalla testa ai piedi. Chiara ride sommessa mente, poi con voce sempre più stridula). lei: Ecco Luca. Siamo entrati nel momento migliore. Potrai assistere ad una confessione, ad un processo, ad un decadente gioco di massacro, e voilà, tutto gratuitamente. luca: Buona sera. Sono in ritardo? lu i: Per cosa? Qui non si perdono i giri. I dischi girano sempre a vuoto. ANNA maria: Ma non ci avevate promesso una spa ghettata? lu i: Dopo. Non è vero che è « dopo », Chiara? Che cosa avete visto l’altra sera? luca: Si tratta di un ciclo sulle « divine » di Holli- wood. L’altra sera toccava ad « Angelo » di Lubitsch, con la Dietrich. lu i: Mi piacque. Amo Marlene Dietrich. luca: Noi eravamo impazziti. LUI: Impazziti? Tu e Chiara fate già un « noi », così compatto, così saldo? lei: Basta così, o se vuoi, vai fino in fondo. Non mi va più di slabbrare le cose con un sorrisetto o una delle mie, come dicevi tu, Andrea, mordacità. Ami la platea: eccola. E persino imparziale, perché non ci odia, perché ci conosce, perché sa che almeno sai suonare solo per noi, e quando suoni e taci, e ormai di farlo per gli altri ti rifiuti, sei bello, spettinato, grande... Su allora. Va’... luca: Non sono arrivato in ritardo! Non dovevo ar rivare affatto. È questo il guaio. Me ne posso andare. LUI: Non sai quanto odio queste battute da teatro borghese. Non da te che leggi di strutturalismo e di semiologia. Lasciale a me, che mi sono rinchiuso qua dentro, quando ancora furoreggiava Benedetto Croce! (Chiara si sposterà nella parte buia del palcoscenico e camminando come su un marciapiede, attenta a schivare chissà che, sarà pienamente in luce, mentre il resto della scena piomberà nel buio). le i: Ne ha dette e ne dice di cose. Almeno parla. Ho il terrore che un giorno non gli andrà più di far questo. È così che è andata: un giorno non è voluto più uscire. Non esce più. Sono due anni che non esce di casa. Quando torno, trovo sempre le finestre aperte e corro a chiuderle. So che l’aria gli piace; ma di fuori, gli piace solo questo. Non conosce neanche il giornalaio, che è cambiato! La portiera ha smesso di domandarmi se mio marito sta sempre male. « Non è mio marito, signora », senza riuscire a dire altro. Ignora i nuovi divieti di transito, le isole pedonali, le faune che popolano di stagione in stagione Piazza Navona; che cos’è un ufficio postale quando si va a rinnovare il bollo LUI: So già di che parlerebbe... luca: ... di uno sbaglio sostanziale, certo, che è in te, che non hai ragioni. Ti sei ritirato e perché? Per ché vedevi che tutto marciva? Perché non riuscivi a realizzarti? Perché in fondo in fondo hai l’anima del mantenuto e con una donna simile, che non ti sbatte uno psichiatra in casa, che non se ne va, che tutto sommato « vive » anche per te, diventa tutto un dogma, e tu diventi un milarepa, un santone, l’emblema di un nietzschiano che vota comunista. Ma tu non vai a votare, vero? È che così diventa nichi lismo individuale, figura solitaria di dissenso! Sei un pazzo? Ci stai prendendo in giro? O vuoi che queste quattro persone che ancora ti frequentano ritrovino in questo clima di alienazione, il respiro della più deteriore letteratura? lu i: E se io intervenissi, dichiarando che non ho ca pito? le i: E che? Che sei una contraddizione, che noi qui, con te, lo siamo in massa? sandro: Quello che non mi spiego, quello che non sono mai riuscito a spiegarmi, è la mancanza di ideo logia in questo tuo arroccamento. ANNA maria: È una tattica, forse. sandro: Senza sbocchi. lei: Non ha mica paura di quello che si sfalda fuori. Ma non perché sia un puro. È capace'di ridere an cora ad una barzelletta sull’uomo politico in voga! E neanche perché non capisce le violenze... luca: Per capire, le capisce. Le condensa qui dentro, senza conoscere quelle di fuori. le i: Siamo noi ad essere accerchiati e minacciati. A lui, nella sua scorza d’ombra, dovrebbe bastare ac cendere quella luce là, per stare tranquillo. anna maria: Già, che ne sa lui, che di notte, ormai, c’è una grande paura ad uscire... luca: E che il pericolo c’è, reale, ma impalpabile, an nidato nei covi... ... i covi... i sequestri... la mafia... ancora... lu i: le i: Si muore anche per strada, sai! Quelli che ti mancano, Andrea, sono gli anni delle vendette... lu i: E dove nascono queste vendette? luca: Sotto i ministeri fatiscienti, negli scantinati, sul le rotaie... sandro: Già, è la guerra alle giacche grige, agli irre frenabili gestorucci del potere... luca: Neanche quello... Nel caso, nel covo, ci sarei lu i: Saresti il primo, tu? le i: Mentre tu te ne stai qui, prendono le città, ma senza carri armati, e se le barricate ci sono, non sono quelle che contano: se non le vedi, te le rac conta lo speaker del telegiornale... Ma le prendono con tutti noi dentro, sbandati, impauriti, e soprat tutto ignari! E tu non sai niente, ed hai paura lo stesso. Ma non decifri niente. lu i: Perché? Voi decifrate? luca: Ieri è morta una ragazza. Qualcuno l’ha uccisa. anna maria: Ma tu sei assurdo, Andrea. Chiara è qui. anch’io, allora... per la macchina... In me, e in qualche altro, filtra il mondo. Porti i pantaloni? Vanno ancora? Com’è caro mangiare al ristorante! Ma allora voi, fuori, avete paura? (Le luci tornano ad accendersi e la conversazione in salotto continua. Chiara si riunisce agli altri e per il gusto di riprendere la schermaglia esausta e logora di poco prima, abbraccia le spalle di Luca, che le sorride, rispondendo ad Andrea). luca: Sei l’ultimo a dover parlare, appunto. Che ne sai tu di cosa succede fuori? La tua è comunque una formazione tardiva, di riporto, senza antefatti, senza prologhi.* Sei un tipo da TV, da rivista, da pantofole... lu i: Non metto mai pantofole. ANNA maria: Così stai sempre con quelle scarpe dure! le i: Almeno non le consuma. sandro: Continua, Luca, visto che ci sei... Ci vuole grinta per rivolgersi ad Andrea, solo un estraneo a cui sfugge la sua supremazia negativa, può avere la forza di ferirlo. lu i: Perché tu, Sandro, vuoi ferirmi? sandro: Per dire aiutarti. lu i: Ma io non chiedo aiuto. le i: È questo che è criminale. Non vuoi aiuto. Come se fosse giusto vivere come hai scelto di vivere tu! luca: Non vivere. Questo non è vivere. Se la tua musica ti affascina, non basta. Cosa ti costruisce dentro, avanti, se non la concretizzi nella realtà de gli altri? lu i: « L’artista è solo », e aggiungo le virgolette... LUCA: E allora, con questa volontà di distruggere... LUI: Ma chi? le i: Te stesso. luca: Chi ti sta vicino. lu i: Ah, lei? Ma lei ha tanto, anche il lavoro, che manca a me... ha te... .uca: Questo non lo direi. lu i: Ma tu ci sei. LUCA: Mi limito a questo, e farei molto di più se solo lo volesse. lu i: Lei non vuole, eh? Ed è graffiante quando non vuole, vero? Come fa quando non vuole? E brava ad esigere e a non dare... sandro: Forse è anche colpa mia. Ho provocato senza sapere le conseguenze. È ingiusto. lei: Anche se fosse giusto, mi piacerebbe risparmiarvi questo brillante intermezzo domestico. Andrea non sa fare giochi di società! lu i: Non cercare di salvare il salvabile. Essere salot tieri non serve. Luca vuol parlare di fuori, no? Vedi, Anna Maria, il cronista del mondo è lui: viene qui e racconta. sandro: Non mi pare che tu gli permetta di raccon tare. La polizia o un extraparlamentare, non lo so. È morta. lu i: L’hai vista proprio tu morire? luca: Sì, c’ero anch’io. lu i: Sono rimasto a Che Guevara. Al tempo mio le guerriglie erano in Colombia, nella savana, e non sotto la cupola di San Pietro. le i: E invece sì, anche a San Pietro. Solo che la do menica il Papa benedice l’asfalto e le suore spazzano lì intorno a forza di giaculatorie... lu i: Dunque mi perdo cose grosse! Il malessere è arrivato a sfociare in questo? ANNA maria: Per te il malessere suona emicrania! luca: È che non è malessere. È molto di più... lu i: E se io fossi con voi a toccarlo con le mani, il mio apporto ci solleverebbe dallo sfacelo... Guardate che come picchiatore non sono mai stato un gran che. (Alzandosi lentamente) Si dice ancora « qualun quismo ». Ecco, Luca, dammi del qualunquista e mangiamoci sopra. (Andrea strimpella due motivi al piano, mentre tut ti si alzano per andare di là, a cenare). lei: Su Luca, andiamo. Contro tutte le regole del gio co e in questo bel momento: aspetto un bambino. È tuo, Andrea. Se vuoi continuare a suonare, ades so c’è la Patetica... (esce). FINE DEL PRIMO ATTO SECONDO ATTO (La stessa scena del primo atto. Chiara parla al te lefono. La porta che dà sull’ingresso è spalancata e s’intravede questo, ingombro di scatoloni. Ha i ca pelli scomposti, una vestaglia lunga e soltanto a metà abbottonata, e sta fumando). LEI: Senti, Giovanna, sta dormendo ancora... Certo non sarò io a svegliarlo. È bene che ci dorma su! No, non ne abbiamo parlato più stanotte. Pare in credibile, ma è così. Non mi aspettavo un gesto, figurati... Ma che mi investisse, mi aggredisse, que sto sì! Perché l’avrei aggredito anch’io... Mi ha solo detto buonanotte, toccandomi la guancia... « Sei an cora troppo piatta perché io ci creda », ha detto, ed io gli ho risposto che tutto è regolare, data la mia altezza, e che se la bambina che ha partorito a scuola nascondendo tutti interi i nove mesi della sua gravidenza, io, al quarto, potevo benissimo fron teggiare la situazione... Ha risposto « Non credo », e poi giurerei che s’è addormentato davvero. L’ho odiato... Ma sì, allora, anche quando mi ha detto che ero piatta. Perché piatta non lo sono e a questo punto, dato che lo sarò sempre meno, è bene che cominci ad immaginarselo... Sì, certi momenti an drei via. Adesso. Immediatamente. Invece poco fa gli ho tirato su le coperte e ho chiuso la porta per far piano... È tanto peggiorato tuo figlio... È che non c’è più un motivo per restare... Lo sai anche tu che questo figlio capitato così, renderà Andrea ancor più... Certo, il motivo che mi manca per an dar via... Tu sei l’unica che lo conosci come me. E lo conosci perché sei poco « madre »... ed io neanche sua moglie... Se fossimo veramente nei nostri ruoli, non parlerebbe più... Se credi... se vuoi... Ci sono anch’io. Magari tutto il giorno. Ci sarà da impaz zire... Allora va bene, impazziremo insieme. (Chiara abbassa il microfono e si avvicina alla fine stra. La spalanca completamente e la stanza prende luce, totalmente, in modo quasi sfrontato. Guarda fuori scrutando i particolari. Poi si volta ed inizia ad armeggiare con gli oggetti, a spostare ì mobili, ad angolare meglio il divano. Tocca con violenza i tasti del pianoforte, prende il disco di Andrea, lo toglie dalla copertina e lo sbatte sul piano più volte, sempre con maggiore fragore. Poi ridendo rimette il disco nella fodera e si siede sulla poltrona, con le spalle al pubblico, e nella zona casa piomba il buio, mentre fuori, in luce, Anna Maria, Sandro e Luca si stringono nei cappotti, camminando sfalsati. Ad ogni attimo di luce su di loro riprenderanno a cam minare dal fondale, secondo un’azione reiterata, con tinuativa). ANNA MARIA: Ho avuto l’impressione che dovesse suc cedere qualcosa. SANDRO: Quando si va da loro, sembra sempre che debba accadere chissà che. Poi si finisce sempre col prendere un whisky... ... per mangiare spaghetti... per sentirsi dire luca: anna maria: Da Chiara, non me lo sarei mai aspet che Chiara aspetta un figlio... tato! Il figlio? sandro: ANNA maria: Anche... luca (seccato): Neanche io... anna maria: Lo dici dispiaciuto. luca: Perplesso. sandro: Già, l’idea di Chiara madre... ANNA maria: Anche lei ha la mania di stupire, il sen so della teatralità... Annunciarlo così... luca: Credo di sapere perché. sandro: C’è un perché? luca: Sì che c’è. sandro: Poi non se n’è parlato. ANNA maria: Abbiamo mangiato. sandro: ANNA maria: Si intravvede... luca: Neanche. anna maria: Ma non dirlo ad Andrea, che con noi, dopo non so quanti mesi... Quasi che il padre non fosse lui! Io l’ho sbirciata, per vedere se si vedeva... luca: Perché è proprio lui. Solo così si salva Chiara: adottando l’assurdo e fiancheggiando le norme. ANNA maria: Secondo me, allora, l’ha detto così per provocare Andrea. luca: È incredibile che nessuno lo sapesse. sandro: Noi no, senz’altro. Tu no? anna maria: Come si fa a tenersi dentro una cosa così... senza dirla a nessuno... lu i (avvicinandosi al piano e restandovi fermo, stru sciando la sua mano sul suo disco, sugli spartiti sparsi sul nero)-. Sarebbe tutto da ricominciare dac capo. Non so come. Rifarci il trucco. Anch’io, per ché anche il mio si sta sbavando. (Si fa buio fuori, mentre le luci circondano Andrea all’interno, che si affaccia sulla porta. È in pullover e spettinato). (Nuovo stacco sull’esterno). lu i: Non l’ho neanche sposata. Non so perché. Avrei potuto, prima, quando ancora uscivo fuori, incidevo regolari dischi in una casa di registrazione... davo anche concerti... Figuriamoci, quando sapevo che lei era lì sotto per ascoltarmi, per dirmi « ci sono », perché questo « ci sono » mi arrivasse. (Buio sull’interno, luce sull’esterno). ANNA maria: A questo punto una notizia così dov reb be pur fare scattare la molla. Chissà, magari far de cidere Andrea a sposarla... sandro: O Chiara a sposare lui. luca: O Chiara a lasciare un uomo per cui nessuna molla scatta mai... (Nuovo stacco sull’interno). lu i: Non l’ho fatto. Lei non mi ha mai chiesto di farlo. Saremmo ridicoli, no? Di fronte ad un ometto con la fascia tricolore, con nelle orecchie l’eco di una teoria di « ego coniugo vos »... Certo che sa remmo ridicoli. Ma non ricordo chi di noi due lo dichiarasse per primo. Forse era lei. Nuovo stacco sull’esterno). anna maria: Secondo me dovrebbero sposarsi. sandro: Dovrebbero volerlo. anna maria: A parte che sarebbe stata molto casa linga la cerimonia... Per Chiara vorrebbe dire appro fondire l’anatomia di un suicidio. luca: Glielo dico sempre. anna maria: Ne parlate, allora. LUCA: Spesso, ma lei è sorda. Neanche io la smuovo, nessuno la smuove... anna maria: Sembra così aperta... È così aperta Chia ra, e invece si smitizza con gli altri, racconta an- neddoti e sorvola sulla sua vita privata. luca: Non con me. sandro: Dunque, detto così, sembrerebbe che tra Chia ra e te, davvero, per salvezza... sandro: Sarebbe comprensibile, per la vita che le tocca vivere... luca: Già, e non comprendo il contrario. anna maria: Anche Chiara non è tutta normale. Un uomo così, che non esce da casa da due anni, che suona otto ore al giorno, che la subissa di cavilli sarcastici... sandro: ... che ascolta la tua trasmissione alla radio... LUCA: anna maria: ... non lo sopporterei! ... che ignora in quale mondo viviamo... (Nuovo stacco sull’interno). i ui (allargandosi in uno spazio illuminato)-. Uno si crea dei dogmi e li porta avanti. Non direi di aver paura, ecco; ma qualcosa dentro, sì, certo. Chiara dovrebbe aiutarmi. Non lo fa e non ho mai voluto che lo facesse. Ho inventato questo modo per te nerla. Il modo più idiota, quello di un pazzo... (Nuovo stacco sull’esterno). sandro: Tutto sta bene, ma qualcosa che vale c’è. luca: Ti ho capito. Sei ancora quello degli ideali, dei valori, magari dell’amore. anna maria: Forse del sesso... luca: Il sesso non c’entra. ANNA maria: Il figlio sì, però. (Nuovo stacco sull’interno). lu i: Con una donna così, come si può voler lottare! Lotta già tanto lei, e certe volte accetta le sconfitte, e non ci torna più sopra se non strisciandoci con il suo corpo, ridendo in modo odioso... ed io lì, a sviarla dagli avverbi e dalle possibilità... anzi, io qui, sbagliato, con l’autorità dei malati. Lei esce. Torna. Racconta e si racconta. Tocca tutto. Sfiora tutto... Cose che io non ho mai conosciuto. Ti schiac cia. Ti pietrifica. C’è tanta vita in lei che è un af fronto a quella quadrangolare degli altri. È incre dibile. (Nuovo stacco sull’interno) (Nuovo stacco sull’esterno). ANNA maria: È una storia da romanzo. Una situa zione maniacale, perché Chiara, in fondo in fondo, è schiava di una illogicità, di un compromesso. SANDRO: Non è un compromesso, questo no. Sono ra gioni sbagliate, senza sbocco... Si vogliono bene. luca: Ma se Chiara non avesse la sua vita, morirebbe. anna maria: Non ci vedo incongruenze. Se torna qui è perché la sua vita fuori ce l’ha. Ci mancherebbe! sandro: Anche economicamente parlando sarebbe piut tosto difficile la sopravvivenza... Non è che i dischi di Andrea rendano molto. anna maria: Forse è la musica che li lega. luca: Ma se Chiara è un’umanista! (Nuovo stacco sull'interno). lu i; Non muoversi. Neanche quando le voci di fuori invadono dentro l’angolo letto, l’angolo cucina, gli angoli salotto e ci aggrediscono al caldo. Fuori sa rebbe al freddo. Qui scuotono soltanto la mia ir responsabile solitudine e l’angoscia evapora nella molle autonomia di un confino. Decido quando dor mire, repentinamente, ignorando su quale versante darà domani la finestra... Guardando, intuendo da lontano la mediocrità degli altri. La mia no. È trop po assediata per essere davvero mediocrità. (Nuovo stacco verso l’esterno). sandro: Andrea ha paura, più di tutti noi. E ha me no armi per difendersi. anna maria: Ma se è barricato! luca: È disumanizzato. sandro: Non lo so. La debolezza è proprio barri carsi . anna maria: Perché non immagazzina anticorpi? (Nuovo stacco sull’interno). LUI: Il fallimento. Il senso del fallimento. Mordersi le mani guardando gli altri correre senza poter fare altrettanto. « Sei un grande tennista ». Chiara lo dice ancora. « Tu sì, puoi correre, sono io che non ho fiato ». Questo è il suo modo di aiutare. Si usa ancora la parola « stimolante »? Lei è stimolante. (Nuovo stacco sull’esterno). sandro: Non c’è modo di aiutarli, credo. LUCA: Ci sarebbe stato. Adesso ci voleva il figlio. ANNA maria: L’avrà voluto per tenerselo. (La stanza prende completamente luce. Chiara si al za e in modo quasi selvaggio urla verso Andrea). lei: Basta. Basta anche col dormire. C’è un sole sfac ciato. Sono incinta. Il figlio è tuo. Lo voglio. lu i: Eccomi sull’attenti, signora. A una ragazza ma dre si deve questo ed altro. le i: Cominciamo così, insultiamoci. Gli insulti del mattino hanno l’oro in bocca. LUI: Perché non mi mandi via? lei: Ma dove ti mando? lu i: Non è « dove » il problema. LEI: È il come? lu i: Deve essere il « come », visto che non lo fai. lei: Quanti vademecum dovrei sfogliare per riuscirci? lu i: Non ne hai sfogliato nessuno: questa idea del lei: Ho davvero pensato che l’avessi fatto apposta per figlio non è da manuale. tenermi. Per vietarmi. bisogno. lu i: Non conosco questo verbo. le i: Di vivere anche per gli altri. lu i: E mi hai odiato l^ i: Bastava questa guerra qui. Del figlio non c’era lu i: E se non fosse mio? lei: Perché, tu credi di avermi insegnato a fare l’amo re con qualcun altro quando ne ho voglia, per rien trare poi qui, uscita dalla casa di qualcun’altro. Tu credi umanamente che potrei scopare con un altro? lu i: Sono così taumaturgo, da averti imbrigliato tanto? lei: Ci ho provato. Ho anche chiuso gli occhi. Ero pronta ad affaticarmi, a far diventare un torrente i capelli e a sopportare il crampo alla gamba destra, e a non ridere affatto, a rispettare la fatica e le gocce di sudore, e l’amore di chi mi stava sopra, di traverso, in bilico. E invece... Ho riso, ho dete stato i miei futuribili capelli gretti, le gocce di su dore che diventavano mille, e lui da sopra è crol lato a fianco. lu i: Luca? lei: È importante? lu i: Ma con me ridi e parli. lei: Appunto. Non conosco che questa soluzione. lu i: Ti fa pena? lei: Mica abbiamo fatto qualcosa di male. Ci siamo limitati a scombinarci le intenzioni, le esigenze, le attese. lu i: Perché io sono deleterio. lei: Castrante. Se mi dicono « ti amo », sorrido e andiamo al cinema. Ma ad un « ti amo » tuo, si può morire. lu i: Amare è fare all’amore, accendersi una sigaretta e domandarsi se è stato bello. lei: L’hai sentito alla radio? Allora si fa l’amore quan do si fa all’amore, e si commenta come è stato. Ti è piaciuto? Hai goduto? Chi arriva prima lo dice? Come un gioco, solo che poi non vinci niente. Al lora è meglio la tombola. LUI: Sono io che ti ho portata a complicarti tanto? lei: Tu, grazie. Tanto devastata da essere buona so lo ad amare te e a fare del resto un banalissimo racconto. luto. lu i: Il racconto di questo figlio io non l’ho mai vo lei: Appunto non te l’ho detto. Lo so. Poteva es sere un tuo scherzo, la tua cattiveria per farmi sen tire la tua supremazia di avermi seminata. Ma poi, no, ho capito. Semine del genere sono contrarie al tuo senso dell’estetica. lu i: Hai una memoria infallibile. lei: Si ricordano sempre le cose che feriscono; quelle neanche tanto remote, ancora meglio. lu i: Perché, come dicevo? lei: Vuoi anche riascoltarti! E allora ecco, replay: « Una donna incinta! Tu incinta! Sformata, nean che più un briciolo di desiderio! ». lu i: E l’ho detto da disumano esteta? le i: Vedi tu, ed esercita la fantasia. Tra pochi mesi la tua descrizione mi calzerà a pennello. Ma posso privarti di questo nauseante spettacolo quando vuoi. Emancipati. Mi emanciperò anch’io. lu i (più dolce)-. Anche tu hai tanta paura di diventare brutta e cuneiforme? Anche tu desidererai murarti in casa? le i: Quando ti sveglierai, capirai che mi sembra di vivere due volte, e una è per te, la più difficile, la più disonesta, perché senza riscontri, senza appigli. lu i: Strano però che la tua eccezionalità, d’un tratto, si tenga il figlio! lei: Lo tiene. Bada, diventerò più rara con la pancia. Ti ho fatto pesare le mie nausee? Il panico del re sponso? Ti ho fatto pesare di volerti bene? (La luce si spegne di colpo. Si riaccenderà su An drea seduto al piano, che suona un altro brano di jazz, e dopo le prime note di musica, anche sull’al tra sezione della scena. Saranno due luci diverse, come sempre il dentro e il fuori. Fuori si trove ranno Chiara e Luca, lei in impermeabile con gior nali e pacchi sotto il braccio, Luca con il solito li bro. Andrea continuerà a suonare). luca: Così è come se non fosse successo niente. Tutto le i: Niente. luca: E cosa decidi? lei: Che devo decidere? Dovessi anche spezzettarmi così tutta la vita, credo che lo farei... luca: Già, alla fine potrebbe anche farti comodo. lei: Comodo? luca: Ma sì, vivi come ti piace. Torni a casa e trovi un motivo ideale per le elucubrazioni, e non hai nemmeno il pretesto di essere gelosa, perché lui è lì, e non conosce che te... lei: Biblicamente. luca: Ti fai corteggiare dagli altri, svaporata e salot tiera, e lì magari, a letto con lui c’è l’altra faccia... il Kamasutra dopo i cerebralismi... le i: Ecco, sì. Questo figlio deve essere stato per il Kamasutra... posizione « fior di loto »! luca: E tuo figlio avrà questo padre d’esempio... scorre? lei: Magari ci sposeremo. luca: La malata sei tu. lei: È troppo tardi per chiederti di presentarmi a qualcuno sano? luca: Lo conosci il paguro Bernardo che vive in sim biosi con l’attinia? le i: Andrea chi è? Il paguro? {Andrea riprende a suonare con più violenza, men tre la luce all’esterno si spegne. Si guarda intorno, socchiude la finestra, prende in mano uno spartito musicale e lo fa in mille pezzi). lu i: Mi sta bene! Supremazia di merda! Non puoi es sere migliore degli altri perché sensibilizzato alla paura. Anche con l’angoscia molte volte non vali niente. Hai capito, Chiara, che anche se ho paura, in questa tana non cova nessun genio. Sono medio cre, come te che corri. Sono mediocre esattamente come te! {Chiara entra in scena correndo, con i capelli scom posti. Si ripete la scena del primo atto, ma questa volta tiene il cappotto. Andrea è al pianoforte). lu i: Cosa c’è li sotto? Il marsupio? lei: Sbrigati. lu i: A far cosa? lei: Non hai sentito? lu i: Quando mi diletto del mio onanismo musicale non sento. le i: Non è salito nessuno? lu i: Sempre stato solo. lei: Lascia stare adesso. Sbrigati. (Lui smette di suo nare) Ci hanno avvertito. Hanno chiamato dalla por tineria. LUI: Ma di cosa? le i: Senti, andiamocene via. Adesso. C’è una bomba nel palazzo. lu i: Dava tanto fastidio la mia musica? le i (ride disperata)-. No, non sto scherzando. LUI: E chi ti crede? le i: Devi fare anche presto. Magari non succede nien te, ma la polizia è già giù. lu i: Tanta? lei: Tre o quattro poliziotti. lu i: La divisa è la stessa? Non è una cosa seria. le i: Senti, per carità, forse hanno solo scherzato, ed è per metterci paura. Ma non possiamo restare qui. LUI: Che c’entriamo noi? le i: Ma qui ci abita lui. lu i: Già, somma sventura, coabitare col magistrato Fioroni. le i: La polizia ha detto di scendere. Subito, capito? Stanno esaminando i cassoni dell’acqua. lu i: E allora basta. Se li esaminano... lei: Ma una bomba può stare ovunque. Nei cassoni e non nei cassoni. lu i: Ma non qui. (Voci concitate e rumori dall’esterno). lei: Non in questa casa, ma in un punto del palazzo sì. Sbrigati. Quando la mettono nell’atrio di una banca, questa salta con gli sportelli, le cassette di sicurezza, la gente. Perché non può saltare un pa- lazzetto? LUI: In un quartiere bene... lei: Sbrigati! Può saltare! lu i: Ci libreremo nell’aria, io e te. O io soltanto nel l’aria, con la casa appresso, e via le scorie azotate, i relitti della società. voce di fuori: Fate presto! Scendete! Fate presto! lei: Li senti? Ti lascio qui altrimenti, e vado... lu i: Ma dove? LEI: In un posto qualunque. Fuori. In macchina. Al lu i: Per metterti in salvo? E il tuo amore? lei: Se « l’amore » non vuole, può restarsene qui ad l’edicola. aspettare. lu i: Sei incredibile. le i: Lo sei tu. lu i: Io non esco. lei: Fa’ come vuoi. lu i: Siamo qui e ci restiamo. lei: Sei qui e ci resti. lu i: Per una volta che la nostra discontinua storia... LEI: Poteva acquistare continuità? lu i: Senso. le i (scuotendosi rabbiosa, e poi solo triste)-. Ma che senso... Se non ti accetti e non mi accetti, se non ti rassegni neanche a viverla questa storia, per ostile che sia, per il solo fatto che è qualcosa... lu i: Eh, ma l’amore non dovrebbe essere così. (La voce di fuori incita con più violenza a scendere) lei: Sei pazzo! LUI: Che? le i: Vieni. Vieni, dai. È un modo violento per risol vere la stasi. Ora usciamo e mangiamo una tartina al bar della piazza, compriamo il giornale della sera, spostiamo la macchina, ce ne andiamo, nell’unico modo in cui possiamo andarcene. Insieme... LUI: Mi ami? le i: Che significa? lu i: Mi ami davvero. È un peccato. lei: Ti sto complicando la purezza del tuo sfacelo? lu i (ascoltando un tramestio stridente)-, senti... lei: Andiamo. lu i (ridendo): Tanto non succede nulla. Non succede mai nulla. le i: A chi non vuole che succeda. lu i: Ma se succedesse? le i (ridendo forte e sedendosi sul divano accanto a lui): Sbrigati, perché succede. (Uno scoppio immenso fa piombare la scena nel buio). FINE RINNOVATE IL VOSTRO ABBONAMENTO A IL D R A M M A - C /C 11036407 - INTESTA TO A NUOVA CASA EDITRICE LICINIO CAPPELLI S.p.A. - VIA M ARSILI, 9 - 40124 BO LOGNA « La lezione » di Eugène Jonesco, messa in scena al Teatro « La Goldonetta » di Livorno dalla Compagnia « Spazio Teatro », diretta da Giorgio Fontanelli, scene di Emidio Bosco. Nella foto: Ri naldo De Velo e Maila Nosiglia S o c i e t à I n t e m a z i o n a l e P u b b l i c i t à S .I.P Concessionaria esclusiva per la pubblicità S.I.P. SpA (Società Interna zionale Pubblicità) Roma - Piazza Adriana, 1 2 - Tel. 65.03 Milano - Corso Venezia, 14 - Tel. 70.80.01 T A R IF F E — P u b b lic ità C o m m e rc ia le — P u b b lic ità R e d a z io n a le — P u b b lic ità F in a n z ia ria L . 300.000 - u na pag ina L.' 160.000 - m ezza pag ina L . 400.000 - una pag ina L . 200.000 - m ezza pagina L . 400.000 - una pag ina L . 220.000 - m ezza pagina — S econda e T e rz a pagina di c o p e rtin a L . 400.000 — Q u a rta pag ina d i c o p e rtin a L . 500.000 C o s e n z a : M e r id io n e , te a t r o e t e r r it o r io \ U n a r e a l t à i n m o v i m e n t o Qual’è la situazione teatrale del meridione? Esistono solamente al cune importanti, ma rare ed isolate realtà, sorta di cattedrali circondate dal nulla (come lo Stabile dell’A quila e di Catania, il Rendano di Cosenza, il Piccinni di Bari, l’Um berto Giordano di Foggia e pochi altri) o esiste un tessuto teatrale più diffuso? Terra ancora teatralmente vergine e da conquista o capace di proposte proprie e qualificate? La rassegna dei gruppi teatrali meridionali, svoltasi a Cosenza dal 13 al 17 dicembre, ha dato una pri ma risposta a questi quesiti. Nel programma della manifesta zione (Meridione: teatro e territo rio), organizzata dall’Assessorato al Teatro e Beni Culturali del Comune di Cosenza e dell’ARCI Regionale calabrese, otto gruppi, campione di una realtà produttiva più vasta, pre sente nelle varie regioni: per la Ba silicata, il Piccolo Teatro di Poten za; per l’Abruzzo il Gruppo Liberi Amatori del Teatro di Paglieta; per la Puglia La Tarumba, di Foggia; per la Campania il Tra(de)-Ma(rk), di Salerno; per la Sicilia il Teatro libero di Palermo; per la Calabria tre gruppi cosentini: Il Quartiere Collettivo Teatrale d’intervento Po litico, Scenaperta e la Cooperativa Centro RAT. « Per la prima volta si muove il Sud — afferma Giorgio Manacor da, Assessore al Teatro e Beni Cul turali del Comune di Cosenza — . E’ il momento di vedere quali sono le forze vitali, di verificare le pre senze reali nel territorio. Dobbiamo vedere che cosa hanno prodotto spontaneamente le varie regioni: quali gruppi, quali spettacoli, con quali indirizzi culturali e di ricerca. Le Istituzioni pubbliche (consorzi, associazioni ecc.) devono fare i con ti con le esperienze in corso, devono stabilire rapporti con i gruppi tea trali effettivamente operanti ». Necessità, quindi, d’incontro e confronto tra i vari gruppi e tra questi e gli Enti pubblici. A tal fi ne, parallelamente alla rassegna, il giorno 16 si è tenuto un dibattito sul tema « Associazionismo e gruppi di produzione teatrale tra realtà so ciali e istituzioni ». Vi hanno partecipato, tra gli al tri, Bruno Grieco, responsabile del la sezione Teatro della Direzione nazionale del P.C.I., Donnini re sponsabile del settore Teatro e Mu sica dell’Arci nazionale, l’assessore Manacorda e numerosi operatori teatrali meridionali e non. Attra verso vari interventi è stato sottoli neato come, partendo dal sud e dal l’attività dei gruppi locali, si possa giungere ad una crescita e ad un rinnovamento del modo di fare tea tro in Italia. Ciò sarà possibile se superata la logica mercantile, basa ta sul richiamo divistico, sul soddi sfacimento del gusto da mass-media. .. Les carabiniers » del gruppo Tra(de)ma(rk) di Salerno (foto Trezza) Stabile di Potenza, il Paisiello di Lecce, il Mercadante di Cerignola (Foggia), il Garibaldi di Lucerà (Foggia) usati come magazzini, fre quentati dai gatti, adibiti, talvolta, a mondezzai comunali. Analogie, dicevamo, ma anche di versità tra regione e regione. In Ca labria, Puglia, Campania, si trova una molteplicità di presenze, una vivacità d’iniziative che non si ri scontrano né in Abruzzo, né in Si cilia (che pure dispongono di uno Stabile, quello dell’Aquila e quello di Catania), né tantomeno in Basili cata. In Calabria, in particolare, pro pulsore Cosenza e l’amministrazione della città (e non è casuale che an che questa rassegna si sia svolta nel capoluogo cosentino), si è registrato negli ultimi tre anni un moltipli carsi d’iniziative: un « Progetto di contaminazione urbana » (con rap presentazioni, seminari, concerti, spettacoli in strada, animazioni ecc.); due rassegne di postavanguardia; in contri con importanti gruppi nazio nali ed internazionali, tra cui il Li- ving; realizzazione di un consorzio tra 16 Comuni, che distribuisce e produce spettacoli (quest’anno ha messo in scena « Francesco e il re » di Vincenzo Ziccarelli, regìa di Ales sandro Giupponi). Un consorzio di Enti locali (68 per la precisione) esi ste anche in Puglia: ha stentato, ad avviarsi per la difficoltà di soddi sfare, soprattutto in partenza, una domanda tanto estesa e per la man canza sino all’anno scorso, di un or gano direttivo. Consorzio non tra Comuni, ma tra teatri (circa 10) è l’ATAM (As sociazione Teatrale Abruzzo e Mo lise), nato tre anni fa, che in Abruz zo svolge un’attività non di produ zione, di competenza dello Stabile dell’Aquila, ma solamente di distri buzione. Collabora con tali consorzi, a li vello di circuiti e di programmazio ne, LETI, che ha costituito, soprat tutto in Puglia, una presenza im portante e attiva, (presente anche al convegno con Franco D’Ippolito, dell’Ispettorato sud, di Foggia). to, strumento di operazioni cliente- lari. Questi, in sintesi, gli orientamen ti emersi dal convegno al quale han no espresso la propria adesione, pur non potendo essere presenti, Fabia ni e Guadagnolo, della sezione Tea tro rispettivamente della DC e del P.S.I. « Ulteriori frammenti di Otello » del gruppo Scenaperta di Cosenza (foto Trezza) si opererà tenendo prioritariamente conto del « valore d’uso » di un la voro, della sua capacità di soddisfa re, sia per contenuti che per metodi operativi, bisogni della collettività. In tal senso è fondamentale che, oltre a realizzare una sempre più ampia distribuzione di spettacoli di qualità, nazionali ed internazionali, si provveda all’apertura di labora tori dove fare ricerca, sperimenta zione e che permettano, attraverso anche seminari, animazioni ecc., di realizzare una presenza continuati va, un effettivo radicamento-colle gamento col territorio. Si richiede quindi agli Enti locali, singolarmen te o riuniti in consorzi, di farsi promotori, anche con normative re gionali, in attesa della legge di ri forma della prosa, di tali progetti, tenendo conto e coinvolgendo in essi, gli operatori già presenti che debbono, a loro volta, impegnarsi per una sempre maggiore qualifica zione. Parlando di teatro nel Mezzo giorno c’è ancora da rilevare che, pur presentando alcune condizioni analoghe, si tratta di una realtà tutt’altro che omogenea. Comune è la forte e crescente ri chiesta di teatro, l’espansione, per quantità e composizione, del pubbli co, verificata, tra l’altro, con il suc cesso ottenuto aprendo nuove «piaz ze»; un certo ritardo nell’incontro e conoscenza di esperienze più avan zate; la mancanza di coordinamento e, prima ancora, di censimento del le forze e degli spazi esistenti; un patrimonio di sale teatrali bellissi me, gemme architettoniche volute dai Borboni dalla metà del ’700 sino a tutto il secolo successivo, ormai perdute, la maggior parte, in com pleto abbandono e disfacimento, al tre. Negli anni ’60, piratesche ope razioni edilizie hanno portato alla trasformazione, perlopiù in cinema, di molti teatri. Dal Teatro Impero di Matera si realizzarono, da un la to, aboliti i palchi, un cinema, dal l’altro, distrutto il palcoscenico, un palazzo. Altre strutture, invece, so no in disuso e fatiscenti: così lo E questo senza creare confusione né sovrapposizione di ruoli tra En ti locali, associazionismo, gruppi di base, rispettando le diverse funzio ni decisionali e di gestione o consul tive e di stimolo che rispettivamen te competono, anche giuridicamente, agli uni e agli altri. Rifiuto, infine, d’atteggiamenti di subalternità e, quindi, d’interventi assistenzialistici. inutili (perché non portano ad una reale crescita del tessuto teatrale e culturale) e troppo spesso, in passa- Passando, infine, a parlare dei gruppi presenti alla rassegna va sot- tolineata la diversità di scelte este tiche, programmatiche ed organiz zative proprie di ognuno e il comu ne, fondamentale impegno a svolge re un’opera di alfabetizzazione tea trale, a fare del teatro uno strumen to di aggregazione e crescita collet tiva, il cui valore, soprattutto in zone di desolante carenza di stimoli, va ben oltre il risultato spettacola re in sè, peraltro in alcuni casi de cisamente buono. Alcuni di essi han no varcato per la prima volta in questa occasione i confini della pro pria provincia e regione, svolgendo essi soprattutto, con spettacoli, se minari, animazioni nelle scuole e in circuiti tradizionali e non, un lavoro « a terri torio. tappeto » nel proprio Così il Piccolo Teatro di Poten za che, scontrandosi con inerzia ed abulia, è presente dal ’69 in centri grandi e piccoli della Basilicata. A Cosenza ha presentato « Othello »: la tragedia scespiriana è trasferita negli anni ’30, in un sofisitcato bor dello dove, tra paraventi rosa, sot tofondo di fox-trot e canzonette del l’epoca, Otello, ragazzotto alla pri ma esperienza, è tradito, prima che dagli altri, da un suo vagheggiato rapporto con una Desdemona a pa gamento. Attori, nonché autori del le scene e della regìa: Piro Baldinet- ti, Gennaro D’Arco, Domenica Ma- stroberti, Mariano Paturzo, Monica Pich. Il Gruppo Liberi Amatori del Teatro di Paglieta, formatosi nel ’70, animatori Nando e Sandro Cian ci, è costituito da contadini, operai, studenti, disoccupati che si servono dello strumento teatrale per appro fondire temi legati alla vita, pas sata e presente, delle masse popo lari e, più in particolare, rurali del sud. Coerente a tale programma è « Le storie », spettacolo che, non trascurando attenzione e ricerca for male, ricostruisce nella prima parte il tentativo d’insurrezione anarchi ca compiuto a Letino, nel Matese, nel 1877; nella seconda, servendosi di lettere, racconti, fotografie, do cumenti raccolti (e che insieme a tutto l’altro materiale che sarà pos sibile reperire andrà a costituire un Museo della Civiltà Contadina), le vicende, di speranza e dolore, di due contadini meridionali nel pe riodo tra la prima e la seconda guer ra mondiale. « Les carabiniers o di un poema fisico », di Franco G. Forte, dal dramma di Joppolo « I carabinieri », è il lavoro con cui il Tra(de)-Mafrk) ha partecipato alla rassegna. In una scena di geometrico nitore, tutta giocata sui toni del bianco e del ne ro, il mito e la magia del sud, la guerra, i riti propiziatori ecc. riaffio rano come frammenti di memoria, soffocati in un’atmosfera oppressi va di morte, in un linguaggio denso di citazioni e rimandi (da Godard, a Kerouac, a Leo e Perla ecc.). Una serie di disegni di Antonio Petti hanno ispirato la realizzazione di co stumi, maschere e fantocci di scena; la regìa è di F.G. Forte; recitano con impegno e professionismo: En zo Cutolo, Nino D’Angelo, Gianni Pisciotta, Daria Scotto, Silvana Sor rentino, Tina Russo, Emilia Ni- colais. Il Gruppo Teatro La Tarumba, fondato nel ’77 da Guglielmo Fer- raiola (attore con un passato anche strehleriano) testimonia già con la scelta del nome (lo stesso della pri ma compagnia di Garcia Lorca), la volontà d’essere presente, appunto come l’ambulante teatrino torchiano, nelle località di provincia, ricercan do lì il proprio pubblico. « Un attore nel camerino di... Pe- trolini » è non soltanto una ripropo sta garbata ed affettuosa di celebri personaggi e battute petroliniane, ma anche un discorso sull’attore, sulla sua fantasia e creatività. E’ una grossa prova di tenuta scenica che Ferraiola, solo dall’inizio alla fine' e regista di se stesso, supera con gran de estro e bravura. Scene e costumi sono di Laura Amoruso; arrangia menti e musiche di C. Santangelo. Il Quartiere-Collettivo Teatrale di Intervento Politico agisce in tutta la Calabria, perlopiù in spazi « non deputati », « ricercando situazioni e momenti dialettici con altre realtà culturali ed istituzionali ». In «Tut ti a Fragalà!», di Beniamino Fiori- glio, vengono ricostruite, attraverso il dialogo di quattro contadini dete- nuti, l’occupazione di terre agli ini zi degli anni ’50 e, nella seconda parte, la cella divenuta baracca-dor mitorio tedesca, le speranze deluse di alcuni emigrati. Aboliti i ruoli, la realizzazione è del gruppo. Un altro Otello, oltre quello del Piccolo Teatro di Potenza, è stato presentato dalla giovane compagnia cosentina « Scenaperta » (giovane perché di recente costituzione e per l’età media dei suoi componenti). « Ulteriori frammenti di Otello », autore del testo e della regìa Massi mo Manna, è uno spettacolo non privo di suggestioni, figurativamen te piacevole. In un enorme baldac chino-velario, dal rosso basamento, la tragedia di Otello rivive attra verso contaminazioni da film poli ziesco, cartoon, spettacolo di varie tà, in un gioco divertito e diver tente di luci, musiche, colori, gesti. In scena, oltre l’autore, Antonella Carbone e Pasquale Anseimo. Scene, costumi, trucchi e luci di Francesco Tarsia. Molteplici le attività della Coo perativa Centro R.A.T. (Ricerche Audiovisive e Teatrali), presente con continuità in Calabria da quat tro anni: produce spettacoli per « Un attore nel camerino di Petrolini » del gruppo La Tarumba di Foggia (foto Trezza) adulti e per ragazzi; fa animazione e seminari nelle scuole; gestisce un laboratorio per la ricerca e speri mentazione sulla « comunicazione teatrale » ed un teatro-studio per la formazione di operatori teatrali; sta allestendo un centro di documenta zione sullo spettacolo (testi, autori, compagnie ecc.) nel meridione; pro gramma l’attività de « La Tenda di Giangurgolo », un teatro di proprie tà della Cooperativa. « Il Giangur golo in Commedia, ovvero le stra vaganti avventure di un comico del l’arte » è il titolo del lavoro che hanno presentato alla cinquegiorni cosentina. Il testo, di Nello Costa bile e Anna Ponte, è stato ricostrui to mettendo insieme vari canovacci e materiali inediti, raccolti in tre anni di ricerche. Giangurgolo, capi tano di ventura sbruffone e codar do, personaggio tipico calabrese (as sente dalle scene dal ’600), è una maschera della commedia dell’arte che, apparentata ai vari capitan Fra cassa, Spaventa ecc., eredita i ca ratteri del « miles gloriosus » plau tino. Spettacolo divertente e pieno di brio: belle le scene, astratte e candide (di Luigi Magli), i costumi (di Dora Ricca); bravi ed eclettici gli attori (Albino Bifano, Annick Buleaken, Massimo e Nello Costa bile, Annamaria De Caro, Larry Gi- gliotti, Gianni Leo), curata la regìa (di Nello Costabile). Infine, il Teatro Libero di Paler mo, sorto nel ’69 per iniziativa di Beno Mazzone. Il TL, promotore dal ’70, di « Incontroazione »: non un festival, ma un’occasione, unica in Sicilia per chi fa ricerca, di con frontarsi con altre esperienze nazio internazionali, attraverso nali ed seminari teorico-pratici, convegni ecc. Ultima realizzazione del gruppo è « Il bagatto » (carta tra le più enigmatiche dei tarocchi) che trae liberamente spunto da « Il castello » di Kafka. Immessi in uno spazio de limitato da alte carte (elegante ope ra grafica dei pittori Calascibetta e Quadrio), ripresi da una telecame ra a circuito chiuso che permette di osservarsi su di uno schermo, gli spettatori vengono a trovarsi in una atmosfera di dubbio e mistero, par tecipi di un gioco di cui ignorano le regole: tale é la sorte di chi s’in troduce nel « castello » ed ardisce interrogare l’arcano. Collaborano con Beno Mazzone: Patrizia Barbera, Lia Chiappara, Vi to Di Bernardi, Gianni Fortunato. Consulenza musicale: Federico In- cardona e Guido Di Palma. Maria Beatrice Bertuccioli Uiangurgolo » di Anna Ponte e Nello Costabile. Cooperativa Centro R.A.l. di Cosenza P is a e A g r ig e n to C o n t i n u a l ’ e s p l o r a z i o n e d e l p i a n e t a P i r a n d e l l o Più anni passano dalla morte di Luigi Pirandello (Roma, 10 dicem bre 1936) e più ci si rende conto che molto v’è ancora da scoprire nella vita e nell’opera sua: la prima piuttosto chiusa e solitaria, condot to in modo schivo e appartato nello stretto ambito familiare e nel corto giro di pochi veri amici in gran parte a lui congeniali e professio nalmente vicini; la seconda varia, mutevole, vasta ed aperta come un mare che non si finisce e non si fi nirà mai di navigare e di scanda gliare. Sulla figura dell’uomo e del l’artista parecchie sorprese ci atten dono se e quando sarà pubblicato l’epistolario, che in massima parte è tuttora inedito; ma bisogna che sia completo e non soggetto a censure d’alcun genere, dacché solo in tale forma integrale, senza veli e vuoti, potrà riuscire utile alla storia ed alla cultura, dissipare numerosi dub bi, chiarire certi atteggiamenti e permettere di approfondire la ge nesi di talune opere importanti e suscettibili di nuove interpretazio ni. Allora, più che interrogativi cui rispondere, rimarranno unicamente larghi spazi per ulteriori indagini biobibliografiche, esegetiche, sceni- co-sperimentali (nel senso di nuove ricerche espressive da parte di at tori e registi seri, capaci di capire e di farsi capire). Pirandello era cosciente d’esser nato con molto, anzi con troppo anticipo sui tempi in cui visse ed operò, per il qual Pirandello a diciotto anni motivo fu compreso tardi e non del tutto; ad un cronista del quo tidiano londinese Daily Sketch, nel 1931, disse: « Io sono la voce del futuro, non del passato; e la voce del futuro è udita solo da pochi ». Il futuro di Pirandello, a quaranta- due anni dal suo trapasso, è appena cominciato. Pur avendo raggiunto, prima, no torietà nazionale e, poi, fama inter nazionale nelle decadi del Venti e del Trenta, con alti e bassi che — per gli avvenimenti politici italiani ed europei — si sono protratti fi no al primo lustro degli anni Qua ranta, si può dire che la vera sco perta e conseguente fortuna di Pi- randello (e più palese quella della sua produzione teatrale) ha inizio dall’immediato secondo dopoguerra in avanti con crescente interesse, at tenzione e revisione di giudizio del la critica e del pubblico di appar tenenza generazionale pre e postbel lica. Inoltre, anche se l’influenza della poetica e della tematica piran delliane su narratori ed autori dram matici italiani e stranieri principiò ad essere evidente e sempre più in tensa in concomitanza con la loro diffusione attraverso le commedie, le novelle, i romanzi e parte della saggistica all’incirca durante lo stes so periodo predetto, i maggiori frut ti sono giunti a maturazione già nel corso del secondo conflitto mondia le e tuttavia li cogliamo numerosi altresì nel campo dell’arte cinema tografica. Pirandello non ha più bisogno di ricorrenze obbligate, ancorché gio vevoli, per esser celebrato, ricorda to, ristudiato, riletto, riproposto sce nicamente, additato alle giovani ge nerazioni come l’interprete più au tentico della condizione umana a lui ed a noi contemporanea, presen tato nella giusta prospettiva critica. Egli ha meritatamente conquistato la popolarità, almeno sulle scene dell’Occidente: tradizionali, speri mentali e di ricerca. I critici lette rari non fanno più gli schifiltosi nei confronti della sua opera narrativa, e si sono finalmente accorti che il ‘nuovo romanzo’ è nato con II Fu Mattia Pascal (1904). I critici tea tortura trali accettano le ardite operazioni drammaturgiche di smontaggio e ri montaggio dei testi pirandelliani ri tenuti per alcuni decenni intocca bili oppure condannati ad una data zione che li aveva inesorabilmente e assurdamente imbalsamati. Infine il pubblico d’oggi coglie le vere in tenzioni dello scrittore siciliano, tut- t’altro che cerebrali, vedendo oltre la logica del personaggio quella umana ed esistenziale senza bisogno di tante spiegazioni. Rotta così da la barriera dello scrittore ‘difficile’, tutte le annate ormai sono grasse per Pirandello sia in Italia sia all’estero: solo da noi, nel ’78, una raccolta di saggi sui suoi rapporti col cinema, una retrospettiva cinematografica itine rante in Sicilia (curata dall’autore di quest’articolo), una produzione Rai cinetelevisiva (/ vecchi e i gio vani con la regia di Marco Leto) presentata in alcuni festival inter nazionali, una dozzina di spettacoli teatrali e due convegni dei quali ora parleremo. tempo Del primo, svoltosi a Pisa in Pa lazzo Reale dal 25 al 28 ottobre e organizzato dall’Accademia pisana dell’arte, sodalizio dell’Ussero, pos siamo solo dare un’informazione scheletrica non essendo stati invitati a presenziarvi e non avendo ancora ricevuto almeno copia delle rela zioni scritte. Se e quando saranno pubblicate, assieme a quelle dette sulla scorta di appunti, potremo e- ventualmente darne notizia più am pia. Autori e temi trattati ci spin gerebbero a farlo. Eccoli: Vittorio Vettori, Pirandello europeo-, Riccar do Marchi, Il Pirandello corale dei nuovi ‘miti’-, Giuseppe De Matteis, Pirandello dopo Verga-, Gennaro Malgieri, Pirandello fascista?-, Gior gio Casini, Pirandello e A.G. Bra- gaglia; Vincenzo Marotta, Storia e invenzione nell’opera di Pirandello-, Bruno Maier, Pirandello-e Svevo; Maria A. Triglia, Motivi pirandel liani su un recente libro di fiabe-, Marta Abba, Pirandello nella ‘Pleiade’-, e Diego Fabbri, Pirandel lo vissuto. Una parte dell’interven to della Abba, riguardante alcune inesattezze biografiche da lei riscon- trate nella lunga prefazione al pri mo volume del Théâtre complet di Pirandello a cura di Paul Renucci (Paris, Gallimard, 1977), è stata pubblicata dal quotidiano romano Il Tempo (4 die. 1978) ma senza ottenere reazioni pur essendo pro vocatoria verso gli eredi Pirandel lo in generale e delle figlie di Liet ta in particolare con riferimento alla « punizione » testamentaria che il genitore le inflisse in data 25 no vembre 1926. Forse la Abba co nosce quanto sicura fosse la fonte d’informazione del Renucci (morto a Nizza nel nov. del ’77) il quale accenna ad un rifacimento testamen tario ch’ella nettamente e gravemen te smentisce. Che la biografia di Pi- randello scritta dal Nardelli (L'Uo mo segreto: vita e croci di Luigi Pirandello, l.a ed. Milano, Monda- dori, 1932) sia approssimativa, la cunosa e poco rigorosa in molti pun ti non è solo opinione del Renucci. Quanto all’ennesima sortita della Abba che risfodera i brani esaltanti della sua arte dalle lettere che Pi- randello le indirizzò nel decennio 1926-36, ci auguriamo tutti che il veto della pubblicazione integrale di tale importante epistolario — co me sopra detto — sia una buona volta tolto. E veniamo al secondo convegno pirandelliano del ’78: Agrigento, 6-10 dicembre. È stato il quinto, annuale e sempre alla stessa data, promosso dal Centro nazionale stu di pirandelliani e sempre meglio or ganizzato dal suo direttore prof. En zo Lauretta. Tema: Gli atti unici tra narrativa e teatro, con dician nove relazioni (di cui una di grup po) pubblicate in anticipo — in credibile a dirsi — affinché si po tesse avere l’avallo immediato dei testi. È chiaro che la registrazione del dibattito sarà motivo d’un se condo volume a completamento de gli ‘atti’ (ed. Akracas del Centro agrigentino, Casa natale di Luigi Pi- randello, Villaseta, Caos; distr. A.P.E. - Mursia, Milano). Dal 1974 — dopo il Romanzo, i Miti, la Tri logia del teatro nel teatro e il Ci nema — l’esplorazione del pianeta Pirandello continua! Non che man chi l’indagine specifica e circostan- ziata, nella già vasta bibliografia pi randelliana, ma gli è che l’opera del nostro fecondo autore, in tutte le sue espressioni e manifestazioni, si presenta appunto come un corpo a sé stante ognora capace di darci nuove sorprese e di permetterci nuove scoperte appena ci avventu riamo a percorrerlo o a ripercor rerlo. Dei 15 atti unici scritti da Pi- randello, 12 hanno derivazione dal la sua novellistica e su di essi si è esercitata la ricerca critico-esegetica, stilistico-filologica, drammaturgico- strutturale, ecceteia, di studiosi ita liani e stranieri. Nino Borsellino ha trattato il tema nel suo complesso, intitolando la sua relazione Tra nar rativa e teatro: io spazio dell’istrio ne e paragonando l’opera di Piran dello ad una « cittadella tanto ac cessibile quanto imprendibile »; ha anche giustamente affermato che « il territorio teatrale di Pirandello, co me del resto quello narrativo, è tut- t’altro che pianificato: incorpora di seguali volumetrie, aggrega disarmo nie strutturali, sopporta incoerenze formali ». Giorgio Pullini ha parla to del Primo Pirandello il cui esor dio scenico, come si sa, avvenne nel dicembre del 1910 con La Morsa e Lumie di Sicilia, ma la cui speri mentazione teatrale risale al 1886 circa e non al 1898 come il relatore sembra ritenere tuttora stranamen te ignorando o dimenticando le sco perte di Elio Previdenti (Lettere ai famigliai di L.P. in Terzo Pro grama’ n. 3, Roma, Rai, 1961) e di Alessandro D’Amico (Itinerario di P. al teatro in ‘Il Veltro’ n. 1-2, Roma, 1968) ed inoltre la retroda tazione dell’Epilogo (primo titolo dell atto unico La Morsa) di ben sei anni: dal 1898 al 1892 (anno di composizione). E poiché L’Epilogo discende dalla novella La Paura, pubblicata nel 1897, è mancato il discorso critico-storico sull’ipotesi che conseguentemente s’avanza: na scita posteriore (in tal caso singo lare) della novella dall’atto unico o anteriore (come negli altri casi nor mali) attenendosi alle date di pub blicazione (che possono ingannare sulla genesi reale dei testi rispet tivi )? La storia dell’atto unico piran delliano annovera altre relazioni: di Federico Doglio su II grottesco e il paradosso: « La Patente », « L’im becille », « Beliavita »; di Andrea Camilleri su Le quattro storie cosi dette girgentane-, « Lumie di Sici lia », « L’altro figlio », « La Gia ra », « La sagra del Signore della nave »; di Ruggero Jacobbi con al cune Riflessioni; di Giovanni Chia- berto, Alberto Cairoli, Elisabetta Soldini e Giovanni Cappello (lavoro di gruppo ma partitamente puntua lizzato) su « La Tavola del figlio cambiato ». L’esame è poi prosegui to passando con Giorgio Luti alla Struttura degli atti unici di Piran dello, con Achille Mango alla Fun zione della didascalìa, con Giancarlo Mazzacurati a II personaggio-, l ’im putato di turno, con Paola Daniela Giovanelli a Gli atti unici e il me- tateatro come ossessione, con Ma rilena Ermilli a Immagine e meta fora, con Pietro Mazzamuto all’a spetto de La maschera dialettale e con Maria Luisa Aitieri Biagi alla struttura linguistica scenica diversa dalla narrativa e al perché dei mu tamenti operati da Pirandello tutti a ragion veduta e vorremmo aggiun gere con un « processo spontaneo » di trasposizione strutturale e lingui stica dalla parola scritta per esser letta alla parola scritta per esser detta piuttosto che con la bilancia del farmacista come sembra traspa rire dalla minuta analisi della rela trice particolarmente centrata su L’Uomo dal fiore in bocca. Non per dare un dispiacere alla signora Al tieri Biagi, che con tanta cura ne ha indicato e motivato le variabili ri spetto alla novella La morte addos so, ma per una precisazione biobi bliografica e quindi storica occorre qui dire che il copione dell’Uomo dal fiore in bocca nacque senza che l’autore l’avesse mai scritto. Nel senso formale è così. L’episo dio che segue — noto a pochissimi e come che sia ignorato da biografi, storiografi, saggisti e critici — lo conferma. Una sera della fine di gen naio del 1923 Pirandello si trovava al Teatro degli Indipendenti e il padrone di casa, Anton Giulio Bra- gaglia lo pregò per l’ennesima volta di dargli qualcosa, magari un breve atto. Lo scrittore s’accorse che sulla scrivania piccolissima del « corago » fuorusciva a metà da un mucchio di carte una copia della sua raccolta di novelle II Carnevale dei morti (Firenze, Battistelli, 1919), la pre se, sfogliò le prime pagine e si fer mò alla seconda novella, Caffè not turno (isolatamente pubblicata nel 1918 e che da poco aveva ribatez- zato Ra morte addosso per la riedi zione in volume nella raccolta In Silenzio, sesta della serie delle « No velle per un anno », e allora sotto i torchi della Bemporad), trasse dal taschino della giacca una matita ros sa bene appuntita e sui margini o tra riga e riga d’ogni pagina comin ciò a togliere aggiungere modificare qualche parola o interpunzione in dicando in più talune pause e scri vendo alcune didascalie. E restituì il libro a Bragaglia, che aveva se guito in silenzio e raggiante il la voro di adattamento durato meno di mezz’ora. L’indomani una dattilo grafa provvide a battere il copione sulla scorta delle note manoscritte. Pirandello gli diede il titolo. La « prima » si svolse il 23 febbraio, protagonista Nino Meloni. Come di consueto ai convegni agrigentini, la partecipazione stra niera è stata arricchita dagli aggior namenti della « fortuna » di Piran- dello sulle scene estere: relatori An ne Paolucci dagli USA, Jòrn Moes- trup dalla Danimarca, Giuditta Isot- ti Rosowsky e André Bouissy dalla Francia, Felicity Firth dalla Gran Bretagna e Krysztof Zaboklicki dalla Polonia. I rappresentanti del Canada — Claudia Persi Haines, Douglas Campbell e * Roy Hayden Hinsley, quest’ultimo attore — hanno intel ligentemente predisposto una sorta di happening calando a sorpresa L’Uomo dal fiore in bocca e L’Av ventore, personaggi dell’atto uni co e della novella, nella Sala del con vegno, immergendoli con la loro fin zione scenica (gli interpreti Hinsley e Campbell hanno recitato in ingle se tutto l’atto unico seduti al tavo lo dei relatori nel mentre, su uno schermo a fianco, venivano proiet tate alcune diapositive dei loro vol ti) nella realtà d’un pubblico piace volmente stupito e attento alle pa role di Pirandello dopo essere stato spesso distratto dai pacchi, pacchet ti e pacchettini delle parole (dei relatori) su gli atti unici di Piran dello. Il pubblico dei convegni agrigen tini è in massima parte composto di giovani studenti delle scuole me die e delle università che il diretto re Lauretta invita con alcuni dei loro insegnanti e preleva da ogni parte d’Italia sollecitandoli ad una partecipazione effettiva (con inter venti e comunicazioni) congiunte a quella degli specialisti. Il passaggio dalla teoria alla prassi s’è avuto con undici esemplificazioni sceniche di cinque compagnie italiane e stranie re: la milanese dei Filodrammatici, l’agrigentina del Piccolo Teatro Pi randelliano, l’ungherese di Kaposvar, la tedesco-occidentale di Korner e la canadese dei Giovani di Toronto. Le « Maschere nude » d’argento so no state assegnate ai registi Marco Leto e Terry D’Alfonso, alle attrici Valeria Moriconi e Roberta Paladi ni, e all’Accademia di Brera per il concorso scenografico sull’atto uni co pirandelliano. Il palermitano Al do Sarullo ha vinto il premio per l’atto unico inedito. Francesco Callari E D IT R IC E T U S C U L U M s.r.l. VIA PIAVE 4 FRASCATI C O L L A N A T E A T R A L E CONCESSIONARI Piemonte ESCLUSIVI PER LA Torino S'r''' M O D E R N A DISTRIBUZIONE £ ¡¡¡¡2 . z,mplni d ire tta da Ita lo A lig h ie ro Chiusano 1 Lucio De Felici RIUSCIRÀ’ MIA MOGLIE A SPOSARLO? 2 - coADd,tFeTCÌ Italo Alighiero Chiusano o ^ " LA SILVIA DELL’ARCOBALENO (e altri atti unici) Lucio De Felici - Antonio Lo Iacono a ^ ■ UNA SCIARPA LUNGA VENT’ANNI 5 Alberto Perrini " non si dorme a kirkwall 6 Ermanno Carsana DIAPASON (e altri atti unici) 7 ■ ?LmNUD0aE la nuda c . q 8 - FAUST Paolo Levi n legittima difesa a n Pier Benedetto Bertòli lu ■ Luigi Santucci a a L'arca di NOE' . Fortunato Pasqualino IO UN CAVALLO PER SUA MAESTÀ’ IO Siro Angeli IJ ■ ASSURDO MIO FRATELLO IL CILIEGIO Enzo Maurri M I dia,ri ’ " i pesci Padova’ Lombardia Via Hinia fi? MILANO marche Rolando Albertini Via Risorgimento, 33 SAN BENEDETTO DEL TRONTO TOSCANA L.E.S. Via Gioberti, 39 A FIRENZE LAZIO Messaggerie del Libro Via Severo Carmignano, 24 ROMA CAMPANIA DE.RO.MA. s.s.a. Via S. Sebastiano, 72 NAPOLI LIGURIA Ufficio Propaganda Editoriale Via Zolezzi 14 D 1 GENOVA giPIIIA SICILIA O.P.A. Via XX Settembre, 70 PALERMO ^ ' L 'e s p e r ie n z a d i D o n R a ffa e llo L a v a g n a N ? ^ N k X A I r a g a z z i i n t e r p r e t i d e l l o r o t e a t r o ? Proseguiamo il dibattito sul teatro per ragazzi ini ziato nello scorso numero con un’intervista a don Raf faello Lavagna che da anni si occupa di questo settore teatrale e ce ne riferisce con punte polemiche. Il suo spettacolo « Mio fratello negro » si è replicato per tutto il mese di novembre e per metà dicembre al Teatro Bernini di Roma. Prima di tutto vorrei che lei ricordasse per noi la storia del teatro per ragazzi, come è nato, chi ne è stato il fondatore. Ci furono, subito dopo l’ultima guerra, tentativi di organizzare un teatro per ragazzi democratico e pro gressista da contrapporre alle recite fatte da soli uomi ni che si tenevano nelle parrocchie e negli oratori. Gli organizzatori di queste teatro che ebbe breve vita e pochi risultati reali si facevano chiamare « pionieri ». Il primo però, che, almeno nei miei ricordi fece speci ficamente teatro per ragazzi, fu Sergio Tofano con « Le avventure del Signor Bonaventura » tratto dal Corriere dei Piccoli. Eravamo negli anni ’55-’60 e a Milano i cattolici avevano creato un centro teatrale de dicato ai ragazzi, che prese il nome di Angelicum; a Roma, quasi per caso, io mi trovai ad essere l’iniziatore di un gruppo che recitava per i ragazzi. Per quale ragione si è dedicato al teatro per ra gazzi? Come ripeto, a Roma il teatro per ragazzi nacque quasi per sbaglio, inventato da me. Al Ridotto del Tea tro Eliseo si volle organizzare uno spettacolo per la settimana santa, che stesse tra il sacro e il profano. Ci si rivolse a me e nacque così la riduzione teatrale del famosissimo « Marcellino pane e vino ». Gli attori era no nomi di prestigio: Iole Fierro, Carlo Lombardi, Lo ris Gizzi. Lo spettacolo ebbe un grosso successo di pub blico e piacque moltissimo ai bambini. E mi sembra, ora, di aver trovato la formula giusta: un teatro de dicato ai ragazzi, deve avere per protagonista un ra gazzo, nel quale il piccolo pubblico possa identificarsi perché la finzione teatrale assuma per lui gli aspetti della realtà. E questo si rende necessario perché il tea tro per ragazzi deve contenere un messaggio che va recepito nella maniera migliore, un messaggio didasca lico di pace, amore, dedizione, eroismo. <• Pinocchio » di Don Lavagna. Edizione del teatro di Bucarest Che cosa rappresenta adesso il teatro per ragazzi in Italia? Temo che il teatro che si fa oggi, il teatro in gene re, ma in particolare quello per i ragazzi, sia troppo distruttivo, rifletta in senso letterale quello che ac cade fuori del teatro: la catastrofe e la distruzione non sono fatte per insegnare a costruire, ma per de molire, e non vanno rappresentate perché uccidono an che la speranza. Quest’anno al teatro per ragazzi si sono impegnati il Teatro di Roma con « La storia di tutte le storie » di Rodari e « La finta ammalata » di Goldoni, e il Teatro Stabile di Milano con « La storia della bambola abbandonata » da Sastre per la regia di Giorgio Strehler. Va bene. Nulla da eccepire. Ma i bambini si divertono a certi spettacoli? Imparano co sa vuol dire e dove si trova il « meglio »? Ecco, ri peto, secondo me questi spettacoli di oggi sono troppo cervellotici e riflettono le stesse problematiche del tea tro per adulti. Comunque in questo momento di teatro per ragazzi si discute, se ne parla, si cercano delle soluzioni. Sono stati fatti, insomma, parecchi passi avanti. Quali sono le prospettive di questa forma di spettacolo? Purtroppo c’è da fare a questo proposito una con siderazione: gli aiuti finanziari per affrontare un pro blema del genere, in Italia non sono sufficienti. Se si pensa che, nella sola città di Norimberga, ogni anno vengono stanziati per il teatro per ragazzi novecento milioni di lire, e che per tutta la nostra nazione se ne stanziano circa centocinquanta, duecento all’anno, si è tentati di abbandonare il campo. Ma non bisogna dimenticare che si cominciò a realizzare il teatro per bambini nel 1964 con tre milioni di lire in tutto. Mi sembra che tutto sommato non ci si possa lamentare. Quali sono i programmi e le prospettive del suo lavoro per i ragazzi? Di idee adesso ne ho tante, di lavori in cantiere qualcuno. Potrei dire, con una punta di polemica che non so se riuscirò a condurre in porto i miei progetti perché non ho aiuti esterni: non sono attivo in poli tica, la Chiesa, che servo da tanti anni e che dovrebbe aiutarmi, non è sensibilizzata abbastanza al problema. Ma per me il teatro per ragazzi è una missione, e mi auguro di riuscire. a cura di Simona Fasulo Ma così non si rischia di far credere al bambino cose che poi nella realtà non accadono, di rinchiuderlo, per così dire, in una prigione dorata dove la fantasia sembra cedere e diventare realtà? Non è cioè perico loso che il bambino pensi il mondo rosa quando invece fuori, nella vita reale, tutto è diverso? Io sono convinto di una cosa: che il bambino ri fiuta gli spettacoli cervellotici e distruttivi che si por tano in scena oggigiorno. L’uomo tende all’ascesa, non al precipizio. Occorre « indicare » al giovane quale è la strada giusta, e perché il piccolo spettatore impari la lezione, cioè dove sta il bene e dove il male, è ne cessario che si veda « agire » sulla scena, come nella vita, quindi ribadisco l’importanza del bambino pro tagonista, eroe, alter ego del bambino utente. D’altra parte mi sono accorto con piacere e con sgomento allo stesso tempo, della forza terribile che esercita il tea tro sui ragazzi. Questa forma di comunicazione può diventare anche arte, ma deve essere soprattutto « edu cazione » mantenendo il divertimento. Teatro didasca lico, sì, non l’usava anche Brecht? Quale ruolo ha la « partecipazione », nel senso del coinvolgimento attivo del bambino-pubblico, nei suoi lavori? All’inizio devo dire di non aver pensato a far par tecipare attivamente i bambini nei miei spettacoli. Mi bastava dar loro un prodotto « finito », recitato dagli adulti, unico bambino il protagonista; la partecipazione poteva consistere allora nell’entusiasmo del bambino al momento in cui recepiva il messaggio didascalico sotto la forma di un altro se stesso agente in palcoscenico. Ho imparato la nuova accezione della parola parteci pazione lavorando con i rumeni. Nel 1974, infatti, è stata presentata per la prima volta a Bucarest la mia rielaborazione teatrale del « Pinocchio », tutto all’inse gna della partecipazione. Il mio « Pinocchio » era nato con l’intento di stabilire un nuovo ruolo per il burat tino collodiano, quello di personaggio della commedia dell’arte, che già traspare dalla favola originale. Quan do infatti Pinocchio si reca al teatrino di Mangiafuoco per vedere lo spettacolo dei burattini, dal palco, tirati dai fili del burattinaio, Colombina, Arlecchino, Pulci nella e Pantalone, scorgendo Pinocchio tra il pubblico, si meravigliano di vederlo lì e lo chiamano « il nostro fratello di legno ». Nel mio lavoro Pinocchio diventa perciò, per il solo fatto di uscire dalla favola scritta per salire in veste di personaggio teatrale sulle tavole del palcoscenico, una delle maschere della commedia dell’arte. Tornando alla partecipazione, nel « Pinoc chio » che è stato realizzato in Romania, il pubblico è coinvolto realmente: deve inseguire Pinocchio fug gitivo, punirlo o premiarlo, deve dare il giudizio fi nale sulla sua sorte, deve, in una parola, animare lo spettacolo. dal 23 dicembre al 7 gennaio repliche di spettacoli presen tati da quattro compagnie italiane: I Colombaioni, il Gruppo Fontemaggiore di Perugia, la compagnia per il teatro per ragazzi del Teatro di Roma, la cooperativa MTM mimo tea tro movimento. Tutti e quattro gli spettacoli presentati sotto la tenda ragazzi erano per bambini e per adulti. Si voleva che le famiglie trascorressero insieme, e in teatro, le feste. L'iniziativa è stata favorita dagli Assessorati alla cultura e alle scuole del Comune di Roma e rientrava nel le manifestazioni dell’Anno Internazionale del Bambino 1979 (su promozione del Comitato dell'UNICEF romano). il teatro » con un Il programma del Teatro Stabile di Torino per il set tore Teatro Ragazzi si sviluppa in tre direzioni: da novem bre a febbraio con « A che teatro giochiamo » con com pagnie operanti a Torino; da novembre a maggio « Educa zione attraverso laboratorio teorico pratico gestito da 50 insegnanti e 16 esperti; da marzo ad aprile «Rassegna internazionale del teatro per ragazzi ». La prima parte prevede l'allestimento da parte dello Sta bile de « La guerra » di Carlo Goldoni, con la regia di Mis- siroli e Liberovici; « Lo spaventapasseri » di Antonio Cata lano mimo, su soggetto e regia di Luciano Nattino del Teatro del Mago Povero di Asti; il Gruppo Teatro idea metterà in scena « La madre » di Brecht; l'Assemblea Teatro « Meiofiaba-3 volte è un incantesimo » di Cassani, Perissinotto, Ronchetta, Vigliani; la Cooperativa La Svolta « Papà Ubu » di Jarry; la Cooperativa del Bagatto « Naso d’argento » e « Il gobbo Tabagnino »; il Teatro U un adat tamento di Piero Ferrerò sulla farsa del Maistre Pathelin del 1486: « La farsa dell'avvocato »; il Teatro dell'Angolo « La festa dentro la testa n. 2 »; La Cooperativa Tosco-Cor- betta-Paquero il « Medico suo malgrado » di Molière. Per la scuola materna: Livio Viano e il Teatro dei Piccoli pre senteranno « Pulci, pulcini e Pulcinella »; la compagnia Bergamasco-Alasjarvi « Le avventure di Primina » e il Tea tro dell'Angolo « Il gioco dell’immagine ». L'assegnazione dei contributi ai complessi che svolgono attività di teatro ragazzi è stata esaminata dal Direttivo dell'ASTRA nel corso di una riunione svoltasi alla fine dell’anno scorso, sotto la presidenza di Tinin Mantegazza. Il Direttivo, informato delle iniziative assunte a seguito della riunione del 15 dicembre, tenuta dalle presidenze delle Associazioni teatrali aderenti all’AGIS, ha pienamente con diviso le motivazioni e gli interventi che ne sono seguiti per confermare la richiesta unitaria del teatro professio nale, per una legge organica sul teatro di prosa e per la sollecita definizione del provvedimento finanziario per gli esercizi 1978-79. Positiva valutazione è stata espressa sul comune orientamento di intervenire in ogni competente sede, affinché l’applicazione della legge di riforma del- l’E.T.I. consenta all’Ente di operare tempestivamente. Sono pronti i ragazzi per il gioco del teatro? L'espe rienza dell animazione nelle scuole, la promozione di spet tacoli a loro dedicati ha sensibilizzato il pubblico degli adulti (genitori, insegnanti, operatori sociali e culturali) verso un apertura al « nuovo » teatrale. Prova ne siano le iniziative per un pubblico finora considerato di seconda classe come quello dei bambini. A Roma, per esempio, con la promozione del Teatro Stabile, al Teatro Scuola Tenda Ragazzi di villa Lais, per le festività di dicembre è stato organizzato il « Natale Ragazzi con noi » che prevedeva Il gruppo Fontemaggiore di Perugia con il regista Roman Ukleja « Spaccatutto » è il titolo dello spettacolo di burattini che il Gruppo di Sperimentazione Fontemaggiore di Peru gia ha presentato a villa Lais, di Roma. Il gruppo lavora da qualche anno al teatro per i ragazzi, e per questo spet tacolo si è avvalso della collaborazione del regista polacco Roman Ukleja, che si occupa da più di venti anni preva lentemente di teatro dedicato ai bambini e dell'animazione di marionette e burattini. Ukleja è giunto a partecipare a questo gruppo di animazione dopo importanti esperienze nel campo della scenografia che ha studiato a Roma prima, poi a Varsavia sotto la direzione del maestro Szancer. È stato infatti il primo scenografo del settore spettacoli per bambini alla televisione polacca. Da tre anni collabora con II teatro londinese d’avanguardia « Theatre Kit », diret to da Spejer. Il programma che Ukleja Intende realizzare assieme al Gruppo di Perugia, è la creazione di un teatro stabile umbro di burattini. « Spaccatutto » è tratto da una commedia di Carlo Brlzzolara « La Minghina bastonata », scritta per il teatro dei burattini. La vivacità delle scene e dei dialoghi, (tutti i personaggi sono caratterizzati da un dialetto o da una cadenza particolare) è pari alla bravura dei burattinai. Ap plausi e risa tra il pubblico dei bambini. LA FINTA AMMALATA di Carlo Goldoni Regia: Angelo Corti Interpreti: Sebastiano Tringali, Ro samaria Tavolucci, Liliana Paga- nini, Salvo Spampinato, Bruno Zeni, Giuliano Santi, Paolo Ma ria Scalondro, Sergio Castellito, Ennio Coltorti, Giorgia Trasselli. Scene e Costumi: Bruno Garofalo Musiche: Fiorenzo Carpi <• La finta ammalata » fu scritta da Carlo Goldoni per la Signora di Medebac, « un'attrice eccellente, zelantissima della sua professione, ma che andava soggetta a vapori Ipocondriaci. Spesso era ammalata, spesso credeva dì esserlo, e qual che volta si trattava di vapori im maginari. In quest'ultimo caso ba stava ventilar la proposta di affi dare una bella parte a un'attrice secondaria, perché la malata gua- specialmente alcuni, (lo speziale sordo e imbroglione, vestito da Teatro di Roma l'ha rappresentata per bambini e per adulti sotto la tenda ragazzi di villa Lais. I personaggi che saltellano per la scena accompagnati, anzi rit mati da una musica allegra e scan zonata, che sta a pennello ad ognu no di loro, sono i tipici goldonia ni: medici ciarlatani e ignoranti; un padre avaro ma amante della fi glia fino a spogliarsi di ogni be ne... o quasi; una figlia innamora ta e ammalata... cioè, finta amma lata e un medico onesto che presto convolerà a giuste nozze con lei. La trovata sta nella scena che con siste in una serie di arazzi girevoli che gli attori stessi muovono negli intermezzi di « realtà », uscendo cioè a tratti dalla finzione recitati va, sempre a ritmo di musica. Le note di regia ci avvisano che que sto spettacolo è nato dopo un la- Liliana Paganini e Bruno Zeni ne >• La finta ammalata » di Carlo Goldoni voro fatto con gli attori principal mente su tre punti: il corpo, la maschera, il clown. E gli attori, risse all'istante ». Così ricorda egli stesso nelle sue «< Memorie ». Il clown fino alla punta delle enormi scarpe, il medico ciarlatano e quel lo ignorante), si giovano del movi mento del proprio corpo, cosi co me della propria voce, per anima re ritmicamente, quasi a passo di danza, il testo goldoniano. Ma veniavo alle maschere. Così come nella « Storia di tutte le sto rie » di Gianni Rodari, l'altro spet tacolo presentato dal Teatro di Roma, anche qui viene utilizzata la maschera, e questa volta senza no me. Non sono cioè, questa volta, le maschere della commedia del l’arte a recitare, assieme ai perso naggi di Goldoni. In questo caso la maschera, adottata solo da alcuni personaggi, da quelli che non pos sono mostrare la loro faccia, per che in una maniera o in un’altra non sono troppo <■ positivi » (il pa dre della finta ammalata, i due me dici imbroglioni e ignoranti, il chi rurgo assetato di sangue e di ric chezze), fa il gioco del corpo. Un volto mascherato non può esprime re tutti i sentimenti, supplirà a que sta mancanza un corpo sempre in movimento, gesticolante, un corpo vivo. E questo ai bambini piace: è dare più spazio allo sguardo, do nare, al di là della parola, l’inte- grezza del momento visivo. Così come giova ai personaggi, carica ture giocose nei costumi multico lori. Ai bambini (e ai grandi) questo spettacolo è piaciuto, nonostante mancasse la loro partecipazione at tiva, nonostante fosse dato loro, questa volta, un prodotto finito, da guardare, studiare, tutto da ridere, da applaudire. S. F. A l l a r i c e r c a d e l t e a t r o d e l l ' a s s u r d o N Ò . La matematica teorica distingue abbastanza net tamente le caratteristiche dei due campi astratti che essa contiene. Sto parlando dell’Infinito positivo e di quello negativo. Nel primo troviamo tutti i valori po sitivi appunto, nel secondo naturalmente abbiamo quelli negativi. Assai poco paradossalmente questa distinzione può essere trasportata anche alla più banale filoso fia umana. Da una parte l’infinito positivo, dall’altra l'infinito negativo. La letteratura poi da sempre si è voluta fare specchio di questa distinzione. All'esalta zione positiva dell'uomo si contrappone l’esaltazione negativa. Nel teatro molti si sono adoperati per dibattere questi due aspetti. Nel novecento, diciamo da Piran dello in poi — ma si potrebbe andare indietro fino a Ibsen — c'è stata però la tendenza abbastanza netta a sottolineare e discutere soprattutto dell’» in finito negativo », partendo dalla profonda crisi che ha avvolto l'uomo tra il diciannovesimo e il ventesi mo secolo. Indiscutibile è stata poi la capacità per esempio di Pirandello appunto e O’Neill — per fare due nomi abbastanza lontani tra loro — che meglio di altri seppero costruire intrighi teatrali che si immetteva no pertinentemente nel costume umano e sociale di allora. Fatti teatrali insomma capaci di approfondire, soprattutto a livello pseudo-filosofico, la coscienza di crisi che in quei tempi — come oggi — regnava. Più tardi però alcuni ingegnosi scrittori di teatro cercarono di andare ancora più in là. L’infinito nega tivo anziché essere discusso sulla scena, doveva es sere rappresentato. Doveva essere espresso e esa sperato In chiave rigorosamente scenica e teatrale. Coloro che proponevano — facendosene porta voce — queste nuove idee sul teatro, sono stati chia inventori mati drammaturghi dell'assurdo, fautori e del teatro dell'assurdo. Eravamo all’alba degli anni cinquanta quando in alcuni piccoli teatri parigini venivano rappresentate per la prima volta La cantatrice chauve di lonesco e En attendant Godot di Beckett. Le reazioni erano as sai poco omogenee, i più comunque condannavano questo teatro che esasperava l’elemento dialettico fino a farlo diventare irrazionale e assurdo. Beckett e lonesco (poi anche Adamov, Genet, Pinter e altri) portavano sulla scena una situazione assurda, appa- irrazionale e la componente assurda, rentemente senza senso. Nelle loro commedie non c'è niente di cui si discute, solo una situazione-tipo di vita quotidiana esasperata, che mostra quanto sia alta inumana che caratterizza i nostri giorni. Non c'è prologo né conclusione né soluzione. Solo una rappresentazione nel senso più esteso del termine; la rappresentazio ne di una realtà tragica, che vuole creare una rottu ra neH’abitudinaria accettazione dell’uomo appunto della tragicità crescente della propria vita. Tutto sulla scena è apparentemente assurdo, ma la giusta chiave di lettura di questi drammi è in una visione il più possibile realistica di ciò che accade Gianna Piaz in « Giorni felici » di Beckett sotto la luce dei riflettori, andando a scovare nei personaggi la materializzazione completa di alcune immagini fantastiche o, in altri casi, il prendere cor po diretto degli incubi degli stessi personaggi e del l'autore. Insomma questo teatro ci mostra la realtà in ogni suo aspetto, quello tangibile e quello astratto. Il punto di partenza è ovviamente provocatorio. La reazione che questi spettacoli così « anomali » vogliono far scaturire nello spettatore deve essere completa, solo in tale modo la posizione di questo di fronte alla pseudo-vicenda sarà completamente cri tica. Non ci sono il personaggio buono e quello cat tivo in cui identificarsi, solo una strana realtà da cui si è assaliti; così tali rappresentazioni possono pro vocare un complesso rivolgimento meditativo. Più la vicenda è apparentemente oscura, più lo spettatore si sforza di capire quale sia il « messaggio » delta commedia. E il messaggio consiste in una profonda denuncia sociale, del sociale anzi, poiché l'autore vuole indirizzare l'attenzione del pubblico a una com pleta presa di coscienza delia situazione umana che sta vivendo. In Italia però questo teatro non ebbe grosso se guito. Poche compagnie misero in scena questi lavo ri. Solo la RAI, soprattutto ultimamente, ha mostrato un continuo interesse verso l'esperienza del teatro dell’assurdo. Due anni fa è stato rappresentato II Guardiano di Harold Pinter, nella scorsa stagione Amedeo o come sbarazzarsene di Eugene lonesco. Quest’anno c'è in programma, verso la fine' di mar zo, la messa in scena di due interessanti commedie dell'assurdo quasi mai rappresentate in Italia, Gior ni felici di Samuel Beckett e Festa di compleanno di Harold Pinter (sebbene non tutta l'opera di Pinter sla da analizzare completamente nel « teatro dell'as surdo »). Il primo con la regia di Nino Mangano e l'interpretazione di Gianna Piaz, il secondo nell'edi zione originale della televisione inglese, doppiata in italiano. Alla RAI quindi va il merito di aver voluto rende re « popolare » tale singolare esperienza teatrale, e questi due nuovi testimoniano ancora di più.la volontà informativa dei responsabili della RAI. Speriamo dunque che sia sempre maggiore il pub blico che vorrà seguire questi importanti appunta menti. impegni Nicola Fano / <0 / / $ I V con Nicoletta Languasco, Maria Oc chini, Gabriele Lavia per la regìa di Orazio Costa; Esuli di James Joyce con Raul Grassilli, Lucilla Morlac- chi, Osvaldo Ruggeri, Lucia Catullo per la regìa di Mario Ferrerò; Ana stasia di Marcella Maurette con Al berto Lionello, Olga Villi, Franco Scandurra per la regìa di Anton Giu lio Majano; Dopo Lidia di Terence Rattigan con Lilla Brignone, Raul Grassilli, Ivo Garrani per la regìa di Mario Ferrerò. Marco Tesei Per i mesi di febbraio e marzo radiodue ha previsto sette repliche di altrettanti adattamenti radiofonici di testi teatrali già andati in onda in passato. Il giovedì alle ore ventuno sarà, quindi, dedicato al riascolto di al cuni radiodrammi che, per il loro indubbio interesse culturale, meri tano una segnalazione particolare. Nel mese di febbraio sono previ sti: La mela felice di Jack Pulman con Paola Quattrini, Eros Pagai, An tonio Casagrande per la regìa di Flaminio Bollini; Mariana Pineda di Garcia Lorca con Anna Miserocchi, Laura Carli, Elena Cotta, Aroldo Tie- ri, Giancarlo Sbragia per la regìa di Giorgio Bandini; La bilancia di Sil vio Benco con Ugo Maria Morosi, Claudio Puglisi, Lida Ferro, Ileana Ghione per la regìa di Paolo Giu- ranna. Nel mese di marzo invece saran no trasmessi: Oreste di Euripide Lilla Brignone L A T R I L O G I A C O N Q U I S T A P A R I G I in piedi. Scriverà poi Al termine della rappresentazione de « La trilogia della villeggiatura » di Goldoni, il pubblico del vec chio teatro Odeon sembrava non voler più smettere di applaudire e quando in scena, tra gli attori che ringraziavano, è entrato lui, Giorgio Strehler, il regi sta, gli applausi sono raddoppiati e il pubblico si è alzato il settimanale « Le point » : « È stato il trionfo della regia » e gli farà eco da Milano l’inviato de « Il Corriere della sera »: « Parigi in pugno a Strehler », Successo senza riserve, dunque, innanzitutto per il regista italiano, che in questo medesimo teatro aveva portato negli ultimi tre anni spettacoli di rilie vo come « Il giardino dei ciliegi », « Il Campiello », « Re Lear », con la compagnia del Piccolo di Milano e che, più recentemente, aveva colto un altro si gnificativo successo con il « Simon Boccanegra » a l'Opera. Ma in quell'applauso c’era certamente anche la sorpresa della scoperta (o riscoperta, se volete) di Carlo Goldoni. Goldoni all’estero, e anche in Francia dove pure visse per 15 anni, vuol dire Arlecchino; il suo teatro è ricordato soprattutto attraverso quella grandissima maschera del « servitore di due padro ni ». La trilogia apre altri orizzonti, altri temi: è co me un affresco fuori del tempo (e quindi anche del nostro tempo) delle umane vanità, » una satira dice Strehler — delle vacanze viste non già come sano riposo, bensì come gara di lussi e di sprechi; un grande ritratto di un mondo in decadenza ». Sul palcoscenico del Piccolo « La trilogia » (Le smanie per la villeggiatura », « Le avventure della villeggiatura » e « Il ritorno dalla villeggiatura » rac colte in un unico spettacolo) era nata nel 1954. Ven Canni dopo fu messa in scena al Burgtheater di Vien na; adesso grandeggia a Parigi per opera degli atto ri de « La Comedie française ». La prima delle tre commedie, la più rappresentata, costituisce il mo mento di brio, effervescente e pieno di colpi di sce na; la seconda, il momento della pausa, in cui la vil leggiatura si presenta com’è (e non come era stata sognata) piena di cose futili, di richiami, di incer tezze amorose, ma anche di inevitabile noia; la ter za, il ritorno alla realtà quotidiana, dove finisce per vincere il buonsenso che fa sfumare tutto in ricordi. « Diventa così “ la trilogia” scrive De Monticelli — metafora della vita con le sue stagioni, e al centro c’è un’estate il cui riverbero, nella memoria, finirà in una sottile linea di madreperla all'orizzonte ». Nell’accoglienza entusiasta del pubblico c’era, in fine, un riconoscimento per lo spettacolo in sé, frut to di un’alta professionalità, in primo luogo degli at tori de « La Comedie »: Pierre Dux, il padre di Gia cinta, simpatico vecchio frastornato nella sua tran quillità dai capricci e dalle ansie delle donne della sua famiglia; Claude Giraud, Leonardo il futuro ma rito di Giacinta, violento e debole nello stesso tem po; François Beaulieu, sfortunato rivale di Leonardo, controllato e schivo; Ludmila Mikael, Giacinta (ruolo che fu a Milano di Valentina Fortunato) il personag gio più complesso e più vivo, che passa dall entusia smo sfrenato alla malinconia dei ricordi; e poi Ca therine Salviat, Jacques Sereys, Denise Gence, per citare solo i più importanti. La scenografia dello spettacolo è di Ezio Frige- rio, le musiche sono di Fiorenzo Carpi: questi ap italiani di grande rilievo, oltre alla regia di porti Strehler, hanno fatto parlare di « teatro europeo », ed è certo che mai integrazione di contributi artistici aveva raggiunto sulla scena tale livello in una ope razione teatrale così articolata e ampia. Un'ultima nota: nel foyer del teatro Odeon è stata approntata una mostra di vecchie stampe, che ri percorre il cammino dei « comici » italiani in terra di Francia, dal lontano Cinquecento fino alla Duse e, appunto, a Strehler. B, S. Alcune scene de « La trilogia della villeggiatura » (foto Roger- Viollet) La foto nel titolo è di François Demoures L ’ « O F F B R O A D W A Y » G O D E B U O N A S A L U T E % \ ( e B r o a d w a y n e g i o i s c e ) Ed eccoci all'anno nuovo, e quindi nel pieno della stagione teatrale 78-79. Dopo mesi di sciopero, sono anche ritornati i grandi quotidiani con i loro paginoni di pubblicità, e la macchina del teatro di New York ha ricominciato a muoversi con la consueta efficien za, macinando testi vecchi e nuovi, premiando i for tunati con incassi da capogiro e scartando i deboli con quella crudeltà che è possibile solo in un siste ma così brutalmente commerciale. Si può già tenta re, quindi, di tracciare un breve panorama di quello che è successo e, anche, di quello che doveva suc cedere e non è successo. E, tanto per cambiare, parliamo prima dell’« off Broadway » (un panorama di Broadway, dove gli spet tacoli durano mesi e anni, avremo tempo di farlo più avanti), e cioè di quei vastissimo mondo teatrale sparso per tutta la città (ma specialmente concentra to in certi quartieri come il Greenwich Village), in piccoli teatri una volta tutti d'avanguardia e adesso in parte anche dedicati a testi tradizionali. Un mon do che si oppone in tutti i sensi, anche proprio co me teatro, all’opulenza di Broadway (quella trentina di teatri cioè che stanno nella zona intorno a Broadway tra la 40a e la 50a strada), ma che di Broadway costituisce anche, in qualche modo, l’anticipazione. E non solo nel senso che i migliori spettacoli dell'« off Broadway » vengono spesso por tati trionfalmente a Broadway, ma anche e soprat tutto nel senso eh . è nella fucina dell’» off Broad way », con le sue limitate esigenze economiche e i minori pericoli di esporsi a fiaschi disastrosi, che si formano attori, autori, registi e spesso coreografi che poi trionferanno a Broadway, che » faranno » Broadway. Senza la flessibilità del- |'«off Broadway », anzi, non sarebbe probabilmente neppure concepibile il « fenomeno » Broadway, con le sue esigenze strettissime di professionalità, ma anche con le sue necessità di avere una riserva si cura in cui pescare continuamente nuovi talenti per rinnovarsi. Flessibilità, coraggio, budget ridottissimi, diceva mo, sono le caratteristiche prime dell’« off Broad way ». Ma proprio su questi concetti c'è stato recen il coraggio e filosofia del i togliessero cioè anche temente uno scontro fra i sindacati degli attori e gli impresari, che ha quasi bloccato l’intera macchina, scontro per ora sospeso ma non risolto. Vorrebbero i sindacati delle garanzie precise di certi minimi sa lariali e rimborsi spese agli attori anche per le pro duzioni più povere; vorrebbero gli impresari, guidati anche in questa battaglia da Joseph Papp, assoluta libertà, che si limiti già da tempo acquisiti: se lo spettacolo va bene e chia ma pubblico — dicono — ci sarà qualcosa da sparti re, ma senza delle garanzie minime precise. Solo così — ed è sostanzialmente vero — l’impresario può rischiare di mettere in scena lavori difficili e di rottura, solo così quel poco budget a disposizione (si pensi che negli Stati Uniti quasi non esiste il concetto di teatro sovvenzionato dallo Stato) può an dare tutto alla produzione. Per il momento l'« off Broadway » va avanti, ma certamente le minacce di un irrigidimento sindacale sono serie e gravide di brutte conseguenze. E in realtà anche le regole già acquisite da tempo sono limitanti e dannose (non c’è dubbio che sono state imposte giustamente per frenare certi impresari sen za scrupoli sfruttatori di attori affamati, ma oggi provocano delle conseguenze aberranti). La base di queste regole è che se l’opera resta in cartellone più di 14 giorni, l’impresario deve pagare agli attori i minimi saliariali sindacali, a prescindere dalle en trate del botteghino (nei primi 14 giorni deve solo suddividere fra gli attori una percentuale delle en trate effettive). Le conseguenze sono estremamente dannose non per gli spettacoli cattivi — che è giusto spariscano dalla scena ■—, né per quegli spettacoli di successo istantaneo — che dopo 14 giorni sono già in grado di pagare buoni stipendi —, ma per quegli spettacoli buoni (che in questo tipo di teatro sono i più) che stentano, per il loro contenuto ar duo o per la dislocazione « fuori mano » della sala, a raggiungere il grosso pubblico, quello che porta in alto gli incassi. Si dà cioè il caso, frequente pur troppo, di spettacoli che, se potessero restare in car tellone a lungo, di certo sarebbero in grado, date le critiche positive dei giornali, di costruirsi un pub- blico vasto e un successo duraturo, ma che al quin dicesimo giorno devono chiudere perché l'impresario non se la sente di obbligarsi al pagamento di salari del tutto sproporzionati agli incassi del momento. Chi ha a cuore le sorti del teatro si augura che i sindacati non si irrigidiscano, ma che anzi rivedano pur con delle garanzie contro le speculazioni degli impresari, le regole già esistenti. Una completa libe ralizzazione del settore porterebbe di certo a un gran de rilancio dell'« off Broadway », di cui i primi a go dere sarebbero proprio gli attori. Il contrario porte rebbe a un soffocamento di questo mondo, che coin volgerebbe, a gioco lungo, tutto il teatro di New York, così strettamente interdipendente nei suoi vari set tori. « QUALCOSA DA BERE PRIMA DI CENA >» Ma ritorniamo all'attuale stagione. L'opera che sembrava avere tutte le carte in regola per diven tare un grande successo, è invece rimasta in cartel lone pochi giorni, poi è silenziosamente sparita: ci riferiamo a » Drinks before Dinner » (« Qualcosa da bere prima di cena ■>). Scritta da un « grande » come E. L. Doctorow (grande — è vero — per i suoi ro manzi, ma ci si aspettava qualcosa all'altezza delle sue cose migliori), diretta da un altro grande come Mike Nichols, con un grande attore come Crlstopher Plummer, è invece stato un fiasco, e il motivo è pro prio nella debolezza del testo. (Ed è una conferma, non solo che nel campo dello spettacolo è difficilis simo far previsioni, ma anche del fatto che un gran de scrittore di romanzi non è, per ciò stesso, un grande autore teatrale). La storia è semplice: durante un « party » tra gen te ricca e importante dell'alta borghesia di New York, il padrone di casa prima parla a lungo della sua visione pessimistica del mondo, poi estrae una Richard Hamilton in « Buried Child » pistola, lega a una sedia l’ospite d'onore (si capisce che è il ministro degli esteri), e costringe tutti i pre senti ad una lunga, agonica sessione sulla fine del mondo. È che purtroppo quello che dicono i perso naggi, e soprattutto il personaggio principale, non solo è stato detto molte volte prima, ma è stato detto anche molto meglio. La critica e il pubblico non si sono lasciati ingannare dal rispetto verso i grandi nomi e hanno decisamente bocciato l'opera. In cartellone da qualche settimana con buon suc cesso è invece « Buried ChiId » (« Il bambino sot terrato »), una nuova opera di Sam Sheppard, auto re americano che era la grande speranza degli anni sessanta, ma che non ha mai completamente « de collato » (secondo gli standards americani, vogliamo dire, che vorrebbero che un autore affermato abbia a disposizione produzioni grandi e ricche. Sheppard continua invece a rappresentare « off Broadway », con mezzi limitati, e probabilmente per sua scelta. Ma il pubblico e la critica lo seguono con favore). « Buried Child », che risente molto l'influsso di Pinter, è la storia di una famiglia di agricoltori, la cui vita si svolge cupa sotto l'egida del nonno pa triarca (Interpretato splendidamente da Richard Ha milton). Il ritorno di un nipote spezza tutte le regole e porta alla scoperta del cadavere di un bambino, annegato e sotterrato molti anni prima dal nonno per nascondere il frutto dell'incesto della moglie con il figlio più grande. La famiglia comincerà così ad espiare quell'antica colpa, mentre sarà adesso il ni pote a prendere il posto di capo della casa. « LE FIGLIE DELL’OGGETTO MISTERIOSO » La « Negro Ensemble Company », una compagnia negra che ha come base un teatrino dell'East Vi 1- lage e che, tra alterne vicende e sforzi non sempre riusciti, è arrivata alla sua dodicesima stagione, ha già messo in scena due spettacoli, « Nevis Mountain Dew » (è il nome di un rum) e « The Daughters of thè Mock » (>< Le figlie dell'oggetto misterioso »). La prima è una nuova opera di Steve Carter, un autore di grande talento che qui esplora (come aveva già fatto alcuni anni fa con « Eden ») le relazioni dei membri di una famiglia benestante di negri dei Ca ratai trapiantati a New York: il marito, colto e auto ritario, ma invalido e obbligato a vivere dentro un polmone d'acciaio (il cui rumore ritmico e angoscian te accompagna tutte le sfumature del testo); la mo glie che lo adora e due sue sorelle che hanno su bordinato le loro vite a quella di lui. Lo studio dei personaggi avviene attraverso loro reazioni di fronte alle preghiere delLuomo di staccare la mac china e mettere così fine alla sua agonia. È un'opera profonda, toccante, ricca di calore umano e anche di umorismo, in cui lo spettatore entra nei perso naggi come raramente succede a teatro, e in cui si sente l’attenzione e diremmo l'affetto che il regista ha posto nello studio dei singoli caratteri. Gli attori fanno parte del gruppo originale dei fondatori della compagnia, il che significa che sono tra i migliori del teatro di New York in assoluto; e infatti sono di una bravura eccezionale, affiatati e in pieno possesso del materiale su cui lavorano. Per i motivi sindacali che dicevamo prima, questo spettacolo, che poteva di ventare *un sicuro successo, è stato in cartellone due le in scena proprio Al « Theatre Four » andrà sole settimane, nonostante le recensioni incondizio natamente favorevoli di tutti i critici che sono andati a vederlo. Il secondo spettacolo in cartellone dopo l’entu siasmo suscitato dal primo, è stato purtroppo una vera delusione. « The Mock » rappresenta il potere magico che un’anziana negra esercita su altre quat tro donne, e tutto lo spettacolo è pieno di simboli e riferimenti a religioni e riti africani e caraibici. Ma dentro in realtà non c'è niente, e gli attori, da come recitano, sembrano i primi a rendersene conto. È un peccato che una compagnia di questo valore si perda su un testo così vuoto, ma qui le regole dell'" off Broadway » aiutano: tra qualche giorno non sarà più in scena e speriamo che il prossimo spettacolo sia all’altezza delle possibilità della compagnia. in questi giorni, dopo il successo registrato in Canada, una ripresa del « Diario di Anna Frank », interpretato da una famiglia di attori, Eli Wallach con moglie e due figlie, legati nella realtà dagli stessi rapporti di parentela che avranno sul palcoscenico. L'attendiamo con grande interesse e ne parleremo presto. Il « New York Shakespeare Festival » di Joseph Papp, l'istituzione più poderosa e attiva de11’« off Broadway » (e che così spesso ha portato a Broad way dei successi clamorosi), metterà in scena la prossima settimana, in una delle sale del « Public Theatre », » Les parapluis de Cherbourg » in una nuova traduzione. E il nome del regista, Andrei Ser- ban, l'inventiva e la genialità che sempre ci sono nei suoi lavori, dovrebbero essere garanzia di uno spettacolo stimolante. Anche di questo parleremo presto. Sempre nell'ambito del « New York Shakespeare Festival », ma recentemente spostato dal « Public Theatre » a un'altra sala dell’- off Broadway », con tinuano con successo le rappresentazioni di « l'm getting my act together and taking it on thè road » {« Metto a posto la mia parte e la porto in giro in tournée ») mentre proseguono le prove del nuovo mu sical che Elizabeth Swados (l'acclamatissima autrice di <• Runaways ») ha tratto da « Alice nel paese delle meraviglie ». Lo spettacolo doveva aprire tra poco, ma su suggerimento di Joseph Papp la Swados sta rivedendo i testi. Nel frattempo, per tastare il polso del pubblico, le musiche sono state presentate in forma di concerto nei giorni scorsi. In prova al <> Public Theatre » anche un « Conola no » e un « Giulio Cesare » di Shakespeare, che il regista Michael Langham metterà in scena con una compagnia appena formata, il « Black and Hispanic Shakespearean Ensemble ». « AVVICINANDOSI A ZERO » Al « Caie La Marna » è in scena da più di un mese « Approaching Zero » (« Avvicinandosi a ze ro »), che Thom Thomas ha tratto dalla trilogia «Gas» di Georg Kaiser. Il grande autore tedesco, a cui pur devono così tanto non solo il suo conterraneo Brecht, ma anche autori americani del calibro di O’Neill e Elmer Rice, è pochissimo conosciuto e rappresentato negli Stati Uniti, e dobbiamo quindi essere grati alla compagnia « Direct Theatre » (e al « Cafe La Marna » che li ha ospitati) per questa iniziativa. Ma dobbia- T. A. Taylor, Richard M. Davidson e Janet Maylie in « Approach- inq Zero » mo anche dire che la riduzione non ci è sembrata neppur lontanamente all'altezza del testo originale. « Gas », se dato per intero, dura nove ore, ed è ca rico di simboli di ogni tipo, la decadenza della socie tà corrotta dal capitalismo, l'ecologia minacciata dal- l’inquinamento del gas, l'egoismo e la cecità dei la voratori sfruttati dal padrone e più preoccupati dello stipendio che della loro salute messa a repentaglio da lavorazioni pericolose. Nella riduzione di Thom Thomas (1 ora e 45 minuti), tutti questi simboli di ventano troppo densi e scoperti, lo svolgimento del la vicenda deve ricorrere a un narratore, e certi ar tifici di tipo cinematografico non funzionano. La com pagnia, invece, è eccellente. Arrivata alla sua quinta stagione consecutiva, si è andata affermando, con successi come il « Modigliani » dell’anno scorso, co me una delle più vitali de11’« off Broadway », anche se non ha ancora trovato un teatro dove mettere la sua sede stabile. E in « Approaching Zero » attori e regista sono come sempre ammirevoli (il regista è Alien R. Belknap, che è anche il direttore artistico della compagnia), ma per quanti sforzi facciano non possono superare certe evidenti deficienze del te sto. Resta però uno spettacolo da vedere, per lo meno come omaggio al grande Kaiser. Dare un panorama veramente completo dell'« off Broadway » è probabilmente impossibile, ma credia mo di aver indicato le compagnie, i teatri e i titoli più significativi. Una menzione a parte meritano pe rò per lo meno due titoli, che sono ormai diventati due classici dell'» off Broadway »: il divertentissimo « The passion of Dracula » (al terzo anno) e l'impe rituro « The Fantasticks » che, con i suoi 19 anni di rappresentazioni, continua ad essere il record del teatro americano. E infine una menzione a qualche titolo che do vrebbe essere di prossima apertura e di un certo in teresse: « Grand Magic », di De Filippo, nell'interpre tazione di Tony Musante; « Dancing in thè dark », un musical dedicato al compositore Arthur Schwartz; e « Beethoven/Karl », dedicato al rapporto tra Beetho ven e il nipote Karl durante la composizione della « Nona » (gli ultimi due prodotti dal Manhattan Thea tre Club, un ente completamente decentrato rispetto al resto dell'» off Broadway », ma che sta diventando uno dei teatri più attivi di New York). Umberto Bonetti % % ACCADEMIA NAZIONALE DI SANTA CECILIA. AUDITORIO DI VIA DELLA CONCILIAZIONE: CONCER TO DIRETTO DA WOLFGANG SA- WALLISCH (MUSICHE DI ROBERT SCHUMANN). ROMA — L'attuale stagione sin fonica dell'Accademia di Santa Ce cilia dedica quattro concerti mono grafici a Robert Schumann. Il primo, diretto da Wolfgang Sawallisch, lo si è potuto ascoltare il 22 e 23 di cembre e aveva in programma la 2a Sinfonia in do maggiore op. 61 e la Messa per soli, coro e orchestra op. 147. Sawallisch torna a Roma il 4 marzo per dirigere la 4a Sinfonia in re minore op. 120 e il Requiem op. 148, e il 10 giugno le Scene dal « Faust » di Goethe. Il 6 maggio, con la partecipazione di Carmelo Bene, che ha elaborato per l’occasione la parte drammatica del testo, si a- scolteranno le musiche di scena per il Manfred di Byron dirette da Piero Bellugi. Tranne le due sinfonie, dunque, l'attenzione è rivolta all’ultima pro duzione sinfonico-corale di Schu mann. La proposta è interessante, e chi sa che a qualche teatro non ven ga in mente di cavare fuori dal qua si oblio l’unico melodramma com posto da Schumann, la Genoveva. Cadrebbero, finalmente, molti pre giudizi suH'improponibilità teatrale della Genoveva. intanto, con il ciclo di concerti ceciliani, anche le orec chie più difficili dovrebbero arren dersi all’evidenza di un pensiero musicale come quello schumannia- no che, anche quando sembra fuori strada, propone sempre soluzioni interessanti e nuove. E' infatti opi- nione diffusa che la tarda produzio ne di Schumann soffrirebbe di un inaridimento dell’ispirazione e di una ossessiva preoccupazione di simmetrie formali. Ciò è vero solo in minima parte. Il fatto è che Schu mann si pone problemi nuovi, diver si, da quelli esplorati nei pezzi pia nistici e nei Lieder. La sinfonia, do po Beethoven, e l’opera, dopo We ber, non potevano più essere strut turate in maniera classica. Schu mann sentiva però l’esigenza di un principio strutturale che desse uni tà alla composizione. Cadute le for me classiche, bisognava inventare nuovi principi formali. Bisognava, cioè, reinventare non gli schemi formali dei classici (Haydn, Mozart e Beethoven), ma la loro fedeltà all'unità strutturale dell'opera. Ecco allora che Schu mann innerva il discorso di ogni opera su una cellula armonica-me lodica che funziona da germe gene ratore di tutta la composizione. In tal modo persegue intendimenti non diversi da quelli classici, ma li at teggia in senso romantico: la strut tura non nasce più da una oggettiva capacità costruttiva della forma, bensì dalla forma che il materiale stesso della composizione impone al musicista. La soggettività della forma romantica non è perciò la soggettività psicologica dell'artista, ma l'irripetibilità strutturale della opera: ogni opera inventa e brucia insieme la propria struttura. Quel che di contorto, folle, ossessivo, vi si riscontra, è la proiezione musica le delle contorsioni, delle follie, del le ossessioni romantiche: come a dire, delle nostre. Mahler e Schoen berg impararono di fatti assai bene V, 'o %% °o la lezione di Schumann. Wolfgang Sawallisch è un diret tore attento, capace di squisite in dividuazioni timbriche e melodiche. La sua lettura però, di solito, diffi cilmente scava negli intrighi strut turali di un'opera: l’ascoltatore vie ne dunque liberato, con soilievo, dal rischio di alzarsi, dopo ii con certo, inquieto, dubbioso, insicuro. Lo Schumann di Sawallisch scorre, gradevole e tranquillo, come un’on da rassicurante priva di spigoli e di tensioni. Di conseguenza la 2a Sin fonia, ch'è invece tutta spigoli e tensioni irrisolte, ne esce ammorbi dita, carezzata con sensata modera zione. Tale morbidezza, comunque, funziona benissimo nella Messa: lo Offertorio, il Sanctus e l'Agnus Dei, proprio perché così scopertamente morbidi, dolci, sembrano invocare una pace negata, spasimare, senza grida, con voce sommessa o, me glio, stroncata, per l’inutile dolore di ripetersi l’ineluttabilità della sof ferenza e della morte. Il soprano Leila Cuberli, il tenore Dino Di Domenico, il basso Erme negildo Palermini s il coro di Santa Cecilia diretto da Giulio Bertola, hanno assecondato, insieme all'or chestra, con duttile espressività, ie suadenti perorazioni di Sawallisch. ACCADEMIA NAZIONALE DI SAN TA CECILIA. AUDITORIO DI VIA DELLA CONCILIAZIONE: CONCER TO DIRETTO DA GIUSEPPE SPO POLI (Prima esecuzione assoluta di PASSO D’UOMO di SYLVANO BUSSOTTI). tempo Roma - Un le stagioni concertistiche si basavano soprat tutto sulla produzione contempora nea. Beethoven, Schumann e Brah- ms sarebbero incomprensibili senza il confronto con il pubblico al quale destinavano le loro composizioni. Ma da quando la radicalizzazione dei linguaggi musicali da una parte e la piatta assuefazione al consumo consolatorio dall'altra hanno provo cato un divorzio tra musicista e pub blico si saluta come rondine smar rita che non fa primavera l'appari zione di un brano di musica fresca d'inchiostro nel programma di qual che concerto. L'Accademia di Santa Cecilia, e cioè la roccaforte del pubblico più retrivo della capitale, ha presentato in questa stagione una novità assoluta di Bussotti. Il mostro inconoclasta è entrato dun que nel tempio della « melodia ». Naturalmente la sala appariva tut- t'altro che gremita: le mummie hanno preferito restare nei loro sar cofaghi urbani e poiché il libretto d’abbonamento dava loro il diritto di conservare le proprie poltrone, le poltrone sono rimaste vuote. Quelli che però erano presenti, il 17 e il 18 dicembre, hanno accolto con entusiasmo l'avvenimento. Se gno che la nuova musica non va a cascare nel deserto, ma è cercata, voluta, da un pubblico nuovo che bisogna incoraggiare e asseconda re. Si perderà qualche vecchio ab bonato, ma se ne conquisteranno degli altri. Dirigeva Giuseppe Sinopoli. Erano in programma Lessico per due or chestre d'archi di Giacomo Manzo ni, Tre Frammenti dal « Wozzeck » di Alban Bsrg (cantava Karan Arm strong), il Poema dell’Estasi di Skrjabin. Il pezzo che, però, si at tendeva era Passo d'uomo, un bal letto per ottavino, timpani e due gruppi di percussioni, di Sylvano Bussotti, del quale si è ascoltato anche Lorenzaccìo-Symphony, Signi ficava, l’ingresso ufficiale nell'Istituzione di uno dei rappre sentanti più significativi della nuova musica. infatti, Se Bergkristall è una favola tra sformata in balletto, Passo d’uomo il passo è una favola in cui a ballare sono gli strumenti. La musica individua figure timbriche che potrebbero at- taggiarsi in molteplici movenze. Ciò spiega l'uso del flauto piccolo (ot tavino), « di un fresco strumento incantatore », come scrive lo stesso Bussotti, « seguito da frotte di ani mali e masse di bambini. Le per cussioni sostengono così la figura impubere del piffero, tanto leggera, minima, frale, da sollevarsi sopra il rombo e il fruscio, nel convertire gioiosamente in volo ». Provocatoriamente Bussotti confon de i termini, mescola i linguaggi. Confessa emozioni e vuole suscitar ne, ama le perifrasi, gioca con una arte sporca e che si sporca. Di fat to poi costruisce la composizione con rigore strutturale puntiglioso, calligrafico, disegna « figure » mu sicali di cristallina evidenza. Non solo, ma sembra ormai sostituire la riduzione all'iperbole, preferire all’accumulo l'essenzialità dei leva re, al gioco aleatorio la precisione quasi matematica delia notazione. Sulla fitta ma limpida trama delle percussioni intervengono i respiri sussultorii dei timpani e l’esile fi ligrana dell'ottavino. Sembra a un certo punto che l’onda ritmica delle percussioni debba inghiottire nella sua pasta aggressiva le fragili linee dell'ottavino, ma alla fine è proprio la tenerezza di queste linee a do minare il discorso, e quando l’ot tavino tace, le percussioni si assot tigliano in un morbido sussurro che si consegna, vinto, al silenzio. Tutto ciò, certo, più che critica musicale è metafora allusiva: ma in quale altro modo imbrigliare con le paro le un discorso, come quello musi cale, che ostinatamente si rifiuta alla trasparenza dei significati? Bus- sotti del resto ha fatto proprio di tale ambiguità allusiva il suo credo estetico. Roberto Fabbriciani, per fetto, sosteneva II canto dell'otta vino: e come vuole Bussotti, il pas so del suo canto si convertiva gioio samente in volo. ACCADEMIA FILARMONICA RO MANA. TEATRO OLIMPICO: RIM BAUD OU LE FILS DU SOLEIL di Lorenzo Ferrerò e Louis-François Caude. « Oisive jeunesse / A tout asser vie, / Par délicatesse / J'ai perdu ma vie. / Ah! Que le temps vien ne / Où les coeurs s'éprennent ». È la prima strofa della Chanson de la plus haute tour di Arthur Rimbaud. E questi versi mi sono tornati alla mente assistendo alla prima di Rim baud ou le fils du soleil di Lorenzo Ferrerò e Louis-François Caude, il 13 dicembre, al Teatro Olìmpico di Roma. La leggerezza del ritmo, la dolcezza del suoni nascondono cor rosivi veleni: ma di simili veleni si nutre da un secolo l'arte contem poranea. Ferrerò e Caude, con il loro « qua si un melodramma » hanno susci tato in Francia grande scalpore nel pubblico e nella critica. Né il pub blico né la critica italiani hanno reagito con uguale entusiasmo. In me, poi, l’opera ha destato parec chie perplessità. Ferrerò e Caude hanno 27 anni. Quando scrissero il testo e la musica del Rimbaud ne avevano 23. Bisogna però guardarsi dal rischio di abbandonarsi perciò a tenerezze compiacenti. Il lavoro, del resto, apparentemente, è tutt’altro che tenero. Anzi, vuole essere pro vocatoriamente acerbo: ma sotto l'acerbità serpeggia il sentimentalismo. Vengono raffigura ti sulla scena alcuni momenti della vita di Rimbaud dall'adolescenza al la vigilia del distacco dalla Fran cia. In mezzo, l’esperienza parigina, La Comune, Verlaine. insidioso All'incontro tra i due poeti (e al lo scontro) è dedicato tutto il terzo atto. Il sipario si apre su un interno di osteria a CharleviIle, frequenta ta da borghesi, travestiti, soldati prussiani, cantanti, suonatori. In questo spazio Rimbaud racconta la propria vita e la racconta con le parole delle sue lettere, delle sue poesie e delle sue prose. Evocati dalla sua voce compaiono via via la madre, che resta onnipresente per tutto lo spettacolo, un amico (Delahaye?), Verlaine, M.me Ver laine, e altri. I personaggi princi pali hano però ciascuno un doppio in un cantante: un soprano di co loratura per Rimbaud, un contralto per M.me Rimbaud, un tenore per Verlaine. La musica dà così peso sonoro alle Immagini dell’inconscio. In questo gioco di specchi alla Ar- taud, il pellegrinaggio infernale del poeta adolescente si precisa come una recherche dell'infanzia perduta, e l'infanzia si fissa nella memoria come un simbolo dell'eternità. « Elle est retrouvée. / Quoi? - L'Eternité », sussurra Rimbaud a una serva. « C’est la mer allée / Avec le so- leil ». Ma più che il tempo, di que- st’infanzia, perduto è il padre. Più che a Proust, si pensa a Freud. Di fatti il pellegrinaggio si rivela non tanto un inabissarsi nella memoria, quanto uno spasmodico tendere al ritrovamento del padre: prima nel travestito, poi in un amico, infine in Verlaine. L'omosessualità di Rim baud sarebbe un desiderio del pa dre, una volontà di permanere eter namente adolescente. Ebbene, pro prio questo schematismo psicolo- gizzante mi sembra riduttivo: Rim baud è qualcosa di più di un ragaz zino ribelle che non trova padre. La violenza espressiva di Rim baud non è il vomito di un’emotività lacerata, ma io sguardo spietato, lucidissimo nell'infermo della co scienza. Il suo sforzo, cartesiano, è di portare a chiarezza quanto v'è di torbido, ambiguo, vischioso e con- traddittorio dentro di lui e quindi dentro tutti. Rimbaud si rifiuta alla sublimazione, percorre in senso in verso il cammino di Cristo, e quin di il suo viaggio non è dal peccato alla salvezza, dal paganesimo al cristianesimo (che è la storia della Francia e dell'Europa), ma dalla pie tà filistea al beaudelairiano gusto della prostituzione. Negli stessi an ni Nietzsche percorre strade assai simili. La merda, in Rimbaud, può can tare non perché sublimabile in poe sia, ma perché è essa stessa canto, materia espulsa dal corpo, e quindi a suo modo coscienza del corpo. « Quand vous me verrez manger positivament de la merde, alors seulement vous ne trouverez plus que je coûte trop cher à nourrir! ». Di qui la lucidità lancinante con cui Rimbaud si tuffa nel sesso, nella droga, nella rivolta politica: salvo a rovesciare poi le carte, a tacere e a farsi mercante d'armi e di schiavi in Africa: la parola non redime, non muta il bene in male, perché il ma le resta, più che una realtà, una forma di santità e dunque identico al buonsenso cristiano che vorreb be gli uomini tutti ubbidienti a un dio, non importa quale: comunque Jean-Arthur Rimbaud (abbozzo di Fantin-Latour per « Coin de table ») a un dio che crocifigge il corpo, la carne, la materia, la realtà e la storia. Vissuta invece in chiave psicana litica, tutta la vicenda porta gli at tori a declamare pateticamente le parole terribili di Rimbaud, e sia pure con una declamazione sopra le righe. Jean-Loup Wolff è un Rim baud isterico, urlante, gemente, sentimentale. Benoit Régent, nei ruoli del travestito, deH’amico e di Verlaine, è più convincente, più mi surato, ma appare troppo giovane, biondo, bello, quasi un’immagine riflessa di Rimbaud. Il che può an che essere significativo, ma allora non è messo teatralmente in evi denza. Gli altri interpreti, numerosi, non superano un medio livello di recitazione accademica. La musica, in tutto lo spettacolo, avrebbe la funzione di raggrumare in immagini sonore ciò che le paro le non possono esprimere più. E al lora ecco che si passa da brani del più aggiornato linguaggio atonale al pastiche di canzoni da cabaret, de bitamente stravolte, ma non troppo. Ferrerò continua, cioè, a sperimen tare anche qui l’eventualità di re cuperare il discorso tonale. Non è il solo a muoversi, oggi, in questa direzione. I riultati ottenuti finora, però, hanno più il sapore della no stalgia neoromantica che il senso di un rinnovamento del linguaggio. Eppure Ferrerò dimostra indubbia mente un mestiere ferratissimo. L’a ria della Vierge Folle, nel terzo at to, cantata dal soprano di colora tura, Ève Brener, straordinariamen te agile ed espressiva, è un pezzo di bravura, strumentato con pene trante sobrietà (pianoforte, percus sione e corno), che fa sperare, da parte di Ferrerò, sviluppi più sem plici e coerenti, meno pasticciati e confusi. In ogni caso il limite dello spet tacolo, più che nella pletoricità e invadenza del testo parlato e nella discontinua architettura dei brani musicali, sta nella regìa, di Antoine Bourseller, troppo scopertamente simbolica. Col simbolismo dei gesti stride poi la declamazione accade mica degli attori. Un regista che avesse manipolato con più libertà e coraggio tutto il materiale, ci avrebbe dato forse uno spettacolo più mosso e interessante. Poco ag giungeva alla qualità dello spetta colo la direzione musicale di Yves Lestang, nel complesso abbastanza imprecisa. \° r® NORMA Tragedia lirica in due atti di Felice Romani Musica di Vincenzo Bellini Revisione sull’autografo a cura di H.C. Robbins Landò e di G. von Noè Interpreti: Ermanno Mauro [Poi 1 io ne), Agostino Ferrin (Oroveso), Renata Scotto (Norma), Marghe rita Rinaldi (Adalgisa), Giuseppi na Arista (Clotilde), Giancarlo Turati (Flavio) Maestro direttore e concertatore: Riccardo Muti Maestro del Coro: Roberto Gab biani Regia: Luca Ronconi Impianto scenico: Raoul Farolfi / Costumi: Gian Maurizio Fercioni Firenze, Teatro Comunale Luca Ronconi L'opera scelta quest'anno per inaugurare la stagione lirica inver nale del Comunale di Firenze è sta ta, dunque, « Norma ». Ma una vol ta tanto liberata dagli orpelli e dal le aggiunte più o meno virtuosisti che e salottiere che hanno sempre caratterizzato e caratterizzano, nel la storia del melodramma, le ese cuzioni delle partiture. Già due anni fa, al mai troppo lodato Festival della Valle d’Itria, venne presentata l'edizione dell’o pera belliniana, nella sua stesura originale che prevedeva un'Adalgi- sa soprano e non « mezzo » come la italiana continuava a travisare. E ora qui a Firenze, grazie a Riccardo Muti che si è servito della revisione sull'au tografo a cura di Robbins London e di von Noè, abbiamo potuto ria tradizione operistica Bellini trasferire Margherita Rinaldi (Adalgisa) e Renata Scotto (Norma) (foto Marchieri) scoltare nella forma più appropria ta il capolavoro belliniano. L'opera, presentata per la prima volta alla Scala il 26 dicembre 1831 con una compagnia di canto eccel lente: Giuditta Pasta, Giulia Grisi, Domenico Donzelli, Vincenzo Ne- grini, venne ben presto ritenuta co me la più rappresentativa del mae stro siciliano e senza dubbio an che all'ascolto più attento e smali ziato del critico d’oggi rappresenta la fusione più alta e completa del lirismo più puro con momenti di intensa e sublime drammaticità. Pagine come « Casta diva » o co me « Deh, con te, con te li pren di » o come « In mia man alfin tu sei » costituiscono attimi supremi di bellezza che raramente trovano riscontro nelle melodie del secon do ottocento italiano. in riesce a « Norma » non una « tragedia na idealizzava Felice zionale » come Romani, ma ■< un’altissima elegia musicale intessuta sugli sconfor ti leopardiani di un'anima — quel la di Bellini appunto — sostan zialmente straniera al suo secolo». Mai l’odio e la vendetta raggiun gono momenti terribili e nefasti- tutto si stempera dolcemente nel sentimento fiero e straordinaria mente femminile di Norma. Una donna sottomessa ad un mondo L'edizione invece, attraverso sordo alle ragioni del cuore e che è « la causa prima e Invisibile del le angosce di Norma e alla cui vio lenza segreta si piegano vinti tan to Bellini quanto il suo alter ego teatrale ». E la melodia interviene sempre, puntualissima, a sottoli neare l’incredibile umanità della protagonista: donna e madre dispe rata. fiorentina ha potuto donarci tutto questo. Riccardo Mu ti ha diretto con la maestria e l’a bilità di sempre e soprattutto nel la sinfonia in cui il romanticismo è sì già evidente, ma ancora al l’inizio del suo svilupparsi. Una di rezione che si è allontanata, final mente, dalle consuete influenze wagneriane o addirittura veriste cui si è soliti abbandonarsi e ci ha :cctì+|iito, tra sparenze quasi irreali e scansioni ritmiche ben precise, la sacra tea tralità dell’opera belliniana. E a questo è giunto anche Ronconi con una regia apparentemente sobria e scarna, ma che in una serie di pic coli, ma teatralissimi particolari, ha rivalutato il capolavoro come melodramma a sé stante e privo, dunque, di orpelli inutili e ridon danti. Alcuni movimenti, per esem pio, o cambiamenti improvvisi di luminosità dell’ambiente, a chiusu ra d’atto, ci hanno regalato attimi di intensa emozione. Emozione ha offerto anche Renata Scotto: non propriamente Norma, tuttavia pre gna di una efficacissima vis teatra le e scenica che ha fatto dimenti care qualche piccola incertezza vo cale. Un’interpretazione, quest’ulti- ma, non priva di fascino e di sot tile studio psicologico che, se a qualcuno è sembrata eccessiva, ha senza dubbio scolpito una Norma guerriera sì, ma soprattutto donna nobile e regale. Margherita Rinaldi è stata un’Adalgisa ideale. Non più la rivale di Norma, ma una sua dolce amica che vede nella sacer dotessa d’Irminsul la sua confiden te più naturale. Come sempre la Rinaldi ha delineato il suo perso naggio con gusto e signorilità ed è risultata un’Adalgisa tenera, a volte malinconica: un’interpretazio ne superba. Pollione era Ermanno Mauro che non ci è sembrato particolarmen te a suo agio. Qualche difficoltà di respirazione, un fraseggio non troppo nobile hanno contribuito a delineare un personaggio alquanto scialbo. Normale amministrazione per Giuseppina Arista, Clotilde e Gian carlo Turati, Flavio. Oroveso, per finire, era affidato a Agostino Fer- rin che ha fornito una prova omo tranquilla, mai particolar genea, mente esaltante. I costumi erano di Gian Mauri- zio Fercioni che si è ispirato ad uno strano quanto ibrido neoclassi cismo. L’impianto scenico, invece, di Farolfi/Ronconi è risultato mol to elegante nella sua estrema sem plicità e chiarezza. Un successo, dunque, in un teatro colmo fino aH’inverosimile. Luisa Nave (Romeo) e Maria Chiara (Giulietta) (foto Dufoto) I CAPULETI E I MONTECCHI Tragedia lirica di Felice Romani Musica di Vincenzo Bellini Interpreti: Mario Rinaudo (Capel- lio), Maria Chiara (Giulietta), Luisa Nave (Romeo), Beniamino Prior (Tebaldo), Roberto Amis El Hage (Lorenzo) aveva ottenuto la notorietà con il « Pirata », presentato alla Scala di Milano. Il soggetto, sembra, venne indi cato direttamente da Giuditta Gri si — che interpreterà il ruolo di Romeo — certo non con molta ori ginalità. Le opere ispirate alla tra gedia degli amanti veronesi non erano certamente una novità (nei 1796 c’era già stata una « Giuliet ta e Romeo » dì Zingarelli e non si erano ancora spenti i clamori en tusiastici suscitati da un'altra ope ra, con lo stesso titolo, di Vaccaj). Tuttavia Bellini si mise lo stesso al lavoro e una ormai diffusa tra dizione lo vuole in veste di traspo- sitore dalla « Zaira » o dall’» Adel son », della quasi totalità delle me lodie. In realtà, come dice Fedele D'Amico nel programma di sala — egregiamente curato da Luciano Barbieri dell'Ufficio Stampa del Teatro — <• ...non furono mai tra pianti puri e semplici, ma rielabo razioni, qualche volta tali da ri durre il modello ad un vago ricor do... La stessa cavatina famosissima di Giulietta, “Oh quante, volte, oh quante” , che biografi compe tenti asseriscono "tolta di peso” dall'Adelson e Salvini... è in realtà Argeo Quadri Regia: Mario Missiroli Maestro direttore e concertatore: Maestro del Coro: Luciano Pelosi Scene e costumi: Lorenzo Ghiglia Roma, Teatro dell’Opera Dopo ben undici anni è ritorna romano: « I ta sul palcoscenico Capuleti e i Montecchi », opera di un Bellini ventinovenne non an cora assurto ai modelli immorta li di « Sonnambula » e di « Nor ma ». L’opera ebbe una gestazione as sai difficile e laboriosa: Bellini non era affatto invogliato e bene volo nei confronti di questa rea lizzazione e resistette un po’ alla proposta fattagli da Alessandro Lanari, l’impresario della Fenice di Venezia, che voleva per il suo Tea tro una nuova opera di quel com positore che solo due anni prima una versione, rispetto alla quale l'aria primitiva suona quasi arcai ca ». Quindi non una trasposizione da altre opere, ma un rifacimento totale e completo di melodie già esistenti e restituite a nuova vita. I’ 11 marzo 1830, venne accolta con successo strabiliante e ben presto sì trasfe rì la vita di quest’opera è assai breve; qualche ripresa, in rare occasioni, e un’ultima interessante rivisitazio ne (Romeo interpretato da un te nore) non sono riuscite a far ri sorgere l'opera belliniana. teatri europei. Ma L'opera, presentata in altri L'attuale edizione romana, assai rigorosa dal punto di vista filologi la ripresa dell’allestimento co, è Missiroli-Ghiglia di qualche anno fa, si diceva, e che mostra un po' la corda. Le scene sono datate e vecchia maniera e la regia avreb be dovuto essere un po' sveltita, alleggerita da certe inutili « sce nate » da melodramma antico. Il cast era più che buono: Ma ria Chiara, ha avuto momenti di rara intensità e la voce assai bel la e limpida ha disegnato una Giu betta eterea sì, ma già non più adolescente e consapevole della sua femminilità. Luisa Nave ha di mostrato un po' di fatica nel se condo atto. Fatica resa improba da una partitura assai complessa e non certo facile da digerire. Prior è stato un Tebaldo corretto, ma che forse avrebbe dovuto urlare un po’ meno. Roberto Amis El Hage un Lorenzo appropriato, Mario Rinau- do un Capellio non molto convin cente. Ha diretto Argeo Quadri con si curezza e distinzione e tranne qual forse eccessiva, che nei tempi, ha guidato un'orchestra valida e piacevole all'ascolto. lungaggine, In b r e v e m u s ic a L'oro del Reno di Richard Wagner diretto da Zubin Vie tila, con la regìa di Luca Ronconi, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi, inaugurerà l'edizione del « Maggio Musicale Fiorentino » che si svolgerà dal 2 maggio al 30 giugno 1979. Cinque dei più grandi artisti della musica americana — la cantante Marian Anderson, il ballerino, cantante e attore Fred Astaire, il coreografo George Balanchine, il composi tore Richard Rodgers e il pianista Arthur Rubinstein — han no preso posto con Jimmy Carter nel palco presidenziale del Centro Kennedy, a Washington, per ricevere nella prima edizione annuale, il premio loro conferito dal centro per le arti rappresentative intitolato allo scomparso presidente degli Stati Uniti. Il maestro Raffaello de Banfield, musicista di fama internazionale, esperto operatore culturale e direttore ar tistico del Teatro Verdi di Trieste, è il nuovo direttore ar tistico del Festival dei Due Mondi in sostituzione del di- missionario Romolo Valli. Il maestro de Banfield ha accettato l'incarico — come informa un comunicato dell’Ufficio Stampa del Festival dei Due Mondi — ed è stato presentato ai rappresentanti del la Regione Umbria, della provincia di Perugia e della città di Spoleto. Il maestro Menotti, successivamente, e i suoi collaboratori hanno esaminato le prospettive per la formu lazione del programma della prossima manifestazione, le cui date di svolgimento sono state fissate dal 27 giugno al 15 luglio 1979. Per la prima volta un pianista italiano di jazz è stato invitato al Festival internazionale pianistico di jazz che si svolge annualmente a Kalisz, in Polonia. È il romano Enri co Pieranunzi, che ha rappresentato l’Italia a questa impor tante manifestazione jazzistica. il Il premio « Valentino Bucchi » per il primo concorso in ternazionale di esecuzione non è stato assegnato: il se condo premio è stato assegnato al giovane clarinettista Michele Carulli, mentre terzo al bulgaro Cvciarov Rossen. I vincitori de! concorso internazionale di composizione sono risultati invece: per la sezione A (clarinetto ed or chestra) Edgar Alandia, boliviano, con l'opera » Pampa »; per la sezione B (clarinetto e strumenti) Piotr Moss, po lacco, con l'opera « Trois pensée ». In questa categoria è stata segnalata l'opera >• Similarity » di Ada Gentile. Per la sezione C, infine, (clarinetto solo) è stato premiato Pietro Papini con l'opera « Zu Zeugma ». La commissione giudicatrice per la composizione era formata da J.F. Zbinden, Sylvano Bussotti, Giorgio Ferrari, Carlo Prosperi, Eugene Kurtz, Guido Turchi. Per la prima volta la Tosca di Puccini è stata teletra smessa in diretta negli Stati Uniti, dal Metropolitan di New York. Ha debuttato come protagonista femminile del l'opera pucciniana, il soprano americano Shirley Verrett. Al suo fianco, nel ruolo di Cavaradossi, Luciano Pavarotti. Tre serate di festeggiamenti a Mosca per il bicentenario della Scala di Milano. Sede d'onore la casa centrale degli attori, storico palazzo gremito da un mare di appassionati: rare registrazioni della voce di Adelina Patti, Francesco Tamagno, Enrico Caruso ed altri celebri cantanti italiani sono state proposte all'ascolto dal collezionista Boris Rud- zievskij, mentre cantanti russi che hanno fatto il tirocinio alla Scala hanno succesivamente interpretato arie di ope re italiane. < $ y P A R I G I R I S C O P R E N U R E Y E V Cancellate le improvvisamente rappresentazioni fiorentine di fine ottobre, siamo stati costretti a rag giungere Parigi per poter vedere Rudolf Nureyev, og gi a! suo stato di grazia ed esercitare così la nostra verifica nei confronti di uno dei più grandi danzatori del nostro tempo. Egli è giunto non solo all'apice della sua maturità artistica ma a quella che è la svolta di una carriera ed insieme il momento critico, comunque delicato, dell'artista che continua a spe rimentare se stesso, a studiarsi a contatto con altre correnti, a confrontarsi con altri stili, con possibilità diverse. Volevamo anche constatare sin dove Nureyev può spingere il suo cammino mantenendosi in quel l’aura favolosa nella quale il pubblico internazionale ha voluto immetterlo sin dal giorno del rifiuto al ri torno in patria (giugno 1961). Charles Jude e Rudolf Nureyev in « Aureole » di Paul Taylor (foto Agence de Presse Bernard) Un ritratto nell’arco di due spettacoli differenti e per una quindicina di giorni al Théâtre des Champs- Élysées nei quadro del 16° Festival di Danza. Due programmi di grande intelligenza e sensibilità (se qualche nostro direttore artistico di teatro lirico vo lesse prenderne atto e uniformarsi a scelte del ge nere...), entrambi segnati da firme di coreografi che contano. Nello spettacolo intitolato « Rudolf Nureyev and fus frlends » lo si è visto in « Pierrot lunaire » muoversi al rallentatore tanta era la fluidità dei ge sti, in una scena e con costumi di Rouben Ter Arutu- màn, sullo sfondo della musica di Schoenberg, con la ¡.coreografia di Glen Tetley, personificazione la sua, (esatta e poetica, del clown lunare.; Poi si è passati a Paul Taylor, a « Aureole » su musiche di Haendel, nessuna dissacrazione ma una freschezza inventiva continua, un uso sapiente della musica ai margini e al di fuori di essa in un contrappunto visivo spre giudicato e al tempo stesso di una coerenza forma le sistematica dal principio alla fine. Dal piccolo gruppo (oltre Nureyev, tre danzatrici dell'Opéra di Parigi Florence Clerc, Wi If ride Pioli et, Ghislaine Mathiot) spicca per le morbide linee, la leggerezza, il respiro dei salti e dei percorsi, qualcosa che ri corda nel passo felpato il Lifar giovane, quasi un atletismo accarezzato dalla grazia danzante, un nuo vo astro parigino Charles Judç. Non c'è Nureyev senza «Corsaire» ed eccolo reggere ancora bene al ricordo vivissimo che si rinnova accanto ad Ale xandra Radius, forte di tecnica sicura ma un po’ avara di personalità. Infine Formai celebre « Canto del compagno errante » sulla musica di Mahler, nel la coreografia di Maurice Béjart. Questa peregrina zione che adombra i viaggi dei menestrelli medioe vali e che si trova tutta nel simbolo della lotta con tro se stessi, la solitudine, è vissuta con grande intensità espressiva da Nureyev cui dà replica adeguata il tenebroso Jean Guizerix. Tutt’altro carattere presenta il secondo program ma firmato da Murray Louis per le coreografie e da Rudolf Nureyev e Anne McLeod in « The Brighton Venus » di Mur ay Louis (foto Elbers) Alwin Nikolais per le luci. Murray Louis frantuma il movimento e lo scompone in tanti segmenti secchi, rapidi e fluidi, in questo stile personalissimo lo si riconosce: qualche volta rifà se stesso, meglio così che rifare gli altri. C'è una cifra precisa in tutto lo spettacolo danzato dai bravissimi ballerini della compagnia e da lui stesso in un indimenticabile as solo (« Déjà vu »). Nureyev lì in mezzo sembra diver tirsi, sta al gioco scanzonato, raggiunge il comico e rivela l’altra faccia dì sé. Poi esplora le sue stupe facènti dòti ginmco-muscoiari accompagnato al piano (Elisabeth Cooper) su musiche di Bach in un assolo intitolato « Vivace » di gran gusto nelle luci come nei costumi (di Frank Garcia). Infine, su musiche di Cole Porter, esplode la co micità più schietta, sfilano le « gags » più divertenti in una cosiddetta « The Brighton Venus » ove la bra vura di Nureyev scoppia di « humour ». Il gioco è piacevole, forse un po' lungo e stiracchiato ma ric co di annotazioni satìriche: una Venere esce dal l'acqua a seguito di una violenta tempesta (Anne Me Leod) e seduce un giovane freddo e distante su una spiaggia popolata di « perditempo al sole » (non solo a Robbins riescono bene questi scherzetti). Gli schizzinosi arricciano il naso ma sono sconfitti dalle acclamazioni della maggioranza. Se tutto non è per fettamente riuscito in questo spettacolo, se a tratti difetta di essenzialità e di stringatezza, pur tuttavia bisogna confessare che la visione magica di Nureyev rimane impressa nella nostra mente, certamente una delle più esaltanti apparizioni, forse destinata a di ventare la più memorabile che le scene teatrali del mondo ci abbiano offerto nel ventesimo secolo. E vi sione come impressione si rinnovano facendosi in discussa realtà qualche giorno dopo, sul palcosceni co dell’Opéra negli spettacoli di balletto di fine d’an no quando Nureyev risplende in « Lago del cigni » accanto ad un altro astro splendente del teatro di danza: Natalia Makarova. il destino, i Alberto Testa A \°V -oy È / MINA • « LIVE 78 » - PDU E' quasi una tradizione: a fine di anno ecco un LP di Mina, con le sue ultime canzoni. Quest'anno però c’era qualcosa di più: la « grande » Mina era tornata, dopo 6 anni di ritiro, a cantare in pubblico, seppu re soltanto per poche serate e solo nel « santuario » di Bernardini, la Bussoladomani di Viareggio. Questo 33 giri è frutto della re gistrazione dal vivo di una di quelle serate: molte delle canzoni sono perciò quelle conosciutissime del suo vecchio repertorio (accanto ad altre incise quest'anno, come « An cora, ancora », sigla della trasmis sione TV « Mille e una luce »), ma nuovissima è questa Mina in gran forma, pronta a reagire agli stimoli e agli applausi di un pubblico vero. CLANDIO BAGLIONI . « E TU COME STAI? » - CBS Claudio BagIioni è certamente il più significativo ira i giovani can tautori italiani. Nato come cantan te 10 anni fa, (ma celebre solo da cinque) ha portato avanti con estre ma coerenza un « suo » discorso Claudio Baglioni musicale e poetico, che è andato sempre crescendo. Dopo una lunga pausa, si pre senta oggi con un LP registrato a Parigi nel famoso « Chateau », di ventato luogo di incisione leggen dario dopo che i Bee Gees vi han la colonna sonora de no creato « La febbre del sabato sera ». Il disco di Baglioni si raccoman da, a parte la pregevole qualità dell'incisione, per la freschezza del testo poetico e la preziosità delia parte musicale. La poesia di Ba glioni è semplice e proprio per que sto autentica, senza ricercatezze letterarie o frasi ad effetto; la par te musicale appare invece più sofi sticata, rispetto ai dischi preceden ti e tiene conto dell'evoluzione del rock degli ultimissimi tempi; se da un lato questo è segno di ma turità, c’è però il rischio per Clau dio di rimetterci in termini di po polarità. CHIC - WEA Bernard Edwards e Nile Rodgers, americani, « fondatori » del gruppo CHIC, sono nomi ancora relativa mente sconosciuti; fino ad ieri si esibivano col gruppo « Big appiè band », ma con poca fortuna. Og gi, in America e in Europa, è di ventato famoso il loro LP « CHIC », che è una creazione raffinata e ari stocratica della più recente musica leggera americana, una sintesi di esperienze diverse (soul, musica latina, jazz) che il pubblico ha di mostrato di gradire moltissimo. Del nuovo gruppo, che porta ap punto il nome « Chic », come il di sco, fanno parte anche Tony Thomp son (già collaboratore di Stevie Wonder, George Me Rae e perso naggi di quel calibro) e la deliziosa vocalista Norma Jean Wright. Dopo il 45 giri d'esordio, questo long playng veleggia nelle classi fiche di molti paesi e sembra de stinato a restarci a lungo. Nino Fuscagni CARMEN Opera in quattro atti di Georges Bizet su libretto di Meilhac e Halévy Direttore: Claudio Abbado. Versione originale con dialoghi in francese. Teresa Berganz, Placido Domingo, Sherrill Milnes, Ileana Cotrubas. The Ambrosian Singers. London Simphony Orchestra. Deutsche Gramophon 2709 083. 3LP Dopo il grande successo al Festi val di Edimburgo del 77, l'edizione realizzata da Claudio Abbado, è sta ta fissata in dischi e pubblicata a cura della Deutsche Grammophone. Protagonista: Teresa Berganza. Una Carmen diversa dalle solite « Celimene da marciapiede » come la battezzarono al suo apparire. Una Carmen soprattutto donna e vera, reale, libera da spagnolismi di ma niera. L’asseconda Placido Domingo dal piglio virile e assai drammatico che conferisce a don José una in quietante luce di tragedia. Micaela è una dolce ed espressiva Ileana Cotrubas al meglio delle sue quali tà interpretative che caratterizzano il personaggio senza, però, mai esporlo troppo: quasi a volerne da re una lettura tutta intima ed inte riore. Sh.errill Milnes è un Escamil- lo molto elegante e raggiunge atti mi di intensa partecipazione. Claudio Abbado si serve del ma noscritto ripubblicato nel 1964 da Fritz Oeser, più lungo di quindici minuti delle consuete partiture. Il maestro ha ripristinato, nell'ambito di una autenticità la più rigorosa possibile, i recitativi parlati, elimi nando la musica a suo tempo ag giunta da Ernest Guiraud. Il risul tato ha offerto una Carmen diversa dal solito, unica senza dubbio e di altissima scuola. Il cofanetto è corredato da presentazioni assai ricche ed esaurienti e da una lette ra nella quale la Berganza espone quali siano stati i suoi intendimenti nell'accostarsi, dopo più di venti an ni di carriera, per la prima volta a Carmen. Guido Nastasi I l C e n t r o A d d e s t r a m e n t o d i F i u m i c i n o Per le aziende industriali, l'addestramento e la formazione del personale tecnico costituiscono uno dei problemi di maggiore impegno sul piano organiz zativo come in quello degli investimenti. Per alcune aziende, in particolare, l'addestramento professionale si traduce in una imprescindibile necessità per l’alta sofisticazione e la continua evoluzione delle tecnolo gie adottate e, di conseguenza, della massima qua- Jificazione che è richiesta al personale che con quelle tecnologie deve operare. Fra queste industrie, quelle operanti nel settore del trasporto aereo avvertono al massimo grado que sta necessità di « aggiornamento permanente » a cau sa del rapido progredire dell'industria aeronautica, dell'immissione sul mercato di aeromobili sempre più evoluti, per la necessità di garantire la massima ef ficienza delle macchine alla quale è strettamente cor relata la sicurezza dei passeggeri e per il diffondersi del ricorso alle più moderne apparecchiature elettro niche divenute, oggi, indispensabile ausilio perfino nella gestione e nella commercializzazione del « pro dotto » che l’industria deve vendere. L'Alitalia, relativamente alla formazione del per sonale navigante, sin dall’inizio della sua attività, ha istituito un apposito Centro Addestramento che ha oggi raggiunto un elevato grado di efficienza tale da renderlo giustamente famoso in tutto il mondo aeronautico. Terminata l'epoca pionieristica dell'aviazione ci vile, che possiamo collocare attorno alla fine degli anni '40, si è entrati in un'era di grande sviluppo, sia per quanto riguarda le macchine che i sistemi per condurle: gli sforzi della compagnia sono stati quindi rivolti a favorire il più rapido evolversi dei sistemi didattici e a dotare il centro di attrezzature specificamente idonee onde permettere al personale di volo di apprendere quelle tecniche che divenivano sempre più complesse. Il Centro Addestramento Alitalia di Fiumicino, che sorge su un'area di oltre 7.000 mq„ è dotato delle più avanzate strumentazioni per qualificare i piloti alla conduzione del moderni jets della flotta della Compagnia: alcune apparecchiature consentono di a- dottare nell'insegnamento i metodi didattici dell'Istru zione programmata attraverso l’utilizzazione del Cock- pit Procedure Trainer (CPT) e l'impiego di simulatori per le esercitazioni di emergenza. Per l’insegnamento teorico sono stati appositamen te equipaggiati -con «Class Responder System » 10 aule, munite anche di impianto audiovisivo sincro nizzato; un centro di ascolto per lo studio della lingua inglese e un'aula per lezioni ed esercitazioni di ra diotelefonia. Oltre a queste strumentazioni altamente speciali stiche, ve ne sono altre non meno importanti: sono quelle, ad esempio, per le esercitazioni di emergenza in mare, effettuate in una piscina di 20 metri; mentre per le esercitazioni a terra viene utilizzato un ap posito locale dotato di simulacri riproducenti le porte dei vari aeromobili di cui la flotta è dotata, con sci voli gonfiabili per l’evacuazione rapida dei passeggeri. Ma il vero « cuore » del Centro Addestramento è costituito dalle aule dove sono installati i simula tori di volo, i quali riproducono, fin nei minimi det tagli, la cabina e le sofisticate strumentazioni dei moderni jet. L'Alitalia dispone di cinque simulatori, rispettiva mente per aeromobili di tipo B-727, DC-10, DC-9, DC-8/62 collegati con elaboratori elettronici program mati per riprodurre ogni fase di volo, sia in condi zioni normali che in presenza di ogni possibile situa zione di emergenza. I simulatori dei DC-9 e dei DC-10, inoltre, consentono — attraverso uno schermo posto innanzi alla cabina di pilotaggio — la familiarizza- zione degli allievi con le zone di volo e le piste dei principali aeroporti del mondo. Il Centro è anche dotato di due appositi « alle natori » per l’aeronavigazione radioguidata. Con l'avvento dei jets a grande capacità e ad avanzata tecnologia, è sorto per le Compagnie aeree il problema di contenere gli investimenti necessari a dotare i propri Centri di Addestramento di ade guate strumentazioni nonché i costi, operativi e ge stionali globali relativi a quei tipi di aeromobili. Di fronte a questi problemi, alcune compagnie ae ree europee decisero nel 1969, di costituire un con sorzio — denominato ATLAS — per l'utilizzazione comune di alcuni servizi e attrezzature. In questo l'addestramento del personale di volo dei ambito, DC-10 dell'Air France, Lufthansa, Iberla e Sabena viene effettuato presso il Centro Addestramento di Fiumicino. Per quanto riguarda il personale dei B-747, l’Ali- talia utilizza il Centro di Francoforte. A tutto il 1977, il Centro di Fiumicino ha adde strato 118.749 allievi, suddivisi in 6.828 corsi di istru zione professionale di vario genere. Nel solo 1977, il numero dei corsi è stato di 350 con una presenza di 5.982 allievi e ben 10.752 ore di lezioni teoriche. Sono state effettuate 11.952 ore di volo simulato e 2.576 ore al CPT e 2.428 ore di addestramento in volo. Questi dati evidenziano il prestigio che, anche in questo particolare settore del trasporto aereo, la com pagnia di bandiera ha saputo conseguire tra le indu strie del trasporto aereo mondiale. C U S S I B O R A L E E D A R T I G I A N A D I R O M A T u t t e l e o p e r a z i o n i d i b a n c a p e r j i r n i | J I U U U I I r n l d ire zio n e g e n e ra le E SEDE CENTRALE o p e r a t o r i e c o n o m i c i 85,341 p e r p e r fa m ig lia la il c o m m e rc io p e r l ’a r tig ia n a to p e r p e r p e r l ’a g r ic o ltu r a la c o o p e ra z io n e la p ic c o la in d u s tria F ilia li in Roma S p o rte llo Sede: Via A dige, 26 te i. 853039/8444344 S p o rte llo n. 1: Piazza R oselle, 13 te i. 780795/7883357 S p o rte llo n. 2: Via C asilina, 1880 te i. 6160252/6160839 S p o rte llo n. 3: RAI - Via A siago, 10 te i. 3581362 S p ortello n. 4: Via Don G. R ussolillo, 7-9 (Fidene) te i. 8402830/8402854 S p o rte llo n. 5: Unione C om m ercianti di Roma e Provincia: Via Properzio, 11 te i. 311765 S p o rte llo n. 6: Via di Saponara, 38 [A ciIia ) te i. 6054112/6054196 S p o rte llo n. 7: ACLI - Via G. M arcora, 18-20 te i. 586021 S p o rte llo n. 8: Via Fosso d e ll’Osa, 427-429 (Lunghezza) S p o rte llo n. 9: C onservatoria dei R egistri Im m o b ilia ri di Roma: Via del S erafico, 121 te i. 6181256 te i. 5030807 n. 32 Servizi di Tesoreria e Cassa

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Il dramma : rivista mensile di commedie di grande successo. - Torino : Grandi firme, 1925-1992.

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